S t or ie - Comune di Empoli

Storie
di
Mi chiamo Noemi Giustri, ho 27 anni e questa è la mia prima
esperienza carceraria. Sono stata arrestata il 5 maggio scorso,
a seguito di uno scippo. Purtroppo per me, il mio complice è
riuscì a fuggire, così io restai l’unica imputata (reato con lesioni e ricettazione, visto che io e il mio complice eravamo in possesso di un ciclomotore rubato; tutti e tre gli articoli mi sono
stati dati in concorso). Ho fatto il processo di primo grado per
rito abbreviato e sono stata condannata a due anni e sei mesi
di reclusione.
Mi trovo alla Casa a Custodia Attenuata Femminile di Empoli
dal 5 agosto 2003. Qui mi sono adattata subito all’ambiente e
alle compagne. Le mie giornate sono organizzate fra lavoro
(mattina) e corsi e studi (pomeriggio).
So che se mi trovo in carcere è perché stavo vivendo una realtà diversa, distorta. Da tossicodipendente.
La tossicodipendenza giorno dopo giorno mi stava annientando. Mi ero isolata da tutto e da tutti e assumere sostanze stupefacenti era diventato il mio primo pensiero; volevo invece che
il primo pensiero di ogni mia giornata fosse rivolto alla vita, ma
così non è stato: la dipendenza, per me, era troppo forte per
permettermi di vedere altro.
Ho iniziato a usare l’eroina a 25 anni. Dopo varie sventure sono
caduta in questo vizio diabolico, in un periodo alquanto nero
della mia vita passata. Me ne sono andata dalla casa dei miei
genitori a 18 anni, per seguire quello che credevo fosse l’uomo
della mia vita. Quanto mi sbagliavo! Nei sette anni di convivenza con Giancarlo ne ho passate tante, forse troppe. A 21 anni
sono rimasi incinta del mio primo figlio, che oggi ha sette anni
e vive con la famiglia adottiva in Toscana. Quando conobbi
Giancarlo studiavo in una scuola privata per conseguire il diploma di assistente sociosanitario, che poi mi avrebbe permesso
di entrare alla scuola infermieri. Inoltre lavoravo come pr (pubbliche relazioni) per una discoteca di Firenze. Andai a vivere con
Giancarlo prima presso amici e poi in una camera in affitto, che
pagavo con i soldi guadagnati con il lavoro di pr per la discoteca. Iniziai anche ad occuparmi della gestione della pubblicità
per alcune ditte, tra le quali una nota radio fiorentina.
Guadagnavo abbastanza bene da permettere al mio compagno
di non lavorare. Dopo un anno e mezzo di convivenza, rimasi
incinta. La mia famiglia non volle aiutarmi, quella di Giancarlo
non poteva. Andai in una casa famiglia in Toscana, con mio
figlio. Ero ingenua, ma anche desiderosa e bisognosa di avere
un punto di riferimento, che trovavo nel mio compagno (anche
se poi non lo era). Dopo cinque giorni che ero nella casa famiglia, lui mi telefonò e mi intimò di raggiungerlo: se non lo avessi fatto sarebbe partito per Sarno (Salerno), il suo paese di origine. Stupidamente, ingenuamente, corsi dall’uomo che consideravo il mio grande amore. Il bambino restò alla casa. Mi
maledico per aver anteposto un uomo a mio figlio, sangue del
mio sangue.
Iniziò per me un periodo strano, irreale. Non mi rendevo conto
che ero stata l’artefice di un gesto disumano. Non avevo più un
impiego e così iniziai a fare colletta alla stazione. Per un po’ di
tempo andò abbastanza bene; certo, riuscivo a far fronte ai
bisogni primari miei e del mio compagno, ma spesso mi trovai
a dover dormire nelle sale d’attesa della stazione o nei vagoni
in deposito.
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Preferisco non spiegare come, ma mi trovai ad esercitare la
prostituzione. Avevo bruciato tutto ciò che avevo di umano,
andando contro i miei stessi principi. Non avevo più stima di
me, non avevo orgoglio, ma soprattutto volevo o credevo di
amare solo il mio compagno e non me stessa. Nel marzo del
’97 rimasi incinta la seconda volta. Avendo subito un taglio
cesareo e per la paura di perdere anche quel figlio, abortii. Nel
giugno dell’anno successivo rimasi incinta per la terza volta.
Fortunatamente trovai lavoro in un’agenzia pubblicitaria di un
conoscente, che mi diede anche un alloggio. A febbraio del ’99
mio padre prese in affitto per me un bilocale a Empoli, mi comperò tutto l’occorrente per la bambina e provvide al mantenimento mio, del mio compagno e di mia figlia. Questo per due
mesi, dopo i quali trovò anche un impiego al mio compagno.
Mia figlia è stata ed è tuttora per me la cosa più bella al
mondo, l’unica che io abbia amato veramente: oramai sono
due anni che non la vedo e non ne ho notizie. Purtroppo, un
giorno mi suonarono alla porta due poliziotti e due assistenti
sociali, con in mano un decreto di allontanamento della bambina da me e Giancarlo. La bambina venne affidata all’Istituto
degli Innocenti dove, dopo tanto lottare, sono riuscita a raggiungerla. Dopo undici mesi che la bambina era in quell’istituto ci fu un’udienza, a seguito della quale fu resa adottabile.
Mi cadde il mondo da sotto i piedi. Avevo perso la bambina, la
seconda creatura che avevo messo al mondo. Ero sola, non mi
interessava più niente. Ero senza un alloggio, senza un lavoro
e… sola.
Iniziai di nuovo a prostituirmi e per cercare di non pensare
cominciai a fumare eroina con amici e compagni di sventura.
Una sera ero nella macchina di un amico femminiello e di un
altro ragazzo. Il femminiello, Andrea, usava la roba da quasi
dieci anni e se la iniettava. L’altro ragazzo, non tossicodipendente, si fece fare da Andrea un piccolo schizzo. Io non avevo
gli attrezzi per fumare l’eroina, così quando vidi che Andrea
scioglieva insieme alla sua busta anche la mia, dicendomi
Noemi, domani ti restituisco i soldi, presi una decisione. Volevo
provare anch’io le sensazioni che si hanno facendosi in vena,
così Andrea mi fece il primo buco della mia vita. Per tre giorni
stetti sempre con lui e con il suo amico. Era un continuo bucarsi. Una notte, io e Andrea restammo soli e lui mi invitò a trascorrere qualche giorno a casa sua.
Fu un’esperienza che non dimenticherò.
Al piano inferiore c’era la cucina, fuori uso, con il frigo staccato, un tavolo sgangherato e un’unica sedia in legno, semidistrutta. Al piano superiore una stanza con un letto matrimoniale (i lenzuoli e la trapunta erano sempre, perennemente, i soliti, sudici e logori), la corrente era staccata e qua e là c’erano
candele accese. Nel bagno non funzionava l’acqua, era pieno
di mosche e moscerini per la sporcizia. Sulle pareti del bagno
una quantità infinita di schizzi di sangue.
Dopo aver vissuto quella realtà, ero sicura che mai e poi mai
avrei fatto la stessa fine.
Ahimé, l’ho fatta!
n.b.: ora ho la possibilità di riscattarmi creandomi una nuova
esistenza, sana e umana!
Storie
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Mi chiamo
Federica,
vengo
da
Foligno
in
provincia di
Perugia, la
mia condanna (provvisoria) è di
quattro anni
e sei mesi,
sempre per
reati legati
alle sostanze stupefacenti.
Ho una bambina di dieci anni, di nome Erika, sono venuta qui
a Empoli per darle una madre migliore e per riallacciare i rapporti con lei; qui mi stanno aiutando molto per questo.
Finora ho avuto ottimi risultati, mi stanno dando davvero una
mano, non posso ancora chiamare né vedere Erika, ma presto
potrò scriverle e questo è già un primo passo. So che la strada
è lunga, e in salita, perché ancora devo rimettere a posto delle
cose in me stessa e durante questo percorso spero di smussare i lati negativi del mio carattere, che si è formato sulla
base del mio passato.
All’inizio odiavo i tossici, mi facevo solo le canne, ero una di
quelle il cui motto era fai l’amore sotto le stelle, fatti una canna
ragazza ribelle ma non bucare mai la tua pelle…
Un giorno, entrando in casa del mio migliore amico all’improvviso, lo vidi che si bucava. Mi chiese di stringergli il braccio; io
lo feci dopodiché me ne andai, me ne andai veramente e non
gli parlai più per due anni.
Ero fidanzata in casa e il mio ragazzo faceva il militare a
Foligno, dove abitavamo entrambi. Ogni sera era sempre più
esaurito e decisi di lasciarlo per non logorare il rapporto. Ma ci
soffrivo tantissimo, così una sera andai dal mio ex migliore
amico per chiedergli di farmi una sola volta. Lì è cominciato il
calvario. Si comincia sempre con una schifosa “sola volta”.
Poi ho conosciuto il padre di mia figlia, il quale era contrario
all’eroina, ma era cocainomane e fumava. Con lui smisi e quando rimasi incinta smisi proprio con tutto. Mia figlia fu la forza
per quel miracolo…
Purtroppo a volte le sofferenze incombono. La botta finale fu la
morte del mio convivente e io mi persi ancora di più, compiendo reati non solo per la droga ma anche per mantenere lo stile
di vita che lui mi offriva. Avevo profumi di tutte le marche, abiti
firmati, anelli bellissimi. Il tutto poi si è trasformato in un cumulo di reati per i quali sono qui. Sono ancora all’inizio, devo cambiare le mie modalità, scrollarmi di dosso lo stile del carcere
ordinario dove ho passato tanto tempo: cinque anni.
Ho 31 anni, ma a volte scherzo e gioco come una bambina. Ho
sempre la battuta pronta, a volte non mi rendo conto di esagerare e c’è chi mi prende sul serio…
La mia possibilità di riscatto e cambiamento si chiama Erika: è
lei il mio percorso. Insieme cresceremo e forse un giorno potrò
raccontarle tante cose e tenerla lontana da quello che io ho
passato.
Un buon Natale a tutti, soprattutto a te, piccolina, con una
carezza che ti arriverà con un soffio di vento. Ti voglio bene, la
tua mamma.
di
Mi chiamo Anna, sono di Roma, sono arrivata a Empoli da Rebibbia, dove ho trascorso
gli ultimi sei mesi. Sono una persona molto riservata, non racconterò molto della mia
vita, anche perché dovrei scrivere un intero libro. Adesso sono a metà di questa storia
alla quale non so dare un titolo. Forse, potrebbe essere “Alla ricerca della libertà”, perché tutto mi ha portato la vita fuori che la libertà. Cosa significa per me questa parola?
Significa non dovermi sottomettere a regimi, non dover dire sempre di sì perché gli
agenti hanno sempre ragione.
In questa carcerazione sembro molto più tranquilla, ma dentro di me forse più arrabbiata. Perché? Perché a 48 anni portati bene (senza modestia) devo scontare la bellezza di sette anni provvisori, infatti mi devono ancora arrivare altri definitivi.
In tutta questa brutta storia c’è un capitolo molto luminoso e caldo. E’ mio figlio, che
non mi ha mai abbandonato e che io amo più della mia vita, forse è anche grazie a lui
che continuo a lottare e sono venuta a Empoli per fare un percorso di recupero, cosa
che non avrei potuto fare a Rebibbia.
Lui viene puntuale tre volte al mese e mi rende molto felice, nonostante sappia che per
lui è un sacrificio venire da Roma, ma l’amore per la mamma non conosce distanze. E
per fortuna è un ragazzo serio, un vero tesoro, perché per me è anche un amico sul
quale posso contare.
Credo con queste parole di aver fatto capire chi sono, ma il bello deve ancora venire
visto che anch’io, alla mia età, qualcosa devo ancora cambiare e il cammino è lungo.
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Sono tornata! Eccomi di nuovo tra voi.
Sono stata via per tre mesi e mezzo,
non in permesso premio ma in affidamento in comunità. E’ stata una bella
esperienza.
L’inserimento l’ho fatto alla comunità
Papa Giovanni XXIII di Rimini ed è stata
una esperienza bellissima. Conoscevo
tutti, ero amica di tutti e mi sentivo
come a casa. Il responsabile, che si
chiama Gerry, mi ha dato affetto come
un vero padre, che io non ho mai avuto,
e mi ricordo sempre delle sue battutine
che mi facevano ridere. Ho conosciuto
le sue bellissime tre figlie e la moglie
Stefania, che è una persona meravigliosa, e lo devo ringraziare per tutto il
bene che mi ha fatto, anche se qualsiasi ringraziamento non sarà mai sufficiente per ricompensarlo. Anche gli altri
due operatori, Teo e Mirco, con cui
facevo i colloqui individuali e con cui
parlavo liberamente della mia vita (cosa
che non potevo fare nel gruppo) mi
sono stati molto vicini, con consigli che
mi sono stati molto preziosi. Grazie
Mirco e Teo (non vi ho dimenticato, vi
voglio bene).
Sono molto affezionata a tutti loro e me
li ricordo con affetto, li rivedrei tanto
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volentieri, mi farebbe un immenso piacere riabbracciarli.
In questa situazione, in cui mi sentivo
proprio come a casa mia, ho fatto una
cavolata e loro, giustamente, hanno
dovuto fare il loro lavoro.
Sono stata spostata in un altro istituto
dove non mi sono trovata bene e sono
andata in depressione. Mi mancava
tutta la comunità di Rimini e la mia
permanenza in questa nuova comunità
è stata un disastro di cui non ho voglia
di parlarne perché mi ha deluso profondamente. A un cer to punto non ho più
retto e me ne sono andata. Sapendo
che avevo una condanna da scontare di
quattro anni mi sono rivolta al mio SerT
per di rientrare nel carcere del Pozzale.
Ci sono riuscita e con il loro aiuto mi
sono costituita con la mia assistente
sociale e l’affidataria di mio figlio direttamente presso la Casa Circondariale
di Empoli.
Qui sto bene, lavoro, mi aiutano anche
psicologicamente e non mi sento tanto
in carcere come nell’ordinario. Qui ci
sono tanti corsi e facendo le cose le
giornate passano.
Vorrei inoltre salutare Dino e tutti i
ragazzi dell’accoglienza Centro Crisi.
BUON NATALE e FELICE ANNO NUOVO a
tutti.
Un saluto par ticolare alla mia principessa Rosanna e al mio principe
Daigor, i miei figli, le persone a cui
voglio più bene al mondo. Siete sempre
nei miei pensieri e nel mio cuore. Voi
siete ciò che mi dà la forza di andare
avanti e con il vostro aiuto riusciremo a
ricongiungerci.
BUON NATALE figli miei e FELICE ANNO
NUOVO anche a Giovanna, Eva, suo
marito Iacopo, Laura, Carlo e alla bambina piccola che porterà tanta felicità.
Sono rinchiuso in una cella,
penso sempre ai miei cari
provo a chiedere, a me stesso, il motivo della mia carcerazione
mi risponde il mio inconscio con una voce convinta,
mi chiedo chi me lo ha fatto fare di cacciarmi nei guai!
IO personalmente dico, che, se ho scelto questa strada, fatta di insidie e sbagli,
devo essere anche cosciente di dover scontare la pena che ho preso.
Però se hai vicino persone giuste, quelli che ti aiutano tanto moralmente,
la carcerazione allevia di molto la sofferenza.
(Questa è la poesia scritta dal mio Ivan, Roberta)
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Guardo le stelle e dedico un pensiero a tutte le persone a cui voglio bene…
Le stelle sono state sempre vicine a me in questa esperienza lunga e sofferta. All’inizio ricordo che dal mio
letto potevo osservare con attenzione la notte e ogni sua piccola luce. Nella mia immaginazione le univo e parlavo loro come se potessero rispondermi. Un giorno, fuori, avrei potuto contarle. Non mi hanno mai risposto e
così ho capito che sarebbe passato molto tempo. Così è stato, molto tempo è passato, quasi cinque anni, nei
quali ho cambiato di posto cinque volte. Mio padre in quel periodo se ne andò per sempre, senza un saluto,
una carezza. Ho reagito molto male e nelle notti d’inverno, senza nemmeno curarmi del freddo, guardavo le
stelle e mi ostinavo a parlare con loro, volevo che mio padre fosse con me. Una notte vidi una stella bellissima e piansi, piansi tantissimo e tra le lacrime decisi che quella era la stella di mio padre, e gliela dedicai.
Recentemente ho cominciato a usufruire di permessi, il primo era di giorno, e potei veder splendere solo il
solo. In quello successivo ho potuto apprezzare le stelle; cercavo quella del mio babbo, ma non la trovavo più…
Una notte, rientrando con una persona a cui tengo molto, dopo aver visto a teatro “Il gabbiano” di Anton
Cechov, la vidi, all’improvviso. Rimasi in silenzio e capii, sentii, che mio padre era con me, che era felice perché io lo ero. Amo il teatro come amo la stella di Davide che è il mio Messia (sono ebrea).
Fra qualche mese sarò libera e dovunque andrò seguirò la mia stella. Lotterò per la passione che nutro per il
teatro, mi impegnerò per crescere ed essere migliore di quello che il cielo aveva destinato per me. Anche se
forse non brillerò come i miei fratelli, so bene che il mio babbo riuscirà a vedere la mia piccola luce mentre
seguo i miei ideali, mi impegnerò nel teatro e accanto a me ci saranno la mia stella e il mio sole.
dante, urla di esseri che non rispondono. Estranea in un mondo di estranei, sento messaggi che scuotono la
mia sofferenza, la mia solitudine.
di
È mattina. Non so esattamente che ore sono. Anzi, non lo so proprio.
Ormai le mie sensazioni le vivo a livello di subconscio. Proprio così.
Sono sveglia ma è come se dormissi tutto il tempo! Vivo in un mondo
tutto mio, mondo di fantasia, sogni, illusioni. Intorno a me tutto quello che mi circonda sembra positivo. Sembra. Ma non lo è. Non lo è perché è tutto falso, effimero! Però… come sarebbe bello! Poter vivere
per sempre con le persone che ami, vederle stare bene e scoprire che
in quel mondo la morte non esiste! poter vivere per sempre!
Sento che sto affondando in un mare di solitudine. Tutti mi dicono che,
ora che ho toccato il fondo, posso soltanto risalire. Ma vedo che non
è così. Ogni minuto che passa mi sento cadere, cadere… e non mi
fermo! Sono circondata da molte persone, ma allo stesso tempo, è
come se non ci fosse nessuno. Sono sola con me stessa. Non riesco
a dominare le paure, non riesco a parlare di ciò che ho dentro nemmeno con le persone alle quali voglio bene e delle quali mi fido ciecamente. C’è qualcosa… qualcosa che mi blocca! Avevo fatto piccoli
passi avanti. Adesso ne faccio uno avanti e uno indietro! Sono dentro
una caduta inarrestabile. Spesso il mio cervello si stacca dal corpo.
Rimango bloccata in una posizione, mentre la mia mente si stacca dal
corpo. Il mio sguardo si perde nel vuoto, divento assente. Immagini
passano davanti ai miei occhi: sono i riflessi della mia anima che gioca
con la mia immaginazione.
Difficile descrivere il mio stato d’animo di questo momento. Troppi
pensieri mi frullano per il cervello, positivi…negativi…..Sto cercando
di credere in questa casa attenuata, nelle possibilità che può darmi,
ma soprattutto nelle difese che per ora sono scontate: fino al 9 maggio sono al sicuro. I problemi cominceranno all’uscita da quel maledetto cancello!
Sto pensando a cosa significa il carcere. È un circuito chiuso dove
ognuno di noi paga le proprie sofferenze, i propri sbagli. Fra di noi esistono persone colpevoli o innocenti! Fra noi ci si aiuta a dimenticare,
ma io proprio non ci riesco! Lacrime, dolore, amarezze… è il pensiero
fisso della nostra mente. Il pensiero negativo per assoluto. Ma ce n’è
uno positivo: tornare a comunicare con il mondo esterno sperando che
le persone ci ascoltino e ci tendano una mano, fino ad incrociare la
nostra… quelle che abbiamo già teso per metà o almeno per quel poco
di cui siamo capaci. Il loro aiuto ci servirà…sarà indispensabile per
poterci riportare nel mondo della realtà. Quella realtà che noi non
abbiamo mai vissuto troppo presi nella ricerca dello “sballo”. Ci riporteranno… per una vita serena e un domani migliore. Ma la mia paura
è che il mio domani sarà peggiore di ieri!
Ho scoperto il giardino dei
miei segreti, rinchiusi nell’animo. Ci sono fiori e colori di
ogni colore. In un angolo del
giardino c’è un enorme groviglio di rovi: la falsità e l’ignoranza dell’umanità. Poi, intorno la bellezza dei quattro elementi! Il sole che illumina con
la sua grande luce l’ignoranza
che cerca di nascondersi! Il
mare che con le sue onde adi rate pulisce la sporcizia che ci
ricopre! Il vento che con il suo
potente soffio spazza via l’ipocrisia che ci assale! Ma poi
c’è il fuoco che arde in mille
cuori, alimentati da altri cento
e mille e più cuori, che porta
la gente a conoscere l’ardore…l’unica cosa che può
accompagnarsi all’Amore!
Attorno a me solo desolazione e cancelli. Restare qui,
immobili come manichini
seduti dietro una vetrina.
Restare qui e nel cuore l’attesa di una lontana libertà…
I muri. I soliti e squallidi
muri. Quanta tristezza nell’anima. E la povertà di uno
sguardo visto in uno specchio rotto, nell’ombra. E quel
finto silenzio della notte!
Quei passi lenti accompagnati dall’ormai insopportabile sferragliare di chiavi, ti
entrano nella mente… e per
sempre ti rimarranno scolpiti
nell’anima! Soltanto ricordi e
un pensiero fisso… aver perduto in un attimo una vita
intera!”
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Quando dopo tanti anni si racconta la propria esperienza di vita, la propria storia, grazie a strumenti come i giornali del carcere,
che permettono di farsi conoscere all’esterno (quell’esterno che non sempre crede nel
recupero e nella riabilitazione dell’individuo), arriva il momento più importante al
quale tanto hai pensato ma del quale hai
sempre avuto paura: l’attesa di un figlio.
Dopo tanti anni, il carcere sensazioni e stimoli che normalmente si vivono in una coppia. E’ vero che dietro quelle mura la mancanza dell’amore, delle coccole, delle attenzioni, è immensa, ma poi finisce che ti abitui e con il passare degli anni non ti domandi più come sarà la prima notte d’amore.
Quando i cancelli si aprono, vorresti trovare
la persona della tua vita.
I dolori del passato, i ricordi degli amori perduti sono lì e non sempre ti consentono di
fidarti subito.
Così inizia la ricerca.
I momenti di solitudine non si contano più.
Vorresti amare e sentirti amata.
Non conosci nessuno nella nuova città che
ti ha dato l’opportunità di riscatto e vorresti
qualcuno accanto. Ma sei felice lo stesso.
Al mattino ti svegli in una “casa” che non è
tua ma tanto utile all’inizio della tua nuova
vita e con un sorriso arrivi sul posto di lavoro, che ti dà le prime regole fondamentali
per riprendere a familiarizzare con il mondo.
Giorno dopo giorno cresci in quell’ufficio,
insieme a persone che non conoscono la
vita in carcere, che imparano a conoscere la
tua personalità, che ti guardano domandandosi se ce la farai o se sarai un altro ennesimo fallimento della società.
Il tempo passa, la fiducia cresce.
“Qualcuno” ti osserva da lontano e sente
che ce la puoi fare.
All’inizio un nuovo lavoro crea difficoltà,
soprattutto se arrivi da periodi di lunga inattività. Giorno dopo giorno impari dagli altri e
da una semplice scommessa nasce un
grande progetto di vita.
Da quell’inizio in solitudine di cui parlavo
prima sono trascorsi tre anni. Anni in cui ho
imparato a vivere insieme agli altri.
Oggi sono moglie, donna e futura mamma.
Sì, una mamma.
Mamma. Una grande parola che riempie il
cuore. Una figura insostituibile che ho fatto
piangere per troppi anni, che ha combattu12
to, invano, una battaglia per il mio recupero
sentendosi sconfitta, annientata. Colei che
oggi piange di gioia, nel vedermi finalmente
VIVA.
Mia madre non ha mai avuto amici, né amiche. La mia famiglia ha vissuto la mia storia
in silenzio e con un po’ di vergogna. Hanno
provato a chiedere aiuto in quei lunghi anni,
ma non sempre con successo. Alla fine
anche un genitore si trova solo di fronte al
fatto compiuto: la tossicodipendenza prima,
il carcere dopo.
Con mia madre ho sempre avuto un rapporto conflittuale. Gelosa fin da piccola, sentivo il bisogno di averla tutta per me, ma
senza parlarle dei veri cambiamenti che sentivo dentro. Nessuno avrebbe mai immaginato di vedermi dentro un carcere, né di
entrarci dentro per farmi visita, di essere
perquisiti, di conoscere il personale penitenziario.
Con mia madre ho diviso i momenti drammatici della tossicodipendenza, che ricordiamo e sui quali è necessario continuare a
costruire il futuro.
Mio figlio sta per nascere, manca un mese
e poco più e con la mia famiglia vivo un
momento magico, intenso, nel quale vorrei
recuperare quel tempo in cui siamo stati
lontani.
Un figlio che ri-torna alla vita dopo un lungo
periodo di ombre è una gioia infinita.
Quando leggo di genitori disperati, che non
sanno più a chi rivolgersi per essere aiutati,
ricordo quello che hanno tentato di fare i
miei senza ottenere nulla, sperando solo in
un arresto inteso come unica soluzione di
salvezza. Adesso, dopo tutto il percorso
fatto, con i miei vivo un rapporto di scambio,
più maturo, sincero.
Accanto a mia madre, mio padre.
Un padre davvero. Forse non sempre presente a casa per ragioni di lavoro, ma che ci
ha dato tutto quello che ha potuto, con la
convinzione che non fosse mai abbastanza.
Un padre che con profonda commozione mi
ha accompagnato all’altare il 2 agosto scorso.
Un padre che in quel breve tratto all’interno
della chiesa, mi stringeva, camminando
piano, pensando a chi eravamo e a che
cosa il presente ci stava dando: un figlio per
me, un nipotino per lui che non pensava arrivasse mai.
Quando mi ha lasciata tra le mani di mio
marito, ho capito che la mia vita stava davvero cambiando.
Le lacrime hanno attraversato il mio volto.
La tossicodipendenza non si sconfigge con
le parole, con le repressioni, con le chiusure. E’ un male difficile da debellare, soprattutto se non si ha più fiducia in noi stessi e
soprattutto se gli altri continuano a non
averne in te, anche dopo un grande lavoro
fatto.
Il tossicodipendente fa paura. E’ un delinquente comunque. Ogni sostanza che assume ha la sua “bellezza”. Sai che ti uccide,
ma quando la usi non lo senti, non ti vedi,
Storie
non ci pensi. In quel momento… tu stai
bene. Per questo i giovani di oggi non si sentono “tossicodipendenti” perché usano
pasticche, acidi, e quanti altri miscugli sintetici che a loro avviso non danno assuefazione, né astinenza fisica, sentendosi in
dovere di giudicare l’eroinomane che nonostante i 40 anni è sempre lì, fuori dalla
porta del Ser.T ad attendere l’orario della
somministrazione del metadone. Credo che
questo modo di agire sia una pericolosa leggerezza. Gli effetti del “sintetico” durano
negli anni e rimanere “assente” di fronte
alla realtà è una conseguenza.
Il carcere, la tossicodipendenza, la criminalità, essere omosessuale, sembrano temi
che a lungo andare stancano, si ripetono,
perché si pensa di sapere tutto e ci regaliamo il libero arbitrio di occuparci di altre
cose. Ci sono persone che quando trovano
in un giornale ar ticoli sulla droga, sulla
situazione della carceri, passano alla pagina
successiva. Non guardano, non si interessano, passano oltre.
Sottovalutano, non percepiscono la sofferenza di un essere umano. Ma le persone
che hanno sbagliato sono cittadini del
mondo. Sono uomini, donne, padri, madri e
hanno bisogno di strumenti per cambiare la
loro vita.
Mio figlio, Emanuele, che nascerà alla fine
di dicembre, è la risposta più grande alla
volontà di condurre una vita normale, insieme agli altri. Diventare mamma è donare
tutta te stessa alla famiglia che stai creando e io più che mai credo in tutto quello che
ho fatto per arrivare a questo momento,
senza mai poter dimenticare quello che gli
“empolesi” mi hanno dato per arrivare a
questo punto. La città di Empoli, l’attuale
Amministrazione comunale mi ha dato una
chance che non ho rifiutato e che mi sta permettendo di essere un’altra donna.
di
E’ accaduto proprio a me.
Una giornalista della Rai ha letto un mio articolo pubblicato sul sito Internet www.vita.it
e mi ha contattata per sapere se fossi stata disponibile a essere intervistata, in diretta,
nella trasmissione condotta tutti i giorni da Fabrizio Frizzi, “Piazza Grande”.
Meraviglia. Stupore. Paura. Un susseguirsi di emozioni forti, impalpabili. Non so a che
cosa pensavo in quel momento in cui questa collega mi parlava.
Un secondo di riflessione e poi la decisione: va bene, cosa devo fare?
Raccontare la mia storia di vita, pubblicamente, anche senza scendere nei particolari è
un’esperienza che non avevo ancora provato. Sicuramente il nostro giornale ci aiuta a
parlare di noi, ma farlo davanti alle telecamere, in diretta, non è uno scherzo.
Giovedì 20 novembre 2003 sono partita per Roma insieme a mio marito. Giunti nell’albergo che la Rai mette a disposizione per gli ospiti, ci sembrava ancora impossibile che
la mattina dopo sarei entrata in quegli studi a parlare di me e del progetto di reinserimento che ho seguito.
Dopo una carinissima cena, abbiamo camminato per le vie di Roma, approfittando di una
serata mite e tranquilla.
Al ritorno, un dolce sonno ci ha abbracciati e come d’incanto siamo arrivati al mattino.
Agitazione al risveglio? No, è arrivata successivamente.
Ci siamo recati alla Rai ed entrare in quel cortile adiacente la grande struttura era già
emozionante. Poi è arrivata la giornalista che mi ha contattata. Una persona semplice e
molto sensibile. Ci ha introdotti nei lunghi ingressi degli studi, fino ai camerini e lì è iniziata la preparazione.
Abbiamo letto l’intervista, le domande; un lavoro che ho ripetuto anche con gli autori che
sono rimasti molto soddisfatti e che hanno voluto che spiegassi bene, anche se in poco
tempo, il progetto di reinserimento.
Alle 12,20 mi chiamano per mettermi il microfono. Mio marito era felice. Sono stata
accompagnata tra il pubblico. Una breve attesa che sembrava non finire mai. Tanto caldo.
Luci grandissime.
Eccolo che arriva. Fabrizio Frizzi. Mi stringe la mano con un sorriso. Il cuore batte forte,
il piccolo che porto in grembo scalcia, magari si domanda dove l’ho portato.
Subito dopo inizia l’intervista.
Avevo timore di sbagliare a parlare, di non coniugare bene i verbi, di diventare di mille
colori ed invece è andato tutto bene. Frizzi mi ha messo a mio agio fin dal primo istante
e guardandolo fisso negli occhi non ho perso la concentrazione e ho cercato di raccontare il più possibile quella che è una storia di vita partita male ma che oggi ha un lieto
fine: la nascita di un bambino.
Spero che la mia testimonianza sia servita a qualcuno; che sia stata di aiuto a coloro
che ancora non credono o non vogliono credere.
Nell’occasione, ringrazio Fabrizio Frizzi, Antonella la giornalista, gli autori, le truccatrici e
parrucchiere per la gentilezza e l’accoglienza ricevute.
Come ho già scritto in altri miei pezzi, i percorsi, le scelte di cambiamento, non vanno
criticati, derisi, né giudicati. Le difficoltà si
a ff rontano con la lucidità. Personalmente
non mi nasconderò più dietro alle sostanze.
Riuscirci dipende solo da noi, dalla nostra
volontà di saper ascoltare e raccogliere
dagli altri. Se non ci riusciamo è perché, in
fondo, non lo vogliamo.
Non sono diventata la brava alunna che ha
imparato la lezione. Ho solo saputo scegliere la mia strada. Mi sono affidata, con tanta
fatica e coraggio, come una figlia, ed è su
questa strada che continuerò a camminare
con mio figlio e mio marito.
Buon Natale a tutti voi.
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Storie
di
Dopo il fallimento in comunità ebbi un periodo di disintossicazione di una settimana circa. Fu allora che decisi di tornare a Empoli (dalla comunità ero scappata sei volte e nei modi
più inconsueti).
Quando sono tornata a Empoli ho avuto uno choc. Già non
stavo molto bene per i medicinali che avevo preso, la gente
era tutta cambiata, in maggioranza erano straniere e solo due
italiane che conoscevo, le altre due le ho conosciute dopo.
Premetto che non sono mai stata razzista, sono cresciuta con
ideali di uguaglianza; mio padre ha amici messicani, cubani,
americani, argentini e a volte le sue cene sono alquanto multietniche. Ma fuori è un’altra cosa, quindi non è un fatto di
razza, ma era proprio l’aria diversa che si respirava: ognuno
con mentalità e tradizioni differenti, quindi dovevo andare con
i piedi di piombo (anche se mi succede con tutti quelli che
non conosco).
Mi aprirono una cella che sembrava abbandonata e mi diedero tutto l’occorrente per pulirla. Posai i sacchi a terra, con
desolazione, mi sedetti sul materasso di gommapiuma e mi
misi a piangere: per il fallimento, per la situazione in cui mi
trovavo. avevo voglia di scappare, era estate e il sole splendeva tra le sbarre. Non potevo fuggire, ma poi, da cosa sarei
fuggita? Dopo poco salii in seconda sezione, dove ero stata
prima, e mi capitò proprio la cella dove mi trovavo prima di
andare in comunità. Nel mezzo della parete c’era ancora disegnata in oro la stella di Davide, con dentro un pentagramma
e una luna crescente accanto. Non parlavo mai, piangevo
spesso perché mio padre e mio fratello erano rimasti molto
male della mia fuga. Solo dopo nove mesi mio fratello è venuto a trovarmi, poi mio padre.
Mi sentivo a disagio, muta, mi sembrava di aver preso un
acido e osser vavo tutto, fissavo tutto come se fossi traumatizzata e mi rintanavo in cella, non riuscivo più a scrivere, a
ridere, a parlare. Ero un vegetale. Finché arrivo la persona
che mi ha aiutato tanto in quel momento terribile: Paola.
Iniziò con il farmi uscire di cella per fare danzaterapia con lei;
con lei ho ricominciato a parlare, ad accennare i primi sorrisi.
Paola è di una dolcezza infinita, è una persona splendida e
generosa. Le ho voluto subito bene; il suo sorriso era terapeutico, mi riempiva di attenzioni portandomi anche il caffè la
mattina con un buongiorno topo!.
Questo è l’ultimo Natale che passiamo insieme in carcere;
non dimenticherò mai le nostre interminabili chiacchierate, le
lotte con i cuscini, il solletico, le cure di bellezza fatte insieme, le risate da piegarsi in due. Ricordo che una volta eravamo in biblioteca e c’era il mappamondo. Tu mi facesti vedere
la tua città, Bogotà, e io con il dito cercai la mia Firenze ed
esclamai: “L’oceano ci divide!”. Paola mi guardò sorridendo e
mi disse: “Macché, siamo vicine, a due passi”.
Ringrazio Paola di vero cuore per gli abbracci quando sentivo
il bisogno d’affetto, per il bacino della buonanotte come fossi
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una bimba, per il maglione che mi ha regalato quando avevo
freddo e non mi avevano ancora por tato i vestiti invernali, per
tutte le attenzioni che ha avuto per me. Non la dimenticherò:
è la sorella che non ho mai avuto e se mi sono ripresa lo devo
a lei.
Buonanotte Peter, che il tuo Abramo di benedica e ti porti
tutto l’amore d cui hai bisogno… Buon Natale, con l’augurio
che il tuo legame si consolidi; sarò lieta di farti da testimone
e questa volta speriamo che sia maschio, visto che hai già
due bimbe. Hasta pronto piolin, te quiero mucho. Tua toposorellina Valentina
di
Ciao ragazze, come sapete, questo Natale è l’ultimo che
trascorrerò dietro le sbarre. Vi voglio bene, vi ricorderò
sempre come le mie compagne di sventura, con le quali –
tutte insieme – abbiamo cercato di costruire armonia e
serenità, con ottimismo qualsiasi fosse il nostro percorso.
Giorni prima del mio arrivo, a Empoli è tornata Valentina
Servissi. Per me, all’epoca, era come le altre. Piano piano,
tra me e lei è nato un legame fortissimo, una vera amicizia, tanto che ci chiamano sorelline: dove ci sono io c’è
anche lei. Mi fa male il cuore a lasciarla qui, anche se sarà
dentro il mio cuore sempre. Sorellina, grazie per tutto, per
sopportarmi, per offrimi il tuo cuore. Per tutte le volte che
abbiamo litigato e fatto pace, per essere come sei. La mia
nonna, la mia mamma e tutta la mia famiglia ti hanno adottato… la nostra amicizia non ha frontiere. Ti voglio un bene
immenso!
Spero che i prossimi Natali li trascorreremo di nuovo
insieme, così i nostri sogni diventeranno realtà: “una bella
famiglia, perché già tu appartieni a noi. Buon Natale
Valentina”.
Storie
di
I miei ultimi tre mesi di vita non hanno niente a che vedere con quella che definirei "normalità".
Ho vissuto un’esperienza per me assolutamente lontana da quella che era, ed è tuttora, la mia vita
quotidiana, fatta di comodità, cer tezze, per quanto si possa ad oggi parlare di cer tezze, e comunque di qualcosa di conosciuto.
Tutto inizia dalla mia voglia di fare qualcosa per qualcuno, me stessa compresa, dalla mia voglia di
dare concretezza a quelle parole che tante volte diciamo, o sentiamo dire, ma che raramente diventano fatti.
E’ stato cosÏ che sono par tita per il Messico e più esattamente per lo stato del Michoacan. Sono
andata là per lavorare come volontaria nell’ambito di progetti, realizzati da un'associazione di volontariato che si chiama
"Vive Mexico", basati principalmente sullo scambio interculturale. E’ stata una vera e propria avventura. Ho vissuto, per tre
mesi, come una una abitante di quei luoghi, sono chiaramente stata fuori da ogni rotta turistica, ed ho conosciuto realtà
quotidiane dalle quali ho tratto profondi insegnamenti.
Mi è capitato di vivere in paesini di 500 persone dove alla base dell'esistenza c'era solo l'indispensabile.... e mi sono accorta sempre più di quante cose super flue abbiamo noi, "grassi occidentali", quanti bisogni indotti regolano le nostre esistenze senza che mai ci si fermi a pensare a cosa realmente è impor tante per la vita.
Quello che da noi è scontato - la luce, l'acqua, il bagno - lì è una conquista. Ho vissuto in condizioni "semiselvatiche" sentendo in me l'alternarsi di diversi momenti emotivi. All'inizio era tutto bello, un po' la novità, un po' il fatto che questo viaggio era la realizzazione di un mio desiderio che nutrivo da anni, mi sembrava tutto facile, tutto positivo.
Da una par te è anche vero, sotto alcuni aspetti la gente gode di possibilità di vita migliori, o perlomeno più vicine all'orologio biologico di ogni essere umano, rispetto a noi che, da quest'altra par te del mondo, non facciamo altro che correre come
topi ingabbiati dalle nostre ricerche effimere, e siamo sempre più infelici.
E’ vero anche che la gente è solidale e pronta al sorriso, un sorriso luminoso pieno di calore, che ti fa sentire di non essere sola. Come è vero che in quella parte del mondo esiste una natura meravigliosa, grandiosa, fatta di enormi boschi,
immense montagne e lunghissime e solitarie spiagge con tramonti dai colori mozzafiato.
Sono rimasta affascinata da tutto questo, ma poi ho girato lo sguardo. Ho visto la faccia violenta del Messico, fatta di una
violenza quotidiana, una violenza che deriva dall'ignoranza e che per questo è più crudele che mai. Ho visto bambini abbandonati a se stessi, li ho visti con i loro occhi grandi e giocosi, ma al tempo stesso occhi appar tenenti ad adulti, occhi di una
infanzia di cui ormai è stata irrevocabilmente decretata la fine.
Ho visto il lavoro di pochi ostacolato da molti in nome di un conservatorismo maniacale o di interessi personali. Ho visto
famiglie unite sì, ma unite dal bisogno derivante dalla pover tà, non da un’esigenza d'amore. Ho visto tanto e non ho visto
niente, semplicemente ho conosciuto qualcosa di diverso, ho preso quello che mi ser viva ed ho lasciato ciò che non mi piaceva e per il quale non potevo fare niente, ma ho guardato tutto.
Alla fine è stata un esperienza meravigliosa nella quale ho avuto la possibilità di mettermi a fuoco, di crescere, di conoscere
tantissime belle persone e confrontarmi con loro. E’ tutto per me, una volta di più la conferma della nostra incredibile fortuna per eccellenza: la fortuna di vivere, di esserci ed addirittura avere la possibilità di scegliere, che non ovunque è scontata e garantita.
Quindi torno, più for te di prima, più ricca di prima e con tanta voglia di lavorare per iniziare a costruire qualcosa, dando una
voce in più a chi è già stanco di distruggere.
Adriana Rossini ha concluso
il periodo di detenzione
nella Casa a Custodia
Attenuata di Empoli. A lei i
nostri migliori auguri per una
nuova vita piena di gioie e
soddisfazioni.
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