collana del centro interuniversitario per le ricerche sulla sociologia

COLLANA DEL CENTRO INTERUNIVERSITARIO
PER LE RICERCHE SULLA SOCIOLOGIA DEL DIRITTO,
DELL’INFORMAZIONE
E DELLE ISTITUZIONI GIURIDICHE
(CIRSDIG)
6
Comitato scientifico
PROF. LARRY BARNETT, Widener University (USA)
PROF. ROQUE CARRIÒN–WAM, Università di Carabobo (Venezuela)
PROF. DOMENICO CARZO, Università di Messina
PROF. ALBERTO FEBBRAJO, Università di Macerata
PROF. MAURICIO GARCIA–VILLEGAS, Università Nazionale di
Bogotà (Colombia)
PROF. MARIO MORCELLINI, Università di Roma “Sapienza”
PROF. EDGAR MORIN, École des Hautes Études en Sciences Sociale
(France)
PROF. VALERIO POCAR, Università di Milano “Bicocca”
PROF. MARCELLO STRAZZERI, Università di Lecce
Tutti i volumi pubblicati nella Collana del CIRSDIG vengono sottoposti a un
processo di peer–reviewing.
CIRSDIG – COLLANA DEL CENTRO INTERUNIVERSITARIO PER
LE RICERCHE SULLA SOCIOLOGIA DEL DIRITTO,
DELL’INFORMAZIONE E DELLE ISTITUZIONI GIURIDICHE
La collana ospita interventi, teorici o empirici, che trattino i processi normativi e/o comunicativi riguardanti le trasformazioni in atto
nel mondo contemporaneo e, in generale, gli aspetti di potere connessi a genere, razza e disuguaglianze presenti in tali processi. Più
specificamente i testi pubblicati riguardano ad esempio: dinamiche e
mutamenti sociali e giuridici; la cultura, gli immaginari collettivi e le
trasformazioni sociali; i nuovi diritti civili, politici e sociali; la comunicazione e le Nuove Tecnologie.
Michaela Quadraro
L’arte digitale postcoloniale
Uno studio sull’opera di Isaac Julien e Trinh T. Minh–ha
Copyright © MMXII
ARACNE editrice S.r.l.
www.aracneeditrice.it
[email protected]
via Raffaele Garofalo, 133/A–B
00173 Roma
(06) 93781065
ISBN
978–88–548–4920–4
I diritti di traduzione, di memorizzazione elettronica,
di riproduzione e di adattamento anche parziale,
con qualsiasi mezzo, sono riservati per tutti i Paesi.
Non sono assolutamente consentite le fotocopie
senza il permesso scritto dell’Editore.
I edizione: giugno 2012
Prefazione di Lidia Curti
7
Premessa
11
Capitolo I - Sfondi postcoloniali e paesaggi razziali
13
I.a. Il campo della cultura visiva
I.b. Potere e resistenza nella rappresentazione
I.c. Contro-pratiche cinematografiche: Territories
I.d. La riconfigurazione delle differenze: Looking for Langston
e Frantz Fanon
13
20
26
Capitolo II - I linguaggi dell’immagine digitale
53
II.a. L’evento del cinema digitale
II.b. ‘D-film’: Night Passage
II.c. Dibattito postcoloniale e tecnologia: Encore II
II.d. Le trame della memoria: The Fourth Dimension
53
59
73
91
Capitolo III - Le onde museali
105
III.a. Spazi eterogenei: la trilogia di Isaac Julien
III.b. Questioni di razza: Ten Thousand Waves
III.c. L’eccesso dell’arte postcoloniale
III.d. Il museo come archivio digitale della migrazione
105
130
142
149
Conclusioni
157
Bibliografia
159
Filmografia/Installazioni
175
5
37
Prefazione
Lidia Curti
Quando si parla di arte postcoloniale non ci si riferisce a una
partizione puramente cronologica ma piuttosto ad espressioni
artistiche che, pur guardando al periodo coloniale e interrogandosi
sulle sue scie e conseguenze, di tali conseguenze sono spesso
espressione diretta e non solo per il ‘metissage’ di autrici e autori. Lo
spazio in cui si muove è lo spazio diasporico, un sincretismo dinamico
messo in movimento dalla de-colonizzazione e dalle migrazioni
transglobali, occupato da soggettività mobili e fluide, che attraversano
barriere di razza, genere e nazionalità: la zona di confine è per loro
‘abitazione e luogo’ (Shakespeare).
È un’arte che spesso interroga forme, canoni e generi occidentali,
esplorando i rapporti tra etica ed estetica, identità e differenza, ibridità
e slittamento, localizzazione geografica e spaesamento. Il cinema, che
è stato indice della nostra modernità con la sua supremazia oculare, si
è coniugato alle forme avanzate dei linguaggi video e digitali, creando
un’importante area espressiva per il postcoloniale, caratterizzata da
una sintassi dell’interruzione e da una narrazione decentrata,
discontinua e composta di intervalli.
Il libro di Michaela Quadraro esplora le problematiche di tale
incontro concettuale, con riferimento specifico alla cultura e all’arte
angloamericana di cui non ignora la complessità delle trasmigrazioni e
traduzioni culturali. I movimenti culturali e artistici sono legati a
quelli politici e sociali nell’attenta analisi dell’autrice, offrendo un
panorama visuale ampio e convincente. In particolare il libro si
sofferma su due artisti che di tali incontri e complessità sono
emblematici.
L’artista anglo-caraibico Isaac Julien è uno dei più importanti
rappresentanti dell’arte nera europea, co-fondatore del Sanfoka Film
and Video Collective, finalista del Turner Prize e presente con le sue
7
8
Lidia Curti
opere in musei e mostre internazionali, talvolta anche nello spazio
aperto della città. È passato dal campo del cinema a quello delle
installazioni video a schermo multiplo, e recentemente si è avvicinato
con opere volte alla migrazione contemporanea, tra Africa e Italia, tra
Cina e Europa. Julien tocca le questioni dell’identità nera e
omosessuale in molte delle sue opere, e filtra la sua sensibilità
teoretica e le sua visione politica, che si potrebbe definire
‘brechtiana’, attraverso un’estetica formale ispirata all’immaginario
barocco.
L’altra artista al centro delle analisi di questo libro è Trinh T. Minhha, cineasta, antropologa e teorica femminista di origine vietnamita. I
suoi film, girati in Senegal, Vietnam e Cina, hanno ricevuto premi e
riconoscimenti in molti festival, incluso il Sundance Festival, e
numerose retrospettive nel mondo, tra cui quella a Documenta 11. La
sua arte attraversa vari linguaggi e media; immagini e sceneggiatura
sono incontro di poesia, analisi antropologica e racconto e occupano
lo spazio tra scrittura e visualità, cinema e musica, documentarismo e
finzione. Si muove sulla soglia tra linguaggi di avanguardia e
denuncia anticoloniale; anche i suoi libri presentano la commistione
tra immagini e scrittura. Insiste sulla necessità di parlare ‘dappresso‘
all’oggetto osservato, sulla scia della scrittrice algerina Assia Djebar,
senza presumere di parlare per le altre, in antitesi alla presunta
‘neutralità’ dell’osservatore occidentale. L’analisi di Quadraro, pur
illustrando i suoi film precedenti, si ferma su Night Passage, storia di
un viaggio in una dimensione interculturale ed extra-temporale che
trasforma lo spazio audio-visuale in una serie di interrogazioni e
interruzioni.
Il volume presenta giustapposizioni di pensiero e arte cruciali nel
panorama contemporaneo e introduce in Italia l’opera emblematica di
artisti che si muovono tra varie tecnologie, dalla celluloide al digitale,
proponendo una riconfigurazione e mutazione dei linguaggi visuali.
Le loro opere, illustrate nel volume con dovizia di analisi e immagini,
interrompono la linearità narrativa e storica e confondono la
distinzione tra avanguardia e pratica documentaristica, in una visione
Prefazione
9
frammentaria e anti-gerarchica di spazi e geografie sociali. In questa
maniera la poetica postcoloniale propone una politica che interroga ed
interrompe la modernità, elaborando uno spazio critico da venire.
Premessa
Questo libro declina il confronto della critica postcoloniale con l’arte,
in particolare con esempi di pratiche artistiche che scatenano eventi e
fanno emergere l’altrove della modernità. L’intreccio tra questo campo
di studi e il visuale, inteso come struttura interpretativa fluida ed
interdisciplinare, è ricco di stimoli e sfide continue: l’attenzione ricade
sulla questione della rappresentazione e sull’esplorazione di quelle
pratiche cinematografiche che, negli anni Ottanta, nel Regno Unito,
mettono in crisi le rappresentazioni dei media attraverso il cinema.
Isaac Julien si inserisce in questo contesto storico ed artistico:
passando per film sperimentali, documentari e, più recentemente,
installazioni costruite con schermi multipli nello spazio del museo, il
suo lavoro è un intervento sulle strategie estetiche che accolgono la
sfida del pensiero critico e la politica della rappresentazione. Nella sua
produzione artistica, il cinema diventa materialmente uno strumento
critico e un mezzo per far circolare la memoria.
Ispirata dall’impatto della tecnologia sul lavoro con le immagini,
ho cercato di costruire un percorso critico sul digitale, mettendolo a
confronto con la complessità culturale, politica ed economica della
contemporaneità. Tuttavia, le trame delle immagini digitali non
segnano un percorso evolutivo che spazza e sostituisce il precedente,
un passaggio netto dall’analogico al digitale, quanto un’iscrizione
dell’uno nell’altro. Inoltre, nel tentativo di tracciare il rapporto tra
cultura visuale, razzismo e politiche dell’identità, questa ricerca lascia
che la questione della razza e dell’etnicità emerga e si materializzi
negli eventi artistici, in particolare nelle installazioni audiovisive
allestite con schermi multipli nelle sale di un museo. Nei lavori
esplorati nell’ultima parte di questo libro, la differenza razziale non si
arresta alla cattura rappresentativa legata all’identità e fluisce oltre i
canali ufficiali, oltre gli schermi, il pubblico e, persino, le pareti del
museo, in un movimento continuo ed inarrestabile. Isaac Julien e
Trinh T. Minh-ha sperimentano con la tecnologia e propongono flussi
visivi e sonori che riaprono l’archivio coloniale e mettono in questione
11
12
Premessa
le narrazioni sulla migrazione, tra Africa e Europa, fino a risuonare
con la lontana Cina.
Capitolo I
Sfondi postcoloniali e paesaggi razziali
I.a. Il campo della cultura visiva
Nel campo degli studi culturali e postcoloniali di matrice anglofona la
visualità ricopre un ruolo cruciale nell’analisi delle pratiche culturali e
dei processi di produzione, distribuzione e ricezione della cultura.
L’inaugurazione del Centre for Contemporary Cultural Studies
(CCCS) presso l’Università di Birmingham nel 1964, diretto prima da
Richard Hoggart e poi da Stuart Hall dal 1968 al 1979, apre la strada
ad una varietà di approcci critici per l’interpretazione della società e
della cultura attraverso la combinazione di teorie sociologiche e
analisi letteraria dei testi culturali. Non si può parlare di una corrente
unificata o di un metodo fisso, quanto di una prospettiva fluida e
interdisciplinare che, in risposta ai movimenti politici degli anni
Sessanta e Settanta, si concentra sull’intreccio tra rappresentazioni e
ideologie di genere, classe e razza, specialmente nei media, per
studiare gli effetti di giornali, televisione, radio, film e altre forme
culturali. Sin dall’inizio, gli studi culturali britannici mettono in
questione la divisione tra cultura bassa e alta, lavorano sulla teoria
senza trascurare le pratiche e considerano le capacità del pubblico di
produrre cultura e creare significati; in particolare, l’interpretazione
della cultura come il prodotto di conflitti tra gruppi sociali lega
profondamente il percorso teorico del CCCS all’idea di “egemonia”
del pensatore italiano Antonio Gramsci, elaborata nella struttura aperta
e fluida dei suoi scritti della prigionia negli anni Trenta, soprattutto nei
noti Quaderni. Come suggerisce Valentino Gerratana, Gramsci,
“convinto che la forza da sola non basta a governare lo Stato, che cioè
è insufficiente ad assicurare uno stabile dominio di classe, si sforza di
chiarire quali altri elementi concorrano a tenere in equilibrio la
dinamica del potere” (1997, p. 122). Ed è una teoria generale
dell’egemonia, nutrita di riflessioni che possano riferirsi tanto
13
14
Capitolo I
all’egemonia proletaria quanto a quella borghese, a fornire al filosofo
e politico italiano una possibile risposta a tali interrogativi:
[L]a supremazia di un gruppo sociale si manifesta in due modi, come
«dominio» e come «direzione intellettuale e morale»... Un gruppo sociale
può e anzi deve essere dirigente già prima di conquistare il potere
governativo (è questa una delle condizioni principali per la stessa conquista
del potere); dopo, quando esercita il potere e anche se lo tiene fortemente in
pugno, diventa dominante ma deve continuare ad essere anche
«dirigente» (Gramsci, 1997, p. 406).
Il pensiero gramsciano, tuttavia, non mira alla definizione di un
modello applicabile ad ogni contesto, quanto ad una
concettualizzazione che non trascuri mai le condizioni storiche. Nelle
parole di Gerratana, ancora, l’egemonia “in generale è solo capacità di
guidare, nella misura in cui questa capacità si traduce in effettiva
direzione politica, intellettuale e morale” (1997, pp. 122-123). La
classe dominante che riesce a dirigere, infatti, si impegna in una
battaglia continua per assicurare il sostegno alle idee che giustificano i
suoi interessi e si serve di un “consenso” che si propaga per
nascondere forme di dominio e sfruttamento. Ciononostante, Gramsci
contempla la possibilità reale e quotidiana di sfidare il senso comune
delle prospettive dominanti e di produrre delle contro-egemonie di
resistenza, perché l’egemonia non può essere mai data per scontata.
La lezione dell’egemonia, grazie a cui una classe ottiene il
consenso della maggioranza e riproduce l’ordine sociale attraverso le
istituzioni, viene accolta dagli Studi Culturali britannici ed estesa ad
un’idea di conflitto sociale che comprendesse le dimensioni della
razza, del genere e della sessualità. In particolare, ci si concentra sugli
aspetti delle teorie gramsciane che coinvolgono l’analisi delle forze
politiche dominanti e l’investigazione dei gruppi contro-egemonici,
per soffermarsi sull’attualità politica delle contestazioni al governo
conservatore di Margaret Thatcher durante i tardi anni Settanta e i
primi anni Ottanta (Durham e Kellner, 2001). Al CCCS di
Birmingham l’attenzione sulle forze di opposizione e resistenza
diventa, così, l’occasione per studiare i processi di trasformazione
Sfondi postcoloniali e paesaggi razziali
15
politica della società contemporanea e i movimenti finalizzati alla
lotta delle ineguaglianze e delle oppressioni su ogni livello:
The work of the late 1950s and early 1960s Williams/Hoggart/Hall stage of
cultural studies emphasized the potential of working-class cultures; then
began in the 1960s and 1970s appraising the potential of youth subcultures to
resist the hegemonic forms of capitalist domination (Durham e Kellner, 2001,
p. xxiv).
Fin dall’inizio gli Studi Culturali britannici rivolgono lo sguardo
alle sottoculture giovanili in quanto forze potenzialmente sovversive,
capaci d’innescare cambiamenti sociali e di produrre forme di
opposizione ai messaggi egemonici dei media. Per l’approccio
culturalista resta imprenscindibile la considerazione del ruolo attivo di
consumatori e pubblico, i quali sono molto meno vulnerabili e soggetti
alla manipolazione di quanto si creda comunemente (Kirby et al.,
2000, p. 33). In questa ricerca la visualità ricopre una posizione
cruciale per l’attenzione sugli stili e sulle identità dei gruppi resistenti
alle forme culturali dominanti. Tuttavia, la denominazione “visual
culture” comincia ad apparire in modo più netto verso la fine degli
anni Novanta e a dimostrare il suo carattere trasversale che spazia tra
studi sull’arte, il cinema e i nuovi media. Nel testo del 1999, intitolato
esplicitamente Visual Culture: The Reader, Stuart Hall e Jessica Evans
ricordano che la disseminazione delle parole “cultura visuale” è
generalmente attribuita alla critica d’arte Svetlana Alpers, la quale
negli anni Ottanta enfatizza non tanto una storia della pittura, quanto
la circolazione, la presenza e il ruolo delle immagini su un livello più
vasto (Hall e Evans, 1999; Demaria, 2004; Kromm e Benforado
Bakewell, 2010). La teorizzazione della “cultura visuale” è legata al
vedere e guardare in quanto pratiche culturali:
By ‘subjective capacity’ and ‘cultural practice’ we understand how so-called
objective social and psychic positionings are formed and become productive
of interpretations, are used and ‘lived’ subjectively, influencing from the
inside – not always in manifest or conscious ways – both what and how
meaning is taken (Hall e Evans, 1999, p. 310).
16
Capitolo I
Nella prospettiva elaborata da Hall il punto di partenza è costituito
dall’immagine con la sua facoltà di funzionare come segno o testo e di
produrre un significato che, tuttavia, non può essere mai completato
all’interno del testo stesso, poiché si realizza attraverso le possibilità
soggettive di far significare le immagini che sono sempre soggette ad
interpretazioni multiple. Per la cultura visuale è decisiva, pertanto, la
capacità dei soggetti che guardano di prendere il significato e di dare
un senso a ciò che vedono. Questo circuito di articolazione è in uno
stato di costituzione continua, in cui soggetti e oggetti della visione si
costituiscono a vicenda. Come ricorda ancora Hall, nessun elemento è
individuato in maniera definitiva:
Each is implicated in the other; neither could exist without the other. The
subject is, in part, formed subjectively through what and how its ‘sees’, how
its ‘field of vision’ is constructed. In the same way, what is seen – the image
and its meaning – is understood as not externally fixed, but relative to and
implicated in the positions and schemas of interpretation which are brought
to bear upon it... It follows from this argument that ‘the meaning’ of the
image cannot be seen as fixed, stable or uni-vocal across time or cultures
(Hall e Evans, 1999, pp. 310-311).
Allo stesso modo, la produzione incessante del soggetto avviene
grazie a processi incompleti che sono sia sociali che psichici. Questo
punto è particolarmente evidente nel contesto del colonialismo: in un
testo come Pelle nera: maschere bianche (1952), infatti, il cammino
dello psichiatra martinicano Frantz Fanon è quello della minoranza
che imita il Bianco e lo interiorizza come io ideale, indossando, come
evoca lo stesso titolo del libro, una maschera bianca sulla pelle nera.
In questo lavoro c’è un aneddoto che l’autore racconta per segnare
l’inizio di un marchio in cui il soggetto subisce le pratiche razziste di
una cultura coloniale. Una volta in Francia, un ragazzino bianco fissa
Fanon e, con la presenza rassicurante di sua madre, pronuncia parole
impossibili da dimenticare:
“Sporco negro!” o semplicemente: “Toh! Un negro”.
Sfondi postcoloniali e paesaggi razziali
17
Facevo ingresso nel mondo, preoccupato di trovare un senso alle cose,
con l’animo pieno del desiderio di essere all’origine del mondo, ed ecco che
mi scoprivo oggetto in mezzo ad altri oggetti.
Rinchiuso in questa schiacciante oggettività, imploravo gli altri. Lo sguardo
liberatore, che slitta sul mio corpo divenuto improvvisamente privo di
asperità, mi rende una leggerezza che credevo perduta e mi restituisce al
mondo, allontanandomi. Ma laggiù, giusto dove si apre l’altro versante,
inciampo e l’Altro, con gesti, attitudini, sguardi, mi fissa così come si fissa
un preparato con un colorante (Fanon, 1952, p. 97).
Sottoposto al potere dello sguardo razzista occidentale, Fanon si
sente definito e materializza per la prima volta il proprio corpo nero.
“Cos’era per me se non uno scollamento, una lacerazione, una
emorragia che mi coagulava sangue nero tutto addosso?” (Fanon,
1952, p. 100). Tali sensazioni sono causate dalla difficoltà che prova
l’uomo di colore nell’elaborare la conoscenza del suo stesso corpo,
un’attività esclusivamente negatrice, tale da farlo sprofondare in
un’insopportabile incertezza. Osservato, sezionato ed esaminato,
Fanon è schiavo della sua stessa apparenza. Si sente perseguitato da
una nerezza implacabile, tormentato da un tipo d’uomo, il “negro”, e
da un senso preesistente che è sempre lì ad attenderlo:
Il negro è un balocco fra le mani del Bianco. Allora, per rompere il cerchio
infernale, esplode. Impossibile andare al cinema senza incontrarmi. Mi
aspetto. Nell’intervallo, proprio prima del film, mi aspetto. Quelli che sono
nella fila davanti, mi guardano, mi spiano, m’aspettano. Ora comparirà un
inserviente negro. Ho il cuore in bocca (Fanon, 1952, p. 121).
Fanon si riconosce, altresì, come minoranza subalterna, a cui si
ricongiungono storie di antenati schiavizzati, considerati bruti selvaggi
da dominare o docili individui facilmente addomesticabili. Egli decide
che il modo migliore per resistere è fare qualcosa:
Condurre l’uomo a essere uomo d’azione mantenendo intorno a sé il rispetto
dei valori fondamentali che rendono umano il mondo: questo è il primo scopo
di colui che, dopo aver riflettuto, si prepara ad agire (Fanon, 1952, p. 193;
corsivo dell’autore).
18
Capitolo I
Mantenere umano il mondo, dunque, e resistere: questo è il
percorso di Fanon. Il suo saggio termina con un grido che diviene
collettivo, volto ad esprimere non solo il dolore di un essere umano –
che ha vissuto in prima persona la condizione del segregato – ma
finalizzato anche a dar voce alla protesta di tutta un’umanità offesa. Il
lavoro di Fanon apre l’approccio postcoloniale alle questioni sollevate
dal visuale: il campo della visione si produce costantemente attraverso
la differenza razziale e di genere.
Nei tardi anni Novanta il teorico Nicholas Mirzoeff si concentra
sull’uso attivo e sul ruolo della cultura visiva su un livello più ampio.
Il visuale, infatti, viene elaborato come una struttura interpretativa
fluida ed interdisciplinare, ricca di stimoli e sfide continue, in cui le
definizioni sociali in termini di classe, genere, sessualità e identità
razzializzate sono dibattute e contestate (Mirzoeff, 1999, p. 4). Le
interazioni tra chi guarda e chi è osservato/a, di cui parla Hall,
diventano nell’elaborazione di Mirzoeff gli “eventi” visivi che
scatenano la creazione dell’immagine. Attraverso ambivalenze ed
interstizi la tematizzazione del visuale consente di esplorare le aree di
resistenza ai media visivi e gli effetti prodotti dalla circolazione delle
immagini dell’esercizio del potere su scala globale. La cultura visuale,
inoltre, analizza il consolidamento del potere come modello visuale
della globalizzazione ed il ruolo giocato dagli individui all’interno di
tale sistema: “For visual culture concerns itself with what I call visual
subjects: people defined as the agents of sight (regardless of their
biological capacity to see) and as the objects of certain discourses of
visuality” (Mirzoeff, 2005, p. 3).
L’introduzione della questione del potere nel territorio
problematico della visualità si collega inevitabilmente al tema della
rappresentazione della differenza razziale, etnica e sessuale. In
Representation: Cultural Representations and Signifying Practices
(1997) Hall torna ad enfatizzare le pratiche della cultura, intesa come
produzione e scambio di significati. L’attenzione ricade
sull’importanza del medium del linguaggio per la trasmissione di