LDB
RobertCastel
L’insicurezza
sociale
Chesignificaessere
protetti?
TraduzionediMario
GalzignaeMaddalena
Mapelli
Einaudi
Introduzione
Sipossonodistingueredue
grandi tipi di protezioni. Le
protezioni civili garantiscono
le libertà fondamentali e
assicurano la sicurezza dei
beni e delle persone
nell’ambito di uno Stato di
diritto. Le protezioni sociali
«coprono»controiprincipali
rischi che sono in grado di
provocare un degrado della
condizione degli individui:
rischi come la malattia,
l’infortunio, la mancanza di
denaro durante la vecchiaia,
gli imprevisti dell’esistenza,
che possono sfociare, al
limite, nel declassamento
sociale. Da questo doppio
punto di vista, viviamo senza
dubbio–perlomenoneipaesi
sviluppati – nelle società piú
sicure finora mai esistite. Le
comunità non ben pacificate,
dilaniate da lotte intestine,
dovelagiustiziaerasbrigativa
e l’arbitrio permanente,
sembrano, viste dall’Europa
occidentaleodall’Americadel
Nord, l’eredità di un lontano
passato. Lo spettro della
guerra,
questa
terribile
portatrice di violenza, si è
anch’esso allontanato: ormai
si aggira e a volte imperversa
ai confini del mondo
civilizzato. Allo stesso modo,
si è allontanata da noi quel
tipo d’insicurezza sociale
permanente che derivava
dalla vulnerabilità delle
condizioni di vita e
condannava, un tempo, una
granpartedelpopoloavivere
«allagiornata»,allamercédel
minimo
incidente
di
percorso. Le nostre esistenze
non si sviluppano piú dalla
nascitaallamortesenzaretidi
sicurezza.
Quella
che
correttamente
chiamiamo
«sicurezzasociale»èdivenuta
un diritto per la stragrande
maggioranza
della
popolazioneehadatoorigine
a una moltitudine di
istituzioni sanitarie e sociali
che si fanno carico della
salute, dell’educazione, delle
incapacità connesse all’età,
delle deficienze fisiche e
mentali. A tal punto che si è
potuto descrivere questo tipo
di società come «società
assicuranti», che assicurano,
inqualchemododidiritto,la
sicurezzadeiloromembri.
Tuttavia, in queste società
circondate e attraversate da
protezioni, le preoccupazioni
relative
alla
sicurezza
rimangonoonnipresenti.Non
possiamo certamente eludere
il carattere inquietante di
questa
constatazione
sostenendo che il sentimento
di insicurezza non sia che un
fantasma
tipico
dei
benestanti, i quali avrebbero
dimenticato sia il prezzo che
veniva pagato in termini di
sangue e di lacrime sia il
livellodidurezzaedicrudeltà
dellavitadiuntempo.Questo
sentimento di insicurezza
comporta tali effetti sociali e
politici da entrare davvero a
far parte della nostra realtà e
da strutturare persino, in
larga misura, la nostra
esperienza sociale. Bisogna
convenirne: mentre le forme
piú pesanti della violenza e
deldegradosocialesonostate
ampiamente
stroncate,
l’assillo della sicurezza è una
preoccupazione popolare, nel
sensofortedeltermine.
Come rendere conto di
questo paradosso? Esso ci
porta a ipotizzare che non
bisognerebbe
opporre
insicurezzaeprotezionicome
se appartenessero a due
registri
contrapposti
dell’esperienza
collettiva.
L’insicurezza moderna non
sarebbe
l’assenza
di
protezioni, ma piuttosto il
loro rovescio: la loro ombra,
proiettata in un universo
sociale che si è organizzato
attorno a una richiesta senza
fine di protezioni o attorno a
una travolgente ricerca di
sicurezza. Cosa significa
essere protetti in tali
condizioni? Non vuol dire
radicarsi nella certezza di
poterdominareperfettamente
tutti i rischi dell’esistenza;
vuol dire piuttosto vivere
circondati
da
sistemi
sicuritari
che
sono
costruzionicomplesseefragili
e che portano in se stessi il
rischio di fallire nel loro
compito e di deludere le
aspettative che producono.
L’insicurezza verrebbe cosí
creata proprio dalla ricerca
delleprotezioni,perlabuona
ragione che il sentimento di
insicurezza non è un dato
immediato della coscienza.
Esso,alcontrario,èconnesso
a configurazioni storiche
differenti, poiché la sicurezza
e l’insicurezza sono rapporti
relativi ai tipi di protezioni
cheunasocietàassicuraonon
assicurainmanieraadeguata.
Oggi, in altri termini, essere
protetti significa anche essere
minacciati. La sfida da
raccogliere
consisterebbe
allora nel comprendere
meglio la configurazione
specifica di queste relazioni
ambigue tra protezione e
insicurezza, oppure tra
assicurazioni e rischi, nella
societàcontemporanea.
Per convalidare questa
ipotesi proporremo qui un
percorso analitico. Il filo
conduttore è la convinzione
secondo cui le società
moderne sono costruite sul
terreno
dell’insicurezza
poiché sono società di
individui che non riescono a
trovare una garanzia di
protezione né in se stessi né
nell’immediato entourage. Se
è vero che queste società si
sono
dedicate
alla
promozione dell’individuo, è
altrettanto vero che esse
promuovono anche la sua
vulnerabilità proprio nel
momento
in
cui
lo
valorizzano. Ne risulta che la
ricerca delle protezioni
appartiene
in
maniera
sostanziale allo sviluppo di
questo tipo di società. Ma
questa ricerca assomiglia, per
certi versi, agli sforzi
impiegati per riempire una
botte piena di fori – come
quella delle Danaidi – che
lascia sempre filtrare il
pericolo. Il sentimento di
insicurezza non è del tutto
proporzionaleaipericolireali
che
minacciano
una
popolazione. Esso è piuttosto
l’effetto di un dislivello tra
un’aspettativa socialmente
costruita di protezioni e le
capacità effettive, da parte di
una determinata società, di
farle
funzionare.
L’insicurezza, insomma, è in
larga misura il rovescio della
medaglia di una società che
garantiscelasicurezza.
Idealmente, bisognerebbe
ridisegnare una storia della
realizzazionediquestisistemi
di protezione e delle loro
trasformazionichearrivifino
aoggi:ecioèfinoalmomento
in cui la loro efficacia appare
difettosa, sia a causa
dell’aumentata complessità
dei rischi che si ritiene
debbano essere stroncati da
tali sistemi, sia a causa
dell’apparizione di nuovi
rischi e di nuove forme di
sensibilità
ai
rischi.
Programma che non potrà,
evidentemente, essere qui
realizzato in modo esaustivo.
Ci si accontenterà di
tratteggiarequestopercorsoa
partiredalmomentoincuila
problematica delle protezioni
si ridefinisce attorno alla
figura
dell’individuo
moderno,
che
vive
l’esperienza della propria
vulnerabilità. Ma si insisterà
anche sulla differenza tra i
due tipi di «copertura» che
tentano
di
eliminare
l’insicurezza. Vi è una
problematica delle protezioni
civili e giuridiche, che rinvia
alla costituzione di uno Stato
di diritto e agli ostacoli
affrontati per radicarle il piú
vicino possibile alle esigenze
espresse dagli individui nella
loro vita quotidiana. E vi è
una problematica delle
protezioni sociali, che rinvia
alla costruzione di uno Stato
sociale e alle difficoltà che
esso incontra per poter
assicurare l’insieme degli
individui contro i principali
rischi sociali. La questione
dell’insicurezza
contemporanea
potrà
chiarirsi, speriamo, se si
coglie la natura degli ostacoli
frapposti alla realizzazione di
un programma di sicurezza
totale – ostacoli presenti in
ciascuno di questi due assi
della problematica delle
protezioni – e inoltre se si
prende
coscienza
dell’impossibilità di fare in
modochequestidueordinidi
protezioni
coincidano
completamente.
Si sarà allora in grado,
forse, di comprendere perché
proprio l’economia delle
protezioni produce una
frustrazionesicuritaria, la cui
esistenza appartiene in
maniera sostanziale alle
società che si costruiscono
attorno alla ricerca della
sicurezza. E questo per due
ragioni. In primo luogo
perché i programmi di
protezione, non potendo mai
essere realizzati pienamente,
producono delusione e
perfino risentimento. In
secondoluogoperchéunloro
successo, anche relativo,
dominando certi rischi ne fa
emergeredinuovi.Èquelche
accade oggi con l’eccezionale
esplosione di questa nozione
di rischio. Una tale
esasperazionedellasensibilità
verso i rischi mostra assai
bene che la sicurezza non è
mai data, e neppure
conquistata,
poiché
l’aspirazioneadessereprotetti
si sposta come un cursore e
pone nuove esigenze, man
mano che i suoi obiettivi
precedenti stanno per essere
raggiunti.Cosí,rifletteresulle
protezioni civili e sulle
protezioni sociali significa
anche,
necessariamente,
interrogarsi
sulla
proliferazione
contemporanea
di
un’avversione al rischio, la
quale fa sí che l’individuo
contemporaneo non possa
mai sentirsi totalmente al
sicuro. In effetti, chi ci
proteggerà – a parte Dio o la
morte–seperesseredeltutto
tranquilli bisogna poter
dominare
completamente
tutti gli eventi imprevedibili
dellavita?
Questa presa di coscienza
della
dimensione
propriamente
infinita
dell’aspirazioneallasicurezza,
cosícomeemergenellenostre
società, non deve tuttavia
portarci a rimettere in
discussionelalegittimitàdella
ricerca di protezioni. Al
contrario, tale presa di
coscienza è la tappa critica
necessaria
che
occorre
attraversare, al fine di
individuare il percorso oggi
necessario per far fronte alle
insicurezze nella maniera piú
realistica: si tratta di
combattere i fattori di
dissociazionesocialechesono
all’origine sia dell’insicurezza
civile sia di quella sociale.
Cosí facendo, non troveremo
la garanzia di essere liberati
da tutti i pericoli, ma
potremmo
conquistare
l’opportunità di abitare un
mondo meno ingiusto e piú
umano.
L’INSICUREZZASOCIALE
Capitoloprimo
LasicurezzacivilenelloStato
didiritto
Proponevamodiassegnare
all’insicurezza
differenti
configurazionistoriche.Vene
sono di «premoderne».
Allorché dominano i legami
intessutiattornoallafamiglia,
al lignaggio e ai gruppi di
prossimità,
e
allorché
l’individuo è definito dal
posto che occupa in un
ordine
gerarchico,
la
sicurezza, nelle sue linee
essenziali, è garantita sulla
basedell’appartenenzadiretta
a una comunità e dipende
dalla forza di questi legami
comunitari. Si può parlare
allora
di
protezioni
ravvicinate. Cosí, a proposito
dei tipi di comunità paesane
che
hanno
dominato
l’Occidente
medievale,
Georges Duby parla di
«società
inquadrate,
assicurate,
garantite» 1.
Parallelamente, in città,
l’appartenenza a gruppi di
mestiere
(gilde,
rappresentanze,corporazioni)
inscrive i loro membri
all’interno di sistemi ben
dotatisiadicostrizionichedi
protezioni:
sistemi
che
garantiscono sicurezza a
questistessimembrialprezzo
della loro dipendenza dal
gruppo di appartenenza. Si
tratta delle stesse società che
sono continuamente esposte
alle devastazioni della guerra
eairischidellapenuria,delle
carestie e delle epidemie. Ma
sono
aggressioni
che
minacciano la comunità dal
di fuori e possono anche, al
limite, annientarla. Tali
società, tuttavia, come dice
Duby,sono«assicurate»dase
stesse: esse proteggono i loro
membrisullabasedifittereti
di
dipendenza
e
di
interdipendenza.
In queste società – la cui
descrizione
siamo
qui
obbligati a semplificare –
esiste evidentemente anche
un’insicurezza interna. Ma
essaèveicolatadagliindividui
e dai gruppi che non sono
collegati ai sistemi di
dipendenze e di protezioni a
carattere comunitario. Nelle
societàeuropeepreindustriali,
questo pericolo si è
cristallizzato attorno alla
figura del vagabondo, cioè
attorno all’individuo asociale
per eccellenza, che vive al
tempo stesso fuori da ogni
inscrizioneterritorialeefuori
dalla realtà del lavoro. La
questione del vagabondaggio
è stata la grande questione
sociale di queste società; essa
ha mobilitato un numero
impressionante di misure
prevalentemente repressive,
per tentare – invano, d’altra
parte – di sradicare questa
minaccia di sovversione
interna e di insicurezza
quotidiana, che si riteneva
fosse rappresentata dai
vagabondi. Se si volesse
scrivere
una
storia
dell’insicurezza e della lotta
contro l’insicurezza nelle
società preindustriali, il
personaggio
principale
sarebbe il vagabondo –
sempre
vissuto
come
potenzialmente minaccioso –
assieme alle sue varianti
scopertamente
pericolose
comeilbrigante,ilbandito,il
fuorilegge: tutti individui
senza
legami,
che
rappresentano un rischio di
aggressione fisica e di
disgregazione sociale poiché
esistonoeagisconoaldifuori
diognisistemadiregolazioni
collettive.
Modernitàevulnerabilità.
Con
l’avvento
della
modernità,
lo
statuto
dell’individuo
cambia
radicalmente.
L’individuo
viene riconosciuto di per se
stesso, indipendentemente
dallasuainscrizioneinambiti
collettivi. Ma non è, per ciò
stesso, garantito nella sua
indipendenza.Alcontrario.È
stato senza dubbio Thomas
Hobbes a fornire il primo
ritratto,
spaventoso
e
affascinante, di ciò che
sarebbe davvero una «società
di individui». Testimone,
attraverso le guerre di
religione in Francia e la
guerra civile inglese, della
destabilizzazionediunordine
sociale
fondato
sulle
appartenenze collettive e
legittimato dalle credenze
tradizionali,Hobbesspingeal
limite
la
dinamica
dell’individualizzazione, fino
alpuntoincuiessalascerebbe
gli individui interamente
abbandonati a se stessi. Una
società di individui non
sarebbe piú, propriamente
parlando,unasocietàmauno
statodinatura,cioèunostato
senza legge, senza diritto,
senza costituzione politica e
senza istituzioni sociali, in
preda a una concorrenza
sfrenata degli individui tra di
loro, alla guerra di tutti
controtutti.
Questa sarebbe di fatto
una società d’insicurezza
totale. Liberati da ogni
regolazione collettiva, gli
individui vivono sotto il
segno
della
minaccia
permanente poiché non
possiedono in se stessi il
potere di proteggere e di
proteggersi. Anche la legge
del piú forte non può
stabilizzare la situazione,
poichéDavidepotràuccidere
Golia e il forte potrà sempre
essere annientato, se non
altro da uno piú debole che
abbia il coraggio di
assassinarloduranteilsonno.
Si ritiene, da allora, che il
bisogno di essere protetto
possa essere l’imperativo
categorico
che
sarebbe
necessario
assumere
a
qualunque prezzo per poter
vivere in società. Questa
società
sarà
fondamentalmente
una
società di sicurezza, dal
momentochelasicurezzaèla
condizione
prima
e
assolutamente
necessaria
affinché gli individui, slegati
dalle costrizioni-protezioni
tradizionali, possano «fare
società».
Si sa che Hobbes ha visto
nell’esistenza di uno Stato
assoluto il solo mezzo per
garantire questa sicurezza
delle persone e dei beni, ed
egli gode generalmente per
questo di una cattiva
reputazione. Ma bisogna
senzadubbioavereunpo’del
coraggio intellettuale di
Hobbes per sospendere un
istante il legittimo orrore che
può suscitare il dispotismo
del
Leviatano;
per
comprendere che esso non è
che la risposta ultima, ma
necessaria, all’esigenza di
protezione totale: esigenza
chedipendedaunbisognodi
sicurezza che ha profonde
radici antropologiche. Se è
estremo il potere è buono,
sostiene Hobbes, poiché è
utile alla protezione; ed è
nellaprotezionecherisiedela
sicurezza 2. Anche Max
Weber, in una forma piú
sfumata che non ha sollevato
controversie,diràcheloStato
deve
monopolizzare
l’esercizio della violenza. Ma
soprattutto
c’è
una
contropartita all’analisi di
Hobbes, sottolineata meno
spesso. Mobilitando tutti i
mezzinecessaripergovernare
gli
uomini,
cioè
monopolizzandotuttiipoteri
politici, lo Stato assoluto
liberagliindividuidallapaura
e permette loro di esistere
liberamente
nella
sfera
privata.L’orribileLeviatanoè
anche questo potere tutelare,
che permette all’individuo di
viverecomepiúgliaggradae
di pensare ciò che vuole nel
suoforointeriore,cheregolail
rispetto
delle
credenze
religiose antagoniste (in un
periodo
di
fanatismo
religioso, non è poco) e la
capacità di ciascuno di fare
ciò che crede e di godersi in
pace i frutti della propria
operosità.Ilprezzodapagare
nonèdipococonto,poichési
trattadirinunciaredeltuttoa
intervenire
negli
affari
pubblici, accontentandosi di
subire il potere politico. Ma
neppure i suoi effetti sono
trascurabili, poiché si tratta
della condizione di esistenza
di una società civile e della
pace civile di cui solo uno
Stato assoluto può essere il
garante.All’ombradelloStato
protettore, l’uomo moderno
potrà
tranquillamente
coltivare la sua soggettività,
lanciarsi alla conquista della
natura, trasformarla con il
suo lavoro e fondare la
propria indipendenza sulle
sue
capacità
personali.
Hobbes afferma anche la
necessità di un ruolo di
protezione sociale dello Stato
a favore degli individui in
condizioni di bisogno: «E
poiché molti uomini, per
accidenti
inevitabili,
si
riducono nell’impossibilità di
mantenersi col proprio
lavoro, non bisogna lasciarli
alla carità dei privati, ma
bisogna provvederli, per
quanto le necessità di natura
richiedono, con le leggi dello
Stato» 3.
Non voglio fare l’apologia
di Hobbes, ma ritengo che
egli abbia fatto emergere uno
schema molto forte per
cogliere le profonde poste in
gioco della questione delle
protezioni nelle società
moderne. Essere protetti non
èunostato«naturale».Èuna
situazione costruita, dato che
l’insicurezza non è una
peripezia in cui ci si imbatte
in maniera piú o meno
accidentale,
ma
una
dimensionecheappartienein
maniera sostanziale alla
coesistenza degli individui in
una società moderna. Questa
coesistenza con gli altri è
senza
alcun
dubbio
un’opportunità, se non altro
per il fatto che essa è
necessaria per formare una
società. Tuttavia – senza che
se ne abbiano a male tutti
coloro
che
celebrano
ingenuamente i meriti della
società civile – essa è anche
una minaccia, a meno che
non ci sia una «mano
invisibile» per armonizzare a
priorigliinteressi,idesiderio
la volontà di potenza degli
individui.
Perciò
una
costruzione di protezioni che
nonsiaccontentidiratificare
le modalità immediate del
«viverecon»èunanecessità,e
ha un prezzo. Hobbes ha
collocato molto in alto –
senzadubbiotroppoinalto–
il prezzo da pagare per
portare a termine questa
svolta. Se è vero però che
l’insicurezza appartiene in
maniera sostanziale a una
società di individui, e che
bisogna
necessariamente
combatterla affinché essi
possano coesistere in seno a
uno stesso insieme, questa
esigenza implica anche la
mobilitazione di una batteria
dimezzichenonsarannomai
inoffensivi: in primo luogo
l’istituzione di uno Stato
dotato di un potere effettivo,
che gli consenta di svolgere
questoruolodifornitoredelle
protezioni e di garante della
sicurezza.
D’altronde, se Hobbes
gode di una reputazione
alquanto sinistra, a ben
guardare non fa che
anticipare, in una forma
paradossale e provocatoria,
una parte importante di
quellachediventeràlavulgata
dei liberali, della quale si
potranno trovare tracce fino
ai nostri giorni. A partire da
John Locke, che passa,
proprio lui, per il padre
alquanto
bonario
del
liberalismo. Trent’anni dopo
Hobbes, Locke celebra con
ottimismo
quest’uomo
moderno che, attraverso il
libero dispiegamento delle
sue attività, costruisce la
propria indipendenza grazie
al
lavoro
e
diviene
simultaneamenteproprietario
di se stesso e dei suoi beni:
«per proprietà, qui come
altrove,intendoquellachegli
uominihannotantodelleloro
persone quanto dei loro
beni» 4.
Datochel’individuononè
piú catturato entro reti
tradizionali di dipendenza e
di protezione, è la proprietà
cheprotegge.Laproprietàèlo
zoccolodirisorseapartiredal
quale un individuo può
esisteredipersestesso,senza
dipendere da un padrone o
dalla carità altrui. È la
proprietà che garantisce la
sicurezza di fronte agli
imprevisti dell’esistenza, alla
malattia, all’infortunio, alla
miseria di chi non può piú
lavorare. E a partire dal
momentoincuil’individuoè
chiamato a scegliere i propri
rappresentanti sul piano
politico,èsemprelaproprietà
che assicura l’autonomia del
cittadino, libero, grazie ad
essa,nellesueopinionienelle
sue scelte: un cittadino che
non si può prezzolare per
garantirsene il voto né
intimidire per formarsi una
clientela. In una Repubblica
moderna,dicuiLockedelinea
laconfigurazione,laproprietà
èilsupportoinevitabilegrazie
alqualeilcittadinopuòessere
riconosciuto come tale nella
suaindipendenza.
Ma Locke vede bene
anch’eglichequestasovranità
sociale del proprietario non
basta a se stessa, e che
l’esistenza di uno Stato è
necessaria,
affinché
l’individuo disponga della
libertà di sviluppare le sue
iniziativeedigodereinpacei
frutti del suo lavoro. Ciò è
cosíverocheLockeindividua
in questo imperativo il
fondamentodelpattosociale,
l’assoluta necessità di dotarsi
di una costituzione politica:
«Il grande e principale fine
per cui dunque gli uomini si
uniscono in Stati e si
assoggettanoadungoverno,è
la salvaguardia della loro
proprietà» 5.
È la difesa della proprietà
che giustifica l’esistenza di
uno Stato, la cui funzione
essenziale è quella di
preservarla. Per proprietà,
tuttavia, bisogna intendere
sempre, qui, non soltanto la
proprietà dei beni ma anche
la proprietà di sé che i beni
rendonopossibile:condizione
della
libertà
e
dell’indipendenza
dei
cittadini. Gli uomini, dice
Locke, «hanno in mente di
riunirsi per la reciproca
salvaguardia della loro vita,
libertà e beni: cose che io
denomino con il termine
generalediproprietà» 6.
La Repubblica di Locke
nonèilLeviatanodiHobbes.
Essa cercherà di realizzare,
peraltro con difficoltà, forme
di
rappresentanza
democratica che ne faranno,
almeno in una certa misura,
l’espressionedellavolontàdei
cittadini. Tuttavia, lo Stato
liberale – di cui Locke ha
tracciato il modello e che si
realizzerà
nella
società
moderna – non viene a patti
conilmandatoinizialechegli
è stato affidato: essere uno
Stato di sicurezza, proteggere
le persone e i loro beni. Al
proposito, si è potuto parlare
di«Statominimo»ealtempo
stesso di «Stato gendarme».
Questononècontraddittorio.
Tale Stato è uno Stato di
diritto, che si concentra sulle
sue funzioni essenziali di
guardiano
dell’ordine
pubblico e di garante dei
diritti e dei beni degli
individui. Almeno in linea di
principio(datocheneifattile
cosesarannopiúcomplicate),
esso si impone di non
intromettersinellealtresfere,
sociali ed economiche, della
società.Masaràrigorosonella
difesa dell’integrità della
persona e dei suoi diritti e al
tempostessospietatocontroi
nemici
della
proprietà
(sanzioni del codice penale
contro i danni ai beni, ma
anche repressione, che potrà
essere violenta, dei tentativi
collettivi di sovversione
dell’ordineproprietario).Seci
si attiene a un giudizio di
ordine morale, si può
denunciare
una
contraddizione
nel
funzionamento dello Stato
liberale. Gli si darà allora
fiducia per aver tentato di
costituirsi come Stato di
diritto difendendo i diritti
civili e l’integrità delle
persone 7,ecisiindigneràdel
fatto che questo stesso Stato
ha schiacciato l’insurrezione
degli operai parigini nel
giugnodel1848olaComune
diPariginel1871.Daunlato
il
legalismo
giuridico,
dall’altro il ricorso, talvolta
brutale, all’esercito o alle
milizie
della
Guardia
nazionale. Ma si può
eliminare questa apparente
contraddizione
comprendendo
che
il
fondamentodiquestotipodi
Stato è proprio la garanzia
della protezione e della
sicurezza.
In
questa
configurazione, la protezione
delle persone è inseparabile
dallaprotezionedeilorobeni.
Il mandato statuale va
dall’esercizio della giustizia e
dalmantenimentodell’ordine
tramite operazioni di polizia,
fino alla difesa dell’ordine
sociale
fondato
sulla
proprietà,
mobilitando,
quando è necessario e «in
caso di forza maggiore»,
mezzimilitarioparamilitari.
Bisognaricordarechenella
Dichiarazione universale dei
diritti dell’uomo e del
cittadino la proprietà non è
stata collocata per caso o per
incoerenza sul terreno dei
diritti inalienabili e sacri:
collocazioneripresacondelle
varianti
nelle
diverse
Costituzioni repubblicane.
Non può trattarsi solamente
della proprietà «borghese»
che riprodurrebbe i privilegi
di una classe. All’inizio della
modernità, la proprietà
privata assume un significato
antropologico profondo: essa
appare infatti – Locke è stato
uno dei primi a capirlo –
come la base a partire dalla
quale l’individuo che si
affranca dalle protezionisoggezioni tradizionali può
trovare le condizioni della
propriaindipendenza.Nonsi
capirebbe, altrimenti, il fatto
che la proprietà privata sia
stata difesa non solo dai
conservatori e dalle correnti
piú moderate (borghesi, se si
vuole),
dell’epoca
prerivoluzionaria
o
rivoluzionaria, ma anche dai
suoi esponenti piú radicali.
Rousseau,Robespierre,SaintJust e i sanculotti non hanno
intenzione di sopprimere la
proprietà, ma vogliono
restringerla
rendendola
accessibile a tutti i cittadini.
Robespierre vuole ridefinire i
limiti
della
proprietà
attraversolaleggeeSaint-Just
sogna una Repubblica di
piccoli proprietari, poiché
solo gli individui-proprietari
godrebberodell’indipendenza
e della libertà necessarie ai
cittadini,ancheperdifendere
lapatriaconlearmiinpugno.
Essi difenderebbero cosí la
Repubblica e al tempo stesso
illorostatutodicittadiniche
poggia sulla proprietà: «Le
proprietà dei patrioti sono
sacre» 8.Sologruppideltutto
marginali hanno pensato e
agito fuori da questo
orizzonte della proprietà
privata, come i babuvisti, che
hanno pagato tale scelta con
la vita. Ma essi erano
ultraminoritari ed estranei
all’ambito della costruzione
statualemoderna,cosícomeè
prevalsa fino ai giorni nostri
(ad eccezione di ciò che è
accaduto nell’Europa dell’Est
e altrove sulla scia della
rivoluzione bolscevica del
1917; ma questa è un’altra
storia).
Sicurezzapubblicaelibertà
pubbliche.
C’è cosí una coerenza
profonda nell’edificio socio-
politico
proposto
inizialmentedaiprimiliberali
echetenteràdiimporsilungo
il XIX secolo attraverso molte
vicissitudini.Lasuachiavedi
volta è la pretesa di garantire
sia la protezione civile degli
individui fondata sullo Stato
di diritto sia la loro
protezione sociale fondata
sulla proprietà privata. La
proprietàèinfattil’istituzione
sociale per eccellenza, nella
misura in cui adempie alla
funzione
essenziale
di
salvaguardare l’indipendenza
degliindividuiediassicurarli
contro i rischi dell’esistenza.
Come ribadisce Charles Gide
all’inizio del XX secolo: «Per
ciò che riguarda la classe
possidente, la proprietà
costituisce una istituzione
socialecherendetuttelealtre
pressoché
superflue» 9.
Bisogna intendere in tal
modochelaproprietàprivata
garantisce,nelsensopienodel
termine,controgliimprevisti
dell’esistenza sociale (in caso
di malattia, di infortunio, di
cessazione
del
lavoro,
eccetera). Essa rende inutile
«il sociale», inteso come
l’insieme dei dispositivi che
saranno attivati al fine di
compensare il deficit di
risorse necessarie per vivere
insocietàconiproprimezzi.
Gli individui proprietari
possono proteggersi da soli
mobilitando le proprie
risorse, e possono farlo
all’interno del quadro legale
di uno Stato che protegge
questa proprietà. Si può
parlare a tale proposito, per
essi, di una sicurezza sociale
garantita.
Quanto
alla
sicurezza civile, essa, proprio
essa,èassicuratadaunoStato
di diritto che garantisce
l’esercizio
delle
libertà
fondamentali,cheamministra
lagiustiziaechesioccupadel
pacifico svolgimento della
vita sociale (è il lavoro delle
«forze dell’ordine», ritenute
garanti
della
sicurezza
quotidiana dei beni e delle
persone).
Si tratta quindi di un
programma ideale che non
può sradicare totalmente
l’insicurezzapoiché,perfarlo,
bisognerebbe che lo Stato
controllasse
tutte
le
possibilità, individuali o
collettive, di trasgredire
l’ordine sociale. Appare
evidente la forza del
paradigma proposto da
Hobbes: la sicurezza può
essere totale se, e soltanto se,
lo Stato è assoluto; se ha il
diritto o, in tutti i casi, il
potere di schiacciare senza
alcun limite ogni velleità di
attentare alla sicurezza delle
persone e dei beni. Ma lo
Stato,sedivienepocootanto
democratico, e a mano a
manochelodiviene,ponedei
limiti all’esercizio di quel
potere che si realizza
pienamente solo attraverso il
dispotismo o il totalitarismo.
Uno Stato democratico non
può essere uno Stato
protettoreaqualunquecosto,
poiché questo costo sarebbe
quello calcolato da Hobbes:
l’assolutismo del potere
statuale.
L’esistenza
di
principî
costituzionali,
l’istituzionalizzazione della
separazione dei poteri, la
preoccupazione di rispettare
il diritto nell’uso della forza,
ivi compresa la forza
pubblica, pongono altrettanti
limiti all’esercizio di un
potere assoluto e creano,
indirettamente
ma
necessariamente,
le
condizioni di una certa
insicurezza.
Percitareunsoloesempio,
ilcontrollodellamagistratura
sulla polizia inquadra le
forme di intervento delle
forze dell’ordine e limita la
loro libertà d’azione. Il
delinquente potrà trarre dei
vantaggi
da
questa
preoccupazione di rispettare
leformelegali,el’impunitàdi
cui beneficiano certi reati è
una conseguenza quasi
necessaria della sofisticazione
dell’apparato giudiziario. La
critica
ricorrente
del
«lassismo» di cui darebbero
prova le autorità responsabili
delmantenimentodell’ordine
pubblico ha la sua origine
profonda in questa distanza,
cheesistesempreinunoStato
di diritto, tra l’esigenza di
rispettare le forme legali e
quelle pratiche repressive che
sarebbero
incondizionatamente pilotate
dalla sola preoccupazione
dell’efficacia. In generale, piú
uno Stato si allontana dal
modello del Leviatano,
dispiegando un complesso
apparato giuridico, piú esso
rischia di deludere l’esigenza
di assicurare la protezione
assolutadeisuoimembri.Per
superare
questa
contraddizione bisognerebbe,
come aveva ben visto
Rousseau, che tutti i cittadini
fossero virtuosi, o fossero
obbligati a diventarlo. Ma
tutti i cittadini non sono
spontaneamentevirtuosi–ne
siamo ben lontani – e il caso
di Robespierre serve a
ricordarci il prezzo di una
politica della virtú che passa
attraverso l’esercizio del
terrore rivoluzionario. Ma se
lavirtúnonèspontanea,ese
ci si rifiuta di inculcarla a
forza,
bisogna
allora
ammettere che la sicurezza
assoluta dei beni delle
persone non sarà mai
completamente garantita in
uno Stato di diritto. È il
dilemma inscritto nel cuore
dell’applicazione della legge.
L’applicazione della legge
passa
attraverso
la
mobilitazione di procedure
sempre piú complesse, che
mantengono e addirittura
approfondisconoloscartotra
ciò che l’ordine legale
prescrive e la maniera in cui
esso informa le pratiche
sociali.
In Francia, in occasione
delle
ultime
scadenze
elettorali,
il
tema
dell’insicurezza ha acquistato
una tale forza da rasentare a
volte il delirio, e non sembra
che la situazione attuale stia
diventando piú tranquilla. È
facile sottolineare la distanza
enorme
che
separa
l’ossessione sicuritaria dalle
minacceoggettivechepesano
suibeniesullepersoneinuna
società come la nostra,
paragonata ad esempio a ciò
che accade oggi in piú della
metà del pianeta o a ciò che
accadevainFranciaunsecolo
fa 10. L’ossessione sicuritaria
non è tuttavia un fantasma,
poiché rivela un tipo di
rapporto con lo Stato
specifico
delle
società
moderne. L’individuo esige
che lo Stato lo protegga
poiché viene ipervalorizzato,
e poiché si sente fragile e al
tempo stesso vulnerabile.
Cosí la «domanda di Stato»
apparedavveropiúfortenelle
societàmodernecheinquelle
precedenti,laddovenumerose
protezioni-soggezioni erano
distribuite attraverso la
partecipazione a gruppi di
appartenenza sottoposti al
sovrano. La pressione si
esercitaormaiessenzialmente
sullo Stato, salvo poi
rimproverargli di essere
troppo invadente. Ma se
vuole essere uno Stato di
diritto,nonpuòchedeludere
questa ricerca di protezione
totale, giacché la sicurezza
totale non è compatibile con
ilrispettoassolutodelleforme
legali.
Cosí
si
potrebbe
comprendere
che
il
sentimento di insicurezza,
anche se assume forme
estreme
e
totalmente
«irrealistiche»,
proviene
meno da un’insufficienza
delle protezioni che dal
carattere radicale di una
domandadiprotezione,dicui
Hobbes ha colto le radici
profonde proprio all’inizio
della modernità. Il genio di
Hobbes ci aiuta a prendere
coscienza del paradosso che
strutturalaproblematicadella
sicurezza civile nelle società
moderne.Inquestesocietàdi
individui, la domanda di
protezione è infinita poiché
l’individuo in quanto tale è
situato fuori dalle protezioni
di prossimità, ed essa
potrebbe trovare il suo
compimento solo nel quadro
di uno Stato assoluto (quello
cheHobbesvedevarealizzarsi
conl’assolutismoregio:anche
per questo le sue analisi non
sono
pure
costruzioni
mentali). Ma questa stessa
società sviluppa al tempo
stesso delle esigenze di
rispetto della libertà e
dell’autonomia
degli
individui, che non possono
fiorire che in uno Stato di
diritto.Ilcarattereirrealistico
e al tempo stesso molto
realistico del sentimento
contemporaneodiinsicurezza
può cosí essere compreso
come un effetto, vissuto
quotidianamente, di questa
contraddizione:
una
contraddizione tra una
domanda
assoluta
di
protezionieunlegalismoche
sisviluppaoggi–comesipuò
osservare – nelle forme
esacerbate di un ricorso al
diritto in tutte le sfere
dell’esistenza, fino alle piú
private. L’uomo moderno
vuole assolutamente che gli
sia resa giustizia in tutti i
campi, ivi compresa la sua
vita privata: il che apre una
grande carriera ai giudici e
agli avvocati. Ma egli
vorrebbe assolutamente, alla
stessa maniera, che la sua
sicurezza fosse garantita nei
dettagli della sua esistenza
quotidiana: il che apre la via,
questa volta, all’onnipresenza
dei poliziotti. Queste due
logiche
non
possono
sovrapporsi completamente:
esse lasciano sussistere uno
scarto che alimenta il
sentimento di insicurezza. Di
piú:siapprofondisceloscarto
tra un legalismo che si
rinforza e una domanda di
protezioni che si inasprisce.
Cosí l’esasperazione della
preoccupazione sicuritaria
genera necessariamente la
propria frustrazione, che
alimenta il sentimento di
insicurezza.
Si tratta forse di una
contraddizione
inerente
all’esercizio della democrazia
moderna. Essa si esprime
attraverso il fatto che la
sicurezza,indemocrazia,èun
diritto, ma che questo diritto
non
può
certamente
realizzarsiconpienezzasenza
mettere in moto degli
strumenti che si rivelano
lesivi del diritto. È in ogni
caso significativo – e lo
dimostra l’attuale situazione
politica francese – che la
domanda di sicurezza si
traduca immediatamente in
una domanda d’autorità, la
quale, una volta in preda agli
eccessi dell’entusiasmo, può
minacciarelademocrazia.Un
governodemocraticositrova,
qui, in una situazione
sfavorevole. Da esso si
pretende che garantisca la
sicurezza, e lo si condanna
rimproverandogli il suo
lassismo se fallisce in questo
compito. Ma il sovrappiú di
autorità che si esige da uno
Stato di diritto può davvero
esercitarsi in un quadro
democratico?Losivedebene:
che si tratti della «guerra
contro il terrorismo», cosí
come è portata avanti dagli
Stati Uniti, oppure della
«tolleranza zero» verso la
delinquenza esaltata in
Francia, gli stati che
ostentano
il
loro
attaccamento
ai
diritti
dell’uomo, fino al punto di
pretendere di dare lezioni al
resto del mondo attorno a
questo
tema,
corrono
continuamente il pericolo di
slittareversolacompressione
dellelibertàpubbliche.
1
G. DUBY , Les pauvres des
campagnes
dans
l’Occident
médiéval jusqu’au XII e siècle, in
«Revue d’histoire de l’Église en
France»,LII(1966),p.25.
2 TH. HOBBES,Leviatano,2voll.,
Laterza,Roma-Bari1974.
3Ibid.,vol.I,p.309.
4J.LOCKE,Ilsecondotrattatosul
governo, Rizzoli, Milano 2001, §
173.Questoschemadellaproprietà
garante dell’indipendenza è anche
presente in James Harrington
(1611-1677), che vi scorge la
condizione a partire dalla quale i
membridiunaRepubblicapossano
esercitare liberamente la loro
cittadinanzapolitica(Larepubblica
di Oceana, Franco Angeli, Milano
1985).
5Ibid.,§124.
6Ibid.,§123.
7Questosforzovabenoltreun
semplice rivestimento «formale»
per dissimulare le disuguaglianze
reali. Per attenersi a un solo
esempio,laMonarchiadiLuglioha
dispiegato sforzi considerevoli per
giustificare
legalmente
l’internamento dei malati mentali.
Lapostaingiocoerachiara.Ifolli,
poiché erano vissuti come
pericolosi, non potevano essere
lasciati in libertà. Ma poiché non
erano responsabili, non potevano
essere
condannati
e
non
rientravano nell’ambito della
prigione. Il problema negli anni
Trenta dell’Ottocento riguardava
unadecinadimigliaiadipersonee
non minacciava dunque l’ordine
sociale. Ma minacciava i principî
delloStatoliberale,cioèlanecessità
di salvaguardare il carattere legale
della sanzione e di vietare ogni
forma di internamento arbitrario
riconducibileallelettresdecachete
ai
prigionieri
di
Stato
dell’assolutismo regio. L’uscita dal
vicolo cieco è stata l’accettazione
dell’internamento
terapeutico
proposto da Esquirol e dai primi
alienisti (si deve internare un folle
non per punirlo ma per guarirlo).
Ma la legge del 1838, che ratifica
questo statuto di eccezione dei
malatimentali,èstatavotatadopo
lunghi mesi di appassionate
controversie alla Camera dei
DeputatieallaCameradeiPari.La
posta in gioco di questi dibattiti
molto ricchi era proprio quella di
garantire la sicurezza contro i
disordini della follia, ma entro un
quadro legale, al punto che per
arrivarci è stato necessario
costruire laboriosamente una
nuova legge. La legge del 1838 in
favore degli alienati è senza alcun
dubbiounalegged’eccezione,maè
proprio una legge, e per di piú
votatarispettandoleprocedurepiú
democratichedell’epoca.
8 Louis Saint-Just, citato da M.
LEROY ,Histoiredesidéessocialesen
France, vol. II, Gallimard, Paris
1950, p. 272. È vero che Saint-Just
aggiunge: «Ma i beni dei
cospiratori sono qui per gli
infelici». Tuttavia, questa aggiunta
conferma il valore eminente dato
alla proprietà: essa è necessaria ai
vericittadini,mentreinemicidella
patrianonnesonodegni.
9 CH. GIDE , Économie sociale,
Paris1902,p.6.
10 Sull’insicurezza in altre aree
culturali, si veda ad esempio L.
KOWARICK , Living at Risk. On
Vulnerability in Urban Brazil, in
Escritos Urbanos, Editoria 34, São
Paulo
2000:
un
quadro
impressionante dell’onnipresenza
dell’insicurezza nelle metropoli
brasiliane. Sulla situazione in
Francia un secolo fa, si veda ad
esempio D. KALIFA , L’attaque
nocturne,
in
«Société
et
représentation», Credes, n. 4,
maggio 1997, che rappresenta al
tempostessol’insicurezzarealeela
messainscena,dapartedeimedia
dell’epoca, dell’insicurezza delle
notti parigine attorno al 1900. Si
vedechealtempodegliApachesla
violenza
criminale
era
innegabilmente piú presente di
oggi,datochelastamparegistrava
a volte fino a centoquaranta
attacchi notturni al mese a Parigi.
Ma si vede anche che la tematica
dell’insicurezza era già sfruttata ai
fini politici. Prendersela con il
lassismo del prefetto di polizia era
anche, per l’opposizione di quel
tempo, una maniera di contestare
lalegittimitàdelgoverno.
Capitolosecondo
Lasicurezzasocialenello
Statoprotettore
L’insicurezza
significa,
nella
stessa
misura,
l’insicurezza
sociale
e
l’insicurezza
civile.
In
quest’ambito, essere protetto
significaesserealriparodalle
peripezie che rischiano di
degradare lo statuto sociale
dell’individuo. Il senso di
insicurezza è dunque la
consapevolezza di essere alla
mercé di questi avvenimenti.
Per esempio, l’incapacità di
«guadagnarsi da vivere»
lavorando – che sia dovuta
allamalattia,auninfortunio,
alla disoccupazione o alla
cessazione
dell’attività
lavorativa per limiti di età –
rimette in questione il
registro
dell’appartenenza
sociale dell’individuo che
traeva dal salario i mezzi del
suo
sostentamento,
rendendolo incapace di
governare la sua esistenza a
partire dalle proprie risorse.
Dovrà essere assistito per
sopravvivere. Si potrebbe
definireunrischiosocialenei
termini di un accadimento
che compromette la capacità
degli individui di garantirsi
da soli la loro indipendenza
sociale. Se non si è assicurati
contro questi imprevisti, si
vive nell’insicurezza. Si tratta
di un’esperienza secolare che
è stata condivisa dalla
maggior parte di quello che
una volta si chiamava il
popolo.Dachisaràcomposto
domani?Proprioall’iniziodel
XVIII secolo, Sébastien Le
Prestre de Vauban descrive
cosí la condizione di un
rappresentante dei piccoli
salariati
dell’epoca,
dei
braccianti giornalieri, dei
manovrieri, «gente di fatica e
di braccia»: «farà sempre
faticaadarrivareafineanno.
Da qui è chiaro che, per
quanto
poco
sia
sovraccaricato,
dovrà
soccombere» 1.
La formula è bella. Ma
traduce soprattutto con
notevole
esattezza
la
situazione vissuta un tempo
dalla maggior parte degli
esponenti delle categorie
popolari, e in particolare da
tutti coloro che avevano solo
illorolavoropervivere,oper
sopravvivere. L’insicurezza
socialeèun’esperienzacheha
attraversato la storia; una
storia non appariscente nelle
sueespressioni;infatti,coloro
che la provavano spesso non
prendevanolaparola,salvole
volte in cui essa esplodeva in
sommosse,inrivolteeinaltre
«emozioni popolari»: tale
insicurezza, tuttavia, era
carica di tutte le fatiche e di
tutte le angosce quotidiane
che hanno costituito buona
parte della miseria del
mondo.
In relazione a questa
dimensione massiva della
problematica dell’insicurezza,
l’ideologia della modernità,
che si è imposta a partire dal
XVIII secolo, ha dato prova,
almeno in un primo tempo,
di
una
straordinaria
indifferenza. Si è sottolineato
che la sua concezione
dell’indipendenza
dell’individuo era stata
costruita
attraverso
la
valorizzazionedellaproprietà,
coniugata con uno Stato di
diritto ritenuto in grado di
garantire la sicurezza dei
cittadini. Questa costruzione
avrebbe dovuto assegnare un
ruolo centrale alla questione
dellostatuto,odell’assenzadi
statuto, dell’individuo non
proprietario.Cheneèditutti
coloro ai quali la proprietà
non assicura questa base di
risorse che sarà d’ora in
avanti
la
condizione
dell’indipendenza sociale e
checostituirà–percitarenon
ancora Marx, ma un autore
oscuro della fine del XVIII
secolo – «la classe non
proprietaria»? 2. Gli individui
privi
del
supporto
proprietario sono assimilati,
da una mente cosí illuminata
come quella dell’abate Sieyès,
a «una folla immensa di
strumenti bipedi senza
libertà, senza moralità, che
non possiede che delle mani
pressoché
incapaci
di
guadagno e un animo
assente» 3.
Laproprietàoillavoro.
Questa questione centrale
non è stata assolutamente
presa in considerazione nella
logica della costruzione dello
Stato liberale. C’è stata
davvero,
in
particolare
durante
l’effervescenza
rivoluzionaria, una certa
presa di coscienza della
gravità del problema. Lo
testimonia questo intervento
allasedutadellaConvenzione
del 25 aprile 1793 di un
deputato della Montagna,
Harmand, la cui lucidità ci
sembra
ancor
sorprendente:
oggi
Gli uomini che vorranno
essereveririconoscerannocon
me che dopo aver ottenuto
l’uguaglianza politica di
diritto, il desiderio piú attuale
e piú attivo è quello
dell’uguaglianza di fatto. Dico
di piú, dico che senza il
desiderio o la speranza di
questa uguaglianza di fatto,
l’uguaglianzadidirittosarebbe
solo un’illusione crudele la
quale, al posto delle gioie che
ha promesso, non farebbe che
infliggere il supplizio di
Tantalo alla parte piú utile e
piúnumerosadeicittadini 4.
Questa «parte piú utile e
piúnumerosadeicittadini»è
l’insieme dei lavoratori non
proprietari. Ma Harmand
vedebenecheilrispetto(che
egli giudica necessario) della
proprietàopponeunostacolo
insormontabile
alla
realizzazione di questo
«desiderio».Eaggiunge:
Comepossonoleistituzioni
sociali procurare all’uomo
questauguaglianzadifattoche
lanaturagliharifiutatosenza
attentare
alle
proprietà
territorialieindustriali?Come
giungervi senza la legge
agraria e la divisione dei
patrimoni?
Èproprioquesta,infatti,la
questione e all’epoca non
poteva ricevere una risposta
diversa dal comunismo. In
questo senso, Gracco Babeuf
risponde direttamente ad
Harmand, ma l’esito pietoso
della Cospirazione degli
Egualimostraaltempostesso
che alla fine del XVIII secolo
questa risposta portava a un
vicolocieco.Tuttoèaccaduto
come se questo problema
fossestatoelusoilpiúalungo
possibile–eciòfinoallafine
del XIX secolo – da parte dei
responsabili politici che
hanno
contribuito
all’edificazione dello Stato
moderno. Il lettore potrà
interpretare come meglio
crede le ragioni di questo
rifiuto delle élite dirigenti di
prendereinconsiderazionela
situazionesocialedella«parte
piúutileepiúnumerosa»dei
cittadinidelloStatodidiritto:
indifferenza,
egoismo,
disprezzo di classe, e cosí
via 5.
Ma per questo primo
periodo di espansione del
liberalismo è lecito parlare,
con Peter Wagner, di
«modernitàliberaleristretta»:
il progetto di una società
liberale
formulato,
ad
esempio, nella Dichiarazione
dei diritti dell’uomo e del
cittadino è in linea di
principio universale, ma è
statopienamenteapplicato,in
un primo tempo, solo a una
frazione assai limitata delle
popolazioni dell’Occidente
cristiano 6.
Le conseguenze di questa
impasse sulle condizioni
sociali della realizzazione dei
principî liberali sono state
considerevoli e disastrose. Le
innumerevoli
rappresentazioni
del
«pauperismo» ottocentesco
rendonovisibilenonsoltanto
la miseria degli operai della
prima industrializzazione e
dellelorofamiglie,maanche,
piú
generalmente,
il
perpetuarsi di uno stato di
insicurezza
sociale
permanente che intacca la
maggior parte delle categorie
popolari. Stavo per dire «che
infetta».L’insicurezzasociale,
infatti, non nutre solo la
povertà. Essa agisce come un
principio
di
demoralizzazione,
di
dissociazione sociale, alla
stregua di un virus che
impregna la vita quotidiana,
dissolve i legami sociali e
mina le strutture psichiche
degli individui. Essa induce
una
«corrosione
del
carattere»,
per
usare
un’espressione che Richard
Sennet impiega in un altro
contesto 7.
Vivere
nell’insicurezza permanente
significa
non
poter
padroneggiare il presente né
anticipare
positivamente
l’avvenire. È la famosa
«imprevidenza» delle classi
popolari, instancabilmente
denunciata dai moralisti del
XIX secolo.Macomepotrebbe
proiettarsi nel futuro e
pianificare
la
propria
esistenza colui che ogni
giorno viene tormentato
dall’insicurezza?L’insicurezza
sociale trasforma questa
stessa esistenza in una lotta
per la sopravvivenza, portata
avanti giorno per giorno e il
cui esito è ogni volta incerto.
Si potrebbe parlare di
disassociazione sociale (il
contrario della coesione
sociale) per dare un nome a
certe situazioni particolari:
quella, ad esempio, dei
proletari del XIX secolo,
condannati a una precarietà
permanente – che è anche
un’insicurezza permanente –
e incapaci di esercitare la
minima presa su ciò che
capitaloro.
Èquestoillatooscurodello
Statodidiritto.UnoStatoche
abbandona in un angolo
mortolacondizionedicoloro
che non hanno i mezzi per
garantirsi
l’esistenza
attraverso la proprietà. Ciò
facendo, lo Stato elude la
questione che Hobbes aveva
posto
in
modo
paradossalmente
piú
democratico,
visto
che
riguardava tutti i soggetti
dello Stato, considerati sullo
stesso piano di fronte al
Leviatano: come proteggere
tuttiimembridiunasocietà?
Comegarantirelasicurezzadi
tutti gli individui nel quadro
dellanazione?Lascissionefra
proprietari e non proprietari
sitraduceinunascissionefra
soggettididirittoesoggettidi
non diritto, se si intende per
diritto anche il diritto di
vivere nella sicurezza civile e
sociale. In caso contrario, il
dirittoèsolo«formale»,come
dirà Marx, e la sua critica su
questo punto è inconfutabile.
Lo Stato di diritto lascia
immutata la condizione
socialediunamaggioranzadi
lavoratori attraversata da una
insicurezza
sociale
permanente.
Come si è usciti da questa
situazione? In altri termini:
come si è giunti a vincere
l’insicurezza
(sociale)
assicurando la protezione
(sociale) di tutti o di quasi
tutti i membri di una società
moderna, per farne degli
individuichegodonodituttii
diritti? Posso fornire qui
soltantol’iniziodellarisposta,
la cui declinazione completa
esigerebbe lunghi sviluppi 8.
Indueparolequindi:fissando
delle protezioni forti al
lavoro; o ancora: costruendo
un nuovo tipo di proprietà –
la proprietà sociale –
concepita e realizzata per
assicurarelariabilitazionedei
non proprietari. Ecco, molto
schematicamente, lo sviluppo
di queste due proposizioni
strettamenteconcordanti.
In primo luogo, fissare
protezioni e diritti alla
condizione del lavoratore
stesso.Illavorosmettecosídi
essere
una
relazione
puramente
commerciale,
retribuita nel quadro di un
rapporto pseudocontrattuale
(il «contratto di locazione»
del Codice civile), tra un
datore di lavoro onnipotente
e un salariato deprivato. Il
lavoro è diventato l’impiego,
cioèunacondizionedotatadi
uno statuto che include
garanzie non commerciali,
come il diritto a un salario
minimo, le protezioni del
dirittodellavoro,lacopertura
degliinfortuni,dellamalattia,
il diritto alla pensione,
eccetera. Contestualmente, la
situazionedellavoratorecessa
di essere la condizione
precaria destinata ad essere
vissuta, giorno per giorno,
nell’angoscia del domani.
Essa è divenuta la condizione
salariale: la disponibilità di
una base di risorse e di
garanzie sulla quale il
lavoratore può contare per
dominare il presente e per
agiresulfuturo.Nella«società
salariale», che si realizza in
Europa occidentale dopo la
Seconda guerra mondiale,
quasi tutti gli individui sono
coperti da sistemi di
protezionelacuistoriasociale
mostra che nella maggior
parte dei casi sono stati
costruiti a partire dal lavoro.
Una società salariale non è
solounasocietànellaqualela
maggior
parte
della
popolazioneattivaèsalariata.
È soprattutto una società
nella quale la stragrande
maggioranza
della
popolazione accede alla
cittadinanza sociale a partire,
in primo luogo, dal
consolidarsi dello statuto del
lavoro.
Secondo
modo
di
qualificare
questa
trasformazione decisiva: i
membridellasocietàsalariale
hanno avuto massivamente
accesso alla proprietà sociale,
che rappresenta un omologo
della proprietà privata; una
proprietà per la sicurezza,
oramai messa a disposizione
di coloro che erano esclusi
dalle protezioni procurate
dalla proprietà privata 9. Si
potrebbe caratterizzare la
proprietà sociale come la
produzione di equivalenti
sociali delle protezioni che
eranoprimafornitesolodalla
proprietà privata. Si veda
l’esempio della pensione. In
termini di sicurezza, il
pensionato potrà rivaleggiare
con il possidente, garantito
dal suo patrimonio. La
pensione offre cosí una
soluzione a una delle
manifestazioni piú tragiche
dell’insicurezza sociale: la
situazione del lavoratore
anziano che non era piú in
grado di lavorare, che
rischiava il totale declino e il
ricorso obbligato a forme
infamanti di assistenza come
l’ospizio.Malapensionenon
è una misura di assistenza: è
un diritto costruito a partire
dallavoro.Essaèlaproprietà
del lavoratore costituita non
secondolalogicadelmercato,
ma
attraverso
la
socializzazione del salario:
una parte del salario torna
indietro a beneficio del
lavoratore (salario indiretto).
È,percosídire,unaproprietà
per la sicurezza, che
garantisce la sicurezza del
lavoratoreuscitodalrapporto
dilavoro.
Evidentemente,
la
pensione non è che un
esempio delle realizzazioni
dellaproprietàsociale,cheha
avuto
degli
inizi
estremamente modesti (la
legge del 1910 sulle pensioni
operaie e contadine non
riguardava che i lavoratori
piú poveri, poiché si riteneva
che i salariati piú agiati
potessero garantirsi da soli,
entrolalogicadellaproprietà
privata). Si può comprendere
l’estensione del sistema a
partire dal processo di
generalizzazionedifferenziazione del salariato
checaratterizzailXX secolo.Il
salariato smette di essere
essenzialmente il salariato
operaio e ricopre l’insieme
estremamente diversificato
delle categorie salariali: dagli
operai pagati a salario
minimo garantito ai quadri
superiori. Ma tutte queste
categorie sono coperte dalle
protezioni del lavoro. Cosí
unaformadiproprietàsociale
come la pensione finisce per
garantire
la
stragrande
maggioranza dei membri
della
società
salariale.
Parallelamente ai sistemi
pensionistici, bisognerebbe
esporre qui l’insieme delle
leggisocialimesseincantiere
nel corso del XX secolo e
approdate a una Sicurezza
socialegeneralizzata:
un piano completo di
Sicurezza sociale mirato ad
assicurareatuttiicittadinidei
mezzidisussistenzaneicasiin
cui siano incapaci di
procurarseli attraverso il loro
lavoro: un piano con una
gestione
affidata
ai
rappresentantidegliinteressati
e ai rappresentanti dello
Stato 10.
Di fatto, il ruolo dello
Stato si è rivelato centrale
nella realizzazione di questi
dispositivi. Lo sviluppo dello
Stato sociale, quanto ad
estensione, è rigorosamente
connesso all’espansione delle
protezioni. Nel suo ruolo
sociale, lo Stato opera
essenzialmente come un
riduttore di rischi. Attraverso
la mediazione degli obblighi
che esso impone e garantisce
perlegge,senededuceanche
che«loStatosialuistessouna
vastaassicurazione» 11.
Unasocietàdisimili.
Cosí si è trovata protetta
«la parte piú utile e piú
numerosa dei cittadini»
evocata
da
Harmand,
membro della Convenzione.
Per risolvere il problema
dell’insicurezzasocialenonsi
è passati attraverso la
soppressione o la divisione
dellaproprietàprivata.Nonsi
è dunque realizzata la stretta
uguaglianza delle condizioni
sociali, «l’uguaglianza di
fatto» auspicata anche da
Harmand.Lasocietàsalariale
resta fortemente differenziata
e, per farla breve, tutt’altro
che egalitaria. Ma essa è al
tempo stesso fortemente
protettrice. Cosí, tra l’alto e il
basso della scala gerarchica
dei salari, le differenze di
reddito sono considerevoli.
Malediversecategoriesociali
beneficiano degli stessi diritti
di protezione: diritto del
lavoro e protezione sociale.
Eccolaragionepercui,senza
dubbio,questotipodisocietà
ha dato prova di una certa
tolleranza di fronte alle
ineguaglianze. Certo, le lotte
perla«divisionedeibenefici»
della crescita sono state
accese. Ma si sono sviluppate
attraverso una modalità di
negoziazione conflittuale tra
«partnersociali»chehaavuto
per effetto un sicuro
miglioramento
della
condizione di tutte le
categoriesalariali,lasciandoal
tempo stesso sussistere, in
pratica, le stesse disparità tra
di loro 12. Dato che questi
scarti rimangono, il processo
non è assolutamente quello
dellacostituzionediunavasta
«classe media», come hanno
creduto
certi
ideologi
dell’epoca 13.Tuttavia,adogni
livello della gerarchia sociale,
ognuno pensava di poter
disporre delle risorse minime
per assicurare la propria
indipendenza.
Il modello di società cosí
realizzatononèquellodiuna
societàdiuguali(nelsensodi
un’uguaglianza «di fatto»
delle condizioni sociali), ma
quello di una «società di
simili»,
per
riprendere
un’espressione di Léon
Bourgeois 14. Una società di
simili è una società
differenziata, gerarchizzata
dunque,manellaqualetuttii
membri possono stabilire
relazioni di interdipendenza
poiché dispongono di un
fondo di risorse comuni e di
diritti comuni. Il carattere
irriducibile dell’opposizione
proprietari/nonproprietariè
cosí superato grazie alla
proprietàsociale,cheassicura
ai non proprietari le
condizioni
della
loro
protezione. Lo Stato (lo Stato
provvidenza, o piuttosto lo
Stato sociale) è il garante di
talecostruzione:leprotezioni
fornite sono protezioni di
diritto; esse costituiscono il
modello in espansione dei
diritti sociali, che forniscono
una concreta contropartita,
virtualmente universale, ai
diritticivilieaidirittipolitici.
Conviene sottolineare che
il ruolo principale dello Stato
sociale non è stato quello di
realizzare
la
funzione
ridistributiva che gli si
attribuisce
piú
frequentemente. Infatti, le
ridistribuzioni di denaro
pubblicohannointaccatosolo
assai debolmente la struttura
gerarchica della società
salariale. Il suo ruolo
protettore è stato invece
essenziale. Ad esempio, la
pensione:lepensioniseguono
assaistrettamentelagerarchia
salariale (piccolo salario
piccola pensione, grosso
salariogrossapensione).Qui,
dunque,
nessuna
ridistribuzione.Incompenso,
il ruolo protettore della
pensione è fondamentale,
poiché assicura a tutti i
salariatilecondizioniminime
dell’indipendenza sociale, e
quindi la possibilità di
continuare a far società con i
loro«simili».Lapensionedel
salariato pagato con il salario
minimo garantito non ha
certo nulla di sbalorditivo.
Tuttavia, paragonata con la
situazione lavorativa che
precede l’avvento delle
protezioni – ad esempio con
la situazione del proletario
agli
inizi
dell’industrializzazione – essa
rappresenta
un
vero
cambiamento qualitativo. Si
può dire la stessa cosa delle
protezioni che riguardano la
saluteolafamiglia,eanchelo
sviluppo di servizi pubblici
del tutto o parzialmente
sottrattialgiocodelmercato.
La proprietà sociale ha
riabilitato la «classe non
proprietaria»,
condannata
all’insicurezza
sociale
permanente, procurandole il
minimo di risorse, di
opportunità e di diritti
necessariperpotercostituire,
inmancanzadiunasocietàdi
eguali,una«societàdisimili».
Riuscire
a
soffocare
l’insicurezza sociale, cioè ad
agire efficacemente in qualità
diriduttoredirischisociali:si
comprende cosí come sia
stata questa, in una società
salariale,
la
funzione
essenziale dello Stato, oltre
che la sua piú grande
realizzazione.Mavièarrivato
a certe condizioni – le une
congiunturali,
le
altre
strutturali – di cui occorre
ricordare almeno le due piú
importanti, per comprendere
perché, oggi, l’efficacia del
suo
intervento
viene
compromessa dalla ripresa
dell’insicurezzasociale.
La prima condizione, che
hapermessolacostruzionedi
questo edificio, è la crescita.
Tra il 1953 e l’inizio degli
anni
Settanta,
si
è
praticamente assistito al
triplicarsi della produttività,
dei consumi e dei redditi
salariali. Al di là di una
dimensione
propriamente
economica, è necessario
intravedere qui un fattore
essenziale che ha permesso
una gestione regolata delle
ineguaglianze
e
dell’insicurezza sociale nella
società salariale. Secondo
l’espressione
di
un
sindacalistadell’epoca,André
Bergeron,vieradel«granoda
macinare». Questo non vuol
dire soltanto che c’è del
plusvalore da dividere. Vi è
anche la possibilità di far
entrare in gioco quel che si
potrebbe
chiamare
un
principio di soddisfazione
differita nella gestione degli
affari
sociali.
Nella
negoziazione tra «partner
sociali»,
ogni
gruppo
rivendica di piú e pensa di
non
guadagnarci
mai
abbastanza. Ecco perché
questa
negoziazione
è
conflittuale. Ogni gruppo,
tuttavia, può anche pensare
che domani, o tra sei mesi, o
traunanno,otterràdipiú.In
questo
modo
le
insoddisfazioni
e
le
frustrazioni sono vissute
come provvisorie. Domani
saràmegliodioggi.Èingioco
la possibilità di realizzare
gradualmente una riduzione
progressiva
delle
ineguaglianze
e
lo
sradicamento delle sacche di
povertà e di precariato che
sussistononellasocietà.Èciò
che si chiama il progresso
sociale,chepassaattraversola
possibilità di programmare
l’avvenire. Una tale credenza
viene vissuta in maniera del
tutto concreta attraverso la
possibilità di assumere delle
iniziativeedisvilupparedelle
strategie rivolte al futuro:
chiedere un prestito per
ottenere la proprietà della
propria casa, programmare
l’ingresso
dei
figli
all’università, anticipare delle
traiettorie di mobilità sociale
ascendente, incluse quelle
transgenerazionali.
Questa
capacità
di
padroneggiare l’avvenire mi
sembra essenziale in una
prospettiva di lotta contro
l’insicurezza sociale 15. Essa
funziona finché lo sviluppo
della società salariale sembra
inscriversi in una traiettoria
ascendente,chemassimizzalo
stock delle risorse comuni e
rinforza il ruolo dello Stato
come regolatore di queste
trasformazioni. E questo
perchétaleperiododicrescita
economica è anche il
momento forte di crescita
delloStato,chegarantisceuna
protezione
sociale
generalizzataechesisforzadi
pilotare l’economia entro un
quadro
keynesiano,
elaborando dei compromessi
tra i differenti partner
implicati nel processo della
crescita. Si vedrà come la
rimessa in discussione di
questadinamicaabbiapotuto
produrre
il
riemergere
dell’insicurezzasociale.
Trattandosi di cogliere i
fattori che avevano permesso
di stroncare pienamente
l’insicurezza sociale, bisogna
mettere l’accento su un
secondo
elemento
determinante, questa volta
strutturale. Come dire:
l’acquisizionedelleprotezioni
sociali
è
maturata
essenzialmente a partire
dall’inscrizionedegliindividui
in collettivi di protezione.
«Quel che conta è sempre di
meno ciò che ognuno
possiede e sempre di piú i
diritti acquisiti dal gruppo di
appartenenza. L’avere ha una
minore importanza rispetto
allo statuto collettivo definito
dauninsiemediregole» 16.
Di fatto, il lavoratore in
quanto
individuo
abbandonato a se stesso non
«possiede» pressoché nulla;
ha soprattutto il bisogno
vitale di vendere la sua forza
lavoro. È per questo che il
puro rapporto contrattuale
fra datore di lavoro e
dipendente era uno scambio
profondamente ineguale tra
due individui, in cui l’uno
puòimporrelesuecondizioni
poichépossiede,percondurre
latrattativaamodosuo,delle
risorse che all’altro mancano
totalmente. Al contrario, se
esisteinveceunaconvenzione
collettiva, non è piú
l’individuo
isolato
che
contratta. Egli si appoggia a
uninsiemediregolechesono
state precedentemente e
collettivamente negoziate e
che sono l’espressione di un
compromesso tra partner
sociali
collettivamente
costituiti. L’individuo si
inscrive in un collettivo
precostituito che esprime la
suaforzadifrontealdatoredi
lavoro. Che si abbia a che
fare, secondo l’espressione
consacrata, con dei «partner
sociali», significa che non
sono piú degli individui, ma
dei collettivi che entrano in
relazionegliuniconglialtri.
Si possono estendere
queste
osservazioni
all’insieme delle istituzioni
della società salariale. Il
diritto del lavoro e la
protezione sociale sono
sistemi
di
regolazione
collettiva: diritti definiti in
funzione dell’appartenenza a
insiemi e spesso acquisiti in
seguitoalotteeaconflittiche
hanno contrapposto gruppi
con interessi divergenti.
L’individuo è protetto in
funzione
di
queste
appartenenze: esse non
implicano
piú
la
partecipazione diretta a
comunità «naturali» (le
«protezioni ravvicinate» della
famiglia, del vicinato, del
gruppo territoriale), ma
richiedono l’adesione a
collettivi
costruiti
con
regolamentazioni e dotati
generalmente di uno statuto
giuridico.Collettividilavoro,
collettivi
sindacali,
regolazioni collettive del
diritto del lavoro e della
protezione sociale: come dice
Hatzfeld,èproprio«lostatuto
collettivo definito da un
insieme di regole» che
protegge l’individuo e gli
procura la sicurezza. In una
società
moderna
industrializzataeurbanizzata,
in cui le protezioni di
prossimità, se non sono del
tutto scomparse, sono molto
indebolite, è l’istanza del
collettivo che può rendere
sicurol’individuo.
Ma questi sistemi di
protezione sono complessi,
fragili e costosi. Non
incastrano piú direttamente
l’individuo, come accadeva
con le protezioni ravvicinate.
Essi suscitano ugualmente
una forte domanda di Stato,
poichéspessoèloStatocheli
sollecita, li legittima e li
finanzia. Si ritiene perciò che
un riemergere massiccio
dell’insicurezza sociale possa
rappresentare
il
costo
dell’attuale
rimessa
in
discussione
dello
Stato
sociale,
legata
all’indebolimento
dei
collettivi o addirittura al loro
crollo,
prodotto
dal
potenziamentodeiprocessidi
individualizzazione.
1
S. LE PRESTRE DE VAUBAN ,
Projetdedîmeroyale,Paris1707,p.
66. Vauban cadrà in disgrazia per
questa rappresentazione troppo
lucida della miseria del popolo al
tempodelreSole.
2
Lambert, membro del
Comitato
di
mendicità
dell’Assemblea costituente, citato
da L. F. DREYFUS , Un philanthrope
d’autrefois, La RochefoucaultLiancourt,Paris1903.
3 E. J. SIEYÈS , Écrits politiques,
Éditions
des
Archives
contemporaines,Paris1985.
4
Discorso
all’Assemblea
costituente del 15 aprile 1793,
citato da M. GAUCHET , La
Révolution des droits de l’homme,
Gallimard,Paris1989,p.214.
5
La presa di coscienza di ciò
che costituirà il nucleo della
questione sociale del XIX secolo
risale tuttavia agli anni Venti
dell’Ottocento,sottolaformadella
scopertadel«pauperismo»daparte
dell’insieme degli osservatori
sociali:rivelazionepermoltiaspetti
sconvolgente di una miseria di
massa
direttamente
legata
all’industrializzazione e la cui
promozione sembra da quel
momento inscritta nello sviluppo
stesso della modernità. Ma i
rappresentanti
delle
classi
dominanti, tanto liberali che
conservatori, si rifiutano di farne
un problema politico, cioè un
problema che deve essere preso in
considerazionealivellodelloStato,
ecercanodirisponderviattraverso
il dispiegamento delle pratiche
dellafilantropiaedelpaternalismo
padronale (metto volontariamente
traparentesilediversevariantidel
socialismo rivoluzionario che si
sviluppano simultaneamente, ma
chesonodunqueesclusedalcampo
politico dove si elaborano le
modalità di governo della società
moderna).
6 P. WAGNER , Soziologie der
Moderne. Freiheit und Disziplin,
Campus
Fachbuch,
1995.
Considerata su scala planetaria,
questa«restrizione»sembraancora
piú esorbitante. Si potrebbe dire
che la modernità liberale si è
costruita sulla base di una doppia
esclusione: l’esclusione delle
categoriepopolarinellenazionipiú
sviluppate dell’epoca (l’Europa
occidentale,poigliStatiUniti)e,al
di fuori di questo perimetro,
l’esclusionedelrestodell’umanità.
7 R. SENNET , The Corrosion of
Character, Norton, New York
1998.
8
Ho
tentato
questa
dimostrazione
in
Les
méthamorphes de la question
sociale. Une chronique du salariat
(1995), Gallimard, Paris 1999, in
particolareneicapitoliVI eVII .
9Horipresoun’intuizionedi H.
HATZFELD ,La difficile mutation de
la sécurité-propriété à la sécuritédroit, in «Prévenir», n. 5, marzo
1982. Si trova il termine di
proprietàsocialenelsensoincuilo
intendo qui in altri autori
repubblicani della fine del XIX
secolo; si veda in particolare A.
FOUILLÉ , La propriété sociale et la
démocratie, Paris 1884. Fouillé
difendel’assicurazioneobbligatoria
come il mezzo adatto a costituire
«quelle garanzie del capitale
umanochesonocomeunminimo
di proprietà essenziale ad ogni
cittadinoveramenteliberoeuguale
aglialtri».
10 Conseil national de la
résistance,programmad’azionedel
5marzo1944.
11 F. EWALD , L’État providence,
Grasset, Paris 1986, p. 343. Per
essere esaustivi, occorrerebbe
aggiungere,allamessaincampodi
questa struttura assicurativa, lo
sviluppo dei servizi pubblici. I
servizi pubblici – intesi come
dispositivi che mettono a
disposizione del piú gran numero
di persone beni essenziali che non
possonoesserepresiincaricodagli
interessi privati – costituiscono
una parte importante della
proprietà sociale: che dei servizi
non mercificati siano accessibili a
tutti è un fattore essenziale di
coesionetraidifferentisegmentidi
una società moderna. Non si può
appesantire troppo l’esposizione,
maildibattitosulruolodeiservizi
pubblici fino alla loro attuale
rimessa in discussione si
integrerebbe del tutto nella
tematica sviluppata all’interno di
questodiscorso.
12 Durante il trentennio che va
dal 1946 al 1975, il cosiddetto
periodo dei «Trenta Gloriosi», le
differenzedeiredditidalavorotra
gli operai e i quadri sono rimaste
praticamente immutate, salvo
alcune varianti congiunturali.
L’immagine che bisognerebbe
usareèquelladellascalamobile:su
una scala meccanica tutti salgono,
ma la distanza tra le persone, qui
tra le differenti categorie sociali
collocatesudifferentigradini,resta
lastessa.
13 Tra di essi, il piú
rappresentativo,
fino
alla
caricatura, è stato senza dubbio
Jean Fourastié: cfr. Les Trentes
Glourieuses ou la Révolution
invisibile de 1946 à 1975, Fayard,
Paris1979.
14 L. BOURGEOIS , Solidarité,
Paris 1896. Sullo sfondo, si
riconosce il modello della
solidarietà organica di Émile
Durkheim, forma che deve
assumere l’appartenenza sociale in
una società al tempo stesso
diversificataeunificata(integrata).
15Questalottasiinscriveinfatti
in un processo che al principio
deglianniSettantaerabenlontano
dall’essere compiuto. Per dirla
altrimenti, insicurezza sociale e
povertà sono ancora presenti. Ma
possono essere pensate come
residuali in rapporto alla dinamica
che sembra imporsi. Lo stesso
dicasi per l’esistenza di ciò che si
chiama il «quarto mondo»,
composto da individui rimasti ai
margini della società salariale.
Tuttavia, la loro presenza non
mette in discussione il movimento
ascendentedellasocietà:lisiassiste
poco o tanto in attesa che un po’
alla volta spariscano. Allo stesso
modo,
sussistono
differenti
categorie di assistiti che hanno a
che fare con il diritto al soccorso e
non con le coperture assicurative
incondizionate costruite a partire
dallavoro.MacomeosservaDidier
Renard, «l’opinione secondo cui le
assicurazioni
sociali
devono
rendere inutili le istituzioni
assistenziali è maggioritaria a
partire dall’inizio del secolo e si è
definitivamente imposta alla fine
dellaguerra»(Interventiondel’État
etgenèsedelaprotectionsocialeen
France, in «Lien social et
politiques», n. 33, primavera 1995,
p. 108). Pierre Laroque – che
diverrà il grande dirigente del
piano francese di previdenza
sociale – aveva una concezione
particolarmente
peggiorativa
dell’assistenza e pensava che la si
dovessesradicareunpo’allavolta:
«L’assistenza
avvilisce
intellettualmente e moralmente
disabituando l’assistito allo sforzo,
condannandolo a marcire nella
miseria,
impedendogli
ogni
speranza di elevazione nella scala
sociale […]. Essa non fornisce al
problema sociale che soluzioni
imparziali e molto imperfette»
(«L’Homme nouveau», n. 1,
gennaio1934).
16 H. HATZFELD , La difficile
mutation de la sécurité-propriété à
lasécurité-droitcit.
Capitoloterzo
Ilriemergeredell’incertezza
Si
può
interpretare
globalmente la «grande
trasformazione» che colpisce
le nostre società occidentali,
da un quarto di secolo circa,
come una crisi della
modernità organizzata. Peter
Wagner intende, con questo,
la costruzione di quelle
regolazioni collettive che si
erano sviluppate dopo la fine
del XIX secolopersuperarela
prima crisi della modernità:
quella della «modernità
ristretta» 1. Come si è capito,
essa
aveva
fallito
la
realizzazione della grande
promessa
fatta
dal
liberalismo:
applicare
all’insieme della società i
principî
dell’autonomia
dell’individuo
e
dell’eguaglianza dei diritti.
Unasocietànonpuòfondarsi
esclusivamentesuuninsieme
di rapporti contrattuali tra
individui liberi e uguali,
poiché in questo caso
escluderebbe tutti coloro – e
in
primo
luogo
la
maggioranza dei lavoratori –
le cui condizioni di esistenza
non possono assicurare
l’indipendenza
sociale
necessaria per entrare alla
pari
in
un
ordine
contrattuale. «Tutto non è
contrattualenelcontratto»:lo
ha ben visto Durkheim, che
alla fine dell’Ottocento
testimonia con particolare
lucidità il fallimento della
modernità liberale, fondando
la sociologia come risposta a
questo
fallimento.
La
sociologia: ovvero la presa di
coscienza della forza dei
collettivi. L’inscrizione o la
reinscrizione degli individui
all’interno di sistemi di
organizzazione collettiva è la
risposta ai rischi di
disgregazionesocialeveicolati
dallamodernità,edèanchela
risposta alla questione delle
protezioni, cosí come si
imponeapartiredaunapresa
di coscienza dell’incapacità
deiprincipîdelliberalismodi
fondare una società stabile e
integrata: una risposta che
passa
attraverso
la
costituzionedidirittisocialie
attraverso il coinvolgimento
crescente dello Stato in un
ruolo sociale, visto che il
diritto
e
lo
Stato
rappresentano l’istanza del
collettivopereccellenza.
Questarispostasidispiega
nel corso del XX secolo, e in
modo particolare dopo la
Seconda guerra mondiale:
essa va di pari passo con lo
sviluppo del capitalismo
industriale. Il peso della
grande
industria,
l’organizzazione
standardizzata del lavoro e la
presenza di sindacati potenti
assicurano la preponderanza
di
queste
forme
di
regolazione collettiva. I
lavoratori raggruppati in
grandiassociazioniedifesida
esse si piegano alle esigenze
dellosviluppodelcapitalismo
industriale, e in compenso
beneficiano di protezioni
estesesullabasedicondizioni
stabili di impiego. Il modello
di società che si impone con
la modernità organizzata è
quellodiuninsiemedigruppi
professionaliomogenei,lacui
dinamicaègestitanelquadro
dello Stato-nazione. Sono
questi i due pilastri su cui si
sono edificati i sistemi di
protezione collettiva – lo
Stato e le categorie socioprofessionaliomogenee–che
sisfaldanoapartiredaglianni
Settanta.
Individualizzazione
decollettivizzazione.
e
Si
tratta
anzitutto
dell’indebolimentodelloStato
inteso come uno Stato
nazional-sociale, cioè di uno
Statoingradodigarantireun
insieme
coerente
di
protezioni, entro il quadro
geografico e simbolico della
nazione,poichéessoconserva
il controllo sui principali
parametri economici 2. Esso
può cosí equilibrare il suo
sviluppo economico e il suo
sviluppo sociale in vista del
mantenimento della coesione
sociale. È proprio questo lo
spirito
delle
politiche
keynesiane, che instaurano
una circolarità tra questi due
registri nel quadro di una
pianificazione ben temperata,
al fine di imporre un certo
equilibrio tra la produzione
(l’offerta) nazionale e la
domandanazionale.
A partire dall’inizio degli
anniSettanta,conleesigenze
crescenti della costruzione
europea
e
della
mondializzazione
degli
scambi, lo Stato-nazione si
rivelasempremenocapacedi
interpretare questo ruolo di
pilota dell’economia al
servizio del mantenimento
dell’equilibrio sociale. Lo
scacco della strategia di
rilancio, tentata dal governo
socialista all’epoca della sua
ascesa al potere in Francia,
nel 1981, è stato percepito
come un’incapacità degli
stati-nazione di imbrigliare il
mercato. Per raccogliere la
sfida della concorrenza
internazionale, la leadership
passa all’impresa, le cui
capacità produttive devono
essere massimizzate. Ma è a
partire da questo momento
che si inverte il giudizio sul
ruolodelloStato.Essoappare
doppiamente
controproducente:siaacausa
deisovraccosticheimponeal
lavoroperfinanziareglioneri
sociali, sia a causa dei limiti
legali che pone all’esigenza
delle imprese di esprimere la
massima competitività sul
mercato internazionale a
qualsiasi
costo
sociale.
L’obiettivo diviene perciò
quello di aumentare la
redditività
del
capitale
abbassando la pressione
esercitata dai salari e dagli
oneri sociali e quello di
ridurre
l’impatto
delle
regolamentazioni
generali
garantite dalla legge sulla
strutturazionedellavoro.
Parallelamente si assiste
all’erosione del secondo
baluardo,
complementare,
che era riuscito in una certa
misura ad addomesticare il
mercato, cioè la presa in
carico della difesa degli
interessi
dei
salariati
attraverso grandi forme di
organizzazione collettiva. La
«società salariale» che si
impone dopo la Seconda
guerramondialeèstrutturata
attorno a organizzazioni di
lavoratori rappresentati da
sindacati e da gruppi
professionalichegestisconola
loro politica anche sul piano
nazionale. Di fatto, essi
rappresentano il peso di
grandi categorie professionali
omogenee, che intervengono
come attori collettivi nella
negoziazione tra i «partner
sociali».
Questa
rappresentazione collettiva
degli interessi del mondo del
lavoroentrainsinergiaconle
modalità di gestione delle
burocrazie amministrative,
che
classificano
le
popolazioni in categorie
omogenee
in
funzione
dell’impiego, delle tabelle
salariali, della gerarchia delle
qualifiche, della progressione
delle
carriere…
Il
«compromesso sociale» che
caratterizza gli anni della
crescita è un equilibrio piú o
meno stabile negoziato per
settori e per professioni,
frutto
di
accordi
interprofessionali
tra
sindacati e padronato sotto
l’egidadelloStato.Vierauna
sorta di circolo virtuoso tra i
rapporti di lavoro strutturati
secondomodalitàcollettive,la
forza dei sindacati di massa,
l’omogeneitàdelleregolazioni
del diritto del lavoro e la
forma generalista degli
interventi dello Stato, che
permette
una
gestione
collettiva della conflittualità
sociale.
Questa omogeneità delle
categorie professionali, e piú
generalmente delle istanze di
regolazione collettiva, è stata
profondamente rimessa in
discussione.
La
disoccupazione di massa e la
precarizzazione dei rapporti
dilavorononledonosoltanto
le diverse categorie di
lavoratori
in
modo
differenziato, colpendo piú
duramente gli strati inferiori
della gerarchia salariale, ma
comportano anche immense
disparità infracategoriali: per
esempio tra due operai, ma
anche tra due quadri con lo
stesso livello di qualifica, dei
qualil’unoconserveràilposto
dilavoro,mentrel’altrodovrà
subire la disoccupazione 3. La
solidarietà degli statuti
professionali tende cosí a
trasformarsi in concorrenza
tra uguali. I membri di una
stessa categoria, invece che
tutti uniti attorno a obiettivi
comuni e vantaggiosi per
l’insiemedelgruppo,saranno
portati, ognuno di loro
individualmente,ametterein
primo piano la propria
specificità per mantenere o
migliorare
la
propria
condizionepersonale 4.
Quando si parla, oggi,
della ristrutturazione del
mondo del lavoro – e della
prevalenza che occorre
assegnarealbuonandamento
delle imprese, per essere
competitivi rispetto alle sfide
imposte dalla concorrenza
esasperata
e
dalla
mondializzazione
degli
scambi – non ci si richiama
piú, dunque, alla stessa
dinamica delle relazioni
professionali,comesefossela
piú adatta ad assicurare lo
sviluppo economico. Anzi, si
tratta piuttosto del contrario.
Una gestione fluida e
individualizzata del mondo
dellavorodevesostituireuna
sua gestione collettiva, basata
su situazioni stabili di
impiego. Con un po’ di
distacco, si comincia a
rendersi conto che con il
mutamento del capitalismo,
che ha iniziato a produrre i
suoieffettiall’iniziodeglianni
Settanta,
entra
fondamentalmente in gioco
una messa in mobilità
generalizzata dei rapporti di
lavoro,
delle
carriere
professionali
e
delle
protezioni inerenti allo
statuto
dell’impiego.
Dinamica profonda che è, al
tempo
stesso,
di
decollettivizzazione,
di
reindividualizzazione,
di
aumento
dell’insicurezza.
Una dinamica che gioca su
parecchipiani.
A
livello
dell’organizzazione
della
produzione, in primo luogo
intervieneciòcheUlrichBeck
chiama
«la
destandardizzazione
del
lavoro» 5.
L’individualizzazione delle
mansioniimponelamobilità,
l’adattabilità, la disponibilità
degli
operatori.
È
l’espressione
tecnica
dell’esigenzadiflessibilità,che
caratterizza il passaggio dalle
lunghe catene di operazioni
stereotipate, effettuate in un
quadro
gerarchico
da
lavoratoriintercambiabili,alla
responsabilizzazione di ogni
individuo o di piccole unità
alle quali spetta il compito di
gestire direttamente le loro
produzioniediassicurarnela
qualità. Al limite, il collettivo
di lavoro può essere
completamente sciolto, e
l’impresa può esimersi dal
riunire i lavoratori nello
stesso
spazio,
come
nell’organizzazionedellavoro
in reti in cui gli operatori si
connettono per il tempo
necessario alla realizzazione
di un progetto; poi si
sconnettono,
salvo
a
riconnettersi in un altro
modo e nel quadro di un
nuovoprogetto 6.
Di conseguenza, anche gli
stessi percorsi professionali
diventano mobili. Una
carriera si svolge sempre
meno nel quadro di una
medesima azienda, attraverso
tappe obbligate fino alla
pensione. Si tratta della
valorizzazionediun«modello
biografico» (Ulrich Beck):
ogni individuo deve farsi
caricoeglistessodeirischidel
suo percorso professionale
divenuto discontinuo; deve
fare delle scelte e operare per
tempo delle riconversioni
necessarie. Anche qui, al
limite, si ritiene che il
lavoratore
si
faccia
imprenditore di se stesso, «si
costruisca il suo posto di
lavoroinvececheoccuparloe
costruiscalasuacarrieraaldi
fuori degli schemi lineari
standardizzati dell’azienda
fordista» 7. Si ritrova cosí
sovraesposto e indebolito
perché non è piú supportato
da sistemi di regolazione
collettiva.
Certo,
le
mansioni
lavorative e le traiettorie
professionali
non
obbediscono tutte a questi
imperativi della messa in
mobilità, e qualora vi
obbediscanononlofannoallo
stesso modo. Tali imperativi
sono
particolarmente
avvertiti negli ambiti piú
avanzati dell’organizzazione
del lavoro, interamente
dominati
dalle
nuove
tecnologie
(«nuova
economia», «net economy»,
«rivoluzione informatica»,
«lavoro
immateriale»,
«capitalismo
cognitivo»,
ecc.) 8. Ma questi sono i
settori piú dinamici, e le
esigenze
che
essi
esemplificanosisonoimposte
anche, in misura variabile,
nella maggior parte degli
ambiti della produzione.
Piuttosto che opporre forme
moderneaformetradizionali
o arcaiche di organizzazione
del lavoro, occorre invece
mettere
l’accento
sull’ambiguità profonda di
questo
processo
di
individualizzazione-
decollettivizzazione,
che
attraversa le configurazioni
piú
differenti
dell’organizzazionedellavoro
ecolpisce,sebbeneinformee
a livelli diversi, praticamente
tuttelecategoriedioperatori:
dall’operaio specializzato al
creatoredistart-up 9.
È innegabile che con
questa individualizzazione
delle mansioni e dei percorsi
professionalisiassisteanchea
una
responsabilizzazione
degli operatori. Dipende da
ognuno far fronte alle
situazioni,
accettare
il
cambiamento, farsi carico di
se stesso. In un certo modo,
«l’operatore» è liberato dalle
costrizioni collettive, che
potevano essere onerose,
come avveniva nel quadro
dell’organizzazione taylorista
del lavoro. Ma egli è in
qualche modo obbligato ad
essere libero; è spinto ad
essere performativo, pur
essendo
completamente
abbandonato a se stesso. E
questo perché le costrizioni,
evidentemente, non sono
spariteetendonopiuttostoad
accentuarsi,inuncontestodi
concorrenza esasperata e
sottolaminacciapermanente
delladisoccupazione.
Ora, non tutti sono
ugualmente attrezzati per far
fronte a queste esigenze.
Certe categorie di lavoratori
beneficiano
immancabilmente di questo
aggiornamento 10
individualistico.
Essi
massimizzano
le
loro
opportunità, sviluppano le
loro potenzialità, si rendono
conto di possedere capacità
imprenditoriali che potevano
essere
soffocate
dalle
costrizioni burocratiche e
dalleregolamentazionirigide.
È la parte di verità contenuta
nellecelebrazionineoliberiste
dello spirito d’impresa. Le
quali,però,implicanounnon
detto.
Dimenticano
di
sottolineare–ilcheètuttavia
la constatazione sociologica
piúelementare–chelamessa
in mobilità generalizzata
introduce nuove scissioni nel
mondo del lavoro e nel
mondo sociale. Ci sono i
vincenti del cambiamento,
che possono scegliersi nuove
opportunità e realizzarsi
attraverso di esse, sul piano
professionale e su quello
personale 11. Ma ci sono
anche tutti coloro che non
possono far fronte a questo
rimescolamento delle carte e
si trovano invalidati dalla
nuovacongiuntura.
Ora, questa distribuzione
non si verifica casualmente.
Oltre che dalle differenti
capacità psicologiche degli
individui
–
ripartite,
possiamo ipotizzarlo, in
maniera casuale –, essa
dipende fondamentalmente
dalle risorse oggettive che
questi individui possono
mobilitare e dai supporti ai
quali si possono appoggiare
per affrontare le nuove
situazioni. Bisogna qui
ricordarechequestisupporti,
per tutti coloro che non
possono contare su altre
risorse che non siano quelle
derivatedallorolavoro,sono
essenzialmente di ordine
collettivo. Diciamolo con
altre parole e ripetiamolo:
rispetto a coloro che non
dispongono di altri «capitali»
– non solo economici ma
anche culturali e sociali – le
protezioni o sono collettive o
non sono. Negli spazi
lavorativi,essesonoanzitutto
quellesolidarietàchenascono
da una comune condizione e
da una subordinazione
condivisa. Questi legami
hanno costituito la base a
partiredallaqualeilavoratori
piú deprivati hanno potuto
spessoorganizzarsi,resisteree
liberarsi,inunacertamisura,
dalle forme piú dirette di
sfruttamento:equestoperché
tali legami costituivano dei
collettivisolidali.Maanchele
convenzioni collettive, oltre
cheidirittisocialidellavoroe
dellaprotezioneprevistidalla
legge,hannogarantitolaloro
tutela nel presente e hanno
loro permesso di controllare
l’incertezza dell’avvenire. Si
capisce,aquestopunto,come
illorosganciamentodaquesti
sistemi collettivi possa farli
nuovamente
sprofondare
nell’insicurezzasociale.
Il ritorno delle classi
pericolose.
C’è una doppia lettura
possibile degli effetti sociopolitici di questo degrado. La
prima pone l’accento su
questesituazionidiperditain
quantoessedesocializzanogli
individui. Gli innumerevoli
discorsisull’esclusionehanno
analizzato in tutte le sue
sfaccettature, e fino alla
nausea,unadisgregazionedel
legame sociale che avrebbe
caratterizzato la rottura dei
legami tra gli individui e le
loroappartenenzesociali,per
lasciarli di fronte a se stessi e
allaloroinutilità.«Gliesclusi»
non sono collettivi, ma
collezionidiindividui,iquali
non hanno in comune
nient’altrochelacondivisione
di una stessa mancanza. Essi
sono definiti su una base
unicamentenegativa,comese
si trattasse di elettroni liberi,
completamentedesocializzati.
Cosí,identificareadesempio,
all’interno
dello
stesso
paradigma dell’esclusione, il
disoccupatodilungaduratae
ilgiovanediperiferiaincerca
di un improbabile impiego,
significa rischiare di non
prendere in considerazione il
fattocheessinonhannonélo
stesso passato, né lo stesso
presente, né lo stesso
avvenire,echeiloropercorsi
sono totalmente diversi.
Significaconsiderarlicomese
vivessero fuori dallo spazio
sociale.
Ora, nessuno, e nemmeno
l’escluso, esiste fuori dallo
spazio
sociale,
e
la
decollettivizzazione è essa
stessa
una
situazione
collettiva. Si è detto troppo
sbrigativamente che non
c’erano piú classi sociali né
gruppi costituiti, poiché
questicollettiviavevanoperso
l’omogeneità e il dinamismo
su cui si fondava la loro
identità di attori sociali a
pienotitolo(sièdettoquesto
un po’ mitizzando, peraltro,
l’unitàel’operativitàdientità
come«laclasseoperaia»o«la
borghesia conquistatrice»).
Ciò significa dimenticare che
possono esservi classi o
gruppi che hanno un
percorso
comune
non
destinato a un avvenire
radioso:classiogruppiche,al
contrario, portano sulle loro
spalle il peso di grandissima
parte della miseria del
mondo.Cisonodeigruppiin
situazione di mobilità sociale
discendente,lacuicondizione
comune si degrada. Essi
costituiscono un terreno
instabile,
particolarmente
favorevole allo sviluppo del
sentimentodiinsicurezza:un
terreno di cui è necessario
reimpadronirsi
per
far
conoscere la dimensione
collettiva
di
questo
sentimento.
Si tratta di un processo
storico
generale:
la
promozione
di
gruppi
dominantisiattuaascapitodi
altri gruppi, dei quali essa
provocaildeclino.Sipossono
esemplificare gli effetti di
questa dinamica citando il
caso del movimento francese
qualunquista
detto
«pugiadismo», che presenta
inquietanti analogie con la
situazione attuale. Negli anni
Cinquanta del Novecento il
fenomeno pugiadista ha
rappresentato la reazione di
categorie socio-professionali
messe in disparte dalla
modernizzazionedellasocietà
francese, cosí come si
verificava allora entro un
quadro nazionale. Mentre il
salariato si adagia e si
rinforza,
mentre
le
amministrazioni pubbliche
assicurano la loro influenza
sulla società, mentre lo Stato
pianifica e razionalizza le
strutture
dell’economia,
intere categorie, come gli
artigiani
e
i
piccoli
commercianti, hanno la
sensazione di non contare
nulla. Sono le vittime di una
dinamica
di
sviluppo
economico e di progresso
sociale che può poggiare su
buone
ragioni
–
la
modernizzazione ha i suoi
costi –, ma all’interno della
quale non occupano nessuna
posizione. Lo smarrimento
delnonaverepiúunavvenire
è senza dubbio provato
individualmente da ciascun
membro di queste categorie
sociali, ma la loro reazione è
collettiva. Essa è segnata dal
marchiodelrisentimento 12.Il
risentimento può essere una
molla di azioni o di reazioni
socio-politiche profonde, che
non hanno forse ricevuto
un’attenzione sufficiente. È
unamescolanzadiinvidiaedi
disprezzo che gioca su un
differenziale di situazione
sociale: che attribuisce le
responsabilità della sventura
subita a categorie che nella
scala sociale si situano a un
livello appena superiore o
appena inferiore. Cosí si
spiega l’astio dei piccoli
commercianti e artigiani
versoisalariatieifunzionari:
essi disponevano di redditi
simili ma si riteneva che
lavorassero
meno,
che
beneficiassero di una gran
quantità di vantaggi sociali, e
soprattutto che avessero
l’avvenire assicurato. Il
risentimento collettivo si
nutre
del
sentimento
condiviso di ingiustizia
provato dai gruppi sociali il
cuistatutosideteriora:gruppi
chesisentonospossessatidei
benefici che traevano dalla
loro posizione precedente. Si
tratta di una frustrazione
collettiva che va alla ricerca
dei responsabili o dei capri
espiatori.
Al di là dei fattori
particolari che hanno dato
una configurazione specifica
al pugiadismo (che, come il
lepenismo, porta il nome di
un capo carismatico) 13,
questo movimento veicola
una dimensione strutturale
chepuòfarcicomprenderela
reazionedeigruppiinvalidati
dal cambiamento sociale. La
modernizzazione ha assunto,
da una ventina d’anni a
questaparte,unadimensione
europea e mondiale sempre
piú accentuata. Le categorie
sociali piú colpite non sono
piú quelle che costituivano le
basi di un paese tradizionale
già ampiamente disgregato:
classe contadina, artigianato,
piccolo commercio, lavoro
autonomo
alla
vecchia
maniera. Oggi le categorie
colpite rappresentano una
parte importante dei gruppi
che hanno occupato o
avrebbero potuto occupare
una posizione centrale nella
società industriale: ampie
frange della classe operaia
integrate durante gli anni
della crescita, ampie frange
delle categorie di impiegati,
soprattutto quelli meno
qualificati, e dei giovani di
ceto popolare che un tempo
sarebbero passati senza
problemidall’apprendistatoo
dalla fine dell’età scolare
all’impiego stabile, eccetera.
Anche al di là della
disoccupazione di massa, si
assiste a una dequalificazione
di massa che colpisce
soprattutto gli ambienti
popolari 14. Per esempio, con
la
deindustrializzazione,
diplomi come la licenza di
scuola professionale o il
diploma di insegnamento
industriale,
un
tempo
garanzia di integrazione nel
mondo del lavoro, sono
largamente screditati. Quale
sarà l’avvenire europeo di un
titolare di diploma di
aggiustatore?
Piú
generalmente, quale potrà
essere,nell’Europadidomani,
il ruolo di tutte quelle
specializzazioni rigide, legate
a mansioni precise, che
rinviano a uno stadio
antecedente alla divisione del
lavoro? Esse sembrano
condannare i loro possessori
all’immobilità,
mentre
l’avvenireapparterràacoloro
che sapranno essere mobili e
capaci di assumere il
cambiamento.
Quanto al voto dell’aprile
2002 in Francia in favore del
Fronte nazionale, esso ha
rivelato – cosa che non
avrebbedovutocostituireuna
grandesorpresa–cheinlarga
parte
rappresentava
l’espressione delle categorie
popolari
un
tempo
elettoralmente e socialmente
ancorate alla sinistra 15. La
connotazione di estrema
destra, o fascistizzante, di
questovotononmisembrala
piú
significativa
sociologicamente,benchénon
debba essere trascurata,
proprio in ragione della sua
pericolosità politica. Dal
punto di vista sociologico, si
tratta sostanzialmente di una
reazione
«pugiadista»,
alimentata da un sentimento
di abbandono e dal
risentimento verso altri
gruppi e verso i loro
rappresentanti politici, che
traggono
benefici
dal
cambiamento
disinteressandosi della sorte
dei perdenti. D’altronde, si
potrebbe inserire in questo
stesso quadro una parte del
voto di estrema sinistra che,
in assenza di una prospettiva
credibile di trasformazione
globale della società, è anche
un voto di protesta, per non
dire(maperchéno?)unvoto
motivatodalrisentimento.
Se oggi è necessario, per
non correre il rischio di una
morte
sociale,
giocare
secondo le regole del
cambiamento, della mobilità,
dell’adattamentopermanente,
del riciclaggio incessante, è
evidente che certe categorie
sociali sono particolarmente
malattrezzateperfarfrontea
questa nuova distribuzione
delle carte, e si può
aggiungere che ci si è molto
poco preoccupati di aiutarle
in questo (per esempio,
l’imposizione della flessibilità
nelle imprese è stata
raramente associata a efficaci
misure di accompagnamento
che
assicurino
la
riconversione
degli
operatori). Quindi, nella
migliore delle ipotesi, questi
gruppisarannolapartereietta
di
un’economia
mondializzata.Nellapeggiore
delle ipotesi, i loro membri,
divenuti
«inimpiegabili»,
rischiano
di
essere
condannati a sopravvivere
negliinterstizidiununiverso
sociale, ricomposto a partire
dalle
sole
esigenze
dell’efficienza
e
della
performance.
Vièquiunpotentefattore
che determina la produzione
di insicurezza. Se oggi si può
parlare di un riemergere
dell’insicurezza, è in larga
misuraperchéesistonofrange
della popolazione ormai
convinte di essere state
lasciate ai margini del
percorso,
incapaci
di
controllare il loro futuro in
un mondo sempre piú
segnato dal cambiamento. Si
può quindi comprendere
come i valori che tali frange
della popolazione coltivano
sianopiúrivoltialpassatoche
a un avvenire che incute
paura. Il risentimento non
predispone né alla generosità
né alla capacità di rischiare.
Essoinduceunatteggiamento
difensivocherifiutalanovità,
ma anche il pluralismo e le
differenze.Nellerelazioniche
intrattengono con gli altri
gruppi
sociali,
queste
categoriesacrificate,piuttosto
cheaccogliereladiversitàche
tali gruppi rappresentano,
cercano in essi dei capri
espiatoricapacidispiegarela
loro
sensazione
di
abbandono.
Si è già notato che il
pugiadismo, inteso come
nozione generica di cui il
lepenismo rappresenta una
versione attualizzata, operava
un rovesciamento della
conflittualità sociale su
categoriemoltovicine.Inaltri
termini: invidia e disprezzo
del lavoratore autonomo
verso il salariato in organico,
che si accaparra i vantaggi
sociali e va in vacanza
aspettandotranquillamentela
sua pensione, mentre il
piccolo commerciante si alza
alle cinque del mattino per
comprare i suoi prodotti ai
mercatigeneralielavorafino
allenovediserapervenderli.
Oggi:
razzismo
verso
l’immigrato,
che
viene
considerato
meno
competente ma piú docile e
che, si dice, può essere
preferito nella corsa per il
posto di lavoro; è lo stesso
immigrato che accumula i
beneficidell’assistenzasociale
che
dovrebbero
essere
riservatiaicittadiniautoctoni
e che in casa nostra si
comportadapadrone,mentre
non è altro che un parassita.
Qui non ci interessa il fatto
che queste rappresentazioni
siano il piú delle volte false.
Esse sono diffuse e il loro
peso, oggi, è tale che non
possiamoliquidarleacolpidi
giudizimorali.
È
d’altra
parte
incongruente chiedere ai
gruppi piú sfavoriti di essere
sociologi di se stessi e di
costruire da soli una teoria
della loro condizione (il
proletariato industriale del
XIX secolo ci ha messo
davvero molto tempo prima
di costituirsi in classe
operaia).
Si
può
perfettamente comprendere
come una reazione sociale
proceda molto celermente:
come essa possa risparmiarsi
lunghe
concatenazioni
argomentative,
che
occorrerebbe sviluppare per
renderecomprensibilituttele
componenti
di
questa
situazione, spesso ignote
persino
a
economisti
patentati e a specialisti delle
scienze
sociali.
Il
risentimento, in quanto
risposta sociale al malessere
sociale, si indirizza verso i
gruppi piú vicini. Si tratta di
una reazione di «piccoli
bianchi», cioè di categorie
collocate al fondo della scala
sociale, esse stesse in
situazionedideprivazione,in
concorrenza con altri gruppi,
altrettanto o maggiormente
deprivati (come i bianchi del
Sud degli Stati Uniti, i quali,
andati in rovina dopo la
guerra di Secessione, si
trovano di fronte ai neri,
poveri come loro o piú di
loro, ma liberati). Essi
cercano delle ragioni di
autocomprensione
e
si
attribuiscono una superiorità
attraversol’odioeildisprezzo
di matrice razzista. È
giocoforza constatare che
ancor oggi abbiamo i nostri
piccolibianchi 16.
Si può anche capire il
carattere paradigmatico del
«problema delle periferie» in
rapporto alla tematica attuale
dell’insicurezza. I «quartieri
sensibili» assommano i
principali
fattori
che
determinanolaproduzionedi
insicurezza: forti tassi di
disoccupazione, di lavoro
precario e di attività
marginali, habitat degradato,
urbanizzazione senz’anima,
promiscuità tra gruppi di
origine etnica differente,
presenza permanente di
giovani sfaccendati che
sembrano esibire la loro
inutilità sociale, visibilità di
pratiche delinquenziali legate
al traffico della droga e alla
ricettazione, frequenza di atti
incivili, di momenti di
tensione e di agitazione, di
conflitti con le forze
dell’ordine,
eccetera.
Insicurezza
sociale
e
insicurezza civile, qui, si
sovrappongono
e
si
alimentano reciprocamente.
Tuttavia, sulla scorta di
queste constatazioni che non
hanno nulla di idilliaco, la
demonizzazione
della
questione delle periferie, e in
particolare
la
stigmatizzazione dei giovani
diperiferiaallaqualesiassiste
oggi, dipende da un processo
di
spostamento
della
conflittualità sociale che
potrebbe ben rappresentare
un dato permanente della
problematica dell’insicurezza.
Mettere
in
scena
la
condizione delle periferie
come se fossero un ascesso
provocato
dalla
stabilizzazione
dell’insicurezza – una messa
in scena cui collaborano il
poterepolitico,imediaeuna
larga parte dell’opinione
pubblica – significa in
qualche modo sancire il
ritorno delle classi pericolose,
cioè la cristallizzazione su
gruppi particolari, situati ai
margini, di tutte le minacce
veicolate da una determinata
società.
Il
proletariato
industriale ha giocato questo
ruolo nel XIX secolo: classi
lavoratrici,classipericolose.Il
fatto è che all’epoca i
proletari,ancheselavoravano
piú spesso, non erano
inquadrati in forme di
impiego
stabile;
essi
importavano nella periferia
delle città industriali una
cultura di origine rurale
decontestualizzata, percepita
dai
cittadini
come
un’incultura; vivevano nella
precarietà permanente del
lavoroedellacasa:condizioni
poco favorevoli allo stabilirsi
di relazioni familiari stabili e
allo sviluppo di costumi
rispettabili.
Come
dice
Auguste Comte, questi
proletari «si accampano nel
cuore
della
società
occidentale senza esservi
accasati» 17. La formula non
potrebbe
forse
essere
applicata
alle
attuali
popolazioni di periferia, o
perlomeno all’immagine che
di tali popolazioni ci siamo
costruiti? Esse non sono
«accasate», cioè non sono
integratee,comeaccadevaun
tempo per i proletari, hanno
difficoltà ad esserlo per delle
buone ragioni: sono spesso
portatrici di una cultura
d’origine straniera, sono
discriminatenegativamenteal
momento della ricerca di un
lavoro 18 o di una casa
decente, devono far fronte
quotidianamente all’ostilità
della popolazione urbana e
delle
forze
dell’ordine,
eccetera.
Il dramma, in queste
situazioni, è che le condanne
moralipossonoesseresempre
verificate, almeno in parte,
allalucedeifatti:apartireda
simili condizioni, infatti, non
si può certo diventare degli
angeli e l’insicurezza, non
solosocialemaanchecivile,è
effettivamente piú elevata in
periferia che altrove. La
scorciatoia è nondimeno
sorprendente.Farediqualche
decina di migliaia di giovani,
spesso piú poveri che cattivi,
il nocciolo della questione
sociale – divenuta la
questionedell’insicurezzache
minaccerebbe le fondamenta
dell’ordine repubblicano –
significa
operare
una
straordinaria condensazione
della problematica globale
dell’insicurezza. È vero che
queste strategie presentano
alcuni vantaggi. Evitano di
dover
prendere
in
considerazione l’insieme dei
fattorichesonoall’originedel
senso di insicurezza e che
dipendonosiadall’insicurezza
socialechedalladelinquenza.
Tali strategie permettono
anche di mobilitare una
batteria di mezzi che, se non
sono sempre efficaci, sono
almenodisponibiliconleloro
istruzioni per l’uso. La
repressione dei reati, la
punizione dei colpevoli, il
perseguimento
di
una
«tolleranza zero», a costo di
dover aumentare il numero
dei giudici e dei poliziotti,
sono
certamente
dei
cortocircuiti semplificatori in
rapporto alla complessità
dell’insieme dei problemi
posti dall’insicurezza. Ma
questestrategie,soprattuttose
sono messe bene in scena e
perseguite
con
determinazione,
hanno
almeno il merito di mostrare
che si fa qualcosa (non si è
lassisti) senza doversi fare
carico di questioni altrimenti
delicate quali, ad esempio, la
disoccupazione,
le
disuguaglianze sociali, il
razzismo: fattori che sono
anche all’origine del senso di
insicurezza 19. Tutto questo
può
forse
pagare
politicamente,
a
breve
termine, ma è assai dubbio
che si tratti di una risposta
adeguataalladomanda:«cosa
significaessereprotetto?»
Anche al di là della
questionedelleperiferieedei
problemidelladelinquenza,si
assiste proprio a uno
spostamento dello Stato
sociale verso uno Stato
sicuritario, che esalta e
realizza il ritorno alla legge e
all’ordine, come se il potere
pubblico dovesse mobilitarsi
essenzialmente
attorno
all’esercizio dell’autorità. La
questione
dell’insicurezza
civile pone dei problemi
fondamentali ed è dovere
dello Stato affrontarli 20. Ma
tuttoavvienecomeseoggi,in
Francia,loStatosigiocassela
partepiúimportantedellasua
credibilità sulla capacità di
combattere l’insicurezza. È
tuttavia escluso che questo
tipo di risposta possa
estendersi all’insieme dei
fattori
che
producono
l’insicurezza. Perché questo
avvenga,
bisognerebbe
ostacolaresialedinamichedi
individualizzazione – che,
come si è visto, lavorano in
profondità tutto il corpo
sociale – sia il libero gioco
della concorrenza e della
competitività che, come si
proclama, deve regnare al
tempo stesso nel cuore
dell’impresa e nel mercato.
Uno
Stato
puramente
sicuritario si condanna, cosí,
ad
approfondire
la
contraddizione
tra
l’atteggiamento lassista di
frontealleconseguenzediun
liberalismo economico che
alimenta l’insicurezza sociale
e l’esercizio di un’autorità
priva di incrinature che
restauralafiguradiunoStato
gendarme, garante della
sicurezza civile. Una tale
rispostapotrebbeesserevitale
solo se sicurezza civile e
sicurezza sociale costituissero
due sfere impermeabili e
separate: ma non è questo il
caso,comeappareevidente.
1 P. WAGNER
, Soziologie der
Moderne.FreiheitundDisziplincit.
2 Questa espressione di Stato
nazional-sociale non ha proprio
niente in comune con il nazionalsocialismo fascista. Si tratta senza
dubbio
dell’espressione
piú
adeguata per qualificare la politica
dei principali stati dell’Europa
occidentaledopolaSecondaguerra
mondiale. Stati che hanno potuto
sviluppare, attraverso le specificità
delle configurazioni nazionali,
politiche sociali di ampiezza
comparabile:
ogni
Stato,
controllando il proprio sviluppo
economico, poteva dispiegare
misure economiche simili a quelle
degli stati vicini dal momento che
questeallocazionidellerisorsenon
lo penalizzavano sul piano della
concorrenzainternazionale(sipuò
aggiungere, d’altronde, che queste
politiche
degli
stati-nazione
europeieranofacilitatedairapporti
di scambio ineguali che la loro
posizione dominante sul piano
internazionale permetteva loro di
stabilire con le colonie, le ex
colonieeipaesidelTerzomondo).
ÉtienneBalibarusal’espressionedi
Statonazional-socialeconlostesso
significato: cfr. Entretien avec
ÉtienneBalibar,in«Mouvements»,
n.1,novembre-dicembre1998.
3 Cfr. J.-P. FITOUSSI e P.
ROSANVALLON , Le Nouvel Âge des
inégalités, Éditions du Seuil, Paris
1997.
4 Cfr. É. MAURIN , L’égalité
des
possibles, Éditions du Seuil - La
RépubliquedesIdées,Paris2002.
5 U. BECK,Lasocietàdelrischio.
Verso una nuova modernità,
Carocci,Roma2000.
6 Cfr. L. BOLTANSKI ed É.
CHIAPELLO , Le nouvel Esprit du
capitalisme,Gallimard,Paris1999.
7 P.-M. MENGER , Portrait de
l’artiste en travailleur, Éditions du
Seuil - La République des Idées,
Paris2002.
8
Cfr. Y. MOULIER BOUTANG ,
Capitalisme cognitif et nouvelles
formes de codification du rapport
salarial, in C. VERCELLONE (a cura
di), Sommes-nous sortis du
capitalisme industriel?, La Dispute,
Paris2003.
9 Per un’analisi degli effetti di
queste trasformazioni nell’ambito
di un baluardo classico di
organizzazione industriale, le
fabbriche Peugeot di SochauxMontbéliard, cfr. S. BEAUD e M.
PIALOUX , Retour sur la condition
ouvrière,Fayard,Paris1999.
10 [In italiano nel testo. N. d.
T.].
11 È comunque opportuno
relativizzare l’ottimismo del punto
di vista manageriale su questo
punto.Lamobilitàcostringespesso
glioperatoriacaricarsiinmaniera
eccessiva nelle loro mansioni, a
essere invasi dagli imperativi del
lavoro, perfino nelle condizioni di
nonlavoro,epuòinfinesfibrarlie
demotivarli, anche se si tratta di
quadri di alto livello (si veda
l’abbondante
letteratura
anglosassone sul burn out). A
dispetto della tendenza verso la
riduzione legale dell’orario di
lavoro (si veda la legge sulle 35
ore), sembra che l’intensificazione
dei carichi di lavoro sia una
caratteristica
generale
della
riorganizzazione contemporanea
dellaproduzioneatuttiilivelli(cfr.
peresempio B. VIVIER,La place du
travail, Rapport du Conseil
économique et social, Éditions du
Journalofficiel,Paris2003).
12Siveda,tuttavia, P. ANSART (a
cura di), Le ressentiment, Bruyant,
Bruxelles2002.
13 Si può d’altronde ricordare
che il piú giovane deputato eletto
nel 1956, durante l’ondata
pugiadista,eraJean-MarieLePen.
14Questadimensionecollettiva
delle situazioni di invalidazione
sociale legate al declino del
movimento operaio è ben
sottolineata da S. BEAUD e M.
PIALOUX , Retour sur la condition
ouvrièrecit.
15 Tra i molteplici tentativi di
spiegazione di questa «sorpresa»
che è stata il risultato del primo
turno dell’elezione presidenziale
dell’aprile2002(incuiilcandidato
delFrontenazionalefinisceintesta
tra i disoccupati, i lavoratori
precariecertecategoriedioperaie
di impiegati), cfr. M. PIALOUX e F.
WEBER , La gauche et les classes
populaires. Réflexions sur un
divorce, in «Mouvements», n. 23,
settembre-ottobre2002.
16 Non vorrei che questa
qualificazione di «piccoli bianchi»,
che pretende di essere obiettiva
come quella di pugiadista, venga
anch’essa intesa come un marchio
di disprezzo per coloro che
caratterizza in questo modo.
Anzitutto perché queste reazioni
esprimono lo smarrimento di
fronteaunasituazionechenonsiè
sceltaedellaqualenonsièilprimo
responsabile.Insecondoluogoper
il fatto che i poveri non hanno il
monopolio del razzismo di classe.
Ad esempio, è proprio un vero
razzismo di classe quello che la
borghesia benpensante del XIX
secolo ha sviluppato nei confronti
di quei «nuovi barbari» che erano
rappresentati, ai suoi occhi, dai
proletari
della
prima
industrializzazione.
17 A.
COMTE
, Système de
politique positive, Paris 1929, p.
411. Prima i vagabondi avevano
svolto la stessa funzione di «classe
pericolosa», cristallizzando il
sentimento di insicurezza proprio
dellesocietàpreindustriali.Sitratta
di un’altra esemplificazione del
tipo privilegiato di relazioni che
una società intrattiene con i suoi
elementi marginali e che potrebbe
rinviare a un tratto antropologico
permanente: il nemico interno è
collocato ai margini del corpo
sociale, all’interno di quei gruppi
chesonoconsideraticomestranieri
perchéspessoprovengonodafuori,
non sembrano condividere la
cultura dominante e non entrano
nei circuiti comuni degli scambi
sociali.
18
La
discriminazione
all’assunzione per ragioni che
riguardanoilcoloredellapelleoil
suono del cognome è una pratica
corrente che non solo è
moralmente condannabile ma che
entraancheincontraddizioneconi
principî ostentati dal liberalismo
dominante. Da un lato, l’ideologia
liberalecondannatuttociòchepuò
opporsi alla liberazione del
mercatodellavorocolpendocosíle
protezionideldirittodellavoroche
potrebbero essere di ostacolo alla
sua apertura. Ma al tempo stesso
l’ideologia liberale incoraggia il
protezionismo delle politiche di
immigrazione e tollera le pratiche
discriminatorie verso candidati
all’impiego che, a parità di
qualificazione, sono penalizzati
solo perché presentano un profilo
«esotico». Sarebbe necessario
approfondire
questa
contraddizione del liberalismo
attuale: da un lato vuole imporre
adognicostolaliberacircolazione
delle merci, mentre dall’altro si
adatta a barriere politiche e sociali
innalzate contro la libera
circolazionedellepersone.
19
L’analogia con la politica
relativa al trattamento del
vagabondaggio
nelle
società
preindustriali
può
essere
decisamenteilluminante.Dallafine
del Medioevo, la monarchia
francese, ma anche, in linea piú
generale, l’insieme dei poteri in
Europa occidentale, ha fatto della
repressione del vagabondaggio e
della mendicità il cuore delle sue
politiche sociali, e non ha
risparmiato mezzi per raggiungere
questoobiettivo.Ma,adispettodel
fatto che parecchie centinaia di
migliaia di vagabondi siano stati
banditi, messi al palo, rinchiusi,
condannati ai lavori forzati,
impiccati,eccetera,sipuòdubitare
dell’efficacia di queste misure
perché
esse
si
sono
instancabilmenteripetutenelcorso
di piú secoli: a partire, ogni volta,
dallaconstatazionedelloroscacco.
Senza dubbio la crudeltà di queste
disposizioni ha da sola dissuaso
numerosi individui privi di risorse
dall’intraprendere
vite
cosí
pericolose («la vera prevenzione è
la sanzione»). Ma il problema è
rimasto irrisolto fino alla fine
dell’AncienRégime,perchéciòche
alimentava il vagabondaggio e la
mendicità dei soggetti validi era la
miseria di massa e la chiusura del
mercato del lavoro, derivata dal
sistema delle corporazioni. La
risposta liberale alla questione del
vagabondaggio
è
stata
la
proclamazionedelliberoaccessoal
lavoro (si veda la legge Le
Chapelier). Ma è stata necessaria
una rivoluzione per arrivarci e,
d’altra parte, si è trattato di una
legge destinata a produrre degli
effetti problematici in termini di
insicurezza: è stata la condizione
cheharesopossibilelacostituzione
del proletariato, che diverrà a sua
voltauna«classepericolosa».
20
Su questo punto si veda, ad
esempio, H. LAGRANGE , Demandes
de sécurité. France, Europe, ÉtatsUnis, Seuil - La République des
Idées, Paris 2003, e D. PEYRAT ,
Élogedelasécurité,Gallimard-Le
Monde, Paris 2003. È legittimo
combattere questa insicurezza,
tanto piú che coloro che la
subisconosononellamaggiorparte
deicasigliabitantideiquartieriche
vivonougualmentenell’insicurezza
sociale.
Cosí
l’associazione
insicurezza civile - insicurezza
sociale gioca anche a favore, o
piuttosto a sfavore, delle vittime
dellepratichedelinquenziali.
Capitoloquarto
Unanuovaproblematicadel
rischio
A partire dagli anni
Ottanta, ci si colloca – cosí
sembra – all’interno di una
nuova
problematica
dell’insicurezza. Situata al
puntod’incontrotradueserie
di trasformazioni, questa
problematica si caratterizza
anzitutto per la sua
straordinariacomplessità.
C’è in primo luogo una
difficoltà crescente a essere
assicurati contro i principali
rischi sociali che potremmo
definire «classici», e che in
lineaessenzialeparevafossero
stati eliminati (infortunio,
malattia,
disoccupazione,
incapacità di lavorare dovuta
all’età o alla presenza di un
handicap…) Secondo questa
prima linea di analisi da noi
seguita,sièpotutoconstatare
un guasto, seguito da
un’erosione, dei sistemi di
protezione che all’interno
dellasocietàsalarialesierano
sviluppati sulla base di
condizioni lavorative stabili.
Con l’indebolimento dello
Stato
nazional-sociale,
vengono a trovarsi in una
situazione di vulnerabilità
individuiegruppiincapacidi
dominare i cambiamenti
socio-economici
subiti,
relativi al periodo che inizia
dopo la metà degli anni
Settanta. Di qui uno
smarrimentoeunaperditadi
sicurezza
di
fronte
all’avvenire, che possono
anchealimentarel’insicurezza
civile, soprattutto in territori
come le periferie, in cui si
cristallizzanoipiúimportanti
fattori di dissociazione
sociale.
Rischi,pericoliedanni.
Tuttavia, nel momento in
cui i classici sistemi di
produzione della sicurezza si
sono
cosí
fortemente
indeboliti, è apparsa una
nuovagenerazionedirischi,o
almeno di minacce percepite
come tali: rischi industriali,
tecnologici, sanitari, naturali,
ecologici,ecc.Sitrattadiuna
problematica del rischio
priva, a quanto sembra, di
relazioni dirette con le
problematiche precedenti; la
sua
emergenza,
infatti,
corrisponde essenzialmente
alleconseguenzeincontrollate
dello sviluppo delle scienze e
delle tecnologie che si
rivoltano contro la natura e
contro l’ambiente: natura e
ambiente
che
esse
pretendevano di dominare a
vantaggio dell’uomo. La
proliferazione dei rischi
apparequistrettamentelegata
alla
promozione
della
modernità. Ulrich Beck
chiama cosí «società del
rischio» la stessa società
moderna, colta nella sua
dimensione essenziale: non è
piúilprogressosocialemaun
principio
generale
di
incertezza che governa
l’avvenire
della
civiltà.
L’insicurezza diventa cosí
l’orizzonte insuperabile della
condizione
dell’uomo
moderno. Il mondo è un
vasto campo di rischi, «la
terra è divenuta un sedile
eiettabile» 1.
La
riflessione
contemporanea
sull’insicurezza
deve
includere questo parametro.
Se essere protetto significa
essereingradodifronteggiare
i
principali
rischi
dell’esistenza,questagaranzia
sembra oggi doppiamente
messa
in
scacco:
dall’indebolimento
delle
coperture «classiche», ma
anche da un sentimento
generalizzato d’impotenza a
fronte di nuove minacce che
sembrano
inscritte
nel
processo di sviluppo della
modernità. Si può ipotizzare
che la frustrazione sicuritaria
contemporanea
tragga
alimento da questa doppia
fonte. È per questo che
bisogna evidenziare tale
connessioneealtempostesso
denunciare la confusione che
alimenta. L’inflazione attuale
della sensibilità verso i rischi
fa della ricerca di sicurezza
una rincorsa senza fine e
sempre frustrata. Tuttavia,
all’interno di quelli che sono
oggi considerati rischi, è
necessario distinguere gli
imprevisti dell’esistenza, che
possono essere controllati in
quanto socializzabili, dalle
minacce la cui presenza
dovrebbe essere riconosciuta
senza
che
si
possa
premunirsene: ciò significa
che occorre accettarle come
deilimiti,provvisoriforse,ma
attualmente insuperabili, del
programmadiprotezioniche
una società ha il dovere di
assumersi.
Si afferma infatti che noi
vivremmoinuna«societàdel
rischio» sulla base di
un’estrapolazionecontestabile
dellanozionestessadirischio.
Unrischio,nelsensoproprio
del
termine,
è
un
avvenimento prevedibile: si
possono infatti calcolare le
probabilità
della
sua
comparsaeilcostodeidanni
che esso potrà provocare. Il
rischio può anche venire
indennizzato, dato che può
essere equamente ripartito 2.
L’assicurazione è stata la
grande tecnologia che ha
permesso il controllo dei
rischi, distribuendone gli
effettiall’internodelcollettivo
di individui resi solidali di
fronte a diverse minacce
prevedibili.
La
generalizzazione dell’obbligo
di assicurazione (che implica
lagaranziadelloStato)èstata
la strada maestra per
realizzarelacostituzionedella
«società assicurante»: una
società nella quale tutti gli
individui
sono
tutelati
(assicurati) sulla base della
loro appartenenza a gruppi, i
cui membri pagano la loro
quotapersuddividereilcosto
dei rischi. Alla base della
copertura dei rischi sociali vi
è quindi un modello
solidaristico,omutualistico.
Una «società del rischio»
nonpuòessereresapiúsicura
inquestomodo.Questinuovi
rischi sono largamente
imprevedibili; non sono
calcolabilisecondounalogica
probabilistica e producono
conseguenze
irreversibili,
anch’esse incalcolabili. Una
catastrofe come quella di
Chernobyl o il morbo della
mucca pazza, ad esempio,
non
possono
essere
equamente ripartite e non
possonoesserecontrollatenel
quadro di un sistema
assicurativo. Non si tratta
propriamente di rischi,
quindi, ma piuttosto di
eventualità nefaste, o di
minacce, oppure di pericoli
che
«rischiano»
effettivamente di prodursi,
ma senza che siano
disponibili
tecnologie
adeguate per affrontarli e
conoscenze sufficienti per
anticiparli. L’imprevedibilità
della maggior parte di questi
«nuovi rischi», la gravità e il
carattere irreversibile delle
loroconseguenzefannosíche
la
miglior
prevenzione
consista spesso nel giocare
d’anticipo
rispetto
alle
eventualità peggiori e nel
prendere provvedimenti al
fine di evitare che accadano,
ancheseesserimangonoassai
aleatorie. Si abbattono, ad
esempio, tutti i capi di
bestiamebovinosenzasapere
sesianostatiomenoinfettati,
al prezzo di conseguenze
economiche
e
sociali
sproporzionate rispetto al
rischio reale. Si potrebbe
discettare a lungo su questo
punto: si producono danni
assai tangibili allo scopo di
evitare
un’eventualità
improbabile, che non è
neppure prevedibile in
terminiprobabilistici 3.
L’inflazione
contemporaneadellanozione
di rischio crea anche una
confusione tra rischio e
pericolo.
Parlare,
con
AnthonyGiddens,di«cultura
del
rischio» 4,
significa
affermare che siamo divenuti
sempre piú sensibili alle
nuove minacce: minacce
veicolate
dal
mondo
moderno, che effettivamente
simoltiplicanoechevengono
prodotte dall’uomo stesso
attraverso l’uso incontrollato
dellescienzeedelletecnologie
e
attraverso
una
strumentalizzazione
dello
sviluppo economico tesa a
fare del mondo intero una
merce. Nessuna società
potrebbe tuttavia pretendere
di sradicare la totalità dei
pericoli che si profilano
necessariamenteall’orizzonte.
Si constata piuttosto che, nel
momento in cui i rischi piú
forti sembrano scongiurati, il
cursore che segnala la
sensibilitàairischisispostae
faaffiorarenuovipericoli.Ma
oggi questo cursore è
collocato cosí in alto da
stimolare una domanda di
sicurezzadeltuttoirrealistica.
Cosí la «cultura del rischio»
fabbrica pericoli. Per fare un
esempio un po’ triviale, la
fame è stata a lungo per
l’umanità il vero rischio
alimentare, e lo rimane in
molti paesi. Al contrario, nei
paesi del benessere, è il fatto
di mangiare che è divenuto
pericoloso: oltre al prione
della mucca pazza, l’elenco
dei prodotti cancerogeni
presenti
negli
alimenti
aumenta ogni mese. Puntare
al rischio zero in campo
alimentare significherebbe
perciò astenersi dal cibo
(«principio di precauzione»?)
Dal momento che questa
strada
è
impraticabile,
rimangono il sospetto e
l’ansia: l’insicurezza è anche
nelpiatto.
Per porre nuovamente,
oggi, la questione delle
protezioni, è necessario
cominciare ad accentuare le
distanze rispetto a questa
inflazione
contemporanea
della nozione di rischio, che
alimenta una domanda
travolgente di sicurezza e
dissolve,difatto,lapossibilità
diessereprotetti.Ènecessario
quindi ricordare che nessun
programma di protezioni ha
la possibilità di darsi per
obiettivo
la
sicurezza
dell’avvenire,
cancellando
pericoli e incertezze. La
«culturadelrischio»estrapola
la nozione di rischio, ma la
svuota del suo contenuto
sostanziale e le impedisce di
essere operativa. Evocare
legittimamente il rischio
consiste non tanto nel
collocare l’incertezza e la
pauranelcuoredell’avvenire,
quantopiuttosto,alcontrario,
nel cercare di fare del rischio
unriduttorediincertezza,allo
scopo di governare l’avvenire
sviluppando
strumenti
appropriati che lo rendano
piú sicuro. È cosí che i rischi
socialiclassici–nell’ambitodi
una presa in carico collettiva
– hanno potuto essere
governati. Ma trattandosi dei
«nuovirischi»apparsidopo,è
necessario
ugualmente
chiedersiseilloroproliferare
non comporti anche una
dimensione sociale e politica,
vistocheessaègeneralmente
presentata come il segno di
un destino ineluttabile: un
«aspetto fondamentale della
modernità in una società di
individui», come afferma
Anthony
Giddens 5.
Componente intrinseca di
una società di individui o
conseguenza
di
scelte
economicheepolitichedicui
vanno
stabilite
la
responsabilità?Moltidiquesti
«rischi»,
in
effetti
(inquinamento,
effetto
serra…),sortisconounasorta
di effetto boomerang sugli
equilibri naturali di un
produttivismo sfrenato e di
uno sfruttamento selvaggio
delle risorse del pianeta. È
tuttavia inesatto dire, con
Ulrich Beck, che questi
«rischi»
attraverserebbero
ormai le barriere di classe e
sarebbero in qualche modo
democraticamente condivisi.
Cosí, per esempio, le
industriepiúinquinantisono
preferibilmente insediate nei
paesi in via di sviluppo e
colpiscono le popolazioni
maggiormente prive di mezzi
a garanzia dell’igiene e della
sicurezza,dellaprevenzioneo
dei risarcimenti di questi
danni. Ci sono ingiustizie
palesi nella ripartizione di
questi «rischi», soprattutto se
si pone il problema su scala
planetaria, come è necessario
fare dopo aver preso in
considerazione i rapporti tra
ladiffusionediquestotipodi
nocivitàeilmodoincuiviene
gestitalamondializzazione.
Senza dubbio, piuttosto
che di rischi, per quanto
«nuovi» essi siano, sarebbe
meglioparlare,qui,didannio
di nocività. Questo non
significa che tali rischi non
potrebbero essere governati,
machelarispostaadeguataè
diversa da quella prevalsa nel
controllo dei rischi sociali
classici. Si vede bene, ad
esempio, che se un’industria
altamente inquinante viene
insediata in una regione
particolarmente sfavorita del
Terzo mondo, al fine di
sfruttarvi una manodopera a
buon mercato, la risposta
pertinente non consiste in
una «mutualizzazione dei
rischi», che obblighi le
popolazioni autoctone ad
assicurarsi contro queste
nocività. Essa dovrebbe
consistere, piuttosto, nel
proscrivere queste nuove
forme
planetarie
di
sfruttamento, o quantomeno
nell’imporre
alle
multinazionali
che
ne
beneficiano delle regolazioni
severe, compatibili con uno
sviluppo durevole. Ciò
significa mettere in campo
istanze
politiche
transnazionali
abbastanza
potenti da imporre dei limiti
alla frenesia del profitto e da
addomesticare il mercato
mondializzato.
Privatizzazione
o
collettivizzazionedeirischi.
Simili
istanze
non
emergono molto spesso di
questi tempi, tanto che ci
troviamo
completamente
indifesi di fronte ai fattori
dannosi prima citati. Ma
almeno possiamo cominciare
a chiederci se quella che si
configura quasi come una
metafisica del rischio non
serva a occultare sia la
specificitàdeiproblemichesi
pongono oggi, sia la ricerca
delle responsabilità che
stanno all’origine dei danni
spesso presentati come
ineluttabili.
L’ideologia
generalizzataeindifferenziata
del rischio («la società del
rischio», «la cultura del
rischio», eccetera) si dà oggi
come il riferimento teorico
privilegiato per denunciare
l’insufficienza – ossia il
carattere obsoleto – dei
dispositivi
classici
di
protezioneel’impotenzadegli
stati nel far fronte alla nuova
congiuntura
economica.
L’alternativa,quindi,nonpuò
darsi che nello sviluppo delle
assicurazioni private. Si può
cosí capire perché, in ambito
neoliberale, alcuni paladini
dell’assicurazione
abbiano
non solo seguito con
entusiasmo ma addirittura
rilanciato analisi come quella
di Beck o di Giddens. Cosí,
con
un
sorprendente
rovesciamento di fronte dei
terminiinquestione,François
Ewald e Denis Kessler fanno
del rischio «il principio di
riconoscimento del valore
dell’individuo», «la misura di
ognicosa»,assegnandogliuna
dimensione
quasi
antropologica: come se il
rischio, probabilità della
comparsa di un evento a noi
esterno,potessecostituireuna
componente
dell’uomo
stesso 6.
Ernest-Antoine
Seillières spinge questa
naturalizzazione del rischio
fino alla caricatura, dato che
per lui l’umanità si divide in
«rischiofili» e «rischiofobi» 7.
In effetti, l’insistenza posta
sulla proliferazione dei rischi
va di pari passo con una
celebrazione dell’individuo
svincolato dalle appartenenze
collettive,
«disincastrato»
(disembedded),
secondo
l’espressione
usata
da
Giddens. Questo individuo,
dunque, è come un portatore
dirischichenavigaavistanel
bel mezzo degli scogli e deve
gestiredasoloilsuorapporto
conirischi.Nonsivedebene
il ruolo che possono giocare
in questo schema lo Stato
sociale e l’assicurazione
obbligatoria garantita dal
diritto. C’è una relazione
stretta tra l’esplosione dei
rischi,
l’iperindividualizzazionedelle
pratiche e la privatizzazione
delle assicurazioni. Se i rischi
si moltiplicano all’infinito, e
se l’individuo è lasciato solo
ad
affrontarli,
sta
all’individuo
privato,
privatizzato, il compito di
assicurarsi da solo, se può
farlo. Il governo dei rischi
non è piú quindi un’impresa
collettiva, ma una strategia
individuale,mentrel’avvenire
stesso delle assicurazioni
private è assicurato dalla
moltiplicazione dei rischi. La
loro proliferazione apre un
mercatopraticamenteinfinito
al
commercio
delle
assicurazioni.
L’altra via per tentare di
affrontarequestacongiuntura
è quella di porre in risalto la
dimensione sociale dei nuovi
fattori di incertezza e di
interrogarsi sulle condizioni
necessarie per arrivare ad
affrontarli collettivamente.
Ma non bisogna nascondersi
che questo compito presenta
oggi difficoltà immense:
difficoltà evidenti per quelli
chehopropostodichiamare,
invece
che
rischi
propriamente detti, «danni
inediti»,
prodotti
dalla
modalità
di
sviluppo
economico
e
sociale
attualmente prevalente. A
dispetto di una presa di
coscienza crescente dei
misfatti
di
una
mondializzazioneselvaggia(si
veda al proposito il successo
delle diverse correnti che
militano a favore di una
«altermondializzazione»),
siamo ben lontani dall’aver
trovato il genere di istanze
internazionali–differentinel
loro spirito dal Fondo
monetario
internazionale
(Fmi),dallaBancamondialeo
dall’Organizzazionemondiale
per il commercio – che
potrebbero
ispirare
un’amministrazione
degli
scambi
internazionali,
rispettosa delle esigenze
ecologiche e sociali da
imporre su scala planetaria 8.
La complessità di tali
problemi rende impraticabile
lapretesaditrattarliinquesta
sede, anche se essi si
inscrivono in una rinnovata
problematicadelleprotezioni,
che
bisognerebbe
oggi
promuovere. Si è tuttavia
sottolineato fino a che punto
fossero profondamente scossi
i sistemi collettivi di
protezione che avevano reso
possibilelapresaincaricodei
rischi sociali classici nel
quadro della società salariale.
Ora la situazione sembra
completamente irreversibile.
Non si tornerà indietro con
una semplice restaurazione
delle regolazioni collettive
precedenti: tali regolazioni
corrispondevano infatti alle
forme, esse stesse collettive,
della
produzione
del
capitalismo industriale e alla
loro gestione nell’ambito
delloStato-nazione.Proprioil
mutamento
attuale
del
capitalismo – che passa
attraverso
la
mondializzazione
degli
scambiel’esasperazionedella
concorrenza–imponequeste
forme di decollettivizzazione:
impone
una
mobilità
generalizzataallaforzalavoro,
in primo luogo, ma anche ad
ampi settori dell’esperienza
sociale. La posizione da
assumere non è quella di
sottovalutare
queste
trasformazioni, ma quella di
chiedersi – domanda difficile
– quali forme di protezione
sarebbero compatibili con il
rovesciamento, al quale oggi
assistiamo,
delle
forze
produttive e dei modi di
produzione.
Una seconda ragione di
fondo
impedisce
di
considerare la crisi attuale
delle protezioni come una
traversia
accidentale
o
provvisoria. La costruzione
delle protezioni ha anche
provocatounatrasformazione
essenziale, e ugualmente
irreversibile, dello statuto
dell’individuo. Il paradosso,
sottolineato tra gli altri da
Marcel Gauchet, è che la
presa crescente dello Stato
sociale,
procurando
all’individuo
protezioni
collettiveconsistenti,haagito
come un potente fattore di
individualizzazione.
L’«assicurazione
di
assistenza» 9,
predisposta
dallo Stato, libera l’individuo
dalla
dipendenza
nei
confrontidituttelecomunità
intermedie
che
gli
procuravano quelle che ho
proposto di chiamare le
«protezioni
ravvicinate».
L’individuo diventa cosí,
almeno
in
tendenza,
«liberato» in rapporto a esse,
mentreloStatodiventailsuo
principale supporto, cioè il
suo principale fornitore di
protezioni. Quando queste
protezioni si incrinano,
l’individuo diventa al tempo
stesso fragile ed esigente,
poiché è abituato alla
sicurezza ed è roso dalla
paura di perderla. Non è
esagerato sostenere che il
bisognodiprotezionefaparte
della
«natura»
sociale
dell’uomo contemporaneo,
come se lo stato di sicurezza
fosse divenuto una seconda
natura e anche lo stato
naturale dell’uomo sociale. È
laposizionecontrariaaquella
rappresentata da Hobbes agli
albori della modernità. Ma
questa inversione è stata resa
possibile dal fatto che i
sistemi di produzione della
sicurezzaallestitidalloStatosi
sono
progressivamente
imposti, fino ad essere
completamente interiorizzati
dall’individuo. E ciò è
accaduto,indefinitiva,perché
lo Stato, nella forma dello
Stato nazional-sociale, ha
realizzato compiutamente la
sua missione. È diventato
naturaleessereprotetti,ilche
significa anche che è
diventatonaturalerivendicare
la protezione dello Stato. Ma
è proprio a questo punto che
leprotezionisiindeboliscono,
inmaniera,aquantosembra,
irreversibile.
È dunque sicuramente
ingenua la pretesa di
mantenere o di restaurare lo
statu quo delle protezioni
precedenti, ed è questo il
frequente rimprovero che i
modernisti rivolgono, in
perfetta buona fede, ai
«nostalgicidelpassato».Maè
almeno altrettanto ingenuo
pretenderechel’abolizionedi
queste protezioni «liberi» un
individuo, che aspetterebbe
solo questa occasione per
dispiegare finalmente tutte le
sue potenzialità. Si tratta
dell’ingenuità dell’ideologia
neoliberale dominante. Essa
omette di prendere in
considerazione
il
fatto
essenziale che l’individuo
contemporaneo è stato
profondamente forgiato dalle
regolazioni statuali. Non è in
grado, se cosí si può dire, di
rimanere in piedi da solo,
poiché è come se fosse stato
irrorato e attraversato dai
sistemi collettivi di sicurezza
allestititidalloStatosociale.A
meno di non esaltare il
ritorno allo stato di natura,
cioèaunostatodiinsicurezza
totale,lamessaindiscussione
delle protezioni non può
portareallalorosoppressione,
ma piuttosto a una loro
redistribuzione nella nuova
congiuntura.
1 U. BECK , La società del rischio
cit.
2
Cfr. P. PÉRETTI-WATEL , La
société du risque, La Découverte,
Paris2001.
3
Il principio di precauzione
porta alle estreme conseguenze
questalogica.Paradossalmente,ciò
chespingeadecidereèl’incertezza:
oggi occorre compiere le proprie
scelte sulla base di possibilità di
rischio la cui esistenza non si è
manifestata al momento ma
potrebberivelarsidomani.
4 Si veda A. GIDDENS , Le
conseguenze della modernità.
Fiducia e rischio, sicurezza e
pericolo,ilMulino,Bologna1994.
5 ID. , Modernity and SelfIdentity,StanfordUniversityPress,
StanfordCal.1991,p.224[trad.it.
Identità e società moderna,
Ipermediumlibri,Napoli1999].
6
F. EWALD e D. KESSLER , Les
nocesdurisqueetdelapolitique,in
«Le Débat», n. 109, marzo-aprile
2000.
7 Si veda l’intervista in
«Risques»,n.43,settembre2000.
8
L’Organizzazione
internazionale del lavoro, tra i
grandi organismi internazionali, è
senza dubbio attualmente il piú
importante nel manifestare questa
preoccupazione. Il suo potere di
intervento, purtroppo, non è
neppure comparabile al potere
esercitato,peresempio,dall’Fmi.
9 M. GAUCHET
, La société
d’insécurité, in J. DONZELOT (a cura
di), Face à l’exclusion: le modèle
français,Seuil,Paris1991.Loaveva
già detto Durkheim, al quale si
rimprovera ingiustamente di aver
soffocato l’individuo sotto le
costrizioni collettive: «La verità è
che lo Stato è stato il liberatore
dell’individuo
[…].
L’individualismo è andato di pari
passoconlostatalismo»(in«Revue
philosophique»,n.48,1899).
Capitoloquinto
Comecombattere
l’insicurezzasociale?
In che cosa potrebbe
consistere
una
tale
redistribuzione?
Come
ricomporre protezioni che
imporrebbero dei principî di
stabilità e dei dispositivi di
sicurezzainunmondochesi
confronta in maniera nuova
con l’incertezza del domani?
È senza dubbio la grande
sfida
che
dobbiamo
raccogliere oggi, e non è
sicurochesaremoingradodi
farlo.Nonsiavràlapretesadi
fornire
qui
risposte
circostanziate
a
questi
interrogativi,
che
ci
introducono alla ricerca di
formule nuove piuttosto che
farci approdare a delle
certezze.Mapossiamotentare
di precisare le poste in gioco
di
tali
interrogativi
limitandoci ai due principali
settori che sono stati finora
esplorati:
quello
della
protezione
sociale
propriamente detta e quello
della
sicurezza
delle
condizioni di lavoro e dei
percorsiprofessionali 1.
Riconfigurare le protezioni
sociali.
Ecco dunque, in primo
luogo, il dominio della
protezione
sociale
propriamente detta, che in
molti paesi corrisponde a ciò
che
noi
chiamiamo
«previdenza
sociale»
(assicurazioni contro la
malattia, l’invalidità, gli
infortuni sul lavoro, la
disoccupazioneelavecchiaia,
oltre che assegni familiari e
assistenza sociale). A partire
dall’inizio degli anni Ottanta,
diverse
politiche
di
inserimentoedi«lottacontro
le
esclusioni»
hanno
affiancato la previdenza
sociale.Letrasformazioniche
si osservano da una ventina
d’anni a questa parte non
hanno assunto i tratti di una
rivoluzionebrutale.Ilsistema
resta largamente dominato
dalleassicurazioniconnesseal
lavoro e finanziate dai
contributi prelevati sul
lavoro.Tuttavia,sonoapparse
difficoltà
crescenti
e
problematiche nuove, che
rimettono in discussione
l’egemonia di questo genere
diprotezioni.
Dapprima
il
blocco
finanziario. Il finanziamento
del
sistema
viene
profondamente
destabilizzato:daunlatodalla
disoccupazione di massa e
dalla precarizzazione delle
relazioni di lavoro, dall’altro
lato dalla riduzione della
popolazioneattivaperragioni
demografiche
e
dall’allungamento
della
speranza di vita. Come
sostieneDenisOlivennes,una
minoranza di soggetti attivi
correrebbe ben presto il
rischio di versare contributi
per una maggioranza di
soggettiinattivi 2.
Ma la contestazione, al di
là
dell’argomentazione
finanziaria, riguarda anche le
modalità di funzionamento
delsistemaelasuaincapacità
di prendere in carico tutti
coloro che sono in rottura
con il mondo del lavoro.
Paradossalmente,
la
protezione sociale classica
renderebbecosípiúprofondo
lo scarto tra una collettività
che può continuare a
beneficiarediprotezioniforti
– concesse in modo
incondizionato,
poiché
corrispondono a diritti
provenienti dal lavoro – e il
flusso crescente di tutti gli
individui che non riescono a
inscriversiinquestisistemidi
protezione oppure se ne
distaccano.
Piú
profondamente
della
questione del finanziamento,
diventaalloradeterminantela
strutturastessadiquestotipo
diprotezioni:talestrutturale
renderebbe
inadatte
a
considerare la diversità delle
situazioni e dei profili degli
individui in attesa di
protezione, dal momento che
poggia sulla costituzione di
categorie omogenee e stabili
di popolazione e sulla
concessione di prestazioni
automaticheeanonime.
A partire da queste
constatazioni, si è visto
svilupparsi, da una ventina
d’anni, ciò che potrebbe ben
rappresentare un nuovo
regimedellaprotezionesociale
rivolto agli emarginati delle
protezioni classiche. Il nuovo
regime si è progressivamente
sistemato ai margini del
sistema, promuovendo in
successione le seguenti
misure: moltiplicazione dei
minimi sociali, concessi a
soggetti che siano nelle
condizioni di possedere
risorse; sviluppo di politiche
locali di inserimento e di
politiche urbane; sviluppo di
dispositivi
di
aiuto
all’impiego,disoccorsoaipiú
deprivati e di «lotta contro
l’esclusione».
Queste
disposizioni non hanno
obbedito a un piano
d’insieme, ma sembrano
tuttavia disegnare un nuovo
referenziale di protezioni
molto diverso da quello della
proprietà
sociale,
caratterizzata dall’egemonia
delle
protezioni
incondizionate fondate sul
lavoro.BrunoPaliersintetizza
cosí l’opposizione dei due
registri:
Apertura generalizzata ed
egalitaria versus scissione e
discriminazione
positiva;
prestazioni uniformi versus
definizioni delle prestazioni a
partire dai bisogni sociali;
settori separati gli uni dagli
altri (malattia, infortuni sul
lavoro, vecchiaia, famiglia)
versus trattamento trasversale
dell’insieme dei problemi
socialiincontratidaunastessa
persona;
amministrazione
centralizzata nella gestione di
un rischio o di un problema
versus
partenariato
contrattualizzatoconl’insieme
degli attori (amministrativi,
politici,associativi,economici)
capaci
di
intervenire;
«amministrazionedigestione»
versus «amministrazione di
missione»; «centralizzazione e
amministrazione piramidale»
versus «decentralizzazione e
territorializzazione» 3.
Un’implicazione
importante
di
questi
cambiamenti è l’introduzione
di una certa flessibilità nel
regime delle protezioni.
Questinuoviinterventisociali
sicaratterizzanoineffettiper
la loro diversificazione,
pensati come sono per
adattarsi alla specificità dei
problemi delle popolazioni
preseincaricoe,allimite,per
adattarsi
a
una
individualizzazione della loro
messa in opera. Due termini,
assenti nel dizionario delle
protezioni
classiche,
occupanounpostostrategico
inquestenuoveoperazioni:il
contratto e il progetto. La
realizzazione del salario
minimo d’inserimento a
partire dal 1988 esemplifica
bene lo spirito di questo
nuovoregimediprotezioni.Il
suo ottenimento dipende in
primo luogo dall’attivazione
di
un
«contratto
di
inserimento», attraverso il
quale il beneficiario si
impegnanellarealizzazionedi
un progetto. Il contenuto di
questo progetto è definito
tenendo
conto
della
situazione particolare del
beneficiario e delle sue
personali
difficoltà.
Ugualmente, le politiche
territoriali – che culminano
ogginella«politicadellacittà»
echeapartiredaiprimianni
Ottantasonostateattivatenei
quartieri sfavoriti in nome
dell’inserimento
–
si
appoggiano su progetti locali
che
implicano
la
mobilitazione degli abitanti e
dei differenti partner della
comunità. Questa tendenza
all’implicazione
personale
degli utenti ispira anche,
sempre di piú, le politiche di
lottacontroladisoccupazione
(si veda il recente avvio del
Pare 4,chestimola–omeglio
impone – la partecipazione
attiva dei disoccupati alla
ricerca di un impiego). In
tuttequestenuoveprocedure,
si tratta di passare dalla
fruizione
passiva
delle
prestazioni sociali, concesse
in modo automatico e
incondizionato,
a
una
mobilitazione dei beneficiari
chedevonopartecipareauna
loro personale riabilitazione.
«Attivazione delle spese
passive»,comesiusadire,ma
che passa anche attraverso
un’attivazione delle persone
coinvolte.
Queste
trasformazioni
obbediscono a una logica
d’insieme. Si tratta di
politiche
che
tendono
all’individualizzazione delle
protezioni, in linea con la
grandetrasformazionesociale
da
noi
sottolineata,
attraversata anch’essa da
processi
di
decollettivizzazione o di
reindividualizzazione.
In
questo senso, tali politiche si
presentanocomeunarisposta
allacrisidelloStatosociale,il
cui
funzionamento
centralizzato, che amministra
regole universali e anonime,
si dimostrerebbe inadeguato
all’interno di un universo
sempre piú mobile e
diversificato. La nuova
economia delle protezioni, si
dirà,esigechesiritorni,aldi
là della statalizzazione del
sociale, a un’assunzione di
questesituazioniparticolarie,
allimite,deisingoliindividui.
Questo
spostamento,
tuttavia, ha un costo, e
almeno per due ragioni
possiamochiedercisenonsia
troppo elevato. In primo
luogo, portato al limite, lo
spostamento implica un
ricentramento
delle
protezioni su popolazioni
poste al di fuori del regime
comune poiché soffrono di
un handicap, intendendo
questo termine in senso lato:
situazioni di grande povertà,
deficitdiversi–fisici,psichici
o sociali –, «inimpiegabilità»,
eccetera.
Protezione
significherebbe qui presa in
carico degli sventurati. Non
basta certo denominare tali
nuove
misure
«discriminazione positiva»
per
cancellare
la
stigmatizzazionenegativache
viene sempre assegnata a
questotipodiprovvedimenti.
Ciò nonostante, si dirà,
queste nuove protezioni
rompono con la tradizionale
deresponsabilizzazione
dell’assistenza,nellamisurain
cui
promuovono
una
mobilitazione dei beneficiari,
spinti a farsi carico di se
stessi.Difatto,ilcontrattodi
inserimento, ad esempio, che
assegnaunredditominimodi
inserimento (Rmi) 5 ben
rappresenta
un
provvedimento originale e
allettante,poichécoinvolgela
partecipazione
del
beneficiario,
che
sarà
accompagnato e aiutato nella
realizzazionedelsuoprogetto
personale.
Ma
queste
intenzioni
rispettabili
sottovalutano la difficoltà e
spesso la mancanza di
realismo insite in questo
richiamo alle risorse degli
individui, trattandosi di
individui che mancano, per
l’appunto, proprio di risorse.
È paradossale che attraverso
queste diverse misure di
attivazione si chieda molto a
coloro che hanno poco e
spesso si chieda di meno a
colorochehannomolto.Non
cisidevesorprendere,perciò,
se la riuscita effettiva di
queste iniziative sia piuttosto
l’eccezionechelaregola.Cosí,
i numerosi rapporti di
valutazione
dell’Rmi
mostrano che piú della metà
dei beneficiari non passa al
contratto, che nella maggior
parte dei casi l’Rmi serve
soprattutto come «una
boccata di ossigeno che
migliora marginalmente le
condizioni di vita dei
beneficiari senza poterle
trasformare» 6,echesoloil10
per cento dei casi, o al
massimo il 15 per cento, ha
raggiunto la meta di un
«inserimento professionale»,
ottenendo cioè un impiego,
stabile o piú spesso precario.
Allostessomodo,lepolitiche
di inserimento territoriale
dànno dei risultati molto
modesti dal punto di vista
della partecipazione attiva
degliutenti 7.
Tali constatazioni non
implicano nessuna condanna
diquestitentatividiinventare
nuove
protezioni.
Al
contrario, senza queste
misure la situazione delle
diverse categorie di vittime
della crisi della società
salariale avrebbe subito un
degrado ancor maggiore. Si
puòdunque–eamioavviso
si deve – difendere l’Rmi, le
politichedellacittàeiminimi
sociali, interrogandosi al
tempo stesso sulla loro
portata. Da questo punto di
vista, è escluso che i minimi
sociali, cosí come sono
realizzati oggi, possano
rappresentare un’alternativa
globale
alle
protezioni
precedentemente elaborate
contro i principali rischi
sociali, a meno di non
sanzionare
un’incredibile
regressione
della
problematicadelleprotezioni:
riducendo cioè la protezione
sociale a un aiuto, spesso di
mediocre qualità, riservato ai
piúdeprivati.
Senza dubbio nessuno, a
dire il vero, difende questa
posizione nella sua forma
estrema. Se il sistema di
protezioni«tiene»ancoroggi,
è perché ampie frange, le piú
estese, sono ancora dominate
da coperture assicurative
concesse senza valutare lo
stato delle risorse dei loro
beneficiari 8. Ma questo
significa che tali nuove
misure non sono riuscite a
superare la dualizzazione –
spesso
imputata
alla
protezione classica – tra
coperture contro i rischi
sociali,efficacinellamisurain
cui sono legate a condizioni
stabili di lavoro, e un
ventaglio di aiuti piú o meno
circostanziato,
corrispondente alla diversità
delle
situazioni
di
deprivazionesociale.Inquesti
ultimi vent’anni si è di fatto
assistitoaunatrasformazione
profonda, nel senso di una
degradazione,
della
concezione della solidarietà.
Al limite, non si tratterebbe
piú
di
proteggere
collettivamente l’insieme dei
membridellasocietàcontroi
principali rischi sociali. Le
spese di solidarietà, di cui lo
Stato continuerebbe ad avere
la
responsabilità,
si
indirizzerebbero
preferenzialmente a quel
settore residuale della vita
sociale popolato dai «piú
deprivati». Essere protetto
significherebbe allora essere
appena dotato del minimo di
risorse,
necessarie
per
sopravvivere in una società
che limiterebbe le sue
ambizioni ad assicurare un
servizio minimo contro le
forme
estreme
della
deprivazione.
Una
tale
dicotomia nel regime delle
protezioni sarebbe rovinosa
perlacoesionesociale 9.
Non è facile dire come si
potrebbe superarla. Ma una
prima ragione del carattere
profondamente
insoddisfacente
della
situazione attuale riguarda la
frammentazione delle nuove
misure che da vent’anni a
questa parte sono state prese
una alla volta: misure che a
volte si sovrappongono, a
volte lasciano sussistere zone
opache,chesonozonedinon
diritto. Una prima serie di
riforme dovrebbe garantire
unacontinuitàdeidiritti,aldi
là della diversità di situazioni
che generano non soltanto
pregiudizi materiali, ma
anche discontinuità nella
distribuzionedelleprestazioni
e arbitrarietà nella loro
attribuzione: che un regime
omogeneo di diritti ricopra
ambiti della protezione
indipendenti da coperture
assicurative collettive, è una
proposta che ha il merito del
realismo, che implica costi
ragionevoli
e
difficoltà
tecniche di applicazione del
tuttosuperabili 10.
Una seconda questione,
piú difficile e ambiziosa,
consistenell’interrogarsisulla
natura e sulla consistenza di
questi nuovi diritti. È un
vecchio dibattito, che si è
sempre focalizzato sul diritto
ai sussidi. Il fatto che certi
sussidi derivino dal diritto (è
il caso della Francia dopo le
leggidiassistenzadellaTerza
Repubblica) non esclude che
la loro accessibilità sia
subordinataaunavalutazione
del beneficiario, che deve
dimostrare di essere in una
condizione di bisogno per
beneficiaredeisussidi.Dipiú:
le prestazioni cosí distribuite
devono
sempre
essere
inferiori a quelle assicurate
dal lavoro (la less eligibility
degli anglosassoni). Alexis de
Tocqueville – che non era
certoundifensoredelloStato
sociale – sottolinea con forza
la differenza tra due tipi di
diritti e scrive queste righe
anchecontrola«caritàlegale»
degliinglesi:«Idirittiordinari
sono conferiti agli uomini in
funzione di alcuni vantaggi
acquisiti sui loro simili.
Questo – e Tocqueville si
riferisce qui al diritto ai
sussidi – è concesso in
ragionediunainferioritàela
legalizza» 11.
I
«diritti
ordinari»sonoidirittirelativi
alla cittadinanza. Sono diritti
«ordinari» perché sono
comuni, non discriminanti e
attribuiscono
un’uguale
dignità a tutti i soggetti di
diritto. È il caso dei diritti
civili e politici in una
democrazia:
stanno
a
fondamento
della
cittadinanza.
Il diritto ai sussidi può
fondare una cittadinanza
sociale? Non lo può, se
rimane «concesso in ragione
di una inferiorità e la
legalizza». Una via per
superarequestaannosaaporia
potrebbe
essere
l’approfondimento
delle
politiche di inserimento. Si è
sottolineato il carattere
ambiguo
e
piuttosto
deludente delle realizzazioni
gestite finora sotto questa
etichetta. Ma ciò è avvenuto
anche perché esse hanno
strumentalizzatounaversione
amputata della nozione. Se,
come recita l’articolo 1 della
legge istitutiva dell’Rmi,
«l’inserimento sociale e
professionaledellepersonein
difficoltà è un imperativo
nazionale»,
la
sua
realizzazione implicherebbe
unamobilitazioneeffettiva,se
non di tutta la nazione,
quantomeno di una vasta
gamma di partner, ben oltre
gli attori sociali e i
rappresentanti del mondo
associativo:
responsabili
politici e amministrativi,
mondo dell’impresa. Solo
raramente questo è accaduto
e il trattamento settoriale
della
problematica
dell’inserimento,
delegato
soprattutto agli specialisti del
sociale, ne ha fortemente
limitatolaportata.
L’idea
di
un
accompagnamento effettivo
dellepersoneindifficoltàper
aiutarleausciredallorostato
è un’idea ambiziosa. Essa
presentailvantaggio,rispetto
all’amministrazione classica
deisussidi,diindirizzarsialla
persona a partire dalla
specificitàdellasuasituazione
e dei bisogni che le sono
propri. Ma essa non deve
ridursi a un sostegno
psicologico.Inlineagenerale,
glispecialistidell’inserimento
sono stati finora inclini a
rendere prioritaria la norma
d’interiorità, e cioè a tentare
di modificare la condotta
degli individui in difficoltà
spingendoliacambiareilloro
modo di pensare e a
rinforzareleloromotivazioni
a «uscirne», come se fossero
essi stessi i principali
responsabili della condizione
incuisitrovano 12.Maperché
l’individuo possa realmente
fare progetti e stipulare
contrattiaffidabili,devepoter
contaresuunabasedirisorse
oggettive.
Per
potersi
proiettare nel futuro, è
necessario disporre di un
minimo di sicurezza nel
presente 13. Quindi, trattare
senza ingenuità e come un
individuo una persona in
difficoltà significa mettere a
sua
disposizione
quei
supporticheglimancanoper
essere un individuo a pieno
titolo e che garantiscono le
condizioni
della
sua
indipendenza: supporti che
non consistono solo nelle
risorse materiali o negli
accompagnamenti
psicologici, ma anche nei
diritti e nel necessario
riconoscimentosociale 14.
Al di là dell’Rmi, queste
considerazioni potrebbero
valere per l’insieme delle
politicheterritorialirealizzate
in Francia dopo i primi anni
Ottanta.Esseindicanociòche
potrebbe fungere da idea
regolatrice, al fine di
reinserire le collettività
composte da individui che
non riescono a inscriversi
nelleprotezioniprocuratedal
lavoroochedataliprotezioni
sisonodistaccati:trattaretali
individuinoncomeassistiti–
questa l’idea regolatrice – ma
come
soggetti
provvisoriamente privi delle
prerogative connesse alla
cittadinanza sociale, dandosi
l’obiettivo prioritario di
procurare loro i mezzi, non
solo
materiali,
che
consentano il recupero di
questa cittadinanza. Piú in
concreto, e parallelamente
alla continuità dei diritti
evocata in precedenza, si
dovrebbe promuovere una
continuità e una messa in
sinergia delle pratiche che
miranoallareintegrazionedei
gruppi in difficoltà. Si
possonocosíconcepireverie
propri
collettivi
di
inserimento 15:
sorta
di
agenzie
pubbliche
che
raggrupperebbero,
con
finanziamenti propri e con
poteri decisionali, le diverse
istanzeattualmenteincaricate
difacilitarel’aiutoall’impiego
e di lottare contro la
segregazione sociale, la
povertà e l’esclusione. I
diversi tipi di partner oggi
implicati in ordine sparso
nella riqualificazione delle
persone in difficoltà si
troverebbero
cosí
centralizzati, ma a livello
locale, sotto un potere
unificato di decisione e di
finanziamento. Un tale
dispositivo non risolverebbe
certo tutti i problemi che ci
vengono posti dalla presenza
di popolazioni stabilmente
lontane dal mercato del
lavoro, ma rappresenterebbe
sicuramente un passo avanti
decisivo per rilanciare una
dinamica di inserimento
capace di sfociare nella loro
reintegrazioneentroilregime
comune 16.
Piú generalmente, si è
sottolineato che l’insieme dei
dispositivi della protezione
sociale
sembra
oggi
attraversato da una tendenza
all’individualizzazione, o alla
personalizzazione,
dal
momento che punta a
collegare la concessione di
una
prestazione
alla
considerazione
della
situazione specifica e della
condotta personale dei
beneficiari. Un modello
contrattuale
di
scambi
reciproci tra chi richiede
risorse e chi le procura si
sostituirebbe cosí, al limite,
allo statuto incondizionato
dell’aventediritto 17. Una tale
evoluzione può avere delle
conseguenze positive nella
misura in cui corregge il
carattere impersonale, opaco
eburocraticochecaratterizza
in generale la distribuzione
delleprestazioniomogenee.È
lapartediveritàchecontiene
la parola d’ordine «riattivare
le spese passive». Tuttavia, la
logica contrattuale, il cui
paradigma è lo scambio
commerciale,
sottovaluta
gravemente la disparità di
situazioni tra i contraenti.
Essa mette il beneficiario di
una
prestazione
nella
condizione di chi domanda,
facendo come se disponesse
del potere di negoziazione
necessario ad annodare una
relazione di reciprocità con
l’istanza che dispensa le
protezioni. Questo è un caso
veramente raro. L’individuo
ha bisogno di protezioni
proprio perché, in quanto
individuo, non dispone da
solo delle risorse necessarie
per assicurarsi la propria
indipendenza.
Attribuirgli
perciò la responsabilità
principale del processo che
deve assicurargli questa
indipendenza, significa il piú
delle volte imporgli un
imbroglio.
Ilricorsoaldirittoèlasola
soluzione che sia stata oggi
escogitata per uscire dalle
pratiche filantropiche o
paternalistiche, fossero esse
esercitate all’interno di
istanze ufficiali oppure da
specialisti dell’aiuto sociale:
pratiche che conducono a
prendere in considerazione
con maggiore o minore
benevolenza, o sospetto, la
sorte degli sventurati, al fine
di verificare se, e in quale
misura,essimeritanodavvero
di essere aiutati. Si può
rivendicare un diritto; un
diritto è infatti una garanzia
collettiva,legalmenteistituita,
chericonosceall’individuo,al
di là della sua specificità, lo
statuto di membro a pieno
titolo della società, «avente
diritto», per ciò stesso, a
partecipare alla proprietà
sociale e a godere delle
prerogative principali della
cittadinanza:
diritto
di
condurre una vita decorosa,
di essere curato, di trovare
alloggio,
di
essere
riconosciuto nella propria
dignità personale… Le
condizioni di applicazione e
di esercizio di un diritto
possono essere negoziate,
dato che non si può
confondere l’universalità di
un diritto con l’uniformità
della sua messa in opera. Ma
un diritto in quanto tale non
si negozia, si rispetta. Si
possono dunque applaudire
gli sforzi compiuti per
ridistribuire la protezione
sociale molto piú vicino alle
situazioni concrete e ai
bisogni degli utenti, ma c’è
una linea rossa che non va
superata. Al di là di essa, ci
sarebbe confusione tra il
dirittodiessereprotettieuno
scambioditipocommerciale,
che subordina l’accesso alle
prestazioni ai soli meriti dei
beneficiari, o anche al
caratterepiúomenopatetico
della situazione nella quale si
trovano. Bisogna ricordare
con fermezza che la
protezione sociale non è
soltanto la concessione di
sussidi in favore dei piú
deprivati, per evitare un loro
totale degrado. Nel senso
forte del termine, la
protezione sociale è la
condizione basilare affinché
tutti possano continuare ad
appartenere a una società di
simili.
Renderesicuroillavoro.
Laproduzione di sicurezza
perlesituazionidilavoroeper
ipercorsiprofessionali:eccoil
secondograndecantieredove
si tenta di ridistribuire, oggi,
le protezioni sociali. Per fare
questo, conviene partire da
una diagnosi tanto precisa
quanto
possibile
della
situazione attuale. Nella
società salariale, si può
parlare senza equivoci di
cittadinanza sociale nella
misura in cui i diritti
incondizionati
(«diritti
ordinari», per parlare come
Tocqueville)eranostatilegati
alla situazione professionale.
È lo statuto dell’impiego che
costituisce la base di questa
cittadinanza, assicurando un
accoppiamento
forte
diritti/protezioni (diritti del
lavoro e protezione sociale).
Dopo
la
«grande
trasformazione»
avviatasi
neglianniSettanta,siassistea
una disgregazione di questo
accoppiamento. E vogliamo
sforzarci, qui, di pesare il
significato del termine. Si
tratta di una disgregazione, o
di un’erosione, e non di uno
sprofondamento,
come
pretendono certi discorsi
catastrofici, che spingono al
limite,avoltefinoall’assurdo,
il processo di degradazione
delle condizioni di lavoro e
delle protezioni legate al
lavoro 18. A fronte del fatto
che queste vengono talvolta
presentatecomeuncampodi
rovine, bisogna richiamare
qualche dato evidente: anche
se esse sono indebolite e
minacciate, noi viviamo
sempre in una società
circondata e attraversata da
protezioni (il diritto del
lavoro,laprevidenzasociale);
anche se il rapporto con
l’occupazione è diventato
sempre piú problematico, il
lavoro ha conservato la sua
centralità(ancheesoprattutto
percolorochelohannoperso
o corrono il rischio di
perderlo, come risulta dalle
inchiestesuidisoccupatiesui
precari); anche se non è piú
deltuttoegemone,ilrapporto
lavoro/protezioni è sempre
determinante (circa il 90 per
cento della popolazione
francese, tenendo conto degli
«aventidiritto»,è«coperta»a
partire dalla relazione con il
lavoro,compreselesituazioni
non lavorative come la
pensione e, in parte, la
disoccupazione).
È dunque proprio attorno
al lavoro che continua a
giocarsi una parte essenziale
del destino sociale della
grande maggioranza della
popolazione.Maladifferenza
rispettoalperiodoprecedente
– una differenza enorme – è
che se il lavoro non ha perso
la sua importanza, ha perso
molta della sua consistenza,
da cui derivava la parte piú
importante del suo potere di
protezione. Nel mondo del
lavoro, la messa in mobilità
generalizzata delle situazioni
lavorative e dei percorsi
professionali (si veda il
capitolo precedente) colloca
l’incertezza
nel
cuore
dell’avvenire. Se si prendono
sul
serio
queste
trasformazioni, si ha la
misura della sfida che oggi
deve essere affrontata: è
possibile associare nuove
protezioni a queste situazioni
di lavoro caratterizzate dalla
loro ipermobilità? Mi sembra
che la via privilegiata da
esplorare sia quella della
ricercadinuovidiritti,capaci
di rendere sicure queste
situazioni aleatorie e di
assicurare i percorsi segnati
dalladiscontinuità.
In quest’ottica, bisogna
oggi reinterrogare lo statuto
dell’impiego. Nella società
salariale le garanzie di cui
beneficia il lavoratore sono
legateallecaratteristicheealla
permanenza del rapporto di
lavoro.Illavoratore«occupa»
unimpiegoenetraealtempo
stesso obblighi e protezioni.
Questa
situazione
corrispondeva
alla
permanenza delle condizioni
di lavoro: permanenza nel
tempo
(egemonia
dei
contratti
a
tempo
indeterminato)
e
nella
definizione dei compiti che
esse implicavano (griglie di
qualificazione strettamente
definite, omogeneità delle
categorie professionali e dei
salari, stabilità dei posti di
lavoro, continuità nella
gestione delle carriere). C’era
unostatutodell’impiegochesi
sottraeva ampiamente alle
fluttuazioni del mercato e ai
cambiamenti tecnologici e
che costituiva la base stabile
della condizione salariale 19.
Oggi si assiste sempre piú a
una frammentazione degli
impieghi su due piani: non
soltantoalivellodeicontratti
di lavoro propriamente detti
(moltiplicazione delle forme
dette «atipiche» di impiego
rispetto al contratto a tempo
indeterminato), ma anche
attraverso la flessibilizzazione
delle mansioni lavorative. Ne
deriva una moltiplicazione di
situazioni non codificate dal
diritto, oppure di situazioni
debolmente coperte dal
diritto; situazioni che Alain
Supiot denomina «le zone
opache
dell’impiego» 20:
lavoro part-time, saltuario,
lavoro «autonomo» ma
strettamente subordinato a
un datore di lavoro, nuove
forme di lavoro a domicilio,
come il telelavoro, il
subappalto, il lavoro in rete,
eccetera. Nello stesso tempo
sièapprofonditoilfenomeno
delladisoccupazioneesisono
moltiplicate le alternanze tra
periodi attivi e inattivi.
Sembra dunque che la
struttura dell’impiego, in un
numerocrescentedicasi,non
sia piú un supporto stabile al
quale agganciare dei diritti e
delle protezioni che siano
davveropermanenti.
Una risposta a questa
situazione consisterebbe nel
trasferire i diritti di statuto
dell’impiego alla persona del
lavoratore. Si tratta dell’idea
di uno «stato professionale
delle persone, che non è
definito dall’esercizio di una
professione o di un impiego
determinato, ma che ingloba
lediverseformedilavoroche
ogni persona è in grado di
svolgere durante la propria
esistenza» 21.
Cosí si ristabilirebbe una
continuità
dei
diritti
attraversoladiscontinuitàdei
percorsi professionali, che
includono anche i periodi di
interruzione del lavoro
(disoccupazione, ma anche
interruzione del lavoro per la
formazione o per ragioni
personaliofamiliari).
Forse si obietterà che un
tale spostamento porrebbe
unaseriediproblemichenon
si è in grado di risolvere. Si
presuppone infatti che il
lavoratoredispongadi«diritti
di prelievo» che utilizzerebbe
per«coprire»idiversiperiodi
del suo percorso. Come
sarebbe alimentata una tale
copertura? Da chi sarebbe
gestita? Con quali garanzie?
Come imporla ai diversi
partnersociali?Qualesarebbe
il ruolo dello Stato in questa
configurazione? Sono tutte
questioni oggi aperte, al
punto che, possiamo dirlo, si
tratta proprio di un cantiere
diproblemicherimangonoin
granpartedadefinire.Inpiú,
si pone il problema di sapere
se questo nuovo statuto
professionale delle persone
dovrebbe riguardare le «zone
opache dell’impiego», che
nonsonocoperteosonomal
coperte dagli statuti classici;
oppure,inalternativa,sipone
il problema di sapere se il
nuovostatutodovrebbeavere
l’ambizione di ristrutturare
completamente
l’insieme
delle protezioni legate a tutte
leformedilavoro.Questione
essenziale,poichénellaprima
ipotesi, per rendere sicure le
zone non coperte dal diritto,
occorre
completare
un
sistemadiprotezionigiàdato
nellesuegrandilinee,mentre
nella seconda ipotesi il
sistema di protezioni deve
essere interamente rifondato
subasinuove.Ilchesignifica,
allora,
rinunciare
completamente allo statuto
classico dell’impiego, oggi
ancora
fortemente
rappresentato non solo nella
funzione pubblica, ma anche
in numerosi nuclei stabili del
settore privato. La risposta
alla questione dipende, di
fatto, dalla diagnosi che si
formula sull’ampiezza della
crisi attuale dell’impiego. Si è
profondamente deteriorato,
senza alcun dubbio, il
cosiddetto rapporto di lavoro
«fordista»,costruitosullabase
della grande industria, la cui
espansione è corrisposta allo
sviluppo del capitalismo
industriale. Ma si deve
assimilare la totalità degli
statuti
dell’impiego
al
rapporto
salariale
«fordista» 22?
Qualunque sia la risposta
fornita a tale questione, è
incontestabile che larghi
settori dell’impiego sono già
passatidaunregimestabilea
quellochepuòesseredefinito
un regime transitorio, che
comporta cambiamenti di
orientamento, biforcazioni,
periodi di interruzione e a
volte rotture. Ormai la
mobilità dell’impiego porta
con sé frequenti passaggi, o
transizioni,nonsoloinsenoa
unostessoimpiego,maanche
tradueimpieghie,avolte,tra
un impiego e la sua perdita
(disoccupazione). Di qui la
necessità di organizzare
queste
transizioni,
di
predisporre delle passerelle
traduecondizioni,chenonsi
tradurrebbero in una perdita
di risorse o in un degrado
dello statuto. Si tratta del
programma di «mercati
transizionali del lavoro che
concilierebbero mobilità e
protezioni» 23. I diritti sociali
di prelievo preconizzati dal
rapporto Supiot si inscrivono
in questa logica. Ma si può,
piú ampiamente, concepire
una batteria di «diritti di
transizione»
aperti
ai
lavoratori in modo «che una
serie di tappe non lavorative
ma socialmente segnalate
diventino parte integrante di
una carriera professionale
invececheinterromperla» 24.
In questa prospettiva, i
percorsi di formazione
dedicatialcambiamentosono
chiamati a occupare una
posizionepreponderante.Ben
oltre
la
formazione
permanente
attuale,
si
tratterebbe di creare un vero
diritto alla formazione dei
lavoratori, che li doterebbe,
lungo tutto il loro percorso
lavorativo, dei saperi e delle
qualifiche necessarie per far
fronte alla mobilità. Bernard
Gaziersottolineacheidanesi,
chesonoriuscitiamantenere
unasituazionedisemimpiego
in un quadro di sicurezza
flessibile (o «flessisicurezza»,
come viene definita), hanno
anche coniato il neologismo
learnfare,assistenzatramitela
formazione – che vuol
rimpiazzare il workfare
autoritario degli anglosassoni
– al fine di assicurare il
ritorno
all’impiego
migliorando
significativamente
le
qualificazionideilavoratori.
Queste iniziative non
permettono
ancora
di
disporre di un modello di
produzione di sicurezza
relativaallavorocheabbiala
stessaconsistenzadelmodello
classico.Malamisuradelloro
interesse è relativa alla
questione fondamentale che
affrontano: come conciliare
mobilità e protezioni dotando
illavoratoremobilediunvero
statuto? E ancora: come
considerare l’allargamento
considerevole delle nuove
forme di lavoro situate fuori
dal quadro dell’impiego
classico (vedi le speranze che
molti intravedono nello
sviluppo di un terzo o di un
quarto settore, di una
economia sociale o di una
economia solidale, eccetera),
senza che si tratti di lasciare
libero
corso
alla
proliferazione di attività a
statutodegradatoinrapporto
al diritto del lavoro e alla
protezione
sociale?
L’insicurezza del lavoro è
senzadubbiodivenutaciòche
era, d’altro canto, già prima
che si instaurasse la società
salariale:
la
grande
apportatrice d’incertezza per
la maggior parte dei membri
della società. Si tratta di
sapere se essa deve essere
accettatacomeundestinoche
l’egemonia del capitalismo di
mercato
ha
innestato
ineluttabilmente.
L’ampiezza
delle
deregolamentazioni
che
hanno
colpito
l’organizzazione del lavoro
nell’ultimo quarto di secolo,
oltre che la profondità delle
dinamiche
di
individualizzazione
che
riconfigurano il paesaggio
sociale,noncispingonoafar
mostra di un ottimismo
esagerato,manonperquesto
fanno del catastrofismo la
sola chiave di lettura
dell’avvenire. Il mutamento
recente del capitalismo ha
urtato con forza contro il
compromesso sociale della
società salariale, che aveva
equilibrato alla meno peggio
l’esigenza,
diretta
dal
mercato,diprodurrealminor
costoilmassimodiricchezze,
e l’esigenza di proteggere i
lavoratori che sono, tanto
quanto lo è il capitale, i
produttori
di
queste
ricchezze. Resta tuttavia
apertalaquestionesesitratti
di un periodo transitorio tra
due forme di equilibrio – tra
ilcapitalismoindustrialeeun
nuovo capitalismo, che si
esita ancora a definire 25 –,
cioè di un momento di
«distruzione creatrice», come
direbbe Schumpeter, oppure
del regime di crociera del
capitalismodidomani.Nonè
per niente evidente che le
forme piú selvagge di
strumentalizzazione
del
«capitaleumano»sianolepiú
adattealleesigenzedelnuovo
modo di produzione. Se il
lavoratore è chiamato a dar
prova di flessibilità, di
polivalenza, di senso di
responsabilità, di spirito di
iniziativa e di capacità di
adattamento ai cambiamenti,
può forse comportarsi in
questo modo senza un
minimo di sicurezza e di
protezioni? Il lavoro è forse
condannato a rimanere la
principale «variabile di
aggiustamento»
per
massimizzare i profitti? Si
comincia a profilare, anche
negli ambienti manageriali e
imprenditoriali, una certa
presadicoscienzadeglieffetti
controproducenti del burn
out dei lavoratori, e anche
degli effetti distruttivi, sulle
culture imprenditoriali, di
ristrutturazioni o di modalità
di management governate
esclusivamente da logiche
finanziarie 26. D’altronde non
è neppure evidente che il
rapporto di forza, cosí
globalmente sfavorevole ai
salariati
negli
ultimi
vent’anni, in un contesto
dominato
dalla
disoccupazionedimassa,resti
inalterato nell’avvenire, se
non altro per ragioni
demografiche 27. In ogni
modo, non si tratta di
profetizzare in che cosa
consisterà l’avvenire, ma
piuttosto di constatare la sua
relativa imprevedibilità; esso
dipenderàanchedaciòcheda
oggifaremoononfaremoper
tentare di governarlo. Questa
congiunturadiincertezzanon
vanifica la questione delle
protezioni ma ne sottolinea,
anzi, la bruciante attualità. Il
lavoro potrà essere, o non
essere, reso piú sicuro:
dall’esitodiquestaalternativa
dipenderà,inlargamisura,la
possibilità o l’impossibilità di
soffocare
il
riemergere
dell’insicurezzasociale.
1
Ricordo che per essere
esaustivi
sarebbe
necessario
integrare l’analisi con una
riflessionesuiservizipubblici,parte
importante della proprietà sociale.
L’esempio del crollo recente
dell’Argentina illustra a contrario
l’importanza di questa tematica.
L’insicurezza sociale nella quale
questo paese è ricaduto non
riguarda solo la crescita di una
povertà
di
massa,
la
precarizzazione delle condizioni
sociali, relative anche alle classi
medie, o una riduzione drastica
delle
prestazioni
sociali.
L’insicurezza sociale è anche la
conseguenza del crollo dei servizi
pubblici in un paese in via di
completa privatizzazione. Non
posso approfondire qui questo
argomento, ma il dibattito sulle
poste in gioco relative all’attuale
rimessa in discussione dei servizi
pubblici s’inscrive direttamente
nella tematica che intendo
sviluppare.
2 Si veda D. OLIVENNES , La
société de transfert, in «Le Débat»,
n. 69, marzo-aprile 1992. In
Francia i prelievi obbligatori
effettuati a partire dal lavoro
rappresentavano l’80 per cento
dellespeseperlaprotezionesociale
nel1997.
3 B. PALIER , Gouverner la
Sécurité
sociale,
Presses
Universitaires de France, Paris
2002,p.3.
4
[Participation
Active
RechercheEmploi.N.d.T.].
5 [Da intendersi come reddito
minimo
per
garantire
l’integrazione dei meno abbienti.
N.d.T.].
6 Le RMI à l’épreuve des faits,
Syros,Paris1991,p.63.
7 Si veda, ad esempio,
Évaluation de la politique de la
ville, Délégation interministérielle
de la ville, Paris 1993, capp. I-II .
Per un bilancio piuttosto
pessimista sulla «cittadinanza
locale», si veda C. JACQUIER , La
citoyenneté urbaine dans les
quartiers européens, in J. ROMAN (a
cura di), Ville, exclusion et
citoyenneté. Entretiens de la ville,
vol. II, Éditions Esprit, Paris 1993.
Per
un’attualizzazione
della
questione e per un confronto con
la situazione negli Stati Uniti si
veda J. DONZELOT , C. MEVEL e A.
WYVEKENS , Faire société, Éditions
duSeuil,Paris2003.
8 Il numero dei beneficiari dei
minimi sociali, in progressione
costante, non rappresenta tuttavia
che un po’ piú del 10 per cento
dellapopolazionefrancese.
9
Ineffetti,questodualismotra
protezioni forti e senza condizioni
costruiteapartiredallavoroeaiuti
mirati
verso
popolazioni
allontanate dal mercato del lavoro
ètropposchematico,perchéanche
sul versante delle protezioni
assicurative si esercitano forti
pressioni nel senso della loro
diversificazione in funzione delle
risorsedeibeneficiari.Cisiorienta,
a quanto sembra, verso una
riconfigurazione del regime delle
protezioni a tre poli, o a tre
velocità: 1. protezioni che
dipendono dalla «solidarietà
nazionale», finanziate dai tributi e
che garantiscono, nella logica
dell’assistenza, risorse e coperture
minimeallefascedellapopolazione
piú deprivate (per esempio la
copertura medica generalizzata e i
minimi sociali); 2. protezioni
assicurative
di
base,
che
continuano a essere costruite a
partire dall’impiego, ma con una
diminuzione dei rischi coperti e/o
della soglia della loro presa in
carico (per esempio, la riduzione
dei rischi salute e/o delle loro
aliquote
di
riscossione
direttamente
coperte
dalla
previdenza sociale); 3. protezioni
derivate
da
assicurazioni
complementariprivate,semprepiú
estese, che dipendono da scelte e
finanziamenti operati dai singoli
(per esempio, evoluzione dei
regimipensionisticinelsensodella
loro capitalizzazione almeno
parziale).Sullosfondosidisegnail
passaggio da uno Stato sociale
universalistico a uno Stato sociale
che funziona sulla base di una
discriminazione «positiva». Su
questopunto,siveda N. DUFOURCQ
,VersunÉtat-providencesélectif,in
«Esprit»,dicembre1994.
10 Si vedano le previsioni di
Jean-Michel Belorgey in questa
direzione (J.-M. BELORGEY et al.,
Refonder la protection sociale, La
Découverte,Paris2001).
11 A. DE TOCQUEVILLE , Mémoire
sur le paupérisme, Académie de
Cherbourg,1834.
12Siveda F.DUBET ,Prefazionea
D.
CASTRA
,
L’insertion
professionnelledespublicsprécaires,
Presses
Universitaires
de
France,Paris2003.
13 Si può qui ricordare l’analisi
classica di Pierre Bourdieu
sull’impossibile rapporto con il
futurodeisottoproletarialgerini: P.
BOURDIEU (conA.DABEL, J.-F.RIVET,
C. SEIBEL),Travailettravailleursen
Algérie,Mouton,Paris1964.
14 Per l’esplicitazione di questa
nozione di supporto, concepito
come lo zoccolo di risorse
necessarie per potersi comportare
positivamente da individuo, rinvio
aR.CASTELe C. HAROCHE,Propriété
privée, propriété sociale, propriété
desoi,Fayard,Paris2000.
15 Sul funzionamento delle
attuali commissioni locali di
inserimento dell’Rmi e sulle loro
insufficienze, si veda I. ASTIER ,
Revenu minimum et souci
d’insertion, Desclée de Brouwer,
Paris1997.
16
Su questa concezione
dell’inserimentocome«viastretta»
ma necessaria per promuovere
dellepolitichesocialiattive,siveda
anche P. ROSANVALLON,Lanouvelle
question sociale, Éditions du Seuil,
Paris 1995, cap. VI . C’è
teoricamente un’altra possibilità
per oltrepassare il carattere
stigmatizzantedeldirittoagliaiuti.
Si tratterebbe di accordare di
diritto,
a
tutti
incondizionatamente, un reddito
di sussistenza. Questa possibilità
apre un dibattito complesso, in
ragione soprattutto delle diverse
versioni proposte dai suoi
difensori: sussidio universale,
reddito di cittadinanza, reddito di
sussistenza,
reddito
sociale
garantito, eccetera. Cerchiamo di
riassumeremoltoschematicamente
la posizione che deriva da questa
riflessionesulleesigenzeminimedi
una politica di protezioni: nella
maggior parte delle versioni
previste,lacreazionediunreddito
minimo avrebbe piuttosto l’effetto
di aggravare la situazione e di
rendere irreversibile il degrado del
mercato del lavoro. Le soluzioni
elencate propongono in effetti un
reddito di sussistenza mediocre,
insufficientepercondurreunavita
decente, e che richiederebbe di
essere integrato ad ogni costo:
accettandoinparticolareunlavoro
a qualsiasi condizione. Separando
inmodonettolavoroeprotezioni,
il reddito minimo «libera» cosí il
mercatodellavoroerappresentala
sola
contropartita
«sociale»:
contropartita – auspicata d’altra
parte dagli ultraliberali quali
Milton
Friedman
–
al
dispiegamento di un liberalismo
selvaggio. Il reddito minimo
vanifica al tempo stesso tutti gli
sforzi delle politiche attive di
inserimento che assicurano un
rientro nel mercato del lavoro
ordinario. Le cose potrebbero
andare diversamente se si trattasse
di un reddito «sufficiente», per
riprendere l’espressione di André
Gorz, ritornato su questa opzione
dopo
averla
energicamente
combattuta (Miseria del presente,
ricchezza
del
possibile,
manifestolibri, Roma 1998): si
tratterebbe cioè di un reddito
sufficiente
per
assicurare
l’indipendenza
sociale
dei
beneficiari. Un reddito che si
dovrebbe calibrare senza dubbio,
mantenendosi su livelli modesti,
attorno al salario minimo: un
salariominimopertuttiicittadini,
senza nessuna contropartita di
lavoro.Anchesesitienecontodel
fatto che questa indennità farebbe
risparmiare altre prestazioni
sociali,
cosa
che
tuttavia
comporterebbe effetti nefasti, non
si vede come, dal punto di vista
politico, nel contesto attuale una
tale misura potrebbe avere una
minima possibilità di imporsi.
Questa forse è un’utopia, ma
possono anche esserci utopie
pericolosesesvianodallaricercadi
altre alternative. (Su questa
questione si veda, tra gli altri, un
numero speciale della rivista
«Multitudes», n. 8, 2002, che, a
prescindere dal mio contributo, va
nel senso della difesa e
dell’illustrazionediquestemisure).
17SivedaR.LAFORE,Ducontrat
d’insertion au droit des usagers, in
«Partage»,n.167,agosto-settembre
2003.
18 Si vedano, ad esempio, A.
GORZ , Miseria del presente,
ricchezza del possibile cit., e V.
FORRESTER , L’orrore economico,
Ponte alle Grazie, Firenze 1997,
cosí come tutti i profeti della fine
dellavorochesembravaavesseroil
vento in poppa qualche anno fa,
ma la cui influenza sembra oggi
fortunatamentesbiadita.
19 Per la costruzione di questo
statuto dell’impiego e la sua
diversità rispetto al contratto di
lavoro di ispirazione liberale, si
veda A. SUPIOT , Critique du droit
du travail, Presses Universitaires
de France, Paris 1994. Ci sono,
beninteso,
parecchi
statuti
dell’impiegoequellidellafunzione
pubblica sono senza dubbio i piú
protetti. Tuttavia tutti gli impieghi
classici, compresi quelli del settore
privato, sono impieghi a statuto,
protettidaldirittodellavoroedalla
protezionesociale.
20 A. SUPIOT(acuradi),Au-delà
de l’emploi, Flammarion, Paris
1999 [trad. it. Il futuro del lavoro,
Carocci,Roma2003].
21Ibid.,p.89.
22 Ritengo che si sia spesso
abusato dell’espressione «rapporto
salariale fordista» per qualificare
l’insieme degli impieghi della
società salariale, la cui gamma è
molto
vasta:
dall’operaio
specializzato
al
quadro,
dall’impiegatodelsettoreprivatoal
funzionario. Questa sottolineatura
nonèsenzaimportanzaallorchéci
si chiede in quale misura oggi si
debba andare «al di là
dell’impiego». Mi sembra che ci
siano ancora numerosi tipi di
impiegochecorrispondonoaquelli
che un tempo si chiamavano
«mestieri»: cioè qualificazioni
professionali
stabili,
che
assicuravanol’indipendenzasociale
dei loro possessori. Si correrebbe,
quindi, un rischio a liquidare
completamente
il
modello
dell’impiego:ilrischiodilasciareil
certo per l’incerto. Ho tentato una
prima esplicitazione di questo
punto di vista in R. CASTEL , Droit
du travail: redéploiment ou
refondation?,in«Droitsocial»,n.6,
maggio1999.
23
Si veda B. GAZIER , Tous
«sublimes». Vers un nouveau plein
emploi,Flammarion,Paris2003.
24Ibid.,p.162.
25 Sulle caratteristiche e sulla
natura di questo «nuovo
capitalismo», si veda uno
stimolante dibattito in C.
VERCELLONE (a cura di), Sommesnous sortis du capitalisme
industriel?cit.
26
Cfr. D. COHEN , Nos temps
modernes,Flammarion,Paris1999.
27
A partire dal 2006-2007 la
popolazione
attiva
francese
dovrebbe perdere una media di
circa300000lavoratoriognianno.
Cosa che fa auspicare ai piú
ottimisti un ritorno al pieno
impiego alla fine del primo
decennio del Duemila. Ma molto
dovrà essere fatto per facilitare il
nostroavvenire.
Conclusione
«Che Dio vi protegga!»;
questa espressione, cosí
popolare in epoche di fede
religiosa, esprimeva un
sentimento
allora
comunemente
condiviso:
affinchélacreaturaumanasia
davvero protetta contro tutti
gli imprevisti dell’esistenza, è
necessario – si pensava – che
un’Onnipotenza tutelare la
prenda integralmente in
carico.Inmancanzadiquesto
fondamento assoluto della
sicurezza, è ormai all’uomo
sociale che viene assegnato il
durocompitodicostruireegli
stesso le proprie protezioni.
Tuttoaccade,però,comeseil
ritiro di un garante
trascendente della sicurezza
avesse lasciato sussistere,
come una sua ombra
proiettata, un desiderio
assoluto di essere premuniti
contro tutte le incertezze
dell’esistenza. L’estensione
delleprotezionièunprocesso
storicodilungadurata,cheva
ampiamentediparipassocon
lo sviluppo dello Stato e con
le esigenze della democrazia:
esso non è mai stato, senza
dubbio, cosí onnipresente
come lo è oggi. Bisogna
tuttavia constatare che questi
dispositivi
multipli
di
protezione non placano
l’aspirazione alla sicurezza; al
contrario,essilarilanciano.A
torto o a ragione (ma questa
espressione non ha molto
senso, poiché non è di un
calcolo razionale che si
tratta),
l’uomo
contemporaneo
sembra
altrettanto tormentato dalla
preoccupazione della sua
sicurezza quanto lo erano i
suoi lontani antenati, che,
tuttavia, avevano buone
ragioni di temere per la loro
sopravvivenza.
Tenendo
presente questo paradosso,
l’itinerario storico-sociale qui
prospettato approda a due
proposizioni complementari
apparentemente
contraddittorie: denunciare
l’inflazione
della
preoccupazione di sicurezza,
e affermare l’importanza
essenziale del bisogno di
protezioni.
Denunciare
l’inflazione
della preoccupazione di
sicurezza perché questo
atteggiamento dissolve, in fin
dei conti, la possibilità stessa
diessereprotetti.Essocolloca
la paura nel cuore della vita
associata, e questa paura è
sterile se ha per oggetto gli
imprevistiincontrollabili,che
rappresentano il destino di
ogni
esistenza
umana.
Abbiamo sottolineato come
gli slittamenti recenti della
riflessione
sul
rischio
alimentassero una mitologia
della sicurezza, o piuttosto
dell’insicurezza assoluta, che
approda, al limite, a un
diniego della vita. Bisogna
ricordare la profonda lezione
diItaloSvevonellaCoscienza
diZeno:
La vita somiglia un poco
allamalattiacomeprocedeper
crisi e lisi ed ha i giornalieri
miglioramenti
e
peggioramenti. A differenza
delle altre malattie la vita è
sempremortale.Nonsopporta
cure. Sarebbe come voler
turareibuchicheabbiamonel
corpo credendoli delle ferite.
Morremmo strangolati non
appenacurati 1.
Lavitaèunrischio,poiché
l’incontrollabileèinscrittonel
suo
svolgimento.
Bisognerebbe
interrogarsi
meglio sull’attuale inflazione
della preoccupazione di
prevenzione,
che
è
strettamente
correlata
all’inflazione
della
preoccupazione di sicurezza.
Senza alcun dubbio è meglio
prevenire che guarire, ma le
tecnologie efficaci per la
prevenzione sono di numero
limitato, e raramente sono
infallibili. L’ideologia della
prevenzione generalizzata è
quindi
condannata
al
fallimento. Ma il desiderio
travolgente, che essa implica,
di sradicare il pericolo
alimenta
una
forma
d’angoscia, senza dubbio
specificadellamodernità,che
èinesauribile.Senzacedereal
pathos, è salutare ricordare
chel’uomosicaratterizzaper
la sua finitudine, e che la
consapevolezza di essere
mortaleèperluil’iniziodella
saggezza.
Rifiutaretuttaviailmitodi
una sicurezza totale conduce
a difendere al tempo stesso il
fatto che la propensione a
essere protetti esprime una
necessità inscritta nel cuore
della condizione dell’uomo
moderno. Come hanno ben
visto i primi pensatori della
modernità, a partire da
Hobbes, l’esigenza di vincere
l’insicurezza
civile
e
l’insicurezza
sociale
è
all’originedelpattochefonda
una società di individui. Di
recentesiètantodettoetanto
scritto sull’insicurezza civile,
chemiatterrò,alproposito,a
ciò che proponevo in
precedenza: la ricerca della
sicurezza assoluta rischia di
entrareincontraddizionecon
iprincipîdelloStatodidiritto
e precipita facilmente in
pulsione sicuritaria che
degenera nella caccia ai
sospetti e si appaga con la
condannadicapriespiatori.Il
fantasma di «nuove classi
pericolose» che sarebbero
costituite dai giovani delle
periferie esemplifica questo
tipodispostamento.Tuttavia,
la ricerca della sicurezza
esprime un’esigenza che non
èsoltantounaffaredipolizia,
di giudici e del ministero
degli Interni. La sicurezza
dovrebbe appartenere ai
diritti sociali nella misura in
cui l’insicurezza rappresenta
unagraveviolazionedelpatto
sociale.
Vivere
nell’insicurezza giorno per
giornosignificanonpoterpiú
fare società con i propri
simili: significa abitare il
proprio ambiente sotto il
segno della minaccia, e non
dell’accoglienza e dello
scambio. Questa insicurezza
quotidiana è tanto piú
ingiustificabile quanto piú
colpisce
soprattutto
le
persone maggiormente prive
di altre risorse attinenti al
reddito, all’habitat e alle
protezioni fornite da una
situazionesocialegarantita:si
trattaditutticolorochesono
anche
le
vittime
dell’insicurezza
sociale.
Anche senza pronunciarsi
sulla questione delle cause –
in quale misura l’insicurezza
civile è la conseguenza
dell’insicurezza sociale? –
esistono almeno delle forti
correlazioni tra il fatto di
vivere quotidianamente la
minaccia dell’insicurezza e il
fatto di essere in preda alle
difficoltà
materiali
dell’esistenza.
Ragione
sufficiente,
questa,
per
rifiutare ogni forma di
angelismo e per pensare che
l’insicurezza civile debba
essere
energicamente
combattuta;
combattuta,
tuttavia, non con mezzi
qualsiasi: il punto di
equilibrio, infatti, tra la
sicurezzapubblicaeilrispetto
dellelibertàcivilièdifficileda
trovare.
Oggi,tuttavia,l’insicurezza
deve essere certamente
combattuta anche, e per
molti, attraverso la lotta
contro l’insicurezza sociale,
cioè
sviluppando
e
riconfigurando le protezioni
sociali. In effetti: che cosa
significaessereprotettiinuna
società moderna? Lo schiavo
era spesso protetto se non
aveva un padrone troppo
cattivo, e d’altra parte i
padroni avevano interesse a
procurare ai loro schiavi
almeno le risorse minime
necessarie per garantire la
loro sopravvivenza. Nella
famigliapatriarcale,ledonne,
i figli e i domestici erano
protetti, e spesso anche il
vecchio servitore o la vecchia
serva, quando non erano piú
utili, non erano per questo
abbandonati. I rapporti
clientelari, le mafie, le sette e
tutte le Gemeinschaften
tradizionali
procurano
sistemi di protezione potenti,
ma che si pagano con una
profondadipendenzadeiloro
membri.Fatto,questo,chedà
alla dichiarazione formulata
da Saint-Just nel momento
della
Rivoluzione
una
risonanza
profondamente
moderna:«Daremodoatutti
ifrancesidiottenereleprime
necessità della vita senza
dover dipendere da qualcosa
di diverso dalle leggi e senza
creare vincoli di dipendenza
reciproca all’interno dello
Statocivile» 2.
Dopoduesecolidiconflitti
e di compromessi sociali, lo
Stato,nellasuaformadiStato
nazional-sociale,
aveva
«dato», al di là delle «prime
necessitàdellavita»,lerisorse
necessarie perché tutti, o
quasi tutti, potessero godere
di
un
minimo
di
indipendenza. In una società
di individui, essere protetti
dal punto di vista sociale
significaprecisamentequesto:
che gli individui dispongono,
di diritto, delle condizioni
sociali minime della loro
indipendenza. La protezione
sociale diventa cosí la
condizione di possibilità per
formareciòchehochiamato,
con Léon Bourgeois, una
società di simili: un tipo di
formazionesocialeall’interno
della quale non esistono
esclusioni, poiché ognuno
dispone delle risorse e dei
diritti
necessari
per
mantenere
relazioni
di
interdipendenza (e non solo
di dipendenza) con tutti. Si
tratta di una definizione
possibile della cittadinanza
sociale. È anche una
formulazione sociologica di
ciò che in termini politici
viene
chiamata
una
democrazia.
Si sa che da un quarto di
secolo l’edificio di protezioni
costruito nel quadro della
società salariale si è incrinato
econtinuaasgretolarsisottoi
colpi inferti dalla crescente
egemonia del mercato. La
profondità e il carattere
irreversibile
di
tali
trasformazioni fanno sí che
risulti impossibile mantenere
stabili questi dispositivi. Ma
l’ampiezza dei cambiamenti
mette anche in evidenza fino
a che punto sia urgente
tentare di ridisporli nella
nuova
congiuntura,
considerando seriamente a
che cosa porterebbe il loro
abbandono. Non avendo
ricette
miracolose
da
proporre,misonosoprattutto
sforzato, qui, di precisare le
linee di frattura che
ridisegnano
oggi
la
configurazione
delle
protezioni, fino a minacciare
di rimettere in discussione la
possibilità di continuare a
formare una società di simili.
Per concludere in modo
sintetico, mi sembra che la
postaingiocoprincipaledella
problematica delle protezioni
sociali si situi oggi nel punto
diintersezionetraillavoroeil
mercato. Tutto questo è
comprensibile a partire dalla
questione centrale posta da
Karl Polanyi e che resta di
bruciante attualità: si può (e
sesí,inqualemisuraecome)
addomesticare il mercato?
Infatti, come si è sottolineato
ricordando il ruolo giocato
dalla proprietà sociale nella
costruzione di una società di
sicurezza, è un certo
addomesticamento
del
mercato che ha permesso in
larga misura di vincere
l’insicurezza sociale. Ed è
proprio anche una certa
ricommercializzazione
del
lavoro che si rivela come la
principale responsabile del
riaffiorare
di
questa
insicurezza sociale, attraverso
l’erosionedelleprotezioniche
eranostatelegateall’impiego,
provocando
la
destabilizzazione
della
condizionesalariale.
Questeconsiderazioninon
devono tuttavia condurre a
condannare il mercato.
«Condannare il mercato» è
d’altrondeun’espressioneche
non ha, rigorosamente,
nessun senso. Centralità del
mercato e centralità del
lavoro sono le caratteristiche
essenziali di una modernità
alla quale apparteniamo
comunque, anche se il
rapportotramercatoelavoro
si
è
profondamente
trasformatodaquandoAdam
Smith
li
sosteneva
contemporaneamente. Senza
dubbio vediamo svilupparsi
interessanti sperimentazioni
sociali che si inscrivono ai
margini o negli interstizi
dell’economiadimercato.Ma
è escluso – e direi anche che
non è auspicabile – che esse
possano
rappresentare
un’alternativa
globale
all’esistenzadelmercato.Una
societàsenzamercatosarebbe
infatti
una
grande
Gemeinschaft, cioè una
maniera di fare società la cui
storia, sia antica che recente,
ci mostra che essa è stata
generalmente strutturata da
spietatirapportididominioo
da
umilianti
relazioni
paternalistichedidipendenza.
Sopprimere
il
mercato
rappresenta
un’opzione
propriamente
reazionaria,
una sorta di utopia a ritroso
della quale Marx si è già
burlato evocando «il mondo
incantato
dei
rapporti
feudali». Non c’è modernità
possibilesenzamercato.
La questione è allora
proprio quella di capire se è
possibile porre dei limiti
all’egemonia del mercato:
arginare il mercato. Ciò è
accaduto, nell’ambito della
società salariale, grazie alla
grande rivoluzione silenziosa
rappresentata
dalla
costituzione della proprietà
sociale: frutto di un
compromessotrailmercatoe
il lavoro sotto l’egida dello
Stato.Ogginéilmercato,néil
lavoro, né lo Stato hanno la
stessa struttura, ma la
questione
della
loro
articolazione
si
pone
comunque.
Al
lavoro
divenutomobileealmercato
divenuto volatile doveva
corrispondere uno Stato
socialedivenutoflessibile.Uno
Statosocialeflessibileeattivo
rappresentanonunasemplice
formula retorica ma la
formulazione di un’esigenza
(che non implica la certezza
della sua realizzazione):
un’istanza
pubblica
di
regolazione è piú che mai
necessaria per inquadrare
l’anarchiadiunmercatoilcui
regno assoluto sfocerebbe in
unasocietàscissatravincenti
e perdenti, benestanti e
miserabili, inclusi ed esclusi.
Il contrario di una società di
simili.
Far fronte alle insicurezze
significa combattere con la
stessa intensità l’insicurezza
civile e l’insicurezza sociale.
Esisteoggiunconsensomolto
diffusosulfattoche,alfinedi
garantirelasicurezzacivile(la
sicurezza dei beni e delle
persone), sia richiesta una
forte presenza dello Stato:
bisogna difendere lo Stato di
diritto.Lostessodiscorsovale
per
la
lotta
contro
l’insicurezza
sociale:
bisognerebbe salvare lo Stato
sociale. A meno che non si
trattidiunasocietàcomposta
da individui scissi o
atomizzati, non può esistere,
infatti, «società di individui»
senzachedeisistemipubblici
di
regolazione
non
impongano, in nome della
coesione
sociale,
la
preminenza di un garante
dell’interesse generale sulla
concorrenza tra gli interessi
privati.
Questa
istanza
pubblica – bisognerebbe
piuttosto dire queste istanze,
centrali e locali, nazionali e
transnazionali–hailcompito
di trovare il proprio modus
operandi in un mondo
caratterizzato dal doppio
sigillodell’individualizzazione
e dell’obbligo alla mobilità. Il
meno che si possa dire è che
questo non è poca cosa:
abbiamo infatti l’abitudine di
pensare i poteri dello Stato
attraverso
grandi
regolamentazioni omogenee
chesiesercitanoinunquadro
nazionale.Maèsenzadubbio,
insintoniaconlacongiuntura
contemporanea,l’unicomodo
di rispondere alla domanda:
«chesignificaessereprotetti?»
1I.SVEVO,LacoscienzadiZeno,
Garzanti,Milano1985,p.424.
2 L.-A.-L. SAINT-JUST , Fragments
surlesinstitutionsrépublicaines, in
ID. ,Œuvres complètes, a cura di C.
Nodier,Paris1984,p.969.
Il libro
«S
E OGGI SI PUÒ
parlare di un
riemergere
dell’insicurezza, è
in larga misura perché
esistono
frange
della
popolazione ormai convinte
di essere state lasciate ai
margini
del
percorso,
incapacidicontrollareilloro
futuro in un mondo sempre
piú
segnato
dal
cambiamento».
Un senso d’insicurezza
domina le nostre vite.
Temiamo di venir aggrediti
per strada o in casa.
Paventiamo di perdere il
lavoro,dinonottenere
la pensione, di cadere malati
senza poterci curare. È vero
che le protezioni dalla
violenza e dai rischi
dell’esistenzasonoancoroggi
piú elevate di quanto non
fossero un secolo fa. Accade
peròcheambedueigeneridi
protezione vengano oggi
erosi da un’ideologia che
attribuisce solo all’individuo
la responsabilità dei suoi
mali, e da un sistema
produttivo che divide le
persone – classificazione
abbietta–invincitorievinti.
Per accrescere la sicurezza
materiale dei beni e delle
persone, nota l’autore,
bisogna difendere lo Stato di
diritto. Per contrastare
l’insicurezzadinanzialfuturo
occorre salvare lo Stato
sociale, dotandolo della
capacità di far fronte alle
contingenze generate dalla
ipermobilità del lavoro e
dall’anarchia dei mercati. A
ricondurre entro limiti
ragionevoli l’una e l’altra
dovrebbe
provvedere,
potremmo aggiungere, lo
Statosenzaaggettivi.
LucianoGallino
L’autore
Robert Castel, sociologo e
storico, è direttore di
ricercaall’Écoledeshautes
étudesensciencessociales.
Tra
le
sue
opere
ricordiamoMétamorphoses
de la question sociale
(1995) e, con Claudine
Haroche, Propriété privée,
propriété sociale, propriété
de soi (2000). Per Einaudi
ha
pubblicato
Lo
psicanalismo. Psicanalisi e
potere(1975).
Dello stesso
autore
Lopsicanalismo.Psicanalisie
potere
TitolooriginaleL’insécurité
sociale.Qu’est-cequ’êtreprotégé?
©ÉditionsduSeuil-La
RépubliquedesIdées,ottobre
2003
©2004e2011GiulioEinaudi
editores.p.a.,Torino
Incopertina:fotoJeffreyCoolidge
/TheImageBank/GettyImages.
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