La crescita degli studi professionali

PARTE I
SAGGI
SAURO SETTESOLDI
Presentazione e introduzione ai lavori della commissione.
ARTURO DENZA – GIUSEPPE MELARA
La valutazione dello studio professionale: aspetti giuridici, economici e fiscali.
FRANCO MICHELOTTI
Osservazioni in tema di pattuizioni relative all’ammissione di un nuovo associato negli studi
professionali.
SIMONE CAVESTRO - ALESSANDRO MICHELOTTI - PIERPAOLO VANNUCCI
La determinazione dell’utile professionale e la ripartizione dello stesso nello studio
associato.
GIANPAOLO VALENTE - GIANNI BALLARANI – GIAMPAOLO FREZZA
Lo scioglimento della società di professionisti.
FRANCO MICHELOTTI
Società di mezzi, di servizi e studi associati: un’analisi critica.
RENZO MENEGAZZI
Profili tributari della c. d. cessione dello studio professionale.
FRANCO MICHELOTTI
Considerazioni conclusive.
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S AURO S ETTESOLDI
PRESENTAZIONE
ED
INTRODUZIONE
AI
LAVORI
DELLA
COMMISSIONE
L’Unione Nazionale Giovani Dottori Commercialisti, per il tramite della
Commissione di Studio su “L’evoluzione dell’organizzazione dello studio
professionale e monitoraggio delle aree di attività” presenta questo lavoro che si
inquadra in un più ampio progetto di analisi della nostra professione e della nostra
categoria.
Al riguardo occorre ricordare il lavoro promosso dal Consiglio Nazionale e
svolto dalla Fondazione Aristeia relativamente alla realizzazione della “Prima
indagine statistica nazionale” che ha riguardato la nostra categoria; la Fondazione ha
raccolto ed elaborato i dati dei questionari inviati ad un consistente campione di
Dottori Commercialisti la cui sintesi si è concretizzata, nel dicembre 2001, con la
stampa della pubblicazione “Il Dottore Commercialista in Italia” di Tommaso di
Nardo.
Quel lavoro, fortemente voluto dal C. N. che lo ha promosso con lo slogan
“scegliamo insieme il nostro futuro”, ha fornito risultati sotto certi aspetti
sorprendenti, fotografando, tra l’altro, la struttura organizzativa degli studi
professionali dei Dottori Commercialisti in Italia ed evidenziando, altresì, che oltre
la metà degli iscritti non supera i 40 anni di età.
7
Per quanto concerne, in particolare, la struttura organizzativa, tema di questa
Commissione, l’indagine statistica ha evidenziato in modo netto che vi è una limitata
diffusione degli studi associati ed in genere degli studi con più di 5 addetti,
comprendendo titolari, collaboratori, praticanti e dipendenti e ancor più limitati
sono gli studi appartenenti a network professionali. Per dirlo in numeri, in Italia ben
il 72% degli studi non ha più di 5 addetti e ben l’88% non supera i 10 e solo il 4%
appartiene ad un network.
Il lavoro dimostra anche, a nostro avviso e anche ad avviso del C. N., che il
miglioramento dei servizi professionali resi dal Dottore Commercialista passa
necessariamente, oltre che dall’uso delle nuove tecnologie, dallo sviluppo
dell’associazionismo in tutte le forme in cui esso si può estrinsecare.
Partendo dai dati statistici il lavoro della Commissione si è indirizzato verso
l’esame delle problematiche, sia giuridiche che pratiche, connesse all’esercizio della
professione in forma associata, analizzando, de jure condito , le forme giuridiche
attualmente utilizzate.
Questo primo lavoro (diciamo “primo” perché è intenzione dell’U.N.G.D.C.
dar vita ad un “osservatorio” permanente sulle questioni qui dibattute) si è
concentrato su alcuni temi di maggior interesse che, forse, anche perché non ancora
ben conosciuti, hanno frenato fino ad adesso lo sviluppo dell’associazionismo, sia in
forma di società semplice che in forma di associazione professionale.
Il lavoro è diviso in tre parti
La prima è dedicata, appunto, all’approfondimento di alcune tematiche che
abbiamo ritenuto di maggior interesse e che riguardano:
a) la valutazione dello studio professionale;
b) le pattuizioni relative all’ammissione di un nuovo socio negli studi
professionali;
c) la ripartizione degli utili nello studio associato;
d) lo scioglimento;
e) i profili tributari della c. d. “cessione dello studio”.
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La seconda parte, di taglio pratico, è una raccolta di alcuni modelli di atti
costitutivi e di statuti di associazioni professionali e di società semplici che alcuni
colleghi, che ringraziamo sentitamente per la loro disponibilità, ci hanno fornito. Ci
pare doveroso sottolineare che la raccolta è stata particolarmente difficoltosa a causa
di una certa diffidenza riscontrata anche di fronte a garanzie di anonimato. In verità,
lo sviluppo, sia professionale che civile, della nostra categoria passa necessariamente
attraverso una miglior conoscenza di noi stessi.
Nella terza parte sono riportati, n
i stralcio, i verbali delle riunioni della
Commissione.
L’augurio, per tutti noi, è che possano presto seguire ulteriori lavori di
approfondimento e che si giunga, anche come U.N.G.D.C., a formulare nuovi
modelli organizzativi per lo svolgimento della professione in forma associata come
l’ormai matura Società tra Professionisti.
Concludo con un sincero ringraziamento al Presidente Franco Michelotti e a
tutti i membri del gruppo di lavoro della Commissione che in assoluto “spirito
Unione” hanno liberamente dedicato tempo e risorse a questioni che interessano
tutta la categoria.
Prato, 2 maggio 2002
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ARTURO D ENZA - GIUSEPPE M ELARA
LA VALUTAZIONE DELLO STUDIO PROFESSIONALE:
ASPETTI GIURIDICI, ECONOMICI E FISCALI
SOMMARIO:
1. INTRODUZIONE. 2. ASPETTI GIURIDICI SULL’ESISTENZA O MENO
DELL’AVVIAMENTO NELLA VALUTAZIONE DEGLI STUDI PROFESSIONALI
2.1.
CONSIDERAZIONI GENERALI. 2.2 GIURISPRUDENZA. 3. ASPETTI ECONOMICOAZIENDALI PER IL CALCOLO DEL VALORE DI UNO STUDIO PROFESSIONALE 4.
ASPETTI FISCALI. 5. CONSIDE RAZIONI CONCLUSIVE 6. APPENDICE. 7.
BIBLIOGRAFIA.
1. INTRODUZIONE
In questi ultimi anni sta emergendo sempre più forte l’esigenza nel
professionista di una crescita, sia nelle dimensioni che nella organizzazione dello
studio professionale. Questo avviene quasi sempre per processi di aggregazione o
fusione di più studi ma anche per acquisizione di una attività già esistente ed avviata.
I motivi rilevanti di tali aggregazioni sono: acquisizione della clientela,
volontà di entrare in una nicchia di mercato, incremento dei profitti e della
produttività, espansione territoriale, maggiore prestigio all’interno della propria
realtà locale. Occorre rilevare, tuttavia, come tale operazione non sia esente da
svantaggi, come il tempo da dedicare
alla pianificazione dell’operazione,
l’inserimento del personale nella nuova struttura, l’inserimento di nuovi
professionisti specializzati in particolari settori che non risultino graditi ai clienti.
E’ importante porre dei principi nella valutazione dello studio professionale
che per la loro stessa natura si differenzino da quelli imprenditoriali.
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Infatti elemento caratteristico dell’attività professionale è il rapporto
personale professionista – cliente, mentre elemento caratteristico dell’impresa è
l’organizzazione e la sua capacità di creare valore aggiunto al cliente ( avviamento).
Nella valutazione di una azienda la dottrina economica è incline ad attribuire
autonomo rilievo a quei profili o, meglio, risultati che vanno sotto il nome di
Avviamento e di clientela. Per avviamento s’intende la capacità di profitto
dell’azienda ove ne venga continuato l’esercizio, e la capacità di profitto viene
collegata alle doti d’iniziativa dell’imprenditore come alla funzionalità acquisita
dall’organismo produttivo.
L’attribuzione dell’avviamento ad uno studio professionale pone delle
problematiche dal punto di vista giuridico e dal punto di vista economico –
aziendale per le differenze di valutazione dell’investimento “studio” rispetto
all’investimento “azienda”.
2.
ASPETTI
GIURIDICI SULL’ESISTENZA O
DELL’AVVIAMENTO NELLA VALUTAZIONE DEGLI
PROFESSIONALI.
MENO
STUDI
2.1. CONSIDERAZIONI GENERALI
Dal punto di vista giuridico, non si riconosce l’avviamento ad uno studio
professionale stante il rapporto personale tra il professionista e il cliente, tale da non
permettere una cessione dello stesso. L’attività dei professionisti intellettuali è
attività economica (produttiva di servizi intellettuali), ma non è legislativamente
considerata attività d’impresa.
Le norme del codice civile regolano l’esercizio delle professioni intellettuali
(artt. 2229 ss.), in modo che dalle stesse emerge chiaramente il carattere
rigorosamente personale dell’attività del professionista (art. 2232).
Il codice civile del 1865 ammetteva l’esercizio delle professioni in forma
societaria, la sez. II del titolo X era infatti dedicata alle “Società Particolari” e in
questo ambito l’art. 1706 prevedeva che “è parimenti società particolare il contratto
con cui più persone si associano per una impresa determinata, o per l’esercizio di
qualche mestiere o professione”. La L. 23 novembre 1939, n. 1815 dopo aver
previsto all’art. 1 l’esercizio in forma associata delle professioni, da esercitarsi in
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virtù di necessari titoli di abilitazione professionale, vietò all’art. 2 di “costituire,
esercitare o dirigere sotto qualsiasi forma diverse di cui al precedente articolo,
società…”.
Tale materia è in continua evoluzione come dimostrano recenti disposizioni
normative. Infatti l’art. 24 della legge 266/97 ha abrogato l’art. 2 della legge
1815/1939, che vietava ogni forma di esercizio associato delle professioni
intellettuali, diverse da quella prevista dall’art. 1 della stessa legge. A tale abrogazione
non ha fatto seguito una normativa di riferimento per il settore.
In attesa di chiarimenti da parte del legislatore e soprattutto in attesa
dell’evoluzione normativa riteniamo, quindi, che non sia possibile riconoscere allo
studio associato la qualifica di azienda e che quindi nemmeno è possibile
configurarsi un avviamento o patti che prevedano simili fattispecie.
Lo Studio è fondato su un rapporto fortemente personale, quale quello tra
professionista – cliente; l’azienda fonda la propria capacità di produrre reddito
sull’organizzazione. I rapporti personali sono incedibili e in quanto tali non sono
valutabili autonomamente. L’organizzazione si stacca, invece, dalla figura
dell’imprenditore diventando bene autonomo e autonomamente valutabile
(avviamento).
Per cui in caso di cessione di studio sarebbe nullo il patto di trasferimento
della clientela e non si avrebbe diritto a percepire alcunchè a titolo di avviamento.
Diverso è invece il riconoscimento di un diritto del professionista cedente in
virtù di una trasmissione di bagagli di conoscenze e rapporti che, pur simili
all’avviamento dell’imprenditore, si allontanano dallo stesso perché hanno carattere
strettamente personale e chiaramente non possono essere venduti, cioè trasferiti. Il
professionista cedente può, cioè, “aiutare” il subentrante ad acquisire quel bagaglio
di conoscenze personali e professionali tali da metterlo in condizioni di proseguire
l’attività professionale in modo più remunerativo e può impegnarsi a non proseguire
in proprio l’attività.
In questo caso è possibile affermare che il professionista cedente assume un
obbligo di fare (fare acquistare a terzi un bagaglio di conoscenze di rapporti ecc.)
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e/o di non fare (astenersi dal proseguire in proprio l’attività) e/o di permettere (es. il
subentro nei contratti di prestazione d’opera) a favore del cessionario.
A tale obbligo si contrappone il diritto, contrattualmente pattuito, di ricevere
un compenso.
Tale ragionamento è coerente nei casi di cessione di studio individuale,
conferimento di studio individuale, unione di più studi, liquidazione di quota sociale,
mentre pone dei limiti nel caso della liquidazione di quota sociale agli eredi visto che il
defunto non può assumere alcun obbligo di fare / non fare, cioè non può fornire
alcuna controprestazione.
All’uopo allora si potrebbe risolvere tale problema inserendo una apposita
clausola statutaria che preveda una quota in caso di decesso per il lavoro prestato,
intesa come atto di solidarietà.
Chiaramente non pone alcun problema giuridico, in nessun dei casi sopra
evidenziati, la previsione della valutazione e del relativo obbligo di pagamento sulla
base della situazione patrimoniale rettificata secondo il principio di competenza.
2.1. GIURISPRUDENZA
L’orientamento giurisprudenziale prima della legge Bersani era di un totale
diniego delle società professionali giungendo persino ad attrarre alla legge del 1939
le associazioni in partecipazione.
Infatti nel 1987 la Cassazione ribadì che fra gli esercenti professioni protette
non può essere costituito alcun tipo di società, ritenendo ammissibili le società
professionali interne (concernenti le spese di studio e i compensi) e le società di
mezzi.
Viceversa una innovativa sentenza fu pronunciata il 27 maggio 1988 dalla
corte di Appello di Milano, in tema di liquidazione del socio uscente, ritenne
applicabile in via analogica alle associazioni tra professionisti la disciplina delle
società.
Diametralmente in senso contrario invece è la sentenza emessa dalla
Cassazione Civile del 1992. Infatti la stessa si è pronunciata in senso negativo in
merito all’Avviamento professionale, ritenendo che “nel caso di recesso di un socio
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da società che fornisce mezzi di supporto ad un professionista è escluso che nella
quota da liquidarsi possa essere ricompreso il valore dell’Avviamento dello Studio,
in quanto la clientela del professionista non può essere ricollegata alla società che lo
supporta, essendo espressione dello stretto rapporto personale che collega i clienti
alla persona fisica del professionista medesimo”.
Il 4 ottobre 1995 il Tribunale di Roma ritenne che un rinvio recettizio a
norme sulla società, sia pure del tipo personale, contenuto nello statuto di una
associazione professionale la snaturerebbe e rischierebbe di violare il divieto di
costituzione delle società professionali.
Il 19 aprile 1996 la Corte di Appello di Milano decretò l’applicazione diretta
delle norme dettate per la società semplice ad una associazione professionale,
riconoscendo natura societaria alle associazioni professionali.
Il 23 maggio 1997, a pochi mesi dalla pubblicazione della legge Bersani, la
Suprema Corte ribadì l’applicazione per le associazioni tra professionisti delle norme
societarie. La sentenza afferma che “quantunque privo di personalità giuridica, lo
Studio professionale associato rientra a pieno titolo nel novero di quei fenomeni di
aggregazione di interessi (quali le società personali…) cui la legge attribuisce la
capacità di porsi come centri autonomi di imputazione…”.
Il 22 dicembre 1998, il Tribunale di Milano ha negato l’omologa ad alcune
modifiche di una spa costituita tese a introdurre la denominazione sociale di “società
per l’esercizio della libera professione di ingegneria industriale e ambientale”, non
ritenendo, in virtù della normativa vigente, ammissibile il richiamo statutario alla
nozione di società professionale.
Il tribunale di Milano poi, in un più recente decreto 5 giugno 1999, ha
ritenuto la liceità della società tra professionisti costituita in forma di società
personale, e deliberato l’iscrizione nel registro delle imprese di una società
professionale in forma di società semplice.
3. ASPETTI ECONOMICO-AZIENDALI PER IL CALCOLO DEL
VALORE DI UNO STUDIO PROFESSIONALE.
In via preliminare bisogna evidenziare che i metodi di valutazione si prestano
a valutare economicamente uno studio professionale. Tale valore astratto ben si
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addice alle ipotesi di cessione totale di studio e alla fusione di più studi. Potrebbe
essere, invece, un valore scarsamente significativo nei casi di liquidazione di un socio
o nei casi di liquidazione della quota agli eredi.
Nel processo di valutazione di uno studio professionale diventa
fondamentale la valutazione di diversi fattori:
1) la clientela: l’acquirente dovrà valutare la tipologia di clientela, ipotizzare in
che percentuale essa continuerà ad avvalersi dei servizi dello studio una volta
ceduto, valutare se tale clientela genererà dei cash flow costanti o stagionali,
valutare se tali clienti sono sottoserviti o meno, valutare le caratteristiche
principali dei maggiori clienti, i servizi da essi richiesti e il loro grado di
solvibilità, valutare la dipendenza dello studio da grossi contratti che
andranno attentamente e separatamente valutati.
2) I servizi offerti e in particolare la presenza di specializzazione in nicchie di
mercato.
3) Le risorse umane: bisogna attentamente valutare i professionisti, i
collaboratori e tutto il personale dello studio per verificare le capacità
professionali e le probabilità di permanenza dopo la cessione.
4) le procedure utilizzate ed in particolare la presenza di un sistema qualità che
garantisce la sopravvivenza dello studio al di là del professionista.
I metodi di valutazione da utilizzare sono quelli noti per le aziende con dei
dovuti correttivi. Infatti l’acquisto di uno studio professionale dal punto di vista
economico aziendale va visto alla stregua di qualsiasi altro investimento, che va
valutato in base alla sua capacità di generare flussi reddituali e finanziari atti a dare
un congruo ritorno dell’investimento effettuato.
Innanzitutto bisogna tenere presente che i metodi patrimoniali tendono a
sottovalutare gli studi professionali che sono caratterizzati da bassi investimenti
patrimoniali. Sembrano più idonei i metodi finanziari e reddituali.
Analizziamo di seguito i vari possibili metodi:
1) metodo finanziario: tale metodo si basa sull’attualizzazione dei flussi di cassa
prospettici (con un minimo di cinque anni) normalizzati (depurati da
elementi straordinari ovvero non ripetibili), ad un tasso di sconto, e quindi un
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ritorno dell’investimento, che tenga conto del rischio particolare dello studio
professionale che si sta valutando (rischio perdita clienti fidelizzata al
professionista cedente, forte dipendenza da particolari commesse, ecc.). Più
alto è il rischio più alto sarà tale tasso di sconto più basso sarà il valore dello
studio.
2) metodo reddituale: tale metodo si basa sull’attualizzazione dei flussi reddituali
prospettici normalizzati. Valgono le medesime considerazioni fatte per il
metodo precedente.
3) Metodo del sovrareddito: tale metodo parte dal patrimonio netto rettificato
(per tener conto del suo valore effettivo) a cui aggiungere un premio di
avviamento pari all’attualizzazione del sovrareddito realizzato negli anni
futuri. Tale sovrareddito è pari alla differenza tra reddito normalizzato annuo
atteso e reddito normale calcolato sulla base di una congrua remunerazione
del patrimonio netto rettificato. Oltre a tutti i limiti dei metodi precedenti tale
metodo presenta un ulteriore limite: basa le premesse di calcolo sul
patrimonio netto rettificato che in uno studio professionale è sicuramente un
aspetto secondario.
4) metodo del pollice: è un metodo puramente empirico che si basa sulla
moltiplicazione del fatturato di studio per un coefficiente pari ad 1,5.
Chiaramente le diverse tipologia di studi professionali, sulla base dei diversi
elementi evidenziati in precedenza (si pensi ad esempio la diversa redditività
di uno studio incentrato sui servizi contabili rispetto ad uno incentrato sulla
consulenza aziendale), rendono decisamente discutibile tale metodo che può
essere utilizzato come metodo di confronto.
5) metodo “intuitus personae”: tale metodo parte dalla considerazione che, viste
le specifiche caratteristiche dello studio professionale e l’incapacità dei
metodi tradizionali a rappresentare il suo valore economico, non si possa
prescindere, per una congrua valutazione, dalle variabili “professionisti”
“risorse umane” e “clienti”. La formula che segue è stata applicata
recentemente in un caso di valutazione di studio professionale, come
testimonia il dott.Giuseppe Graffi Brunoro dell’Ordine di Udine nella rivista
“Il Commercialista Veneto” numero 143/01 pag.9:
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W = [PN + (EBIT * T * RP * RC)] * Q
Legenda :
W = valore stimato dello studio
PN = Patrimonio dello Studio (pc, rete, programmi, libri, mobili e arredi ecc.)
EBIT = Reddito netto ante imposte, dopo aver remunerato il reddito figurativo
del lavoro dei titolari per un importo lordo annuo da stabilire (nell’esempio del
dott.Graffi Brunoro tale importo è di Lit.120.000.000)
T = Tempo di sopravvivenza di una struttura (nell’esempio 6 anni pari alla
durata media di un fallimento, mandato completo di revisione enti locali, 2 “giri”
di collegi sindacali)
RP = Rischio Professionista che misura il grado di rischio di crollo del fatturato
in caso di abbandono da parte di un professionista pari ad un valore tra 0,5
(rischio massimo) ed 1 (rischio minimo)
RC = Rischio Clientela che misura il grado di dipendenza del fatturato dai primi
5 clienti pari ad un valore tra 0 (rischio massimo) ed 1 (rischio minimo)
Q = Indice di autonomia della struttura che misura la probabilità di
sopravvivenza della struttura ad una rotazione, più o meno repentina delle
risorse umane.
4. ASPETTI FISCALI (AR T .50 E 81 DPR 22.12.1986 N .917 – AR T .2, 3 E
5 D P R 26.10.1972 N .633).
Aspetti fiscali per il cedente.
Vi sono tre possibili teorie:
1) Il professionista che cede lo studio professionale (comprendendovi il
“parco” clienti) non consegue alcun reddito di lavoro autonomo in quanto tali
proventi non costituiscono compensi derivanti da una prestazione di lavoro
autonomo.
Difatti gli importi che egli riceve possono originare plusvalenze o
minusvalenze estranee alla formazione del reddito di lavoro autonomo.
La sentenza n.1505 del 11.07.1988 della CTP di Ravenna inquadra
l’operazione come una semplice liquidazione patrimoniale di una entità immateriale
realizzata dal professionista nel corso della sua attività e per la quale egli ha pagato le
imposte relative.
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La Cassazione, nell’esprimere la diversità tra professionista ed imprenditore,
evidenzia che nella cessione di uno studio professionale non può esserci tassazione
in quanto non può sussistere un valore di avviamento per il professionista (Sentenza
21.07.1967 n.1889).
2) Il professionista, nel cedere lo studio, assume degli obblighi di fare (es.
affiancare temporaneamente), non fare (es. concorrenza) o permettere (es. il
subentro nei contratti di prestazione d’opera) a favore del cessionario. In tal caso
l’art.81, comma 1, lettera l) DPR 917/86 prevede la tassazione come reddito diverso
secondo il principio di cassa.
3) Le attività descritte nel punto 2 sono vere e proprie prestazioni di lavoro
autonomo e come tali vanno trattate anche fiscalmente.
Anche in virtù di quanto espresso nei paragrafi precedenti sulla qualificazione
dell’avviamento dello studio professionale e sul conseguente diritto del cedente di
ricevere un importo a titolo di “avviamento”, scartiamo l’ipotesi n.1 e tra le ultime 2,
preponderiamo per la ipotesi n.2 in quanto tali attività non ci sembra rientrino in
prestazioni di lavoro autonomo.
Dal punto di vista IVA , se la cessione avviene prima della cessazione attività,
sembrano verificarsi sia il presupposto soggettivo (lavoratore autonomo) sia il
presupposto oggettivo (obbligo di fare, non fare o permettere) per l’applicazione
dell’imposta. Nel caso in cui la cessione avvenga dopo la cessazione attività, vi è
l’esclusione dal campo iva per assenza del presupposto soggettivo.
Aspetti fiscali per il cessionario.
Le spese sostenute per l’acquisto di uno studio professionale sono deducibili
da parte del professionista cessionario secondo le regole generali cioè se tali spese
sono certe, inerenti e documentate secondo il principio di cassa.
Le soluzioni prospettate sono sostanzialmente confermate da quanto
affermato dall’Agenzia delle Entrate con Risoluzione n.108 del 29.03.2002.
5. CONSIDERAZIONI CONCLUSIVE
Oggi, l’attività professionale viene ancora vista in modo differente da quella
imprenditoriale
essenzialmente
perché
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basata
sulle
qualità
personali
del
professionista. L’elemento aggregante della clientela è costituito dall’abilità del
professionista, dal suo rapporto personale con essa, mentre nelle aziende
commerciali esso è rappresentato dal tipo di organizzazione, nel quale le doti
personali dell’imprenditore vengono sostanzialmente assorbite dall’organizzazione e
agiscono solo per il tramite di essa. Perciò il distacco dalla figura dell’imprenditore
dell’azienda commerciale non produce apprezzabili modificazioni sull'avviamento,
mentre nell’attività professionale di norma la scomparsa del professionista tende a
disperdere la clientela. Questa dispersione tende a diminuire quando si parla di
grossi studi professionali, ma mai ad annullarsi, poiché l’organizzazione non prevale
in nessun caso sul lavoro del professionista.
La Cassazione aveva con estrema chiarezza affermato che anche in caso di
esercizio di attività professionale svolta con forme tipiche dell’impresa, questo non
induce a modificare le conclusioni di non applicabilità di avviamento, motivando
che l’incarico fiduciario (intuitus personae) del committente viene espletato con lavoro
prevalentemente proprio e senza vincolo di subordinazione.
Riteniamo con tale lavoro di aver fornito una situazione di riferimento dal
punto di vista giuridico ed economico aziendale per tener conto delle diverse
variabili a cui sono soggetti le valutazioni degli studi professionali.
Ci sembra comunque opportuno concludere tale lavoro con un ulteriore
dubbio.
Infatti a complicare ulteriormente il quadro di riferimento vi sono le STP
degli avvocati previste dal D.Lgs.02/02/2001 n.96 che si rifanno alle norme delle
società di persone. In tale caso come verrano valutate le quote sociali visto che
l’attività professionale ha una veste giuridica che la rinvia alle norme sulle società di
persone?
6. APPENDICE
Clausole statutarie relative all’avviamento.
1.1. “…..nessun altro diritto - per clientela, avviamento o altro titolo spetterà al professionista uscente”.
19
A tale proposito si osserva che nella maggior parte dei casi di liquidazione
della quota limitatamente ad un socio, non viene previsto nessun rimborso
dell’avviamento commerciale e professionale riconducibile al socio-dimissionario. In
tale condizione la clausola possibile è la seguente:
1.2. “ …..il socio uscente ha inoltre diritto ad un compenso supplementare
legato agli obblighi:
• di fare: fare acquistare a terzi un bagaglio immateriali di conoscenze di
rapporti ecc.;
• di non fare: astenersi dal proseguire in proprio l’attività”.
La quantificazione di tale compenso può essere legata a diversi criteri. Per le
modalità applicative crf. supra par.3.
In ogni caso, è opportuno verificare - entro 12/18 mesi – la permanenza dei
criteri persi a riferimento per il calcolo dell’obbligo a carico del cedente.
7. BIBLIOGRAFIA
L. 23 NOVEMBRE 1939, n. 1815 (art. 1 e 2);
L. 7 AGOSTO 1997, n. 266 (art. 24);
CASSAZIONE, 12 MARZO 1997, n 2555;
CORTE d’APPELLO Milano, 27 MAGGIO 1988,
CASSAZIONE CIVILE sez. I, 13 MAGGIO 1992, n. 5656 (SENTENZA);
TRIBUNALE di Roma, 4 OTTOBRE 1995 (ORDINANZA);
CORTE d’APPELLO Milano, 19 APRILE 1996;
CASSAZIONE, 23 MAGGIO 1997, n. 4628;
P. RESCIGNO, Manuale di diritto privato , Napoli, 1981;
CAMPOBASSO, Diritto commerciale, Torino, 1999;
Dallo Studio associato alla società tra professionisti in “FONDAZIONE ARISTEIA”,
Doc. n. 6, 2001;
Le società di professionisti, in “FONDAZIONE ARISTEIA”, Doc. n. 7, 2001.
20
Studi Associati, in “EUTEKNE”: Schede di aggiornamento, 1992.
Il Commercialista Veneto, numero 143/01, dott.Giuseppe Graffi Brunoro.
21
FRANCO M ICHELOTTI
O SSERVAZIONI IN TEMA DI PATTUIZIONI
RELATIVE ALL’AMMISSIONE DI UN NUOVO ASSOCIATO
NEGLI STUDI PROFESSIONALI.
SOMMARIO. 1. INTRODUZIONE. 2. L’INGRESSO DEL NUOVO ASSOCIATO . LE TIPOLOGIE PIU’ FREQUENTI. 3. LE
ASSOCIAZIONI TRA PROFESSIONISTI . CENNI ALLA DISCIPLINA CIVILISTICA . 4. LE CLAUSOLE PER
REGOLARE L’INGRESSO DI NUOVI ASSOCIATI : I CONFERIMENTI. CRITICAAICONFERIMENTIDICAPITALE
NELLE ASSOCIAZIONI TRA PROFESSIONISTI. I CONFERIMENTI IN GODI MENTO. I CONFERIMENTI
D’OPERA INTELLETTUALE. 5. LE CLAUSOLE PER REGOLARE L’INGRESSO DI NUOVI ASSOCIATI : I
CONTRATTI IN CORSO . I CONTRATTI D’OPERA INTELLETTUALE CON LA CLIENTELA E GLI ALTRI
CONTRATTI CC . DD. ATTIVI . I CONTRATTI A DEBITO. 6. LE CLAUSOLE PER REGOLARE L’INGRESSODI
NUOVO ASSOCIATI : IL PROBLEMA DEL C. D. AVVIAMENTO. CRITICA . L’AVVIAMENTO PROFESSIONALE
QUALE VALORE ATTUALE DELL’OPERA INTELLETTUALE CONFERITA NELL’ASSOCIAZIONE . LA
DETERMINAZIONE DEL CAPITALE DA APPORTARE E DELLA PERCENTUALE DI UTILE DA ATTRIBUIREAL
NUOVO ASSOCIATO , SIA CHE ABBIA O CHE NON ABBIA UNO STUDIO.
1. INTRODUZIONE .
Le presenti note si riferiscono all’associazione tra professionisti e non alla
società semplice tra professionisti.
L’ingresso di un nuovo professionista in uno studio associato rappresenta
uno dei momenti più delicati nella vita dell’associazione, in quanto tale evento
necessariamente porta alla modifica del contratto di associazione professionale, con
la conseguente rinegoziazione e ricomposizione degli interessi di cui sono portatori
gli associati già facenti parte del sodalizio, il che a sua volta determina il rischio di
turbare l’equilibrio raggiunto nel precedente assetto organizzativo e contrattuale con
pregiudizio per lo studio, più o meno grave a seconda dei casi, se questo evento non
viene gestito con un’adeguata cautela ed attenzione a tutti gli aspetti della vita
associativa che vengono influenzati dall’entrata di un nuovo associato.
Dunque, è doveroso che vengano ben considerati e valutati tutti i fattori
positivi e negativi che conseguono all’ampliamento della compagine associativa.
22
D’altro lato, sotto il profilo della politica delle professioni intellettuali non si
può non rilevare come l’aumento delle dimensioni degli studi professionali sia non
solo auspicabile, ma tendenzialmente necessario per fronteggiare la sfida dei fattori
del cambiamento che porta la professione del dottore commercialista a misurarsi
con competitori di sempre maggiori dimensioni e in mercati dei servizi professionali
sempre più ampi, ove i relativi consumatori/clienti esprimono ormai una domanda
di servizi che nel tempo appare evolversi verso prestazioni professionali non solo
sempre più specializzate, ma anche da rendere in tempi di risposta sempre più brevi,
che mettono in crisi il professionista singolo o anche la struttura associativa di pochi
professionisti, senza poi parlare del problema dei prezzi, che per i servizi a scarso
contenuto intellettuale già attualmente sono divenuti sempre meno remunerativi.
E’ dunque, evidente come la spinta alla crescita delle dimensioni dello studio
venga dal mercato, quale condizione per la permanenza nello stesso a livelli
competitivi adeguati alle mutate esigenze della domanda di servizi professionali.
In questa prospettiva, le problematiche giuridiche relative all’ingresso di
nuovi associati in strutture associative già esistenti assumono una portata assai più
ampia che non la mera disquisizione sui diritti, i poteri, gli obblighi connessi alle
vicende associative riguardanti la modifica del contratto di associazione.
In altre e più chiare parole, la pratica quotidiana pone sempre più spesso che
non nel passato il problema della c. d. fusione di uno studio associato già esistente
con uno studio individuale, anche strutturato, il che porta immediatamente a
considerare il tema della possibilità o meno di riconoscere un avviamento allo studio
individuale come pure allo studio associato nel momento in cui decidono di unire le
loro forze sotto un’unica struttura, data dall’associazione già esistente.
2. L’I N G R E S S O D E L N U O V O ASSOCIATO .
FREQUENTI .
LE TIPOLOGIE PIU ’
Passando, dunque, alla disamina delle problematiche inerenti il tema in
oggetto, si può, in prima approssimazione, procedere all’elencazione delle fattispecie
più rilevanti per poi esaminarne più in profondità gli aspetti applicativi.
23
-
Il nuovo professionista non ha uno studio e dunque non apporta beni, né
rapporti contrattuali, né clientela (è il caso dell’ingresso nello studio associato
di un ex praticante o collaboratore).
-
Il nuovo partner ha uno studio individuale e quindi apporta tutti i beni, i
contratti in corso e il fatturato della sua clientela.
3. LE ASSOCIAZIONI TRA PROFESSIONISTI . CENNI ALLA DISCIPLINA
CIVILISTICA .
Si è già detto che l’entrata di un nuovo associato determina una modifica del
contratto associativo, di cui occorre brevemente richiamare i principi che ne
regolano la disciplina normativa.
Al riguardo, occorre notare come le associazioni tra professionisti,
all’indomani dell’abrogazione dell’art. 2 della legge 23 dicembre 1939, n. 1815,
restano comunque soggette all’art. 1 della stessa legge secondo il quale: «le persone
che, munite dei necessari titoli di abilitazione professionale, ovvero autorizzate
all’esercizio di specifiche attività in forza di particolari disposizioni di legge, si
associano per l’esercizio delle professioni o delle altre attività per cui sono abilitate o
autorizzate, debbono usare, nella denominazione del loro ufficio e nei rapporti con i
terzi, esclusivamente la dizione di “studio tecnico, legale, commerciale,
amministrativo o tributario”, seguita dal nome e cognome, coi titoli professionali,
dei singoli associati».
Com’è noto, secondo la giurisprudenza e la dottrina prevalente, le
associazioni tra professionisti di cui all’art. 1 della legge n. 1815/1939 sono contratti
associativi sui generis, cioè atipici, diversi dalle associazioni in partecipazione e dalle
società, dello stesso genere di quelli ammessi per i notai dalla legge 16 febbraio 1913,
n. 89, secondo cui «sono permesse associazioni di notai, purché appartenenti allo
stesso distretto, per mettere in comune, in tutto o in parte, i proventi delle loro
funzioni e ripartirli poi, in tutto o in parte, per quote uguali o diseguali».
Dunque, le attuali associazioni professionali, meglio qualificate come studi
associati, sono legittime in quanto espressione dell’autonomia negoziale dei privati e
se costituite secondo i dettami della legge n. 1815/1939.
24
Sennonché, tali associazioni fra professionisti non hanno una soggettività
giuridica con la conseguenza che non possono essere centro di imputazione di
rapporti giuridici; hanno un’efficacia meramente interna agli associati, poiché nei
rapporti con i terzi il soggetto non è l’associazione ma tutti gli associati e quindi non
si ha una titolarità dell’associazione circa i beni acquistati, immobili o mobili
registrati o mobili non registrati, bensì una contitolarità degli associati sui beni
acquisiti a titolo di proprietà o di altro diritto reale. Anche nei rapporti concernenti
diritti personali di godimento, parte contrattuale è da ritenersi non l’associazione, ma
tutti gli associati.
4. LE CLAUSOLE PER REGOLARE L ’INGRESSO DI NUOVI ASSOCIATI: I
CONFERIMENTI . CRITICA AI CONFERIMENTI DI CAPITALE NELLE
ASSOCIAZIONI TRA PROFESSIONISTI . I CONFERIMENTI IN GODIMENTO. I
CONFERIMENTI D ’OPERA INTELLETTUALE .
Alla stregua delle suesposte considerazioni si può ora meglio comprendere
come l’ingresso di un nuovo associato implichi la modifica del contratto associativo.
Trattandosi di un contratto plurilaterale, disciplinato dall’autonomia privata, occorre
verificare - caso per caso – quali siano le regole che l’associazione si è data per la
modifica del contratto. Bisogna verificare, in altri termini, se occorra l’unanimità dei
consensi degli associati o se l’atto costitutivo preveda la modificabilità dello stesso
con il consenso della maggioranza degli associati, anche qualificata.
Uno degli statuti di associazioni professionali che sono stati esaminati
prevede per esempio che la qualità di associato si acquista mediante cooptazione da
parte degli altri e la relativa deliberazione dovrà essere adottata con la maggioranza
dei 4/5 dei voti presenti. La stessa delibera, poi, dovrà modificare le percentuali di
partecipazione agli utili degli associati, al fine di tenere conto dell’ingresso del nuovo
associato.
Inoltre, anche il capitale verrà – di regola – modificato, in quanto il nuovo
arrivato dovrà conferire nell’associazione le somme di denaro o altri apporti
proporzionalmente corrispondenti alla percentuale di partecipazione agli utili che gli
viene riconosciuta. Ma, come meglio si dirà nel prosieguo, sul capitale nelle
associazioni si esprimono fin da ora delle perplessità.
25
Qualora, invece, il nuovo associato non apporti all’associazione, né beni, né
denaro, allora si avrà una modifica dei patti associativi in cui i vecchi associati
riducono proporzionalmente le proprie quote a favore del nuovo arrivato, in cambio
di una somma di denaro pari al valore della quota associativa acquisita dal nuovo
associato. Tale somma altro non è se non il corrispettivo per la cessione pro-quota
dei diritti di comproprietà sui beni dell’associazione, che in realtà sono posseduti in
comunione dai professionisti associati, data la mancanza di soggettività già
evidenziata dello studio professionale.
Sotto questo profilo, è da ritenere che le clausole contenute negli atti
costitutivi e negli statuti delle associazioni tra professionisti concernenti i cc. dd.
conferimenti siano idonee ad indurre in errore, in quanto non pare pertinente
richiamare l’istituto del conferimento, utilizzato nel diritto societario, per descrivere
l’obbligazione assunta da un socio verso la società, in sede di costituzione della
medesima o in sede di aumento del capitale sociale o comunque di modificazione
dei patti sociali. Infatti, la società semplice è dotata di una autonomia patrimoniale,
sia pure imperfetta, ma che pare comunque idonea ad attribuirle una soggettività di
diritto; da ciò consegue che l’obbligazione assunta dal socio, quale soggetto passivo
dell’obbligazione, per la necessaria bilatelarità della medesima, trova il soggetto
attivo nella società semplice; il rilievo vale a maggior ragione anche per le società
commerciali. L’adempimento dell’obbligazione assunta a titolo di conferimento
produce effetti reali, nel caso del conferimento in proprietà o di altro diritto reale di
godimento, per cui dopo l’adempimento il bene è di proprietà piena della società
oppure è in nuda proprietà o in usufrutto alla società, ma può produrre anche effetti
obbligatori, nel caso in cui sia conferito un credito del socio; in quest’ultimo caso
l’adempimento eseguito si coglie nella titolarità del credito pervenuta in capo alla
società. In tutti i casi suesposti si ha comunque un trasferimento di un bene, di un
diritto reale o di un’obbligazione dal socio alla società.
Orbene, al contrario di quanto si ha per le società, nel caso delle associazioni
tra professionisti non pare possibile cogliere alcun trasferimento dall’associato
all’associazione, in quanto l’associazione non è soggetto di diritto.
Dunque, il “conferimento” di beni nelle associazioni tra professionisti pare
potersi descrivere quale immissione di un bene in una comunione, ove la comunione
26
è il patrimonio dell’associazione e i comunisti sono gli associati che hanno effettuato
i “conferimenti”. Le regole che disciplinano il patrimonio dell’associazione sono
dunque, tranne pattuizioni diverse, quelle della comunione dei beni di cui agli artt.
1100 e ss. del cod. civ.. Pare, dunque, opportuno evitare nelle costituzioni di
associazioni tra professionisti il “conferimento” di beni o di crediti o di diritti reali,
con la conseguenza, quindi, che l’associazione non dovrebbe avere un patrimonio
iniziale. Per ovviare a questo inconveniente, pare percorribile la via della
costituzione di una società di mezzi. Ma su questo argomento, occorre rinviare la
trattazione ad un’altra sede.
L’unico conferimento che pare compatibile con la causa del contratto di
associazione tra professionisti è quello d’opera e più in particolare d’opera
intellettuale. Infatti, l’esecuzione da parte dell’associato della prestazione promessa,
altro non è che l’attuazione dell’oggetto dell’associazione. L’associato che si è
obbligato a imputare all’associazione gli effetti economici della propria attività
professionale, lavorando adempie l’obbligo del conferimento. La remunerazione
dell’opera intellettuale conferita è data dall’utile che residua al termine dell’esercizio e
della vita dell’associazione, sia che sia distribuito, sia che rimanga nel fondo comune.
Infatti, in osservanza alle considerazioni critiche svolte in precedenza sulla
inopportunità dell’associazione ad avere un patrimonio iniziale, se l’associazione non
possiede un patrimonio derivante dai conferimenti, allora la percentuale di
partecipazione agli utili di ciascun associato è pari alla sua quota di patrimonio
dell’associazione, dato che quest’ultimo non può che essersi formato con gli utili. In
questo caso, anche se l’associato non percepisce materialmente gli utili, il suo
patrimonio personale è già comunque aumentato in misura pari alla sua quota del
patrimonio dell’associazione. Anche questo è uno degli altri effetti derivanti dalla
mancanza di soggettività giuridica dell’associazione.
Nonostante quanto sopra indicato, si supponga – come avviene nella
generalità dei casi – che invece l’associazione abbia un patrimonio iniziale derivante
dai “conferimenti” degli associati. Si esamini, a questo punto, l’ingresso di un nuovo
associato che apporta il suo studio già avviato.
Sotto il profilo del “capitale apportato” si possono esaminare i conferimenti
di beni e di crediti.
27
I conferimenti del nuovo associato eseguiti mediante versamento in
denaro nelle casse dello studio oppure mediante trasferimento allo studio
di beni in proprietà attribuiscono al nuovo associato la titolarità di una
corrispondente quota di comproprietà del patrimonio dello studio
associato; del pari, i conferimenti di crediti verso la clientela, indicati in
apposito elenco, effettuati mediante il trasferimento allo studio della titolarità del
credito, da un lato, sono regolati dalle norme di cui agli artt. 2255 e 1260 e ss. del c.
c., con la garanzia della solvenza del debitore ceduto, e, dall’altro, attribuiscono al
nuovo associato la titolarità di una corrispondente quota del patrimonio dello studio
associato; il credito conferito viene, di regola, valutato in via provvisoria al momento
dell’ingresso dell’associato; la valutazione definitiva si ha al momento dell’incasso
totale, salvo contestazioni, nel qual caso sia ha al momento in cui si estingue la
controversia.
Per quanto concerne, invece, i conferimenti in godimento eseguiti e da
eseguire da parte del nuovo associato mediante la messa a disposizione dello studio
del godimento di beni, che restano di proprietà esclusiva del nuovo associato, si
osserva che tali conferimenti attribuiscono al nuovo associato una percentuale degli
utili, determinata alla fine di ogni esercizio in misura corrispondente ai minori costi
sostenuti dallo studio per effetto del conferimento in godimento; i minori costi
possono venire assunti in base al valore normale delle prestazioni di servizi rese in
esecuzione di contratti di fare o permettere che pongono a disposizione del
committente le stesse o analoghe utilità.
I conferimenti d’opera più semplicemente attribuiscono al nuovo associato
una percentuale degli utili, determinata secondo le regole vigenti per la categoria di
associati alla quale si conviene che venga assegnato.
5. LE CLAUSOLE PER REGOLARE L ’INGRESSO DI NUOVI ASSOCIATI: I
CONTRATTI IN CORSO . I CONTRATTI D ’OPERA INTELLETTUALE CON LA
CLIENTELA E GLI ALTRI CONTRATTI CC . ATTIVI . I CONTRATTI A DEBITO.
Oltre ai conferimenti, con l’apporto dello studio nell’associazione, di regola,
si trasmettono anche i contratti in corso, sia quelli cc. dd. attivi, che quelli cc. dd.
passivi.
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Per i primi si rileva che, al momento dell’ingresso del nuovo associato nello
studio, i contratti d’opera intellettuale, che il nuovo associato ha in corso di
esecuzione con la propria clientela, vengono di regola ceduti ai sensi dell’art. 1406 e
ss. del c. c. all’associazione professionale.
Del pari, i secondi, cioè i contratti cc. dd. a debito, relativi alle utenze del gas,
acqua, energia elettrica, telefoni fissi e cellulari, nonché quelli relativi alla
manutenzione o alla fornitura di materiali accessori di beni conferiti allo studio in
proprietà o in godimento, come pure quelli relativi alla conduzione in locazione dei
locali adibiti a studio professionale o in locazione finanziaria di beni e agli
abbonamenti con case editrici per libri, riviste, banche dati e simili, vengono ceduti
ai sensi dell’art. 1406 e ss. del c. c. all’associazione professionale, salvo che regole
specifiche, sia pattizie che normative, non impongano la volturazione e la nuova
intestazione all’associazione o ne vietino la cessione a terzi. In ogni caso gli effetti
economici decorrono a partire dalla data di ingresso nell’associazione professionale.
Inoltre, i contratti di lavoro dipendente con il personale subordinato al
nuovo associato, relativi a lavoratori che proseguono la loro attività a favore dello
studio associato, possono venir trasferiti mediante passaggio diretto e immediato
all’associazione professionale con tutti gli istituti connessi (ferie, gratifiche natalizie,
t. f. r., ecc. ). Gli effetti economici di regola decorrono dalla data di ingresso
nell’associazione professionale. Ai fini dell’attribuzione al nuovo associato della
quota di patrimonio dell’associazione, i debiti assunti dall’associazione in solido con
il nuovo associato, sorti o maturati anteriormente all’entrata nello studio, possono
venir computati in diminuzione dei conferimenti, effettuati dal nuovo associato, di
beni in proprietà e di crediti. Qualora i debiti trasferiti siano superiori ai crediti e ai
beni conferiti, il nuovo associato deve coprire la differenza in denaro. In tal caso,
non avrà diritto ad alcuna quota del patrimonio dello studio associato.
Anche i contratti di lavoro parasubordinato ovvero di collaborazione
coordinata e continuativa, che il nuovo associato, quale committente, ha stipulato
con terzi professionisti possono venir ceduti allo studio associato secondo le regole
di cui all’art. 1406 e ss. del c. c., con effetti economici decorrenti a partire dalla data
di ingresso nello studio associato.
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I contratti di tirocinio professionale per il superamento dell’esame di Stato di
dottore commercialista dopo l’ingresso nello studio proseguono con il nuovo
associato, il quale ne mantiene i relativi diritti, poteri, obblighi ed oneri. Del pari, i
rapporti di praticantato per l’iscrizione del registro dei revisori contabili continuano
con il nuovo associato anche dopo il suo ingresso nell’associazione professionale.
Orbene, in tutti i casi sopra indicati di cessione del contratto a favore dello
studio associato si ripropone la problematica relativa alla mancanza di soggettività
dell’associazione. Pertanto, più che di una vera e propria cessione del contratto da
un soggetto ad un altro, è da ritenere che vi sia per tutti i contratti cc. dd. passivi un
accollo cumulativo in cui il nuovo debitore è dato da tutti gli associati, fermo
restando il creditore originario. Tuttavia, anche la figura della cessione del contratto
può ritenersi applicabile, solo che si consideri che il cessionario è dato da tutti gli
associati. Nell’ipotesi in cui l’associazione abbia alcuni associati che hanno la
rappresentanza dello studio, allora il cessionario potrebbe ben essere il
rappresentante, che però obbliga con la sua accettazione anche tutti i rappresentati,
che in tal caso sono gli altri associati. Infatti, con la sottoscrizione del contratto di
associazione tra professionisti, qualora venga pattuito che l’amministrazione e la
rappresentanza spettino soltanto ad alcuni associati e non ad altri, è da ritenere che
gli associati non amministratori diano un mandato agli altri ad amministrare e se a
questi ultimi o ad altri viene data anche la rappresentanza dell’associazione, è da
ritenere che ciò corrisponda al conferimento di una procura speciale, più o meno
ampia, a seconda del relativo contenuto. In alcun caso pare che si posa parlare di
rappresentanza legale, essendo la fonte il contratto associativo, che genera, dunque,
una rappresentanza negoziale.
Invece, per quanto concerne i contratti cc. dd. attivi occorre svolgere altre
considerazioni. Infatti, per il principio della personalità della prestazione i contratti
stipulati personalmente dal nuovo associato prima dell’ingresso nell’associazione,
continuano ad essere eseguiti dallo stesso nuovo associato, che si obbliga solamente
a mettere in comune i relativi risultati economici, per cui – a ben vedere – non pare
che vi sia la necessità di cedere alcun contratto all’associazione, ma soltanto
l’obbligo di comunicare al cliente l’ingresso nell’associazione e di consegnare
l’incasso del lavoro svolto dopo l’entrata in associazione al fondo comune.
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6. LE CLAUSOLE PER REGOLARE L ’INGRESSO DI NUOVI ASSOCIATI: IL
PROBLEMA DEL C. D. AVVIAMENTO. CRITICA. L’AVVIAMENTO PROFESSIONALE
QUALE VALORE ATTUALE DELL ’OPERA INTELLETTUALE CONFERITA
NELL ’ASSOCIAZIONE . LA DETERMINAZIONE DEL CAPITALE DA APPORTARE E
DELLA PERCENTUALE DI UTILE DA ATTRIBUIRE AL NUOVO ASSOCIATO, SIA
CHE ABBIA O CHE NON AB B I A U N O S T U D I O .
E’ opportuno precisare, a questo punto, che in questa sede - trattando
dell’aumento dimensionale degli studi -, non vengono esaminate le fattispecie
dell’ingresso del nuovo associato e della contemporanea uscita di un altro, che
sarebbero assimilabili alla cessione di una quota sociale, il che significa che
normalmente l’operazione comporta un incremento del capitale dello studio.
Restano, comunque, ferme le perplessità già esposte in precedenza.
In questa prospettiva, occorre procedere ad una valutazione dello studio
professionale, prima dell’ingresso del nuovo associato.
Nel caso in cui quest’ultimo non abbia uno studio da conferire, di regola,
assumendo come ipotesi che la percentuale di partecipazione agli utili e alle perdite
sia uguale alla percentuale di possesso del capitale, il nuovo associato, per avere la
percentuale di utile negoziata in sede di trattativa, dovrà conferire somme di denaro
che andranno ad aumentare il capitale dello studio, secondo la seguente formula:
X = P * C0 /(100 – P), dove
X = apporto in denaro del nuovo associato per avere la percentuale P di
capitale
P = percentuale di capitale spettante al nuovo associato
C0= capitale prima dell’ingresso del nuovo associato
C1= capitale dopo l’ingresso del nuovo associato.
Infatti, si avrà: C0 + X = C1 dove P = X / C1
E’ comunque ammesso che le percentuali di partecipazione al capitale siano
diverse da quelle di partecipazione agli utili e alle perdite. In tale caso la formula
precedente è utile solo per determinare la misura del conferimento in denaro che
permetta di ottenere la percentuale di partecipazione al capitale oggetto di trattativa.
31
Quanto poi alla partecipazione agli utili, questa sarà soggetta a una diversa
regolamentazione, al termine di una diversa trattativa.
Nell’ipotesi in cui il nuovo associato sia titolare di uno studio avviato, allora
si dovrà procedere anche ad una valutazione del suddetto studio, quale complesso
organizzato di beni, rapporti giuridici e diritti, da apportare nella associazione
professionale.
Questa è la fattispecie più complessa da esaminare, in quanto – come si è
accennato in precedenza – la valutazione dello studio da apportare implica la
soluzione del problema concernente l’ammissibilità o meno dell’avviamento per i
professionisti e della sua trasferibilità a terzi.
In linea generale, è noto come il complesso dei beni utilizzati per l’esercizio
delle professioni intellettuali non sia qualificabile come azienda, con la conseguenza
quindi che ad esso non si può ritenere collegato un bene immateriale quale è
l’avviamento. Ciò deriva dal fatto che la prestazione professionale non è imputabile
all’organizzazione dello studio, bensì necessariamente e invariabilmente al
professionista, per cui il complesso di beni non è idoneo a produrre redditi
autonomamente, cioè indipendentemente dalla partecipazione personale del
professionista alla resa del servizio o della prestazione intellettuale. Da ciò discende
che il trasferire a terzi il complesso di beni e diritti che costituiscono lo studio
professionale, senza la necessaria presenza del professionista, implica che non si
trasferisce la capacità di produrre redditi, il cui valore attualizzato è – come noto –
dato dall’avviamento. Infatti, secondo tale orientamento il complesso di beni e di
diritti costituenti lo studio professionale è meramente accessorio e strumentale alla
prestazione professionale che è personalmente imputabile al libero professionista.
Orbene, tali rilievi se da un lato paiono sufficientemente fondati per le
prestazioni professionali ad elevato contenuto intellettuale, dall’altro lato destano
delle perplessità per i servizi professionali ripetitivi a scarso valore aggiunto, in
quanto gli studi per la tenuta delle contabilità, la elaborazione dei dati contabili e la
resa della assistenza tributaria per le dichiarazioni fiscali ormai oggi giorno sono in
grado di prestare il servizio alla clientela anche senza la personale partecipazione del
professionista titolare, per cui in presenza di una sufficiente organizzazione dei
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fattori produttivi, non si può escludere che si tratti di vere e proprie aziende di
servizi.
Ma, a parte tali considerazioni, nel caso in esame, l’ingresso del nuovo
professionista nello studio associato non comporta la dissociazione tra complesso di
beni e partecipazione personale del titolare, che è tipica della cessione dello studio a
terzi, ma è del tutto evidente che la capacità di reddito, quale concorso tra
professionista e complesso di beni e diritti, viene integralmente trasferita nello
studio associato con l’entrata nell’associazione professionale. In altre parole,
l’ingresso del nuovo associato determina il conferimento non solo di tutti i beni, i
rapporti contrattuali e la clientela dello studio professionale, ma anche dell’opera del
titolare che entra a far parte della struttura associativa, per cui la valutazione
dell’avviamento, quale flusso di cassa attualizzato dei redditi futuri, non può essere
omessa, pena il danno per il conferente che non vedrebbe riconosciuto alcun valore
alla sua attività lavorativa. Reciprocamente, anche lo studio associato conferitario
dovrà procedere ad un’analoga valutazione che tenga conto del valore della clientela
e del proprio fatturato.
Ma, come si determina il valore dello studio apportato nell’associazione
professionale?
I metodi di valutazione da adottare sono gli stessi delle aziende di servizi; a
questo riguardo si rinvia alle trattazioni specialistiche sul tema e al lavoro svolto sulla
valutazione degli studi professionali in seno alla ns. commissione.
A puro titolo esemplificativo, si può esporre nel prosieguo una delle
metodologie proposte per valutare uno studio professionale.
Orbene, in uno degli statuti di associazioni professionali esaminati nel corso
del presente lavoro, è stata inserita una formula per calcolare un’indennità da
riconoscere all’associato uscente, comprensiva di ogni e qualsiasi suo diritto e
ragione, nonché anche, a titolo indicativo, dell’avviamento da lui creato e della quota
ideale dei mobili, macchine ed arredi di proprietà dell’associazione.
Ora, se gli stessi principi utilizzati per costruire la formula dell’associato
uscente, si adottano, mutatis mutandi, per l’associato entrante, si ottiene la seguente
formula per valutare l’avviamento dello studio da conferire.
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X = A/B * C* 3 * 0,3 dove
X = valore dell’avviamento dello studio da conferire
A = fatturato del nuovo associato verso la clientela apportata, nei primi tre
anni di appartenenza all’associazione
B = fatturato globale dell’associazione nei tre anni successivi all’entrata del
nuovo associato
C = media annuale degli utili netti, al lordo dell’IRPEF e relative addizionali,
e al netto dell’IRAP nei tre anni successivi all’entrata del nuovo associato
3 = parametro di capitalizzazione del reddito ai fini della stima
dell’avviamento
0,3 = fattore di anzianità
E’ evidente che il calcolo dell’avviamento, con la formula suesposta, può
essere definitivamente eseguito soltanto dopo che sono trascorsi tre anni dall’entrata
del nuovo associato nello studio preesistente. Ciò perché il valore effettivamente
conferito può essere stimato solo a posteriori e la permanenza nell’associazione
permette di differire a tale successivo momento la stima dell’avviamento dello studio
conferito. Al momento della stipulazione dei patti associativi relativi all’ingresso del
nuovo arrivato, si può procedere ad una stima in via provvisoria sulla base dei valori
attesi o prevedibili per poi effettuare il conguaglio al termine del triennio. E’ chiaro
che nella formula si sono adottate delle convenzioni che sono relative e non
assolute. Certamente caso per caso si potranno adottare altri criteri, purché
sufficientemente fondati. Per esempio, l’arco di tempo triennale potrebbe essere
ridotto anche ad un anno o viceversa esteso ad un quinquennio. Nel caso suesposto
il triennio è anche collegato al fattore di capitalizzazione che, appunto, è uguale a tre,
quale multiplo del reddito medio storico dello studio individuale da conferire.
Una volta valutato lo studio del nuovo associato, occorre valutare quello
relativo all’associazione nel quale quest’ultimo entra. Una volta ottenute le due
valutazioni, le pattuizioni da stipulare concernono: 1. le percentuali di partecipazione
all’utile; 2. le percentuali di partecipazione al capitale, ove esistente.
34
Si profilano, sotto questo aspetto, due modalità di composizione degli
interessi in conflitto.
a. Agli associati dopo l’ingresso viene attribuita la stessa percentuale di utili e
di capitale. In questo caso, se lo studio conferito vale meno della quota del
patrimonio dell’associazione dopo il suo ingresso, allora il nuovo entrato dovrà
corrispondere agli altri associati una somma di denaro pari alla differenza di valore
tra la quota del patrimonio dell’associazione dopo l’ingresso e il valore del suo
studio conferito. Viceversa, se lo studio conferito vale di più della quota del
patrimonio dell’associazione dopo il suo ingresso, sarà il nuovo associato a percepire
dagli altri una somma di denaro pari alla differenza tra il valore del suo studio
conferito e quello della quota del patrimonio dell’associazione dopo il suo ingresso.
b. Agli associati dopo l’entrata del nuovo socio viene attribuita una
percentuale differenziata di utili e di capitale. In questo caso, i differenti rapporti di
forza tra i due studi, pari ai diversi valori risultanti dalla valutazione effettuata,
vengono definiti in termini di proporzionali percentuali di partecipazione agli utili e
al capitale.
Vi è poi una diversa ipotesi, quella in cui le percentuali di partecipazione
all’utile siano diverse dalle percentuali di partecipazione al capitale. In tali casi, è
opportuno che l’associazione professionale non abbia un patrimonio e che questo
sia conferito in una società di mezzi. Con tale struttura il patrimonio dello studio è
posseduto dalla società di mezzi, la quale lo da in locazione allo studio associato,
maggiorandolo di un saggio di interesse. L’utile dello studio risulta al netto del costo
dell’utilizzo del capitale, per cui remunera solo il lavoro. I soci della società di mezzi
ottengono un utile che è la remunerazione del capitale impiegato nello studio. Tale
soluzione consente una differenziazione tra i soci nell’investimento di capitale.
Nel caso che l’associazione abbia un capitale e che le percentuali agli utili
siano diverse da quelle di partecipazione al capitale, si pone il problema della
remunerazione del capitale, che potrebbe essere penalizzata rispetto alla
remunerazione del lavoro. Comunque, anche in questi casi occorre scindere lo
studio da conferire in due parti: una prima parte riguarda il valore dei beni materiali
e immateriali che vengono conferiti all’associazione e che vanno a comporre il
35
capitale; una seconda parte concerne la clientela e l’opera intellettuale del nuovo
associato, in sintesi potrebbe qualificarsi come il lavoro conferito. Orbene, in prima
approssimazione, si può negoziare la percentuale agli utili, che remunera il lavoro; in
tale fase, si considera ovviamente anche quello che si può chiamare l’avviamento
professionale; si tiene conto sia dello studio da conferire che quello relativo alla
vecchia associazione; successivamente e sempre in sede di trattativa si possono
apportare dei correttivi alle prime percentuali con l’intento di remunerare il capitale.
Per esempio, se la percentuale agli utili del nuovo associato è inferiore alla
percentuale al capitale, si può aumentare in via compensativa la sua percentuale agli
utili; nel caso opposto, si può diminuire. In alternativa, si ritorna all’ipotesi
precedente in cui se possibile si pareggiano tra i soci le quote di capitale, affinché lo
scalare di percentuali sia uguale a quello degli utili.
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1a clausola.
Articolo
Rapporti transitori al momento dell’ingresso nello Studio
1. Al momento dell’ingresso nello Studio di ogni associato, viene redatto un elenco
dei beni e dei rapporti contrattuali in corso a nome dell’associato che vengono
trasferiti allo Studio, in proprietà o in godimento, e di quelli che restano di
competenza esclusiva dell’associato.
2. Per i rapporti contrattuali in corso che si intendono trasferire allo studio ma che
non possono essere trasferiti immediatamente (es. affitti, assicurazioni, canoni,
abbonamenti, ecc.) i rapporti continuano in capo al nuovo associato sino al
momento in cui sarà possibile effettuare la voltura o un nuovo contratto; però tutti
gli effetti economici del rapporto stesso passano allo Studio e verranno
addebitati/accreditati tra il singolo e lo Studio.
3. Il lavoro svolto prima dell’ingresso dello studio da parte dell’associato e non
ancora fatturato viene acquisito dallo Studio.
Varianti
(1)
Viene data notizia a tutti i terzi contraenti (clienti e fornitori) dell’avvenuto
ingresso del socio nello studio.
(2)
Per i beni e i rapporti personali dei singoli soci che restano di competenza di un
singolo socio ma vengono utilizzati nello studio o per lo studio, l’utilizzo si intende
a titolo gratuito e il titolare potrà chiedere unicamente il rimborso delle relative
spese, anche di manutenzione e riparazione, conseguenti all’utilizzo del benerapporto nello studio o per lo studio.
(3)
Il lavoro svolto prima dell’ingresso dello studio da parte di un nuovo socio resta
di competenza del socio, con relativi compensi, costi e rischi.
37
2a clausola.
Articolo
a) La qualità di associato si acquista mediante cooptazione da parte degli altri e la
relativa deliberazione dovrà essere adottata con la maggioranza dei 4/5 dei voti
presenti.
b) Con la deliberazione di cooptazione sarà inoltre attribuita al nuovo associato la
quota degli utili fissi di sua spettanza che graverà proporzionalmente su tutti gli
associati.
c) L’accettazione da parte del nuovo associato della propria cooptazione e della
quota degli utili fissi attribuitagli sarà fatta constatare da apposito atto di adesione
allo Studio, il quale implicherà di per sé solo accettazione incondizionata
dell’accordo costitutivo, dello statuto e di ogni loro modifica fino a quel momento
intervenuta. Detto atto di adesione dovrà rivestire la forma della scrittura privata
autenticata.
3a clausola.
Articolo
(dello statuto proposto dal C. N. D. C. )
L’ingresso di un nuovo socio dovrà essere deliberato dall’assemblea. La delibera
relativa dovrà regolamentare la ridistribuzione ai soci della percentuale di
partecipazione agli utili.
Articolo
(del regolamento interno proposto dal C. N. D. C.)
In caso di attribuzione di una quota di utili a nuovi soci, questa verrà a decurtare
nella proporzione di cui sopra, le quote possedute dai singoli soci, salvo diversi
accordi.
In sede di costituzione o di ingresso in società di altri professionisti, i dipendenti in
38
carico ai singoli professionisti verranno liquidati e, se riassunti dalla società, sarà
loro riconosciuta l’anzianità convenzionale.
Qualora in base allo statuto esista un consiglio, occorre disciplinare chi ha il
compito e il diritto di prendere tali decisioni.
4a clausola.
Articolo
( Ammissione di nuovi Associati ). – Allo Studio possono essere ammessi nuovi
associati, mediante deliberazione unanime dell’Assemblea degli Associati anziani. Il
nuovo Associato deve accettare per iscritto la decisione di ammissione, le
condizioni della stessa, nonché lo statuto, i regolamenti e convenzioni interne dello
studio.
5a clausola
Articolo
L’ingresso nello studio di un nuovo associato, poiché determina una modificazione
del contratto sociale, è deliberato all’unanimità (1) (2) (3).
I conferimenti del nuovo associato
-
Eseguiti mediante versamento in denaro nelle casse dello studio oppure
mediante trasferimento allo studio di beni in proprietà attribuiscono al nuovo
associato la titolarità di una corrispondente quota di comproprietà del
patrimonio dello studio associato;
-
di crediti verso la clientela, indicati in apposito elenco, effettuati mediante il
trasferimento allo studio della titolarità del credito, da un lato, sono regolati
dalle norme di cui agli artt. 2255 e 1260 e ss. del c. c., con la garanzia della
solvenza del debitore ceduto, e, dall’altro, attribuiscono al nuovo associato la
titolarità di una corrispondente quota del patrimonio dello studio associato; il
credito conferito viene valutato in via provvisoria al momento dell’ingresso
dell’associato; la valutazione definitiva si ha al momento dell’incasso totale,
39
salvo contestazioni, nel qual caso sia ha al momento in cui si estingue la
controversia;
-
eseguiti e da eseguire mediante messa a disposizione dello studio del godimento
di beni, che restano di proprietà esclusiva del nuovo associato, gli attribuiscono
una percentuale degli utili, determinata alla fine di ogni esercizio in misura
corrispondente ai minori costi sostenuti dallo studio per effetto del
conferimento in godimento; i minori costi vengono assunti in base al valore
normale delle prestazioni di servizi rese in esecuzione di contratti di fare o
permettere che pongono a disposizione del committente le stesse o analoghe
utilità;
-
d’opera intellettuale gli attribuiscono una percentuale degli utili, determinata
secondo le regole vigenti per la categoria di associati alla quale si conviene che
venga assegnato.
Al momento dell’ingresso del nuovo associato nello studio i contratti d’opera
intellettuale, che il nuovo associato ha in corso di esecuzione con la propria clientela,
vengono ceduti ai sensi dell’art. 1406 e ss. del c. c. all’associazione professionale.
Del pari, i contratti cc. dd. a debito, relativi alle utenze del gas, acqua, energia
elettrica, telefoni fissi e cellulari, nonché quelli relativi alla manutenzione o alla
fornitura di materiali accessori di beni conferiti allo studio in proprietà o in
godimento, come pure quelli relativi alla conduzione in locazione dei locali adibiti a
studio professionale o in locazione finanziaria di beni e agli abbonamenti con case
editrici per libri, riviste, banche dati e simili, vengono ceduti ai sensi dell’art. 1406 e
ss. del c. c. all’associazione professionale, salvo che regole specifiche, sia pattizie
che normative, non impongano la volturazione e la nuova intestazione
all’associazione o ne vietino la cessione a terzi. In ogni caso gli effetti economici
decorrono a partire dalla data di ingresso nell’associazione professionale.
I contratti di lavoro dipendente con il personale subordinato al nuovo associato,
relativi a lavoratori che proseguono la loro attività a favore dello studio associato,
vengono trasferiti mediante passaggio diretto e immediato all’associazione
professionale con tutti gli istituti connessi (ferie, gratifiche natalizie, t. f. r., ecc.).
Gli effetti economici decorrono dalla data di ingresso nell’associazione
40
professionale. Ai fini dell’attribuzione al nuovo associato della quota di patrimonio
dell’associazione, i debiti assunti dall’associazione in solido con il nuovo associato,
sorti o maturati anteriormente all’entrata nello studio, vengono computati in
diminuzione dei conferimenti, effettuati dal nuovo associato, di beni in proprietà e
di crediti. Qualora i debiti trasferiti siano superiori ai crediti e ai beni conferiti, il
nuovo associato deve coprire la differenza in denaro. In tal caso, non avrà diritto
ad alcuna quota del patrimonio dello studio associato.
I contratti di lavoro parasubordinato ovvero di collaborazione coordinata e
continuativa, che il nuovo associato, quale committente, ha stipulato con terzi
professionisti vengono ceduti allo studio associato secondo le regole di cui all’art.
1406 e ss. del c. c., con effetti economici decorrenti a partire dalla data di ingresso
nello studio associato.
I contratti di tirocinio professionale per il superamento dell’esame di Stato di
dottore commercialista dopo l’ingresso nello studio proseguono con il nuovo
associato, il quale ne mantiene i relativi diritti, poteri, obblighi ed oneri. Del pari, i
rapporti di praticantato per l’iscrizione del registro dei revisori contabili continuano
con il nuovo associato anche dopo il suo ingresso nell’associazione professionale.
(1)
Varianti
L’ingresso nello studio di un nuovo associato, poiché determina una modificazione
del contratto sociale, è deliberato con le maggioranze prescritte per la modificazione
dei patti associativi.
(2)
L’ingresso nello studio di un nuovo associato, poiché determina una modificazione
del contratto sociale, è deliberato a maggioranza di tre quarti degli associati (
oppure quattro quinti, ecc. ).
(3)
L’ingresso nello studio di un nuovo associato, poiché determina una modificazione
del contratto sociale, è deliberato con le maggioranze previste nella ripartizione
degli utili.
nuovosocio
41
S IMONE CAVESTRO, ALESSANDRO M ICHELOTTI, PIERPAOLO VANNUCCI
L A DETERMINAZIONE DELL’UTILE PROFESSIONALE
E LA RIPARTIZIONE DELLO STESSO NELLO STUDIO ASSOCIATO.
La personalità della prestazione del professionista è sicuramente la
caratteristica fondamentale del prodotto dell’opera intellettuale ed è questa
constatazione che condiziona in modo sostanziale le valutazioni sull’utile prodotto
nello studio professionale
Questo implica che la determinazione dell’utile prodotto con l’attività
intellettuale è innanzitutto caratterizzata da una sostanziale variabilità e da una
difficile misurabilità.
Sempre più spesso si parla di professionista imprenditore: imprenditore della
conoscenza, ma pur sempre imprenditore e come tale impegnato a migliorare e ad
accrescere la propria struttura. Capitali sempre maggiori vengono impiegati per
promuovere e sostenere la crescita dello studio professionale e permettere una
competizione di mercato che richiede sempre maggiori sforzi di struttura.
La nostra operatività resta però legata alla nostra capacità intellettuale ed è su
questa che deve trovare sostanzialità.
Diventa pertanto essenziale separare e rendere indipendente la prestazione
svolta dal capitale impiegato che, per quanto rilevante, deve mantenere
caratteristiche di accessorietà ed autonomia rispetto alla prestazione stessa.
Le esemplificazioni che seguono muovono quindi dalla considerazione che il
valore assoluto della prestazione sia indipendente dal capitale investito.
42
Questa considerazione non può certo spingersi fino a considerare il capitale
un elemento totalmente estraneo alla determinazione del valore della prestazione,
ma la sua valutazione deve essere collocata in un ambito sostanzialmente autonomo
e indipendente.
Oggi il reddito del dottore commercialista è determinato, fiscalmente,
secondo il criterio di cassa che, fatte salve le eccezioni relative agli ammortamenti, al
costo del personale e a quant’altro sia specificatamente previsto dalla normativa
fiscale, viene determinato misurando la differenza tra gli incassi e i pagamenti rilevati
in un determinato periodo indipendentemente dalla maturazione economica degli
stessi.
Sicuramente questa modalità trova un limite sostanziale dal punto di vista
gestionale che si accentua nel caso di più professionisti associati. Infatti, valutando
l’utile con il criterio della “cassa” si verificano delle distorsioni nella determinazione
dello stesso in presenza di più professionisti. Il professionista che esercita
individualmente deve infatti determinare il reddito al solo fine di conteggiare le
imposte da lui dovute e, fatta salva la necessità di attuare un controllo di gestione
interno finalizzato alla valutazione delle aree di redditività dello studio, non ha la
necessità di confrontare o condividere con altri i risultati: sempre a lui ritornano i
valori che, pur maturati in un periodo, hanno manifestazione finanziaria nel periodo
successivo. Se il professionista opera all’interno di una struttura composta da più
professionisti l’utilizzo del criterio di “cassa” nella determinazione dell’utile su cui
conteggiare la quota parte di utile attribuibile ad ogni singolo professionista porta a
delle distorsioni che possono rendere iniqua la ripartizione della stessa.
A supporto di quanto detto possiamo fare un esempio numerico:
Siamo al primo anno di attività:
• Due professionisti A e B decidono di associarsi e di ripartirsi il reddito
prodotto in funzione del fatturato sviluppato in ogni esercizio;
• Entrambi i professionisti maturano 150 mila euro di valore fatturabile;
• il professionista A incassa 100 mila euro e incasserà i rimanenti 50 mila euro
nel periodo successivo per una dilazione concessa ai clienti.
43
• il professionista B incassa 50 mila euro e incasserà i rimanenti 100 mila euro
nel periodo successivo in quanto impegna struttura e collaboratori esterni in
una operazione straordinaria che, concludendosi il 2 di gennaio dell’anno
successivo si manifesterà finanziariamente in tale periodo;
•
le spese di studio ammontano a 60 mila euro (sostanzialmente imputabili in
parti uguali ai due professionisti).
Essendo quindi essendo il fatturato del primo periodo per i due
professionisti di 150 mila euro e le spese sostenute di 60 mila euro l’utile del primo
periodo è di 90 mila euro che, se ripartito secondo il fatturato incassato, sarà di 60
mila euro per il professionista A e di 30 mila euro per il professionista B.
Il secondo anno lo studio chiude e non ci sono ulteriori spese: il
professionista A e B incassano rispettivamente i 50 mila euro e i 100 mila euro che
entrambi avevano maturato.
L’utile del periodo è pertanto di 150 mila euro che, ripartito secondo il
fatturato incassato, viene attribuito per 50 mila euro al professionista A e per 100
mila euro al professionista B.
A questo punto Il totale percepito da A risulta di 110 mila euro mentre
quello percepito da B risulta di 130 mila euro evidenziando una ingiustificata
differenza tra i due professionisti che avendo maturato lo stesso fatturato e
sostenuto i costi in parti uguali avrebbero dovuto maturare tendenzialmente lo
stesso utile.
Si tratta di un esempio molto semplicistico che però si riscontra in una prassi
molto diffusa per la quale l’utile viene ripartito in base all’incassato di ogni esercizio
con riferimento molto marginale ai costi di diretta pertinenza dell’esercizio stesso.
Tali considerazioni portano ad affermare che, per determinare la consistenza
del reddito prodotto dal professionista, si deve cercare di valutare lo stesso con il
criterio della competenza economica secondo il processo di determinazione del
reddito che è proprio del reddito di impresa. Dobbiamo quindi porre la nostra
attenzione sulla competenza dei ricavi e sulla inerenza dei relativi costi. Questo
presenta per il reddito professionale alcune complicazioni tra cui la difficoltà di
44
determinare il “magazzino” dei nostri lavori in corso, ossia il valore di quelle
prestazioni che alla chiusura dell’esercizio non sono ancora concluse ma
parzialmente compiute o in via di definizione.
Prima di entrare nella valutazione delle metodologie di ripartizione dell’utile
nello studio professionale è opportuno definire meglio il ruolo svolto dal capitale
nello svolgimento dell’attività professionale e l’importanza della gestione del
fabbisogno finanziario ad esso relativo oltre che alla remunerazione dello stesso.
L’importanza degli investimenti in mezzi e strumenti comporta la necessità di
operare una distinzione tra la remunerazione del capitale investito e quella
dell’attività lavorativa apportata da ogni associato.
Non potendo trattare allo stesso modo i due tipi di remunerazione ne
consegue l‘opportunità di separare in modo netto il capitale necessario per gli
investimenti dall’attività lavorativa.
Questa separazione può essere attuata sostanzialmente
costituendo
un’apposita società di mezzi che si incarichi degli investimenti necessari, o tenendo
un’attenta e separata contabilità degli investimenti che metta in rilievo le modalità di
apporto del capitale e la sua valutazione corrispettiva.
E’ logico pensare che tali investimenti debbano essere sostenuti in parti
eguali tra i i professionisti associati per avere un maggiore equilibrio di valutazione.
Ove non fosse possibile l’investimento in parti uguali e quindi in quelle
situazioni in cui si presenta uno squilibrio di apporti da parte dei vari associati, è
opportuno mettere in atto dei meccanismi in grado di:
-
Garantire l'adeguata remunerazione per la quota di maggior capitale conferita
da uno o più associati;
-
Compensare nel tempo gli esborsi sostenuti dai singoli associati per arrivare
ad una situazione di sostanziale parità.
Non dobbiamo infatti dimenticare che l’entità del capitale investito può
costituire un ostacolo all’associazionismo. (Il professionista più giovane, infatti, pur
avendo notevoli capacità professionali ed essendo un potenziale elemento
importante nello sviluppo di una attività professionale associata, può trovare un
45
limite nel dover parificare l’investimento in termini di capitale con il professionista
più anziano che ha già una propria struttura funzionante)
In caso di nuovi ingressi, si rende necessario affrontare la problematica
relativa alla valutazione dei beni strumentali preesistenti e quindi alla determinazione
del corrispettivo d’entrata. Talora tale corrispettivo può rivelarsi così oneroso da
comportare l’impossibilità di corrisponderlo in unica soluzione.
Una alternativa potrebbe essere quella di creare una società esterna,
partecipata in modo anche diverso dai vari associati, che fornisca mezzi e spazi
strutturati per l’esercizio dell’attività professionale attraverso l’affitto o il noleggio
degli stessi, dando allo studio associato un solo valore di costo, che diventa, a questo
punto, direttamente comparabile con il valore prodotto dallo studio.
Neutralizzati gli effetti del capitale investito, anche a mezzo valutazione
separata dell’apporto del capitale, diventa più semplice focalizzare l’attenzione sulla
remunerazione del lavoro svolto da ogni singolo associato.
Come già detto l’opera intellettuale è per sua definizione personale e non
ripetibile e da ciò deriva la considerazione che, salve le valutazioni legate al
momento associativo, non tutti gli associati sono eguali ed è opportuno trovare
meccanismi che possano essere di stimolo per ogni associato e allo stesso tempo
guidare ad una valutazione omogenea. I fattori da considerare nella valutazione
dell’attività del singolo associato sono:
-
capacità di produrre fatturato e conseguentemente risultato;
-
capacità commerciale nell’acquisire nuova clientela;
-
capacità di sviluppare nuovi settori d’attività all’interno della associazione;
-
capacità di trasferire valore sul cliente;
-
marginalità prodotta sul fatturato generato e gestito;
-
esperienza e anzianità professionale;
-
capacità tecniche;
-
capacità organizzativa e di coordinamento che è poi capacità manageriale;
-
tempo dedicato all’attività lavorativa.
Tali fattori possono avere quindi una valenza esterna od interna alla struttura
e una misurabilità soggettiva.
46
La valutazione di questi fattori non potrà essere oggettivizzata e legata a
parametri numerici che la rendano assoluta. Non è possibile quindi prescindere da
una valutazione soggettiva che, pur fondata su rilevazioni precise e meccanismi
automatici, trova valore solo nell’accordo degli associati.
Un metodo di valutazione dei risultati può essere quello di affidare ad un
arbitro o ad un collegio di arbitri l’insindacabile valutazione degli stessi. Questo si
rende necessario quando la dimensione della struttura professionale è tale da rendere
inefficiente una valutazione basata su una contrattazione allargata a tutti gli associati.
Queste considerazioni portano a valutare diversi metodi per la ripartizione
del risultato professionale prodotto.
I metodi di valutazione possono essere:
- fissi
- variabili
- misti
Il metodo basato su criteri fissi prevede la valutazione, alla fine di ogni
esercizio a valere per l’esercizio successivo, di una percentuale di ripartizione che
tenga conto delle variabili sopra esposte o che si sostanzi nella attribuzione di una
percentuale originata da meccanismi diversi.
Il metodo basato su criteri variabili prevede normalmente la valutazione
consuntiva della percentuale di partecipazione al risultato tenendo conto di tutte o
parte delle variabili sopra esposte.
Il metodo basato su criteri misti prevede normalmente l’applicazione dei due
criteri precedenti al reddito prodotto che si divide percentualmente in due montanti
distinti.
Il primo metodo (percentuale secca sul reddito prodotto) trova una più facile
applicazione nell’ambito di studi associati di piccole dimensioni.
Il secondo metodo è più complesso e di più difficile applicazione in quanto
può scatenare, se non gestito in modo efficiente, livelli di elevata aggressività
competitiva all’interno dello studio associato.
47
Il terzo metodo può trovare un giusto equilibrio applicabile alla nostra realtà
professionale.
I metodi sopra elencati trovano applicazione nelle diverse tipologie di
rapporto tra gli associati e si possono ridurre a quattro grandi tipologie di
associazione.
1. A ciascuno il suo
Struttura di partecipazione alle spese secondo parametri oggettivi
mantenendo partita iva individuale. I costi saranno sostenuti o in proprio con
addebito agli altri professionisti o attraverso società di servizi/mezzi
che
riaddebitano ai singoli professionisti in funzione del consumo.
Questi parametri sono
Fatturato
Utilizzo risorse
Predeterminazione percentuale
Normalmente le determinazioni dei valori di contribuzione sono fatte sul
valore del fatturato, ovvero sul valore finanziario che a volte si discosta molto dal
reale valore economico prodotto che ha la effettiva correlazione con i costi di
esercizio.
2. Studio associato a contrattazione continua
Più professionisti svolgono la propria attività professionale con un’unica
partita iva e partecipano al risultato prodotto secondo una distribuzione percentuale
dell’utile che viene determinata alla fine di ogni esercizio a valere sull’esercizio
successivo. Possono sorgere
problemi determinati sia dalla gestione degli
investimenti sia dal fatto che i conteggi vengono effettuati sull’utile finanziario e non
su quello economico, che comunque resta di non semplice determinazione, con
rilevanti effetti distorsivi……
3. Studio associato a parametri di distribuzione a variazione
preconcor data
Più professionisti svolgono la propria attività con un’unica partita iva e
partecipano al risultato prodotto secondo una distribuzione percentuale dell’utile
48
che viene determinata su valutazioni oggettive di punteggi attribuiti ad ogni
associato. Tali punteggi hanno un incremento annuale predeterminato e possono
originare due diverse situazioni:
• Nella prima detti parametri variano in termini assoluti mediamente da
una a tre volte (ad esempio da 20 a 60 punti) e tendono a portare tutti
gli associati in un certo lasso di tempo allo stesso valore economico di
partecipazione all’utile nella considerazione che ognuno contribuisca
in egual misura allo sviluppo e al mantenimento dello studio.
•
Nella seconda si cerca di attribuire ai parametri valori oggettivi che
sommati tra di loro possano originare un rating che esprime il reale
valore economico dell’associato in relazione diretta con gli altri
4. Studio associato a parametri di distribuzione misti su base fissa e su
base premiante
La necessità di valutazioni complesse per determinare una partecipazione
all’utile, riferito ad attività intellettuali ed estremamente personali, si riconduce con
difficoltà a soli parametri oggettivi.
Bisogna allora utilizzare sia i meccanismi oggettivi del modello anglosassone,
sia valutazioni più legate all’ analisi della performance. Si deve utilizzare un sistema
premiante che, pur in una ricerca di oggettività, mantenga un certo grado di
discrezionalità volto a premiare la performance attraverso la ricerca di elementi di
valutazione della stessa.
Il risultato si divide percentualmente in due parti una che da certezza
oggettiva alla valutazione del rapporto con gli altri associati, l’altra che da spazio e
stimolo alla creatività e quindi alla soddisfazione personale, elemento indispensabile
per la motivazione della attività professionale.
Riferendosi a queste tipologie di distribuzione dell’utile professionale
analizziamo due esemplificazioni pratiche:
Un primo esempio di ripartizione del risultato professionale prodotto,
potrebbe scaturire dalla suddivisione dei fattori essenziali per la valutazione
dell’attività del singolo associato, in quattro categorie che riassumiamo qui di
seguito:
49
1. la capacità lavorativa ossia l’efficienza nell’esecuzione dei servizi
professionali;
2. l’abilità commerciale ossia l’abilità nel procacciare nuovi clienti;
3. l’anzianità associativa ovvero l’esperienza e la fedeltà all’associazione, il
contributo dato nel tempo all’immagine dello studio;
4. il contributo allo sviluppo dell’associazione, inteso quale impegno e
dedizione nello svolgimento dei compiti organizzativi interni.
Considerati tali valori, la struttura dovrà essere in grado di produrre
informazioni quantitative/qualitative e sistematiche che consentano di remunerare
in modo equo l’attività del singolo.
Si possono individuare due diverse impostazioni per l’utilizzo delle suddette
informazioni al fine della ripartizione degli utili. La prima si basa su sistemi di
misurazione in grado di quantificare l’apporto del singolo in ciascuna sfera
dell’attività nell’associazione: l’automatica applicazione del sistema di calcolo
produce così la quota di utile spettante al singolo socio.
La seconda impostazione affida ad un gruppo ristretto di soci (nominati a
rotazione) la discrezionalità di utilizzare le informazioni, sia quantitative che
qualitative, disponibili per arrivare ad un’equa ripartizione dell’utile.
Il primo valore da remunerare è la capacità lavorativa . Essa è misurata in
base alla redditività del singolo incarico, nella considerazione che la redditività dello
stesso misuri l’efficienza delle risorse impiegate e quindi la capacità organizzativa del
singolo socio.
La redditività dell’incarico viene stabilita sulla base di controllo di gestione
applicato alle singole pratiche/commesse.
La sommatoria dei margini di commessa determina la base cento, cui
rapportare percentualmente i singoli margini conseguiti da ciascun socio,
individuando così un parametro di ripartizione dell’utile.
L’abilità commerciale è un valore fondamentale per lo sviluppo del volume
d’affari e dei profitti dell’associazione e come tale merita di essere premiato
autonomamente. E’ fondamentale tarare la quota di ogni associato attraverso
50
l’attribuzione di “punti fatturato”. In proposito un esempio può essere l’attribuzione
dei seguenti punti fatturato:
5 punti per 500 Euro di fatturato relativo a servizi di contabilità e dichiarazioni
fiscali;
15 punti per 500 Euro di fatturato relativo a servizi di assistenza continuativa;
20 punti per 500 Euro di fatturato relativo a servizi di assistenza in contenzioso o in
operazioni aventi carattere straordinario.
Una volta convertito il fatturato in punti sulla base di quanto sopra, si potrà
determinare un parametro di ripartizione dell’utile.
Va precisato però che spesso non è facile individuare il soggetto che ha
acquisito il nuovo cliente: in questo caso allora si prescinderà dalla valutazione a
punti. Lo studio infatti può godere di per sé di una sua capacità d’attrazione in forza
dell’immagine che si è costruita nel tempo.
L’anzianità associativa viene determinata sulla base di “punti anzianità”
calcolati nel seguente modo:
1 punto per i primi cinque anni di anzianità professionale;
2 punti dal sesto al decimo anno;
4 punti dal decimo al venticinquesimo.
Oltre il venticinquesimo anno non è previsto un ulteriore accumulo di punti
in quanto che si presuppone che non vi possa essere una illimitata crescita di
esperienza nel tempo.
Il contributo allo sviluppo dell’associazione con particolare riferimento alle
capacità tecniche e organizzative, al controllo di gestione e allo sviluppo di nuovi
prodotti/progetti, al marketing e alla promozione dell’immagine dell’associazione
viene determinato attraverso l’analisi dell’impegno del singolo associato nello
svolgimento degli incarichi interni da lui ricoperti. La valutazione di tale contributo
deve tener conto di una serie di elementi tra i quali possono assumere rilevanza:
-
il tempo impiegato;
-
il risultato raggiunto;
51
-
lo scostamento fra i valori previsionali e quelli a consuntivo;
-
l’incremento della clientela;
-
il numero dei clienti iniziali rapportato a quello dei clienti finali. Gli elementi
così individuati rappresentano dei riferimenti oggettivi per la ripartizione
dell’utile. In proposito si possono determinare delle percentuali di
assorbimento dell’utile da definirsi sulla base dell’importanza che si ritiene
debba essere assegnata ai singoli valori.
Un esempio in proposito può essere:
valori da remunerare
% di assorbimento dell’utile
1) capacità lavorativa
35%
2) abilità commerciale
25%
3) anzianità associativa
15%
4) contributo all’associazione
25%
tot. 100%
Un secondo meccanismo potrebbe essere così esemplificato
Supponendo:
• Utile 1.000 euro
• Utile da ripartire su base fissa 60% pari a 600 euro
• Utile da ripartire su base variabile 40% pari a 400 euro
• Soci 3
Per la valutazione della base fissa di ripartizione si stabilisce un Rating (valore
puntuale per il riferimento reciproco) attribuito ai soci che può variare in un
(intervallo che va da 50 a 150 punti.
Ai tre soci nella contrattazione per l’associazione vengono attribuiti i seguenti
punteggi:
Socio A= 50
Socio B= 64
Socio C=134
La variazione del rating è stabilita nella misura fissa di 7 punti per ogni anno
di anzianità associativa di modo che in circa 14 anni anche partendo dal valore
minimo si possa arrivare tutti allo stesso valore massimo non superabile.
52
La parte di utile di 600 sarà quindi ripartita per il primo anno nel seguente
modo:
600/248*quota socio A=121=20%
B=155=26%
C=324=54%
N.B. Bisogna prendere in considerazione misure che garantiscano, nel caso di
diminuzione del reddito di esercizio, chi ha raggiunto il punteggio al limite superiore
dalla erosione del reddito.
Per quanto attiene la quota di reddito di 400 euro essa viene attribuita in base
alle performance di ogni singolo associato misurate attraverso la valutazione delle
variabili sopra indicate. La distribuzione di questa quota di reddito potrebbe
paradossalmente avere percentuali opposte a quella precedente.
Socio A=42%=168
B=38%=152
C=20%=80
La valutazione di queste percentuali implica conteggi che possono essere
molto diversi in funzione della realtà professionale che si va ad indagare. Risulta
quindi difficile proporre una esemplificazione (già in parte trattata nel primo
esempio proposto) che diventerebbe complessa e sicuramente non esaustiva. Si
ritorna in ogni modo a sottolineare come nella valutazione di queste percentuali, pur
se basate su parametri oggettivi, dovrà comunque intervenire il giudizio degli
associati o di chi da loro delegato a questa valutazione.
L’utile di 1.000 sarà quindi cosi ripartito nella somma delle percentuali che
derivano dalle precedenti considerazioni:
Socio A=289=28,9%
B=307=30,7%
C=404=40,4%
53
Dopo aver analizzato le problematiche inerenti la determinazione dell’utile
professionale, è opportuno, a questo punto, passare all’esame delle clausole per la
ripartizione degli utili.
Riportiamo qui di seguito alcuni esempi di clausole per la distribuzione degli
utili nell’ambito dell’associazione professionale.
Il problema della ripartizione degli utili fra gli associati degli studi
professionali rappresenta infatti la questione centrale da risolvere per favorire
l’aumento dimensionale degli studi.
Gli utili verranno distribuiti fra gli associati tenendo conto degli apporti
effettivamente eseguiti nel corso dell’esercizio in base ad una serie di criteri
soggettivi ed oggettivi.
Dal punto di vista legislativo l’articolo 2263 del codice civile stabilisce per le
società semplici dei criteri di ripartizione tra i soci degli utili e delle perdite che sono
applicabili alle associazioni tra professionisti sia nel caso che siano richiamate
espressamente, sia, in caso di mancato richiamo, in via analogica.
Vige, in proposito, il principio dispositivo nel senso che le regole fissate dalla
legge valgono se le parti non stabiliscono diversamente. Ciò è molto importante ai
fini del presente lavoro, in quanto da rilievo alle clausole statutarie elaborate dalla
prassi professionale.
In sintesi possiamo riportare le seguenti norme dispositive:
1. la ripartizione degli utili e delle perdite tra i soci è proporzionale ai conferimenti;
2. i conferimenti si presumono uguali;
3. gli utili spettanti al socio che ha conferito la propria opera sono determinati dal
giudice secondo equità;
4. la partecipazione agli utili fissata nel contratto sociale fa presumere la stessa
partecipazione alle perdite
54
UTILI E PERDITE - CLAUSOLE STATUTARIE
Al termine di ciascun esercizio si analizzerà nell’ambito dell’organizzazione
dello studio l’apporto di lavoro di ogni singolo associato al fine di una giusta
perequazione dell’attività svolta dai medesimi e della attribuzione delle quote di
partecipazione agli utili da deliberarsi in sede assembleare con verbale trascritto sul
libro dei verbali di assemblea redatto di comune accordo tra gli associati. Nella
stessa misura saranno supportate le eventuali perdite.
oppure
Alla chiusura di ogni esercizio sarà redatto il bilancio con il conto dei profitti
e delle perdite. Gli utili risultanti dal bilancio del primo esercizio verranno ripartiti
nella misura del ..% all’associato … e del ..% all’associato mentre del % per
l’associato …. Per gli esercizi successivi si analizzerà, nell’ambito dell’organizzazione
dello studio, l’apporto di lavoro di ciascun associato
al fine di una giusta
perequazione delle attività svolte dai medesimi e di una eventuale modifica delle
quote di partecipazione agli utili da deliberarsi in sede assembleare con verbale da
trascriversi in apposito libro. Nella stessa misura saranno sopportate le eventuali
perdite.
oppure
l diritti di partecipazione agli utili dei Soci di Capitale sono rappresentati dalle
Quote di Capitale nella seguente misure:
Il soci di capitale deliberano sin d'ora che le quote di capitale e d'utile dei soci
fondatori saranno ripartite in quote uguali.
oppure
Ai “Soci di Capitale” spetta una partecipazione agli utili netti complessivi
dell'Associazione in proporzione della Quota di Capitale detenuta. Nel caso di
ingresso di un nuovo Socio di capitale, è comunque riservata ai Soci fondatori una
quota minima di capitale e di utili pari al doppio della quota dei nuovo Socio di
capitale.
"Soci d'opera": gli associati cui spetta esclusivamente una partecipazione, in
proporzione alla Quota di Partecipazione detenuta, agli utili netti derivanti
55
esclusivamente dalla loro attività diretta; a tale fine si considererà, sulla base delle
risultanze
della
contabilità
interna
dell'Associazione,
la
remunerazione
effettivamente incassata per l'attività resa da ciascun Socio d'opera, al netto della
percentuale di incidenza dei costi rilevata nel relativo esercizio. La partecipazione
agli utili spettante a ciascun Socio d'opera sarà aumentata a discrezione
dell'assemblea tenuto conto delle remunerazioni incassate dall'Associazione da
clienti apportati dallo stesso.
oppure
L'utile, risultante dal bilancio e dal rendiconto di cassa dell'esercizio, sarà
ripartito tra gli Associati in quote differenziate corrispondenti al rispettivo
contributo in termini di redditività diretta (fatturato al netto dei costi per
collaboratori non dipendenti) , e di redditività indiretta (valorizzazione della
collaborazione su pratiche di altri Associati e del lavoro svolto all'interno) . La
valutazione della redditività diretta e di quella indiretta avverrà come segue. La
parcellazione riflette l'applicazione della tariffa professionale o l'accordo tra le parti
secondo criteri uniformi. Di regola la valorizzazione delle prestazioni deve essere
fatta da chi presta l'opera: l'insieme delle bozze di parcella e della situazione del
lavoro svolto saranno esaminati di regola collegialmente.
Gli Associati ed i collaboratori prendono nota del lavoro svolto, del tempo
dedicato a ciascuna pratica, e del tempo dedicato al lavoro interno.
L'opera prestata dagli Associati sarà valorizzata annualmente dall'assemblea,
in occasione dell'approvazione del rendiconto di cassa dell'esercizio precedente,
tenuto conto del fatturato prodotto al netto dei costi per i collaboratori non
dipendenti, delle schede di lavoro su base oraria e della valorizzazione del lavoro
interno. Gli onorari prodotti dai collaboratori vengono riferiti ed , imputati
all'Associato o agli Associati responsabili. Revisione delle quote. Le quote di
partecipazione saranno oggetto di revisione con frequenza annuale in modo da
riflettere secondo equità gli effettivi apporti anche non solamente di fatturato. La
revisione sarà effettuata in sede di approvazione del bilancio ed avrà valenza per
l'esercizio oggetto di approvazione. La revisione non comporterà necessariamente la
modifica delle quote. Sino all'approvazione del rendiconto relativo all'esercizio che si
56
chiuderà al 31 dicembre 2000, salvo diverse deliberazioni dell'Assemblea, la
partecipazione agli utili è così convenuta:
-Associati Onorari: considerato che la loro attività è discrezionalmente prestata a
favore dell'Associazione, la loro percentuale di partecipazione all'utile è fissata
inizialmente nello 0 %, salvo revisione in sede di approvazione di bilancio.
-Associati Fondatori: …(…)…
-Associati Ordinari: …(…)…
Anticipazioni ed acconti. Competono agli Associati anticipazioni mensili,
compatibilmente con le disponibilità finanziarie dell'Associazione, secondo importi
prefissati riflettenti la rispettiva quota più recente di compartecipazione all'utile. Le
anticipazioni ricevute verranno dedotte in sede di distribuzione dell'utile, ad
intervenuta chiusura dell'esercizio. Qualora gli acconti percepiti fossero superiori agli
utili spettanti, le eccedenze saranno ripetibili o compensabili con i successivi acconti.
Prestazioni gratuite. Le prestazioni gratuite saranno limitate all'inevitabile
secondo coscienza da ciascuno degli Associati.
oppure
Il Consiglio di Amministrazione predispone annualmente la bozza del
rendiconto da sottoporre all'approvazione dell' Assemblea; determina inoltre,
annualmente, in occasione dell'approvazione del rendiconto di esercizio, la
ripartizione degli utili tra gli Associati in funzione dei seguenti parametri : -capacità
professionale; -contributo all'organizzazione; -capacità commerciale; -anzianità.
oppure
In primo luogo si provvderà alla corresponsione di quanto dovuto ai Soci
d'opera; il residuo, salva diversa unanime decisione dei Soci di Capitale sarà ripartito
tra i Soci di capitale nel modo seguente: quanto al 50% sarà suddiviso tra i Soci di
capitale in proporzione delle Quote di capitale
Quanto al restante 50% sarà suddiviso tra i Soci di Capitale in proporzione
alle somme effettivamente incassate da ciascun Socio di capitale nell'esercizio.. A
tale fine si considererà, sulla base delle risultanze della contabilità interna
dell'Associazione, la remunerazione effettivamente incassata per diritti ed onorari
delle prestazioni rese da ciascun Socio di Capitale personalmente .
57
Ogni due esercizi l'Assemblea valuterà l'opportunità di modificare le Quote
di Capitale e/o di ammettere Soci d'opera tra i Soci di Capitale, in considerazione
della qualità e quantità delle prestazioni professionali di ciascun Socio nonché della
clientela eventualmente apportata all'Associazione da ciascun Socio.
Eventuali perdite di esercizio saranno ripartite tra i Soci di Capitale in
proporzione della media degli utili distribuiti agli stessi nei tre esercizi precedenti.
oppure
Eventuali conferimenti saranno effettuati dagli Associati in relazione alle
quote di partecipazione agli utili, determinate per l'ultimo esercizio.Le quote iniziali
di partecipazione agli utili sono determinate in parti uguali tra tutti gli Associati,
salvo diversa quantificazione da effettuarsi annualmente ai sensi dell'articolo
…(…)… Gli esercizi sociali si chiudono al 31 dicembre di ogni anno. Il Rendiconto
di esercizio dev'essere approvato ogni anno entro il 30 aprile. Competono agli
Associati anticipazioni mensili sulle quote di utili spettanti a fine esercizio,
compatibilmente con le disponibilità finanziarie dell'Associazione, secondo importi
prefissati riflettenti la rispettiva quota più recente di compartecipazione all'utile. Le
anticipazioni ricevute saranno dedotte in sede di distribuzione dell'utile, ad
intervenuta approvazione del rendiconto. Qualora gli acconti ricevuti fossero
superiori agli utili spettanti, le eccedenze saranno ripetibili o compensabili con i
successivi acconti.
oppure
Gli utili dello Studio, risultanti dal bilancio consuntivo di ciascun esercizio,
vengono attribuiti ai soci con le seguenti modalità:
a) il … per cento degli utili stessi è attribuito ai soci in base a percentuali
prefissate ogni anno entro il ……… dell’anno stesso;
b) l’altro … per cento degli utili in oggetto è attribuita ai soci entro il …….
di ogni anno con riferimento all’anno precedente.
Le percentuali della quota di utili, di cui al punto a), sono stabilite con le
maggioranze di cui all’art……
Le percentuali della quota di utili, di cui al punto b), sono stabilite tenuto
conto del parcellato attribuito a ciascun socio al netto del costo di praticanti,
58
collaboratori di concetto ed associati di diretta imputazione. L’attribuzione del
parcellato è effettuata semestralmente.
I criteri di attribuzione del parcellato e le modalità di calcolo del parcellato
netto sono stabilite con le maggioranze previste dal presente statuto.
oppure
Gli utili vengono attribuiti annualmente ai singoli soci in conformità al
seguente schema di ripartizione:
a) Quota fissa: consiste in un importo stabilito annualmente, entro i primi 30
giorni dell’esercizio, dall’assemblea dei soci; tale importo che può essere
differente per ciascun socio, viene corrisposto dallo Studio ai singoli soci in
12 mensilità di uguale ammontare.
La parte utile residua viene suddivisa in due parti uguali:
b) Quota variabile: viene anch’essa assegnata con deliberazione dell’assemblea dei
soci, da assumersi entro tre mesi dalla fine dell’esercizio, tenendo conto del
contributo fornito nell’esercizio da ciascun socio allo Studio, con particolare
riguardo alla Clientela apportata, alle cognizioni tecnico-scientifiche maturate,
all’impegno lavorativo profuso;
c) Quota proporzionale: è la quota di partecipazione allo Studio spettante al
singolo socio, quale risultante dall’atto costitutivo e da sue eventuali
successive modifiche, tale quota corrisponde altresì alla quota di patrimonio
di pertinenza di ciascun socio.
Acconti sulle quote di utili variabili e proporzionali possono essere distribuite
nel corso dell’esercizio, secondo deliberazione dell’assemblea, a condizione che
residuino allo studio – in seguito alla distribuzione – somme liquidi sufficienti a
coprire i costi fissi dello Studio per un periodo di almeno tre mesi.
oppure
Gli utili dello studio da attribuire ai singoli associati sono determinati in
proporzione alla redditività effettiva di ognuno di loro, nell’esercizio al quale l’utile si
riferisce; la ripartizione sarà effettuata annualmente dall’Assemblea degli Associati
anziani sulla base del fatturato professionale prodotto da ciascun Associato, al netto
della allocazione delle spese sostenute per lo svolgimento dell’attività professionale.
59
Nel corso dell’esercizio lo Studio può distribuire agli Associati acconti sugli
utili, salvo conguaglio alla fine dell’esercizio stesso, sulla base del rendiconto
approvato e delle decisioni prese. Gli acconti percentuali degli Associati in eccesso
rispetto all’utile loro spettante, devono essere restituiti subito dopo l’approvazione
del rendiconto.
oppure
Al termine di ciascun esercizio si analizzerà nell’ambito dell’organizzazione
dello Studio l’apporto di lavoro di ogni singolo associato, al fine di una giusta
perequazione dell’attività svolta dai medesimi e della attribuzione delle quote di
partecipazione agli utili da deliberarsi in sede assembleare con verbale trascritto sul
libro delle assemblee redatto di comune accordo tra gli associati. Nella stessa misura
saranno sopportate le eventuali perdite.
oppure
Gli utili risultanti dal bilancio di ciascun esercizio verranno ripartiti,
analizzando, nell’ambito della organizzazione dello studio, l’apporto di lavoro di
ciascun associato al fine di una giusta perequazione dell’attività. Le quote di
partecipazione agli utili saranno deliberate anno per anno in sede assembleare con
verbale redatto di comune accordo fra gli associati.
Nella stessa misura saranno sopportate le eventuali perdite.
oppure
Gli Utili saranno determinati su base di Cassa, secondo le vigenti norme
tributarie, ma la ripartizione di essi non sarà effettuata in favore degli Associati se
non previo accantonamento da parte dello Studio degli oneri futuri maturati nel
corso dell’esercizio e prudenziali riserve per ammortamenti e simili. Più
precisamente, a titolo esemplificativo, e fermo restando quanto precede, gli
ammortamenti saranno fatti tenendo conto della vita reale dei cespiti o, se più
prudente, delle aliquote fiscali consentite; libri, riviste e simili saranno spesati
nell’anno nel quale ne sarà fatto l’acquisto; saranno operati, a carico di ogni
esercizio, congrui accantonamenti per oneri futuri e segnatamente per liquidazione
del personale, per il pagamento dell’Indennità agli Associati e per imposte e tasse.
60
Ogni esercizio coinciderà con l’anno solare. Il primo esercizio verrà a
scadenza il 31 dicembre
. dopo la fine di ogni esercizio (di regola entro il 28
febbraio successivo) sarà formato dal Comitato Esecutivo, e sottoposto all’esame e,
successivamente, all’approvazione dell’assemblea, un bilancio con relativo conto
profitti e perdite. In tale occasione il Comitato Esecutivo fornirà i necessari
chiarimenti e formulerà eventuali raccomandazioni e suggerimenti circa la gestione
dello Studio per l’esercizio successivo.
L’Assemblea potrà formulare in tale occasione ed in qualsiasi altro momento
specifiche direttive di conduzione e politica gestionale, che saranno vincolanti per il
Comitato Esecutivo.
oppure
Entro il 31 luglio di ciascun anno, sarà formato un bilancio provvisorio
semestrale al 30 giugno dei risultati dello Studio, secondo quanto previsto
dall’articolo 10. Tale bilancio sarà consegnato agli Associati ma non necessiterà
dell’approvazione dell’Assemblea. Sulla base delle risultanze del detto bilancio
provvisorio semestrale, sarà prelevato da ciascun Associato, compatibilmente con le
disponibilità di cassa dello Studio, il 75% della quota degli utili (Fissi e Variabili) di
sua pertinenza; tale versamento sarà fatto, di regola, entro il 31 agosto.
Alla fine di ciascun mese, durante ogni esercizio, gli Associati preleveranno,
compatibilmente con le disponibilità di cassa dello Studio, a titolo di acconto sulla
quota degli Utili loro spettanti, una somma che sarà fissata ogni anno dall’assemblea
in sede di approvazione del bilancio dell’esercizio, osservandosi per ciascun
Associato un criterio di proporzionalità rispetto alla sua quota degli Utili conseguiti
nell’esercizio precedente.
Le somme prelevate da ciascun Associato saranno detratte dalla quota degli
Utili da versarsi. Nella misura in cui le dette somme dovessero eccedere la quota
degli Utili, esse saranno prontamente riversate dall’Associato allo Studio.
Approvato il bilancio di ciascun esercizio, saranno versati a ciascun Associato
pro-quota quanto prima, compatibilmente con le disponibilità di cassa dello studio,
gli Utili a lui spettanti, al netto delle detrazioni percepite.
oppure
61
Gli utili netti conseguiti dallo Studio in ciascun esercizio saranno ripartiti fra
gli Associati annualmente, secondo i criteri di cui appresso:
i) quanto al (Omissis)% (“gli Utili Variabili”), in proporzione alla redditività
effettiva di ciascun Associato nelle misure seguenti:
(Omissis)
ii) quanto al residuo % (“gli Utili Variabili”), in proporzione alla redditività
effettiva di ciascun associato.
a) Qualora un esercizio chiuda in perdita, questa sarà ripartita fra gli Associati
nelle proporzioni di cui alla lettera (a-i).
b) La redditività effettiva di ciascun Associato in ciascun esercizio sarà accertata
insindacabilmente dall’Assemblea che delibererà al riguardo entro il 31
dicembre di ciascun anno. Ai fini della detta deliberazione, rispetto alla quale
sarà ottenuta la data certa, l’Assemblea terrà conto dei risultati dell’opera
svolta da ciascun Associato durante l’esercizio in corso sulla base delle
risultanze al 30 settembre precedente, o più recenti se disponibili.
L’attribuzione delle quote di Utili Variabili di pertinenza di ciascun Associato,
deliberata dall’Assemblea come sopra, sarà valida per la ripartizione degli
Utili Variabili conseguiti nell’esercizio immediatamente successivo alla detta
deliberazione.
c) Gli utili di cui al presente saranno quelli determinati sulla base di cassa
secondo le norme tributarie che regolano la materia, ma la ripartizione
materiale di essi non sarà effettuata in favore degli Associati se non previo
accantonamento da parte dello Studio degli oneri futuri maturati nel corso
dell’esercizio e di prudenziali riserve per debiti, ammortamenti e simili.
oppure
Le quote di partecipazione agli utili o alle perdite vengono attribuiti
annualmente fra i Soci nelle seguenti proporzioni:
- al Dott.
il 50%:
- al Dott.
il 30%;
- al Rag.
il 20%.
Dette quote potranno essere modificate nel tempo in virtù sia dell’entrata di
nuovi soci sia in considerazione del diverso apporto prestato dai soci.
62
In sede di approvazione del rendiconto vengono determinati gli utili da
distribuire e quelli da riportare a nuovo, tenuto conto della situazione finanziaria e
dei programmi di sviluppo dello Studio.
Nel corso degli esercizi possono essere distribuiti acconti di utili, sulla base di
incassi dello Studio e della situazione finanziaria.
oppure
Gli utili netti prodotti dall’Associazione saranno ripartiti some segue:
- DO T T .
50%;
- DO T T .
50%.
Sulla base delle risultanze del rendiconto e dell’importo degli utili ripartiti agli
associati, compatibilmente con le disponibilità di cassa dell’Associazione, la quota di
utili sarà versata ad ogni singolo associato, di regola, entro il 31 agosto dell’anno
successivo a quello di produzione del reddito, detratti gli acconti eventualmente
prelevati dai singoli associati con le modalità disposte nel seguente punto.
Alla fine di ciascun mese, durante ogni esercizio, gli associati potranno
prelevare, compatibilmente con le disponibilità di cassa dell’Associazione, a titolo di
acconto sulla quota degli utili loro spettanti, una somma che dovrà essere
compatibile con gli utili in corso di formazione, e determinata con il consenso
unanime di tutti gli associati.
Qualora i prelievi in acconto dovessero superare gli utili effettivamente
realizzati ed imputati a ciascun associato al termine dell’esercizio successivo, e
qualora esigenze di cassa lo richiedessero, l’Associazione potrà richiederne la
restituzione.
oppure
Gli utili risultanti dal bilancio di ciascun esercizio verranno ripartiti
analizzando, nell’ambito della organizzazione dello Studio, l’apporto di lavoro di
ciascun associato al fine di una giusta perequazione dell’attività. Le quote di
partecipazione agli utili saranno deliberate anno per anno con verbale redatto sotto
forma di scrittura privata ai sensi art. 5 comma 2 del TUIR, con il consenso
unanime degli associati. Tale scrittura potrà essere redatta fino al momento di
63
presentazione della dichiarazione dei redditi dell’associazione ai sensi dell’art. 5
comma 3 lettera c) del TUIR.
Al dottor ………………, in quanto fondatore dello Studio, spetta una quota
pari ad almeno il 51% degli utili.
Nella stessa misura saranno sopportate le eventuali perdite.
oppure
Il reddito dello STUDIO viene annualmente attribuito agli associati con il
seguente criterio:
q
Individuazione di una quota fissa da attribuire in funzione dei singoli rating;
q
Individuazione di una quota variabile la cui determinazione è demandata ad una
persona nominata dal Consiglio
Le modalità calcolo del reddito e la individuazione della quota fissa e della
quota variabile, così come i singoli rating, sono stabiliti nel Regolamento Attuativo.
oppure
Gli utili risultanti dal bilancio del primo esercizio verranno ripartiti nella
misura del 75% all’associato
e del 25% all’associato
.
Per gli esercizi successivi si analizzerà, nell’ambito della organizzazione dello
studio, l’apporto di lavoro di ciascun associato al fine di una giusta perequazione
dell’attività svolta dai medesimi e di una eventuale modifica delle quote di
partecipazione agli utili da deliberarsi in sede assembleare con verbale trascritto sul
libro delle assemblee, redatto di comune accordo fra gli associati.
Nella stessa misura saranno sopportate le eventuali perdite.
oppure
Gli utili verranno ripartiti tra gli associati, tenendo conto dei conferimenti
effettivamente eseguiti nel corso dell’esercizio in base ai criteri sotto indicati.
Per i conferimenti in proprietà di denaro o di beni in natura, si tiene conto
del capitale effettivamente conferito, sia che si tratti di denaro versato nelle casse
dell’associazione, sia che si tratti di beni in natura, conferiti in proprietà, materiali o
immateriali, immobili o mobili, registrati o non.
64
Per i conferimenti in godimento di beni in natura, si tiene conto delle utilità
effettivamente poste a disposizione dell’associazione da parte degli associati che
hanno conferito in godimento i beni.
Per i conferimenti d’opera intellettuale, si tiene conto
-
del lavoro o dell’opera intellettuale effettivamente prestati, quale tempo lavorato,
anche in relazione all’anzianità professionale;
-
delle performances e dei risultati ottenuti, quali fatturato individuale, redditività su
pratica, anzianità associativa, abilità commerciale.
I conferimenti in proprietà o in godimento sono remunerati in base ad una
percentuale pari al a % dell’utile. La quota di utile, determinata in base alla
percentuale a, non dovrà superare la somma risultante dall’applicazione del saggio di
interesse annuo pari al prime rate ABI, maggiorato di due punti percentuali, al valore
venale dei beni, concordato con tutti gli associati. In tale caso la percentuale va
arrotondata all’unita e la minore percentuale attribuita rispetto ad a, verrà attribuita a
b.
I conferimenti d’opera intellettuale sono remunerati
n in proporzione alla quantità e qualità del tempo lavorato, anche tenendo conto
dell’anzianità professionale di iscrizione all’albo, calcolata in misura pari al b %
dell’utile
-
per gli associati fondatori dottori commercialisti
@%
-
per gli associati partner dottori commercialisti
k%
-
per gli associati senior manager dottori commercialisti
J%
-
per gli associati manager dottori commercialisti
w%
-
per gli associati seniores dottori commercialisti
z%
-
per gli associati iuniores dottori commercialisti
y%
-
per gli associati iuniores praticanti dottori commercialisti
x%
dove @ + k +j +w + z + y + x = b e @ > k > j > w > z > y > x
n in base ai risultati e alle performances ottenute in misura pari al c % dell’utile. I
risultati e le performances sono determinate con un sistema di punteggi o pesi,
disciplinato da un apposito regolamento da approvare all’unanimità, ancorato ai
seguenti parametri
65
-
fatturato individuale
-
redditività per pratica
-
anzianità associativa
-
abilità commerciale
-
altri criteri da determinarsi all’unanimità.
Per il primo esercizio - e comunque fino a quando non sarà approvato il
regolamento delle performances - si conviene che gli associati fondatori, su proposta
degli amministratori, deliberino - a loro insindacabile giudizio - la determinazione
della remunerazione degli associati commisurata alle performances ed ai risultati
ottenuti. In mancanza di diversa determinazione da parte degli associati fondatori, la
ripartizione della quota di utile pari al c% tra gli associati per il primo esercizio
avverrà in base ad un concorso percentuale nelle stesse misure indicate per la
ripartizione della quota di b.
La somma delle percentuali a + b + c è uguale a 100.
Gli associati possono percepire degli acconti sull’utile in corso di
maturazione, compatibilmente alle disponibilità finanziarie dell’associazione, valutate
da parte degli amministratori, salvo conguaglio finale da effettuarsi in sede di
ripartizione definitiva dell’utile di esercizio.
oppure
Gli utili verranno ripartiti tra gli associati, tenendo conto dei conferimenti
effettivamente eseguiti nel corso dell’esercizio in base ai criteri sotto indicati.
Per i conferimenti in proprietà di denaro o di beni in natura, si tiene conto
del capitale effettivamente conferito, sia che si tratti di denaro versato nelle casse
dell’associazione, sia che si tratti di beni in natura, conferiti in proprietà, materiali o
immateriali, immobili o mobili, registrati o non.
Per i conferimenti in godimento di beni in natura, si tiene conto delle utilità
effettivamente poste a disposizione dell’associazione da parte degli associati che
hanno conferito in godimento i beni.
Per i conferimenti d’opera intellettuale, si tiene conto
66
-
del lavoro o dell’opera intellettuale effettivamente prestati, quale tempo lavorato,
anche in relazione all’anzianità professionale;
-
delle performances e dei risultati ottenuti, quali fatturato individuale, redditività su
pratica, anzianità associativa, abilità commerciale.
I conferimenti in proprietà o in godimento sono remunerati in base al valore
venale dei beni, concordato con tutti gli associati, al saggio di interesse annuo pari al
prime rate ABI, maggiorato di due punti percentuali.
I conferimenti d’opera intellettuale sono remunerati
n in proporzione alla quantità e qualità del tempo lavorato
-
per gli associati fondatori dottori commercialisti
lire/mese o lire/ora
-
per gli associati partner dottori commercialisti
lire/mese o lire/ora
-
per gli associati senior manager dottori commercialisti
lire/mese o lire/ora
-
per gli associati manager dottori commercialisti
lire/mese o lire/ora
-
per gli associati seniores dottori commercialisti
lire/mese o lire/ora
-
per gli associati iuniores dottori commercialisti
lire/mese o lire/ora
-
per gli associati iuniores praticanti dottori commercialisti
lire/mese o lire/ora
n in base ai risultati e alle performances ottenute, determinate con un sistema di
punteggi o pesi, disciplinato da un apposito regolamento da approvare
all’unanimità, ancorato ai seguenti parametri
-
fatturato individuale
-
redditività per pratica
-
anzianità associativa
-
abilità commerciale
-
altri criteri da determinarsi all’unanimità.
Per il primo esercizio - e comunque fino a quando non sarà approvato il
regolamento delle performances - si conviene che gli associati fondatori, su proposta
degli amministratori, deliberino - a loro insindacabile giudizio - la determinazione
della remunerazione degli associati commisurata alle performances ed ai risultati
ottenuti.
La distribuzione dell’utile d’esercizio avverrà nel seguente ordine:
67
in primo luogo, verranno remunerati i conferimenti in proprietà o in
godimento;
in secondo luogo, sul residuo utile verranno prelevate le somme destinate a
remunerare i conferimenti d’opera intellettuale per tempo lavorato;
in terzo luogo, sull’ulteriore residuo utile verranno prelevate le somme
destinate a remunerare i conferimenti d’opera intellettuale per i risultati e le
performances ottenuti.
Gli associati possono percepire degli acconti sull’utile in corso di
maturazione, compatibilmente alle disponibilità finanziarie dell’associazione, valutate
da parte degli amministratori, salvo conguaglio finale da effettuarsi in sede di
ripartizione definitiva dell’utile di esercizio
Ai fini delle deliberazioni dell’assemblea degli associati, le percentuali di
partecipazione agli utili e alle perdite sono convenute come segue:
-
per gli associati fondatori dottori commercialisti
a%
-
per gli associati partner dottori commercialisti
b%
-
per gli associati senior manager dottori commercialisti
c%
-
per gli associati manager dottori commercialisti
d%
-
per gli associati seniores dottori commercialisti
e%
-
per gli associati iuniores dottori commercialisti
f%
-
per gli associati iuniores praticanti dottori commercialisti
g%
68
GIANPAOLO VALENTE - GIANNI BALLARANI – GIAMPAOLO FREZZA
L O SCIOGLIMENTO DELLA SOCIETÀ DI PROFESSIONISTI
1. Introduzione
Con l’emanazione della l. 7 agosto 1997, n. 226 (cd. legge Bersani), da un lato, è stato
abrogato, dall’art. 24 della medesima, l’art. 2 della legge 23 novembre 1939, n. 1815 che
stabiliva il divieto di costituzione di professionisti in società e, dall’altro, è stata attribuita al
Ministero della Giustizia, di concerto con altri ministeri, la competenza relativa
all’emanazione di un decreto in materia di requisiti per l’esercizio dell’attività professionale
in forma societaria.
Ancorché, a tutt’oggi, sia mancata l’emanazione del decreto interministeriale, e ciò abbia di fatto - lasciato aperto il problema circa l’ammissibilità delle società professionali
nell’ordinamento giuridico italiano, un recente orientamento giurisprudenziale ha ammesso
che, nelle more dell’emanazione del regolamento sull’indicazione dei requisiti necessari per
poter esercitare l’attività professionale in forma societaria, può essere iscritta nel registro
delle imprese la società di professionisti costituita in forma di società di persone e, in modo
specifico, nella forma di società semplice, restando, così, garantita la responsabilità illimitata
dei soci.
Nell’ambito delle società di professionisti (ancorché organizzate secondo il tipo delle
società di persone), là dove il carattere personale della prestazione e - più in particolare -la
persona e le capacità del professionista rappresentano elementi essenziali dell’intera vicenda
69
societaria1, è necessario verificare se la disciplina giuridica relativa allo scioglimento della
società di persone e allo scioglimento del rapporto societario limitatamente ad un socio
possano trovare piena applicazione.
Il principio fondamentale che permea lo scioglimento è quello della continuazione e della
conservazione dell’ente 2; la disciplina giuridica relativa allo scioglimento del contratto
plurilaterale trova, infatti, in materia di società di persone, una deroga a vantaggio della
conservazione dei valori produttivi già costituiti.
In tal senso, il venir meno di uno o più soci, pur determinando la necessaria ridefinizione
dei rapporti patrimoniali, non comporta lo scioglimento della società, rimettendo, la norma,
tale decisione alla volontà dei soci superstiti. Infatti, l’art. 2272, n. 4, c.c., accorda, ai soci
superstiti, sei mesi di tempo per ricostituire la pluralità di soci, scaduti inefficacemente i
quali la società si scioglierà.
Tale norma concretamente potrebbe non trovare piena applicazione nell’ambito di una
società professionale, ovvero potrebbe subire deroghe statutarie, ove le capacità
professionali dei soci, i requisiti di onorabilità e eticità degli stessi rappresentano valori e
requisiti non propriamente fungibili.
Ciò premesso, occorre analizzare, da un lato, lo scioglimento del rapporto societario
limitatamente ad un socio e, dall’altro, lo scioglimento della società.
2. Scioglimento del rapporto societario limitatamente ad un socio
Lo scioglimento del rapporto sociale limitatamente ad un socio3 si ha, come è noto, per
morte, recesso ed esclusione.
1
Per un’ampia disamina sul carattere personale della prestazione del professionista cfr. G. G IACOBBE,
voce: Professioni intellettuali, in Enc. Dir., XXXVI, Giuffré, 1987, 1165 e ss.
2
Sul punto, vedi diffusamente G.F. CAMPOBASSO, Diritto commerciale - 2: Diritto delle società,
UTET, 2002, 117 e ss., il quale sottolinea come “il venir meno di uno o più soci non determina in
alcun caso lo scioglimento della società”, salva la decisione in tal senso dei soci superstiti,
comportando esclusivamente la ridefinizione dei rapporti patrimoniali con riferimento alla
liquidazione della quota sociale. Cfr. anche G. COTTINO, Diritto commerciale, vol. I, tomo II,
CEDAM, 1994, 239 e ss.
3
Si veda, in generale, T. A ULETTA, Clausole di continuazione della società con l’erede del socio
personalmente responsabile, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1951, 885; G. IUDICA, Clausole di
continuazione della società con gli eredi dell’accomandatario, in Riv. dir. civ., 1960, II, 61, ss; G.
BOLLINO, Le clausole di esclusione del socio nelle società di persone e nelle cooperative, in Riv. dir.
comm., 1992, I, 537; R. W EIGMANN, Il procedimento di esclusione del socio nelle società di persone:
70
(1) Morte
Ai sensi dell’art. 2284, c.c., salva contraria disposizione del contratto sociale, in caso di
morte di uno dei soci, gli altri devono liquidare la quota agli eredi, a meno che preferiscano
sciogliere la società ovvero continuarla con gli eredi stessi e questi vi acconsentano.
Tale norma va letta in combinato disposto con l’art. 2289 c.c., in riferimento alla
liquidazione della quota del socio uscente.
La norma di cui all’art. 2284 c.c. offre, dunque, ai soci superstiti, due alternative, ossia essi
possono decidere lo scioglimento anticipato della società, ovvero la continuazione della
società con gli eredi del defunto. Per il primo caso, gli eredi del defunto dovranno attendere
il termine delle operazioni di liquidazione per ottenere la liquidazione della quota; nel
secondo caso, essi, a fronte del consenso di tutti i soci superstiti al subingresso, saranno
tenuti a prestare il loro consenso4.
Data la previsione del termine di sei mesi, tanto per la continuazione della società, quanto
per lo scioglimento anticipato, si presume che, entro tale periodo, i soci superstiti abbiano
piena facoltà di svolgere l’attività sociale, ancorché vada rilevata l’opinione, per altro non
pienamente condivisibile dato il contrasto con il dato normativo, di chi sostiene come lo
svolgimento di attività possa essere ricondotto ad una implicita manifestazione di
prosecuzione della società da parte dei soci superstiti, e ciò non consentirebbe loro di
decidere lo scioglimento nei sei mesi 5.
Di fondamentale rilevanza ai fini della presente indagine, è la prevista derogabilità, a
disponibilità delle parti al momento della formulazione del contratto sociale, della norma di
cui all’art. 2284, là dove essa, facendo salva la contraria disposizione del contratto sociale in
ordine agli effetti della morte di un socio, rimette ai soci stessi la facoltà di determinare detti
profili di incostituzionalità, in Giur. comm., 1996, I, 539 ss. Ampi riferimenti in O. CAGNASSO, La
società semplice, in Trattato di diritto civile e commerciale, diretto da R. Sacco, UTET, 1998, 201 e
ss. e in F. G ALGANO, Società in genere, società di persone, in Trattato di diritto civile e
commerciale, diretto da Cicu e Messineo, XXVIII, Giuffré, 1982, 321 e ss.
4
Consenso che, secondo la dottrina dominante, si può ritener prestato anche per facta concludentia;
per tutti vedi G. F. CAMPOBASSO, Diritto commerciale - 2: diritto delle società, UTET, 2002, 118, il
quale sottolinea la consolidata opinione dottrinale secondo la quale la società può continuare anche
solo con alcuni degli eredi “per la parte di quota loro spettante e salvo l’obbligo della società di
liquidare agli eredi che non intendono aderire la loro parte di quota”. Questo aspetto deve essere
tenuto in debita considerazione per il caso di morte di un socio di società tra professionisti.
5
In tal senso ha avuto modo di esprimersi Cass. 16.2.1981, n. 936, in Giur. comm., 1983, II, 49;
contra, in dottrina, Campobasso, Diritto commerciale - 2: diritto delle società, UTET, 2002, 119.
71
effetti attraverso la predisposizione di apposite clausole. In tal senso, può essere prevista
una clausola di continuazione della società con gli eredi, attraverso la quale i soci si precludono
la possibilità di liquidare la quota o di sciogliere la società6, ovvero una clausola di
consolidazione, che preveda l’acquisto della quota del socio defunto da parte dei superstiti e la
liquidazione del valore della quota agli eredi, andando con ciò a rafforzarsi il carattere
intuitus personae della società7. In ordine a quest’ultima possibilità, chiara è l’utilità a fronte di
una società di professionisti, così come può apparire ovvia la previsione statutaria che limiti
il subingresso ai soli eredi aventi le medesime qualificazioni professionali del socio defunto
e che preveda in via subordinata la ripartizione della quota del defunto tra i soci superstiti.
Secondo la più recente giurisprudenza, lo scioglimento del rapporto particolare del socio
defunto si verifica alla data del decesso, mentre gli eredi acquistano contestualmente il
diritto alla liquidazione della quota secondo i criteri fissati dall’art. 2289 c.c., cioè un diritto
di credito ad un somma di danaro, che rappresenti il valore della quota del socio defunto
alla situazione patrimoniale della società nel giorno in cui si è verificato lo scioglimento.
Così come ampiamente argomentato, tanto in dottrina quanto in giurisprudenza, il debito
relativo alla liquidazione della quota è un debito della società e non dei soci ed è, inoltre,
qualificabile come debito di valuta, in quanto, se si definisse come debito di valore, il socio
6
In detta situazione la dottrina dominante distingue a seconda che la clausola in questione sia
vincolante per i soli soci superstiti, lasciando libertà di scelta agli eredi (clausola di continuazione
facoltativa), ovvero che la clausola obblighi gli eredi ad entrare in società (clausola di continuazione
obbligatoria), ovvero ancora che preveda il subingresso automatico per effetto dell’accettazione della
eredità (clausola di successione). Così, F. G ALGANO, Società in genere, società di persone, in
Trattato di diritto civile e commerciale, diretto da Cicu e Messineo, XXVIII, Giuffré, 1982, 322 e ss.;
G. COTTINO, Diritto commerciale, vol. I, tomo II, CEDAM, 1994, 239 e ss.; G.F. CAMPOBASSO,
Diritto commerciale - 2: diritto delle società, UTET, 2002, 120, i quali ne sostengono la validità
(ancorché taluni con qualche riserva), così come anche la costante giurisprudenza: da ultimo cfr.
Cass. 18.12.1995, n. 12906, in Giur. it., 1996, I, 1, 1356. Negano, altresì, validità alle ultime due
clausole previste, ed in particolare all’ultima per il presunto contrasto con il divieto dei patti
successori e con i principi sull’accettazione di eredità con beneficio di inventario - dato che il socio
subentrato sarà chiamato a rispondere illimitatamente dei debiti sociali anteriori all’acquisto della
qualità di socio -, A ULETTA, Clausole di continuazione della società con l’erede del socio
personalmente responsabile, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1951, 885 e ss, e SPADA, Problemi attuali
delle società di persone, CEDAM, 1989, 73 e ss., ove ampi riferimenti in dottrina e giurisprudenza.
7
In tal senso cfr. F. G AZZONI, Manuale di diritto privato, ESI, 2000, 1389.
72
uscente o gli eredi del socio defunto correrebbero il rischio incidente sul valore dei beni
sociali anche dopo lo scioglimento del rapporto 8.
La cessazione della qualità di socio conseguente alla morte non comporta, allora, il
trasferimento diretto di tale qualità in capo agli eredi, ma determina la trasformazione ope
legis della quota in una somma pecuniaria, di cui diviene debitrice la società stessa.
A ben vedere, tuttavia, le norme in esame ammettono tre possibili soluzioni applicative,
conseguenti alla morte del socio:
1. la liquidazione della quota del socio defunto e la continuazione del rapporto
contrattuale fra i soci superstiti;
2. la liquidazione della quota del socio defunto e lo scioglimento della società;
3. la continuazione del rapporto societario con gli eredi del socio defunto.
Occorre specificare che l’ambito di applicabilità della regola troverà talune limitazioni, in
materia di società di professionisti, dal momento che, come sopra accennato, l’ingresso del
nuovo socio in società è subordinato alla presenza del requisito della professionalità ed
onorabilità propri del tipo di attività svolta.
Il contratto sociale potrà allora contenere specificazioni in tal senso.
(2) Recesso
In base all’art. 2285, c.c., il recesso del socio della società contratta a tempo determinato o
per tutta la vita dei soci (ovvero lo scioglimento del rapporto sociale per volontà del socio)
deve essere comunicato agli altri con un preavviso di almeno tre mesi e diventa produttivo
di effetti solo decorso detto termine.
8
In tal senso vedi A SCARELLI, Scritti giuridici sulla moneta, Giuffré, 1957, 147; F. G ALGANO, Società
in genere, società di persone, in Trattato di diritto civile e commerciale, diretto da Cicu e Messineo,
XXVIII, Giuffré, 1982, 343 e ss. In giurisprudenza, cfr., da ultimo, Cass. 10.6.1999, n. 5732, in
Giust. civ., 1999, 2949, ove è specificato che: in caso di scioglimento del rapporto sociale nei
confronti di un solo socio nelle società di persone il diritto alla liquidazione della quota, previsto
dall’art. 2289 c.c., avendo fin dall’origine ad oggetto una somma di danaro, è un credito di valuta ed
è soggetto, quindi, al principio nominalistico. Tuttavia, dato che la ricorrente lamentava la violazione
e falsa applicazione degli artt. 2289, 1277 e 1224 c.c. nella rivalutazione operata dal giudice della
quota del socio uscente, il S.C. ha rilevato, in riferimento al maggior danno, di cui all’art. 1224 c.c.,
che la svalutazione monetaria assume rilevanza quando, non essendo avvenuto l’adempimento entro
il termine di sei mesi previsto dall’ultimo comma dell’art. 2289 c.c., diventino applicabili i principi
sul risarcimento del danno conseguente alla mora del debitore.
73
Secondo la costante giurisprudenza, la dichiarazione di recesso, ancorché non soggetta a
particolari forme9, in quanto atto unilaterale recettizio, deve essere portata a conoscenza di
tutti i soci10 e può essere effettuata an che mediante domanda giudiziale11.
Il socio può altresì recedere nei casi previsti nel contratto sociale ovvero quando sussiste
una giusta causa.
In tale ambito valgono, anche per le società di professionisti, i principi elaborati dalla
giurisprudenza e dal la dottrina, soprattutto per quanto riguarda la “giusta causa” di recesso;
si ha giusta causa quando viene ad incrinarsi la reciproca fiducia tra i soci a seguito di un
illegittimo comportamento 12, informato alla violazione di obblighi contrattuali e di
correttezza. Può aversi recesso anche a seguito di dissidio insanabile, ovvero di
cambiamento dell’oggetto sociale13, ancorché dette ipotesi di recesso, si presume, debbano
9
10
Cfr., in tal senso, Trib. Torino, 9.2.1978, in Giur comm., 1979, II, 98.
Vedi, Cass. 10.6.1999, n. 5732, in Giust. civ., 1999, 2951; Trib. Pavia, 19.4.1991, in Giust. civ.,
1991, I, 1821.
11
La dottrina prevalente tende a contestare l’opinione di chi (G ALGANO, op. cit., 325) sostiene che il
recesso debba essere esercitato mediante domanda giudiziale; così, per tutti, vedi G.F. CAMPOBASSO,
Diritto commerciale - 2: diritto delle società, UTET, 2002, 121. Sulla dichiarazione di recesso
compiuta attraverso domanda giudiziale, ha avuto modo di esprimersi Cass. 10.6.1999, n. 5732, in
Giust. civ., 1999, 2949 e ss., ove è specificato che quando la dichiarazione di recesso da una società
di persone sia contenuta nell’atto di citazione con cui si è instaurata la lite tendente alla liquidazione
della quota sociale appartenente al recedente, bisogna tener distinte le due autonome funzioni che
svolge l’atto: una avente natura sostanziale di dichiarazione recettizia della volontà di recedere per
una determinata causa; un’altra di natura processuale, tendente all’instaurazione della lite; la
sentenza afferma anche che la dichiarazione può essere effettuata, tanto con atto reso in via
giudiziale, quanto con atto stragiudiziale, e ciò ha rilevanza in quanto, anche una citazione
eventualmente nulla, ma ritualmente notificata alle controparti, ha comunque il valore dichiarativo
voluto e gli eventuali effetti del recesso decorrono pur sempre dalla data della notificazione.
12
Sul punto vedi O. CAGNASSO, La società semplice, in Trattato di diritto civile e commerciale, diretto
da R. SACCO, UTET, 1998, 242. Secondo l’interpretazione costante del S.C., ripresa da ultimo anche
in Cass. 10.6.1999, n. 5732, in Giust. civ., 1999, 2951, nella società semplice, la giusta causa di
recesso va comunemente ricondotta alla violazione di obblighi contrattuali e di fedeltà, di diligenza e
di correttezza, incidenti sulla natura fiduciaria del rapporto. Ancorché si debba ricordare come
l’avveramento della “giusta causa” di recesso non è sufficiente, di per solo, a far venir meno
(automaticamente) il vincolo associativo, ma occorre che il socio dichiari agli altri soci la sua
volontà di recedere, mediante un atto recettizio, a forma libera, che (come precedentemente detto)
può essere reso sia in via giudiziale, sia stragiudiziale.
13
Riguardo a queste ultime due “giuste cause” cfr. G HISIGLIERI, in Nuova giur. civ. comm., 1994, II,
123.
74
intendersi convenzionali , e, dunque, debbano essere previste e disciplinate nelle modal ità di
esercizio nel contratto sociale14.
(3) Esclusione
L’esclusione di un socio contemplata negli artt. 2286 e ss., c.c., può essere di diritto e
facoltativa.
L’esclusione de iure, disciplinata all’art. 2288 c.c., riguarda l’ipotesi di fallimento del socio e
quella di un socio il cui creditore particolare abbia ottenuto la liquidazione della quota15. Per
il primo caso, l’esclusione consegue direttamente alla dichiarazione di fallimento ed opera
dal giorno stesso della medesima, mentre, per il secondo caso, l’esclusione opera dal giorno
in cui la quota sia stata effettivamente liquidata, con la conseguenza che sino ad allora il
socio escludendo socio ancora è, e dunque, ha facoltà di partecipare alle attività sociali e di
“tacitare il creditore particolare impedendo la sua esclusione”16.
L’esclusione facoltativa17, disciplinata all’art. 2286 c.c., si ha per gravi inadempienze degli
obblighi derivanti dalla legge e dal contratto sociale, come ad esempio la violazione del
divieto di concorrenza, la mancata esecuzione dei conferimenti promessi, il sistematico
comportamento ostruzionistico, ecc.18; per interdizione ed inabilitazione del socio; per
condanna del socio ad una pena che comporti l’interdizione, anche temporanea, dai
pubblici uffici; per la sopravvenuta inidoneità a svolgere l’opera conferita; ed infine, per i
14
In tal senso, vedi G.F. CAMPOBASSO, Diritto commerciale - 2: Diritto delle società, UTET, 2002,
121.
15
Parte della dottrina rileva come debba essere considerato improprio parlare di esclusione di diritto,
dato che nei casi indicati nell’art. 2288 c.c. lo scioglimento del rapporto sociale relativo ad un socio
si determina in modo automatico, senza necessità di una deliberazione dei soci e senza possibilità,
per i soci, di impedire lo scioglimento; così, F. G ALGANO, Società in genere, società di persone, in
Trattato di diritto civile e commerciale, diretto da Cicu e Messineo, XXVIII, Giuffré, 1982, 333.
16
17
Così, G.F. CAMPOBASSO, Diritto commerciale - 2: diritto delle società, UTET, 2002, 122.
Detto tipo di esclusione non integra una ipotesi di risoluzione per inadempimento, così come
ampiamente espresso in Cass. 1995, n. 12487 e come sottolineato in dottrina da F. GAZZONI,
Manuale di diritto privato, ESI, 2000, 1389; per una disamina del problema cfr. F. GALGANO,
Società in genere, società di persone, in Trattato di diritto civile e commerciale, diretto da Cicu e
Messineo, XXVIII, Giuffré, 1982, 333 e ss.
18
Per una disamina accurata cfr. O. CAGNASSO, La società semplice, in Trattato di diritto civile e
commerciale, diretto da R. Sacco, UTET, 1998, 245 e ss; F. G ALGANO, Società in genere, società di
persone, in Trattato di diritto civile e commerciale, diretto da Cicu e Messineo, XXVIII, Giuffré,
1982, 327 e ss.
75
casi di sopravvenuta impossibilità di esecuzione del conferimento per causa non imputabile
al socio.
L’art. 2287, c.c., regola il procedimento di esclusione del socio, disponendo che l’esclusione
debba essere deliberata dalla maggioranza dei soci, non computandosi il socio da escludere,
ed ha effetto dopo trenta giorni dall’avvenuta comunicazione all’escluso19. Entro detto
termine l’escluso può fare opposizione innanzi al tribunale.
Le norme potranno tr ovare applicazione anche per le società personali di professionisti.
Per quanto riguarda il procedimento di liquidazione delle quote sociali, si rimanda a quanto
argomentato a proposito della morte del socio.
3. La liquidazione della quota
In ordine al la liquidazione della quota spettante al socio per il caso in cui il rapporto sociale
si sciolga limitatamente ad esso, ai sensi dell’art. 2289, co. 1, c.c., il socio o i suoi eredi
hanno diritto soltanto ad una somma di danaro che rappresenti il valore della quota, con la
conseguente impossibilità per il socio o gli eredi di pretendere la restituzione dei beni
conferiti in proprietà, ovvero in godimento, fino allo scioglimento della società, salva
diversa pattuizione.
Con riferimento al caso in cui la quota del socio recedente sia costituita dall’avvenuto
conferimento di un bene in godimento alla società, si discute, tanto in dottrina quanto in
giurisprudenza, se detto bene costituente la quota debba, o meno, essere restituito al socio
recedente 20.
In base al disposto di cui all’art. 2289, co. 2, c.c., il valore della quota deve essere
determinato in base alla situazione patrimoniale della società nel giorno in cui si verifica lo
scioglimento e tenendo in considerazione, così come previsto al co. 3 del medesimo
articolo, delle operazioni in corso.
19
La dottrina prevalente ritiene che la deliberazione debba essere motivata, mentre si discute se tale
deliberazione debba essere adottata nel rispetto del metodo assembleare. Sul punto vedi G.F.
CAMPOBASSO, Diritto commerciale - 2: diritto delle società, UTET, 2002, 123.
20
Sulla derogabilità del disposto di cui al I comma dell’art. 2289 c.c., cfr. F. GALGANO, Società in
genere, società di persone, in Trattato di diritto civile e commerciale, diretto da Cicu e Messineo,
XXVIII, Giuffré, 1982, 327 e ss.; G FERRI, Società, in Comm. Scialoja Branca, Zanichelli, 1981, art.
2289 c.c., 344 e ss. In giurisprudenza, nel senso della restituzione si è espressa Cass. 8.7.1953, n.
2171, mentre in senso contrario, vedi Cass. 17.11.1984, n. 5853, in Giur. comm. 1985, II, 756.
76
L’art. 2289, co. 4, c.c., facendo salve le disposizioni di cui all’art. 2270 c.c. con riguardo allo
scioglimento su richiesta del creditore particolare del socio, stabilisce il termine, entro cui
effettuare il pagam ento della quota spettante al socio, nei sei mesi dal giorno in cui si
verifica lo scioglimento del rapporto.
4. Scioglimento della società
In base all’art. 2272, c.c., sono cause di scioglimento della società21 che comportano lo
scioglimento automatico della società (di diritto) per il semplice fatto si sono verificate:
1. il decorso del termine previsto nell’atto costitutivo, salvo proroga espressa o tacita
(prosecuzione dell’attività);
2. il conseguimento dell’oggetto sociale o la sopravvenuta impossibilità a
conseguirlo 22;
3. la volontà di tutti i soci, salva la previsione, nell’atto costitutivo, che lo scioglimento
anticipato possa essere deliberato a maggioranza;
4. la mancanza della pluralità dei soci, se nel termine di sei mesi questa non è
riconosciuta23;
5. le altre cause previste dal contratto sociale24.
21
22
Si veda, in generale, G. D E FERRA, La proroga delle società commerciali, Milano, 1957, passim.
Fra i motivi “interni” che comportano l’impossibilità di conseguire l’oggetto sociale, frequente è il
dissidio insanabile tra i soci; sul punto vedi Cass. 1987, n. 134, in Giust. civ., 1987, I, 843 e Cass.
1996, n. 6410.
23
Per il caso in cui, decorsi i sei mesi, il socio superstite non dia inizio al procedimento di liquidazione,
si pone il problema di qualificare giuridicamente detta situazione: secondo parte della dottrina e della
giurisprudenza, si prospetta la possibilità che la società continui a tempo indeterminato con un solo
socio; sul punto vedi G.F. CAMPOBASSO, Diritto commerciale - 2: Diritto delle società, UTET, 2002,
127; G. COTTINO, Le società, 164 e ss.; Cass. 6.2.1984, n. 907, in Giur. comm., 1984, II, 240; Cass.
9.3.1996, n. 1876, in Foro it., 1996, I, 2070; Cass. 8.8.1990, n. 8001, in Giur. comm., 1991, II, 200;
parere diverso è stato espresso da Cass. 16.3.1996, n. 2226, Giur. comm., 1996, I, 614, ove si ritiene
la trasformazione dell’impresa sociale in impresa individuale.
24
Come, ad esempio, il mancato conferimento (se essenziale) e lo scioglimento del rapporto
limitatamente ad un socio per il caso in cui la sua partecipazione era da ritenersi essenziale, ossia
intuitus personae (contra, Cass. 1995, n. 12487); quest’ultima causa di scioglimento, che può essere
prevista dal contratto sociale, va tenuta in debita considerazione per il caso di società di
professionisti, e andrebbe a ovviare a talune situazioni “critiche”, quali il subingresso di nuovi soci o
di eredi.
77
Sono cause di scioglimento della società in nome collettivo:
1. il fallimento;
2. la liquidazione coatta amministrativa della società.
Occorre precisare che i casi di scioglimento delle società personali di professionisti
seguiranno le sole regole analizzate per le società semplici, non potendo le società di
professionisti stesse fallire ovvero essere sottoposte al procedimento di liquidazione coatta
amministrativa (si rammenta che tali società non svolgono attività di tipo commerciale).
78
CLAUSOLE S TATUTARIE
Art. … - Scioglimento e liquidazione
Lo Studio si scioglie:
−
per volontà degli associati, determinata ...;
−
per mancanza della pluralità degli associati se nel termine dei 6 mesi questa non viene
ricostituita;
−
per ... [altre eventuali clausole preconcordate].
Al verificarsi di una causa di scioglimento gli associati si accorderanno sul modo di liquidare
il patrimonio dello studio, anche senza ricorrere a procedimento formale di liquidazione; in
mancanza di accordo, la liquidazione verrà effettuata da uno o più liquidatori. La carica di
liquidatore verrà assunta dagli amministratori, ovvero da altra persona nominata dalla
maggioranza degli associati.
Commento
Scioglimento e liquidazione
Lo scioglimento e la liquidazione sono disciplinati dagli artt. 2272 e seguenti.
Nella clausola suggerita è stata prevista la possibilità di scioglimento senza liquidazione,
ammessa dalla giurisprudenza in materia di società semplice; alcune disposizioni particolari
sono riportate ai su ccessivi articoli.
Per quant’altro non previsto espressamente si applicheranno le regole degli artt. 2272 e
seguenti c.c., in forza del richiamo di cui al successivo art. … dello statuto.
Art. … - Altre clausole in caso di scioglimento
In ogni caso di scioglimento del rapporto associativo, sia dell’intero Studio, sia
limitatamente ad un singolo associato, viene espressamente convenuto che:
−
i professionisti si impegnano a non far nulla che possa turbare la libertà di scelta dei
clienti di continuare il rapporto professionale con il professionista che il cliente
preferirà;
79
−
i beni di proprietà dei singoli associati, in uso allo Studio, verranno restituiti al
proprietario;
−
i beni e i rapporti contrattuali conferiti dagli associati uscenti verranno assegnati ai
conferenti, su loro richiesta;
−
i seguenti beni e rapporti verranno assegnati come segue:
−
al dott. ... i libri e le riviste in materia di ..., eccezion fatta per i libri e le riviste ...;
−
il contratto di locazione dei locali dell’ufficio potrà essere proseguito dal dott. ...
Ogni professionista uscente potrà liberamente utilizzare per la propria attività professionale
i testi, le procedure di lavoro, i programmi e ogni altra forma di know-how in possesso
dello Studio alla data di uscita, con espresso divieto di cederli o darli in uso a terzi per
attività ed in forme diverse da quelle relative all’esercizio della propria professione (1).
Varianti - Clausole accessorie
(1) Dopo lo scioglimento del rapporto associativo limitatamente ad uno o più associati,
questi non potranno svolgere attività in concorrenza allo Studio per un periodo di ...
anni, limitatamente a ...
Commento
Altre clausole in caso di scioglimento
L’articolo in commento contiene alcune clausole non necessarie, ma che ci sembrano
opportune per risolvere alcuni casi pratici che possono presentarsi in caso di scioglimento:
−
un impegno a non turbare la libertà di scelta dei clienti per la eventuale prosecuzione
degli incarichi professionali;
−
una serie di previsioni pratiche per l’assegnazione di determinati beni/rapporti a
singoli associati. Tali previsioni sono molto importanti nella pratica, per evitare di
dover ricostruire anni di appunti, raccolte di libri specialistici, … (magari non più
reperibili);
−
la possibilità per tutti gli associati di usare il know-how dello Studio per proprio uso
personale (risponde allo stesso scopo della clausola precedente).
Patto di non concorrenza
Sembra possibile prevedere un patto di non concorrenza dopo la cessazione della
collaborazione, ai sensi dell’art. 2596 c.c ., per un periodo non superiore a 5 anni, se
pattuito per iscritto, e per zona o attività limitata.
80
Art. … - Rapporti transitori al momento dell’uscita dallo studio
Al momento dell’uscita di un associato dallo Studio, si procederà alla formazione di una
situazione patrimoniale ed economica dello Studio, riferita al momento in cui ha effetto
l’uscita, distinguendo la quota di patrimonio da quella degli utili maturati; inoltre verrà
redatto un elenco dei beni e dei rapporti contrattuali in corso a nome dello Studio da
restituire all’associato perché di sua proprietà o da trasferire a lui come assegnazione in
natura in conto liquidazione della quota.
Verrà data notizia a tutti i terzi contraenti (clienti e fornitori) dell’avvenuta uscita
dell’associato dallo Studio.
Il lavoro svolto sino al momento dell’uscita resta di competenza dello Studio, con relativi
compensi, costi e rischi e verrà ripartito alla fine di ogni anno successivo tra tutti gli
associati, compresi quelli cessati, tenendo conto delle quote di partecipazione in vigore al
momento in cui il lavoro viene svolto, e della quota spettante all’associato cessato.
L’associato cessato, pur non prestando più la sua opera all’interno dello Studio, continuerà,
sino ad esaurimento dei rapporti pendenti, a partecipare agli utili dello Studio limitatamente
alla sua quota relativa al lavoro svolto sino al momento dell’uscita ma incassato
successivamente.
È però data facoltà alle parti di convenire la liquidazione della quota spettante all’associato
uscito in modo forfetario e transattivo, sulla base della situazione patrimoniale ed
economica dello Studio al momento dell’uscita, tenuto adeguato conto dei rischi e tempi
occorrenti per il normale incasso.
Commento
Rapporti transitori
Le clausole sopra riportate sono atipiche e proposte a titolo indicativo; ognuno dovrà
formularle caso per caso, tenuto conto della propria situazione specifica e delle esigenze
dei singoli contraenti. Con esse si intende richiamare l’attenzione sulla necessità di chiarire
i rapporti tr ansitori, onde prevenire possibili controversie sia civili che fiscali.
Liquidazione della «quota» - Liquidazione dei diversi diritti dell’associato
Comunemente si parla di quota e di liquidazione della quota.
81
Sarebbe meglio invece parlare di “diritti/doveri spettanti all’associato”, e di liquidazione
dei vari “diritti/doveri relativi alla partecipazione”, distinguendo tra:
−
utili relativi al lavoro svolto sino alla cessazione;
−
utili pregressi non distribuiti;
−
beni a suo tempo conferiti e ora restituiti;
−
patrimonio conferito;
−
incrementi patrimoniali.
Eventuali diritti derivanti da fatti successivi alla cessazione (es: prestazioni effettuate dopo
tale data) vanno trattati a parte.
A ognuno di tali diritti corrisponderà un diverso titolo, che oltre tutto può essere liquidato
in momenti diversi.
Partecipazione agli utili dopo la cessazione della collaborazione
Parlando di cessazione, occorre distinguere due momenti:
−
cessazione della collaborazione: momento in cui il professionista smette di prestare la
sua opera all’interno dello Studio;
−
cessazione della partecipazione: momento in cui al professionista viene liquidata ogni
diversa spettanza derivante dal rapporto associativo preesistente.
I due momenti possono coincidere, se la «quota» viene liquidata immediatam ente alla
cessazione della collaborazione.
Normalmente però i due momenti differiscono, anche per un periodo molto lungo, se gli
associati restanti non intendono anticipare all’associato uscente la quota a questi spettante
sul lavoro svolto sino alla cessazione della collaborazione e pagata dai clienti
successivamente.
È quindi normale che un associato:
−
esca dallo Studio associato come collaboratore;
−
resti nello Studio come partecipante ai diritti patrimoniali spettanti per i conferimenti
e la collaborazione precedentemente svolta.
Nel periodo transitorio il professionista non potrà figurare nella denominazione e sulla
carta intestata, in quanto non più prestatore d’opera all’interno dello Studio.
Nella compagine sociale, invece, resterà come socio cessato avente diritto alla liquidazione
delle sue spettanze (per utili e patrimonio).
La clausola sopra riportata serve a disciplinare tale ipotesi. Una simile interpretazione ci
pare perfettamente normale e legittima e quindi valida anche fiscalmente.
82
Per poter essere opponibile al fisco deve però risultare da atto con data certa e quindi
occorre che:
−
il fatto risulti dallo statuto;
−
l’uscita del socio risulti da atto di variazione dello statuto.
Art. … - Rinvio alle disposizioni del codice civile
Per quanto non espressamente previsto dai patti sociali o da diversi accordi, gli associati
convengono che i rapporti connessi al rapporto associativo vengano disciplinati dalla
normativa vigente in materia di professioni intellettuali e di società semplice.
83
FR ANCO M ICHELOTTI
SOCIETÀ DI MEZZI, DI SERVIZI E STUDI ASSOCIATI :
UN’ANALISI CRITICA.
SOMMARIO: 1. MERCATO E ORGANIZZAZIONE NELL’ODIERNA PROFESSIONE DEL DOTTORE COMMERCIALISTA.
CENNI. 2. L’AGGREGAZIONE TRA PROFESSIONISTI QUALE MO DELLO ORGANIZZATIVO PERSODDISFARE
LE ESIGENZE, POSTE DAL MERCATO, DI SPECIALIZZAZIONE NELLE PRESTAZIONI INTELLETTUALIEDI
RIDUZIONE DEI COSTI DEI SERVIZI PROFESSIONALI . 3. L’ORGANIZZAZIONE DELLA CRESCITA DEGLI
STUDI PROFESSIONALI : LE SOCIETÀ E LE ASSOCIAZIONI . L’EVOLUZIONE DEL PANORAMANORMATIVO.4.
LA SOCIETÀ DI MEZZI E LO STUDIO ASSOCIATO. 5. LA SOCIETÀ DI SERVIZI E QUELLE DI CONSULENZA.
CRITICA. 6. I PRINCIPI PER RIORGANIZZARE L’ATTIVITÀ PROFESSIONALE. 7. LA SOCIETÀ SEMPLICE DI
MEZZI. 8. CONCLUSIONI.
1. M ERCATO E ORGANIZZAZI O NE NELL ’ODIERNA PROFESSIONE DEL
DOTTORE COMMERCIALIST A. CENNI .
L’Unione Nazionale dei Giovani Dottori Commercialisti nell’organizzare il
40° congresso nazionale sul tema “L’evoluzione dell’attività professionale: il mercato
e l’organizzazione” chiama tutti i colleghi ad una “due giorni” critica e riflessiva sullo
stato della professione intellettuale del dottore commercialista agli inizi del XXI
secolo.
La professione viene analizzata sotto due profili:
il primo, esterno, il mercato;
il secondo, interno, l’organizzazione.
84
Sotto il primo profilo, non v’è dubbio che il dottore commercialista agisca sui
mercati dei servizi professionali e delle prestazioni intellettuali, in un regime di libera
concorrenza con altri competitori appartenenti sia alla stessa categoria professionale
dei dottori commercialisti, sia ad altre categorie di professionisti iscritti in albi, quali
ragionieri, avvocati, consulenti del lavoro, come pure ad altre categorie di
professionisti senza albo, quali tributaristi, consulenti tributari, consulenti aziendali,
giuristi d’impresa, consulenti di direzione e organizzazione aziendale, consulenti
finanziari, ecc. e così via. Ma la concorrenza viene anche dalle imprese, come le
società di revisione, quelle di consulenza, quelle di servizi, dai C.A.F. - imprese,
dalle associazioni di categoria degli imprenditori, dai C.A.F. – dipendenti, dalle
organizzazioni sindacali dei lavoratori, dai patronati, perfino dall’amministrazione
finanziaria (tutoraggio, ecc.).
Pur nella diversità e varietà dell’offerta di servizi e di prestazioni, si coglie
comunque un elemento comune: la destinazione al cliente, nella sua veste di
consumatore di servizi intellettuali.
E’ questo il rilievo da cui prendere le mosse per le considerazioni successive:
oggi il cliente è un consumatore, sia esso un privato, un’impresa, una pubblica
amministrazione.
Se il cliente è un consumatore, allora il professionista è un produttore.
La società italiana del XXI secolo già vive il cambiamento della centralità del
rapporto economico dominante.
Non è più dominante come un tempo – o comunque a mio avviso lo è
sempre meno - il rapporto di lavoro dipendente; diventa centrale il rapporto di
consumo, quello che lega il produttore al consumatore.
In questo rapporto diventano sempre di più determinanti – oggi più di ieri - il
costo e la qualità della prestazione intellettuale. Il cliente si orienta sempre di più
verso chi dà il miglior rapporto qualità/prezzo.
L’ampliamento dell’offerta dei servizi intellettuali favorita dal legislatore
europeo, la negazione di riserve e di esclusive per le funzioni professionali
maggiormente esercitate dai dottori commercialisti nel campo della consulenza
85
tributaria, contabile e di bilancio e nella tenuta della contabilità delle imprese
accentuano il profilo competitivo nell’attività del dottore commercialista che si deve
attrezzare per agire da protagonista nei nuovi scenari che si vanno delineando.
Sennonché,
l’applicazione
alle
funzioni
professionali
del
dottore
commercialista della duplice prospettiva produttore / consumatore ingenera dubbi e
perplessità solo che si pensi alle funzioni giudiziarie di un curatore fallimentare,
quale produttore di servizi intellettuali, e ai creditori, al debitore fallito, quali
consumatori dei suddetti servizi.
Orbene, pur nella difficoltà obiettiva di ricondurre tutte le fattispecie
concrete ad ipotesi facilmente comprensibili, quali il pensionato che si fa predisporre
il 730 dal professionista, o l’azienda che si fa predisporre il bilancio, restano
comunque caratteristiche peculiari di tutte le funzioni professionali
• la naturale intellettualità e complessità del loro svolgimento,
• la necessità per il loro disbrigo di un’istruzione superiore di livello
universitario,
• la delicatezza degli interessi in gioco, la cui gestione è devoluta al
professionista;
• la personalità della prestazione e il rapporto fiduciario con il cliente;
• la riservatezza delle informazioni assunte dal professionista;
• l’indipendenza di giudizio del professionista nell’interesse del cliente.
Sotto questo profilo, la disciplina delle libere professioni ha dimostrato
un’inaspettata modernità a dispetto di quanti – da più parti – invocano l’abolizione
degli albi.
Infatti, nelle libere professioni può essere difficile per il cliente capire la
qualità della prestazione e valutarne il rapporto con il prezzo.
Infatti, laddove si rilevino asimmetrie informative tra consumatore e
produttore di servizi intellettuali, risulta necessario l’intervento di un professionista
iscritto in albi. In tali casi, il sistema delle libere professioni tutela il cliente
consumatore, che è in posizione naturalmente svantaggiata, in quanto prevede
86
• l’approvazione dei prezzi da praticare al consumatore da parte della
pubblica amministrazione, mediante tariffe professionali che consentono
al cliente di conoscere prima il costo della prestazione;
• la possibilità di pattuire comunque corrispettivi inferiori ai minimi di
tariffa; per i dottori commercialisti ciò non è più un illecito disciplinare;
• la verifica preventiva delle capacità professionali a gestire gli interessi
coinvolti nelle funzioni professionali, mediante un esame di Stato ai sensi
dell’art. 33, comma 5, della Costituzione;
• il controllo successivo da parte degli Ordini del rispetto della deontologia
e dell’etica professionale.
Ciò che può mancare a difesa del consumatore è la consapevolezza che il
professionista sia adeguatamente preparato, nel senso che dopo l’esame di Stato può
in teoria smettere di studiare; questo pericolo comunque è solo teorico: non ho mai
conosciuto un collega che abbia smesso di studiare. In teoria, può mancare cioè il
rispetto effettivo dell’obbligo deontologico generico del continuo aggiornamento
professionale. A questo riguardo, la recente delibera del Consiglio Nazionale in
materia di formazione professionale continua, che ha recentemente interpretato in
senso più oneroso l’obbligo deontologico già vigente, colma – se si vuole - una
lacuna nell’ordinamento esistente, adattandolo alle mutate esigenze della società
civile.
La professione, dunque, si evolve verso una maggiore qualità della
prestazione intellettuale a garanzia del cliente.
Tale qualità è ottenuta mediante la specializzazione e la formazione
professionale continua.
2. L’AGGREGAZIONE TRA PROFESSIONISTI QUALE MODELLO ORGANIZZATIVO
PER SODDISFARE LE ESIGENZE , POSTE DAL MERCATO, DI SPECIALIZZAZIONE
NELLE PRESTAZIONI INTELLETTUALI E DI RIDUZIONE DEI COSTI DEI SERVIZI
PROFESSIONALI .
L’altro versante su cui occorre agire è quello dei compensi, cioè dei costi della
prestazione professionale per il consumatore. L’effetto della concorrenza è
ovviamente quello di una riduzione dei prezzi praticati dai competitori.
87
Nella professione la riduzione dei compensi può essere ottenuta con le
economie di scala e con l’aumento degli investimenti nello studio, che, a loro volta,
dipendono dalle dimensioni degli studi professionali.
La prima indagine statistica nazionale condotta dal Consiglio Nazionale dei
Dottori Commercialisti e dalla Fondazione Aristeia con riferimento all’anno 2000
evidenzia come
• circa il personale occupato, il 49 % degli studi occupa tra titolari,
collaboratori, praticanti e dipendenti meno di tre persone; se a ciò si
aggiunge il 23 % che occupa da 3 a 5 persone, si ottiene che il 72 % degli
studi occupa fino a 5 persone;
• circa la forma di esercizio della professione, il 67 % dei dottori
commercialisti esercita l’attività mediante uno studio individuale, mentre
il 34 % agisce in forma associata e il 2 % in società di revisione;
• circa il fatturato, il 26 % fattura fino a 50 milioni di lire, il 34 % tra 51 e
150 milioni di lire.
Risulta evidente da tali dati, ciò che si sapeva già: il dottore commercialista
medio è un individualista che opera con pochi collaboratori, percependo fino ad ora
compensi appena sufficienti al decoro e alla dignità della professione.
Alla luce di quanto esposto in precedenza e tenuto conto che la fattispecie di
gran lunga prevalente è quella del piccolo studio individuale, per l’avvenire della
professione di dottore commercialista diverta centrale - sotto il profilo strategico di
lungo periodo - il tema della crescita degli studi professionali.
L’aumento delle dimensioni degli studi professionali ordinariamente si ha
mediante costituzione di associazioni e società tra professionisti. Ciò in quanto il
rapporto fiduciario che lega il professionista al cliente, il conseguente carattere
personale della prestazione costituiscono tratti caratteristici del lavoro autonomo
intellettuale, per cui per non perdere tali caratteristiche e nel contempo aumentare le
dimensioni l’associazionismo è - di regola - la soluzione che realizza entrambi gli
obiettivi.
88
Altra
via,
non
necessariamente
alternativa
ma
percorribile
anche
congiuntamente all’associazionismo, è quella di aderire ad un network professionale.
La stessa indagine statistica sopra citata rileva come nel 2000 solo il 4 % degli
studi faceva parte di un network professionale. Anche questo dato conferma che nella
nostra categoria vi sono ampi margini di miglioramento dell’organizzazione.
L’aggregazione degli studi al fine di aumentare le dimensioni medie può
essere una risposta adeguata alle esigenze poste dal mercato.
Consapevole di questa sfida - posta dai fattori del cambiamento - che attende
i dottori commercialisti nei prossimi anni, rilevato anche il ritardo della categoria ad
intraprendere con maggiore decisione i processi di crescita e di aggregazione
professionale, l’U. N. G. D. C. ha formato una commissione di studio su
“L’evoluzione dell’organizzazione dello studio professionale”, formata dai colleghi
Arturo Denza, segretario, Giuseppe Melara, Simone Cavestro, Renzo Menegazzi,
Pierpaolo Vannucci, Chiara Mio, Massimo Masoni, Gianpaolo Valente, Alessandro
Michelotti, Giampaolo Frezza, oltre che dal sottoscritto, quale presidente e da Sauro
Settesoldi quale delegato dalla giunta nazionale.
Occorre premettere che la ns. commissione ha avuto come oggetto principale
l’esame delle clausole statutarie concernenti la ripartizione degli utili, l’ingresso di un
nuovo socio o associato, anche nella fattispecie della “fusione” di più studi già
avviati, e la valutazione dello studio professionale. Inoltre, si è trattato delle clausole
relative allo scioglimento dello studio, anche limitatamente ad un socio o associato.
La ragione della scelta di pochi argomenti più specifici da approfondire
rispetto al più ampio tema dell’evoluzione e della crescita degli studi, come strategia
a lungo termine, trova fondamento nell’esigenza – assai avvertita – di analizzare i
profili
critici
dell’associazionismo
tra
professionisti,
tradizionalmente
e
comunemente riconosciuti nell’individualismo del dottore commercialista, che si
coglie essenzialmente in tre momenti: all’atto della valutazione dello studio, prima di
entrare in una struttura collettiva, al momento della ripartizione degli utili, quali
frutti dell’attività professionale in forma collettiva e al momento dell’uscita o dello
scioglimento dell’associazione.
89
3. L’ORGANIZZAZIONE DELLA CRESCITA DEGLI STUDI PROFESSIONALI: LE
SOCIETÀ E LE ASSOCIAZIONI . L’EVOLUZIONE DEL PANORAMA NORMATIVO .
Lo studio e l’analisi di tali aspetti particolari ha comunque richiesto una
riflessione in termini generali, sempre nell’ipotesi de iure condito, sugli strumenti
normativi o negoziali attualmente a disposizione dei dottori commercialisti per
esercitare in forma collettiva la ns. professione intellettuale.
Nel rilevare come tali strumenti siano ancora l’associazione professionale e la
società semplice tra professionisti, non è sfuggito, tuttavia, come l’evoluzione
normativa conseguente all’abrogazione dell’art. 2 della legge n. 1815/1939 renda
oggi lecita – mentre ieri era vietata - la costituzione di società in forma commerciale
per esercitare la libera professione. Nel contempo, però, si nota che sul versante del
diritto amministrativo restano vigenti le norme sull’incompatibilità tra esercizio della
professione per effetto dell’iscrizione all’albo ed esercizio presunto d’impresa,
laddove si intenda infatti presunta la qualità di imprenditore e la relativa
incompatibilità con l’iscrizione all’albo per il solo fatto di essere soci illimitatamente
responsabili di società di persone commerciali o di essere amministratori unici o
delegati di società commerciali, anche se tali società effettivamente svolgano attività
tipiche della professione intellettuale di dottore commercialista. Del pari, sul
versante del diritto tributario i professionisti che svolgessero l’attività intellettuale di
dottore
commercialista
mediante
una
società
commerciale,
sarebbero
indubitabilmente soggetti per presunzione assoluta al regime del reddito d’impresa e
non a quello del reddito di lavoro autonomo. E gli esempi potrebbero continuare
(nel diritto comunitario siamo comunque imprese, ecc.) per rilevare come le
aperture che vengono dal diritto privato non trovano una corrispondente e coerente
disciplina negli altri campi dell’ordinamento giuridico, in cui invariabilmente il
rapporto tra professione e impresa risulta disciplinato dal seguente schema: se la
professione
intellettuale
evolve
la
sua
organizzazione
naturalmente
ed
inevitabilmente diventa impresa, con le discendenti incompatibilità.
Se, dunque, questo è il panorama normativo, quale evoluzione
dell’organizzazione dello studio professionale è compatibile con la natura e le
caratteristiche peculiari della professione intellettuale?
90
E’ possibile delineare per l’avvenire un modello organizzativo dello studio
professionale, che, assumendo come essenziale l’impiego del capitale e del lavoro
collettivo, consenta la crescita dimensionale e la competizione sui mercati dei servizi
professionali e delle prestazioni intellettuali, senza per questo necessariamente
snaturare la libera professione (indipendenza, personalità, riservatezza, preparazione
superiore, tutela di interessi garantiti costituzionalmente, ecc.) e assumere le forme
di esercizio dell’impresa?
Dunque, quali possono essere le diverse architetture economiche e giuridiche
per l’organizzazione dello studio professionale?
I problemi che si pongono al riguardo concernono
-
l’aumento delle dimensioni;
-
l’organizzazione dei fattori produttivi, dati dal lavoro e dal capitale;
-
l’organizzazione dei servizi resi alla clientela.
Sul versante dell’aumento delle dimensioni, si possono ipotizzare diverse
fattispecie di concentrazione tra professionisti:
1. fusione di due o più studi individuali, già operanti sul mercato, per
costituire una società semplice o una associazione tra professionisti;
2. ingresso di un nuovo associato, che non ha uno studio, in una
associazione professionale già operante;
3. ingresso di un nuovo associato, che ha uno studio, in una associazione
professionale già operante;
4. costituzione di una associazione tra professionisti che non hanno uno
studio.
Sotto il profilo organizzativo della forma giuridica di esercizio dell’attività
professionale, si può ipotizzare che quest’ultima venga esercitata in forma collettiva
attraverso le seguenti strutture:
studio associato o società semplice tra professionisti;
studio associato e società di mezzi;
91
studio associato e società di servizi;
studio associato e società di servizi e società di mezzi;
studio individuale e studio associato;
studio individuale, studio associato e società di servizi e/o mezzi;
studio individuale e società di servizi.
4. LA SOCIETÀ DI MEZZI E LO STUDIO ASSOCIATO .
La società di mezzi viene utilizzata nei casi di esercizio collettivo della
professione in forma societaria o associata per organizzare il capitale impiegato
nell’attività professionale; può venire utilizzata per gli stessi scopi anche nel caso di
esercizio della professione mediante uno studio individuale. I rapporti con la
clientela fanno capo allo studio associato oppure alla società semplice tra
professionisti che aggrega i colleghi iscritti all’albo. I beni strumentali, materiali e
immateriali, vengono conferiti nella ( o sono acquistati dalla ) società di mezzi da
parte dei soci che, di regola, sono gli stessi che si associano per l’esercizio collettivo
della professione. La società di mezzi ha come cliente lo studio associato o la società
semplice tra professionisti, per cui non fattura ai clienti dello studio. I corrispettivi
della società di mezzi sono pari ai costi d’esercizio da questa sostenuti, comprensivi
delle quote di ammortamento dei beni, con una maggiorazione che a seconda dei
casi serve per portare in pareggio civilistico la società oppure remunera l’impiego del
capitale, con un adeguato tasso di interesse.
La costituzione di tali società di mezzi tra professionisti, era ammessa anche
prima dell’abrogazione dell’art. 2 della l. n. 1815/1939, a condizione che non venisse
meno il carattere personale della prestazione con la clientela.
Di regola, la società di mezzi svolge un’attività d’impresa commerciale sia
sotto il profilo civilistico, che tributario. Dunque, è titolare di un reddito d’impresa e
non di un reddito di lavoro autonomo. La forma giuridica è quella della società di
capitali, s. r. l., di regola, o della società cooperativa, se ricorrono le condizioni
stabilite dalla legge. Non è esclusa la forma della s. a. s. nella quale, però, i
professionisti sono soci accomandanti, mentre il socio accomandatario è un
soggetto non iscritto all’albo. La società di mezzi, una volta costituita, acquista i beni
92
necessari per lo svolgimento dell’attività professionale in forma associata o di società
semplice. Acquista, altresì, i servizi necessari allo studio, sempreché non li acquisisca
direttamente lo studio associato. Per quanto concerne l’amministrazione della
società di mezzi, pare auspicabile la formazione di un consiglio di amministrazione,
senza attribuzione di deleghe, composto dai soci professionisti. Ciò, in quanto –
come si è detto in precedenza – l’essere amministratore unico o anche consigliere
con delega integra gli estremi dell’attività imprenditoriale, che – a tutt’oggi – risulta
essere vietata ai dottori commercialisti dall’ordinamento professionale.
In presenza di una società di mezzi, lo studio associato organizza soltanto il
lavoro dei professionisti associati. Si tratta di una soluzione organizzativa molto
diffusa che ha il pregio di separare il capitale dal lavoro negli studi professionali. Lo
statuto dell’associazione tra professionisti, in presenza di una società di mezzi, non
dovrà tenere conto del capitale conferito, in quanto non vi è capitale né in proprietà,
né in godimento, sia al momento dell’ingresso, sia in quello della divisione degli utili,
che al momento dell’uscita. Pertanto, gli utili potranno esser ripartiti in base al
lavoro svolto e ai risultati conseguiti con il lavoro degli associati. La differenza
esistente tra professionisti associati, in termini di qualità del lavoro, di clientela
apportata, di tempo lavorato e così via, può essere più facilmente regolata con i patti
sociali, in quanto non si deve tener conto del capitale investito nell’attività
professionale.
In tema di crescita degli studi professionali, si può osservare che al momento
dell’ingresso di uno studio professionale individuale in una struttura con società di
mezzi e studio associato, tale studio individuale viene scisso in due parti: una
concerne il lavoro del professionista e la sua capacità di produrre redditi negli anni
futuri; l’altra riguarda il capitale impiegato nell’attività professionale. Per valutare il
capitale dello studio professionale si può fare riferimento ai valori correnti dei beni
da conferire nella società di mezzi; il che non presenta particolari problemi rispetto
alle imprese.
Si tratta di stimare i beni conferiti nella società di mezzi, come un normale
conferimento in società. Viceversa, la valutazione dell’opera intellettuale da conferire
nello studio associato è ben più complessa. Si risolve con la stipula di appositi patti
sociali. Se le differenze esistenti tra gli associandi vengono rimosse in sede di
93
costituzione dell’associazione o della società o al momento dell’ingresso di un nuovo
associato, allora è prevedibile che i professionisti con una maggiore potenzialità
ricevano delle somme di denaro a compensazione del sacrificio che subiranno in
termini di percentuali sugli utili dall’adesione all’associazione. Viceversa, se le
differenze rimangono o non vengono interamente rimosse, la pattuizione di utili
differenziati stabilisce l’opportuno equilibrio tra gli interessi in conflitto.
5. LA SOCIETÀ DI SERVIZI E QUELLE DI CONSULENZA . CRITICA .
La società di servizi, invece, viene utilizzata sia nel caso di esercizio della
professione in forma individuale, che in quella associata o societaria, per organizzare
la resa a terzi dei servizi professionali cc. dd. liberi cioè quelli per i quali non è
richiesta l’iscrizione all’albo e di quelli non necessariamente personali.
La società di servizi presuppone la distinzione nell’ambito delle attività
tipiche della professione di dottore commercialista tra quelle libere e quelle riservate
e, nell’ambito di quelle libere tra quelle strettamente personali e quelle che non lo
sono.
In generale, tutte le attività sono esercitabili tramite società di servizi tranne le
seguenti, a titolo esemplificativo:
-
sindaco in società commerciali;
-
revisore in enti pubblici;
-
consigliere d’amministrazione in società commerciali;
-
certificazione tributaria, visto di conformità e asseverazione agli studi di
settore;
-
difesa nei professi tributari;
-
consulenze tecniche d’ufficio, di parte, nei processi civili e penali;
-
curatore di fallimenti;
-
commissario liquidatore di liquidazioni coatte amministrative;
-
commissario giudiziale di concordati preventivi e amministrazioni
controllate;
-
liquidatore dei beni ceduti ai creditori di concordati preventivi;
-
liquidatore di società ed enti;
-
perizie di stima di beni e di aziende conferite.
94
La società di servizi esercita un’attività commerciale e ha comunemente la
forma della società di capitali, s. r. l. più frequentemente.
Le attività svolte sono quelle di tenuta della contabilità, predisposizione dei
bilanci e delle dichiarazioni tributarie, trasmissione telematica dei dati
all’amministrazione finanziaria, elaborazione dati contabili, ecc..
Vi è, poi, un’altra categoria di prestazioni professionali che sempre più spesso
vengono rese alla clientela mediante società di capitali: si tratta della consulenza
tributaria, aziendale, societaria, di organizzazione e direzione aziendale, quella
finanziaria, quella di marketing, quella contrattuale, quella relativa alle sistemazioni
patrimoniali, quella per la quotazione in borsa, per i passaggi generazionali, per i
finanziamenti agevolati ed i finanziamenti in genere.
Si tratta in questi casi di vere e proprie società di consulenza, che agiscono in
forma d’impresa nel campo tipico della professione di dottore commercialista.
Molto spesso si tratta di funzioni professionali che il professionista che diventa
socio non svolge correntemente e che, pertanto, trova vantaggioso svolgere in
forma societaria insieme ad altri colleghi o anche più frequentemente insieme a
soggetti non iscritti in albi.
La spinta ad agire sotto una società trae fondamento dall’esigenza di
specializzarsi in un settore, magari con una campagna pubblicitaria promossa per far
conoscere e sostenere la denominazione sociale, che assai di frequente è un nome di
fantasia. Si assiste – in questo campo – a fenomeni assai singolari, se analizzati sotto
il profilo dei contenuti. Vi sono enti pubblici ma anche società private che
preferiscono conferire l’incarico di un’analisi finanziaria ed economica o di una
sistemazione patrimoniale ad una società di consulenza con un nome di fantasia, che
agisce attraverso i suoi organi formati da colleghi iscritti all’albo, piuttosto che
conferire lo stesso incarico personalmente agli stessi professionisti. In questi casi si
coglie la crisi della personalità della prestazione e del professionista singolo.
Nella platea dei clienti assai spesso la società di consulenza suscita l’idea e la
convinzione di una maggiore efficienza ed organizzazione e quindi di una più elevata
qualità della prestazione e di un prezzo più basso rispetto alla stessa prestazione del
professionista singolo.
95
Indubbiamente questo è un segno dei tempi che cambiano; tuttavia, ciò si
verifica più frequentemente per le imprese medio – grandi. All’aumentare delle
dimensioni delle imprese, cresce la domanda di specializzazione professionale.
Se il cliente medio cresce, assai probabilmente i suoi consulenti dovranno
fare altrettanto; il rischio di chi non si adegua è – prima o poi - di perdere il cliente.
Ecco allora che la società di consulenza può essere una risposta a questa esigenza.
Il problema che si pone però è se questa sia l’unica via per attrezzarsi di
fronte alle mutate esigenze della clientela.
Il tratto caratteristico della società di consulenza – come del resto la società
di servizi – è che con essa si organizza in forma d’impresa una parte delle prestazioni
intellettuali e dei servizi professionali tipici della ns. professione. Non solo, ma è
anche possibile – prevedendolo nell’oggetto sociale – esercitare attività proprie di
altre professioni intellettuali, dando vita ad una società di servizi multiprofessionale.
Anche questa esigenza, la c. d. consulenza globale, non è certo nuova, ma
indubbiamente negli ultimi anni ha avuto un forte impulso, specialmente nel campo
della consulenza aziendale in cui i profili professionali dei consulenti informatici e
degli ingegneri elettronici, portatori delle conoscenze delle nuove tecnologie
dell’informazione, si sono uniti alle ns. competenze economico aziendali, dando vita
a dei sodalizi in forma di società di consulenza, quali società di capitali.
Ma si assiste anche ad un altro fenomeno, per certi versi assai più
preoccupante per la ns. professione. Le banche, le società finanziarie, gli
intermediari del credito occupano i ns. spazi professionali, dando vita a delle società
di consulenza, in forma di società di capitali, in cui assai spesso troviamo tra i soci e
consiglieri di amministrazione i dottori commercialisti. Si tratta – in questi casi - di
un’offerta globale di servizi professionali, in cui – però – le attività tipiche della
nostra professione, di natura consulenziale, finanziaria, giuridica ed economica, non
costituiscono l’oggetto principale dell’attività, bensì sono strumentali all’esercizio del
credito o all’investimento in capitale di rischio, c d. private equity. In questo settore si
rileva, dunque, la crisi della consulenza tout court, come attività professionale
principale, mentre nel contempo si coglie la centralità dell’erogazione finanziaria,
96
quale credito alle imprese o capitale di rischio. La consulenza rientra nel pacchetto
dei servizi accessori all’investimento finanziario nell’impresa cliente.
Si è giunti, a questo punto, a trattare uno dei temi più delicati nel momento
attuale: il ruolo del capitale nell’attività professionale.
Tradizionalmente, il capitale è accessorio alla prestazione intellettuale del
professionista, nel senso che nello studio professionale l’investimento in capitale
non produce ricavi, anche se può aumentare la qualità della prestazione. L’aumento
delle dimensioni degli studi, l’utilizzo delle nuove tecnologie di informazione,
tuttavia, fanno crescere il fabbisogno di capitale, per cui – stante l’inopportunità di
una capitalizzazione delle associazioni professionali – la risposta naturale a tale
tendenza è la società di servizi, nella sua forma più evoluta di società di consulenza.
Ma la migrazione dell’attività professionale nelle società di servizi incrina il
tratto caratteristico della professione intellettuale, in quanto viene meno la
personalità della prestazione e il connesso rapporto fiduciario con il cliente; anche
l’indipendenza del prestatore viene messa in discussione e non è più richiesta
l’istruzione superiore per gestire gli interessi delicati del cliente, in quanto chiunque
può prestare l’attività anche se non iscritto all’albo. Dunque, agire sotto una società
di servizi, alla lunga può premiare solo sotto il profilo dell’avviamento che il tal caso
è certamente riconosciuto, ma per il resto snatura irreversibilmente l’attività
intellettuale professionale, per come questa è stata intesa fino ad oggi.
Del resto gli esempi sono sotto gli occhi di tutti: si pensi all’attività di
assistenza fiscale alle imprese, che viene resa dai Centri di Assistenza Fiscale sotto la
forma di una società commerciale. Si tratta di vere e proprie imprese di servizi, che
non necessitano di alcuna qualificazione per svolgere le stesse nostre funzioni
professionali; lo stesso rilievo può essere svolto in relazione all’assistenza fiscale ai
lavoratori dipendenti, nelle mani dei sindacati e delle società di capitali che
esercitano per loro conto le attività tributarie relative al 730.
Quello che sta succedendo è che anche il settore dei finanziamenti è
interessato dallo stesso fenomeno che, alcuni anni fa, interessò l’assistenza fiscale
alle imprese e ai lavoratori dipendenti.
97
Ben presto gran parte delle attività professionali non strettamente personali
verranno svolte dalle società finanziarie e dalle banche per metter tali attività
professionali al servizio dell’impiego del capitale di credito e di rischio. Tutto ciò per
mezzo di società di consulenza e di servizi.
La erosione dei nostri spazi professionali è già in corso ed è irreversibile.
Le reti di sportelli sul territorio, organizzati secondo i principi del marketing,
- mentre non lo sono i nostri studi - la pubblicità sui media per far conoscere,
affermare e consolidare un marchio di qualità nella consulenza globale, - mentre
ancora si stenta nel nostro campo a consentire la pubblicizzazione di una
specializzazione -, l’investimento di cospicui capitali nell’organizzazione e nelle
risorse dell’informazione sono strumenti formidabili per i supermercati della
consulenza che non tarderanno ad affermarsi a nostro danno.
Ci aspetta forse un destino simile a quello dei piccoli alimentaristi di fronte
alla grandi catene di distribuzione alimentare?
Forse in questi termini senz’altro no, però è certo che bisogna cambiare e
presto.
Ecco allora che il ritardo del legislatore nel varare la società tra professionisti,
impedisce di adeguarsi ai fattori del cambiamento.
Perché non dire che molte società di servizi sono state costituite anche da
nostri colleghi perché gli incentivi, gli sgravi, le agevolazioni nel passato sono
sempre stati sempre ad esclusivo appannaggio delle imprese e non dei professionisti,
anche se giovani?
In fondo la Tremonti-bis non è la prima legge che ha previsto degli incentivi
e degli sgravi fiscali per i professionisti? Se rimanevano le vecchie regole del 1994 la
detassazione degli investimenti in beni nuovi l’avrebbero beneficiata soltanto i
colleghi che avevano costituito le società di servizi e le società di mezzi.
Pertanto, non bisogna meravigliarsi se la nostra attività sta scomparendo nei
suoi tratti più caratteristici. E sempre la volontà del legislatore, unita a quella del
mercato, che imprime i cambiamenti anche più radicali.
98
Però, mi piacerebbe conoscere quanto sono i miliardi di lire, anzi i milioni di
euro che non sono stati versati alla cassa di previdenza dei dottori commercialisti,
perché il reddito si è formato in forma d’impresa nelle società di servizi dei nostri
colleghi.
Sarebbe un dato interessante da esaminare, per domandarsi se conviene
proseguire su questa strada.
La pensione – ricordiamocelo – ce la paga la cassa di previdenza! E la cassa
di previdenza non si alimenta con i contributi sul reddito d’impresa. Ecco perché –
tra l’altro – la legge sulle società tra professionisti che non arriva da decenni,
potrebbe risolvere molti dei nostri problemi. Non solo organizzativi, ma anche di
tutela previdenziale.
Non vorrei sbagliarmi, ma il recente aumento dei contributi previdenziali,
trova una delle sue cause determinanti anche nel fatto che molta attività
professionale dei dottori commercialisti viene svolta mediante società di servizi. Il
reddito nazionale riferibile alla categoria dei dottori commercialisti non è solo quello
che deriva dal lavoro autonomo, ma vi è anche quello delle imprese di servizi.
Se negli ultimi dieci anni il reddito e i ricavi d’impresa delle società di servizi
dei nostri colleghi fossero stati rispettivamente reddito e compensi di lavoro
autonomo e se dunque fossero stati versati alla cassa di previdenza i contributi
integrativi sui compensi e soggettivi sui redditi, è da chiedersi se oggi la situazione
della Cassa di previdenza non fosse stata non solo migliore tout court, ma migliore in
misura tale da non rendere necessario l’aumento dei contributi recentemente e
dolorosamente per noi deliberato dai competenti organi della nostra Cassa.
Ma vi sono anche altri aspetti che non vanno sottaciuti.
Il personale dipendente delle società di servizi applica un contratto collettivo
che non è quello degli studi professionali. Orbene, quale è il peso delle ns.
rappresentanze sindacali in seno alle organizzazioni datorili che contrattano con le
rappresentanze sindacali dei lavoratori dipendenti in sede di stipula della
contrattazione collettiva? I relativi contratti di lavoro sono regolati da norme che
non abbiamo concorso a determinare?
99
Ma quello che più conta è che i relativi posti di lavoro non sono riconducibili
alla nostra categoria. E’ noto che da alcuni anni il consiglio nazionale chiede di
essere riconosciuto dal governo come parte sociale al fianco delle associazioni degli
imprenditori e dei sindacati dei lavoratori dipendenti, in quanto parte della ricchezza
nazionale è prodotta dai nostri studi professionali e decine di migliaia di posti di
lavoro dipendono dalla nostra attività. E’ chiaro a questo punto che tanto più la
nostra attività professionale viene svolta mediante società di servizi, tanto meno sarà
la ricchezza nazionale che è riconducibile ai professionisti e tanto minori saranno i
posti di lavoro creati dalle libere professioni.
Lascio immaginare quali sono le conseguenze in termini politici. E‘ questa la
strada per non esser classe dirigente del paese.
6. I principi per riorganizzare l’attività professionale.
Allora, in attesa della riforma – se mai verrà – sulle S T P, occorre attrezzarsi
sulla base della legislazione vigente.
I principi su cui fondare l’architettura organizzativa potrebbero essere i
seguenti:
-
prevalenza del lavoro o meglio dell’opera intellettuale sul capitale
investito negli studi professionali;
-
specializzazione e formazione permanente continua quali indirizzi da
attuare con qualunque forma organizzativa;
-
crescita dell’impiego del capitale negli studi professionali;
-
esercizio dell’attività professionale in forma collettiva e non individuale;
-
esercizio dell’attività professionale non in forma d’impresa ma di lavoro
autonomo;
-
utilizzo mirato, cioè quando non è possibile farne a meno, delle società di
servizi o di consulenza;
-
separazione giuridica del capitale dal lavoro.
Partendo dalle considerazioni suesposte, occorre valutare se le attuali
associazioni tra professionisti e le società semplici tra professionisti possano essere
100
degli strumenti giuridici utilizzabili per attuare i principi ora indicati volti alla
riorganizzazione sostenibile delle ns. attività professionali.
La risposta affermativa richiede delle precisazioni.
Il capitale impiegato nelle associazioni professionali non pone problemi se
tutti gli associati concorrono in egual misura alla formazione del patrimonio. Ma
allorché si riscontra una differenza tra gli associati nel senso che non tutti hanno le
stesse percentuali di partecipazione al patrimonio dello studio, allora è preferibile
separare il capitale dal lavoro, ricorrendo ad una società di mezzi.
E’ vero che in questo caso si potrebbe utilizzare la società semplice tra
professionisti; però, allora bisogna risolvere il problema di una percentuale di riparto
degli utili diversa da quella di partecipazione al capitale sociale.
Su questo tema occorre rilevare che i lavori della commissione hanno messo
in luce come l’impiego del capitale negli studi associati, quale conferimento da parte
degli associati, determini delle storture e degli inconvenienti in sede di ripartizione
degli utili, difficilmente rimuovibili con gli ordinari strumenti delle clausole negoziali,
per cui la commissione è pervenuta al convincimento che l’associazione tra
professionisti per l’esercizio in comune dell’attività professionale debba essere
limitata al solo lavoro, mentre il capitale è auspicabile che sia da questa utilizzato in
godimento dato da terzi a titolo oneroso (esternalizzazione del capitale e dei servizi
relativi, outsourcing della struttura).
Comunque, il binomio studio associato – società di mezzi pare adatto a
realizzare i principi sopra indicati. Cosi come il binomio società semplice tra
professionisti e società di mezzi.
La separazione del capitale dal lavoro è funzionale per almeno tre obiettivi:
-
il primo obiettivo è quello di favorire l’ingresso in strutture associative di
ampie dimensioni ai giovani professionisti, che essendo all’inizio
dell’attività, di regola, non hanno capitali da investire e non sono portatori
di professionalità spendibili nel mondo del lavoro; pertanto, una società o
un’associazione che non hanno capitale favoriscono l’entrata ai giovani
101
professionisti in strutture ampie che ne favoriscono naturalmente l’avvio
ad una specializzazione;
-
il secondo obiettivo è quello di poter remunerare i professionisti in base
non solo al lavoro prestato, ma anche in base ai risultati ottenuti; ciò
innesta un circuito di regola virtuoso, recependo la logica competitiva e la
selezione delle capacità professionali. Per far ciò è necessario che una
parte dell’utile sia riservato alla remunerazione dei risultati, mentre
un’altra parte deve essere destinata alla remunerazione del lavoro nel
senso di tempo lavorato a favore della struttura. Il non dover tenere
conto anche della remunerazione del capitale impiegato nell’attività
professionale semplifica il funzionamento dell’organizzazione;
-
il terzo obiettivo è quello di favorire la mobilità dei professionisti tra gli
studi, non solo nel senso dell’entrata, ma anche nel senso dell’uscita,
allorquando non vi sono più le condizioni per rimanere. L’associazione
solo nel lavoro riduce i freni alla mobilità. Lo stesso dicasi per la
circolazione dei beni dello studio, che sarà favorita se i beni sono intestati
ad un soggetto di diritto, quale è la società di mezzi, il cui trasferimento a
terzi necessita soltanto di un atto di cessione di quote e di modifica dei
patti sociali.
Circa le forme di organizzazione del capitale investito negli studi
professionali, si è rilevato che le tradizionali figure della società di mezzi e della
società di sevizi – sopra illustrate – pur sempre attuali, tuttavia implicano - per
opinione pressoché pacifica - il passaggio alla forma d’impresa, con tutte le
conseguenze ben note e già in precedenza illustrate anche in termini di
contribuzione previdenziale ed assicurativa all’INPS – e non alla ns. cassa di
previdenza - sugli eventuali redditi prodotti. I rimedi più o meno elusivi a tali
inconvenienti, come la chiusura sistematica in pareggio degli esercizi di tali società,
se può essere compatibile per la società di mezzi, diventa un freno allo sviluppo
organizzativo per le società di servizi, per cui la crescita sostenibile della professione
con tale ultimo strumento segna il passaggio all’impresa, di cui si è già detto in
precedenza.
102
7. LA SOCIETÀ SEMPLICE D I MEZZI .
E’ pertanto sulla scorta di tali precedenti osservazioni e per superare gli
inconvenienti segnalati che potrebbe costituirsi una società di mezzi nella forma della
società semplice tra professionisti, che apportano il capitale necessario allo studio. Infatti,
la forma della società semplice è quella originariamente pensata dal legislatore per
l’esercizio dell’impresa agricola, in cui il capitale (intendendovi compresa anche la
terra) è il fattore produttivo principale. Inoltre, la società semplice denota
tradizionalmente una netta separazione con l’impresa commerciale, in quanto non è
la forma di esercizio collettivo di quest’ultima, cui si applica il relativo statuto, per
cui – tra l’altro - non è fallibile.
In tale prospettiva, è essenziale per la società semplice professionale di mezzi
la definizione dell’oggetto, in quanto soltanto se tale oggetto è pacificamente
riconducibile alla professione intellettuale sarà possibile far rimanere nel campo del
lavoro autonomo la società di mezzi così esercitata. Orbene, qualora i soci
professionisti capitalisti (cioè quelli titolari dei beni dello studio) siano gli unici soci
della società semplice di mezzi e le stesse persone siano anche amministratori
dell’associazione professionale (o della società semplice) che ha come oggetto
l’associazione del solo lavoro (nella quale quindi vi sono come associati anche
coloro che non hanno apportato nulla a titolo di capitale), allora se la società
semplice di mezzi avesse l’oggetto sociale indicato nel prosieguo, pare di poter
affermare che tale società semplice non sia attraibile al campo dell’impresa, ma resti
saldamente all’interno del lavoro autonomo.
In sostanza, l’oggetto della società semplice di mezzi capitali coincide con
l’amministrazione dello studio associato di solo lavoro.
L’oggetto della società semplice di mezzi potrebbe essere il seguente:
La società semplice ha per oggetto l’amministrazione e la gestione corrente di
studi professionali associati (tra commercialisti) anche mediante l’assunzione
dell’outsourcing della relativa organizzazione e il coordinamento delle prestazioni
intellettuali dei relativi associati.
103
La società ha altresì per oggetto, in via accessoria, l’ac quisizione e la gestione dei mezzi
necessari o utili per lo svolgimento delle prestazioni intellettuali degli associati ai suddetti studi
professionali al fine di contenere e di ripartire tra loro i costi dei beni e servizi comuni.
La disponibilità e l’impiego dei mezzi (beni strumentali, rapporti giuridici,
ecc.) non è l’oggetto principale dell’attività, bensì è accessorio allo svolgimento
dell’attività principale che è quella di amministrare e organizzare lo studio associato.
Ora, se di regola amministrare uno studio associato di professionisti è considerato
attività professionale, non si vede perché qualora tale attività sia esternalizzata ad
una società ad hoc, quale è la società semplice di mezzi, solo per questo la natura di
tale attività dovrebbe essere commerciale o comunque imprenditoriale.
Pertanto, l’architettura proposta potrebbe essere la seguente:
associazione tra professionisti o società semplice tra professionisti per
organizzare il lavoro;
società semplice tra professionisti di mezzi per organizzare il capitale.
Gli associati di solo lavoro non sarebbero amministratori. Inoltre, poiché non
sarebbero soci della società di mezzi, non dovrebbero sborsare alcunché per entrare
nell’associazione, in quanto si obbligano unicamente a conferire l’opera
professionale. Ciò rende agevole l’entrata in associazione dei giovani dottori
commercialisti. La minore capacità di produrre reddito rispetto ai colleghi più
anziani può trovare composizione con apposite clausole in sede di ripartizione degli
utili. Nel momento in cui volessero divenire amministratori dello studio associato di
solo lavoro (o della società semplice di solo lavoro) – con i conseguenti poteri
decisionali – è da ritenere che, in base ad una apposita clausola inserita nello statuto
della associazione di solo lavoro - debbano divenire soci della società semplice di
mezzi, acquistando una quota dagli altri soci oppure conferendo in società denaro,
crediti o beni in natura, mediante un aumento di capitale della società semplice.
Occorre sottolineare la funzionalità della sovrapposizione in capo alla stessa persona
della qualità di amministratore dello studio di solo lavoro con la qualità di socio della
società di mezzi. Infatti, allorché gli amministratori decidono di acquistare un bene
strumentale, utile per l’esercizio dell’attività professionale, le stesse persone, nella
qualità di soci della società semplice “mettono mano al portafoglio collettivo” ed
104
eseguono la decisione adottata, investendo somme della società semplice, pervenute
alla stessa sia dalla costituzione, che dalla gestione corrente, sia aumentando il
capitale netto, che indebitando la società presso i soci o i terzi.
L’appartenenza a tale società semplice di mezzi non pare debba essere
notificata all’Ordine di appartenenza, in quanto non ha come oggetto l’esercizio
dell’attività professionale degli associati, ma solo l’amministrazione del relativo
studio.
La prospettata articolazione «studio di solo lavoro – società di mezzi capitali»
permette, inoltre, anche l’ingresso di soci capitalisti non professionisti. Infatti, tali
soggetti potrebbero divenire soci non amministratori della società semplice di mezzi.
In tal modo potrebbero conferire il capitale necessario allo studio, senza per questo
assumere poteri decisionali. Ciò salvaguarda il principio dell’indipendenza dei
professionisti dai capitalisti, che va tutelato per salvaguardare le prerogative tipiche
della ns. professione. Si potrebbe obiettare che il capitalista non professionista non
investirebbe mai in una società, in cui non solo non assume alcun potere decisionale,
ma che non ha tra i suoi assets il fatturato con la clientela. Orbene, tale obiezione
potrebbe essere superata in sede di redazione degli statuti dello studio di solo lavoro
e della società di mezzi oppure legando contrattualmente i compensi della società
semplice di mezzi all’andamento del reddito professionale dello studio di solo
lavoro. Si tratterebbe in buona sostanza di inventare un contratto atipico (simile a
quello) di cointeressenza della società semplice di mezzi con lo studio di solo lavoro.
Un’altra obiezione che potrebbe essere sollevata è che il socio capitalista non
professionista dovrebbe essere una persona fisica, con esclusione delle società di
capitali. Anche tale obiezione potrebbe essere superata negozialmente, mediante la
dazione delle somme alla società semplice a titolo di debito e la contestuale
redazione di patti parasociali.
L’intestazione alla società semplice di mezzi di tutti i beni dello studio
professionale, nonché di tutti i rapporti giuridici cc. dd. passivi relativi
all’acquisizione dei servizi utilizzati nell’esercizio dell’attività professionale risulta
utile anche sotto il profilo di favorire la circolazione degli studi professionali.
105
Infatti, allorché uno studio individuale viene ceduto, occorre procedere alla
gestione atomistica di tutti i rapporti giuridici reali od obbligatori, quali cessioni di
crediti, cessioni di contratti attivi e passivi, vendita di beni mobili, vendita di beni
immobili, vendita di beni mobili registrati, vendita di beni immateriali, oppure
cessazione degli effetti di contratti e volturazioni, reintestazioni al nuovo acquirente
dello studio.
In altri termini, il diritto non conosce lo studio, quale complesso di beni e di
rapporti giuridici. Si tratta di una nozione irrilevante.
In sintesi, tenuto conto che la cessione dello studio professionale è un
fenomeno statisticamente in crescita, che manca un centro unitario di gestione dei
rapporti giuridici facenti capo allo studio, è da ritenere che l’intestazione di tutti i
beni e i rapporti alla società di mezzi favorisca la circolazione dello studio
professionale.
E’ evidente, infatti, che la cessione di uno studio a terzi pùo agevolmente
concludersi con un trasferimento della proprietà delle quote della società semplice di
mezzi dai cedenti ai cessionari, evitando tutti i problemi relativi alle cc. dd.
volturazioni di contratti.
Viene così agevolata la successione nei contratti, non vi sarebbe il passaggio
diretto dei rapporti di lavoro, ecc..
Per quanto concerne, poi, lo studio associato di solo lavoro, la cessione dello
stesso interesserebbe soltanto i rapporti con la clientela e la valutazione del c. d.
avviamento professionale.
Non è mancato, poi, il rilievo, mosso da una particolare prudenza, che - in
alternativa alla società semplice di mezzi – si potrebbe semplicemente costituire una
società semplice tra professionisti a cui si intestano tutti i beni dello studio. In altri
termini, secondo questa variante prudenziale, si avrebbero quale modello
organizzativo due studi: il primo, che è l’associazione professionale vera e propria,
costituita sia come associazione tra professionisti che come società semplice tra
professionisti, la quale non avrebbe beni intestati e associerebbe solo il lavoro degli
iscritti; la seconda, una società semplice tra professionisti, il cui oggetto principale
sarebbe comunque quello dell’esercizio delle attività di dottore commercialista,
106
anche se non attuato, e come oggetto secondario, effettivamente attuato, quello
dell’amministrazione e la gestione dello studio di solo lavoro; l’oggetto ulteriore,
effettivamente attuato, sarebbe quello della gestione, acquisizione, dei beni e dei
mezzi necessari allo studio di solo lavoro. In tal modo, l’organizzazione dei beni
viene separata dall’organizzazione dell’attività professionale rimanendo in entrambe i
casi nel campo del lavoro autonomo.
8. CONCLUSIONI .
E’ opinione diffusa che le attività svolte dai professionisti necessitino –
sempre di più rispetto al passato – di un cospicuo capitale investito.
E’ altrettanto vero che il contenuto intellettuale del nostro lavoro tende ad
aumentare.
Qualcuno dice che dovremmo essere o diventare degli imprenditori
intellettuali.
A mio avviso vi è una grossa differenza tra l’esser degli imprenditori
intellettuali ed essere dei liberi professionisti intellettuali.
Se un cliente affida un incarico ad un imprenditore intellettuale, l’esecuzione
della prestazione da parte dell’imprenditore può essere affidata anche a terzi, a dei
fornitori, a dei collaboratori, preoccupandosi il secondo che i tempi e le modalità di
resa della prestazione al primo rispettino l’incarico assunto. In fondo,
all’imprenditore intellettuale basta pagare e controllare la qualità del lavoro acquisito
da terzi e “rivenduto” al cliente. L’imprenditore intellettuale non ha bisogno di avere
superato l’esame di Stato, al limite può anche non intendersi della materia nella quale
ha assunto l’incarico; può avvalersi dei migliori esperti e, quindi, rendere un servizio
eccellente al cliente, nel rispetto delle norme sulla qualità dei servizi. In altri termini,
non è tenuto alla personalità della prestazione. Il lavoro intellettuale è un fattore
della produzione, che si distacca dalla persona che effettua l’opera. E’ in altri termini
quello che si chiama il capitalismo intellettuale.
Se, viceversa, un cliente affida un incarico a un professionista intellettuale,
quest’ultimo può avvalersi di tutti i collaboratori che vuole, farsi fare il lavoro da
terzi, ma alla fine la prestazione intellettuale che rende al cliente è sempre e solo a lui
107
riferibile, perché è strettamente personale. Non può svolgere tale attività se non è
iscritto all’albo, con tutte le prerogative previste dalla legge. Il lavoro intellettuale è il
prodotto o la prestazione resa, non il fattore produttivo.
A mio parere, se le professioni intellettuali vogliono avere un futuro,
debbono restare saldamente ancorate a questi principi, la personalità della
prestazione e la preparazione fondata su un’istruzione superiore di livello
universitario, verificata dall’esame di Stato e da un aggiornamento professionale
continuo, senza farsi illudere dai falsi miti dell’efficienza e del modernismo
dell’imprenditoria intellettuale, che, pur avendo una funzione sociale, resta
comunque saldamente in un campo qualitativamente e ontologicamente diverso
fondato sulla misura del capitale e non sui sacrifici dello studio individuale, inteso
come sostantivo del verbo studiare.
In questa logica si muove la presente proposta di riorganizzazione dell’attività
professionale fondata su società o associazioni di solo lavoro, che mantengano
inalterate – pur in strutture collettive - le caratteristiche essenziali delle libere
professioni intellettuali.
Infine, un auspicio: che la nuova società tra professionisti sia senza incertezze
ancorata al campo del lavoro autonomo intellettuale, senza possibilità alternative di
svolgere l’attività delle imprese intellettuali o civili, come le qualificano gli esperti del
diritto commerciale.
capri
108
RENZO M ENEGAZZI
DELLA C. D.
PROFILI TRIBUTARI
“CESSIONE DELLO STUDIO PROFESSIONALE”
SOMMARIO. 1. INTRODUZIONE. 2. LA RISOLUZIONE DELL’AGENZIA DELLE ENTRAT E. 3. PROFILITRIBUTARIPERIL
CEDENTE. 4. PROFILI TRIBUTARI PER IL CESSIONARIO.
1. INTRODUZIONE
La crescita degli studi può essere realizzata anche tramite l’acquisizione di
uno studio professionale già esistente ed avviato.
Tali operazioni di cessione non erano mai state oggetto di intervento ad hoc
da parte dell’Amministrazione Finanziaria, probabilmente in quanto considerate
operazioni poco frequenti e significanti.
Vero è che dottrina e giurisprudenza non avevano individuato una soluzione
univoca in merito alla tassazione di tali operazioni.
Le Sezioni Unite della Corte di Cassazione si erano pronunciate con la
sentenza n. 1889 del 21 luglio 1967 in ambito di imposta sulla ricchezza mobile. In
tale sede era stato affermato il concetto che l’esercente uno studio professionale non
è titolare d’azienda e, pertanto, nella cessione dello studio non poteva sussistere un
valore d’avviamento da sottoporre a tassazione.
La Commissione Tributaria Provinciale di Ravenna con sentenza dell’11
luglio 1988, n.1505, si era pronunciata sul caso di accertamento effettuato nei
109
confronti di un notaio che, nel 1982, aveva ceduto lo studio professionale dietro
corrispettivo senza evidenziare tale importo nella propria dichiarazione fiscale.
In tale fattispecie la Commissione aveva dato ragione al ricorrente
evidenziando che non ci si trovava di fronte ad una cessione d’azienda o ad una
vendita speculativa, ma ad una semplice liquidazione patrimoniale dell’entità
immateriale “clientela” ovvero “avviamento professionale” realizzata nel corso di un
ventennio d’attività e per concretizzare la quale aveva pagato a suo tempo le imposte
relative.
Concludeva la Commissione sottolineando che, all’epoca, nessuna norma
fiscale disciplinava il caso di cessione dello studio professionale, nemmeno in via
residuale.
In dottrina, in tempi successivi, è stata prospettata la tassabilità dei proventi
conseguiti in occasione della cessione dello studio professionale come reddito
diverso qualora l’impegno di non fare concorrenza al subentrante o a favorirne il
passaggio a questi della clientela fosse riconducibile all’assunzione di “obblighi di
fare, non fare e permettere” di cui alla lettera l) dell’art.81 del TUIR..
2. LA RISOLUZIONE DELL’AGENZIA DELLE ENTRATE
Questo era il quadro sino all’intervento della risoluzione dell’Agenzia delle
Entrate n.108/E del 29 marzo 2002 su interpello proposto da un iscritto all’Albo dei
Ragionieri e periti commerciali.
Il professionista dovendo ricevere un corrispettivo per la “cessione di studio
professionale”, ha presentato istanza di interpello in merito al trattamento fiscale
dell’operazione, ritenendo la stessa non assoggettata ad IRPEF ed IVA.
Nella fattispecie in esame il contribuente intende cedere ad altro
professionista “un ramo dell’attività professionale” (rappresentata dall’attività di
gestione delle contabilità e predisposizione dichiarazioni e bilanci), riservandosi
l’attività consulenziale.
Nella soluzione prospettata dal contribuente la non assoggettabilità ai fini
IRPEF la si desume dai seguenti motivi:
110
- l’importo pattuito non può essere ricondotto a nessuna delle categorie
reddituali previste dall’art. 6 del TUIR;
- non ha natura di provento derivante direttamente dall’esercizio dell’attività
professionale di cui all’art. 50 TUIR;
- non può essere considerato reddito diverso in quanto l’art. 81 TUIR
prevede delle ipotesi tassative che non ricomprendono la fattispecie in esame.
Tuttavia in capo all’acquirente la spesa deve essere considerata deducibile dal
reddito professionale in quanto risulta soddisfatto il criterio di inerenza rispetto
all’attività svolta.
L’operazione in questione – sostiene l’interpellante - non è da assoggettare ad
IVA in quanto mancante del presupposto oggettivo della realizzazione di una
cessione di beni o di una prestazione di servizi.
L’Agenzia delle Entrate, nella citata risoluzione, giunge però ad una risposta
diversa da quella attesa dall’interpellante.
Osserva preliminarmente l’Agenzia che la cessione dello studio professionale
non può essere assimilata ad una fattispecie che genera avviamento in quanto “il c.d.
intuitu personae che connota il rapporto tra professionista e cliente esclude infatti che
la capacità professionale di attrarre clientela possa essere assimilata ad un bene
immateriale autonomamente trasferibile”, allineandosi così alla citata sentenza delle
S.U. della Corte di Cassazione.
Tuttavia, nella fattispecie in esame, con la cessione dello studio professionale
viene a crearsi tra i due professionisti un rapporto di tipo obbligatorio nella quale il
cedente si assume l’impegno di favorire il cessionario nella prosecuzione del
rapporto con la propria clientela, astenendosi dalla prestazione di attività in
concorrenza.
Di conseguenza, l’importo pattuito viene corrisposto a fronte dell’assunzione
del cedente di precisi obblighi e deve, secondo l’Agenzia, essere assoggettato a
tassazione ai sensi dell’art. 81 lettera l) (obblighi di fare, non fare e permettere) in
capo al soggetto percipiente sulla base delle aliquote progressive per scaglioni di
reddito previste dall’art. 11 TUIR.
111
Ai fini IVA l’operazione risulta assoggettata ad imposizione ex art. 3, primo
comma, DPR 633/72, in quanto “costituiscono prestazioni di servizi le prestazioni
verso corrispettivo dipendenti da ... obbligazioni di fare, non fare e di permettere
qualunque ne sia la fonte”.
3. PROFILI TRIBUTARI PER IL CEDENTE
Ai fini delle imposte dirette si è detto che i proventi derivanti dalla cessione
di uno studio professionale non costituiscono compensi e pertanto non concorrono
alla formazione del reddito da lavoro autonomo.
Secondo l’Agenzia dell’Entrate, la persona fisica che, nel cedere lo studio
professionale assume obblighi di fare (es.: indirizzare la clientela verso il cessionario,
affiancamento del cessionario), di non fare (es.: concorrenza) o permettere (es.:
consentire il subentro nei contratti di prestazione d’opera) produce invece redditi
diversi tassabili ai fini IRPEF.
Logicamente tali redditi sono tassabili secondo il principio di cassa. In ipotesi
di pagamento rateizzato e dilazionato nel tempo è possibile perciò evitare la
tassazione immediata in un unico esercizio.
Ma il ragionamento dell’Agenzia si basa sull’assunto che l’impegno che il
professionista si assume viene remunerato con uno specifico compenso che deve
essere collocato tra i redditi diversi.
Cosa accade se non vi è tale impegno? Si pensi al professionista che a seguito
della cessazione dell’attività ceda lo studio professionale consentendo a chi subentra
di utilizzare gli stessi locali. Questi non assume obblighi di non fare (non può più
fare concorrenza avendo cessato l’attività) né di fare (non canalizza la clientela né
affianca il cessionario) o di permettere (non si presta alla stipulazione di contratti
d’opera con il subentrante).
Un altro caso può essere rappresentato dal professionista che ceda lo studio
professionale ad uno studio associato e ne entri a far parte, proseguendo nell’attività
professionale nei confronti della propria clientela. La tassazione nei confronti di un
soggetto che partecipi attivamente nello studio associato acquirente sembra
difficilmente giustificabile.
112
Tali ipotesi sembrerebbero non rientrare nelle fattispecie tassative previste
dall’art. 81 TUIR e nei casi prospettati si dovrebbe escludere qualsiasi tassazione, in
quanto non viene previsto un apposito compenso per la canalizzazione della
clientela.
Per quanto riguarda l’Imposta sul valore aggiunto è opportuno ricordare che
l’importo ottenuto dalla “cessione” dello studio professionale è da assoggettare ad
IVA qualora si verifichi non solo la sussistenza del presupposto oggettivo
(prestazione di servizi in presenza di obbligazioni di fare, non fare o permettere) ma
anche di quello soggettivo (operazione connessa all’attività professionale).
Se, ad esempio, la cessione fosse successiva alla cessazione dell’attività
professionale, l’operazione sarebbe realizzata in assenza del presupposto soggettivo
e ciò ne comporterebbe l’esclusione dal campo di applicazione dell’IVA.
Problemi di applicazione dell’IVA si possono presentare, ad esempio, in caso
di cessione dello studio professionale con contestuale cessazione dell’attività e
pagamento rateale in anni successivi alla stessa.
E’ opportuno dedicare un breve cenno alla cessione dello studio
professionale in presenza di beni strumentali e di crediti.
Nell’ipotesi di realizzo di plusvalenze sulla vendita dei beni patrimoniali,
queste non concorrono alla formazione del reddito di lavoro autonomo, non
rientrando tali operazioni nell’oggetto della professione, e non sono da considerarsi
nemmeno reddito diverso, tranne la sola ipotesi di cessione dell’immobile destinato
a studio professionale prima che siano decorso un quinquennio dall’acquisto. Tali
operazioni sono tuttavia rilevanti ai fini IVA.
L’ipotesi di proventi conseguiti in sostituzione di redditi, anche per effetto di
cessione dei relativi crediti, costituiscono redditi della stessa categoria di quelli
sostituiti ed imponibili ai sensi dell’art. 6, secondo comma, TUIR. Quindi, sono da
assoggettare ad IRPEF come redditi di lavoro autonomo.
Tali cessioni di crediti in denaro sono invece operazioni escluse da IVA ai
sensi dell’art. 2, terzo comma, lettera a), DPR 633/72.
4. PROFILI TRIBUTARI PER IL CESSIONARIO
113
L’Agenzia delle Entrate ha confermato nella sua risoluzione che la spesa
sostenuta dal professionista per l’acquisto di nuova clientela, è da considerarsi costo
inerente all’attività professionale e come tale deducibile nei limiti e nelle condizioni
previste dall’art. 50 TUIR.
Si rammenta che i requisiti che debbono soddisfare le spese sostenute
nell’esercizio dell’arte e della professione, per essere deducibili dal reddito di lavoro
autonomo, sono:
- l’inerenza all’esercizio della professione;
- l’effettivo sostenimento secondo il principio di cassa;
- la documentabilità sulla base di apposito contratto.
Il costo sostenuto per l’acquisto dello studio professionale così caratterizzato
rappresenta una spesa certa ed inerente ed è deducibile nell’esercizio o negli esercizi
in cui è stata sostenuta.
114
FRANCO M ICHELOTTI
CONSIDERAZIONI CONCLUSIVE .
La professione del dottore commercialista si confronta quotidianamente con
altri competitori nei mercati dei servizi professionali e delle prestazioni intellettuali.
Dal mercato vengono almeno tre sollecitazioni che inducono cambiamenti di
lungo periodo:
1. il cliente è un consumatore, che sceglie la prestazione professionale con il
miglior rapporto qualità / prezzo;
2. il professionista è un produttore di servizi intellettuali, che per aumentare
la qualità delle sue prestazioni deve specializzarsi, aggiornarsi e formarsi
continuamente;
3. il professionista per essere competitivo nei suoi compensi e continuare a
guadagnare deve organizzarsi meglio, razionalizzando i suoi processi lavorativi,
ampliando le dimensioni degli studi e realizzando delle economie di scala.
L’organizzazione della crescita degli studi professionali diventa il punto
centrale dello sviluppo della professione.
Specializzazione, investimenti di capitale, aumento delle dimensioni degli
studi sono tappe obbligate per rimanere sul mercato.
La specializzazione è attuabile in contesti largamente organizzati, come del
resto l’impiego di capitale è fruttifero solo se le dimensioni degli studi sono
adeguate, altrimenti diventa una perdita.
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Consapevole di questa sfida - posta dai fattori del cambiamento - che attende
i dottori commercialisti nei prossimi anni, rilevato anche il ritardo della categoria ad
intraprendere con maggiore decisione i processi di crescita e di aggregazione
professionale, l’U. N. G. D. C. ha formato una commissione di studio su
“L’evoluzione dell’organizzazione dello studio professionale”, formata dai colleghi
Arturo Denza, segretario, Giuseppe Melara, Simone Cavestro, Renzo Menegazzi,
Pierpaolo Vannucci, Chiara Mio, Massimo Masoni, Gianpaolo Valente, Alessandro
Michelotti, Giampaolo Frezza, oltre che dal sottoscritto, quale presidente e da Sauro
Settesoldi quale delegato dalla giunta nazionale.
Occorre premettere che la ns. commissione ha avuto come oggetto principale
l’esame delle clausole statutarie concernenti la ripartizione degli utili, l’ingresso di un
nuovo socio o associato, anche nella fattispecie della “fusione” di più studi già
avviati, e la valutazione dello studio professionale. Inoltre, si è trattato delle clausole
relative allo scioglimento dello studio, anche limitatamente ad un socio o associato.
La ragione della scelta di pochi argomenti più specifici da approfondire
rispetto al più ampio tema dell’evoluzione e della crescita degli studi, che resta
l’obiettivo strategico a lungo termine, trova fondamento nell’esigenza – assai
avvertita – di analizzare i profili critici dell’associazionismo tra professionisti,
tradizionalmente e comunemente riconosciuti nell’individualismo del dottore
commercialista, che si coglie essenzialmente in tre momenti:
a) all’atto della valutazione dello studio, prima di entrare in una struttura
collettiva,
b) al momento della ripartizione degli utili, quali frutti dell’attività
professionale in forma collettiva e
c) al momento dell’uscita o dello scioglimento dell’associazione.
Il dibattito avuto in seno alla commissione ha fatto emergere, poi, come assai
spesso l’evoluzione dell’organizzazione dello studio professionale si risolva con il
passaggio alla forma di impresa.
Le società di servizi costituite dai ns. colleghi ne costituiscono l’esempio più
frequente. Elaborazione dei dati contabili, tenuta della contabilità, predisposizione
116
delle dichiarazioni tributarie sono le funzioni professionali che più spesso vengono
affidate alle società di servizi.
Fenomeno analogo sono le società di consulenza, con le quali possono venir
esercitate le funzioni professionali non strettamente legale alla personalità del
professionista e quelle non riservate agli iscritti all’albo.
Gli inconvenienti che si rilevano sono quelli dello snaturamento della ns.
attività professionale e la perdita delle prerogative della ns. professione.
Il reddito d’impresa delle società di servizi e di quelle di consulenza, poi, non
è assoggettato a contribuzione della ns. Cassa di previdenza, con tutte le
conseguenze facilmente immaginabili in termini di mancato gettito.
I posti di lavoro e la ricchezza prodotta dalle suddette società di servizi non
vengono solitamente attribuite nelle statistiche ufficiali ai dottori commercialisti, in
tal modo il ns. peso politico, quale classe dirigente del paese, viene alterato in senso
riduttivo.
Nello stesso tempo, si è rilevato la diffusione del fenomeno delle società di
mezzi, nella forma della s. r. l., anche unipersonale. Anche tali società, però, fanno
parte non più del lavoro autonomo, ma delle imprese commerciali. E’ pur vero che
di solito, chiudono i bilanci in pareggio; però tendono anch’esse a portare l’attività
professionale nel campo delle imprese.
Oltre a queste problematiche attuali, si sono rilevati gli ostacoli
all’associazionismo tra professionisti.
In primo luogo, è palese e fin troppo nota la mancanza di una legge sulle
società professionali, che – tra l’altro – dovrebbe impedire il passaggio della
professione nel campo dell’impresa, anche quando i professionisti che si associano
sono numerosi. Tuttavia, non potendo influire sul legislatore, data l’incertezza dei
tempi della riforma, attesa invano da decenni, si è operato sulla base della
legislazione vigente.
In secondo luogo, nella suesposta prospettiva de iure condito, per favorire la
crescita degli studi professionali, senza sconfinare nell’impresa, si è preso atto che gli
strumenti attualmente a disposizione sono ancora l’associazione tra professionisti e
117
la società semplice tra professionisti. Il fenomeno analizzato più attentamente è
stato quello della concentrazione degli studi attualmente esistenti.
In questa prospettiva, si è esaminato il tema della valutazione dello studio
professionale. Al riguardo, si è ritenuto che allorché la valutazione dello studio sia
funzionale ad un’operazione di concentrazione (fusione di più studi, individuali o
associati, ingresso in uno studio associato di un nuovo socio che ha uno studio,
ecc.), allora, pur non potendosi parlare formalmente di avviamento, ma più
correttamente di valore attuale dell’opera professionale conferenda, i principi e i
metodi di valutazione da applicare in tali operazioni sono assai simili a quelli delle
imprese di servizi. La problematica, in altri termini, risulta analoga a quella della
determinazione del rapporto di cambio in una fusione di società per unione o per
incorporazione. Infatti, si tratta di valutare gli studi che confluiranno nella struttura
sociale o associativa e di attribuire loro un peso proporzionale al loro valore. La
misurazione di tali pesi o ponderazioni può condurre nella trattativa a conguagli in
denaro al momento dell’avvio del sodalizio o all’attribuzione di percentuali
differenziate per la ripartizione degli utili.
In terzo luogo, è stato affrontato il tema della mobilità dei professionisti e
della circolazione dei beni dello studio, rilevando, anche sotto questo aspetto, una
lacuna normativa, ossia nel fatto che il diritto non conosce la nozione di studio
professionale, per cui in caso di cessione a terzi occorre seguire atomisticamente
tutti i rapporti con le connesse volturazioni. Sarebbe auspicabile una normativa che
desse rilievo allo studio professionale quale complesso di beni che servono
all’esercizio della professione intellettuale.
Nell’ipotesi di cessione a terzi dello studio professionale, poi, si è osservato
che la valutazione va effettuata tenendo conto del distacco del professionista titolare
dallo studio ceduto, per cui potrà parlarsi di avviamento solo nell’ipotesi in cui lo
studio venga conferito in una società commerciale o ad essa ceduto e limitatamente
al valore dei servizi professionali che lo studio è capace di rendere autonomamente,
cioè senza l’intervento personale del titolare. Ma anche in questo caso si ripropone
la trasformazione di parte dell’attività professionale in attività imprenditoriale. A
questo riguardo la recente risoluzione dell’agenzia delle entrate, ha posto un punto
fermo in una materia fino a ieri sostanzialmente dimenticata.
118
In quarto luogo, i giovani professionisti - si è osservato – trovano difficoltà
ad entrare negli studi già avviati. Ciò perché assai spesso non possiedono i capitali
necessari per acquistare una parte dello studio di cui potrebbero divenire soci a tutti
gli effetti. Infatti, una delle cause più frequenti di ostacolo all’associazionismo è data
dal capitale investito negli studi. Tanto maggiore è il capitale, tanto più alto dovrà
essere lo sforzo economico dei giovani professionisti. Del resto è opinione diffusa
che negli studi per essere al passo con i tempi l’investimento di capitali si va facendo
via via crescente. Non solo, ma la presenza di un ingente capitale investito pone il
problema della relativa remunerazione, una volta costituita l’associazione o la società
di professionisti. Infatti, non è sempre realizzabile nei casi concreti l’uguaglianza
delle percentuali di partecipazione agli utili con quelle di partecipazione al capitale o
al patrimonio dello studio. Dunque, per favorire l’associazionismo occorre ridurre
l’impatto di tali fattori sostanzialmente dissuasivi. Ma vì è di più: il recente passato
dimostra che molte associazioni si sciolgono o che, più, correttamente gli studi si
dividono, dopo essersi uniti. Molto spesso è proprio la presenza del capitale il
fattore critico al momento nella divisione dello studio, causata ovviamente da altri
fattori. Nello stesso tempo – come si è detto - si registra l’aumento del fabbisogno
di capitale negli studi professionali.
La commissione – a questo riguardo – ha ritenuto di rivalutare l’esperienza
delle società di mezzi, che consentono – appunto – di separare il capitale investito
negli studi dal lavoro prestato dagli associati. Però, occorre evitare l’inconveniente
della forma d’impresa, tipica della società di mezzi. Si propone, allora, di costituire
una società di mezzi, non nella forma della società commerciale, ma nella forma
della società semplice. Per far ciò, però, occorre che l’oggetto dell’attività sociale non
sia riconducibile nel campo dell’impresa. Si propone, allora un oggetto sociale dato
dall’amministrazione e dalla gestione dello studio associato, mediante l’assunzione in
outsoursing della relativa organizzazione. La gestione dei beni utilizzati dallo studio
associato è un’attività accessoria nella società semplice di mezzi. L’appartenenza a
tale società non pare debba essere notificata all’Ordine di appartenenza, in quanto
non ha come oggetto l’esercizio dell’attività professionale degli associati, ma solo
l’amministrazione del relativo studio.
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Non è mancato, poi, il rilievo, mosso da una particolare prudenza, che - in
alternativa alla società semplice di mezzi – si potrebbe semplicemente costituire una
società semplice tra professionisti a cui si intestano tutti i beni dello studio. In altri
termini, secondo questa variante prudenziale, si avrebbero quale modello
organizzativo due studi: il primo, che è l’associazione professionale vera e propria,
costituita sia come associazione tra professionisti che come società semplice tra
professionisti, la quale non avrebbe beni intestati e associerebbe solo il lavoro degli
iscritti; la seconda, una società semplice tra professionisti, il cui oggetto principale
sarebbe comunque quello dell’esercizio delle attività di dottore commercialista,
anche se non attuato, e come oggetto secondario, effettivamente attuato, quello
dell’amministrazione e la gestione dello studio di solo lavoro; l’oggetto ulteriore,
effettivamente attuato, sarebbe quello della gestione, acquisizione, dei beni e dei
mezzi necessari allo studio di solo lavoro. In tal modo, l’organizzazione dei beni
viene separata dall’organizzazione dell’attività professionale rimanendo in entrambe i
casi nel campo del lavoro autonomo.
Con tale distinzione di attività, anche la certificazione della qualità, verrebbe
facilitata. Infatti, l’associazione di solo lavoro potrebbe concentrarsi sulla
specializzazione e sulla formazione professionale continua per migliorare la qualità
della prestazione intellettuale, mentre lo studio di mezzi capitali potrebbe recepire i
maggiori investimenti, razionalizzando i processi, realizzando risparmi ed economie
di scala, creando le condizioni per collaborazioni interprofessionali, migliorando la
organizzazione in senso stretto dello studio professionale e quindi prepararsi alla
certificazione di qualità.
In quinto luogo, si è esaminato il tema della ripartizione degli utili
dell’associazione. Anche in questo campo si è rilevato come la presenza del capitale
nell’associazione renda eccessivamente complessa la redazione di tali clausole.
Infatti, il modello che è stato oggetto di studio non è quello dei professionisti
all’inizio dell’attività senza particolari mezzi investiti nella medesima, bensì la
concentrazione di più studi già avviati. La soluzione della società di mezzi, anche in
questo caso, si rivela preferibile.
In materia di utili, occorre privilegiare la remunerazione sia del lavoro come
tempo lavorato, che dei risultati conseguiti. Quindi, si propone di dividere l’utile in
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due parti percentuali, di cui una destinata all’aspetto solidaristico, l’altra al merito. Si
è molto discusso, poi, su quali siano le metodologie da adottare per compensare le
performance ottenute. In questa prospettiva, le più grosse organizzazioni dovranno
dotarsi di adeguati sistemi di controllo interno dell’attività professionale svolta, al
fine di misurare le prestazioni rese e i risultati ottenuti. Circa i criteri da utilizzare, si
è ritenuto che il fatturato individuale, la redditività per pratica, l’abilità commerciale,
la capacità organizzativa interna, l’anzianità e l’esperienza professionale siano i
principali parametri per redigere una clausola statutaria o un regolamento interno
che consenta di innescare il circolo virtuoso dell’incentivo a lavorare in una struttura
che non può dirsi propria, il che – pare essere uno degli ostacoli psicologici più
frequenti all’associazionismo tra colleghi. Da ciò consegue una estrema variabilità
nella percentuale degli utili da un anno all’altro, il che accentua un profilo
competitivo, che tradizionalmente manca nelle ns. organizzazioni. Sotto
quest’aspetto l’aver alleggerito lo studio associato dai beni, che vengono intestati alla
società di mezzi, elimina la risoluzione dell’ulteriore problema della comunione dei
beni nelle associazioni professionali. Infatti, da un anno all’altro mutando
sensibilmente la percentuale di ripartizione agli utili tra gli associati, sugli utili non
ripartiti e sugli eventuali beni acquistati dallo studio associato, si formerebbero diritti
di comproprietà differenziati a seconda dell’anno che viene preso in considerazione.
Anche questa complicazione, con la soluzione proposta viene sostanzialmente
evitata.
Il tema, infine, non si presta a conclusioni, in quanto la via proposta ha
un’infinità di variabili, adattabili ai casi concreti. In fondo, questo è il nostro
mestiere di adattare le fattispecie astratte a quelle concrete, creando valore per il
cliente.
I contributi di questa dispensa avranno colto l’obiettivo che si sono posti, se i
temi affrontati verranno dibattuti tra i colleghi, innescando un’accelerazione nel
processo di aggregazione tra colleghi e specializzazione professionale.
E’ la consapevolezza della necessità di tale cambiamento che ha indotto l’U.
N. G. D. C. all’organizzazione del congresso di Capri, al quale questa dispensa è
destinata.
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*
*
*
Infine, quale presidente della commissione, a nome degli amici che la
compongono, vorrei ringraziare la giunta nazionale e il suo presidente per l’impulso
e il sostegno datoci sin dall’inizio, mettendoci da un lato a disposizione le strutture
dell’associazione e dall’altro favorendo la collaborazione con il nostro istituto di
ricerca, la fondazione Aristeia, ai cui organi direttivi si estende il ringraziamento per
aver consentito di avvalerci della consulenza del prof. Frezza, autore – tra l’altro - di
una recente e apprezzatissima monografia sulle società tra professionisti.
Un particolare grazie all’amico Sauro Settesoldi, che non solo ha voluto la
costituzione di questa commissione, ma che, oltre ad essere sempre presente alle ns.
riunioni, a testimonianza dell’impegno della giunta nazionale, ne ha indirizzato i
lavori in tutti i momenti più critici.
Infine, ringrazio sentitamente gli amici che compongono la commissione, in
cui ho ritrovato i valori della ns. associazione, cioè quello che si chiama lo Spirito
Unione.
Montecatini Terme, 2 maggio 2002
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