LDB RobertCastel L’insicurezza sociale Chesignificaessere protetti? TraduzionediMario GalzignaeMaddalena Mapelli Einaudi Introduzione Sipossonodistingueredue grandi tipi di protezioni. Le protezioni civili garantiscono le libertà fondamentali e assicurano la sicurezza dei beni e delle persone nell’ambito di uno Stato di diritto. Le protezioni sociali «coprono»controiprincipali rischi che sono in grado di provocare un degrado della condizione degli individui: rischi come la malattia, l’infortunio, la mancanza di denaro durante la vecchiaia, gli imprevisti dell’esistenza, che possono sfociare, al limite, nel declassamento sociale. Da questo doppio punto di vista, viviamo senza dubbio–perlomenoneipaesi sviluppati – nelle società piú sicure finora mai esistite. Le comunità non ben pacificate, dilaniate da lotte intestine, dovelagiustiziaerasbrigativa e l’arbitrio permanente, sembrano, viste dall’Europa occidentaleodall’Americadel Nord, l’eredità di un lontano passato. Lo spettro della guerra, questa terribile portatrice di violenza, si è anch’esso allontanato: ormai si aggira e a volte imperversa ai confini del mondo civilizzato. Allo stesso modo, si è allontanata da noi quel tipo d’insicurezza sociale permanente che derivava dalla vulnerabilità delle condizioni di vita e condannava, un tempo, una granpartedelpopoloavivere «allagiornata»,allamercédel minimo incidente di percorso. Le nostre esistenze non si sviluppano piú dalla nascitaallamortesenzaretidi sicurezza. Quella che correttamente chiamiamo «sicurezzasociale»èdivenuta un diritto per la stragrande maggioranza della popolazioneehadatoorigine a una moltitudine di istituzioni sanitarie e sociali che si fanno carico della salute, dell’educazione, delle incapacità connesse all’età, delle deficienze fisiche e mentali. A tal punto che si è potuto descrivere questo tipo di società come «società assicuranti», che assicurano, inqualchemododidiritto,la sicurezzadeiloromembri. Tuttavia, in queste società circondate e attraversate da protezioni, le preoccupazioni relative alla sicurezza rimangonoonnipresenti.Non possiamo certamente eludere il carattere inquietante di questa constatazione sostenendo che il sentimento di insicurezza non sia che un fantasma tipico dei benestanti, i quali avrebbero dimenticato sia il prezzo che veniva pagato in termini di sangue e di lacrime sia il livellodidurezzaedicrudeltà dellavitadiuntempo.Questo sentimento di insicurezza comporta tali effetti sociali e politici da entrare davvero a far parte della nostra realtà e da strutturare persino, in larga misura, la nostra esperienza sociale. Bisogna convenirne: mentre le forme piú pesanti della violenza e deldegradosocialesonostate ampiamente stroncate, l’assillo della sicurezza è una preoccupazione popolare, nel sensofortedeltermine. Come rendere conto di questo paradosso? Esso ci porta a ipotizzare che non bisognerebbe opporre insicurezzaeprotezionicome se appartenessero a due registri contrapposti dell’esperienza collettiva. L’insicurezza moderna non sarebbe l’assenza di protezioni, ma piuttosto il loro rovescio: la loro ombra, proiettata in un universo sociale che si è organizzato attorno a una richiesta senza fine di protezioni o attorno a una travolgente ricerca di sicurezza. Cosa significa essere protetti in tali condizioni? Non vuol dire radicarsi nella certezza di poterdominareperfettamente tutti i rischi dell’esistenza; vuol dire piuttosto vivere circondati da sistemi sicuritari che sono costruzionicomplesseefragili e che portano in se stessi il rischio di fallire nel loro compito e di deludere le aspettative che producono. L’insicurezza verrebbe cosí creata proprio dalla ricerca delleprotezioni,perlabuona ragione che il sentimento di insicurezza non è un dato immediato della coscienza. Esso,alcontrario,èconnesso a configurazioni storiche differenti, poiché la sicurezza e l’insicurezza sono rapporti relativi ai tipi di protezioni cheunasocietàassicuraonon assicurainmanieraadeguata. Oggi, in altri termini, essere protetti significa anche essere minacciati. La sfida da raccogliere consisterebbe allora nel comprendere meglio la configurazione specifica di queste relazioni ambigue tra protezione e insicurezza, oppure tra assicurazioni e rischi, nella societàcontemporanea. Per convalidare questa ipotesi proporremo qui un percorso analitico. Il filo conduttore è la convinzione secondo cui le società moderne sono costruite sul terreno dell’insicurezza poiché sono società di individui che non riescono a trovare una garanzia di protezione né in se stessi né nell’immediato entourage. Se è vero che queste società si sono dedicate alla promozione dell’individuo, è altrettanto vero che esse promuovono anche la sua vulnerabilità proprio nel momento in cui lo valorizzano. Ne risulta che la ricerca delle protezioni appartiene in maniera sostanziale allo sviluppo di questo tipo di società. Ma questa ricerca assomiglia, per certi versi, agli sforzi impiegati per riempire una botte piena di fori – come quella delle Danaidi – che lascia sempre filtrare il pericolo. Il sentimento di insicurezza non è del tutto proporzionaleaipericolireali che minacciano una popolazione. Esso è piuttosto l’effetto di un dislivello tra un’aspettativa socialmente costruita di protezioni e le capacità effettive, da parte di una determinata società, di farle funzionare. L’insicurezza, insomma, è in larga misura il rovescio della medaglia di una società che garantiscelasicurezza. Idealmente, bisognerebbe ridisegnare una storia della realizzazionediquestisistemi di protezione e delle loro trasformazionichearrivifino aoggi:ecioèfinoalmomento in cui la loro efficacia appare difettosa, sia a causa dell’aumentata complessità dei rischi che si ritiene debbano essere stroncati da tali sistemi, sia a causa dell’apparizione di nuovi rischi e di nuove forme di sensibilità ai rischi. Programma che non potrà, evidentemente, essere qui realizzato in modo esaustivo. Ci si accontenterà di tratteggiarequestopercorsoa partiredalmomentoincuila problematica delle protezioni si ridefinisce attorno alla figura dell’individuo moderno, che vive l’esperienza della propria vulnerabilità. Ma si insisterà anche sulla differenza tra i due tipi di «copertura» che tentano di eliminare l’insicurezza. Vi è una problematica delle protezioni civili e giuridiche, che rinvia alla costituzione di uno Stato di diritto e agli ostacoli affrontati per radicarle il piú vicino possibile alle esigenze espresse dagli individui nella loro vita quotidiana. E vi è una problematica delle protezioni sociali, che rinvia alla costruzione di uno Stato sociale e alle difficoltà che esso incontra per poter assicurare l’insieme degli individui contro i principali rischi sociali. La questione dell’insicurezza contemporanea potrà chiarirsi, speriamo, se si coglie la natura degli ostacoli frapposti alla realizzazione di un programma di sicurezza totale – ostacoli presenti in ciascuno di questi due assi della problematica delle protezioni – e inoltre se si prende coscienza dell’impossibilità di fare in modochequestidueordinidi protezioni coincidano completamente. Si sarà allora in grado, forse, di comprendere perché proprio l’economia delle protezioni produce una frustrazionesicuritaria, la cui esistenza appartiene in maniera sostanziale alle società che si costruiscono attorno alla ricerca della sicurezza. E questo per due ragioni. In primo luogo perché i programmi di protezione, non potendo mai essere realizzati pienamente, producono delusione e perfino risentimento. In secondoluogoperchéunloro successo, anche relativo, dominando certi rischi ne fa emergeredinuovi.Èquelche accade oggi con l’eccezionale esplosione di questa nozione di rischio. Una tale esasperazionedellasensibilità verso i rischi mostra assai bene che la sicurezza non è mai data, e neppure conquistata, poiché l’aspirazioneadessereprotetti si sposta come un cursore e pone nuove esigenze, man mano che i suoi obiettivi precedenti stanno per essere raggiunti.Cosí,rifletteresulle protezioni civili e sulle protezioni sociali significa anche, necessariamente, interrogarsi sulla proliferazione contemporanea di un’avversione al rischio, la quale fa sí che l’individuo contemporaneo non possa mai sentirsi totalmente al sicuro. In effetti, chi ci proteggerà – a parte Dio o la morte–seperesseredeltutto tranquilli bisogna poter dominare completamente tutti gli eventi imprevedibili dellavita? Questa presa di coscienza della dimensione propriamente infinita dell’aspirazioneallasicurezza, cosícomeemergenellenostre società, non deve tuttavia portarci a rimettere in discussionelalegittimitàdella ricerca di protezioni. Al contrario, tale presa di coscienza è la tappa critica necessaria che occorre attraversare, al fine di individuare il percorso oggi necessario per far fronte alle insicurezze nella maniera piú realistica: si tratta di combattere i fattori di dissociazionesocialechesono all’origine sia dell’insicurezza civile sia di quella sociale. Cosí facendo, non troveremo la garanzia di essere liberati da tutti i pericoli, ma potremmo conquistare l’opportunità di abitare un mondo meno ingiusto e piú umano. L’INSICUREZZASOCIALE Capitoloprimo LasicurezzacivilenelloStato didiritto Proponevamodiassegnare all’insicurezza differenti configurazionistoriche.Vene sono di «premoderne». Allorché dominano i legami intessutiattornoallafamiglia, al lignaggio e ai gruppi di prossimità, e allorché l’individuo è definito dal posto che occupa in un ordine gerarchico, la sicurezza, nelle sue linee essenziali, è garantita sulla basedell’appartenenzadiretta a una comunità e dipende dalla forza di questi legami comunitari. Si può parlare allora di protezioni ravvicinate. Cosí, a proposito dei tipi di comunità paesane che hanno dominato l’Occidente medievale, Georges Duby parla di «società inquadrate, assicurate, garantite» 1. Parallelamente, in città, l’appartenenza a gruppi di mestiere (gilde, rappresentanze,corporazioni) inscrive i loro membri all’interno di sistemi ben dotatisiadicostrizionichedi protezioni: sistemi che garantiscono sicurezza a questistessimembrialprezzo della loro dipendenza dal gruppo di appartenenza. Si tratta delle stesse società che sono continuamente esposte alle devastazioni della guerra eairischidellapenuria,delle carestie e delle epidemie. Ma sono aggressioni che minacciano la comunità dal di fuori e possono anche, al limite, annientarla. Tali società, tuttavia, come dice Duby,sono«assicurate»dase stesse: esse proteggono i loro membrisullabasedifittereti di dipendenza e di interdipendenza. In queste società – la cui descrizione siamo qui obbligati a semplificare – esiste evidentemente anche un’insicurezza interna. Ma essaèveicolatadagliindividui e dai gruppi che non sono collegati ai sistemi di dipendenze e di protezioni a carattere comunitario. Nelle societàeuropeepreindustriali, questo pericolo si è cristallizzato attorno alla figura del vagabondo, cioè attorno all’individuo asociale per eccellenza, che vive al tempo stesso fuori da ogni inscrizioneterritorialeefuori dalla realtà del lavoro. La questione del vagabondaggio è stata la grande questione sociale di queste società; essa ha mobilitato un numero impressionante di misure prevalentemente repressive, per tentare – invano, d’altra parte – di sradicare questa minaccia di sovversione interna e di insicurezza quotidiana, che si riteneva fosse rappresentata dai vagabondi. Se si volesse scrivere una storia dell’insicurezza e della lotta contro l’insicurezza nelle società preindustriali, il personaggio principale sarebbe il vagabondo – sempre vissuto come potenzialmente minaccioso – assieme alle sue varianti scopertamente pericolose comeilbrigante,ilbandito,il fuorilegge: tutti individui senza legami, che rappresentano un rischio di aggressione fisica e di disgregazione sociale poiché esistonoeagisconoaldifuori diognisistemadiregolazioni collettive. Modernitàevulnerabilità. Con l’avvento della modernità, lo statuto dell’individuo cambia radicalmente. L’individuo viene riconosciuto di per se stesso, indipendentemente dallasuainscrizioneinambiti collettivi. Ma non è, per ciò stesso, garantito nella sua indipendenza.Alcontrario.È stato senza dubbio Thomas Hobbes a fornire il primo ritratto, spaventoso e affascinante, di ciò che sarebbe davvero una «società di individui». Testimone, attraverso le guerre di religione in Francia e la guerra civile inglese, della destabilizzazionediunordine sociale fondato sulle appartenenze collettive e legittimato dalle credenze tradizionali,Hobbesspingeal limite la dinamica dell’individualizzazione, fino alpuntoincuiessalascerebbe gli individui interamente abbandonati a se stessi. Una società di individui non sarebbe piú, propriamente parlando,unasocietàmauno statodinatura,cioèunostato senza legge, senza diritto, senza costituzione politica e senza istituzioni sociali, in preda a una concorrenza sfrenata degli individui tra di loro, alla guerra di tutti controtutti. Questa sarebbe di fatto una società d’insicurezza totale. Liberati da ogni regolazione collettiva, gli individui vivono sotto il segno della minaccia permanente poiché non possiedono in se stessi il potere di proteggere e di proteggersi. Anche la legge del piú forte non può stabilizzare la situazione, poichéDavidepotràuccidere Golia e il forte potrà sempre essere annientato, se non altro da uno piú debole che abbia il coraggio di assassinarloduranteilsonno. Si ritiene, da allora, che il bisogno di essere protetto possa essere l’imperativo categorico che sarebbe necessario assumere a qualunque prezzo per poter vivere in società. Questa società sarà fondamentalmente una società di sicurezza, dal momentochelasicurezzaèla condizione prima e assolutamente necessaria affinché gli individui, slegati dalle costrizioni-protezioni tradizionali, possano «fare società». Si sa che Hobbes ha visto nell’esistenza di uno Stato assoluto il solo mezzo per garantire questa sicurezza delle persone e dei beni, ed egli gode generalmente per questo di una cattiva reputazione. Ma bisogna senzadubbioavereunpo’del coraggio intellettuale di Hobbes per sospendere un istante il legittimo orrore che può suscitare il dispotismo del Leviatano; per comprendere che esso non è che la risposta ultima, ma necessaria, all’esigenza di protezione totale: esigenza chedipendedaunbisognodi sicurezza che ha profonde radici antropologiche. Se è estremo il potere è buono, sostiene Hobbes, poiché è utile alla protezione; ed è nellaprotezionecherisiedela sicurezza 2. Anche Max Weber, in una forma piú sfumata che non ha sollevato controversie,diràcheloStato deve monopolizzare l’esercizio della violenza. Ma soprattutto c’è una contropartita all’analisi di Hobbes, sottolineata meno spesso. Mobilitando tutti i mezzinecessaripergovernare gli uomini, cioè monopolizzandotuttiipoteri politici, lo Stato assoluto liberagliindividuidallapaura e permette loro di esistere liberamente nella sfera privata.L’orribileLeviatanoè anche questo potere tutelare, che permette all’individuo di viverecomepiúgliaggradae di pensare ciò che vuole nel suoforointeriore,cheregolail rispetto delle credenze religiose antagoniste (in un periodo di fanatismo religioso, non è poco) e la capacità di ciascuno di fare ciò che crede e di godersi in pace i frutti della propria operosità.Ilprezzodapagare nonèdipococonto,poichési trattadirinunciaredeltuttoa intervenire negli affari pubblici, accontentandosi di subire il potere politico. Ma neppure i suoi effetti sono trascurabili, poiché si tratta della condizione di esistenza di una società civile e della pace civile di cui solo uno Stato assoluto può essere il garante.All’ombradelloStato protettore, l’uomo moderno potrà tranquillamente coltivare la sua soggettività, lanciarsi alla conquista della natura, trasformarla con il suo lavoro e fondare la propria indipendenza sulle sue capacità personali. Hobbes afferma anche la necessità di un ruolo di protezione sociale dello Stato a favore degli individui in condizioni di bisogno: «E poiché molti uomini, per accidenti inevitabili, si riducono nell’impossibilità di mantenersi col proprio lavoro, non bisogna lasciarli alla carità dei privati, ma bisogna provvederli, per quanto le necessità di natura richiedono, con le leggi dello Stato» 3. Non voglio fare l’apologia di Hobbes, ma ritengo che egli abbia fatto emergere uno schema molto forte per cogliere le profonde poste in gioco della questione delle protezioni nelle società moderne. Essere protetti non èunostato«naturale».Èuna situazione costruita, dato che l’insicurezza non è una peripezia in cui ci si imbatte in maniera piú o meno accidentale, ma una dimensionecheappartienein maniera sostanziale alla coesistenza degli individui in una società moderna. Questa coesistenza con gli altri è senza alcun dubbio un’opportunità, se non altro per il fatto che essa è necessaria per formare una società. Tuttavia – senza che se ne abbiano a male tutti coloro che celebrano ingenuamente i meriti della società civile – essa è anche una minaccia, a meno che non ci sia una «mano invisibile» per armonizzare a priorigliinteressi,idesiderio la volontà di potenza degli individui. Perciò una costruzione di protezioni che nonsiaccontentidiratificare le modalità immediate del «viverecon»èunanecessità,e ha un prezzo. Hobbes ha collocato molto in alto – senzadubbiotroppoinalto– il prezzo da pagare per portare a termine questa svolta. Se è vero però che l’insicurezza appartiene in maniera sostanziale a una società di individui, e che bisogna necessariamente combatterla affinché essi possano coesistere in seno a uno stesso insieme, questa esigenza implica anche la mobilitazione di una batteria dimezzichenonsarannomai inoffensivi: in primo luogo l’istituzione di uno Stato dotato di un potere effettivo, che gli consenta di svolgere questoruolodifornitoredelle protezioni e di garante della sicurezza. D’altronde, se Hobbes gode di una reputazione alquanto sinistra, a ben guardare non fa che anticipare, in una forma paradossale e provocatoria, una parte importante di quellachediventeràlavulgata dei liberali, della quale si potranno trovare tracce fino ai nostri giorni. A partire da John Locke, che passa, proprio lui, per il padre alquanto bonario del liberalismo. Trent’anni dopo Hobbes, Locke celebra con ottimismo quest’uomo moderno che, attraverso il libero dispiegamento delle sue attività, costruisce la propria indipendenza grazie al lavoro e diviene simultaneamenteproprietario di se stesso e dei suoi beni: «per proprietà, qui come altrove,intendoquellachegli uominihannotantodelleloro persone quanto dei loro beni» 4. Datochel’individuononè piú catturato entro reti tradizionali di dipendenza e di protezione, è la proprietà cheprotegge.Laproprietàèlo zoccolodirisorseapartiredal quale un individuo può esisteredipersestesso,senza dipendere da un padrone o dalla carità altrui. È la proprietà che garantisce la sicurezza di fronte agli imprevisti dell’esistenza, alla malattia, all’infortunio, alla miseria di chi non può piú lavorare. E a partire dal momentoincuil’individuoè chiamato a scegliere i propri rappresentanti sul piano politico,èsemprelaproprietà che assicura l’autonomia del cittadino, libero, grazie ad essa,nellesueopinionienelle sue scelte: un cittadino che non si può prezzolare per garantirsene il voto né intimidire per formarsi una clientela. In una Repubblica moderna,dicuiLockedelinea laconfigurazione,laproprietà èilsupportoinevitabilegrazie alqualeilcittadinopuòessere riconosciuto come tale nella suaindipendenza. Ma Locke vede bene anch’eglichequestasovranità sociale del proprietario non basta a se stessa, e che l’esistenza di uno Stato è necessaria, affinché l’individuo disponga della libertà di sviluppare le sue iniziativeedigodereinpacei frutti del suo lavoro. Ciò è cosíverocheLockeindividua in questo imperativo il fondamentodelpattosociale, l’assoluta necessità di dotarsi di una costituzione politica: «Il grande e principale fine per cui dunque gli uomini si uniscono in Stati e si assoggettanoadungoverno,è la salvaguardia della loro proprietà» 5. È la difesa della proprietà che giustifica l’esistenza di uno Stato, la cui funzione essenziale è quella di preservarla. Per proprietà, tuttavia, bisogna intendere sempre, qui, non soltanto la proprietà dei beni ma anche la proprietà di sé che i beni rendonopossibile:condizione della libertà e dell’indipendenza dei cittadini. Gli uomini, dice Locke, «hanno in mente di riunirsi per la reciproca salvaguardia della loro vita, libertà e beni: cose che io denomino con il termine generalediproprietà» 6. La Repubblica di Locke nonèilLeviatanodiHobbes. Essa cercherà di realizzare, peraltro con difficoltà, forme di rappresentanza democratica che ne faranno, almeno in una certa misura, l’espressionedellavolontàdei cittadini. Tuttavia, lo Stato liberale – di cui Locke ha tracciato il modello e che si realizzerà nella società moderna – non viene a patti conilmandatoinizialechegli è stato affidato: essere uno Stato di sicurezza, proteggere le persone e i loro beni. Al proposito, si è potuto parlare di«Statominimo»ealtempo stesso di «Stato gendarme». Questononècontraddittorio. Tale Stato è uno Stato di diritto, che si concentra sulle sue funzioni essenziali di guardiano dell’ordine pubblico e di garante dei diritti e dei beni degli individui. Almeno in linea di principio(datocheneifattile cosesarannopiúcomplicate), esso si impone di non intromettersinellealtresfere, sociali ed economiche, della società.Masaràrigorosonella difesa dell’integrità della persona e dei suoi diritti e al tempostessospietatocontroi nemici della proprietà (sanzioni del codice penale contro i danni ai beni, ma anche repressione, che potrà essere violenta, dei tentativi collettivi di sovversione dell’ordineproprietario).Seci si attiene a un giudizio di ordine morale, si può denunciare una contraddizione nel funzionamento dello Stato liberale. Gli si darà allora fiducia per aver tentato di costituirsi come Stato di diritto difendendo i diritti civili e l’integrità delle persone 7,ecisiindigneràdel fatto che questo stesso Stato ha schiacciato l’insurrezione degli operai parigini nel giugnodel1848olaComune diPariginel1871.Daunlato il legalismo giuridico, dall’altro il ricorso, talvolta brutale, all’esercito o alle milizie della Guardia nazionale. Ma si può eliminare questa apparente contraddizione comprendendo che il fondamentodiquestotipodi Stato è proprio la garanzia della protezione e della sicurezza. In questa configurazione, la protezione delle persone è inseparabile dallaprotezionedeilorobeni. Il mandato statuale va dall’esercizio della giustizia e dalmantenimentodell’ordine tramite operazioni di polizia, fino alla difesa dell’ordine sociale fondato sulla proprietà, mobilitando, quando è necessario e «in caso di forza maggiore», mezzimilitarioparamilitari. Bisognaricordarechenella Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo e del cittadino la proprietà non è stata collocata per caso o per incoerenza sul terreno dei diritti inalienabili e sacri: collocazioneripresacondelle varianti nelle diverse Costituzioni repubblicane. Non può trattarsi solamente della proprietà «borghese» che riprodurrebbe i privilegi di una classe. All’inizio della modernità, la proprietà privata assume un significato antropologico profondo: essa appare infatti – Locke è stato uno dei primi a capirlo – come la base a partire dalla quale l’individuo che si affranca dalle protezionisoggezioni tradizionali può trovare le condizioni della propriaindipendenza.Nonsi capirebbe, altrimenti, il fatto che la proprietà privata sia stata difesa non solo dai conservatori e dalle correnti piú moderate (borghesi, se si vuole), dell’epoca prerivoluzionaria o rivoluzionaria, ma anche dai suoi esponenti piú radicali. Rousseau,Robespierre,SaintJust e i sanculotti non hanno intenzione di sopprimere la proprietà, ma vogliono restringerla rendendola accessibile a tutti i cittadini. Robespierre vuole ridefinire i limiti della proprietà attraversolaleggeeSaint-Just sogna una Repubblica di piccoli proprietari, poiché solo gli individui-proprietari godrebberodell’indipendenza e della libertà necessarie ai cittadini,ancheperdifendere lapatriaconlearmiinpugno. Essi difenderebbero cosí la Repubblica e al tempo stesso illorostatutodicittadiniche poggia sulla proprietà: «Le proprietà dei patrioti sono sacre» 8.Sologruppideltutto marginali hanno pensato e agito fuori da questo orizzonte della proprietà privata, come i babuvisti, che hanno pagato tale scelta con la vita. Ma essi erano ultraminoritari ed estranei all’ambito della costruzione statualemoderna,cosícomeè prevalsa fino ai giorni nostri (ad eccezione di ciò che è accaduto nell’Europa dell’Est e altrove sulla scia della rivoluzione bolscevica del 1917; ma questa è un’altra storia). Sicurezzapubblicaelibertà pubbliche. C’è cosí una coerenza profonda nell’edificio socio- politico proposto inizialmentedaiprimiliberali echetenteràdiimporsilungo il XIX secolo attraverso molte vicissitudini.Lasuachiavedi volta è la pretesa di garantire sia la protezione civile degli individui fondata sullo Stato di diritto sia la loro protezione sociale fondata sulla proprietà privata. La proprietàèinfattil’istituzione sociale per eccellenza, nella misura in cui adempie alla funzione essenziale di salvaguardare l’indipendenza degliindividuiediassicurarli contro i rischi dell’esistenza. Come ribadisce Charles Gide all’inizio del XX secolo: «Per ciò che riguarda la classe possidente, la proprietà costituisce una istituzione socialecherendetuttelealtre pressoché superflue» 9. Bisogna intendere in tal modochelaproprietàprivata garantisce,nelsensopienodel termine,controgliimprevisti dell’esistenza sociale (in caso di malattia, di infortunio, di cessazione del lavoro, eccetera). Essa rende inutile «il sociale», inteso come l’insieme dei dispositivi che saranno attivati al fine di compensare il deficit di risorse necessarie per vivere insocietàconiproprimezzi. Gli individui proprietari possono proteggersi da soli mobilitando le proprie risorse, e possono farlo all’interno del quadro legale di uno Stato che protegge questa proprietà. Si può parlare a tale proposito, per essi, di una sicurezza sociale garantita. Quanto alla sicurezza civile, essa, proprio essa,èassicuratadaunoStato di diritto che garantisce l’esercizio delle libertà fondamentali,cheamministra lagiustiziaechesioccupadel pacifico svolgimento della vita sociale (è il lavoro delle «forze dell’ordine», ritenute garanti della sicurezza quotidiana dei beni e delle persone). Si tratta quindi di un programma ideale che non può sradicare totalmente l’insicurezzapoiché,perfarlo, bisognerebbe che lo Stato controllasse tutte le possibilità, individuali o collettive, di trasgredire l’ordine sociale. Appare evidente la forza del paradigma proposto da Hobbes: la sicurezza può essere totale se, e soltanto se, lo Stato è assoluto; se ha il diritto o, in tutti i casi, il potere di schiacciare senza alcun limite ogni velleità di attentare alla sicurezza delle persone e dei beni. Ma lo Stato,sedivienepocootanto democratico, e a mano a manochelodiviene,ponedei limiti all’esercizio di quel potere che si realizza pienamente solo attraverso il dispotismo o il totalitarismo. Uno Stato democratico non può essere uno Stato protettoreaqualunquecosto, poiché questo costo sarebbe quello calcolato da Hobbes: l’assolutismo del potere statuale. L’esistenza di principî costituzionali, l’istituzionalizzazione della separazione dei poteri, la preoccupazione di rispettare il diritto nell’uso della forza, ivi compresa la forza pubblica, pongono altrettanti limiti all’esercizio di un potere assoluto e creano, indirettamente ma necessariamente, le condizioni di una certa insicurezza. Percitareunsoloesempio, ilcontrollodellamagistratura sulla polizia inquadra le forme di intervento delle forze dell’ordine e limita la loro libertà d’azione. Il delinquente potrà trarre dei vantaggi da questa preoccupazione di rispettare leformelegali,el’impunitàdi cui beneficiano certi reati è una conseguenza quasi necessaria della sofisticazione dell’apparato giudiziario. La critica ricorrente del «lassismo» di cui darebbero prova le autorità responsabili delmantenimentodell’ordine pubblico ha la sua origine profonda in questa distanza, cheesistesempreinunoStato di diritto, tra l’esigenza di rispettare le forme legali e quelle pratiche repressive che sarebbero incondizionatamente pilotate dalla sola preoccupazione dell’efficacia. In generale, piú uno Stato si allontana dal modello del Leviatano, dispiegando un complesso apparato giuridico, piú esso rischia di deludere l’esigenza di assicurare la protezione assolutadeisuoimembri.Per superare questa contraddizione bisognerebbe, come aveva ben visto Rousseau, che tutti i cittadini fossero virtuosi, o fossero obbligati a diventarlo. Ma tutti i cittadini non sono spontaneamentevirtuosi–ne siamo ben lontani – e il caso di Robespierre serve a ricordarci il prezzo di una politica della virtú che passa attraverso l’esercizio del terrore rivoluzionario. Ma se lavirtúnonèspontanea,ese ci si rifiuta di inculcarla a forza, bisogna allora ammettere che la sicurezza assoluta dei beni delle persone non sarà mai completamente garantita in uno Stato di diritto. È il dilemma inscritto nel cuore dell’applicazione della legge. L’applicazione della legge passa attraverso la mobilitazione di procedure sempre piú complesse, che mantengono e addirittura approfondisconoloscartotra ciò che l’ordine legale prescrive e la maniera in cui esso informa le pratiche sociali. In Francia, in occasione delle ultime scadenze elettorali, il tema dell’insicurezza ha acquistato una tale forza da rasentare a volte il delirio, e non sembra che la situazione attuale stia diventando piú tranquilla. È facile sottolineare la distanza enorme che separa l’ossessione sicuritaria dalle minacceoggettivechepesano suibeniesullepersoneinuna società come la nostra, paragonata ad esempio a ciò che accade oggi in piú della metà del pianeta o a ciò che accadevainFranciaunsecolo fa 10. L’ossessione sicuritaria non è tuttavia un fantasma, poiché rivela un tipo di rapporto con lo Stato specifico delle società moderne. L’individuo esige che lo Stato lo protegga poiché viene ipervalorizzato, e poiché si sente fragile e al tempo stesso vulnerabile. Cosí la «domanda di Stato» apparedavveropiúfortenelle societàmodernecheinquelle precedenti,laddovenumerose protezioni-soggezioni erano distribuite attraverso la partecipazione a gruppi di appartenenza sottoposti al sovrano. La pressione si esercitaormaiessenzialmente sullo Stato, salvo poi rimproverargli di essere troppo invadente. Ma se vuole essere uno Stato di diritto,nonpuòchedeludere questa ricerca di protezione totale, giacché la sicurezza totale non è compatibile con ilrispettoassolutodelleforme legali. Cosí si potrebbe comprendere che il sentimento di insicurezza, anche se assume forme estreme e totalmente «irrealistiche», proviene meno da un’insufficienza delle protezioni che dal carattere radicale di una domandadiprotezione,dicui Hobbes ha colto le radici profonde proprio all’inizio della modernità. Il genio di Hobbes ci aiuta a prendere coscienza del paradosso che strutturalaproblematicadella sicurezza civile nelle società moderne.Inquestesocietàdi individui, la domanda di protezione è infinita poiché l’individuo in quanto tale è situato fuori dalle protezioni di prossimità, ed essa potrebbe trovare il suo compimento solo nel quadro di uno Stato assoluto (quello cheHobbesvedevarealizzarsi conl’assolutismoregio:anche per questo le sue analisi non sono pure costruzioni mentali). Ma questa stessa società sviluppa al tempo stesso delle esigenze di rispetto della libertà e dell’autonomia degli individui, che non possono fiorire che in uno Stato di diritto.Ilcarattereirrealistico e al tempo stesso molto realistico del sentimento contemporaneodiinsicurezza può cosí essere compreso come un effetto, vissuto quotidianamente, di questa contraddizione: una contraddizione tra una domanda assoluta di protezionieunlegalismoche sisviluppaoggi–comesipuò osservare – nelle forme esacerbate di un ricorso al diritto in tutte le sfere dell’esistenza, fino alle piú private. L’uomo moderno vuole assolutamente che gli sia resa giustizia in tutti i campi, ivi compresa la sua vita privata: il che apre una grande carriera ai giudici e agli avvocati. Ma egli vorrebbe assolutamente, alla stessa maniera, che la sua sicurezza fosse garantita nei dettagli della sua esistenza quotidiana: il che apre la via, questa volta, all’onnipresenza dei poliziotti. Queste due logiche non possono sovrapporsi completamente: esse lasciano sussistere uno scarto che alimenta il sentimento di insicurezza. Di piú:siapprofondisceloscarto tra un legalismo che si rinforza e una domanda di protezioni che si inasprisce. Cosí l’esasperazione della preoccupazione sicuritaria genera necessariamente la propria frustrazione, che alimenta il sentimento di insicurezza. Si tratta forse di una contraddizione inerente all’esercizio della democrazia moderna. Essa si esprime attraverso il fatto che la sicurezza,indemocrazia,èun diritto, ma che questo diritto non può certamente realizzarsiconpienezzasenza mettere in moto degli strumenti che si rivelano lesivi del diritto. È in ogni caso significativo – e lo dimostra l’attuale situazione politica francese – che la domanda di sicurezza si traduca immediatamente in una domanda d’autorità, la quale, una volta in preda agli eccessi dell’entusiasmo, può minacciarelademocrazia.Un governodemocraticositrova, qui, in una situazione sfavorevole. Da esso si pretende che garantisca la sicurezza, e lo si condanna rimproverandogli il suo lassismo se fallisce in questo compito. Ma il sovrappiú di autorità che si esige da uno Stato di diritto può davvero esercitarsi in un quadro democratico?Losivedebene: che si tratti della «guerra contro il terrorismo», cosí come è portata avanti dagli Stati Uniti, oppure della «tolleranza zero» verso la delinquenza esaltata in Francia, gli stati che ostentano il loro attaccamento ai diritti dell’uomo, fino al punto di pretendere di dare lezioni al resto del mondo attorno a questo tema, corrono continuamente il pericolo di slittareversolacompressione dellelibertàpubbliche. 1 G. DUBY , Les pauvres des campagnes dans l’Occident médiéval jusqu’au XII e siècle, in «Revue d’histoire de l’Église en France»,LII(1966),p.25. 2 TH. HOBBES,Leviatano,2voll., Laterza,Roma-Bari1974. 3Ibid.,vol.I,p.309. 4J.LOCKE,Ilsecondotrattatosul governo, Rizzoli, Milano 2001, § 173.Questoschemadellaproprietà garante dell’indipendenza è anche presente in James Harrington (1611-1677), che vi scorge la condizione a partire dalla quale i membridiunaRepubblicapossano esercitare liberamente la loro cittadinanzapolitica(Larepubblica di Oceana, Franco Angeli, Milano 1985). 5Ibid.,§124. 6Ibid.,§123. 7Questosforzovabenoltreun semplice rivestimento «formale» per dissimulare le disuguaglianze reali. Per attenersi a un solo esempio,laMonarchiadiLuglioha dispiegato sforzi considerevoli per giustificare legalmente l’internamento dei malati mentali. Lapostaingiocoerachiara.Ifolli, poiché erano vissuti come pericolosi, non potevano essere lasciati in libertà. Ma poiché non erano responsabili, non potevano essere condannati e non rientravano nell’ambito della prigione. Il problema negli anni Trenta dell’Ottocento riguardava unadecinadimigliaiadipersonee non minacciava dunque l’ordine sociale. Ma minacciava i principî delloStatoliberale,cioèlanecessità di salvaguardare il carattere legale della sanzione e di vietare ogni forma di internamento arbitrario riconducibileallelettresdecachete ai prigionieri di Stato dell’assolutismo regio. L’uscita dal vicolo cieco è stata l’accettazione dell’internamento terapeutico proposto da Esquirol e dai primi alienisti (si deve internare un folle non per punirlo ma per guarirlo). Ma la legge del 1838, che ratifica questo statuto di eccezione dei malatimentali,èstatavotatadopo lunghi mesi di appassionate controversie alla Camera dei DeputatieallaCameradeiPari.La posta in gioco di questi dibattiti molto ricchi era proprio quella di garantire la sicurezza contro i disordini della follia, ma entro un quadro legale, al punto che per arrivarci è stato necessario costruire laboriosamente una nuova legge. La legge del 1838 in favore degli alienati è senza alcun dubbiounalegged’eccezione,maè proprio una legge, e per di piú votatarispettandoleprocedurepiú democratichedell’epoca. 8 Louis Saint-Just, citato da M. LEROY ,Histoiredesidéessocialesen France, vol. II, Gallimard, Paris 1950, p. 272. È vero che Saint-Just aggiunge: «Ma i beni dei cospiratori sono qui per gli infelici». Tuttavia, questa aggiunta conferma il valore eminente dato alla proprietà: essa è necessaria ai vericittadini,mentreinemicidella patrianonnesonodegni. 9 CH. GIDE , Économie sociale, Paris1902,p.6. 10 Sull’insicurezza in altre aree culturali, si veda ad esempio L. KOWARICK , Living at Risk. On Vulnerability in Urban Brazil, in Escritos Urbanos, Editoria 34, São Paulo 2000: un quadro impressionante dell’onnipresenza dell’insicurezza nelle metropoli brasiliane. Sulla situazione in Francia un secolo fa, si veda ad esempio D. KALIFA , L’attaque nocturne, in «Société et représentation», Credes, n. 4, maggio 1997, che rappresenta al tempostessol’insicurezzarealeela messainscena,dapartedeimedia dell’epoca, dell’insicurezza delle notti parigine attorno al 1900. Si vedechealtempodegliApachesla violenza criminale era innegabilmente piú presente di oggi,datochelastamparegistrava a volte fino a centoquaranta attacchi notturni al mese a Parigi. Ma si vede anche che la tematica dell’insicurezza era già sfruttata ai fini politici. Prendersela con il lassismo del prefetto di polizia era anche, per l’opposizione di quel tempo, una maniera di contestare lalegittimitàdelgoverno. Capitolosecondo Lasicurezzasocialenello Statoprotettore L’insicurezza significa, nella stessa misura, l’insicurezza sociale e l’insicurezza civile. In quest’ambito, essere protetto significaesserealriparodalle peripezie che rischiano di degradare lo statuto sociale dell’individuo. Il senso di insicurezza è dunque la consapevolezza di essere alla mercé di questi avvenimenti. Per esempio, l’incapacità di «guadagnarsi da vivere» lavorando – che sia dovuta allamalattia,auninfortunio, alla disoccupazione o alla cessazione dell’attività lavorativa per limiti di età – rimette in questione il registro dell’appartenenza sociale dell’individuo che traeva dal salario i mezzi del suo sostentamento, rendendolo incapace di governare la sua esistenza a partire dalle proprie risorse. Dovrà essere assistito per sopravvivere. Si potrebbe definireunrischiosocialenei termini di un accadimento che compromette la capacità degli individui di garantirsi da soli la loro indipendenza sociale. Se non si è assicurati contro questi imprevisti, si vive nell’insicurezza. Si tratta di un’esperienza secolare che è stata condivisa dalla maggior parte di quello che una volta si chiamava il popolo.Dachisaràcomposto domani?Proprioall’iniziodel XVIII secolo, Sébastien Le Prestre de Vauban descrive cosí la condizione di un rappresentante dei piccoli salariati dell’epoca, dei braccianti giornalieri, dei manovrieri, «gente di fatica e di braccia»: «farà sempre faticaadarrivareafineanno. Da qui è chiaro che, per quanto poco sia sovraccaricato, dovrà soccombere» 1. La formula è bella. Ma traduce soprattutto con notevole esattezza la situazione vissuta un tempo dalla maggior parte degli esponenti delle categorie popolari, e in particolare da tutti coloro che avevano solo illorolavoropervivere,oper sopravvivere. L’insicurezza socialeèun’esperienzacheha attraversato la storia; una storia non appariscente nelle sueespressioni;infatti,coloro che la provavano spesso non prendevanolaparola,salvole volte in cui essa esplodeva in sommosse,inrivolteeinaltre «emozioni popolari»: tale insicurezza, tuttavia, era carica di tutte le fatiche e di tutte le angosce quotidiane che hanno costituito buona parte della miseria del mondo. In relazione a questa dimensione massiva della problematica dell’insicurezza, l’ideologia della modernità, che si è imposta a partire dal XVIII secolo, ha dato prova, almeno in un primo tempo, di una straordinaria indifferenza. Si è sottolineato che la sua concezione dell’indipendenza dell’individuo era stata costruita attraverso la valorizzazionedellaproprietà, coniugata con uno Stato di diritto ritenuto in grado di garantire la sicurezza dei cittadini. Questa costruzione avrebbe dovuto assegnare un ruolo centrale alla questione dellostatuto,odell’assenzadi statuto, dell’individuo non proprietario.Cheneèditutti coloro ai quali la proprietà non assicura questa base di risorse che sarà d’ora in avanti la condizione dell’indipendenza sociale e checostituirà–percitarenon ancora Marx, ma un autore oscuro della fine del XVIII secolo – «la classe non proprietaria»? 2. Gli individui privi del supporto proprietario sono assimilati, da una mente cosí illuminata come quella dell’abate Sieyès, a «una folla immensa di strumenti bipedi senza libertà, senza moralità, che non possiede che delle mani pressoché incapaci di guadagno e un animo assente» 3. Laproprietàoillavoro. Questa questione centrale non è stata assolutamente presa in considerazione nella logica della costruzione dello Stato liberale. C’è stata davvero, in particolare durante l’effervescenza rivoluzionaria, una certa presa di coscienza della gravità del problema. Lo testimonia questo intervento allasedutadellaConvenzione del 25 aprile 1793 di un deputato della Montagna, Harmand, la cui lucidità ci sembra ancor sorprendente: oggi Gli uomini che vorranno essereveririconoscerannocon me che dopo aver ottenuto l’uguaglianza politica di diritto, il desiderio piú attuale e piú attivo è quello dell’uguaglianza di fatto. Dico di piú, dico che senza il desiderio o la speranza di questa uguaglianza di fatto, l’uguaglianzadidirittosarebbe solo un’illusione crudele la quale, al posto delle gioie che ha promesso, non farebbe che infliggere il supplizio di Tantalo alla parte piú utile e piúnumerosadeicittadini 4. Questa «parte piú utile e piúnumerosadeicittadini»è l’insieme dei lavoratori non proprietari. Ma Harmand vedebenecheilrispetto(che egli giudica necessario) della proprietàopponeunostacolo insormontabile alla realizzazione di questo «desiderio».Eaggiunge: Comepossonoleistituzioni sociali procurare all’uomo questauguaglianzadifattoche lanaturagliharifiutatosenza attentare alle proprietà territorialieindustriali?Come giungervi senza la legge agraria e la divisione dei patrimoni? Èproprioquesta,infatti,la questione e all’epoca non poteva ricevere una risposta diversa dal comunismo. In questo senso, Gracco Babeuf risponde direttamente ad Harmand, ma l’esito pietoso della Cospirazione degli Egualimostraaltempostesso che alla fine del XVIII secolo questa risposta portava a un vicolocieco.Tuttoèaccaduto come se questo problema fossestatoelusoilpiúalungo possibile–eciòfinoallafine del XIX secolo – da parte dei responsabili politici che hanno contribuito all’edificazione dello Stato moderno. Il lettore potrà interpretare come meglio crede le ragioni di questo rifiuto delle élite dirigenti di prendereinconsiderazionela situazionesocialedella«parte piúutileepiúnumerosa»dei cittadinidelloStatodidiritto: indifferenza, egoismo, disprezzo di classe, e cosí via 5. Ma per questo primo periodo di espansione del liberalismo è lecito parlare, con Peter Wagner, di «modernitàliberaleristretta»: il progetto di una società liberale formulato, ad esempio, nella Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino è in linea di principio universale, ma è statopienamenteapplicato,in un primo tempo, solo a una frazione assai limitata delle popolazioni dell’Occidente cristiano 6. Le conseguenze di questa impasse sulle condizioni sociali della realizzazione dei principî liberali sono state considerevoli e disastrose. Le innumerevoli rappresentazioni del «pauperismo» ottocentesco rendonovisibilenonsoltanto la miseria degli operai della prima industrializzazione e dellelorofamiglie,maanche, piú generalmente, il perpetuarsi di uno stato di insicurezza sociale permanente che intacca la maggior parte delle categorie popolari. Stavo per dire «che infetta».L’insicurezzasociale, infatti, non nutre solo la povertà. Essa agisce come un principio di demoralizzazione, di dissociazione sociale, alla stregua di un virus che impregna la vita quotidiana, dissolve i legami sociali e mina le strutture psichiche degli individui. Essa induce una «corrosione del carattere», per usare un’espressione che Richard Sennet impiega in un altro contesto 7. Vivere nell’insicurezza permanente significa non poter padroneggiare il presente né anticipare positivamente l’avvenire. È la famosa «imprevidenza» delle classi popolari, instancabilmente denunciata dai moralisti del XIX secolo.Macomepotrebbe proiettarsi nel futuro e pianificare la propria esistenza colui che ogni giorno viene tormentato dall’insicurezza?L’insicurezza sociale trasforma questa stessa esistenza in una lotta per la sopravvivenza, portata avanti giorno per giorno e il cui esito è ogni volta incerto. Si potrebbe parlare di disassociazione sociale (il contrario della coesione sociale) per dare un nome a certe situazioni particolari: quella, ad esempio, dei proletari del XIX secolo, condannati a una precarietà permanente – che è anche un’insicurezza permanente – e incapaci di esercitare la minima presa su ciò che capitaloro. Èquestoillatooscurodello Statodidiritto.UnoStatoche abbandona in un angolo mortolacondizionedicoloro che non hanno i mezzi per garantirsi l’esistenza attraverso la proprietà. Ciò facendo, lo Stato elude la questione che Hobbes aveva posto in modo paradossalmente piú democratico, visto che riguardava tutti i soggetti dello Stato, considerati sullo stesso piano di fronte al Leviatano: come proteggere tuttiimembridiunasocietà? Comegarantirelasicurezzadi tutti gli individui nel quadro dellanazione?Lascissionefra proprietari e non proprietari sitraduceinunascissionefra soggettididirittoesoggettidi non diritto, se si intende per diritto anche il diritto di vivere nella sicurezza civile e sociale. In caso contrario, il dirittoèsolo«formale»,come dirà Marx, e la sua critica su questo punto è inconfutabile. Lo Stato di diritto lascia immutata la condizione socialediunamaggioranzadi lavoratori attraversata da una insicurezza sociale permanente. Come si è usciti da questa situazione? In altri termini: come si è giunti a vincere l’insicurezza (sociale) assicurando la protezione (sociale) di tutti o di quasi tutti i membri di una società moderna, per farne degli individuichegodonodituttii diritti? Posso fornire qui soltantol’iniziodellarisposta, la cui declinazione completa esigerebbe lunghi sviluppi 8. Indueparolequindi:fissando delle protezioni forti al lavoro; o ancora: costruendo un nuovo tipo di proprietà – la proprietà sociale – concepita e realizzata per assicurarelariabilitazionedei non proprietari. Ecco, molto schematicamente, lo sviluppo di queste due proposizioni strettamenteconcordanti. In primo luogo, fissare protezioni e diritti alla condizione del lavoratore stesso.Illavorosmettecosídi essere una relazione puramente commerciale, retribuita nel quadro di un rapporto pseudocontrattuale (il «contratto di locazione» del Codice civile), tra un datore di lavoro onnipotente e un salariato deprivato. Il lavoro è diventato l’impiego, cioèunacondizionedotatadi uno statuto che include garanzie non commerciali, come il diritto a un salario minimo, le protezioni del dirittodellavoro,lacopertura degliinfortuni,dellamalattia, il diritto alla pensione, eccetera. Contestualmente, la situazionedellavoratorecessa di essere la condizione precaria destinata ad essere vissuta, giorno per giorno, nell’angoscia del domani. Essa è divenuta la condizione salariale: la disponibilità di una base di risorse e di garanzie sulla quale il lavoratore può contare per dominare il presente e per agiresulfuturo.Nella«società salariale», che si realizza in Europa occidentale dopo la Seconda guerra mondiale, quasi tutti gli individui sono coperti da sistemi di protezionelacuistoriasociale mostra che nella maggior parte dei casi sono stati costruiti a partire dal lavoro. Una società salariale non è solounasocietànellaqualela maggior parte della popolazioneattivaèsalariata. È soprattutto una società nella quale la stragrande maggioranza della popolazione accede alla cittadinanza sociale a partire, in primo luogo, dal consolidarsi dello statuto del lavoro. Secondo modo di qualificare questa trasformazione decisiva: i membridellasocietàsalariale hanno avuto massivamente accesso alla proprietà sociale, che rappresenta un omologo della proprietà privata; una proprietà per la sicurezza, oramai messa a disposizione di coloro che erano esclusi dalle protezioni procurate dalla proprietà privata 9. Si potrebbe caratterizzare la proprietà sociale come la produzione di equivalenti sociali delle protezioni che eranoprimafornitesolodalla proprietà privata. Si veda l’esempio della pensione. In termini di sicurezza, il pensionato potrà rivaleggiare con il possidente, garantito dal suo patrimonio. La pensione offre cosí una soluzione a una delle manifestazioni piú tragiche dell’insicurezza sociale: la situazione del lavoratore anziano che non era piú in grado di lavorare, che rischiava il totale declino e il ricorso obbligato a forme infamanti di assistenza come l’ospizio.Malapensionenon è una misura di assistenza: è un diritto costruito a partire dallavoro.Essaèlaproprietà del lavoratore costituita non secondolalogicadelmercato, ma attraverso la socializzazione del salario: una parte del salario torna indietro a beneficio del lavoratore (salario indiretto). È,percosídire,unaproprietà per la sicurezza, che garantisce la sicurezza del lavoratoreuscitodalrapporto dilavoro. Evidentemente, la pensione non è che un esempio delle realizzazioni dellaproprietàsociale,cheha avuto degli inizi estremamente modesti (la legge del 1910 sulle pensioni operaie e contadine non riguardava che i lavoratori piú poveri, poiché si riteneva che i salariati piú agiati potessero garantirsi da soli, entrolalogicadellaproprietà privata). Si può comprendere l’estensione del sistema a partire dal processo di generalizzazionedifferenziazione del salariato checaratterizzailXX secolo.Il salariato smette di essere essenzialmente il salariato operaio e ricopre l’insieme estremamente diversificato delle categorie salariali: dagli operai pagati a salario minimo garantito ai quadri superiori. Ma tutte queste categorie sono coperte dalle protezioni del lavoro. Cosí unaformadiproprietàsociale come la pensione finisce per garantire la stragrande maggioranza dei membri della società salariale. Parallelamente ai sistemi pensionistici, bisognerebbe esporre qui l’insieme delle leggisocialimesseincantiere nel corso del XX secolo e approdate a una Sicurezza socialegeneralizzata: un piano completo di Sicurezza sociale mirato ad assicurareatuttiicittadinidei mezzidisussistenzaneicasiin cui siano incapaci di procurarseli attraverso il loro lavoro: un piano con una gestione affidata ai rappresentantidegliinteressati e ai rappresentanti dello Stato 10. Di fatto, il ruolo dello Stato si è rivelato centrale nella realizzazione di questi dispositivi. Lo sviluppo dello Stato sociale, quanto ad estensione, è rigorosamente connesso all’espansione delle protezioni. Nel suo ruolo sociale, lo Stato opera essenzialmente come un riduttore di rischi. Attraverso la mediazione degli obblighi che esso impone e garantisce perlegge,senededuceanche che«loStatosialuistessouna vastaassicurazione» 11. Unasocietàdisimili. Cosí si è trovata protetta «la parte piú utile e piú numerosa dei cittadini» evocata da Harmand, membro della Convenzione. Per risolvere il problema dell’insicurezzasocialenonsi è passati attraverso la soppressione o la divisione dellaproprietàprivata.Nonsi è dunque realizzata la stretta uguaglianza delle condizioni sociali, «l’uguaglianza di fatto» auspicata anche da Harmand.Lasocietàsalariale resta fortemente differenziata e, per farla breve, tutt’altro che egalitaria. Ma essa è al tempo stesso fortemente protettrice. Cosí, tra l’alto e il basso della scala gerarchica dei salari, le differenze di reddito sono considerevoli. Malediversecategoriesociali beneficiano degli stessi diritti di protezione: diritto del lavoro e protezione sociale. Eccolaragionepercui,senza dubbio,questotipodisocietà ha dato prova di una certa tolleranza di fronte alle ineguaglianze. Certo, le lotte perla«divisionedeibenefici» della crescita sono state accese. Ma si sono sviluppate attraverso una modalità di negoziazione conflittuale tra «partnersociali»chehaavuto per effetto un sicuro miglioramento della condizione di tutte le categoriesalariali,lasciandoal tempo stesso sussistere, in pratica, le stesse disparità tra di loro 12. Dato che questi scarti rimangono, il processo non è assolutamente quello dellacostituzionediunavasta «classe media», come hanno creduto certi ideologi dell’epoca 13.Tuttavia,adogni livello della gerarchia sociale, ognuno pensava di poter disporre delle risorse minime per assicurare la propria indipendenza. Il modello di società cosí realizzatononèquellodiuna societàdiuguali(nelsensodi un’uguaglianza «di fatto» delle condizioni sociali), ma quello di una «società di simili», per riprendere un’espressione di Léon Bourgeois 14. Una società di simili è una società differenziata, gerarchizzata dunque,manellaqualetuttii membri possono stabilire relazioni di interdipendenza poiché dispongono di un fondo di risorse comuni e di diritti comuni. Il carattere irriducibile dell’opposizione proprietari/nonproprietariè cosí superato grazie alla proprietàsociale,cheassicura ai non proprietari le condizioni della loro protezione. Lo Stato (lo Stato provvidenza, o piuttosto lo Stato sociale) è il garante di talecostruzione:leprotezioni fornite sono protezioni di diritto; esse costituiscono il modello in espansione dei diritti sociali, che forniscono una concreta contropartita, virtualmente universale, ai diritticivilieaidirittipolitici. Conviene sottolineare che il ruolo principale dello Stato sociale non è stato quello di realizzare la funzione ridistributiva che gli si attribuisce piú frequentemente. Infatti, le ridistribuzioni di denaro pubblicohannointaccatosolo assai debolmente la struttura gerarchica della società salariale. Il suo ruolo protettore è stato invece essenziale. Ad esempio, la pensione:lepensioniseguono assaistrettamentelagerarchia salariale (piccolo salario piccola pensione, grosso salariogrossapensione).Qui, dunque, nessuna ridistribuzione.Incompenso, il ruolo protettore della pensione è fondamentale, poiché assicura a tutti i salariatilecondizioniminime dell’indipendenza sociale, e quindi la possibilità di continuare a far società con i loro«simili».Lapensionedel salariato pagato con il salario minimo garantito non ha certo nulla di sbalorditivo. Tuttavia, paragonata con la situazione lavorativa che precede l’avvento delle protezioni – ad esempio con la situazione del proletario agli inizi dell’industrializzazione – essa rappresenta un vero cambiamento qualitativo. Si può dire la stessa cosa delle protezioni che riguardano la saluteolafamiglia,eanchelo sviluppo di servizi pubblici del tutto o parzialmente sottrattialgiocodelmercato. La proprietà sociale ha riabilitato la «classe non proprietaria», condannata all’insicurezza sociale permanente, procurandole il minimo di risorse, di opportunità e di diritti necessariperpotercostituire, inmancanzadiunasocietàdi eguali,una«societàdisimili». Riuscire a soffocare l’insicurezza sociale, cioè ad agire efficacemente in qualità diriduttoredirischisociali:si comprende cosí come sia stata questa, in una società salariale, la funzione essenziale dello Stato, oltre che la sua piú grande realizzazione.Mavièarrivato a certe condizioni – le une congiunturali, le altre strutturali – di cui occorre ricordare almeno le due piú importanti, per comprendere perché, oggi, l’efficacia del suo intervento viene compromessa dalla ripresa dell’insicurezzasociale. La prima condizione, che hapermessolacostruzionedi questo edificio, è la crescita. Tra il 1953 e l’inizio degli anni Settanta, si è praticamente assistito al triplicarsi della produttività, dei consumi e dei redditi salariali. Al di là di una dimensione propriamente economica, è necessario intravedere qui un fattore essenziale che ha permesso una gestione regolata delle ineguaglianze e dell’insicurezza sociale nella società salariale. Secondo l’espressione di un sindacalistadell’epoca,André Bergeron,vieradel«granoda macinare». Questo non vuol dire soltanto che c’è del plusvalore da dividere. Vi è anche la possibilità di far entrare in gioco quel che si potrebbe chiamare un principio di soddisfazione differita nella gestione degli affari sociali. Nella negoziazione tra «partner sociali», ogni gruppo rivendica di piú e pensa di non guadagnarci mai abbastanza. Ecco perché questa negoziazione è conflittuale. Ogni gruppo, tuttavia, può anche pensare che domani, o tra sei mesi, o traunanno,otterràdipiú.In questo modo le insoddisfazioni e le frustrazioni sono vissute come provvisorie. Domani saràmegliodioggi.Èingioco la possibilità di realizzare gradualmente una riduzione progressiva delle ineguaglianze e lo sradicamento delle sacche di povertà e di precariato che sussistononellasocietà.Èciò che si chiama il progresso sociale,chepassaattraversola possibilità di programmare l’avvenire. Una tale credenza viene vissuta in maniera del tutto concreta attraverso la possibilità di assumere delle iniziativeedisvilupparedelle strategie rivolte al futuro: chiedere un prestito per ottenere la proprietà della propria casa, programmare l’ingresso dei figli all’università, anticipare delle traiettorie di mobilità sociale ascendente, incluse quelle transgenerazionali. Questa capacità di padroneggiare l’avvenire mi sembra essenziale in una prospettiva di lotta contro l’insicurezza sociale 15. Essa funziona finché lo sviluppo della società salariale sembra inscriversi in una traiettoria ascendente,chemassimizzalo stock delle risorse comuni e rinforza il ruolo dello Stato come regolatore di queste trasformazioni. E questo perchétaleperiododicrescita economica è anche il momento forte di crescita delloStato,chegarantisceuna protezione sociale generalizzataechesisforzadi pilotare l’economia entro un quadro keynesiano, elaborando dei compromessi tra i differenti partner implicati nel processo della crescita. Si vedrà come la rimessa in discussione di questadinamicaabbiapotuto produrre il riemergere dell’insicurezzasociale. Trattandosi di cogliere i fattori che avevano permesso di stroncare pienamente l’insicurezza sociale, bisogna mettere l’accento su un secondo elemento determinante, questa volta strutturale. Come dire: l’acquisizionedelleprotezioni sociali è maturata essenzialmente a partire dall’inscrizionedegliindividui in collettivi di protezione. «Quel che conta è sempre di meno ciò che ognuno possiede e sempre di piú i diritti acquisiti dal gruppo di appartenenza. L’avere ha una minore importanza rispetto allo statuto collettivo definito dauninsiemediregole» 16. Di fatto, il lavoratore in quanto individuo abbandonato a se stesso non «possiede» pressoché nulla; ha soprattutto il bisogno vitale di vendere la sua forza lavoro. È per questo che il puro rapporto contrattuale fra datore di lavoro e dipendente era uno scambio profondamente ineguale tra due individui, in cui l’uno puòimporrelesuecondizioni poichépossiede,percondurre latrattativaamodosuo,delle risorse che all’altro mancano totalmente. Al contrario, se esisteinveceunaconvenzione collettiva, non è piú l’individuo isolato che contratta. Egli si appoggia a uninsiemediregolechesono state precedentemente e collettivamente negoziate e che sono l’espressione di un compromesso tra partner sociali collettivamente costituiti. L’individuo si inscrive in un collettivo precostituito che esprime la suaforzadifrontealdatoredi lavoro. Che si abbia a che fare, secondo l’espressione consacrata, con dei «partner sociali», significa che non sono piú degli individui, ma dei collettivi che entrano in relazionegliuniconglialtri. Si possono estendere queste osservazioni all’insieme delle istituzioni della società salariale. Il diritto del lavoro e la protezione sociale sono sistemi di regolazione collettiva: diritti definiti in funzione dell’appartenenza a insiemi e spesso acquisiti in seguitoalotteeaconflittiche hanno contrapposto gruppi con interessi divergenti. L’individuo è protetto in funzione di queste appartenenze: esse non implicano piú la partecipazione diretta a comunità «naturali» (le «protezioni ravvicinate» della famiglia, del vicinato, del gruppo territoriale), ma richiedono l’adesione a collettivi costruiti con regolamentazioni e dotati generalmente di uno statuto giuridico.Collettividilavoro, collettivi sindacali, regolazioni collettive del diritto del lavoro e della protezione sociale: come dice Hatzfeld,èproprio«lostatuto collettivo definito da un insieme di regole» che protegge l’individuo e gli procura la sicurezza. In una società moderna industrializzataeurbanizzata, in cui le protezioni di prossimità, se non sono del tutto scomparse, sono molto indebolite, è l’istanza del collettivo che può rendere sicurol’individuo. Ma questi sistemi di protezione sono complessi, fragili e costosi. Non incastrano piú direttamente l’individuo, come accadeva con le protezioni ravvicinate. Essi suscitano ugualmente una forte domanda di Stato, poichéspessoèloStatocheli sollecita, li legittima e li finanzia. Si ritiene perciò che un riemergere massiccio dell’insicurezza sociale possa rappresentare il costo dell’attuale rimessa in discussione dello Stato sociale, legata all’indebolimento dei collettivi o addirittura al loro crollo, prodotto dal potenziamentodeiprocessidi individualizzazione. 1 S. LE PRESTRE DE VAUBAN , Projetdedîmeroyale,Paris1707,p. 66. Vauban cadrà in disgrazia per questa rappresentazione troppo lucida della miseria del popolo al tempodelreSole. 2 Lambert, membro del Comitato di mendicità dell’Assemblea costituente, citato da L. F. DREYFUS , Un philanthrope d’autrefois, La RochefoucaultLiancourt,Paris1903. 3 E. J. SIEYÈS , Écrits politiques, Éditions des Archives contemporaines,Paris1985. 4 Discorso all’Assemblea costituente del 15 aprile 1793, citato da M. GAUCHET , La Révolution des droits de l’homme, Gallimard,Paris1989,p.214. 5 La presa di coscienza di ciò che costituirà il nucleo della questione sociale del XIX secolo risale tuttavia agli anni Venti dell’Ottocento,sottolaformadella scopertadel«pauperismo»daparte dell’insieme degli osservatori sociali:rivelazionepermoltiaspetti sconvolgente di una miseria di massa direttamente legata all’industrializzazione e la cui promozione sembra da quel momento inscritta nello sviluppo stesso della modernità. Ma i rappresentanti delle classi dominanti, tanto liberali che conservatori, si rifiutano di farne un problema politico, cioè un problema che deve essere preso in considerazionealivellodelloStato, ecercanodirisponderviattraverso il dispiegamento delle pratiche dellafilantropiaedelpaternalismo padronale (metto volontariamente traparentesilediversevariantidel socialismo rivoluzionario che si sviluppano simultaneamente, ma chesonodunqueesclusedalcampo politico dove si elaborano le modalità di governo della società moderna). 6 P. WAGNER , Soziologie der Moderne. Freiheit und Disziplin, Campus Fachbuch, 1995. Considerata su scala planetaria, questa«restrizione»sembraancora piú esorbitante. Si potrebbe dire che la modernità liberale si è costruita sulla base di una doppia esclusione: l’esclusione delle categoriepopolarinellenazionipiú sviluppate dell’epoca (l’Europa occidentale,poigliStatiUniti)e,al di fuori di questo perimetro, l’esclusionedelrestodell’umanità. 7 R. SENNET , The Corrosion of Character, Norton, New York 1998. 8 Ho tentato questa dimostrazione in Les méthamorphes de la question sociale. Une chronique du salariat (1995), Gallimard, Paris 1999, in particolareneicapitoliVI eVII . 9Horipresoun’intuizionedi H. HATZFELD ,La difficile mutation de la sécurité-propriété à la sécuritédroit, in «Prévenir», n. 5, marzo 1982. Si trova il termine di proprietàsocialenelsensoincuilo intendo qui in altri autori repubblicani della fine del XIX secolo; si veda in particolare A. FOUILLÉ , La propriété sociale et la démocratie, Paris 1884. Fouillé difendel’assicurazioneobbligatoria come il mezzo adatto a costituire «quelle garanzie del capitale umanochesonocomeunminimo di proprietà essenziale ad ogni cittadinoveramenteliberoeuguale aglialtri». 10 Conseil national de la résistance,programmad’azionedel 5marzo1944. 11 F. EWALD , L’État providence, Grasset, Paris 1986, p. 343. Per essere esaustivi, occorrerebbe aggiungere,allamessaincampodi questa struttura assicurativa, lo sviluppo dei servizi pubblici. I servizi pubblici – intesi come dispositivi che mettono a disposizione del piú gran numero di persone beni essenziali che non possonoesserepresiincaricodagli interessi privati – costituiscono una parte importante della proprietà sociale: che dei servizi non mercificati siano accessibili a tutti è un fattore essenziale di coesionetraidifferentisegmentidi una società moderna. Non si può appesantire troppo l’esposizione, maildibattitosulruolodeiservizi pubblici fino alla loro attuale rimessa in discussione si integrerebbe del tutto nella tematica sviluppata all’interno di questodiscorso. 12 Durante il trentennio che va dal 1946 al 1975, il cosiddetto periodo dei «Trenta Gloriosi», le differenzedeiredditidalavorotra gli operai e i quadri sono rimaste praticamente immutate, salvo alcune varianti congiunturali. L’immagine che bisognerebbe usareèquelladellascalamobile:su una scala meccanica tutti salgono, ma la distanza tra le persone, qui tra le differenti categorie sociali collocatesudifferentigradini,resta lastessa. 13 Tra di essi, il piú rappresentativo, fino alla caricatura, è stato senza dubbio Jean Fourastié: cfr. Les Trentes Glourieuses ou la Révolution invisibile de 1946 à 1975, Fayard, Paris1979. 14 L. BOURGEOIS , Solidarité, Paris 1896. Sullo sfondo, si riconosce il modello della solidarietà organica di Émile Durkheim, forma che deve assumere l’appartenenza sociale in una società al tempo stesso diversificataeunificata(integrata). 15Questalottasiinscriveinfatti in un processo che al principio deglianniSettantaerabenlontano dall’essere compiuto. Per dirla altrimenti, insicurezza sociale e povertà sono ancora presenti. Ma possono essere pensate come residuali in rapporto alla dinamica che sembra imporsi. Lo stesso dicasi per l’esistenza di ciò che si chiama il «quarto mondo», composto da individui rimasti ai margini della società salariale. Tuttavia, la loro presenza non mette in discussione il movimento ascendentedellasocietà:lisiassiste poco o tanto in attesa che un po’ alla volta spariscano. Allo stesso modo, sussistono differenti categorie di assistiti che hanno a che fare con il diritto al soccorso e non con le coperture assicurative incondizionate costruite a partire dallavoro.MacomeosservaDidier Renard, «l’opinione secondo cui le assicurazioni sociali devono rendere inutili le istituzioni assistenziali è maggioritaria a partire dall’inizio del secolo e si è definitivamente imposta alla fine dellaguerra»(Interventiondel’État etgenèsedelaprotectionsocialeen France, in «Lien social et politiques», n. 33, primavera 1995, p. 108). Pierre Laroque – che diverrà il grande dirigente del piano francese di previdenza sociale – aveva una concezione particolarmente peggiorativa dell’assistenza e pensava che la si dovessesradicareunpo’allavolta: «L’assistenza avvilisce intellettualmente e moralmente disabituando l’assistito allo sforzo, condannandolo a marcire nella miseria, impedendogli ogni speranza di elevazione nella scala sociale […]. Essa non fornisce al problema sociale che soluzioni imparziali e molto imperfette» («L’Homme nouveau», n. 1, gennaio1934). 16 H. HATZFELD , La difficile mutation de la sécurité-propriété à lasécurité-droitcit. Capitoloterzo Ilriemergeredell’incertezza Si può interpretare globalmente la «grande trasformazione» che colpisce le nostre società occidentali, da un quarto di secolo circa, come una crisi della modernità organizzata. Peter Wagner intende, con questo, la costruzione di quelle regolazioni collettive che si erano sviluppate dopo la fine del XIX secolopersuperarela prima crisi della modernità: quella della «modernità ristretta» 1. Come si è capito, essa aveva fallito la realizzazione della grande promessa fatta dal liberalismo: applicare all’insieme della società i principî dell’autonomia dell’individuo e dell’eguaglianza dei diritti. Unasocietànonpuòfondarsi esclusivamentesuuninsieme di rapporti contrattuali tra individui liberi e uguali, poiché in questo caso escluderebbe tutti coloro – e in primo luogo la maggioranza dei lavoratori – le cui condizioni di esistenza non possono assicurare l’indipendenza sociale necessaria per entrare alla pari in un ordine contrattuale. «Tutto non è contrattualenelcontratto»:lo ha ben visto Durkheim, che alla fine dell’Ottocento testimonia con particolare lucidità il fallimento della modernità liberale, fondando la sociologia come risposta a questo fallimento. La sociologia: ovvero la presa di coscienza della forza dei collettivi. L’inscrizione o la reinscrizione degli individui all’interno di sistemi di organizzazione collettiva è la risposta ai rischi di disgregazionesocialeveicolati dallamodernità,edèanchela risposta alla questione delle protezioni, cosí come si imponeapartiredaunapresa di coscienza dell’incapacità deiprincipîdelliberalismodi fondare una società stabile e integrata: una risposta che passa attraverso la costituzionedidirittisocialie attraverso il coinvolgimento crescente dello Stato in un ruolo sociale, visto che il diritto e lo Stato rappresentano l’istanza del collettivopereccellenza. Questarispostasidispiega nel corso del XX secolo, e in modo particolare dopo la Seconda guerra mondiale: essa va di pari passo con lo sviluppo del capitalismo industriale. Il peso della grande industria, l’organizzazione standardizzata del lavoro e la presenza di sindacati potenti assicurano la preponderanza di queste forme di regolazione collettiva. I lavoratori raggruppati in grandiassociazioniedifesida esse si piegano alle esigenze dellosviluppodelcapitalismo industriale, e in compenso beneficiano di protezioni estesesullabasedicondizioni stabili di impiego. Il modello di società che si impone con la modernità organizzata è quellodiuninsiemedigruppi professionaliomogenei,lacui dinamicaègestitanelquadro dello Stato-nazione. Sono questi i due pilastri su cui si sono edificati i sistemi di protezione collettiva – lo Stato e le categorie socioprofessionaliomogenee–che sisfaldanoapartiredaglianni Settanta. Individualizzazione decollettivizzazione. e Si tratta anzitutto dell’indebolimentodelloStato inteso come uno Stato nazional-sociale, cioè di uno Statoingradodigarantireun insieme coerente di protezioni, entro il quadro geografico e simbolico della nazione,poichéessoconserva il controllo sui principali parametri economici 2. Esso può cosí equilibrare il suo sviluppo economico e il suo sviluppo sociale in vista del mantenimento della coesione sociale. È proprio questo lo spirito delle politiche keynesiane, che instaurano una circolarità tra questi due registri nel quadro di una pianificazione ben temperata, al fine di imporre un certo equilibrio tra la produzione (l’offerta) nazionale e la domandanazionale. A partire dall’inizio degli anniSettanta,conleesigenze crescenti della costruzione europea e della mondializzazione degli scambi, lo Stato-nazione si rivelasempremenocapacedi interpretare questo ruolo di pilota dell’economia al servizio del mantenimento dell’equilibrio sociale. Lo scacco della strategia di rilancio, tentata dal governo socialista all’epoca della sua ascesa al potere in Francia, nel 1981, è stato percepito come un’incapacità degli stati-nazione di imbrigliare il mercato. Per raccogliere la sfida della concorrenza internazionale, la leadership passa all’impresa, le cui capacità produttive devono essere massimizzate. Ma è a partire da questo momento che si inverte il giudizio sul ruolodelloStato.Essoappare doppiamente controproducente:siaacausa deisovraccosticheimponeal lavoroperfinanziareglioneri sociali, sia a causa dei limiti legali che pone all’esigenza delle imprese di esprimere la massima competitività sul mercato internazionale a qualsiasi costo sociale. L’obiettivo diviene perciò quello di aumentare la redditività del capitale abbassando la pressione esercitata dai salari e dagli oneri sociali e quello di ridurre l’impatto delle regolamentazioni generali garantite dalla legge sulla strutturazionedellavoro. Parallelamente si assiste all’erosione del secondo baluardo, complementare, che era riuscito in una certa misura ad addomesticare il mercato, cioè la presa in carico della difesa degli interessi dei salariati attraverso grandi forme di organizzazione collettiva. La «società salariale» che si impone dopo la Seconda guerramondialeèstrutturata attorno a organizzazioni di lavoratori rappresentati da sindacati e da gruppi professionalichegestisconola loro politica anche sul piano nazionale. Di fatto, essi rappresentano il peso di grandi categorie professionali omogenee, che intervengono come attori collettivi nella negoziazione tra i «partner sociali». Questa rappresentazione collettiva degli interessi del mondo del lavoroentrainsinergiaconle modalità di gestione delle burocrazie amministrative, che classificano le popolazioni in categorie omogenee in funzione dell’impiego, delle tabelle salariali, della gerarchia delle qualifiche, della progressione delle carriere… Il «compromesso sociale» che caratterizza gli anni della crescita è un equilibrio piú o meno stabile negoziato per settori e per professioni, frutto di accordi interprofessionali tra sindacati e padronato sotto l’egidadelloStato.Vierauna sorta di circolo virtuoso tra i rapporti di lavoro strutturati secondomodalitàcollettive,la forza dei sindacati di massa, l’omogeneitàdelleregolazioni del diritto del lavoro e la forma generalista degli interventi dello Stato, che permette una gestione collettiva della conflittualità sociale. Questa omogeneità delle categorie professionali, e piú generalmente delle istanze di regolazione collettiva, è stata profondamente rimessa in discussione. La disoccupazione di massa e la precarizzazione dei rapporti dilavorononledonosoltanto le diverse categorie di lavoratori in modo differenziato, colpendo piú duramente gli strati inferiori della gerarchia salariale, ma comportano anche immense disparità infracategoriali: per esempio tra due operai, ma anche tra due quadri con lo stesso livello di qualifica, dei qualil’unoconserveràilposto dilavoro,mentrel’altrodovrà subire la disoccupazione 3. La solidarietà degli statuti professionali tende cosí a trasformarsi in concorrenza tra uguali. I membri di una stessa categoria, invece che tutti uniti attorno a obiettivi comuni e vantaggiosi per l’insiemedelgruppo,saranno portati, ognuno di loro individualmente,ametterein primo piano la propria specificità per mantenere o migliorare la propria condizionepersonale 4. Quando si parla, oggi, della ristrutturazione del mondo del lavoro – e della prevalenza che occorre assegnarealbuonandamento delle imprese, per essere competitivi rispetto alle sfide imposte dalla concorrenza esasperata e dalla mondializzazione degli scambi – non ci si richiama piú, dunque, alla stessa dinamica delle relazioni professionali,comesefossela piú adatta ad assicurare lo sviluppo economico. Anzi, si tratta piuttosto del contrario. Una gestione fluida e individualizzata del mondo dellavorodevesostituireuna sua gestione collettiva, basata su situazioni stabili di impiego. Con un po’ di distacco, si comincia a rendersi conto che con il mutamento del capitalismo, che ha iniziato a produrre i suoieffettiall’iniziodeglianni Settanta, entra fondamentalmente in gioco una messa in mobilità generalizzata dei rapporti di lavoro, delle carriere professionali e delle protezioni inerenti allo statuto dell’impiego. Dinamica profonda che è, al tempo stesso, di decollettivizzazione, di reindividualizzazione, di aumento dell’insicurezza. Una dinamica che gioca su parecchipiani. A livello dell’organizzazione della produzione, in primo luogo intervieneciòcheUlrichBeck chiama «la destandardizzazione del lavoro» 5. L’individualizzazione delle mansioniimponelamobilità, l’adattabilità, la disponibilità degli operatori. È l’espressione tecnica dell’esigenzadiflessibilità,che caratterizza il passaggio dalle lunghe catene di operazioni stereotipate, effettuate in un quadro gerarchico da lavoratoriintercambiabili,alla responsabilizzazione di ogni individuo o di piccole unità alle quali spetta il compito di gestire direttamente le loro produzioniediassicurarnela qualità. Al limite, il collettivo di lavoro può essere completamente sciolto, e l’impresa può esimersi dal riunire i lavoratori nello stesso spazio, come nell’organizzazionedellavoro in reti in cui gli operatori si connettono per il tempo necessario alla realizzazione di un progetto; poi si sconnettono, salvo a riconnettersi in un altro modo e nel quadro di un nuovoprogetto 6. Di conseguenza, anche gli stessi percorsi professionali diventano mobili. Una carriera si svolge sempre meno nel quadro di una medesima azienda, attraverso tappe obbligate fino alla pensione. Si tratta della valorizzazionediun«modello biografico» (Ulrich Beck): ogni individuo deve farsi caricoeglistessodeirischidel suo percorso professionale divenuto discontinuo; deve fare delle scelte e operare per tempo delle riconversioni necessarie. Anche qui, al limite, si ritiene che il lavoratore si faccia imprenditore di se stesso, «si costruisca il suo posto di lavoroinvececheoccuparloe costruiscalasuacarrieraaldi fuori degli schemi lineari standardizzati dell’azienda fordista» 7. Si ritrova cosí sovraesposto e indebolito perché non è piú supportato da sistemi di regolazione collettiva. Certo, le mansioni lavorative e le traiettorie professionali non obbediscono tutte a questi imperativi della messa in mobilità, e qualora vi obbediscanononlofannoallo stesso modo. Tali imperativi sono particolarmente avvertiti negli ambiti piú avanzati dell’organizzazione del lavoro, interamente dominati dalle nuove tecnologie («nuova economia», «net economy», «rivoluzione informatica», «lavoro immateriale», «capitalismo cognitivo», ecc.) 8. Ma questi sono i settori piú dinamici, e le esigenze che essi esemplificanosisonoimposte anche, in misura variabile, nella maggior parte degli ambiti della produzione. Piuttosto che opporre forme moderneaformetradizionali o arcaiche di organizzazione del lavoro, occorre invece mettere l’accento sull’ambiguità profonda di questo processo di individualizzazione- decollettivizzazione, che attraversa le configurazioni piú differenti dell’organizzazionedellavoro ecolpisce,sebbeneinformee a livelli diversi, praticamente tuttelecategoriedioperatori: dall’operaio specializzato al creatoredistart-up 9. È innegabile che con questa individualizzazione delle mansioni e dei percorsi professionalisiassisteanchea una responsabilizzazione degli operatori. Dipende da ognuno far fronte alle situazioni, accettare il cambiamento, farsi carico di se stesso. In un certo modo, «l’operatore» è liberato dalle costrizioni collettive, che potevano essere onerose, come avveniva nel quadro dell’organizzazione taylorista del lavoro. Ma egli è in qualche modo obbligato ad essere libero; è spinto ad essere performativo, pur essendo completamente abbandonato a se stesso. E questo perché le costrizioni, evidentemente, non sono spariteetendonopiuttostoad accentuarsi,inuncontestodi concorrenza esasperata e sottolaminacciapermanente delladisoccupazione. Ora, non tutti sono ugualmente attrezzati per far fronte a queste esigenze. Certe categorie di lavoratori beneficiano immancabilmente di questo aggiornamento 10 individualistico. Essi massimizzano le loro opportunità, sviluppano le loro potenzialità, si rendono conto di possedere capacità imprenditoriali che potevano essere soffocate dalle costrizioni burocratiche e dalleregolamentazionirigide. È la parte di verità contenuta nellecelebrazionineoliberiste dello spirito d’impresa. Le quali,però,implicanounnon detto. Dimenticano di sottolineare–ilcheètuttavia la constatazione sociologica piúelementare–chelamessa in mobilità generalizzata introduce nuove scissioni nel mondo del lavoro e nel mondo sociale. Ci sono i vincenti del cambiamento, che possono scegliersi nuove opportunità e realizzarsi attraverso di esse, sul piano professionale e su quello personale 11. Ma ci sono anche tutti coloro che non possono far fronte a questo rimescolamento delle carte e si trovano invalidati dalla nuovacongiuntura. Ora, questa distribuzione non si verifica casualmente. Oltre che dalle differenti capacità psicologiche degli individui – ripartite, possiamo ipotizzarlo, in maniera casuale –, essa dipende fondamentalmente dalle risorse oggettive che questi individui possono mobilitare e dai supporti ai quali si possono appoggiare per affrontare le nuove situazioni. Bisogna qui ricordarechequestisupporti, per tutti coloro che non possono contare su altre risorse che non siano quelle derivatedallorolavoro,sono essenzialmente di ordine collettivo. Diciamolo con altre parole e ripetiamolo: rispetto a coloro che non dispongono di altri «capitali» – non solo economici ma anche culturali e sociali – le protezioni o sono collettive o non sono. Negli spazi lavorativi,essesonoanzitutto quellesolidarietàchenascono da una comune condizione e da una subordinazione condivisa. Questi legami hanno costituito la base a partiredallaqualeilavoratori piú deprivati hanno potuto spessoorganizzarsi,resisteree liberarsi,inunacertamisura, dalle forme piú dirette di sfruttamento:equestoperché tali legami costituivano dei collettivisolidali.Maanchele convenzioni collettive, oltre cheidirittisocialidellavoroe dellaprotezioneprevistidalla legge,hannogarantitolaloro tutela nel presente e hanno loro permesso di controllare l’incertezza dell’avvenire. Si capisce,aquestopunto,come illorosganciamentodaquesti sistemi collettivi possa farli nuovamente sprofondare nell’insicurezzasociale. Il ritorno delle classi pericolose. C’è una doppia lettura possibile degli effetti sociopolitici di questo degrado. La prima pone l’accento su questesituazionidiperditain quantoessedesocializzanogli individui. Gli innumerevoli discorsisull’esclusionehanno analizzato in tutte le sue sfaccettature, e fino alla nausea,unadisgregazionedel legame sociale che avrebbe caratterizzato la rottura dei legami tra gli individui e le loroappartenenzesociali,per lasciarli di fronte a se stessi e allaloroinutilità.«Gliesclusi» non sono collettivi, ma collezionidiindividui,iquali non hanno in comune nient’altrochelacondivisione di una stessa mancanza. Essi sono definiti su una base unicamentenegativa,comese si trattasse di elettroni liberi, completamentedesocializzati. Cosí,identificareadesempio, all’interno dello stesso paradigma dell’esclusione, il disoccupatodilungaduratae ilgiovanediperiferiaincerca di un improbabile impiego, significa rischiare di non prendere in considerazione il fattocheessinonhannonélo stesso passato, né lo stesso presente, né lo stesso avvenire,echeiloropercorsi sono totalmente diversi. Significaconsiderarlicomese vivessero fuori dallo spazio sociale. Ora, nessuno, e nemmeno l’escluso, esiste fuori dallo spazio sociale, e la decollettivizzazione è essa stessa una situazione collettiva. Si è detto troppo sbrigativamente che non c’erano piú classi sociali né gruppi costituiti, poiché questicollettiviavevanoperso l’omogeneità e il dinamismo su cui si fondava la loro identità di attori sociali a pienotitolo(sièdettoquesto un po’ mitizzando, peraltro, l’unitàel’operativitàdientità come«laclasseoperaia»o«la borghesia conquistatrice»). Ciò significa dimenticare che possono esservi classi o gruppi che hanno un percorso comune non destinato a un avvenire radioso:classiogruppiche,al contrario, portano sulle loro spalle il peso di grandissima parte della miseria del mondo.Cisonodeigruppiin situazione di mobilità sociale discendente,lacuicondizione comune si degrada. Essi costituiscono un terreno instabile, particolarmente favorevole allo sviluppo del sentimentodiinsicurezza:un terreno di cui è necessario reimpadronirsi per far conoscere la dimensione collettiva di questo sentimento. Si tratta di un processo storico generale: la promozione di gruppi dominantisiattuaascapitodi altri gruppi, dei quali essa provocaildeclino.Sipossono esemplificare gli effetti di questa dinamica citando il caso del movimento francese qualunquista detto «pugiadismo», che presenta inquietanti analogie con la situazione attuale. Negli anni Cinquanta del Novecento il fenomeno pugiadista ha rappresentato la reazione di categorie socio-professionali messe in disparte dalla modernizzazionedellasocietà francese, cosí come si verificava allora entro un quadro nazionale. Mentre il salariato si adagia e si rinforza, mentre le amministrazioni pubbliche assicurano la loro influenza sulla società, mentre lo Stato pianifica e razionalizza le strutture dell’economia, intere categorie, come gli artigiani e i piccoli commercianti, hanno la sensazione di non contare nulla. Sono le vittime di una dinamica di sviluppo economico e di progresso sociale che può poggiare su buone ragioni – la modernizzazione ha i suoi costi –, ma all’interno della quale non occupano nessuna posizione. Lo smarrimento delnonaverepiúunavvenire è senza dubbio provato individualmente da ciascun membro di queste categorie sociali, ma la loro reazione è collettiva. Essa è segnata dal marchiodelrisentimento 12.Il risentimento può essere una molla di azioni o di reazioni socio-politiche profonde, che non hanno forse ricevuto un’attenzione sufficiente. È unamescolanzadiinvidiaedi disprezzo che gioca su un differenziale di situazione sociale: che attribuisce le responsabilità della sventura subita a categorie che nella scala sociale si situano a un livello appena superiore o appena inferiore. Cosí si spiega l’astio dei piccoli commercianti e artigiani versoisalariatieifunzionari: essi disponevano di redditi simili ma si riteneva che lavorassero meno, che beneficiassero di una gran quantità di vantaggi sociali, e soprattutto che avessero l’avvenire assicurato. Il risentimento collettivo si nutre del sentimento condiviso di ingiustizia provato dai gruppi sociali il cuistatutosideteriora:gruppi chesisentonospossessatidei benefici che traevano dalla loro posizione precedente. Si tratta di una frustrazione collettiva che va alla ricerca dei responsabili o dei capri espiatori. Al di là dei fattori particolari che hanno dato una configurazione specifica al pugiadismo (che, come il lepenismo, porta il nome di un capo carismatico) 13, questo movimento veicola una dimensione strutturale chepuòfarcicomprenderela reazionedeigruppiinvalidati dal cambiamento sociale. La modernizzazione ha assunto, da una ventina d’anni a questaparte,unadimensione europea e mondiale sempre piú accentuata. Le categorie sociali piú colpite non sono piú quelle che costituivano le basi di un paese tradizionale già ampiamente disgregato: classe contadina, artigianato, piccolo commercio, lavoro autonomo alla vecchia maniera. Oggi le categorie colpite rappresentano una parte importante dei gruppi che hanno occupato o avrebbero potuto occupare una posizione centrale nella società industriale: ampie frange della classe operaia integrate durante gli anni della crescita, ampie frange delle categorie di impiegati, soprattutto quelli meno qualificati, e dei giovani di ceto popolare che un tempo sarebbero passati senza problemidall’apprendistatoo dalla fine dell’età scolare all’impiego stabile, eccetera. Anche al di là della disoccupazione di massa, si assiste a una dequalificazione di massa che colpisce soprattutto gli ambienti popolari 14. Per esempio, con la deindustrializzazione, diplomi come la licenza di scuola professionale o il diploma di insegnamento industriale, un tempo garanzia di integrazione nel mondo del lavoro, sono largamente screditati. Quale sarà l’avvenire europeo di un titolare di diploma di aggiustatore? Piú generalmente, quale potrà essere,nell’Europadidomani, il ruolo di tutte quelle specializzazioni rigide, legate a mansioni precise, che rinviano a uno stadio antecedente alla divisione del lavoro? Esse sembrano condannare i loro possessori all’immobilità, mentre l’avvenireapparterràacoloro che sapranno essere mobili e capaci di assumere il cambiamento. Quanto al voto dell’aprile 2002 in Francia in favore del Fronte nazionale, esso ha rivelato – cosa che non avrebbedovutocostituireuna grandesorpresa–cheinlarga parte rappresentava l’espressione delle categorie popolari un tempo elettoralmente e socialmente ancorate alla sinistra 15. La connotazione di estrema destra, o fascistizzante, di questovotononmisembrala piú significativa sociologicamente,benchénon debba essere trascurata, proprio in ragione della sua pericolosità politica. Dal punto di vista sociologico, si tratta sostanzialmente di una reazione «pugiadista», alimentata da un sentimento di abbandono e dal risentimento verso altri gruppi e verso i loro rappresentanti politici, che traggono benefici dal cambiamento disinteressandosi della sorte dei perdenti. D’altronde, si potrebbe inserire in questo stesso quadro una parte del voto di estrema sinistra che, in assenza di una prospettiva credibile di trasformazione globale della società, è anche un voto di protesta, per non dire(maperchéno?)unvoto motivatodalrisentimento. Se oggi è necessario, per non correre il rischio di una morte sociale, giocare secondo le regole del cambiamento, della mobilità, dell’adattamentopermanente, del riciclaggio incessante, è evidente che certe categorie sociali sono particolarmente malattrezzateperfarfrontea questa nuova distribuzione delle carte, e si può aggiungere che ci si è molto poco preoccupati di aiutarle in questo (per esempio, l’imposizione della flessibilità nelle imprese è stata raramente associata a efficaci misure di accompagnamento che assicurino la riconversione degli operatori). Quindi, nella migliore delle ipotesi, questi gruppisarannolapartereietta di un’economia mondializzata.Nellapeggiore delle ipotesi, i loro membri, divenuti «inimpiegabili», rischiano di essere condannati a sopravvivere negliinterstizidiununiverso sociale, ricomposto a partire dalle sole esigenze dell’efficienza e della performance. Vièquiunpotentefattore che determina la produzione di insicurezza. Se oggi si può parlare di un riemergere dell’insicurezza, è in larga misuraperchéesistonofrange della popolazione ormai convinte di essere state lasciate ai margini del percorso, incapaci di controllare il loro futuro in un mondo sempre piú segnato dal cambiamento. Si può quindi comprendere come i valori che tali frange della popolazione coltivano sianopiúrivoltialpassatoche a un avvenire che incute paura. Il risentimento non predispone né alla generosità né alla capacità di rischiare. Essoinduceunatteggiamento difensivocherifiutalanovità, ma anche il pluralismo e le differenze.Nellerelazioniche intrattengono con gli altri gruppi sociali, queste categoriesacrificate,piuttosto cheaccogliereladiversitàche tali gruppi rappresentano, cercano in essi dei capri espiatoricapacidispiegarela loro sensazione di abbandono. Si è già notato che il pugiadismo, inteso come nozione generica di cui il lepenismo rappresenta una versione attualizzata, operava un rovesciamento della conflittualità sociale su categoriemoltovicine.Inaltri termini: invidia e disprezzo del lavoratore autonomo verso il salariato in organico, che si accaparra i vantaggi sociali e va in vacanza aspettandotranquillamentela sua pensione, mentre il piccolo commerciante si alza alle cinque del mattino per comprare i suoi prodotti ai mercatigeneralielavorafino allenovediserapervenderli. Oggi: razzismo verso l’immigrato, che viene considerato meno competente ma piú docile e che, si dice, può essere preferito nella corsa per il posto di lavoro; è lo stesso immigrato che accumula i beneficidell’assistenzasociale che dovrebbero essere riservatiaicittadiniautoctoni e che in casa nostra si comportadapadrone,mentre non è altro che un parassita. Qui non ci interessa il fatto che queste rappresentazioni siano il piú delle volte false. Esse sono diffuse e il loro peso, oggi, è tale che non possiamoliquidarleacolpidi giudizimorali. È d’altra parte incongruente chiedere ai gruppi piú sfavoriti di essere sociologi di se stessi e di costruire da soli una teoria della loro condizione (il proletariato industriale del XIX secolo ci ha messo davvero molto tempo prima di costituirsi in classe operaia). Si può perfettamente comprendere come una reazione sociale proceda molto celermente: come essa possa risparmiarsi lunghe concatenazioni argomentative, che occorrerebbe sviluppare per renderecomprensibilituttele componenti di questa situazione, spesso ignote persino a economisti patentati e a specialisti delle scienze sociali. Il risentimento, in quanto risposta sociale al malessere sociale, si indirizza verso i gruppi piú vicini. Si tratta di una reazione di «piccoli bianchi», cioè di categorie collocate al fondo della scala sociale, esse stesse in situazionedideprivazione,in concorrenza con altri gruppi, altrettanto o maggiormente deprivati (come i bianchi del Sud degli Stati Uniti, i quali, andati in rovina dopo la guerra di Secessione, si trovano di fronte ai neri, poveri come loro o piú di loro, ma liberati). Essi cercano delle ragioni di autocomprensione e si attribuiscono una superiorità attraversol’odioeildisprezzo di matrice razzista. È giocoforza constatare che ancor oggi abbiamo i nostri piccolibianchi 16. Si può anche capire il carattere paradigmatico del «problema delle periferie» in rapporto alla tematica attuale dell’insicurezza. I «quartieri sensibili» assommano i principali fattori che determinanolaproduzionedi insicurezza: forti tassi di disoccupazione, di lavoro precario e di attività marginali, habitat degradato, urbanizzazione senz’anima, promiscuità tra gruppi di origine etnica differente, presenza permanente di giovani sfaccendati che sembrano esibire la loro inutilità sociale, visibilità di pratiche delinquenziali legate al traffico della droga e alla ricettazione, frequenza di atti incivili, di momenti di tensione e di agitazione, di conflitti con le forze dell’ordine, eccetera. Insicurezza sociale e insicurezza civile, qui, si sovrappongono e si alimentano reciprocamente. Tuttavia, sulla scorta di queste constatazioni che non hanno nulla di idilliaco, la demonizzazione della questione delle periferie, e in particolare la stigmatizzazione dei giovani diperiferiaallaqualesiassiste oggi, dipende da un processo di spostamento della conflittualità sociale che potrebbe ben rappresentare un dato permanente della problematica dell’insicurezza. Mettere in scena la condizione delle periferie come se fossero un ascesso provocato dalla stabilizzazione dell’insicurezza – una messa in scena cui collaborano il poterepolitico,imediaeuna larga parte dell’opinione pubblica – significa in qualche modo sancire il ritorno delle classi pericolose, cioè la cristallizzazione su gruppi particolari, situati ai margini, di tutte le minacce veicolate da una determinata società. Il proletariato industriale ha giocato questo ruolo nel XIX secolo: classi lavoratrici,classipericolose.Il fatto è che all’epoca i proletari,ancheselavoravano piú spesso, non erano inquadrati in forme di impiego stabile; essi importavano nella periferia delle città industriali una cultura di origine rurale decontestualizzata, percepita dai cittadini come un’incultura; vivevano nella precarietà permanente del lavoroedellacasa:condizioni poco favorevoli allo stabilirsi di relazioni familiari stabili e allo sviluppo di costumi rispettabili. Come dice Auguste Comte, questi proletari «si accampano nel cuore della società occidentale senza esservi accasati» 17. La formula non potrebbe forse essere applicata alle attuali popolazioni di periferia, o perlomeno all’immagine che di tali popolazioni ci siamo costruiti? Esse non sono «accasate», cioè non sono integratee,comeaccadevaun tempo per i proletari, hanno difficoltà ad esserlo per delle buone ragioni: sono spesso portatrici di una cultura d’origine straniera, sono discriminatenegativamenteal momento della ricerca di un lavoro 18 o di una casa decente, devono far fronte quotidianamente all’ostilità della popolazione urbana e delle forze dell’ordine, eccetera. Il dramma, in queste situazioni, è che le condanne moralipossonoesseresempre verificate, almeno in parte, allalucedeifatti:apartireda simili condizioni, infatti, non si può certo diventare degli angeli e l’insicurezza, non solosocialemaanchecivile,è effettivamente piú elevata in periferia che altrove. La scorciatoia è nondimeno sorprendente.Farediqualche decina di migliaia di giovani, spesso piú poveri che cattivi, il nocciolo della questione sociale – divenuta la questionedell’insicurezzache minaccerebbe le fondamenta dell’ordine repubblicano – significa operare una straordinaria condensazione della problematica globale dell’insicurezza. È vero che queste strategie presentano alcuni vantaggi. Evitano di dover prendere in considerazione l’insieme dei fattorichesonoall’originedel senso di insicurezza e che dipendonosiadall’insicurezza socialechedalladelinquenza. Tali strategie permettono anche di mobilitare una batteria di mezzi che, se non sono sempre efficaci, sono almenodisponibiliconleloro istruzioni per l’uso. La repressione dei reati, la punizione dei colpevoli, il perseguimento di una «tolleranza zero», a costo di dover aumentare il numero dei giudici e dei poliziotti, sono certamente dei cortocircuiti semplificatori in rapporto alla complessità dell’insieme dei problemi posti dall’insicurezza. Ma questestrategie,soprattuttose sono messe bene in scena e perseguite con determinazione, hanno almeno il merito di mostrare che si fa qualcosa (non si è lassisti) senza doversi fare carico di questioni altrimenti delicate quali, ad esempio, la disoccupazione, le disuguaglianze sociali, il razzismo: fattori che sono anche all’origine del senso di insicurezza 19. Tutto questo può forse pagare politicamente, a breve termine, ma è assai dubbio che si tratti di una risposta adeguataalladomanda:«cosa significaessereprotetto?» Anche al di là della questionedelleperiferieedei problemidelladelinquenza,si assiste proprio a uno spostamento dello Stato sociale verso uno Stato sicuritario, che esalta e realizza il ritorno alla legge e all’ordine, come se il potere pubblico dovesse mobilitarsi essenzialmente attorno all’esercizio dell’autorità. La questione dell’insicurezza civile pone dei problemi fondamentali ed è dovere dello Stato affrontarli 20. Ma tuttoavvienecomeseoggi,in Francia,loStatosigiocassela partepiúimportantedellasua credibilità sulla capacità di combattere l’insicurezza. È tuttavia escluso che questo tipo di risposta possa estendersi all’insieme dei fattori che producono l’insicurezza. Perché questo avvenga, bisognerebbe ostacolaresialedinamichedi individualizzazione – che, come si è visto, lavorano in profondità tutto il corpo sociale – sia il libero gioco della concorrenza e della competitività che, come si proclama, deve regnare al tempo stesso nel cuore dell’impresa e nel mercato. Uno Stato puramente sicuritario si condanna, cosí, ad approfondire la contraddizione tra l’atteggiamento lassista di frontealleconseguenzediun liberalismo economico che alimenta l’insicurezza sociale e l’esercizio di un’autorità priva di incrinature che restauralafiguradiunoStato gendarme, garante della sicurezza civile. Una tale rispostapotrebbeesserevitale solo se sicurezza civile e sicurezza sociale costituissero due sfere impermeabili e separate: ma non è questo il caso,comeappareevidente. 1 P. WAGNER , Soziologie der Moderne.FreiheitundDisziplincit. 2 Questa espressione di Stato nazional-sociale non ha proprio niente in comune con il nazionalsocialismo fascista. Si tratta senza dubbio dell’espressione piú adeguata per qualificare la politica dei principali stati dell’Europa occidentaledopolaSecondaguerra mondiale. Stati che hanno potuto sviluppare, attraverso le specificità delle configurazioni nazionali, politiche sociali di ampiezza comparabile: ogni Stato, controllando il proprio sviluppo economico, poteva dispiegare misure economiche simili a quelle degli stati vicini dal momento che questeallocazionidellerisorsenon lo penalizzavano sul piano della concorrenzainternazionale(sipuò aggiungere, d’altronde, che queste politiche degli stati-nazione europeieranofacilitatedairapporti di scambio ineguali che la loro posizione dominante sul piano internazionale permetteva loro di stabilire con le colonie, le ex colonieeipaesidelTerzomondo). ÉtienneBalibarusal’espressionedi Statonazional-socialeconlostesso significato: cfr. Entretien avec ÉtienneBalibar,in«Mouvements», n.1,novembre-dicembre1998. 3 Cfr. J.-P. FITOUSSI e P. ROSANVALLON , Le Nouvel Âge des inégalités, Éditions du Seuil, Paris 1997. 4 Cfr. É. MAURIN , L’égalité des possibles, Éditions du Seuil - La RépubliquedesIdées,Paris2002. 5 U. BECK,Lasocietàdelrischio. Verso una nuova modernità, Carocci,Roma2000. 6 Cfr. L. BOLTANSKI ed É. CHIAPELLO , Le nouvel Esprit du capitalisme,Gallimard,Paris1999. 7 P.-M. MENGER , Portrait de l’artiste en travailleur, Éditions du Seuil - La République des Idées, Paris2002. 8 Cfr. Y. MOULIER BOUTANG , Capitalisme cognitif et nouvelles formes de codification du rapport salarial, in C. VERCELLONE (a cura di), Sommes-nous sortis du capitalisme industriel?, La Dispute, Paris2003. 9 Per un’analisi degli effetti di queste trasformazioni nell’ambito di un baluardo classico di organizzazione industriale, le fabbriche Peugeot di SochauxMontbéliard, cfr. S. BEAUD e M. PIALOUX , Retour sur la condition ouvrière,Fayard,Paris1999. 10 [In italiano nel testo. N. d. T.]. 11 È comunque opportuno relativizzare l’ottimismo del punto di vista manageriale su questo punto.Lamobilitàcostringespesso glioperatoriacaricarsiinmaniera eccessiva nelle loro mansioni, a essere invasi dagli imperativi del lavoro, perfino nelle condizioni di nonlavoro,epuòinfinesfibrarlie demotivarli, anche se si tratta di quadri di alto livello (si veda l’abbondante letteratura anglosassone sul burn out). A dispetto della tendenza verso la riduzione legale dell’orario di lavoro (si veda la legge sulle 35 ore), sembra che l’intensificazione dei carichi di lavoro sia una caratteristica generale della riorganizzazione contemporanea dellaproduzioneatuttiilivelli(cfr. peresempio B. VIVIER,La place du travail, Rapport du Conseil économique et social, Éditions du Journalofficiel,Paris2003). 12Siveda,tuttavia, P. ANSART (a cura di), Le ressentiment, Bruyant, Bruxelles2002. 13 Si può d’altronde ricordare che il piú giovane deputato eletto nel 1956, durante l’ondata pugiadista,eraJean-MarieLePen. 14Questadimensionecollettiva delle situazioni di invalidazione sociale legate al declino del movimento operaio è ben sottolineata da S. BEAUD e M. PIALOUX , Retour sur la condition ouvrièrecit. 15 Tra i molteplici tentativi di spiegazione di questa «sorpresa» che è stata il risultato del primo turno dell’elezione presidenziale dell’aprile2002(incuiilcandidato delFrontenazionalefinisceintesta tra i disoccupati, i lavoratori precariecertecategoriedioperaie di impiegati), cfr. M. PIALOUX e F. WEBER , La gauche et les classes populaires. Réflexions sur un divorce, in «Mouvements», n. 23, settembre-ottobre2002. 16 Non vorrei che questa qualificazione di «piccoli bianchi», che pretende di essere obiettiva come quella di pugiadista, venga anch’essa intesa come un marchio di disprezzo per coloro che caratterizza in questo modo. Anzitutto perché queste reazioni esprimono lo smarrimento di fronteaunasituazionechenonsiè sceltaedellaqualenonsièilprimo responsabile.Insecondoluogoper il fatto che i poveri non hanno il monopolio del razzismo di classe. Ad esempio, è proprio un vero razzismo di classe quello che la borghesia benpensante del XIX secolo ha sviluppato nei confronti di quei «nuovi barbari» che erano rappresentati, ai suoi occhi, dai proletari della prima industrializzazione. 17 A. COMTE , Système de politique positive, Paris 1929, p. 411. Prima i vagabondi avevano svolto la stessa funzione di «classe pericolosa», cristallizzando il sentimento di insicurezza proprio dellesocietàpreindustriali.Sitratta di un’altra esemplificazione del tipo privilegiato di relazioni che una società intrattiene con i suoi elementi marginali e che potrebbe rinviare a un tratto antropologico permanente: il nemico interno è collocato ai margini del corpo sociale, all’interno di quei gruppi chesonoconsideraticomestranieri perchéspessoprovengonodafuori, non sembrano condividere la cultura dominante e non entrano nei circuiti comuni degli scambi sociali. 18 La discriminazione all’assunzione per ragioni che riguardanoilcoloredellapelleoil suono del cognome è una pratica corrente che non solo è moralmente condannabile ma che entraancheincontraddizioneconi principî ostentati dal liberalismo dominante. Da un lato, l’ideologia liberalecondannatuttociòchepuò opporsi alla liberazione del mercatodellavorocolpendocosíle protezionideldirittodellavoroche potrebbero essere di ostacolo alla sua apertura. Ma al tempo stesso l’ideologia liberale incoraggia il protezionismo delle politiche di immigrazione e tollera le pratiche discriminatorie verso candidati all’impiego che, a parità di qualificazione, sono penalizzati solo perché presentano un profilo «esotico». Sarebbe necessario approfondire questa contraddizione del liberalismo attuale: da un lato vuole imporre adognicostolaliberacircolazione delle merci, mentre dall’altro si adatta a barriere politiche e sociali innalzate contro la libera circolazionedellepersone. 19 L’analogia con la politica relativa al trattamento del vagabondaggio nelle società preindustriali può essere decisamenteilluminante.Dallafine del Medioevo, la monarchia francese, ma anche, in linea piú generale, l’insieme dei poteri in Europa occidentale, ha fatto della repressione del vagabondaggio e della mendicità il cuore delle sue politiche sociali, e non ha risparmiato mezzi per raggiungere questoobiettivo.Ma,adispettodel fatto che parecchie centinaia di migliaia di vagabondi siano stati banditi, messi al palo, rinchiusi, condannati ai lavori forzati, impiccati,eccetera,sipuòdubitare dell’efficacia di queste misure perché esse si sono instancabilmenteripetutenelcorso di piú secoli: a partire, ogni volta, dallaconstatazionedelloroscacco. Senza dubbio la crudeltà di queste disposizioni ha da sola dissuaso numerosi individui privi di risorse dall’intraprendere vite cosí pericolose («la vera prevenzione è la sanzione»). Ma il problema è rimasto irrisolto fino alla fine dell’AncienRégime,perchéciòche alimentava il vagabondaggio e la mendicità dei soggetti validi era la miseria di massa e la chiusura del mercato del lavoro, derivata dal sistema delle corporazioni. La risposta liberale alla questione del vagabondaggio è stata la proclamazionedelliberoaccessoal lavoro (si veda la legge Le Chapelier). Ma è stata necessaria una rivoluzione per arrivarci e, d’altra parte, si è trattato di una legge destinata a produrre degli effetti problematici in termini di insicurezza: è stata la condizione cheharesopossibilelacostituzione del proletariato, che diverrà a sua voltauna«classepericolosa». 20 Su questo punto si veda, ad esempio, H. LAGRANGE , Demandes de sécurité. France, Europe, ÉtatsUnis, Seuil - La République des Idées, Paris 2003, e D. PEYRAT , Élogedelasécurité,Gallimard-Le Monde, Paris 2003. È legittimo combattere questa insicurezza, tanto piú che coloro che la subisconosononellamaggiorparte deicasigliabitantideiquartieriche vivonougualmentenell’insicurezza sociale. Cosí l’associazione insicurezza civile - insicurezza sociale gioca anche a favore, o piuttosto a sfavore, delle vittime dellepratichedelinquenziali. Capitoloquarto Unanuovaproblematicadel rischio A partire dagli anni Ottanta, ci si colloca – cosí sembra – all’interno di una nuova problematica dell’insicurezza. Situata al puntod’incontrotradueserie di trasformazioni, questa problematica si caratterizza anzitutto per la sua straordinariacomplessità. C’è in primo luogo una difficoltà crescente a essere assicurati contro i principali rischi sociali che potremmo definire «classici», e che in lineaessenzialeparevafossero stati eliminati (infortunio, malattia, disoccupazione, incapacità di lavorare dovuta all’età o alla presenza di un handicap…) Secondo questa prima linea di analisi da noi seguita,sièpotutoconstatare un guasto, seguito da un’erosione, dei sistemi di protezione che all’interno dellasocietàsalarialesierano sviluppati sulla base di condizioni lavorative stabili. Con l’indebolimento dello Stato nazional-sociale, vengono a trovarsi in una situazione di vulnerabilità individuiegruppiincapacidi dominare i cambiamenti socio-economici subiti, relativi al periodo che inizia dopo la metà degli anni Settanta. Di qui uno smarrimentoeunaperditadi sicurezza di fronte all’avvenire, che possono anchealimentarel’insicurezza civile, soprattutto in territori come le periferie, in cui si cristallizzanoipiúimportanti fattori di dissociazione sociale. Rischi,pericoliedanni. Tuttavia, nel momento in cui i classici sistemi di produzione della sicurezza si sono cosí fortemente indeboliti, è apparsa una nuovagenerazionedirischi,o almeno di minacce percepite come tali: rischi industriali, tecnologici, sanitari, naturali, ecologici,ecc.Sitrattadiuna problematica del rischio priva, a quanto sembra, di relazioni dirette con le problematiche precedenti; la sua emergenza, infatti, corrisponde essenzialmente alleconseguenzeincontrollate dello sviluppo delle scienze e delle tecnologie che si rivoltano contro la natura e contro l’ambiente: natura e ambiente che esse pretendevano di dominare a vantaggio dell’uomo. La proliferazione dei rischi apparequistrettamentelegata alla promozione della modernità. Ulrich Beck chiama cosí «società del rischio» la stessa società moderna, colta nella sua dimensione essenziale: non è piúilprogressosocialemaun principio generale di incertezza che governa l’avvenire della civiltà. L’insicurezza diventa cosí l’orizzonte insuperabile della condizione dell’uomo moderno. Il mondo è un vasto campo di rischi, «la terra è divenuta un sedile eiettabile» 1. La riflessione contemporanea sull’insicurezza deve includere questo parametro. Se essere protetto significa essereingradodifronteggiare i principali rischi dell’esistenza,questagaranzia sembra oggi doppiamente messa in scacco: dall’indebolimento delle coperture «classiche», ma anche da un sentimento generalizzato d’impotenza a fronte di nuove minacce che sembrano inscritte nel processo di sviluppo della modernità. Si può ipotizzare che la frustrazione sicuritaria contemporanea tragga alimento da questa doppia fonte. È per questo che bisogna evidenziare tale connessioneealtempostesso denunciare la confusione che alimenta. L’inflazione attuale della sensibilità verso i rischi fa della ricerca di sicurezza una rincorsa senza fine e sempre frustrata. Tuttavia, all’interno di quelli che sono oggi considerati rischi, è necessario distinguere gli imprevisti dell’esistenza, che possono essere controllati in quanto socializzabili, dalle minacce la cui presenza dovrebbe essere riconosciuta senza che si possa premunirsene: ciò significa che occorre accettarle come deilimiti,provvisoriforse,ma attualmente insuperabili, del programmadiprotezioniche una società ha il dovere di assumersi. Si afferma infatti che noi vivremmoinuna«societàdel rischio» sulla base di un’estrapolazionecontestabile dellanozionestessadirischio. Unrischio,nelsensoproprio del termine, è un avvenimento prevedibile: si possono infatti calcolare le probabilità della sua comparsaeilcostodeidanni che esso potrà provocare. Il rischio può anche venire indennizzato, dato che può essere equamente ripartito 2. L’assicurazione è stata la grande tecnologia che ha permesso il controllo dei rischi, distribuendone gli effettiall’internodelcollettivo di individui resi solidali di fronte a diverse minacce prevedibili. La generalizzazione dell’obbligo di assicurazione (che implica lagaranziadelloStato)èstata la strada maestra per realizzarelacostituzionedella «società assicurante»: una società nella quale tutti gli individui sono tutelati (assicurati) sulla base della loro appartenenza a gruppi, i cui membri pagano la loro quotapersuddividereilcosto dei rischi. Alla base della copertura dei rischi sociali vi è quindi un modello solidaristico,omutualistico. Una «società del rischio» nonpuòessereresapiúsicura inquestomodo.Questinuovi rischi sono largamente imprevedibili; non sono calcolabilisecondounalogica probabilistica e producono conseguenze irreversibili, anch’esse incalcolabili. Una catastrofe come quella di Chernobyl o il morbo della mucca pazza, ad esempio, non possono essere equamente ripartite e non possonoesserecontrollatenel quadro di un sistema assicurativo. Non si tratta propriamente di rischi, quindi, ma piuttosto di eventualità nefaste, o di minacce, oppure di pericoli che «rischiano» effettivamente di prodursi, ma senza che siano disponibili tecnologie adeguate per affrontarli e conoscenze sufficienti per anticiparli. L’imprevedibilità della maggior parte di questi «nuovi rischi», la gravità e il carattere irreversibile delle loroconseguenzefannosíche la miglior prevenzione consista spesso nel giocare d’anticipo rispetto alle eventualità peggiori e nel prendere provvedimenti al fine di evitare che accadano, ancheseesserimangonoassai aleatorie. Si abbattono, ad esempio, tutti i capi di bestiamebovinosenzasapere sesianostatiomenoinfettati, al prezzo di conseguenze economiche e sociali sproporzionate rispetto al rischio reale. Si potrebbe discettare a lungo su questo punto: si producono danni assai tangibili allo scopo di evitare un’eventualità improbabile, che non è neppure prevedibile in terminiprobabilistici 3. L’inflazione contemporaneadellanozione di rischio crea anche una confusione tra rischio e pericolo. Parlare, con AnthonyGiddens,di«cultura del rischio» 4, significa affermare che siamo divenuti sempre piú sensibili alle nuove minacce: minacce veicolate dal mondo moderno, che effettivamente simoltiplicanoechevengono prodotte dall’uomo stesso attraverso l’uso incontrollato dellescienzeedelletecnologie e attraverso una strumentalizzazione dello sviluppo economico tesa a fare del mondo intero una merce. Nessuna società potrebbe tuttavia pretendere di sradicare la totalità dei pericoli che si profilano necessariamenteall’orizzonte. Si constata piuttosto che, nel momento in cui i rischi piú forti sembrano scongiurati, il cursore che segnala la sensibilitàairischisispostae faaffiorarenuovipericoli.Ma oggi questo cursore è collocato cosí in alto da stimolare una domanda di sicurezzadeltuttoirrealistica. Cosí la «cultura del rischio» fabbrica pericoli. Per fare un esempio un po’ triviale, la fame è stata a lungo per l’umanità il vero rischio alimentare, e lo rimane in molti paesi. Al contrario, nei paesi del benessere, è il fatto di mangiare che è divenuto pericoloso: oltre al prione della mucca pazza, l’elenco dei prodotti cancerogeni presenti negli alimenti aumenta ogni mese. Puntare al rischio zero in campo alimentare significherebbe perciò astenersi dal cibo («principio di precauzione»?) Dal momento che questa strada è impraticabile, rimangono il sospetto e l’ansia: l’insicurezza è anche nelpiatto. Per porre nuovamente, oggi, la questione delle protezioni, è necessario cominciare ad accentuare le distanze rispetto a questa inflazione contemporanea della nozione di rischio, che alimenta una domanda travolgente di sicurezza e dissolve,difatto,lapossibilità diessereprotetti.Ènecessario quindi ricordare che nessun programma di protezioni ha la possibilità di darsi per obiettivo la sicurezza dell’avvenire, cancellando pericoli e incertezze. La «culturadelrischio»estrapola la nozione di rischio, ma la svuota del suo contenuto sostanziale e le impedisce di essere operativa. Evocare legittimamente il rischio consiste non tanto nel collocare l’incertezza e la pauranelcuoredell’avvenire, quantopiuttosto,alcontrario, nel cercare di fare del rischio unriduttorediincertezza,allo scopo di governare l’avvenire sviluppando strumenti appropriati che lo rendano piú sicuro. È cosí che i rischi socialiclassici–nell’ambitodi una presa in carico collettiva – hanno potuto essere governati. Ma trattandosi dei «nuovirischi»apparsidopo,è necessario ugualmente chiedersiseilloroproliferare non comporti anche una dimensione sociale e politica, vistocheessaègeneralmente presentata come il segno di un destino ineluttabile: un «aspetto fondamentale della modernità in una società di individui», come afferma Anthony Giddens 5. Componente intrinseca di una società di individui o conseguenza di scelte economicheepolitichedicui vanno stabilite la responsabilità?Moltidiquesti «rischi», in effetti (inquinamento, effetto serra…),sortisconounasorta di effetto boomerang sugli equilibri naturali di un produttivismo sfrenato e di uno sfruttamento selvaggio delle risorse del pianeta. È tuttavia inesatto dire, con Ulrich Beck, che questi «rischi» attraverserebbero ormai le barriere di classe e sarebbero in qualche modo democraticamente condivisi. Cosí, per esempio, le industriepiúinquinantisono preferibilmente insediate nei paesi in via di sviluppo e colpiscono le popolazioni maggiormente prive di mezzi a garanzia dell’igiene e della sicurezza,dellaprevenzioneo dei risarcimenti di questi danni. Ci sono ingiustizie palesi nella ripartizione di questi «rischi», soprattutto se si pone il problema su scala planetaria, come è necessario fare dopo aver preso in considerazione i rapporti tra ladiffusionediquestotipodi nocivitàeilmodoincuiviene gestitalamondializzazione. Senza dubbio, piuttosto che di rischi, per quanto «nuovi» essi siano, sarebbe meglioparlare,qui,didannio di nocività. Questo non significa che tali rischi non potrebbero essere governati, machelarispostaadeguataè diversa da quella prevalsa nel controllo dei rischi sociali classici. Si vede bene, ad esempio, che se un’industria altamente inquinante viene insediata in una regione particolarmente sfavorita del Terzo mondo, al fine di sfruttarvi una manodopera a buon mercato, la risposta pertinente non consiste in una «mutualizzazione dei rischi», che obblighi le popolazioni autoctone ad assicurarsi contro queste nocività. Essa dovrebbe consistere, piuttosto, nel proscrivere queste nuove forme planetarie di sfruttamento, o quantomeno nell’imporre alle multinazionali che ne beneficiano delle regolazioni severe, compatibili con uno sviluppo durevole. Ciò significa mettere in campo istanze politiche transnazionali abbastanza potenti da imporre dei limiti alla frenesia del profitto e da addomesticare il mercato mondializzato. Privatizzazione o collettivizzazionedeirischi. Simili istanze non emergono molto spesso di questi tempi, tanto che ci troviamo completamente indifesi di fronte ai fattori dannosi prima citati. Ma almeno possiamo cominciare a chiederci se quella che si configura quasi come una metafisica del rischio non serva a occultare sia la specificitàdeiproblemichesi pongono oggi, sia la ricerca delle responsabilità che stanno all’origine dei danni spesso presentati come ineluttabili. L’ideologia generalizzataeindifferenziata del rischio («la società del rischio», «la cultura del rischio», eccetera) si dà oggi come il riferimento teorico privilegiato per denunciare l’insufficienza – ossia il carattere obsoleto – dei dispositivi classici di protezioneel’impotenzadegli stati nel far fronte alla nuova congiuntura economica. L’alternativa,quindi,nonpuò darsi che nello sviluppo delle assicurazioni private. Si può cosí capire perché, in ambito neoliberale, alcuni paladini dell’assicurazione abbiano non solo seguito con entusiasmo ma addirittura rilanciato analisi come quella di Beck o di Giddens. Cosí, con un sorprendente rovesciamento di fronte dei terminiinquestione,François Ewald e Denis Kessler fanno del rischio «il principio di riconoscimento del valore dell’individuo», «la misura di ognicosa»,assegnandogliuna dimensione quasi antropologica: come se il rischio, probabilità della comparsa di un evento a noi esterno,potessecostituireuna componente dell’uomo stesso 6. Ernest-Antoine Seillières spinge questa naturalizzazione del rischio fino alla caricatura, dato che per lui l’umanità si divide in «rischiofili» e «rischiofobi» 7. In effetti, l’insistenza posta sulla proliferazione dei rischi va di pari passo con una celebrazione dell’individuo svincolato dalle appartenenze collettive, «disincastrato» (disembedded), secondo l’espressione usata da Giddens. Questo individuo, dunque, è come un portatore dirischichenavigaavistanel bel mezzo degli scogli e deve gestiredasoloilsuorapporto conirischi.Nonsivedebene il ruolo che possono giocare in questo schema lo Stato sociale e l’assicurazione obbligatoria garantita dal diritto. C’è una relazione stretta tra l’esplosione dei rischi, l’iperindividualizzazionedelle pratiche e la privatizzazione delle assicurazioni. Se i rischi si moltiplicano all’infinito, e se l’individuo è lasciato solo ad affrontarli, sta all’individuo privato, privatizzato, il compito di assicurarsi da solo, se può farlo. Il governo dei rischi non è piú quindi un’impresa collettiva, ma una strategia individuale,mentrel’avvenire stesso delle assicurazioni private è assicurato dalla moltiplicazione dei rischi. La loro proliferazione apre un mercatopraticamenteinfinito al commercio delle assicurazioni. L’altra via per tentare di affrontarequestacongiuntura è quella di porre in risalto la dimensione sociale dei nuovi fattori di incertezza e di interrogarsi sulle condizioni necessarie per arrivare ad affrontarli collettivamente. Ma non bisogna nascondersi che questo compito presenta oggi difficoltà immense: difficoltà evidenti per quelli chehopropostodichiamare, invece che rischi propriamente detti, «danni inediti», prodotti dalla modalità di sviluppo economico e sociale attualmente prevalente. A dispetto di una presa di coscienza crescente dei misfatti di una mondializzazioneselvaggia(si veda al proposito il successo delle diverse correnti che militano a favore di una «altermondializzazione»), siamo ben lontani dall’aver trovato il genere di istanze internazionali–differentinel loro spirito dal Fondo monetario internazionale (Fmi),dallaBancamondialeo dall’Organizzazionemondiale per il commercio – che potrebbero ispirare un’amministrazione degli scambi internazionali, rispettosa delle esigenze ecologiche e sociali da imporre su scala planetaria 8. La complessità di tali problemi rende impraticabile lapretesaditrattarliinquesta sede, anche se essi si inscrivono in una rinnovata problematicadelleprotezioni, che bisognerebbe oggi promuovere. Si è tuttavia sottolineato fino a che punto fossero profondamente scossi i sistemi collettivi di protezione che avevano reso possibilelapresaincaricodei rischi sociali classici nel quadro della società salariale. Ora la situazione sembra completamente irreversibile. Non si tornerà indietro con una semplice restaurazione delle regolazioni collettive precedenti: tali regolazioni corrispondevano infatti alle forme, esse stesse collettive, della produzione del capitalismo industriale e alla loro gestione nell’ambito delloStato-nazione.Proprioil mutamento attuale del capitalismo – che passa attraverso la mondializzazione degli scambiel’esasperazionedella concorrenza–imponequeste forme di decollettivizzazione: impone una mobilità generalizzataallaforzalavoro, in primo luogo, ma anche ad ampi settori dell’esperienza sociale. La posizione da assumere non è quella di sottovalutare queste trasformazioni, ma quella di chiedersi – domanda difficile – quali forme di protezione sarebbero compatibili con il rovesciamento, al quale oggi assistiamo, delle forze produttive e dei modi di produzione. Una seconda ragione di fondo impedisce di considerare la crisi attuale delle protezioni come una traversia accidentale o provvisoria. La costruzione delle protezioni ha anche provocatounatrasformazione essenziale, e ugualmente irreversibile, dello statuto dell’individuo. Il paradosso, sottolineato tra gli altri da Marcel Gauchet, è che la presa crescente dello Stato sociale, procurando all’individuo protezioni collettiveconsistenti,haagito come un potente fattore di individualizzazione. L’«assicurazione di assistenza» 9, predisposta dallo Stato, libera l’individuo dalla dipendenza nei confrontidituttelecomunità intermedie che gli procuravano quelle che ho proposto di chiamare le «protezioni ravvicinate». L’individuo diventa cosí, almeno in tendenza, «liberato» in rapporto a esse, mentreloStatodiventailsuo principale supporto, cioè il suo principale fornitore di protezioni. Quando queste protezioni si incrinano, l’individuo diventa al tempo stesso fragile ed esigente, poiché è abituato alla sicurezza ed è roso dalla paura di perderla. Non è esagerato sostenere che il bisognodiprotezionefaparte della «natura» sociale dell’uomo contemporaneo, come se lo stato di sicurezza fosse divenuto una seconda natura e anche lo stato naturale dell’uomo sociale. È laposizionecontrariaaquella rappresentata da Hobbes agli albori della modernità. Ma questa inversione è stata resa possibile dal fatto che i sistemi di produzione della sicurezzaallestitidalloStatosi sono progressivamente imposti, fino ad essere completamente interiorizzati dall’individuo. E ciò è accaduto,indefinitiva,perché lo Stato, nella forma dello Stato nazional-sociale, ha realizzato compiutamente la sua missione. È diventato naturaleessereprotetti,ilche significa anche che è diventatonaturalerivendicare la protezione dello Stato. Ma è proprio a questo punto che leprotezionisiindeboliscono, inmaniera,aquantosembra, irreversibile. È dunque sicuramente ingenua la pretesa di mantenere o di restaurare lo statu quo delle protezioni precedenti, ed è questo il frequente rimprovero che i modernisti rivolgono, in perfetta buona fede, ai «nostalgicidelpassato».Maè almeno altrettanto ingenuo pretenderechel’abolizionedi queste protezioni «liberi» un individuo, che aspetterebbe solo questa occasione per dispiegare finalmente tutte le sue potenzialità. Si tratta dell’ingenuità dell’ideologia neoliberale dominante. Essa omette di prendere in considerazione il fatto essenziale che l’individuo contemporaneo è stato profondamente forgiato dalle regolazioni statuali. Non è in grado, se cosí si può dire, di rimanere in piedi da solo, poiché è come se fosse stato irrorato e attraversato dai sistemi collettivi di sicurezza allestititidalloStatosociale.A meno di non esaltare il ritorno allo stato di natura, cioèaunostatodiinsicurezza totale,lamessaindiscussione delle protezioni non può portareallalorosoppressione, ma piuttosto a una loro redistribuzione nella nuova congiuntura. 1 U. BECK , La società del rischio cit. 2 Cfr. P. PÉRETTI-WATEL , La société du risque, La Découverte, Paris2001. 3 Il principio di precauzione porta alle estreme conseguenze questalogica.Paradossalmente,ciò chespingeadecidereèl’incertezza: oggi occorre compiere le proprie scelte sulla base di possibilità di rischio la cui esistenza non si è manifestata al momento ma potrebberivelarsidomani. 4 Si veda A. GIDDENS , Le conseguenze della modernità. Fiducia e rischio, sicurezza e pericolo,ilMulino,Bologna1994. 5 ID. , Modernity and SelfIdentity,StanfordUniversityPress, StanfordCal.1991,p.224[trad.it. Identità e società moderna, Ipermediumlibri,Napoli1999]. 6 F. EWALD e D. KESSLER , Les nocesdurisqueetdelapolitique,in «Le Débat», n. 109, marzo-aprile 2000. 7 Si veda l’intervista in «Risques»,n.43,settembre2000. 8 L’Organizzazione internazionale del lavoro, tra i grandi organismi internazionali, è senza dubbio attualmente il piú importante nel manifestare questa preoccupazione. Il suo potere di intervento, purtroppo, non è neppure comparabile al potere esercitato,peresempio,dall’Fmi. 9 M. GAUCHET , La société d’insécurité, in J. DONZELOT (a cura di), Face à l’exclusion: le modèle français,Seuil,Paris1991.Loaveva già detto Durkheim, al quale si rimprovera ingiustamente di aver soffocato l’individuo sotto le costrizioni collettive: «La verità è che lo Stato è stato il liberatore dell’individuo […]. L’individualismo è andato di pari passoconlostatalismo»(in«Revue philosophique»,n.48,1899). Capitoloquinto Comecombattere l’insicurezzasociale? In che cosa potrebbe consistere una tale redistribuzione? Come ricomporre protezioni che imporrebbero dei principî di stabilità e dei dispositivi di sicurezzainunmondochesi confronta in maniera nuova con l’incertezza del domani? È senza dubbio la grande sfida che dobbiamo raccogliere oggi, e non è sicurochesaremoingradodi farlo.Nonsiavràlapretesadi fornire qui risposte circostanziate a questi interrogativi, che ci introducono alla ricerca di formule nuove piuttosto che farci approdare a delle certezze.Mapossiamotentare di precisare le poste in gioco di tali interrogativi limitandoci ai due principali settori che sono stati finora esplorati: quello della protezione sociale propriamente detta e quello della sicurezza delle condizioni di lavoro e dei percorsiprofessionali 1. Riconfigurare le protezioni sociali. Ecco dunque, in primo luogo, il dominio della protezione sociale propriamente detta, che in molti paesi corrisponde a ciò che noi chiamiamo «previdenza sociale» (assicurazioni contro la malattia, l’invalidità, gli infortuni sul lavoro, la disoccupazioneelavecchiaia, oltre che assegni familiari e assistenza sociale). A partire dall’inizio degli anni Ottanta, diverse politiche di inserimentoedi«lottacontro le esclusioni» hanno affiancato la previdenza sociale.Letrasformazioniche si osservano da una ventina d’anni a questa parte non hanno assunto i tratti di una rivoluzionebrutale.Ilsistema resta largamente dominato dalleassicurazioniconnesseal lavoro e finanziate dai contributi prelevati sul lavoro.Tuttavia,sonoapparse difficoltà crescenti e problematiche nuove, che rimettono in discussione l’egemonia di questo genere diprotezioni. Dapprima il blocco finanziario. Il finanziamento del sistema viene profondamente destabilizzato:daunlatodalla disoccupazione di massa e dalla precarizzazione delle relazioni di lavoro, dall’altro lato dalla riduzione della popolazioneattivaperragioni demografiche e dall’allungamento della speranza di vita. Come sostieneDenisOlivennes,una minoranza di soggetti attivi correrebbe ben presto il rischio di versare contributi per una maggioranza di soggettiinattivi 2. Ma la contestazione, al di là dell’argomentazione finanziaria, riguarda anche le modalità di funzionamento delsistemaelasuaincapacità di prendere in carico tutti coloro che sono in rottura con il mondo del lavoro. Paradossalmente, la protezione sociale classica renderebbecosípiúprofondo lo scarto tra una collettività che può continuare a beneficiarediprotezioniforti – concesse in modo incondizionato, poiché corrispondono a diritti provenienti dal lavoro – e il flusso crescente di tutti gli individui che non riescono a inscriversiinquestisistemidi protezione oppure se ne distaccano. Piú profondamente della questione del finanziamento, diventaalloradeterminantela strutturastessadiquestotipo diprotezioni:talestrutturale renderebbe inadatte a considerare la diversità delle situazioni e dei profili degli individui in attesa di protezione, dal momento che poggia sulla costituzione di categorie omogenee e stabili di popolazione e sulla concessione di prestazioni automaticheeanonime. A partire da queste constatazioni, si è visto svilupparsi, da una ventina d’anni, ciò che potrebbe ben rappresentare un nuovo regimedellaprotezionesociale rivolto agli emarginati delle protezioni classiche. Il nuovo regime si è progressivamente sistemato ai margini del sistema, promuovendo in successione le seguenti misure: moltiplicazione dei minimi sociali, concessi a soggetti che siano nelle condizioni di possedere risorse; sviluppo di politiche locali di inserimento e di politiche urbane; sviluppo di dispositivi di aiuto all’impiego,disoccorsoaipiú deprivati e di «lotta contro l’esclusione». Queste disposizioni non hanno obbedito a un piano d’insieme, ma sembrano tuttavia disegnare un nuovo referenziale di protezioni molto diverso da quello della proprietà sociale, caratterizzata dall’egemonia delle protezioni incondizionate fondate sul lavoro.BrunoPaliersintetizza cosí l’opposizione dei due registri: Apertura generalizzata ed egalitaria versus scissione e discriminazione positiva; prestazioni uniformi versus definizioni delle prestazioni a partire dai bisogni sociali; settori separati gli uni dagli altri (malattia, infortuni sul lavoro, vecchiaia, famiglia) versus trattamento trasversale dell’insieme dei problemi socialiincontratidaunastessa persona; amministrazione centralizzata nella gestione di un rischio o di un problema versus partenariato contrattualizzatoconl’insieme degli attori (amministrativi, politici,associativi,economici) capaci di intervenire; «amministrazionedigestione» versus «amministrazione di missione»; «centralizzazione e amministrazione piramidale» versus «decentralizzazione e territorializzazione» 3. Un’implicazione importante di questi cambiamenti è l’introduzione di una certa flessibilità nel regime delle protezioni. Questinuoviinterventisociali sicaratterizzanoineffettiper la loro diversificazione, pensati come sono per adattarsi alla specificità dei problemi delle popolazioni preseincaricoe,allimite,per adattarsi a una individualizzazione della loro messa in opera. Due termini, assenti nel dizionario delle protezioni classiche, occupanounpostostrategico inquestenuoveoperazioni:il contratto e il progetto. La realizzazione del salario minimo d’inserimento a partire dal 1988 esemplifica bene lo spirito di questo nuovoregimediprotezioni.Il suo ottenimento dipende in primo luogo dall’attivazione di un «contratto di inserimento», attraverso il quale il beneficiario si impegnanellarealizzazionedi un progetto. Il contenuto di questo progetto è definito tenendo conto della situazione particolare del beneficiario e delle sue personali difficoltà. Ugualmente, le politiche territoriali – che culminano ogginella«politicadellacittà» echeapartiredaiprimianni Ottantasonostateattivatenei quartieri sfavoriti in nome dell’inserimento – si appoggiano su progetti locali che implicano la mobilitazione degli abitanti e dei differenti partner della comunità. Questa tendenza all’implicazione personale degli utenti ispira anche, sempre di piú, le politiche di lottacontroladisoccupazione (si veda il recente avvio del Pare 4,chestimola–omeglio impone – la partecipazione attiva dei disoccupati alla ricerca di un impiego). In tuttequestenuoveprocedure, si tratta di passare dalla fruizione passiva delle prestazioni sociali, concesse in modo automatico e incondizionato, a una mobilitazione dei beneficiari chedevonopartecipareauna loro personale riabilitazione. «Attivazione delle spese passive»,comesiusadire,ma che passa anche attraverso un’attivazione delle persone coinvolte. Queste trasformazioni obbediscono a una logica d’insieme. Si tratta di politiche che tendono all’individualizzazione delle protezioni, in linea con la grandetrasformazionesociale da noi sottolineata, attraversata anch’essa da processi di decollettivizzazione o di reindividualizzazione. In questo senso, tali politiche si presentanocomeunarisposta allacrisidelloStatosociale,il cui funzionamento centralizzato, che amministra regole universali e anonime, si dimostrerebbe inadeguato all’interno di un universo sempre piú mobile e diversificato. La nuova economia delle protezioni, si dirà,esigechesiritorni,aldi là della statalizzazione del sociale, a un’assunzione di questesituazioniparticolarie, allimite,deisingoliindividui. Questo spostamento, tuttavia, ha un costo, e almeno per due ragioni possiamochiedercisenonsia troppo elevato. In primo luogo, portato al limite, lo spostamento implica un ricentramento delle protezioni su popolazioni poste al di fuori del regime comune poiché soffrono di un handicap, intendendo questo termine in senso lato: situazioni di grande povertà, deficitdiversi–fisici,psichici o sociali –, «inimpiegabilità», eccetera. Protezione significherebbe qui presa in carico degli sventurati. Non basta certo denominare tali nuove misure «discriminazione positiva» per cancellare la stigmatizzazionenegativache viene sempre assegnata a questotipodiprovvedimenti. Ciò nonostante, si dirà, queste nuove protezioni rompono con la tradizionale deresponsabilizzazione dell’assistenza,nellamisurain cui promuovono una mobilitazione dei beneficiari, spinti a farsi carico di se stessi.Difatto,ilcontrattodi inserimento, ad esempio, che assegnaunredditominimodi inserimento (Rmi) 5 ben rappresenta un provvedimento originale e allettante,poichécoinvolgela partecipazione del beneficiario, che sarà accompagnato e aiutato nella realizzazionedelsuoprogetto personale. Ma queste intenzioni rispettabili sottovalutano la difficoltà e spesso la mancanza di realismo insite in questo richiamo alle risorse degli individui, trattandosi di individui che mancano, per l’appunto, proprio di risorse. È paradossale che attraverso queste diverse misure di attivazione si chieda molto a coloro che hanno poco e spesso si chieda di meno a colorochehannomolto.Non cisidevesorprendere,perciò, se la riuscita effettiva di queste iniziative sia piuttosto l’eccezionechelaregola.Cosí, i numerosi rapporti di valutazione dell’Rmi mostrano che piú della metà dei beneficiari non passa al contratto, che nella maggior parte dei casi l’Rmi serve soprattutto come «una boccata di ossigeno che migliora marginalmente le condizioni di vita dei beneficiari senza poterle trasformare» 6,echesoloil10 per cento dei casi, o al massimo il 15 per cento, ha raggiunto la meta di un «inserimento professionale», ottenendo cioè un impiego, stabile o piú spesso precario. Allostessomodo,lepolitiche di inserimento territoriale dànno dei risultati molto modesti dal punto di vista della partecipazione attiva degliutenti 7. Tali constatazioni non implicano nessuna condanna diquestitentatividiinventare nuove protezioni. Al contrario, senza queste misure la situazione delle diverse categorie di vittime della crisi della società salariale avrebbe subito un degrado ancor maggiore. Si puòdunque–eamioavviso si deve – difendere l’Rmi, le politichedellacittàeiminimi sociali, interrogandosi al tempo stesso sulla loro portata. Da questo punto di vista, è escluso che i minimi sociali, cosí come sono realizzati oggi, possano rappresentare un’alternativa globale alle protezioni precedentemente elaborate contro i principali rischi sociali, a meno di non sanzionare un’incredibile regressione della problematicadelleprotezioni: riducendo cioè la protezione sociale a un aiuto, spesso di mediocre qualità, riservato ai piúdeprivati. Senza dubbio nessuno, a dire il vero, difende questa posizione nella sua forma estrema. Se il sistema di protezioni«tiene»ancoroggi, è perché ampie frange, le piú estese, sono ancora dominate da coperture assicurative concesse senza valutare lo stato delle risorse dei loro beneficiari 8. Ma questo significa che tali nuove misure non sono riuscite a superare la dualizzazione – spesso imputata alla protezione classica – tra coperture contro i rischi sociali,efficacinellamisurain cui sono legate a condizioni stabili di lavoro, e un ventaglio di aiuti piú o meno circostanziato, corrispondente alla diversità delle situazioni di deprivazionesociale.Inquesti ultimi vent’anni si è di fatto assistitoaunatrasformazione profonda, nel senso di una degradazione, della concezione della solidarietà. Al limite, non si tratterebbe piú di proteggere collettivamente l’insieme dei membridellasocietàcontroi principali rischi sociali. Le spese di solidarietà, di cui lo Stato continuerebbe ad avere la responsabilità, si indirizzerebbero preferenzialmente a quel settore residuale della vita sociale popolato dai «piú deprivati». Essere protetto significherebbe allora essere appena dotato del minimo di risorse, necessarie per sopravvivere in una società che limiterebbe le sue ambizioni ad assicurare un servizio minimo contro le forme estreme della deprivazione. Una tale dicotomia nel regime delle protezioni sarebbe rovinosa perlacoesionesociale 9. Non è facile dire come si potrebbe superarla. Ma una prima ragione del carattere profondamente insoddisfacente della situazione attuale riguarda la frammentazione delle nuove misure che da vent’anni a questa parte sono state prese una alla volta: misure che a volte si sovrappongono, a volte lasciano sussistere zone opache,chesonozonedinon diritto. Una prima serie di riforme dovrebbe garantire unacontinuitàdeidiritti,aldi là della diversità di situazioni che generano non soltanto pregiudizi materiali, ma anche discontinuità nella distribuzionedelleprestazioni e arbitrarietà nella loro attribuzione: che un regime omogeneo di diritti ricopra ambiti della protezione indipendenti da coperture assicurative collettive, è una proposta che ha il merito del realismo, che implica costi ragionevoli e difficoltà tecniche di applicazione del tuttosuperabili 10. Una seconda questione, piú difficile e ambiziosa, consistenell’interrogarsisulla natura e sulla consistenza di questi nuovi diritti. È un vecchio dibattito, che si è sempre focalizzato sul diritto ai sussidi. Il fatto che certi sussidi derivino dal diritto (è il caso della Francia dopo le leggidiassistenzadellaTerza Repubblica) non esclude che la loro accessibilità sia subordinataaunavalutazione del beneficiario, che deve dimostrare di essere in una condizione di bisogno per beneficiaredeisussidi.Dipiú: le prestazioni cosí distribuite devono sempre essere inferiori a quelle assicurate dal lavoro (la less eligibility degli anglosassoni). Alexis de Tocqueville – che non era certoundifensoredelloStato sociale – sottolinea con forza la differenza tra due tipi di diritti e scrive queste righe anchecontrola«caritàlegale» degliinglesi:«Idirittiordinari sono conferiti agli uomini in funzione di alcuni vantaggi acquisiti sui loro simili. Questo – e Tocqueville si riferisce qui al diritto ai sussidi – è concesso in ragionediunainferioritàela legalizza» 11. I «diritti ordinari»sonoidirittirelativi alla cittadinanza. Sono diritti «ordinari» perché sono comuni, non discriminanti e attribuiscono un’uguale dignità a tutti i soggetti di diritto. È il caso dei diritti civili e politici in una democrazia: stanno a fondamento della cittadinanza. Il diritto ai sussidi può fondare una cittadinanza sociale? Non lo può, se rimane «concesso in ragione di una inferiorità e la legalizza». Una via per superarequestaannosaaporia potrebbe essere l’approfondimento delle politiche di inserimento. Si è sottolineato il carattere ambiguo e piuttosto deludente delle realizzazioni gestite finora sotto questa etichetta. Ma ciò è avvenuto anche perché esse hanno strumentalizzatounaversione amputata della nozione. Se, come recita l’articolo 1 della legge istitutiva dell’Rmi, «l’inserimento sociale e professionaledellepersonein difficoltà è un imperativo nazionale», la sua realizzazione implicherebbe unamobilitazioneeffettiva,se non di tutta la nazione, quantomeno di una vasta gamma di partner, ben oltre gli attori sociali e i rappresentanti del mondo associativo: responsabili politici e amministrativi, mondo dell’impresa. Solo raramente questo è accaduto e il trattamento settoriale della problematica dell’inserimento, delegato soprattutto agli specialisti del sociale, ne ha fortemente limitatolaportata. L’idea di un accompagnamento effettivo dellepersoneindifficoltàper aiutarleausciredallorostato è un’idea ambiziosa. Essa presentailvantaggio,rispetto all’amministrazione classica deisussidi,diindirizzarsialla persona a partire dalla specificitàdellasuasituazione e dei bisogni che le sono propri. Ma essa non deve ridursi a un sostegno psicologico.Inlineagenerale, glispecialistidell’inserimento sono stati finora inclini a rendere prioritaria la norma d’interiorità, e cioè a tentare di modificare la condotta degli individui in difficoltà spingendoliacambiareilloro modo di pensare e a rinforzareleloromotivazioni a «uscirne», come se fossero essi stessi i principali responsabili della condizione incuisitrovano 12.Maperché l’individuo possa realmente fare progetti e stipulare contrattiaffidabili,devepoter contaresuunabasedirisorse oggettive. Per potersi proiettare nel futuro, è necessario disporre di un minimo di sicurezza nel presente 13. Quindi, trattare senza ingenuità e come un individuo una persona in difficoltà significa mettere a sua disposizione quei supporticheglimancanoper essere un individuo a pieno titolo e che garantiscono le condizioni della sua indipendenza: supporti che non consistono solo nelle risorse materiali o negli accompagnamenti psicologici, ma anche nei diritti e nel necessario riconoscimentosociale 14. Al di là dell’Rmi, queste considerazioni potrebbero valere per l’insieme delle politicheterritorialirealizzate in Francia dopo i primi anni Ottanta.Esseindicanociòche potrebbe fungere da idea regolatrice, al fine di reinserire le collettività composte da individui che non riescono a inscriversi nelleprotezioniprocuratedal lavoroochedataliprotezioni sisonodistaccati:trattaretali individuinoncomeassistiti– questa l’idea regolatrice – ma come soggetti provvisoriamente privi delle prerogative connesse alla cittadinanza sociale, dandosi l’obiettivo prioritario di procurare loro i mezzi, non solo materiali, che consentano il recupero di questa cittadinanza. Piú in concreto, e parallelamente alla continuità dei diritti evocata in precedenza, si dovrebbe promuovere una continuità e una messa in sinergia delle pratiche che miranoallareintegrazionedei gruppi in difficoltà. Si possonocosíconcepireverie propri collettivi di inserimento 15: sorta di agenzie pubbliche che raggrupperebbero, con finanziamenti propri e con poteri decisionali, le diverse istanzeattualmenteincaricate difacilitarel’aiutoall’impiego e di lottare contro la segregazione sociale, la povertà e l’esclusione. I diversi tipi di partner oggi implicati in ordine sparso nella riqualificazione delle persone in difficoltà si troverebbero cosí centralizzati, ma a livello locale, sotto un potere unificato di decisione e di finanziamento. Un tale dispositivo non risolverebbe certo tutti i problemi che ci vengono posti dalla presenza di popolazioni stabilmente lontane dal mercato del lavoro, ma rappresenterebbe sicuramente un passo avanti decisivo per rilanciare una dinamica di inserimento capace di sfociare nella loro reintegrazioneentroilregime comune 16. Piú generalmente, si è sottolineato che l’insieme dei dispositivi della protezione sociale sembra oggi attraversato da una tendenza all’individualizzazione, o alla personalizzazione, dal momento che punta a collegare la concessione di una prestazione alla considerazione della situazione specifica e della condotta personale dei beneficiari. Un modello contrattuale di scambi reciproci tra chi richiede risorse e chi le procura si sostituirebbe cosí, al limite, allo statuto incondizionato dell’aventediritto 17. Una tale evoluzione può avere delle conseguenze positive nella misura in cui corregge il carattere impersonale, opaco eburocraticochecaratterizza in generale la distribuzione delleprestazioniomogenee.È lapartediveritàchecontiene la parola d’ordine «riattivare le spese passive». Tuttavia, la logica contrattuale, il cui paradigma è lo scambio commerciale, sottovaluta gravemente la disparità di situazioni tra i contraenti. Essa mette il beneficiario di una prestazione nella condizione di chi domanda, facendo come se disponesse del potere di negoziazione necessario ad annodare una relazione di reciprocità con l’istanza che dispensa le protezioni. Questo è un caso veramente raro. L’individuo ha bisogno di protezioni proprio perché, in quanto individuo, non dispone da solo delle risorse necessarie per assicurarsi la propria indipendenza. Attribuirgli perciò la responsabilità principale del processo che deve assicurargli questa indipendenza, significa il piú delle volte imporgli un imbroglio. Ilricorsoaldirittoèlasola soluzione che sia stata oggi escogitata per uscire dalle pratiche filantropiche o paternalistiche, fossero esse esercitate all’interno di istanze ufficiali oppure da specialisti dell’aiuto sociale: pratiche che conducono a prendere in considerazione con maggiore o minore benevolenza, o sospetto, la sorte degli sventurati, al fine di verificare se, e in quale misura,essimeritanodavvero di essere aiutati. Si può rivendicare un diritto; un diritto è infatti una garanzia collettiva,legalmenteistituita, chericonosceall’individuo,al di là della sua specificità, lo statuto di membro a pieno titolo della società, «avente diritto», per ciò stesso, a partecipare alla proprietà sociale e a godere delle prerogative principali della cittadinanza: diritto di condurre una vita decorosa, di essere curato, di trovare alloggio, di essere riconosciuto nella propria dignità personale… Le condizioni di applicazione e di esercizio di un diritto possono essere negoziate, dato che non si può confondere l’universalità di un diritto con l’uniformità della sua messa in opera. Ma un diritto in quanto tale non si negozia, si rispetta. Si possono dunque applaudire gli sforzi compiuti per ridistribuire la protezione sociale molto piú vicino alle situazioni concrete e ai bisogni degli utenti, ma c’è una linea rossa che non va superata. Al di là di essa, ci sarebbe confusione tra il dirittodiessereprotettieuno scambioditipocommerciale, che subordina l’accesso alle prestazioni ai soli meriti dei beneficiari, o anche al caratterepiúomenopatetico della situazione nella quale si trovano. Bisogna ricordare con fermezza che la protezione sociale non è soltanto la concessione di sussidi in favore dei piú deprivati, per evitare un loro totale degrado. Nel senso forte del termine, la protezione sociale è la condizione basilare affinché tutti possano continuare ad appartenere a una società di simili. Renderesicuroillavoro. Laproduzione di sicurezza perlesituazionidilavoroeper ipercorsiprofessionali:eccoil secondograndecantieredove si tenta di ridistribuire, oggi, le protezioni sociali. Per fare questo, conviene partire da una diagnosi tanto precisa quanto possibile della situazione attuale. Nella società salariale, si può parlare senza equivoci di cittadinanza sociale nella misura in cui i diritti incondizionati («diritti ordinari», per parlare come Tocqueville)eranostatilegati alla situazione professionale. È lo statuto dell’impiego che costituisce la base di questa cittadinanza, assicurando un accoppiamento forte diritti/protezioni (diritti del lavoro e protezione sociale). Dopo la «grande trasformazione» avviatasi neglianniSettanta,siassistea una disgregazione di questo accoppiamento. E vogliamo sforzarci, qui, di pesare il significato del termine. Si tratta di una disgregazione, o di un’erosione, e non di uno sprofondamento, come pretendono certi discorsi catastrofici, che spingono al limite,avoltefinoall’assurdo, il processo di degradazione delle condizioni di lavoro e delle protezioni legate al lavoro 18. A fronte del fatto che queste vengono talvolta presentatecomeuncampodi rovine, bisogna richiamare qualche dato evidente: anche se esse sono indebolite e minacciate, noi viviamo sempre in una società circondata e attraversata da protezioni (il diritto del lavoro,laprevidenzasociale); anche se il rapporto con l’occupazione è diventato sempre piú problematico, il lavoro ha conservato la sua centralità(ancheesoprattutto percolorochelohannoperso o corrono il rischio di perderlo, come risulta dalle inchiestesuidisoccupatiesui precari); anche se non è piú deltuttoegemone,ilrapporto lavoro/protezioni è sempre determinante (circa il 90 per cento della popolazione francese, tenendo conto degli «aventidiritto»,è«coperta»a partire dalla relazione con il lavoro,compreselesituazioni non lavorative come la pensione e, in parte, la disoccupazione). È dunque proprio attorno al lavoro che continua a giocarsi una parte essenziale del destino sociale della grande maggioranza della popolazione.Maladifferenza rispettoalperiodoprecedente – una differenza enorme – è che se il lavoro non ha perso la sua importanza, ha perso molta della sua consistenza, da cui derivava la parte piú importante del suo potere di protezione. Nel mondo del lavoro, la messa in mobilità generalizzata delle situazioni lavorative e dei percorsi professionali (si veda il capitolo precedente) colloca l’incertezza nel cuore dell’avvenire. Se si prendono sul serio queste trasformazioni, si ha la misura della sfida che oggi deve essere affrontata: è possibile associare nuove protezioni a queste situazioni di lavoro caratterizzate dalla loro ipermobilità? Mi sembra che la via privilegiata da esplorare sia quella della ricercadinuovidiritti,capaci di rendere sicure queste situazioni aleatorie e di assicurare i percorsi segnati dalladiscontinuità. In quest’ottica, bisogna oggi reinterrogare lo statuto dell’impiego. Nella società salariale le garanzie di cui beneficia il lavoratore sono legateallecaratteristicheealla permanenza del rapporto di lavoro.Illavoratore«occupa» unimpiegoenetraealtempo stesso obblighi e protezioni. Questa situazione corrispondeva alla permanenza delle condizioni di lavoro: permanenza nel tempo (egemonia dei contratti a tempo indeterminato) e nella definizione dei compiti che esse implicavano (griglie di qualificazione strettamente definite, omogeneità delle categorie professionali e dei salari, stabilità dei posti di lavoro, continuità nella gestione delle carriere). C’era unostatutodell’impiegochesi sottraeva ampiamente alle fluttuazioni del mercato e ai cambiamenti tecnologici e che costituiva la base stabile della condizione salariale 19. Oggi si assiste sempre piú a una frammentazione degli impieghi su due piani: non soltantoalivellodeicontratti di lavoro propriamente detti (moltiplicazione delle forme dette «atipiche» di impiego rispetto al contratto a tempo indeterminato), ma anche attraverso la flessibilizzazione delle mansioni lavorative. Ne deriva una moltiplicazione di situazioni non codificate dal diritto, oppure di situazioni debolmente coperte dal diritto; situazioni che Alain Supiot denomina «le zone opache dell’impiego» 20: lavoro part-time, saltuario, lavoro «autonomo» ma strettamente subordinato a un datore di lavoro, nuove forme di lavoro a domicilio, come il telelavoro, il subappalto, il lavoro in rete, eccetera. Nello stesso tempo sièapprofonditoilfenomeno delladisoccupazioneesisono moltiplicate le alternanze tra periodi attivi e inattivi. Sembra dunque che la struttura dell’impiego, in un numerocrescentedicasi,non sia piú un supporto stabile al quale agganciare dei diritti e delle protezioni che siano davveropermanenti. Una risposta a questa situazione consisterebbe nel trasferire i diritti di statuto dell’impiego alla persona del lavoratore. Si tratta dell’idea di uno «stato professionale delle persone, che non è definito dall’esercizio di una professione o di un impiego determinato, ma che ingloba lediverseformedilavoroche ogni persona è in grado di svolgere durante la propria esistenza» 21. Cosí si ristabilirebbe una continuità dei diritti attraversoladiscontinuitàdei percorsi professionali, che includono anche i periodi di interruzione del lavoro (disoccupazione, ma anche interruzione del lavoro per la formazione o per ragioni personaliofamiliari). Forse si obietterà che un tale spostamento porrebbe unaseriediproblemichenon si è in grado di risolvere. Si presuppone infatti che il lavoratoredispongadi«diritti di prelievo» che utilizzerebbe per«coprire»idiversiperiodi del suo percorso. Come sarebbe alimentata una tale copertura? Da chi sarebbe gestita? Con quali garanzie? Come imporla ai diversi partnersociali?Qualesarebbe il ruolo dello Stato in questa configurazione? Sono tutte questioni oggi aperte, al punto che, possiamo dirlo, si tratta proprio di un cantiere diproblemicherimangonoin granpartedadefinire.Inpiú, si pone il problema di sapere se questo nuovo statuto professionale delle persone dovrebbe riguardare le «zone opache dell’impiego», che nonsonocoperteosonomal coperte dagli statuti classici; oppure,inalternativa,sipone il problema di sapere se il nuovostatutodovrebbeavere l’ambizione di ristrutturare completamente l’insieme delle protezioni legate a tutte leformedilavoro.Questione essenziale,poichénellaprima ipotesi, per rendere sicure le zone non coperte dal diritto, occorre completare un sistemadiprotezionigiàdato nellesuegrandilinee,mentre nella seconda ipotesi il sistema di protezioni deve essere interamente rifondato subasinuove.Ilchesignifica, allora, rinunciare completamente allo statuto classico dell’impiego, oggi ancora fortemente rappresentato non solo nella funzione pubblica, ma anche in numerosi nuclei stabili del settore privato. La risposta alla questione dipende, di fatto, dalla diagnosi che si formula sull’ampiezza della crisi attuale dell’impiego. Si è profondamente deteriorato, senza alcun dubbio, il cosiddetto rapporto di lavoro «fordista»,costruitosullabase della grande industria, la cui espansione è corrisposta allo sviluppo del capitalismo industriale. Ma si deve assimilare la totalità degli statuti dell’impiego al rapporto salariale «fordista» 22? Qualunque sia la risposta fornita a tale questione, è incontestabile che larghi settori dell’impiego sono già passatidaunregimestabilea quellochepuòesseredefinito un regime transitorio, che comporta cambiamenti di orientamento, biforcazioni, periodi di interruzione e a volte rotture. Ormai la mobilità dell’impiego porta con sé frequenti passaggi, o transizioni,nonsoloinsenoa unostessoimpiego,maanche tradueimpieghie,avolte,tra un impiego e la sua perdita (disoccupazione). Di qui la necessità di organizzare queste transizioni, di predisporre delle passerelle traduecondizioni,chenonsi tradurrebbero in una perdita di risorse o in un degrado dello statuto. Si tratta del programma di «mercati transizionali del lavoro che concilierebbero mobilità e protezioni» 23. I diritti sociali di prelievo preconizzati dal rapporto Supiot si inscrivono in questa logica. Ma si può, piú ampiamente, concepire una batteria di «diritti di transizione» aperti ai lavoratori in modo «che una serie di tappe non lavorative ma socialmente segnalate diventino parte integrante di una carriera professionale invececheinterromperla» 24. In questa prospettiva, i percorsi di formazione dedicatialcambiamentosono chiamati a occupare una posizionepreponderante.Ben oltre la formazione permanente attuale, si tratterebbe di creare un vero diritto alla formazione dei lavoratori, che li doterebbe, lungo tutto il loro percorso lavorativo, dei saperi e delle qualifiche necessarie per far fronte alla mobilità. Bernard Gaziersottolineacheidanesi, chesonoriuscitiamantenere unasituazionedisemimpiego in un quadro di sicurezza flessibile (o «flessisicurezza», come viene definita), hanno anche coniato il neologismo learnfare,assistenzatramitela formazione – che vuol rimpiazzare il workfare autoritario degli anglosassoni – al fine di assicurare il ritorno all’impiego migliorando significativamente le qualificazionideilavoratori. Queste iniziative non permettono ancora di disporre di un modello di produzione di sicurezza relativaallavorocheabbiala stessaconsistenzadelmodello classico.Malamisuradelloro interesse è relativa alla questione fondamentale che affrontano: come conciliare mobilità e protezioni dotando illavoratoremobilediunvero statuto? E ancora: come considerare l’allargamento considerevole delle nuove forme di lavoro situate fuori dal quadro dell’impiego classico (vedi le speranze che molti intravedono nello sviluppo di un terzo o di un quarto settore, di una economia sociale o di una economia solidale, eccetera), senza che si tratti di lasciare libero corso alla proliferazione di attività a statutodegradatoinrapporto al diritto del lavoro e alla protezione sociale? L’insicurezza del lavoro è senzadubbiodivenutaciòche era, d’altro canto, già prima che si instaurasse la società salariale: la grande apportatrice d’incertezza per la maggior parte dei membri della società. Si tratta di sapere se essa deve essere accettatacomeundestinoche l’egemonia del capitalismo di mercato ha innestato ineluttabilmente. L’ampiezza delle deregolamentazioni che hanno colpito l’organizzazione del lavoro nell’ultimo quarto di secolo, oltre che la profondità delle dinamiche di individualizzazione che riconfigurano il paesaggio sociale,noncispingonoafar mostra di un ottimismo esagerato,manonperquesto fanno del catastrofismo la sola chiave di lettura dell’avvenire. Il mutamento recente del capitalismo ha urtato con forza contro il compromesso sociale della società salariale, che aveva equilibrato alla meno peggio l’esigenza, diretta dal mercato,diprodurrealminor costoilmassimodiricchezze, e l’esigenza di proteggere i lavoratori che sono, tanto quanto lo è il capitale, i produttori di queste ricchezze. Resta tuttavia apertalaquestionesesitratti di un periodo transitorio tra due forme di equilibrio – tra ilcapitalismoindustrialeeun nuovo capitalismo, che si esita ancora a definire 25 –, cioè di un momento di «distruzione creatrice», come direbbe Schumpeter, oppure del regime di crociera del capitalismodidomani.Nonè per niente evidente che le forme piú selvagge di strumentalizzazione del «capitaleumano»sianolepiú adattealleesigenzedelnuovo modo di produzione. Se il lavoratore è chiamato a dar prova di flessibilità, di polivalenza, di senso di responsabilità, di spirito di iniziativa e di capacità di adattamento ai cambiamenti, può forse comportarsi in questo modo senza un minimo di sicurezza e di protezioni? Il lavoro è forse condannato a rimanere la principale «variabile di aggiustamento» per massimizzare i profitti? Si comincia a profilare, anche negli ambienti manageriali e imprenditoriali, una certa presadicoscienzadeglieffetti controproducenti del burn out dei lavoratori, e anche degli effetti distruttivi, sulle culture imprenditoriali, di ristrutturazioni o di modalità di management governate esclusivamente da logiche finanziarie 26. D’altronde non è neppure evidente che il rapporto di forza, cosí globalmente sfavorevole ai salariati negli ultimi vent’anni, in un contesto dominato dalla disoccupazionedimassa,resti inalterato nell’avvenire, se non altro per ragioni demografiche 27. In ogni modo, non si tratta di profetizzare in che cosa consisterà l’avvenire, ma piuttosto di constatare la sua relativa imprevedibilità; esso dipenderàanchedaciòcheda oggifaremoononfaremoper tentare di governarlo. Questa congiunturadiincertezzanon vanifica la questione delle protezioni ma ne sottolinea, anzi, la bruciante attualità. Il lavoro potrà essere, o non essere, reso piú sicuro: dall’esitodiquestaalternativa dipenderà,inlargamisura,la possibilità o l’impossibilità di soffocare il riemergere dell’insicurezzasociale. 1 Ricordo che per essere esaustivi sarebbe necessario integrare l’analisi con una riflessionesuiservizipubblici,parte importante della proprietà sociale. L’esempio del crollo recente dell’Argentina illustra a contrario l’importanza di questa tematica. L’insicurezza sociale nella quale questo paese è ricaduto non riguarda solo la crescita di una povertà di massa, la precarizzazione delle condizioni sociali, relative anche alle classi medie, o una riduzione drastica delle prestazioni sociali. L’insicurezza sociale è anche la conseguenza del crollo dei servizi pubblici in un paese in via di completa privatizzazione. Non posso approfondire qui questo argomento, ma il dibattito sulle poste in gioco relative all’attuale rimessa in discussione dei servizi pubblici s’inscrive direttamente nella tematica che intendo sviluppare. 2 Si veda D. OLIVENNES , La société de transfert, in «Le Débat», n. 69, marzo-aprile 1992. In Francia i prelievi obbligatori effettuati a partire dal lavoro rappresentavano l’80 per cento dellespeseperlaprotezionesociale nel1997. 3 B. PALIER , Gouverner la Sécurité sociale, Presses Universitaires de France, Paris 2002,p.3. 4 [Participation Active RechercheEmploi.N.d.T.]. 5 [Da intendersi come reddito minimo per garantire l’integrazione dei meno abbienti. N.d.T.]. 6 Le RMI à l’épreuve des faits, Syros,Paris1991,p.63. 7 Si veda, ad esempio, Évaluation de la politique de la ville, Délégation interministérielle de la ville, Paris 1993, capp. I-II . Per un bilancio piuttosto pessimista sulla «cittadinanza locale», si veda C. JACQUIER , La citoyenneté urbaine dans les quartiers européens, in J. ROMAN (a cura di), Ville, exclusion et citoyenneté. Entretiens de la ville, vol. II, Éditions Esprit, Paris 1993. Per un’attualizzazione della questione e per un confronto con la situazione negli Stati Uniti si veda J. DONZELOT , C. MEVEL e A. WYVEKENS , Faire société, Éditions duSeuil,Paris2003. 8 Il numero dei beneficiari dei minimi sociali, in progressione costante, non rappresenta tuttavia che un po’ piú del 10 per cento dellapopolazionefrancese. 9 Ineffetti,questodualismotra protezioni forti e senza condizioni costruiteapartiredallavoroeaiuti mirati verso popolazioni allontanate dal mercato del lavoro ètropposchematico,perchéanche sul versante delle protezioni assicurative si esercitano forti pressioni nel senso della loro diversificazione in funzione delle risorsedeibeneficiari.Cisiorienta, a quanto sembra, verso una riconfigurazione del regime delle protezioni a tre poli, o a tre velocità: 1. protezioni che dipendono dalla «solidarietà nazionale», finanziate dai tributi e che garantiscono, nella logica dell’assistenza, risorse e coperture minimeallefascedellapopolazione piú deprivate (per esempio la copertura medica generalizzata e i minimi sociali); 2. protezioni assicurative di base, che continuano a essere costruite a partire dall’impiego, ma con una diminuzione dei rischi coperti e/o della soglia della loro presa in carico (per esempio, la riduzione dei rischi salute e/o delle loro aliquote di riscossione direttamente coperte dalla previdenza sociale); 3. protezioni derivate da assicurazioni complementariprivate,semprepiú estese, che dipendono da scelte e finanziamenti operati dai singoli (per esempio, evoluzione dei regimipensionisticinelsensodella loro capitalizzazione almeno parziale).Sullosfondosidisegnail passaggio da uno Stato sociale universalistico a uno Stato sociale che funziona sulla base di una discriminazione «positiva». Su questopunto,siveda N. DUFOURCQ ,VersunÉtat-providencesélectif,in «Esprit»,dicembre1994. 10 Si vedano le previsioni di Jean-Michel Belorgey in questa direzione (J.-M. BELORGEY et al., Refonder la protection sociale, La Découverte,Paris2001). 11 A. DE TOCQUEVILLE , Mémoire sur le paupérisme, Académie de Cherbourg,1834. 12Siveda F.DUBET ,Prefazionea D. CASTRA , L’insertion professionnelledespublicsprécaires, Presses Universitaires de France,Paris2003. 13 Si può qui ricordare l’analisi classica di Pierre Bourdieu sull’impossibile rapporto con il futurodeisottoproletarialgerini: P. BOURDIEU (conA.DABEL, J.-F.RIVET, C. SEIBEL),Travailettravailleursen Algérie,Mouton,Paris1964. 14 Per l’esplicitazione di questa nozione di supporto, concepito come lo zoccolo di risorse necessarie per potersi comportare positivamente da individuo, rinvio aR.CASTELe C. HAROCHE,Propriété privée, propriété sociale, propriété desoi,Fayard,Paris2000. 15 Sul funzionamento delle attuali commissioni locali di inserimento dell’Rmi e sulle loro insufficienze, si veda I. ASTIER , Revenu minimum et souci d’insertion, Desclée de Brouwer, Paris1997. 16 Su questa concezione dell’inserimentocome«viastretta» ma necessaria per promuovere dellepolitichesocialiattive,siveda anche P. ROSANVALLON,Lanouvelle question sociale, Éditions du Seuil, Paris 1995, cap. VI . C’è teoricamente un’altra possibilità per oltrepassare il carattere stigmatizzantedeldirittoagliaiuti. Si tratterebbe di accordare di diritto, a tutti incondizionatamente, un reddito di sussistenza. Questa possibilità apre un dibattito complesso, in ragione soprattutto delle diverse versioni proposte dai suoi difensori: sussidio universale, reddito di cittadinanza, reddito di sussistenza, reddito sociale garantito, eccetera. Cerchiamo di riassumeremoltoschematicamente la posizione che deriva da questa riflessionesulleesigenzeminimedi una politica di protezioni: nella maggior parte delle versioni previste,lacreazionediunreddito minimo avrebbe piuttosto l’effetto di aggravare la situazione e di rendere irreversibile il degrado del mercato del lavoro. Le soluzioni elencate propongono in effetti un reddito di sussistenza mediocre, insufficientepercondurreunavita decente, e che richiederebbe di essere integrato ad ogni costo: accettandoinparticolareunlavoro a qualsiasi condizione. Separando inmodonettolavoroeprotezioni, il reddito minimo «libera» cosí il mercatodellavoroerappresentala sola contropartita «sociale»: contropartita – auspicata d’altra parte dagli ultraliberali quali Milton Friedman – al dispiegamento di un liberalismo selvaggio. Il reddito minimo vanifica al tempo stesso tutti gli sforzi delle politiche attive di inserimento che assicurano un rientro nel mercato del lavoro ordinario. Le cose potrebbero andare diversamente se si trattasse di un reddito «sufficiente», per riprendere l’espressione di André Gorz, ritornato su questa opzione dopo averla energicamente combattuta (Miseria del presente, ricchezza del possibile, manifestolibri, Roma 1998): si tratterebbe cioè di un reddito sufficiente per assicurare l’indipendenza sociale dei beneficiari. Un reddito che si dovrebbe calibrare senza dubbio, mantenendosi su livelli modesti, attorno al salario minimo: un salariominimopertuttiicittadini, senza nessuna contropartita di lavoro.Anchesesitienecontodel fatto che questa indennità farebbe risparmiare altre prestazioni sociali, cosa che tuttavia comporterebbe effetti nefasti, non si vede come, dal punto di vista politico, nel contesto attuale una tale misura potrebbe avere una minima possibilità di imporsi. Questa forse è un’utopia, ma possono anche esserci utopie pericolosesesvianodallaricercadi altre alternative. (Su questa questione si veda, tra gli altri, un numero speciale della rivista «Multitudes», n. 8, 2002, che, a prescindere dal mio contributo, va nel senso della difesa e dell’illustrazionediquestemisure). 17SivedaR.LAFORE,Ducontrat d’insertion au droit des usagers, in «Partage»,n.167,agosto-settembre 2003. 18 Si vedano, ad esempio, A. GORZ , Miseria del presente, ricchezza del possibile cit., e V. FORRESTER , L’orrore economico, Ponte alle Grazie, Firenze 1997, cosí come tutti i profeti della fine dellavorochesembravaavesseroil vento in poppa qualche anno fa, ma la cui influenza sembra oggi fortunatamentesbiadita. 19 Per la costruzione di questo statuto dell’impiego e la sua diversità rispetto al contratto di lavoro di ispirazione liberale, si veda A. SUPIOT , Critique du droit du travail, Presses Universitaires de France, Paris 1994. Ci sono, beninteso, parecchi statuti dell’impiegoequellidellafunzione pubblica sono senza dubbio i piú protetti. Tuttavia tutti gli impieghi classici, compresi quelli del settore privato, sono impieghi a statuto, protettidaldirittodellavoroedalla protezionesociale. 20 A. SUPIOT(acuradi),Au-delà de l’emploi, Flammarion, Paris 1999 [trad. it. Il futuro del lavoro, Carocci,Roma2003]. 21Ibid.,p.89. 22 Ritengo che si sia spesso abusato dell’espressione «rapporto salariale fordista» per qualificare l’insieme degli impieghi della società salariale, la cui gamma è molto vasta: dall’operaio specializzato al quadro, dall’impiegatodelsettoreprivatoal funzionario. Questa sottolineatura nonèsenzaimportanzaallorchéci si chiede in quale misura oggi si debba andare «al di là dell’impiego». Mi sembra che ci siano ancora numerosi tipi di impiegochecorrispondonoaquelli che un tempo si chiamavano «mestieri»: cioè qualificazioni professionali stabili, che assicuravanol’indipendenzasociale dei loro possessori. Si correrebbe, quindi, un rischio a liquidare completamente il modello dell’impiego:ilrischiodilasciareil certo per l’incerto. Ho tentato una prima esplicitazione di questo punto di vista in R. CASTEL , Droit du travail: redéploiment ou refondation?,in«Droitsocial»,n.6, maggio1999. 23 Si veda B. GAZIER , Tous «sublimes». Vers un nouveau plein emploi,Flammarion,Paris2003. 24Ibid.,p.162. 25 Sulle caratteristiche e sulla natura di questo «nuovo capitalismo», si veda uno stimolante dibattito in C. VERCELLONE (a cura di), Sommesnous sortis du capitalisme industriel?cit. 26 Cfr. D. COHEN , Nos temps modernes,Flammarion,Paris1999. 27 A partire dal 2006-2007 la popolazione attiva francese dovrebbe perdere una media di circa300000lavoratoriognianno. Cosa che fa auspicare ai piú ottimisti un ritorno al pieno impiego alla fine del primo decennio del Duemila. Ma molto dovrà essere fatto per facilitare il nostroavvenire. Conclusione «Che Dio vi protegga!»; questa espressione, cosí popolare in epoche di fede religiosa, esprimeva un sentimento allora comunemente condiviso: affinchélacreaturaumanasia davvero protetta contro tutti gli imprevisti dell’esistenza, è necessario – si pensava – che un’Onnipotenza tutelare la prenda integralmente in carico.Inmancanzadiquesto fondamento assoluto della sicurezza, è ormai all’uomo sociale che viene assegnato il durocompitodicostruireegli stesso le proprie protezioni. Tuttoaccade,però,comeseil ritiro di un garante trascendente della sicurezza avesse lasciato sussistere, come una sua ombra proiettata, un desiderio assoluto di essere premuniti contro tutte le incertezze dell’esistenza. L’estensione delleprotezionièunprocesso storicodilungadurata,cheva ampiamentediparipassocon lo sviluppo dello Stato e con le esigenze della democrazia: esso non è mai stato, senza dubbio, cosí onnipresente come lo è oggi. Bisogna tuttavia constatare che questi dispositivi multipli di protezione non placano l’aspirazione alla sicurezza; al contrario,essilarilanciano.A torto o a ragione (ma questa espressione non ha molto senso, poiché non è di un calcolo razionale che si tratta), l’uomo contemporaneo sembra altrettanto tormentato dalla preoccupazione della sua sicurezza quanto lo erano i suoi lontani antenati, che, tuttavia, avevano buone ragioni di temere per la loro sopravvivenza. Tenendo presente questo paradosso, l’itinerario storico-sociale qui prospettato approda a due proposizioni complementari apparentemente contraddittorie: denunciare l’inflazione della preoccupazione di sicurezza, e affermare l’importanza essenziale del bisogno di protezioni. Denunciare l’inflazione della preoccupazione di sicurezza perché questo atteggiamento dissolve, in fin dei conti, la possibilità stessa diessereprotetti.Essocolloca la paura nel cuore della vita associata, e questa paura è sterile se ha per oggetto gli imprevistiincontrollabili,che rappresentano il destino di ogni esistenza umana. Abbiamo sottolineato come gli slittamenti recenti della riflessione sul rischio alimentassero una mitologia della sicurezza, o piuttosto dell’insicurezza assoluta, che approda, al limite, a un diniego della vita. Bisogna ricordare la profonda lezione diItaloSvevonellaCoscienza diZeno: La vita somiglia un poco allamalattiacomeprocedeper crisi e lisi ed ha i giornalieri miglioramenti e peggioramenti. A differenza delle altre malattie la vita è sempremortale.Nonsopporta cure. Sarebbe come voler turareibuchicheabbiamonel corpo credendoli delle ferite. Morremmo strangolati non appenacurati 1. Lavitaèunrischio,poiché l’incontrollabileèinscrittonel suo svolgimento. Bisognerebbe interrogarsi meglio sull’attuale inflazione della preoccupazione di prevenzione, che è strettamente correlata all’inflazione della preoccupazione di sicurezza. Senza alcun dubbio è meglio prevenire che guarire, ma le tecnologie efficaci per la prevenzione sono di numero limitato, e raramente sono infallibili. L’ideologia della prevenzione generalizzata è quindi condannata al fallimento. Ma il desiderio travolgente, che essa implica, di sradicare il pericolo alimenta una forma d’angoscia, senza dubbio specificadellamodernità,che èinesauribile.Senzacedereal pathos, è salutare ricordare chel’uomosicaratterizzaper la sua finitudine, e che la consapevolezza di essere mortaleèperluil’iniziodella saggezza. Rifiutaretuttaviailmitodi una sicurezza totale conduce a difendere al tempo stesso il fatto che la propensione a essere protetti esprime una necessità inscritta nel cuore della condizione dell’uomo moderno. Come hanno ben visto i primi pensatori della modernità, a partire da Hobbes, l’esigenza di vincere l’insicurezza civile e l’insicurezza sociale è all’originedelpattochefonda una società di individui. Di recentesiètantodettoetanto scritto sull’insicurezza civile, chemiatterrò,alproposito,a ciò che proponevo in precedenza: la ricerca della sicurezza assoluta rischia di entrareincontraddizionecon iprincipîdelloStatodidiritto e precipita facilmente in pulsione sicuritaria che degenera nella caccia ai sospetti e si appaga con la condannadicapriespiatori.Il fantasma di «nuove classi pericolose» che sarebbero costituite dai giovani delle periferie esemplifica questo tipodispostamento.Tuttavia, la ricerca della sicurezza esprime un’esigenza che non èsoltantounaffaredipolizia, di giudici e del ministero degli Interni. La sicurezza dovrebbe appartenere ai diritti sociali nella misura in cui l’insicurezza rappresenta unagraveviolazionedelpatto sociale. Vivere nell’insicurezza giorno per giornosignificanonpoterpiú fare società con i propri simili: significa abitare il proprio ambiente sotto il segno della minaccia, e non dell’accoglienza e dello scambio. Questa insicurezza quotidiana è tanto piú ingiustificabile quanto piú colpisce soprattutto le persone maggiormente prive di altre risorse attinenti al reddito, all’habitat e alle protezioni fornite da una situazionesocialegarantita:si trattaditutticolorochesono anche le vittime dell’insicurezza sociale. Anche senza pronunciarsi sulla questione delle cause – in quale misura l’insicurezza civile è la conseguenza dell’insicurezza sociale? – esistono almeno delle forti correlazioni tra il fatto di vivere quotidianamente la minaccia dell’insicurezza e il fatto di essere in preda alle difficoltà materiali dell’esistenza. Ragione sufficiente, questa, per rifiutare ogni forma di angelismo e per pensare che l’insicurezza civile debba essere energicamente combattuta; combattuta, tuttavia, non con mezzi qualsiasi: il punto di equilibrio, infatti, tra la sicurezzapubblicaeilrispetto dellelibertàcivilièdifficileda trovare. Oggi,tuttavia,l’insicurezza deve essere certamente combattuta anche, e per molti, attraverso la lotta contro l’insicurezza sociale, cioè sviluppando e riconfigurando le protezioni sociali. In effetti: che cosa significaessereprotettiinuna società moderna? Lo schiavo era spesso protetto se non aveva un padrone troppo cattivo, e d’altra parte i padroni avevano interesse a procurare ai loro schiavi almeno le risorse minime necessarie per garantire la loro sopravvivenza. Nella famigliapatriarcale,ledonne, i figli e i domestici erano protetti, e spesso anche il vecchio servitore o la vecchia serva, quando non erano piú utili, non erano per questo abbandonati. I rapporti clientelari, le mafie, le sette e tutte le Gemeinschaften tradizionali procurano sistemi di protezione potenti, ma che si pagano con una profondadipendenzadeiloro membri.Fatto,questo,chedà alla dichiarazione formulata da Saint-Just nel momento della Rivoluzione una risonanza profondamente moderna:«Daremodoatutti ifrancesidiottenereleprime necessità della vita senza dover dipendere da qualcosa di diverso dalle leggi e senza creare vincoli di dipendenza reciproca all’interno dello Statocivile» 2. Dopoduesecolidiconflitti e di compromessi sociali, lo Stato,nellasuaformadiStato nazional-sociale, aveva «dato», al di là delle «prime necessitàdellavita»,lerisorse necessarie perché tutti, o quasi tutti, potessero godere di un minimo di indipendenza. In una società di individui, essere protetti dal punto di vista sociale significaprecisamentequesto: che gli individui dispongono, di diritto, delle condizioni sociali minime della loro indipendenza. La protezione sociale diventa cosí la condizione di possibilità per formareciòchehochiamato, con Léon Bourgeois, una società di simili: un tipo di formazionesocialeall’interno della quale non esistono esclusioni, poiché ognuno dispone delle risorse e dei diritti necessari per mantenere relazioni di interdipendenza (e non solo di dipendenza) con tutti. Si tratta di una definizione possibile della cittadinanza sociale. È anche una formulazione sociologica di ciò che in termini politici viene chiamata una democrazia. Si sa che da un quarto di secolo l’edificio di protezioni costruito nel quadro della società salariale si è incrinato econtinuaasgretolarsisottoi colpi inferti dalla crescente egemonia del mercato. La profondità e il carattere irreversibile di tali trasformazioni fanno sí che risulti impossibile mantenere stabili questi dispositivi. Ma l’ampiezza dei cambiamenti mette anche in evidenza fino a che punto sia urgente tentare di ridisporli nella nuova congiuntura, considerando seriamente a che cosa porterebbe il loro abbandono. Non avendo ricette miracolose da proporre,misonosoprattutto sforzato, qui, di precisare le linee di frattura che ridisegnano oggi la configurazione delle protezioni, fino a minacciare di rimettere in discussione la possibilità di continuare a formare una società di simili. Per concludere in modo sintetico, mi sembra che la postaingiocoprincipaledella problematica delle protezioni sociali si situi oggi nel punto diintersezionetraillavoroeil mercato. Tutto questo è comprensibile a partire dalla questione centrale posta da Karl Polanyi e che resta di bruciante attualità: si può (e sesí,inqualemisuraecome) addomesticare il mercato? Infatti, come si è sottolineato ricordando il ruolo giocato dalla proprietà sociale nella costruzione di una società di sicurezza, è un certo addomesticamento del mercato che ha permesso in larga misura di vincere l’insicurezza sociale. Ed è proprio anche una certa ricommercializzazione del lavoro che si rivela come la principale responsabile del riaffiorare di questa insicurezza sociale, attraverso l’erosionedelleprotezioniche eranostatelegateall’impiego, provocando la destabilizzazione della condizionesalariale. Questeconsiderazioninon devono tuttavia condurre a condannare il mercato. «Condannare il mercato» è d’altrondeun’espressioneche non ha, rigorosamente, nessun senso. Centralità del mercato e centralità del lavoro sono le caratteristiche essenziali di una modernità alla quale apparteniamo comunque, anche se il rapportotramercatoelavoro si è profondamente trasformatodaquandoAdam Smith li sosteneva contemporaneamente. Senza dubbio vediamo svilupparsi interessanti sperimentazioni sociali che si inscrivono ai margini o negli interstizi dell’economiadimercato.Ma è escluso – e direi anche che non è auspicabile – che esse possano rappresentare un’alternativa globale all’esistenzadelmercato.Una societàsenzamercatosarebbe infatti una grande Gemeinschaft, cioè una maniera di fare società la cui storia, sia antica che recente, ci mostra che essa è stata generalmente strutturata da spietatirapportididominioo da umilianti relazioni paternalistichedidipendenza. Sopprimere il mercato rappresenta un’opzione propriamente reazionaria, una sorta di utopia a ritroso della quale Marx si è già burlato evocando «il mondo incantato dei rapporti feudali». Non c’è modernità possibilesenzamercato. La questione è allora proprio quella di capire se è possibile porre dei limiti all’egemonia del mercato: arginare il mercato. Ciò è accaduto, nell’ambito della società salariale, grazie alla grande rivoluzione silenziosa rappresentata dalla costituzione della proprietà sociale: frutto di un compromessotrailmercatoe il lavoro sotto l’egida dello Stato.Ogginéilmercato,néil lavoro, né lo Stato hanno la stessa struttura, ma la questione della loro articolazione si pone comunque. Al lavoro divenutomobileealmercato divenuto volatile doveva corrispondere uno Stato socialedivenutoflessibile.Uno Statosocialeflessibileeattivo rappresentanonunasemplice formula retorica ma la formulazione di un’esigenza (che non implica la certezza della sua realizzazione): un’istanza pubblica di regolazione è piú che mai necessaria per inquadrare l’anarchiadiunmercatoilcui regno assoluto sfocerebbe in unasocietàscissatravincenti e perdenti, benestanti e miserabili, inclusi ed esclusi. Il contrario di una società di simili. Far fronte alle insicurezze significa combattere con la stessa intensità l’insicurezza civile e l’insicurezza sociale. Esisteoggiunconsensomolto diffusosulfattoche,alfinedi garantirelasicurezzacivile(la sicurezza dei beni e delle persone), sia richiesta una forte presenza dello Stato: bisogna difendere lo Stato di diritto.Lostessodiscorsovale per la lotta contro l’insicurezza sociale: bisognerebbe salvare lo Stato sociale. A meno che non si trattidiunasocietàcomposta da individui scissi o atomizzati, non può esistere, infatti, «società di individui» senzachedeisistemipubblici di regolazione non impongano, in nome della coesione sociale, la preminenza di un garante dell’interesse generale sulla concorrenza tra gli interessi privati. Questa istanza pubblica – bisognerebbe piuttosto dire queste istanze, centrali e locali, nazionali e transnazionali–hailcompito di trovare il proprio modus operandi in un mondo caratterizzato dal doppio sigillodell’individualizzazione e dell’obbligo alla mobilità. Il meno che si possa dire è che questo non è poca cosa: abbiamo infatti l’abitudine di pensare i poteri dello Stato attraverso grandi regolamentazioni omogenee chesiesercitanoinunquadro nazionale.Maèsenzadubbio, insintoniaconlacongiuntura contemporanea,l’unicomodo di rispondere alla domanda: «chesignificaessereprotetti?» 1I.SVEVO,LacoscienzadiZeno, Garzanti,Milano1985,p.424. 2 L.-A.-L. SAINT-JUST , Fragments surlesinstitutionsrépublicaines, in ID. ,Œuvres complètes, a cura di C. Nodier,Paris1984,p.969. Il libro «S E OGGI SI PUÒ parlare di un riemergere dell’insicurezza, è in larga misura perché esistono frange della popolazione ormai convinte di essere state lasciate ai margini del percorso, incapacidicontrollareilloro futuro in un mondo sempre piú segnato dal cambiamento». Un senso d’insicurezza domina le nostre vite. Temiamo di venir aggrediti per strada o in casa. Paventiamo di perdere il lavoro,dinonottenere la pensione, di cadere malati senza poterci curare. È vero che le protezioni dalla violenza e dai rischi dell’esistenzasonoancoroggi piú elevate di quanto non fossero un secolo fa. Accade peròcheambedueigeneridi protezione vengano oggi erosi da un’ideologia che attribuisce solo all’individuo la responsabilità dei suoi mali, e da un sistema produttivo che divide le persone – classificazione abbietta–invincitorievinti. Per accrescere la sicurezza materiale dei beni e delle persone, nota l’autore, bisogna difendere lo Stato di diritto. Per contrastare l’insicurezzadinanzialfuturo occorre salvare lo Stato sociale, dotandolo della capacità di far fronte alle contingenze generate dalla ipermobilità del lavoro e dall’anarchia dei mercati. A ricondurre entro limiti ragionevoli l’una e l’altra dovrebbe provvedere, potremmo aggiungere, lo Statosenzaaggettivi. LucianoGallino L’autore Robert Castel, sociologo e storico, è direttore di ricercaall’Écoledeshautes étudesensciencessociales. Tra le sue opere ricordiamoMétamorphoses de la question sociale (1995) e, con Claudine Haroche, Propriété privée, propriété sociale, propriété de soi (2000). Per Einaudi ha pubblicato Lo psicanalismo. Psicanalisi e potere(1975). Dello stesso autore Lopsicanalismo.Psicanalisie potere TitolooriginaleL’insécurité sociale.Qu’est-cequ’êtreprotégé? ©ÉditionsduSeuil-La RépubliquedesIdées,ottobre 2003 ©2004e2011GiulioEinaudi editores.p.a.,Torino Incopertina:fotoJeffreyCoolidge /TheImageBank/GettyImages. 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