Cibo degli Dei e cultura degli uomini CIBO DEGLI DEI E CULTURA DEGLI UOMINI FOCUS di Alfonso Piscitelli* Il mito e la cultura pagana, tramandati attraverso arte e letteratura, alimentano tuttora l’immaginario del mondo europeo, segno che gli dei greci e romani sono inossidabili! Le antiche leggende aiutano a recuperare le nostre radici, a circoscrivere lo spazio in cui l’uomo ha acquisito la sua esperienza, a dare il giusto valore agli elementi della natura. Agricoltura e ambiente, con i frutti che se ne ricavano, sono il punto di contatto tra la mitologia e la quotidianità odierna. L’alimentazione, da semplice bisogno, si evolve culturalmente, subisce una civilizzazione, cosicché nel mito i prodotti della terra, i loro derivati, l’allevamento, sono sacralizzati, diventano fonte di vita, sostentamento delle creature dell’Olimpo, simboli di immortalità e rinnovamento. Il miele, il vino, l’uovo, il grano, la carne, costituiscono il legame familiare tra le trame mitologiche e il nostro mondo. L Pagan myth and culture, passed out through arts an literature, still fill up the imagination of the European world, a clear evidence of the stainlessness of Greek and Roman gods! Ancient legends help to get back our roots, to delimitate the ambit where men acquired their experience, to give the right value to natural elements. Agriculture and environment, with the fruits that we receive from them, are the point of contact between mythology and modern quotidian life. Nutrition culturally evolves from plain need, goes through a civilization process, so that ,in myth, earth products and their offshoots, breeding are sacralized, they become a source of life, nourishment for the Olympus divine creatures, symbols of immortality and revival. Honey, wine, eggs, corn, meat are the familiar links between mythological frames and our world. 1. Mito antico e cultura occidentale. * Docente di Scienze Sociali, si occupa di tematiche geopolitiche. SILVÆ Anno IV - n. 10 a mitologia greco-romana continua ad essere per l’uomo europeo un universo di idee e di immagini molto familiare. L’esaurirsi della vitalità dell’antico paganesimo di tipo indoeuropeo non ha cancellato le tracce di figure leggendarie e il ricordo tramandato di 83 Cibo degli Dei e cultura degli uomini FOCUS Anno IV - n. 10 84 antiche storie archetipiche1. Un ruolo fondamentale in questo perpetuarsi di ricordi lo hanno svolto l’arte e la letteratura: Giovan Battista Vico ebbe a definire come “teologia poetica” il sistema religioso degli antichi. Una volta che gli antichi Dei smisero di essere oggetto di venerazione si cristallizzarono come immagini poetiche, care a chiunque avesse dimestichezza con le lettere e le arti figurative. Per secoli l’aristocrazia europea ha decorato le proprie ville con immagini tratte dal mondo dei miti greco-romani: ninfe, fauni, antichi eroi nell’atto di compiere i loro gesti esemplari convivevano pacificamente con immagini di Madonne e crocifissi anche nelle epoche in cui l’Inquisizione era più arcigna2. Quando poi, la rivoluzione francese in pochi anni carichi di entusiasmi e di follia sembrò distruggere ogni principio certo e ogni valore dell’ordine tradizionale europeo, furono sempre le immagini artistiche del mito antico ad ispirare un sentimento etico agli spiriti più elevati. Winckelmann contemplando la statua dell’Apollo del Belvedere concepì il criterio della Bellezza Classica, fondata sull’armonia delle forme, sul senso del limite e delle proporzioni: un ideale etico ancor prima che estetico. Un contributo al perpetuarsi delle antiche mitologie paradossalmente lo portò la stessa chiesa cattolica, che pure si è affermata al termine di uno scontro vittorioso con il paganesimo indo-europeo delle terre d’Occidente. E non ci riferiamo solo all’opera degli amanuensi che in epoca di grandi difficoltà materiali trasmisero il canone degli scritti precristiani, ma anche e soprattutto all’opera degli evangelizzatori cristiani, consapevoli del fatto che il modo più efficace per avvicinare alla nuova fede le popolazioni pagane dell’Europa era quello di “battezzare” tutta una serie di credenze e usanze arcaiche. I Dioscuri, semidei guaritori, trasformati nei Santi Cosma e Damiano, i vari Apollo, Mithra, Wotan recuperati attraverso il culto di San Michele Arcangelo – il condottiero delle armate celesti – stanno a testimoniare questa opera di “inclusione”. Nella loro polemica inter-confessionale i teologi protestanti hanno più volte accusato l’eccessiva tolleranza verso il paganesimo pratico delle popolazioni europee esercitato dalla chiesa cattolica: secondo la critica protestante la struttura gerarchica della Chiesa di Roma sarebbe una forma di perpetuazione dell’antico Impero e il Culto 1 Cfr. M. Eliade, Miti sogni e misteri, Milano, 1976. 2 Cfr. A. De Benoist, Come si può essere pagani, Genova 1984. SILVÆ Cibo degli Dei e cultura degli uomini 3 Cfr C.G. Jung, La libido: simboli e trasformazioni (1912), edito in Italia da Newton Compton 4 Cfr. J. HIllman, La vana fuga dagli Dei, Milano, 1991 SILVÆ FOCUS Anno IV - n. 10 della Madonna, un’eresia rispetto ai Vangeli (così parchi di riconoscimenti nei confronti della Madre del Salvatore), e la devozione dei Santi una restaurazione sostanziale dell’antico politeismo nel sentimento devozionale ingenuo delle masse. La critica si accentua in alcune frange estreme del protestantesimo americano che in nome del monoteismo biblico criticano lo stesso mistero supremo del cristianesimo europeo: la Santa Trinità (la cui adorazione accomuna cattolici, ortodossi e riformati) come un cedimento alle Triadi divine del paganesimo egizio, della misteriosofia neoplatonica, dei politeismi indoeuropei incentrati sul culto delle divinità delle “tre funzioni”. Nel Ventesimo secolo è stata soprattutto la psicologia a recuperare immagini e temi della antica mitologia, nella convinzione che tali ideazioni corrispondessero a contenuti profondi della psiche. Sigmund Freud – accusato a torto da rozzi antisemiti di essere il propalatore di una concezione “semita” dell’anima – fu un profondo frequentatore della mitologia greca: il tema della castrazione e del conflitto tra padre e figlio maschio così centrale nella sua psicologia sembrano essere un riverbero degli antichi miti su Urano che uccide i figli, su Saturno che castra il padre, su Zeus che si afferma a sua volta sul padre e cerca di impedire la nascita dai suoi stessi lombi di un sovrano universale più giovane. Per Freud, Eros e Thanatos sono le due forze fondamentali dell’inconscio: ancora una volta un riferimento – non solo semantico – all’universo mitologico greco. Con Carl Gustav Jung il riferimento alle mitologie si fa più insistito e consapevole: le mitologie esprimono l’inconscio collettivo e in particolare le mitologie mediterranee esprimono l’animus specifico dell’uomo europeo, che affonda le sue radici di civiltà nella cultura inaugurata da Omero alle soglie del Medio Evo ellenico3. Per il discepolo di Jung, James Hillman, ostentatamente pagano, gli Dei riprendono quasi realtà come forme eterne della interiorità, e viene considerato fonte di malattia psichica il loro oblio, il disconoscimento della loro peculiare esistenza4. Paradossalmente, proprio nel momento in cui la cultura più sofisticata d’Occidente riscopre il valore profondo dei miti antichi, l’istruzione smette di trasmettere alle generazioni più giovani la conoscenza della antica mitologia, pur così importante per comprendere la nostra arte, la nostra letteratura, gli stessi riferimenti dei filosofi e degli psico- 85 Cibo degli Dei e cultura degli uomini FOCUS logi. La crisi generalizzata che attraversa la scuola dei nostri giorni non risparmia gli antichi Dei ed Eroi! E non c’è da stupirsene, considerando lo scenario generale. Eppure rinnovare la conoscenza di antiche leggende non è esercizio erudito, serve a comprendere maggiormente noi stessi, i nostri gesti, le nostre radici. Gli stessi elementi della nostra cultura agricola e ambientale sono impregnati di riferimenti mitici che il tempo ha risparmiato dalla sua usura: il vino, il grano, le mele, il miele rinviano a un universo di immagini, che è fonte di sempre rinnovata poesia (ovvero di stupore) ma anche di riflessione antropologica profonda. 2. Tutto cominciò dall’Uovo. Anno IV - n. 10 86 Tutto incominciò da un uovo. Una delle varianti greche del racconto delle origini, fa appunto riferimento a un uovo primordiale. “In principio esisteva la Notte, Nyx, una delle più grandi dee anche secondo Omero. Essa aveva l’aspetto di un uccello dalle ali nere. Fecondata dal vento, la Notte depose il suo uovo d’argento nell’immenso grembo dell’oscurità. Dall’uovo balzò fuori il figlio del vento, un dio con le ali d’oro chiamato Eros, dio dell’Amore”5. L’antica cosmogonia diffusa prevalentemente secondo Kerenyi nell’Ellade del Nord, tra i cacciatori e gli abitatori dei boschi, individua in un “uovo primordiale” l’embrione dell’universo, e in quanto tale paragona il cosmo ad un grande essere animato vivente. L’uovo è d’argento, allusione alla sua qualità “spermatica”, generatrice. La sua forma è la stessa forma che si attribuisce al cosmo: nel suo interno agisce Eros, ovvero l’amore creatore, la libido che spinge a procreare. La parte superiore del guscio è il cielo, la parte inferiore è la terra. Eros spinge appunto le due parti a combaciare, accendendo la grande dynamis creativa dell’universo. La concezione dell’uovo primordiale da cui scaturiva Eros, sarebbe stata fatta propria dagli Orfici. I seguaci di questa corrente misterica tuttavia attribuivano un valore fondamentale alla esigenza dell’anima di purificarsi per ascendere ad una dimensione più alta, metafisica (“iperurania” avrebbe detto Platone)6. Alcuni hanno intepretato l’interdizione alimentare degli Orfici che non mangiavano uova, come espressione della volontà di distaccarsi dal mondo sensibile, che appunto da un “uovo”, da un embrione primordiale era sorto. Nel mito dell’uovo si esprime simbolicamente una concezione fon5 Cfr Karoly Kerenyi, Gli Dei della Grecia, Milano, 1962, p. 26 6 Cfr. Inni Orfici, a cura di G. Faggin, Roma, 1991. SILVÆ Cibo degli Dei e cultura degli uomini damentale della teologia greca: il cielo e la terra, per quanto distanti, sono due emisferi di una primordiale totalità. Gli Dei celesti e gli uomini figli della terra sono diversi per potenza, per felicità, per durata, ma scaturiscono entrambi da uno stesso conato cosmico. Alla vita immortale degli Dei contribuisce pertanto un alimento non del tutto dissimile da quello che può trovarsi sulla terra: l’ambrosia, il cibo o anche a volte la bevanda ricavata dal miele. Karoly Kerenyi nel suo monumentale trattato su Dioniso7 ha documentato il fatto che le bevande a base di miele, ancor prima di quelle a base di vino fossero usate come sostanze psicoattive, capaci cioè di favorire stati alterati di coscienza nel corso di cerimonie a carattere sciamanico. Kerenyi individuava a Creta il culto di una Grande Divinità, simboleggiata da un’ape. Ma d’altra parte l’uso di sostanze sacre mielate si riconduce anche al retroterra indoeuropeo: in epoche più recenti i Germani precristiani conoscevano l’“idromele”, bevanda sacra mielata, connessa alle cerimonie del culto e ai rituali di magia. La dolcezza del miele, ma anche la sua lucentezza così simile a quella del Sole e dell’oro dovette contribuire alla sua identificazione come cibo degli Dei. Peraltro il miele si riconduce alla industriosità delle api e nello stesso tempo alla tecnica umana dell’apicoltura: la produzione del miele è dunque una tappa della civilizzazione umana. L’invenzione della apicoltura viene attribuita a un dio appartenente alla sfera apollinea: Aristeo; e sempre vicino alla sfera di Apollo, il dio della luce e della conoscenza superiore, ci appare Dedalo, il mitico artefice che con la cera (un altro elemento connesso all’attività delle api) forgiò le ali per tentare il primo volo umano. Al contrario, il latte non evoca significati connessi alla industriosità e alla civilizzazione, ma si collega al tema delle origini, alla felice età dell’oro, nella quale gli uomini vivevano come pastori, in una natura ancora incantata, in intima comunione con gli Dei8. FOCUS 3. Le offerte del sacrificio. 7 Cfr K. Kerenyi, Dioniso, Archetipo della vita indistruttibile, Milano, 1992 8 Sulla problematica della vicinanza e del successivo distacco tra Dei e uomini, cfr. R. Calasso, Le nozze di Cadmo e Armonia, Milano, 1988. SILVÆ Anno IV - n. 10 La teologia mitica dei Greci – in maniera assai simile a quella degli Indù – teorizza una progressiva separazione del mondo divino da quello umano: nel passaggio dall’età dell’oro (di piena comunione tra Dei e uomini) a quella dell’argento (di armoniosa vicinanza), a quella del bronzo (in cui gli 87 Cibo degli Dei e cultura degli uomini FOCUS Anno IV - n. 10 88 Dei si allontanano dalla terra sulla quale predominano forze titaniche e violente), a quella del ferro (che riconduce l’uomo alla sua mortalità), i destini si separano, ma rimane un mezzo per riannodare i fili dell’umano al divino: il sacrificio9. L’offerta sacrificale della carne ancora riesce ad attirare l’attenzione degli Dei, la loro benevola accondiscendenza verso le aspettative umane. La carne, prezioso alimento dell’uomo e simbolo della sua capacità di cacciare o di coltivare, di essere insomma signore sulla propria terra, viene alienata in una certa parte per essere offerta a coloro che sono ormai Assenti. Il sacrificio è un invito, il fumo del fuoco sacrificale, l’aroma della carne che sale al cielo sono gli strumenti degli uomini per comunicare con i Celesti. Per questo assai curiosamente il piccolo Hermes, nel delizioso mito della sua fanciullezza, ruba i buoi al fratellastro Apollo, li pone sul fuoco, ma – vincendo la golosità – non mangia le sue prede: egli infatti vuol dimostrare di essere un dio a tutti gli effetti, per quanto piccolo e ancora indifeso in rapporto ai suoi potenti consimili, allora celebra un sacrificio a sé stesso e aspira l’aroma della carne rosolata senza mangiare, “perché gli Dei non mangiano veramente la carne”. Il sacrificio di carne animale è anche un modo per ovviare il più terribile sacrificio della carne umana: un rito crudele attestato ancora in tempi storici in regioni vicine, soprattutto in Oriente. Il mito di Ifigenia, posta dal padre sull’altare sacrificale e tuttavia salvata da Artemide, sta a significare appunto la ripulsa della cultura greca del sacrificio umano: in tal senso il racconto di Ifigenia ha lo stesso valore della storia del (mancato) sacrificio di Isacco, nell’ambito della cultura biblica. Esso intende dimostrare che Dio, gli Dei non chiedono l’offerta di uomini morti, ma la fedeltà di uomini vivi10. Ma la cultura greca, con i Pitagorici, si spinge anche oltre affermando l’inopportunità degli stessi sacrifici animali11. L’uomo non deve uccidere gli animali per far cosa gradita agli Dei. La dottrina della metempsicosi, ovvero della trasmigrazione delle anime, non esclude peraltro che in passato un’anima individuale umana possa aver vissuto in una forma animale. L’uomo non deve neppure mangiare carne animale, ma deve seguire una alimentazione vegetariana per conservare la propria mente leggera, libera dalla zavorra della gravità terrestre. Il vero sacrificio gradito al Divino è appunto l’offerta della propria intelligen9 Cfr tutta la seconda parte di J. Evola, Rivolta contro il mondo moderno, Roma, 1998. 10 Assai significativamente, nella cultura islamica, Allah non ferma la mano di Abramo, ma dopo aver assistito allo sgozzamento del figlio innocente, come premio della fedeltà lo riporta in vita. 11 Cfr. N. D’Anna, La religiosità arcaica dell’Ellade, Genova, 1985. SILVÆ Cibo degli Dei e cultura degli uomini za, la rettitudine del pensiero12. Questa impostazione sorta nel mondo greco nel “periodo assiale dell’umanità” (VII-VI secolo a. C.) trova precise analogie nella posizione del Buddha in India, di Zarathustra o meglio della corrente spirituale zarathustriana in Persia che si sviluppano in un periodo singolarmente coevo13. La rinuncia all’alimentazione vegetariana, da parte dei pitagorici, si inserisce in una profonda rivoluzione spirituale, che segna l’albeggiare di una nuova dimensione umana, legata principalmente all’“anima razionale”. FOCUS 4. La vita e la morte in una spiga di grano. 12 Cfr. N. D’Anna, La disciplina del silenzio, Rimini, 1995. 13 Cfr. P. Filippani-Ronconi, Miti e misteri dell’India, Roma, 1981. 14 Cfr. M. Eliade, Trattato di Storia delle Religioni, Torino, 1976. SILVÆ Anno IV - n. 10 Se Artemide è la dea della caccia, quindi legata alla dimensione della vita dei boschi, avventurosa e ancora selvaggia, volta alla ricerca della cacciagione, Demetra è la grande dea della Terra coltivata. De-meter: trasparente l’etimologia di questo nume che rinvia alla Terra (De) Madre (Meter); altrettanto trasparente è l’origine del nome di Poseidone, il dio del mare pescoso: Posis (Sposo) della Terra (Da). In età storica, quando all’arcaica preminenza di Poseidone si sostituisce la sovranità universale di Zeus, re del cielo, Demetra è appunto identificata con una delle spose di Zeus. Gli dei antropomorfi del cielo e della terra generano insieme due divinità destinate ad assumere una forte valenza misterica: Persefone e Dioniso. Il culto di Demetra si lega alle molteplici valenze che ha assunto l’agricoltura agli occhi degli uomini. Fu Mircea Eliade14, il principale storico delle religioni del Novecento, a sottolineare, in polemica con ottuse interpretazioni di tipo marxistico, come la scoperta dell’agricoltura prima ancora di essere un fatto materiale fosse stata un’avventura di tipo spirituale. La nascita dell’agricoltura implica un ampliamento dell’orizzonte mentale dell’uomo, lo educa allo spirito di disciplina, di risparmio, di impegno prolungato nel tempo e di attesa paziente dei risultati. Sviluppa il sentimento del tempo, percepito nella sua ciclicità (si pensi ai cicli delle stagioni che si ampliano nei cicli zodiacali e cosmici sino a giungere alla concezione platonica del “Grande anno”). La pratica agricola spinge gli uomini appunto a venerare le grandi divinità terrestri “dall’ampio seno” e a cogliere la mistica affinità tra la donna e la terra, all’insegna del comune possesso della magica forza della fecondità. L’osservazione dei ritmi della natura infonde fiducia all’uomo riguardo al suo destino ultraterreno. La pianta che appassisce e rifiori- 89 Cibo degli Dei e cultura degli uomini FOCUS Anno IV - n. 10 90 sce dal suo tronco, il seme che muore nella terra e risorge, ispirano le due grandi concezioni dell’aldilà: la reincarnazione, il ciclico ritorno dell’anima sul campo della terra, e la resurrezione, il ripullulare dell’uomo nella sua sostanza individuale da un nucleo indistruttibile dell’anima. Non è un caso che le parabole di Cristo – così come i riferimenti naturalistici nelle storie degli Dei pagani che muoiono e risorgono – abbondano di richiami all’agricoltura. “Il regno dei cieli è come un seme”, i messaggeri del Verbo sono come seminatori, le anime malvagie sono la gramigna nel campo di grano, il corpo della Divinità misticamente condiviso con i suoi discepoli nella cena sacrificale (“il sacrificio eucaristico”) è appunto il pane del cielo. Ma nello stesso tempo la mentalità agricola si alimenta di una tragica consapevolezza: la vita per poter fiorire ha bisogno di sacrificio, di sangue. Questo sottofondo tragico è sotteso ai sacrifici umani, che offrono sangue di giovani vite per propiziare raccolti, vittorie, benevolenza di Dei; è sotteso alla stessa vicenda tragica degli Dei a loro modo mortali: Attis – il dio mediterraneo che appunto patisce la morte – è “la giovane spiga recisa di fresco”. La morte e resurrezione di Adone è appunto celebrata con ampio riferimento a simbolismi vegetali. Laddove la potenza vegetale si dispiega più ricca e feconda, lì vita e morte si intrecciano, come due risvolti, come due polarità. Questo l’agricoltura ha insegnato agli uomini. Demetra è la dea bionda, la lucentezza dorata dei suoi capelli (così dissimile dal colore nero di altre Matriarche: il nero della terra fertile) non è tanto o non solo un riferimento razziale: essa simboleggia il colore dei campi di grano, sui quali la signora regna sovrana. Ma appunto in mezzo al grano che biondeggia, la figlia di Demetra, Persefone, viene rapita dal dio della morte e portata giù nell’Ade, in una regione di oscure tenebre. Quando ciò accade Demetra perde la sua letizia e tutta la natura con lei si pone in una condizione di lutto. Persefone, vita fiorente dalla terra, è stata rapita: la terra conosce allora l’aridità invernale. Sentendosi tradita dagli altri Dei e principalmente da Zeus, che hanno assistito complici al rapimento da parte del Dio dei morti, Demetra siede avvolta nel suo manto nel tempio di Eleusi e aspetta che gli uomini muoiano d’inedia. La terra non produce più frutti, ma lo stesso equilibrio dell’universo è turbato, in quanto gli uomini – impoveriti e affamati – non possono neppure offrire sacrifici agli Dei. Questa era la vendetta della Madre-Terra defraudata; riavere la figlia era ciò che chiedeva per porre fine alla desolazione del mondo. Hermes si presentò allora dinanzi ad Ade per perorare la richiesta di Demetra, “vedere con gli occhi sua figlia”. Ade con un enigmatico sor- SILVÆ Cibo degli Dei e cultura degli uomini riso accondiscese: nessuno avrebbe potuto toglierle Persefone, se non per qualche tempo limitato, e la divinità della morte ha sempre tempo a sufficienza per sé. Gli stessi Dei temevano Ade – o Plutone come eufemisticamente si chiamava – e mandarono la divinità più intelligente. Ma prima che Persefone fosse riscattata, Ade le offrì tre chicchi del frutto del melograno. Questa offerta segnava un legame indissolubile: Persefone, dea della primavera in fiore, aveva inoculato in sé qualcosa del mondo infero, era pertanto destinata a ritornare per indefinite volte sotterra esattamente come la vita vegetale ad ogni autunno si ritrae alle radici scomparendo dalle regioni della luce. Il mito greco si conclude così con una sorta di compromesso tra le divinità della vita e della morte: Persefone passerà una parte dell’anno sottoterra come sposa del Dio degli Inferi e un’altra parte sulla Terra, a garanzia della sua fecondità, della sua inesauribile vitalità. FOCUS 5. I frutti del paradiso. SILVÆ Anno IV - n. 10 Il mito speculare a quello di Persefone – che appunto evoca il senso della caducità della vita naturale – è rappresentato dal mito di Ercole, che conquista l’immortalità olimpica attraverso una serie di prove iniziatiche, la più celebre delle quali contiene ancora una volta il riferimento a un alimento: un frutto. Se Persefone gustando il frutto del melograno si lega definitivamente al regno dei morti, l’eroe Ercole conquistando i pomi d’oro del giardino delle Esperidi si innalza ad una dimensione superiore all’umano. Le Esperidi, figli del titano Atlante che sorregge l’Asse del Mondo, sono collocate, come suggerisce la loro stessa denominazione, in una sorta di paradiso occidentale. Nella simbologia degli antichi l’Occidente evoca il senso del tramonto, della sera (Espero) dunque della morte, ma il luogo della morte è anche quello dove l’eroe tenta l’avventura che lo innalza al di sopra della mortalità umana. Nel mitologhema troviamo in stretta connessione le figure dell’eroe, della donna (le Esperidi), dell’albero dal frutto divino ed anche del drago (creatura simbolica affine per certi versi al Serpente). L’avventura di Ercole che conquista i pomi d’oro ci appare immediatamente come una controparte “pagana” all’avventura di Adamo ed Eva, nel giardino del paradiso, che come è noto si conclude sciaguratamente, dopo che il tabù della raccolta del frutto è stato violato. La nostra carrellata di miti e frutti leggendari non può non concludersi con un riferimento a Dioniso, il nume del vino. Nume arcaico e selvaggio per certi aspetti, divinità civilizzatrice per altri, Dioniso mostra a ben vede- 91 Cibo degli Dei e cultura degli uomini FOCUS Anno IV - n. 10 92 re la stessa ambivalenza del vino, bevanda sacra dell’area mediterranea da parecchi secoli, in virtù del dionisismo e poi del cristianesimo. Il vino da un lato è la bevanda dell’ebbrezza, dunque dell’oblio delle responsabilità civili, morali, familiari. Esso spinge l’uomo oltre il limite della sua forma: può essere base di esperienze mistiche, può essere causa di arretramento alla dimensione istintuale-animale. E tuttavia per arrivare al vino è necessaria una “cultura”, un insieme di conoscenze e di abilità che sono a fondamento della viticultura. Insomma, per giungere ad ottenere il vino è necessaria una civiltà che sappia produrlo, per questo Dioniso, il dio selvaggio, il dio che sconvolge le menti e la polis, può anche mostrarsi come dio civilizzatore che insegna all’uomo nuove conoscenze naturali e nuove tecniche. Ma la riflessione sul tema del vino e delle bevande sacre e sugli dei ad esse collegate sarebbe troppo lunga. Dovremmo parlare di Dioniso e di Cristo, ma anche di Wotan e di Zeus. Rimandiamo il discorso ad un’altra occasione. SILVÆ