Lo sviluppo storico della meccanica quantistica

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Nel breve volgere di un ventennio, all’inizio del secolo XX, si assiste ad uno
sconvolgimento nel pensiero scientifico di tale portata da assumere ben presto i connotati di una
rivoluzione che travalica l’ambito della fisica teorica per investire globalmente tutta la visione del
mondo dell’uomo occidentale. Ci riferiamo alla nascita della meccanica quantistica, le cui più
importanti ricadute filosofiche riguardano la teoria della conoscenza e l’ontologia del mondo fisico.
Ciò che entra in crisi sono infatti i modelli più elementari alla base della nostra rappresentazione del
mondo, come per esempio quello di particella materiale che si muove seguendo una precisa
traiettoria. Ma la crisi della rappresentazione del mondo diventa ben presto una crisi della
conoscenza; con la nuova fisica viene infatti a cadere uno degli assunti fondamentali della scienza
moderna: la possibilità – almeno in linea di principio – di ottenere informazioni quantitative su un
sistema con un arbitrario grado di accuratezza.
Il percorso che ci porterà a toccare alcuni dei molteplici aspetti in cui la fisica quantistica ha
influenzato il pensiero contemporaneo inizierà con un excursus di ordine storico per fissare i punti
fondamentali dello sviluppo della nuova visione scientifica. Vedremo quindi come il modello della
realtà sensibile che emerge dalla fisica newtoniana – che tante conferme aveva ricevuto nell’ambito
dei fenomeni macroscopici – si infranga in maniera drammatica ed inesorabile su una serie di
risultati sperimentali riguardanti le proprietà degli atomi. Successivamente porremo la nostra
attenzione sugli aspetti paradossali della nuova fisica, destinati a rivelarsi in tutta la loro evidenza
nel momento in cui vengono prese in considerazione situazioni in cui è coinvolto un numero esiguo
di particelle. In particolare, nel cosiddetto paradosso EPR1 (dalle iniziali dei tre autori – Einstein,
Podolsky e Rosen – che alla metà degli anni 30 sollevarono la questione) viene evidenziata una
insanabile contraddizione tra le concezioni comunemente accettate di causalità fisica e località
spaziotemporale e le stringenti predizioni della meccanica quantistica. Ciò che avrebbe comportato,
nelle intenzioni di Einstein, il recupero di istanze deterministe nel senso della fisica newtoniana
attraverso l’introduzione di variabili nascoste, non considerate nella descrizione quantomeccanica.
Per molto tempo le discussioni sul paradosso EPR e sulle sue conseguenze poterono svilupparsi
solo a livello teorico, ma quando, alla fine degli anni 70, fu possibile realizzare per la prima volta
una configurazione sperimentale di quel genere2, divenne chiaro che Einstein aveva avuto torto e
che, lungi dall’essere incompleta, la meccanica quantistica ci dice qualcosa di molto profondo sul
carattere ultimo della realtà materiale. Oggi, a oltre un secolo dalla nascita della teoria, la
discussione è ancora aperta sull’interpretazione da dare alla descrizione quantistica della natura.
,, /HFRQFH]LRQLIRQGDPHQWDOLDOODEDVHGHOODILVLFDSUHTXDQWLVWLFD
Uno dei periodi più affascinanti e problematici della storia della scienza è quello a cavallo
tra la fine del XIX secolo e i primi anni del XX. In questo periodo vennero evidenziati diversi fatti
sperimentali i quali erano in assoluta contraddizione con le leggi della fisica universalmente
accettate fino ad allora. Nella ricerca di una spiegazione coerente a questi nuovi risultati, che però
salvasse le acquisizioni della fisica classica certamente corrette, vennero elaborati principi
totalmente nuovi su cui si è basata tutta la ricerca successiva per l’indagine del mondo atomico e
subatomico. In sintesi, proprio questo è il contesto che ha visto la nascita della meccanica
quantistica: il tentativo di spiegare imbarazzanti risultati sperimentali che in nessun modo potevano
A. Einstein, B. Podolsky, N. Rosen, 3K\V5HY, , 777, 1935.
A. Aspect, P. Grangier, & G. Roger, “Experimental realization of Einstein-Podolsky-Rosen-Bohm Gedanken
Experiment”, 3K\V5HY/HWW, , 91, 1982.
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essere ridotti alle teorie correnti. In realtà questo era già avvenuto molte altre volte nella storia della
scienza, il fatto cioè di dover ripensare o abbandonare le teorie di fronte all’inoppugnabile evidenza
sperimentale, che non ammette possibilità di discussione. La crisi che investe la fisica negli ultimi
decenni del XIX secolo però ha una portata molto più ampia. Da essa infatti emerge una descrizione
del mondo microscopico totalmente contraddittoria se rapportata alle usuali categorie di
interpretazione del reale che la scienza aveva mutuato dalla vita quotidiana dando loro la dignità del
rigore quantitativo: categorie fondamentali come ‘onda’ o ‘particella’. In questo senso la
rivoluzione quantistica è doppiamente rilevante. In primo luogo perché costringe ad una profonda
discussione sui modi della conoscenza e sulla stessa possibilità della conoscenza del mondo (o
almeno sui suoi limiti); in secondo luogo perché – in quanto teoria del mondo microscopico e dei
processi elementari – porta l’indagine dagli aspetti ‘intermedi’ del reale alla comprensione più
profonda delle leggi fondamentali della natura.
I fatti sperimentali a cui si faceva cenno sopra, origine della crisi della fisica classica,
riguardano la struttura della materia e le interazioni di questa con la radiazione elettromagnetica. Di
fatto gli sviluppi teorici e l’indagine sperimentale nella seconda metà dell’800 si erano spinti molto
avanti sul fronte dell’elettromagnetismo, come pure nelle conferme del modello atomico
provenienti dalla chimica; vi era pertanto una visione abbastanza chiara della cornice in cui
inquadrare i fenomeni microscopici.
Tra le concezioni di recente acquisizione alla vigilia della rivoluzione quantistica, di
particolare rilevanza è quella di campo elettromagnetico. Un campo elettrico è una sorta di
alterazione dello spazio generata da una sorgente di forza elettrica (ad esempio una particella
carica), alterazione che può essere rilevata solo se in quella regione di spazio viene posta una
seconda particella carica, la quale sarà quindi soggetta ad una forza. Finché consideriamo
configurazioni che non variano nel tempo di cariche elettriche e correnti elettriche (sorgenti delle
forze magnetiche) il campo è tutto sommato un concetto ausiliario di cui potremmo anche fare a
meno spiegando l’interazione tra cariche elettriche come una D]LRQH D GLVWDQ]D, una “cordicella
invisibile” che lega i due corpi obbligandoli ad avere particolari relazioni dinamiche. Si dimostra
però che possono aversi campi elettromagnetici variabili nel tempo, che riescono ad autosostenersi
anche lontano dalle sorgenti che li hanno prodotti3. Le equazioni dell’elettromagnetismo4 prevedono
cioè la possibilità di RQGH HOHWWURPDJQHWLFKH (tra l’altro, anche la luce risulta essere un’onda
elettromagnetica la cui frequenza cade in un particolare intervallo di valori), vale a dire di
perturbazioni che si propagano obbedendo a una descrizione matematica che è la stessa delle onde
su mezzi materiali come il suono o i terremoti. Nel caso delle onde elettromagnetiche però non vi è
alcun mezzo materiale a sostenerle, e la perturbazione – come si verifica sperimentalmente – può
propagarsi anche nel vuoto. Risulta quindi che il campo non è in alcun modo composto di materia
ed ha tuttavia una sua propria ed evidente realtà fisica, in quanto possiede esistenza autonoma dalle
proprie sorgenti ed esibisce effetti osservabili. È in questo senso che si afferma che
l’elettromagnetismo non è inquadrabile nella visione PHFFDQLFLVWD dell’universo, dominante fino a
Anche nel caso gravitazionale è possibile l’instaurarsi di perturbazioni di campo, le cosiddette RQGH JUDYLWD]LRQDOL,
come insegna la teoria della Relatività Generale (cfr. L. D. Landau, E. M. Lifšits, 7HRULD GHL FDPSL, Editori Riuniti,
Roma, 1976, cap. 13; H. C. Ohanian, R. Ruffini, *UDYLWD]LRQH H VSD]LRWHPSR. Zanichelli, Bologna, 1997, cap. 5).
Tuttavia tali onde vengono prodotte con intensità apprezzabile solo in casi eccezionali come ad esempio l’esplosione di
una supernova, e pertanto sono di difficilissima rivelazione; solo in tempi molto recenti è stata possibile una loro
osservazione mediante l’utilizzo di tecnologie estremamente raffinate e costose, le cosiddette DQWHQQHJUDYLWD]LRQDOL. Il
motivo di tale difficoltà è da ricercarsi nell’estrema debolezza dell’interazione gravitazionale e nel fatto che essendovi
un solo tipo di forza gravitazionale – quella attrattiva – non è possibile realizzare niente di simile alla classiche antenne
trasmittenti per le onde elettromagnetiche, nelle quali cariche di segno opposto oscillano. Le sorgenti di onde
gravitazionali sono invece eventi estremamente catastrofici che avvengono in zone remote dell’universo e che quindi
danno origine ad effetti molto deboli sulla Terra.
4
Cfr. J. D. Jackson, (OHWWURGLQDPLFD FODVVLFD. Zanichelli, Bologna, 1984; L. D. Landau., E. M. Lifšits, 7HRULD GHL
FDPSL. cit.; G. Toraldo di Francia, 2QGHHOHWWURPDJQHWLFKH. Zanichelli, Bologna, 1953.
3
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tutto il XIX secolo, che riduce i fenomeni fisici alla dinamica newtoniana5. Infatti la scienza
moderna nella sua fase iniziale adotta più o meno consapevolmente una ontologia dell’ente fisico di
stampo cartesiano. Una metafisica basata sul rigido dualismo tra UHV FRJLWDQV e UHVH[WHQVD, ridotta
quest’ultima unicamente alle due categorie di estensione e moto locale6. L’abbracciare questa
concezione può portare molto lontano, forse troppo, fino a tentare di spiegare a partire dal principio
di conservazione della quantità di moto qualsiasi fenomeno, anche la fisiologia degli animali, uomo
compreso. Vi è però da dire che gli straordinari successi della meccanica newtoniana per tutto il
XVIII secolo nonché l’affermarsi della teoria cinetica del calore (cioè la riduzione dei fenomeni
termici al moto disordinato dei costituenti microscopici della materia) avevano fornito importanti
conferme alla concezione meccanicista, tanto che intorno alla metà dell’800 un grande scienziato
come Helmholtz poteva lucidamente affermare7:
3HUWDQWR QRL ILQLDPR FRQ OR VFRSULUH FKH LO SUREOHPD GHOOD VFLHQ]D ILVLFD PDWHULDOH q TXHOOR GL
ULIHULUH L IHQRPHQL QDWXUDOL D IRU]H LPPXWDELOL GL DWWUD]LRQH H GL UHSXOVLRQH OH FXL LQWHQVLWj
GLSHQGRQR LQWHUDPHQWH GDOOD GLVWDQ]D /D ULVROXELOLWj GL TXHVWR SUREOHPD q OD FRQGL]LRQH SHU OD
FRPSOHWDFRPSUHQVLRQHGHOODQDWXUD.
Per completare il quadro della sistemazione teorica al termine del XIX secolo, dobbiamo
aggiungere che l’ipotesi atomica era ormai ampiamente accettata, grazie alle numerose conferme
avute dalla chimica8 e non solo. Si sapeva che le sostanze differiscono per i loro costituenti ultimi,
microscopici, cioè per le loro molecole, le quali a loro volta sono unità composte da atomi.
L’enorme varietà del mondo inorganico e anche di quello organico poteva essere spiegata sulla base
di appena un centinaio di atomi diversi. Sebbene una teoria universalmente accettata non fosse
ancora disponibile, era però appurata e contemplata da tutti i modelli la natura elettrica dei
costituenti atomici e delle loro interazioni. Se dunque gli atomi sono costituiti da parti
elettricamente cariche, e d’altro lato la luce è un fenomeno di natura elettromagnetica,
l’elettromagnetismo di Ampere, Faraday e Maxwell deve essere la naturale cornice teorica in cui
inquadrare i fenomeni relativi all’interazione luce-materia. Vi sono tuttavia alcuni risultati
sperimentali, assolutamente inequivocabili, che comportano insanabili contraddizioni se interpretati
all’interno di quella stessa teoria, per altri versi ben confermata in laboratorio e comunque dotata di
una solida coerenza logica al suo interno.
Ci troviamo così ad un crocevia in cui convergono tre strade: l’elettromagnetismo, coerente,
completo e confermato da molte verifiche sperimentali; la struttura atomica della materia, anch’essa
confermata dagli esperimenti e da cui non si può prescindere nella costruzione di qualsivoglia
modello per i fenomeni microscopici; un certo numero di esperienze volte ad indagare
specificatamente il carattere dell’interazione luce-materia, esperienze di facile lettura sui cui
risultati non possono essere sollevati dubbi ragionevoli. È a questo crocevia che si sviluppa la crisi
della fisica classica; infatti ciascuna delle tre strade presenta come abbiamo detto una indubitabile
coerenza sul piano deduttivo e chiarezza su quello sperimentale, purtuttavia una insanabile
contraddizione risulta inevitabile quando si mettano insieme tutti gli ingredienti.
,,,/DFULVLGHOODILVLFDFODVVLFDHODµSULPD¶PHFFDQLFDTXDQWLVWLFD
Vediamo adesso quali furono le situazioni sperimentali che misero in crisi la fisica classica,
in quanto in nessun modo inquadrabili nell’ambito delle concezioni dell’epoca. Si tratta
essenzialmente di tre ordini di problemi: l’emissione e assorbimento di luce da parte degli atomi, il
carattere della radiazione luminosa emessa da un corpo incandescente, l’effetto fotoelettrico (cioè
l’emissione di elettroni da parte di una superficie metallica che sia illuminata da luce di opportune
5
Una delle opere fondamentali per la critica di questo preteso valore epistemologicamente universale della meccanica
classica è: E. Mach, /DPHFFDQLFDQHOVXRVYLOXSSRVWRULFRFULWLFR. Boringhieri, Torino, 1977.
6
Cfr. S. Vanni Rovighi, 6WRULDGHOODILORVRILDPRGHUQD. La Scuola, Brescia, 1994, pp. 78 e sgg.
7
Citato in A. Einstein, L. Infeld, /¶HYROX]LRQHGHOODILVLFD'DLFRQFHWWLLQL]LDOLDOODUHODWLYLWjHDLTXDQWL. Boringhieri,
Torino, 1965, p.66.
8
Cfr. B. H. Mahan, &KLPLFDJHQHUDOHHLQRUJDQLFD. Ambrosiana, Milano, 1979, cap. 1.
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caratteristiche). Per inciso, notiamo che in tutti e tre i casi si tratta di fenomeni riguardanti scambi di
energia tra la materia e la radiazione elettromagnetica.
1. Struttura degli atomi e processi di emissione/assorbimento nei gas
La principale tecnica per
lo studio della struttura atomica – detta VSHWWURVFRSLD – consiste nel fare interagire un gas con la
radiazione elettromagnetica. Ciò può essere fatto in due modi: eccitando in qualche modo (per
esempio con scariche elettriche) gli atomi e analizzando le lunghezze d’onda della radiazione
emessa – in tal caso si parla di spettroscopia di emissione – oppure investendo il campione con
la radiazione e analizzando la composizione in lunghezza d’onda della radiazione trasmessa, si
parlerà allora di spettroscopia di assorbimento. Il fatto notevole di questi esperimenti è che, per
qualsiasi specie atomica, lo spettro ha la caratteristica di essere composto da una sequenza di
righe ben definite e separate tra loro. Risulta cioè che un particolare tipo di atomo interagisce
solo con radiazione elettromagnetica la cui lunghezza d’onda appartiene ad un ristretto insieme
di valori. Per quanto riguarda i modelli dell’atomo, l’evidenza sperimentale avvalora il modello
di Rutherford, che ricorda un sistema solare in miniatura nel quale il nucleo, piccolo e
massiccio, occupa il centro e intorno ad esso orbitano gli elettroni, leggeri e veloci, appunto
come pianeti intorno al Sole. Questo modello presenta però dei problemi abbastanza seri. Infatti
esso prevede che un elettrone abbia accesso a tutte le possibili orbite e conseguentemente possa
assorbire ed emettere radiazione elettromagnetica di ogni lunghezza d’onda. Ma allora come si
spiegano gli spettri a righe? E i problemi non finiscono qui. Infatti secondo l’elettromagnetismo
classico una particella carica in movimento con velocità variabile produce un campo
elettromagnetico9 (fenomeno noto come LUUDJJLDPHQWR). Ora, un qualsiasi campo
elettromagnetico possiede una certa quantità di energia, e siccome l’energia non può essere
creata dal nulla, il campo elettromagnetico verrà prodotto per irraggiamento a spese dell’energia
associata al movimento della particella carica. D’altra parte un elettrone che percorre un’orbita
chiusa intorno a un nucleo varia continuamente la sua velocità (infatti ne cambia la direzione) e
quindi deve irraggiare perdendo la propria energia. Come conseguenza di ciò, il raggio
dell’orbita diminuisce sempre più e, alla fine, l’elettrone cade sul nucleo e l’intero atomo
collassa. Una conclusione palesemente assurda, dato che la materia appare ben stabile, con la
massima evidenza.
Tutti i corpi, se vengono
2. La radiazione dei corpi incandescenti10
esposti a radiazione elettromagnetica (per esempio al Sole) assorbono energia e si riscaldano. In
effetti il calore è una forma di energia e il campo elettromagnetico trasporta energia. Appare
quindi plausibile che un corpo caldo emetta energia sotto forma di onde elettromagnetiche, e
che man mano che irraggia la sua temperatura diminuisca. Tramite metodi spettroscopici simili
a quelli usati per i gas è possibile analizzare in quale misura le varie lunghezze d’onda
concorrono alla costituzione della radiazione del corpo incandescente. Il risultato è che le
lunghezze d’onda molto grandi e quelle molto piccole non sono praticamente presenti nella
radiazione emessa, che invece è costituita principalmente da lunghezze d’onda appartenenti a un
determinato intervallo di valori, dipendente dalla temperatura del corpo stesso. Sulla base della
termodinamica e dell’elettromagnetismo classici è possibile stabilire due importanti leggi che
mettono in relazione la temperatura di un corpo con l’energia totale irraggiata (la OHJJH GL
6WHIDQ%ROW]PDQQ) e con la lunghezza d’onda a cui si ha il massimo dell’emissione (la OHJJH
GHOOR VSRVWDPHQWR GL :LHQ), perfettamente confermate dall’esperimento. Se però usiamo i
modelli forniti dalla fisica classica per determinare la dipendenza dettagliata dell’energia
irraggiata dalla lunghezza d’onda, ci troviamo a fronteggiare un grosso problema. Infatti la
legge matematica che si ricava (OHJJHGL5D\OHLJK-HDQV ) è in accordo con i dati sperimentali
solo per grandi lunghezze d’onda, mentre si discosta sensibilmente da essi alle piccole
lunghezze d’onda. Inoltre, diminuendo la lunghezza d’onda l’energia irraggiata diventa sempre
maggiore, cosicché l’energia totale risulta infinita. Dato che questo carattere patologico si
9
Cfr. J. D. Jackson, (OHWWURGLQDPLFDFODVVLFD, cit., cap. 14.
Cfr. M. Born, )LVLFDDWRPLFD. Boringhieri, Torino, 1976, cap VIII.
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riscontra alle lunghezze d’onda piccole (cioè nella parte dello spettro elettromagnetico oltre il
visibile dalla parte del violetto), esso viene comunemente indicato come FDWDVWURIHXOWUDYLROHWWD.
3. L’effetto fotoelettrico
Con il termine HIIHWWR
IRWRHOHWWULFR si intende la capacità che ha la luce di estrarre elettroni da un metallo. L’effetto
fotoelettrico può essere evidenziato sperimentalmente mediante un WXERDYXRWR, cioè una cella
di quarzo in cui è stato fatto il vuoto, all’interno della quale vi sono due placchette metalliche
(chiamate HOHWWURGL) tra le quali si stabilisce una differenza di potenziale elettrico. Se – sotto
opportune condizioni – si illumina l’elettrodo a potenziale minore (chiamato anche FDWRGR),
viene rilevata una corrente elettrica che attraversa il tubo a vuoto. Interpretiamo questo fatto
dicendo che gli elettroni dell’elettrodo illuminato hanno ricevuto dalla radiazione
elettromagnetica una energia sufficiente per fuoriuscire dal metallo, dopodichè a causa della
differenza di potenziale raggiungono l’altro elettrodo. Nel quadro di una interpretazione classica
sarebbe naturale aspettarsi che gli elettroni siano costretti ad oscillare sotto l’azione del campo
elettrico della luce e che, quando l’ampiezza di tali oscillazioni diventa sufficientemente grande,
gli elettroni vengano “strappati via” dal metallo e abbandonino l’elettrodo. Alcune semplici
conseguenze possono essere dedotte da questa interpretazione:
a.
radiazione di qualsiasi lunghezza d’onda può cedere agli elettroni l’energia
necessaria per abbandonare l’elettrodo;
b.
tra quando si illumina l’elettrodo e quando viene rilevata la corrente passa un
certo tempo durante il quale gli elettroni acquistano l’energia necessaria;
c.
aumentando l’intensità della luce incidente aumenta anche l’energia degli elettroni
emessi dal catodo.
Realizzando l’esperimento si osservano però le seguenti caratteristiche che sono apertamente in
contrasto con quanto previsto dalla teoria classica:
a.
non si ha alcuna corrente se la lunghezza d’onda della radiazione incidente è al di
sopra di un certo valore, per esempio possiamo avere emissione di elettroni con
luce blu ma non con luce rossa;
b.
una volta illuminato il catodo l’insorgere della corrente è istantaneo;
c.
si osserva una corrente anche se l’intensità della radiazione è molto debole; inoltre
aumentando l’intensità della radiazione non aumenta l’energia degli elettroni
emessi dal catodo, ma solo il loro numero.
Le contraddizioni relative a struttura degli atomi e righe spettrali, radiazione di corpo nero e
effetto fotoelettrico si risolvono se abbandoniamo l’ipotesi classica secondo cui l’energia di un
atomo come pure quella scambiata nell’interazione di un elettrone con un’onda elettromagnetica
possano assumere qualsiasi valore. Se un atomo non può trovarsi in uno stato con qualsiasi energia
ciò significa che vi saranno valori permessi per l’energia e valori proibiti. Il motivo dell’esistenza
dei valori proibiti, non essendo determinato da nessuno dei principi noti era al momento della
nascita della meccanica quantistica totalmente oscuro. Come poi avvenga lo scambio di energia tra
radiazione elettromagnetica e atomo rappresenta il secondo punto di discontinuità con la fisica
classica. Risulta infatti opportuno affermare che un’onda elettromagnetica non può cedere (o
assorbire) da un elettrone una quantità arbitraria di energia, ma tale scambio deve avvenire secondo
‘pacchetti’ di valore ben determinato, direttamente proporzionale alla frequenza dell’onda.
(Ricordiamo che la IUHTXHQ]D di un’onda, indicata con la lettera I, è legata alla lunghezza d’onda
Z
dalla relazione I = , dove Z è la velocità dell’onda che, nel caso delle onde elettromagnetiche nel
λ
vuoto, è una costante universale indicata solitamente con la lettera F il cui valore è pari a circa
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6
chilometri
). Riassumendo, l’LSRWHVL TXDQWLVWLFD può essere sintetizzata nei seguenti due
secondo
punti fondamentali:
300000
O¶HQHUJLD GL XQ VLVWHPD DWRPLFR HOHWWURQL QXFOHR QRQ SXz DVVXPHUH
TXDOVLDVLYDORUHPDVRORDOFXQLGHWHUPLQDWLYDORULGHWWLOLYHOOLHQHUJHWLFL
ODTXDQWLWjGLHQHUJLD( FKHXQDUDGLD]LRQHHOHWWURPDJQHWLFDGLIUHTXHQ]DI
VFDPELDLQWHUDJHQGRFRQXQHOHWWURQHqSURSRU]LRQDOHDI ( K I ODFRVWDQWH
GL SURSRU]LRQDOLWj K VL FKLDPD FRVWDQWH GL 3ODQFN H YDOH -RXOH VHFRQGR
Dal punto di vista dell’interpretazione intuitiva della realtà fisica queste due ipotesi sono
quantomeno singolari. La prima prevede infatti che nell’atomo gli elettroni possano occupare
solo alcune ben definite orbite attorno al nucleo e non altre; la seconda sembra invece avvalorare
una descrizione corpuscolare della luce, incompatibile con i ben noti fenomeni di interferenza e
diffrazione. Tuttavia esse permettono di risolvere agevolmente le contraddizioni tra esperimento
ed interpretazione classica viste in precedenza.
Storicamente, il primo problema che vide l’introduzione delle ipotesi quantistiche da
parte di Max Planck, fu quello dell’emissione di radiazione dei corpi incandescenti11.
Inizialmente, lavorando su misure sperimentali abbastanza accurate della distribuzione in
lunghezza d’onda della radiazione emessa da un corpo incandescente, Planck riuscì a ricavare
una relazione matematica che bene interpretava i dati, ma che aveva un carattere puramente
descrittivo e non era basata su alcuna ipotesi di carattere fisico. Egli presentò il suo risultato
preliminare alla Società Tedesca di Fisica il 19 ottobre del 1900. I controlli effettuati sulla
formula rilevarono un ottimo accordo con tutti i risultati sperimentali disponibili. Bisognava
dunque trovare per essa una giustificazione teorica fondamentale, basata su qualche ipotesi fisica
sulla struttura della materia. Planck dedicò le otto settimane successive a questo compito, e
finalmente, il 14 dicembre del 1900, in quella che può essere considerata la data di nascita della
meccanica quantistica, durante una riunione della Società Tedesca di Fisica, a Berlino, egli
presentò la deduzione teorica della legge dell’emissione di radiazione dei corpi incandescenti12.
L’ipotesi originale di Planck consisteva nel modellizzare il corpo irraggiante come
costituito da innumerevoli RVFLOODWRUL microscopici. In pratica si trattava di una rappresentazione
semplificata dei singoli atomi costituenti il materiale che non era affatto in contrasto con la
descrizione classica. Dove invece l’ipotesi di Planck si distaccava completamente da essa era
nell’assunzione che i singoli oscillatori potessero assumere solo energie che fossero un multiplo
intero di un qualche valore fondamentale, cioè che tali energie fossero TXDQWL]]DWH. Detto 0 tale
valore fondamentale, le energie possibili per un oscillatore sono 0, 2 0, 3 0, … (ma non valori
frazionari di 0). Affinché la formula di Planck sia in accordo con le conseguenze derivate dai
principi generali della termodinamica (in particolare con la legge dello spostamento di Wien) tra
l’energia fondamentale di un oscillatore 0 e la sua frequenza di oscillazione I deve valere la
relazione: 0=KÂI, dove K è la costante di Planck.
Poco tempo dopo la spiegazione dell’irraggiamento del calore da parte dei corpi
incandescenti proposta da Planck, Albert Einstein applicava concetti analoghi all’interpretazione
dell’effetto fotoelettrico13. Per quest’ultima ricerca (e non per la teoria della relatività) egli
ricevette il premio Nobel nel 1921. L’intuizione di Einstein riguardo all’effetto fotoelettrico
consiste nel fatto che l’energia scambiata da un’onda elettromagnetica di frequenza I con gli
elettroni di un metallo non possa assumere qualsiasi valore, ma solo multipli interi della quantità
Cfr. E. Wichmann, )LVLFD4XDQWLVWLFD, in /DILVLFDGL%HUNHOH\. Zanichelli, Bologna , 1973.
M. Planck, “Über das Gesetz der Energieverteilung in Normalspektrum”, $QQDOHQGHU3K\VLN, , 553 (1901).
13
A. Einstein, “Über einen die Erzeugung und Verwandlung des Lichtes betreffenden heuristischen Gesichtspunkt”,
$QQDOHQGHU3K\VLN, , 132 (1905).
11
12
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7
KÂI, dove K è la costante di Planck. Come si vede l’analogia con l’ipotesi di Planck è molto forte.
Sarebbe però sbagliato pensare che si tratti della stessa ipotesi. Infatti nel caso dei corpi
incandescenti KÂI rappresenta la separazione tra due livelli energetici quantizzati contigui
dell’atomo; Einstein invece assegna alla stessa quantità il significato di valore minimo e discreto
dell’energia che un’onda elettromagnetica cede nella sua interazione con la materia. Il fatto che
l’energia possa essere ceduta dalla radiazione solo in ‘pacchetti’ di valore fissato, porta
naturalmente ad interpretare la radiazione stessa come formata da corpuscoli chiamati IRWRQL,
ovverosia TXDQWL GL OXFH. Tuttavia l’ipotesi dei fotoni non è una mera riedizione della vecchia
teoria corpuscolare newtoniana, infatti KÂI non è l’energia associata al movimento (energia
cinetica) di una particella materiale, ma rappresenta solo la modalità secondo cui la radiazione
elettromagnetica, che è un’onda, scambia energia con la materia.
Anche la terza delle contraddizioni della fisica classica emerse a cavallo dei due secoli viene
risolta con il ricorso all’ipotesi quantistica. Partendo dal modello atomico planetario di Rutherford,
lo scienziato danese Niels Bohr nel 1913 formulò un’ipotesi aggiuntiva sulle orbite elettroniche14 in
modo da giustificare la caratteristica degli spettri atomici di presentare righe nette e separate e
giustificare la stabilità della materia. L’ipotesi di Bohr è logicamente equivalente a quella dei livelli
energetici, e consiste nell’assumere che non tutte le orbite siano ammesse, ma solo quelle i cui
parametri obbediscono a particolari FRQGL]LRQL GL TXDQWL]]D]LRQH. Inoltre, questa ipotesi spiega
facilmente anche il paradosso della stabilità della materia. Se infatti vi è un livello (0 di energia
minima, gli elettroni di quel livello non potranno ulteriormente perdere energia semplicemente
perché non esiste un altro livello, ancora più basso, in cui cadere dopo essersi liberati per
irraggiamento di una parte della loro energia.
È interessante infine notare che anche per Bohr – come già prima di lui per Planck e Einstein
– l’ipotesi quantistica avesse nel momento in cui fu proposta un carattere euristico. Il passaggio
della meccanica quantistica da mero strumento di lavoro a teoria descrittiva ed esplicativa del reale
non avvenne subito e il significato profondo della nuova visione dell’universo fisico è il punto
cruciale, potremmo dire “il Problema” (ancora aperto) della filosofia della scienza e della natura del
XX secolo.
,9 ,QGHWHUPLQD]LRQHTXDQWLVWLFDHIXQ]LRQHG¶RQGD
I vari tentativi che nei primi due decenni del 900 vennero portati avanti per trovare una
convincente cornice interpretativa della meccanica quantistica non approdarono a risultati
significativi, fino a quando, intorno al 1925, si fece strada nei maggiori fisici teorici del tempo la
convinzione che fosse necessario abbandonare la rappresentazione degli atomi come corpi analoghi
a quelli dell’esperienza quotidiana con la sola differenza di essere estremamente piccoli. Si prese
cioè in considerazione la possibilità che l’ambito microscopico non fosse riconducibile a
rappresentazioni e modelli intuitivi, derivanti dall’esperienza di fenomeni su scale di grandezza
superiori di parecchi ordini.
L’essenza di una teoria scientifica è spiegare quello che si vede anche per mezzo di quello
che non si vede. Se quindi l’oggetto immediato della fisica sono i dati di osservazione, per la
creazione di modelli che interpretino i risultati sperimentali siamo autorizzati ad introdurre anche
enti e relazioni non direttamente osservabili, purché siano comunque rilevabili, almeno con un
esperimento concettuale. È questo sicuramente uno dei caratteri distintivi della fisica moderna, nella
quale si è affermata la concezione nota come RSHUD]LRQLVPR15 in base alla quale la definizione di
una grandezza fisica consiste nella procedura operativa necessaria per misurarla Nella fisica
classica, di contro, capita di imbattersi in molti concetti che non solo non hanno un riscontro
sperimentale, ma non possono averlo neppure in linea di principio. Così l’etere o il fluido calorico,
introdotti per spiegare la propagazione della luce e i passaggi di calore, non sono suscettibili di altra
verifica che non sia la stessa propagazione della luce o il passaggio di calore rispettivamente..
14
15
N. Bohr, 3KLORVRSKLFDO0DJD]LQH, , 1, 1913.
P. W. Bridgman, /DORJLFDGHOODILVLFDPRGHUQD. Boringhieri, Torino, 1965.
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Cedendo alla tendenza inconscia di estendere all’ambito atomico quelle rappresentazioni
geometriche, cinematiche e causali che si formano nella continua esperienza del mondo
macroscopico, alcuni concetti vengono automaticamente trasposti alla scala microscopica, ma in
realtà non sono suscettibili di una definizione operativa. Viceversa – e qui sta uno degli aspetti
meno intuitivi della meccanica quantistica – altre proprietà che in base alla nostra esperienza del
mondo macroscopico non ci sogneremmo mai di assegnare a delle particelle ammettono una
verifica sperimentale e quindi una definizione operativa; se poi tale verifica dà un esito positivo,
dovremo convenire che l’oggetto indagato possiede effettivamente tale proprietà. Ci troviamo così
di fronte a un ente che non ricade in nessuna delle nostre categorie interpretative, una specie di
‘mostro’ ottenuto mescolando proprietà essenziali di oggetti che siamo abituati a pensare irriducibili
gli uni agli altri; un mostro tuttavia che ha una perfetta coerenza logica e una totale aderenza ai
risultati degli esperimenti.
Il fatto di dover considerare le particelle materiali alla stessa stregua di fenomeni ondulatori
comporta alcune importanti conseguenze, la più importante delle quali è che esistono grandezze
(per esempio la posizione e la velocità di una particella) che non possono essere misurate
simultaneamente su un sistema quantistico con una accuratezza arbitraria. Questo è sostanzialmente
il contenuto del celebre principio di indeterminazione di Heisemberg16. A questo proposito è
opportuno fare una importante osservazione: capita spesso di sentir dire che è il fatto stesso che
l’osservatore intervenga sul fenomeno da misurare che comporta una indeterminazione nel risultato
della misura (come se l’atto conoscitivo fosse all’origine dell’indeterminazione, un’affermazione
dal forte sapore kantiano). Ciò è sbagliato. Se infatti la causa dell’indeterminazione si riducesse
all’interazione tra oggetto e strumento di misura qualsiasi tipo di misura sarebbe affetta da tale
caratteristica, anche quelle della fisica classica. Anche nella fisica classica infatti la misura disturba
il fenomeno, ma tale disturbo è perfettamente calcolabile ed è quindi possibile sottrarre la
perturbazione e ricavare il valore esatto della grandezza misurata. Le leggi quantistiche invece sono
intrinsecamente indeterministiche e non permettono di valutare con precisione arbitraria l’entità del
disturbo introdotto da una misura.
Se le particelle devono essere considerate come onde sotto certi aspetti, il procedimento per
determinare matematicamente tali onde – cioè l’equazione di Schrödinger – fu ben chiaro fin
dall’inizio; quello che invece apparve di difficile interpretazione fu il significato da dare ad esse.
Supponiamo infatti di aver risolto l’equazione di Schrödinger per un elettrone sotto determinate
condizioni. È lecito porsi la domanda: l’onda così trovata è (si identifica con) l’elettrone?
Evidentemente no, altrimenti non vi sarebbe alcuna ambiguità onda/particella e l’elettrone si
comporterebbe sempre come un’onda. Ma allora, che relazione c’è tra l’onda di Schrödinger di un
elettrone e l’elettrone stesso? In meccanica classica l’evoluzione dinamica di un sistema di
particelle – per esempio elettroni – viene formalizzata impostando per ogni particella un’equazione
che permetta di determinarne con esattezza il moto. Se l’esperimento consiste nel rilevare quali
punti di uno schermo di raccolta verranno investiti dalle particelle, in questa descrizione è contenuto
molto di più; infatti oltre alla previsione esatta del risultato della misura vi è anche la descrizione
completa di tutto quello che accade a ogni elettrone da quando lascia la sorgente al momento in cui
interagisce con il rivelatore. In meccanica quantistica la situazione è radicalmente diversa. In primo
luogo una descrizione di quello che l’elettrone fa prima di essere rilevato non ha senso dal punto di
vista operazionale: che significato operativo potremmo infatti dare alla posizione dell’elettrone ad
un certo istante se tale posizione non viene misurata? Vi è però un altro punto, della massima
importanza: dato che nell’interazione con il sistema di misura l’oggetto quantistico riceve una
perturbazione i cui effetti non sono calcolabili esattamente, la funzione d’onda che ricaviamo dalle
leggi quantistiche ci permette di ottenere solo la SUREDELOLWj per ogni possibile valore di essere
l’effettivo esito della misura. Finché abbiamo a che fare con grandi numeri di particelle tale
probabilità è sostanzialmente la frequenza con cui un certo risultato si ripete, ma se vogliamo
16
W. Heisemberg, =I3K\V., , 879 (1925).
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9
scendere fino al livello della singola particella come dovremo interpretare la funzione d’onda? Una
possibile strada potrebbe essere quella di escludere completamente la rappresentazione corpuscolare
e considerare le particelle come onde a tutti gli effetti; in tal caso l’onda quantistica diventa una
vera e propria RQGD GL PDWHULD. È questa la posizione di Schrödinger, che per la funzione d’onda
soluzione dell’equazione che porta il suo nome propose una interpretazione basata sulla reale
consistenza di materia, diffusa e sparpagliata su tutta la regione di spazio in cui il campo dell’onda
ha un valore diverso da zero. Le manifestazioni in cui il carattere corpuscolare appare
preponderante sono poi da interpretare in termini di funzioni d’onda aventi un valore
significativamente diverso da zero solo in una piccola regione dello spazio:
,O IHQRPHQR RQGXODWRULR IRUPD LO µFRUSR¶ UHDOH GHOO¶DWRPR 6RVWLWXLVFH JOL HOHWWURQL SXQWLIRUPL
LQGLYLGXDOL FKH QHO PRGHOOR GL %RKU VFLDPDQR LQWRUQR DO QXFOHR ,Q QHVVXQ FDVR SRVVLDPR
DPPHWWHUH O¶HVLVWHQ]D GL WDOL SDUWLFHOOH SXQWLIRUPL LQWHUQH DOO¶DWRPR H VH SHQVLDPR DQFRUD DO
QXFOHRLQTXHVWLWHUPLQLFLzqSHUXQHVSHGLHQWHGHOWXWWRFRQVFLR17.
Questa interpretazione – come riconobbe lo stesso Schrödinger successivamente – offre il fianco ad
alcune importanti critiche, di cui le principali sono rappresentate dai seguenti fatti:
1.
una trattazione matematica approfondita mostra che le onde inizialmente localizzate
durante la loro propagazione tendono ad allargarsi irreversibilmente, per cui un ente
quantistico che ‘nascesse’ come particella, durante la sua evoluzione si disperderebbe
sempre più fino ad essere in breve tempo completamente delocalizzato;
2.
nel caso di onde di materia di particelle aventi una carica elettrica – come l’elettrone –
sussiste una difficoltà legata al fatto che parti contigue dell’onda tenderebbero a
respingersi a causa della forza elettrostatica, facendo perdere all’elettrone la propria unità
spaziale e quindi la propria individualità;
3.
certi processi atomici, ben noti sperimentalmente, indicano in maniera non equivoca il
carattere fondamentalmente corpuscolare delle particelle, inconciliabile con
l’approssimazione data dai pacchetti d’onda.
Speculare alla posizione di Schrödinger è quella di Born: neanche lui accettò il dualismo ondaparticella, ma a vantaggio dei corpuscoli anziché delle onde. Fu Born infatti ad introdurre nel 1926
l’interpretazione probabilistica della funzione d’onda, che viene pertanto ad essere un mero
strumento matematico necessario per calcolare la probabilità di osservare una particella (che esiste
realmente, ed ha un carattere genuinamente corpuscolare) in un dato punto dello spazio.
Chiaramente questa interpretazione funziona bene solo nel caso di sistemi con molte particelle.
Sempre sulla linea di coloro che vogliono salvare i concetti classici di onda e particella
troviamo De Broglie, che propose la sua ipotesi dell’RQGDSLORWD già nel 1925, ma scoraggiato dalle
critiche che gli altri padri fondatori della meccanica quantistica rivolsero a tale posizione (solo
Einstein aveva valutato positivamente l’idea) l’abbandonò per riprenderla solo molti anni più tardi,
nel 1952, insieme a David Bohm. In sintesi, la risposta di De Broglie alla domanda chiave della
meccanica quantistica: “particella o onda?” è semplicemente: “particella e onda”. Con ciò egli
intendeva assegnare all’onda quantistica una reale consistenza ontologica piuttosto che il ruolo di
semplice strumento matematico. Non si trattava tuttavia di un’onda di materia, nel senso di
Schrödinger, nella quale si dissolvono le particelle, bensì di un “qualche cosa” che guida la
propagazione delle particelle, le quali sono però corpuscoli a tutti gli effetti, esattamente come
nell’interpretazione di Born. L’onda quantistica, soluzione dell’equazione di Schrödinger si propaga
secondo le classiche regole della propagazione ondosa e le particelle vengono in qualche modo
attratte laddove l’intensità del campo d’onda è maggiore mentre sono respinte dalle zone in cui
l’intensità dell’onda è più bassa. L’interpretazione di De Broglie-Bohm non soffre né delle
contraddizioni evidenziate per le onde di materiali di Schrödinger né delle limitazioni della
posizione corpuscolare di Born, applicabile solo al caso di sistemi con molte particelle. Tuttavia
17
W. Heisemberg, M. Born, E. Schrödinger e P. Auger, 'LVFXVVLRQHVXOODILVLFDPRGHUQD. Einaudi, Torino, 1959.
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l’onda pilota mostra un certo carattere di ipotesi DG KRF e la sua natura rimane abbastanza oscura;
infatti da un punto di vista operativo tale onda è assolutamente inosservabile in quanto tutta la
energia e la quantità di moto sono concentrate nelle particelle. Diventa quindi assai arduo sostenere
la realtà fisica di un siffatto oggetto. Nondimeno essa non presenta evidenti contraddizioni e non ha
mancato di suscitare interesse anche in tempi più recenti18.
Se le interpretazioni di Schrödinger, di Born e di De Broglie-Bohm hanno un comune
denominatore filosofico dato dal realismo, tutt’altra posizione è quella di chi, di fronte al dilemma
onda/particella, propone una soluzione che non consiste nello scegliere una delle due
rappresentazioni, ma nel convivere con il dilemma stesso. Tale è la posizione di Niels Bohr e del
gruppo di scienziati che si coagulò intorno a lui, all’università di Copenhagen. Si tratta di una
interpretazione in cui si possono ravvisare tratti irrazionalisti; lo stesso Bohr, dopotutto, aveva
partecipato in gioventù ad un circolo culturale animato da Høffding, allievo del filosofo
esistenzialista Kierkegaard. Cuore dell’interpretazione della scuola di Copenhagen è il cosiddetto
SULQFLSLR GL FRPSOHPHQWDULWj19. Per comprendere il senso della complementarità dobbiamo fare
riferimento al principio di indeterminazione di Heisemberg. Ricordiamo che tale principio stabilisce
che tra le minime incertezze nella misura di particolari coppie di grandezze fisiche, dette JUDQGH]]H
FRQLXJDWH, vale una relazione di proporzionalità inversa, per cui diminuendo una aumenta l’altra e
viceversa. Una coppia di grandezze coniugate è formata dalla posizione e la quantità di moto
(definita come il prodotto della massa per la velocità); un’altra coppia di grandezze coniugate sono
tempo ed energia, pertanto anche il tentativo di determinare l’energia e la localizzazione temporale
per una stessa particella sarà soggetto alla limitazione espressa dal principio di indeterminazione di
Heisemberg. Ora, è ben noto che secondo la fisica classica in un processo elementare alcune
grandezze, tra cui l’energia e la quantità di moto, si conservano; vale a dire che il loro valore rimane
costante durante tutto il processo. Per Bohr causalità significa che il processo avviene secondo
precise regole, che sono proprio le leggi di conservazione. Volendo quindi verificare con esattezza
tali leggi di conservazione dovremo misurare le relative grandezze con una precisione molto alta,
cioè con una incertezza molto bassa. Ma allora, in base al principio di indeterminazione, sarà
corrispondentemente elevata l’incertezza su tempo e posizione. Vediamo quindi che se vogliamo
salvare la causalità dobbiamo rinunciare alla localizzazione spazio-temporale e viceversa. Pertanto
la causalità e la descrizione spazio-temporale sono aspetti complementari, se si osserva l’una non si
può osservare l’altra e viceversa. Analoghe considerazioni portano a stabilire una relazione di
complementarità anche tra descrizione ondulatoria e corpuscolare. Si tratta anche in questo caso di
aspetti mutuamente escludentisi, per cui un oggetto quantistico, in un esperimento volto ad
evidenziarne la natura corpuscolare si comporterà come una particella, mentre in un esperimento
volto ad evidenziarne il carattere ondulatorio si comporterà come un’onda. I due aspetti non saranno
comunque mai riscontrabili simultaneamente, né vi è alcun modo di trovare una sintesi tra le due
descrizioni. Notiamo la profonda differenza tra questa impostazione e quelle di Schrödinger, di
Born e di De Broglie-Bohm: là si cercava di trovare una interpretazione della meccanica quantistica
che portasse ad una comprensione del formalismo della teoria in termini dei concetti classici di
particella e onda, qua ci si rassegna al fatto che tali concetti siano solo un espediente mutuato dalla
fisica classica, privi però di qualsiasi valore interpretativo nell’ambito degli oggetti atomici o
subatomici.
9 'HWHUPLQLVPRHFDXVDOLWjODPLVXUDTXDQWLVWLFDHODGHFRHUHQ]DODTXHVWLRQHGHOOHYDULDELOL
QDVFRVWHLOSDUDGRVVR(35
Se in un sistema composto da un gran numero di particelle l’interpretazione probabilistica la
funzione d’onda permette di ottenere la probabilità – cioè la frequenza – dei possibili risultati di una
misura, le cose diventano molto più problematiche se il sistema è composto da un numero ristretto
J. S. Bell., 2Q WKH LPSRVVLEOH SLORW ZDYH, in 6SHDNDEOH DQG 8QVSHDNDEOH LQ 4XDQWXP 0HFKDQLFV. Cambridge
University Press, Cambridge, 1987, pp. 159-168.
19
N. Bohr, 7HRULDGHOO¶DWRPRHFRQRVFHQ]DXPDQD. Boringhieri, Torino, 1961.
18
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di particelle, al limite da una sola. Domandiamoci allora che cosa accade a una singola particella
dopo che ne è stata misurata una certa proprietà. Risulta che l’azione dell’apparato di misura è
quella di trasformare lo stato della particella da uno in cui sono possibili diversi risultati per quella
misura ad un nuovo stato in cui l’unico possibile risultato per quella misura è quello che è stato
appena rilevato. Consideriamo ad esempio la misura dello VSLQ di un elettrone (tale grandezza,
legata alle proprietà magnetiche della particella, può assumere solo i due valori: +½ e -½).
Supponiamo che inizialmente l’elettrone si trovi in uno stato in cui l’esito della misura di spin – che
non possiamo predire con certezza – abbia certe probabilità di essere uno dei due valori +½ e.
Effettuata la misura poniamo di aver ottenuto il valore -½. Subito dopo la misura la funzione d’onda
dell’elettrone non è più la stessa di quella iniziale; se andiamo a ripetere la misura un’atra volta,
immediatamente dopo, ritroveremo lo stesso risultato, cioè -½, con probabilità del 100%. Per questo
motivo si parla di ‘collasso’ della funzione d’onda. Vi è quindi una irreversibilità di fondo nella
teoria quantistica, e tale concetto viene espresso in maniera molto chiara nel seguente passo del
celebre trattato di fisica teorica di Landau e Lifšits20:
1RLYHGLDPRFKHLOSURFHVVRGLPLVXUDSUHVHQWDLQPHFFDQLFDTXDQWLVWLFDXQGXSOLFHDVSHWWRLOVXR
UXRORULVSHWWRDOSDVVDWRHDOIXWXURqGLYHUVR5LVSHWWRDOSDVVDWRODPLVXUDYHULILFDOHSUREDELOLWj
GHL GLYHUVL ULVXOWDWL SRVVLELOL FKH VL SRVVRQR SUHYHGHUH SDUWHQGR GDOOR VWDWR FUHDWR GDOOD PLVXUD
SUHFHGHQWH 5LVSHWWR DO IXWXUR HVVD FUHD XQ QXRYR VWDWR LO SURFHVVR GL PLVXUD q TXLQGL SHU VXD
QDWXUDSURIRQGDPHQWHLUUHYHUVLELOH.
La fondamentale differenza tra il comportamento classico e quello quantistico consiste proprio in
questo: che mentre le leggi della fisica classica permettono di determinare in anticipo il risultato di
qualsiasi misura, nel caso quantistico solo la probabilità di ottenere i vari risultati è accessibile a
priori. Se questo è lo stato di fatto è lecito chiedersi come avvenga la separazione tra mondo
classico e mondo quantistico e dove sia posto tale confine. Per chiarire il senso della domanda
bisogna ricordare che il collasso della funzione d’onda avviene in corrispondenza di una interazione
del sistema quantistico (microscopico) con l’esterno (macroscopico e retto dalle leggi della fisica
classica): tale effetto si chiama GHFRHUHQ]D. È evidente che all’aumentare delle dimensioni degli
oggetti questi diventano sempre più sensibili alle perturbazioni esterne, ma non è chiaro se in linea
di principio non sia possibile isolare a sufficienza il sistema affinché il comportamento quantistico
sia conservato anche quando le sue dimensioni hanno raggiunto la scala macroscopica.
Una proposta di soluzione al problema della decoerenza è quella avanzata da Wigner21,
secondo cui – in base ad una riduttiva interpretazione del processo di misura come intervento di un
soggetto cosciente sul sistema quantistico – il collasso della funzione d’onda avviene al momento
dell’intervento dello sperimentatore umano. Tale interpretazione è senza dubbio da rigettare in
quanto conduce a una inaccettabile asimmetria tra le regioni di Universo che cadono sotto
l’osservazione dell’uomo o di altri eventuali soggetti coscienti e le altre22, essa inoltre implica
pericolosi elementi di soggettivismo e antirealismo.
Ancora più radicale e dal sapore vagamente fantascientifico è l’interpretazione di Everett23
(o dei “molti mondi”) secondo la quale non si ha alcun collasso della funzione d’onda, ma
ogniqualvolta un sistema quantistico che si trova in una sovrapposizione di stati è soggetto ad una
misurazione l’intero universo si separa in diverse copie in tutto e per tutto uguali eccetto che per
quel particolare sistema quantistico che in ognuna delle copie avrà un diverso valore della
grandezza misurata. Anche questa interpretazione non è una via praticabile, in quanto i problemi
che pone sono molti di più di quelli che risolve (si pensi per esempio solo al destino della coscienza
L. D. Landau, E. M. Lifšits, 0HFFDQLFDTXDQWLVWLFD. Editori Riuniti, Roma, 1975, pag. 42.
E. P. Wigner, 5HPDUNVRQWKHPLQGERG\TXHVWLRQ, in Good I., J., (ed.), 7KH6FLHQWLVW6SHFXODWHV, Heinemann, London,
1961
22
R. Penrose, /DPHQWHQXRYDGHOO¶LPSHUDWRUH. RCS Libri, Milano, 1997, p. 380.
23
H. Everett, ©5HODWLYH6WDWHªIRUPXODWLRQRITXDQWXPPHFKDQLFV, 5HY0RG3K\V, , 454-462, 1957; ristampato in
Wheeler J. A.& Zurek W. H. (eds.) 4XDQWXP7KHRU\DQG0HDVXUHPHQW, Princeton Universisty Press, Princeton, 1983.
20
21
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individuale in una tale prospettiva…) e anche da un punto di vista puramente operazionale è
completamente priva di senso poiché non suscettibile di alcuna verifica sperimentale.
L’eventualità che le leggi della fisica non siano in grado di fornire neanche in linea di
principio l’accurata previsione dei risultati sperimentali provocò una profonda insoddisfazione tra
alcuni dei padri fondatori della meccanica quantistica (Einstein in primo luogo) nei confronti della
teoria e del suo intrinseco indeterminismo, visto come inconoscibilità della natura. La fede in una
completa conoscibilità dell’universo fisico, porta dunque a postulare l’esistenza di YDULDELOL
QDVFRVWH. In pratica, si suppone che esistano altre grandezze fisiche, attualmente non osservate ma
potenzialmente osservabili, in grado di determinare perfettamente (nel senso della fisica classica) lo
stato del sistema. Per giustificare l’esistenza di queste variabili, venne proposto un celebre
esperimento ideale, noto – dalle iniziali dei suoi ideatori – come paradosso EPR24. Consideriamo
due particelle che vengano prodotte in uno stato tale che le proprietà fisiche dell’una siano correlate
alle proprietà dell’altra. Per esempio, due elettroni prodotti in modo tale che lo spin totale del
sistema sia uguale a zero. Per gli spin dei due elettroni potremo allora avere due casi distinti; nel
primo caso lo spin del primo elettrone è +½ e quello del secondo -½, nell’altro caso lo spin del
primo elettrone è -½ e quello del secondo +½. Supponiamo che, dopo essere stati prodotti i due
elettroni si allontanino l’uno dall’altro di una grande distanza, per esempio un anno luce. A questo
punto uno sperimentatore esegua una misura di spin sul primo elettrone ottenendo per esempio il
valore +½, non ci sono dubbi che lo spin del secondo elettrone sarà -½ . Secondo l’interpretazione
corrente della meccanica quantistica dovremmo dire che la misura sul primo elettrone ne ha causato
il collasso in un autostato dello spin, e poiché i due elettroni sono correlati, tale misura ha causato
anche il collasso della funzione d’onda del secondo elettrone. Ci troviamo però a questo punto in
una situazione scomoda, per non dire paradossale. Risulta infatti che una azione causale si è
propagata istantaneamente tra due punti dello spazio lontanissimi. Ciò è platealmente in contrasto
con l’idea classica di causalità nonché con uno dei postulati della teoria della relatività, per cui non
si può avere alcun movimento di materia, energia, informazione a una velocità superiore a quella
della luce. Gli autori suggeriscono allora una interpretazione secondo cui l’indeterminazione è solo
apparente, ma lo stato del sistema è determinato fin dall’inizio in base a qualche variabile nascosta.
Per esemplificare questo concetto supponiamo che io incontri per la prima volta una persona che
abbia un gemello monovulare; nel momento in cui vedo che questa persona ha gli occhi azzurri
immediatamente apprendo anche il colore degli occhi del suo gemello, ma non c’è stata alcuna
trasmissione istantanea di informazione o azione causale a distanza. Semplicemente vi era una
variabile nascosta per cui due gemelli monovulari hanno lo stesso colore degli occhi.
Sebbene fin dai primi anni fossero apparsi argomenti contrari alle variabili nascoste25, i quali
però ad una attenta analisi si erano rivelati non definitivi, la questione sollevata dal paradosso EPR
rimase al livello delle discussioni accademiche fino a che non furono stabilite precise condizioni
matematiche – le cosiddette disuguaglianze di Bell26 – che vengono verificate o meno in un
esperimento di tipo EPR a seconda che vi siano effettivamente delle variabili nascoste oppure no.
Dopo pochi anni fu anche possibile realizzare in pratica l’esperimento27, e il risultato ottenuto non
lasciò ombra di dubbio: Einstein Podolsky e Rosen avevano torto, le variabili nascoste non esistono
e concetti fondamentali come spazio, tempo, causa, devono essere pertanto profondamente
ripensati.
Con il fallimento dell’ipotesi delle variabili nascoste, rimangono sul tappeto diverse
proposte interpretative sui meccanismi che portano al collasso della funzione d’onda, nessuna delle
quali però da considerarsi definitiva, anche se sembra ormai appurato che la decoerenza giochi un
ruolo fondamentale. La mancanza di chiarezza nei fondamenti non ha impedito tuttavia alla ricerca
24
A. Einstein, B. Podolsky, N. Rosen, cit.
J. Von Neumann, 0DWKHPDWLFDOIRXQGDWLRQVRITXDQWXPPHFKDQLFV. Princeton University Press, Princeton, 1983.
26
J.S. Bell, “On the Einstein-Podolsky-Rosen paradox”, 3K\VLFV, , 195, 1964.
27
A. Aspect, P. Grangier, & G. Roger, cit..
25
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di progredire e di raggiungere notevoli risultati nella previsione teorica di specifici esiti sperimentali
con una straordinaria precisione numerica.
Questo evidente squilibrio tra l’estensione e la profondità della conoscenza è stato assunto
spesso come un carattere sostanziale della scienza e della natura piuttosto che come un aspetto
accidentale destinato ad essere superato in una prospettiva di evoluzione del sapere. Si è così giunti
a canonizzare la limitata conoscibilità conferendole la dignità di posizione metafisica. Ciò è
avvenuto sul versante scientifico con l’interpretazione della meccanica quantistica della scuola di
Copenhagen, e su quello filosofico col neopositivismo sviluppato dai pensatori del circolo di
Vienna. Quello che queste posizioni hanno in comune è il modo in cui vengono affrontate le
domande alle quali non si riesce a dare risposta all’interno della teoria: semplicemente viene negato
che tali domande abbiano significato. Ciò vale per la determinazione delle misure su stati di
particella singola in meccanica quantistica come per le questioni non riportabili a deduzione logica
o verificabili per mezzo di una procedura operativa (ad esempio i temi riguardanti la metafisica o la
religione). Indubbiamente una tale linea di pensiero risente dell’influsso del pensiero kantiano.
Possiamo infatti riconoscere28 una analogia abbastanza stringente tra “il tribunale della ragione” di
Kant che per dare legittimità al processo razionale ne segna anche invalicabili limiti, e la rigorosa
delimitazione del dicibile operata dal primo Wittgenstein.
9,&RQFOXVLRQL
Con la nascita della meccanica quantistica il pensiero occidentale prende una direzione
irreversibilmente divergente da quelli che sembravano essere incrollabili punti fermi nella scienza
moderna di Galileo, Descartes e Newton. Bisogna prendere atto del fatto che un determinismo
completo non è possibile; questo in sintesi ci sembra il senso più profondo della questione. Ciò però
non significa la fine della fisica, anzi è l’apertura di prospettive su un mondo totalmente nuovo.
Tanto per cominciare nella meccanica quantistica vi è un aspetto quantitativo di fondamentale
importanza: il valore estremamente basso della costante di Planck. Ciò fa sì che non vi sia bisogno
di cancellare la fisica classica, che anzi è indispensabile per fondare logicamente (si pensi al ruolo
fondamentale dello strumento di misura) quella che in realtà è una sua generalizzazione. Inoltre il
principio di indeterminazione non è un problema insormontabile: gli scienziati imparano presto
quali sono le corrette domande da porre alla teoria. Questo riposizionamento epistemologico è
tutt’altro che povero di risultati: nuovi effetti vengono scoperti, nuove forme di indagine vengono
messe a punto che permettono di formulare ipotesi sulla struttura più intima della materia e anche di
verificarle sperimentalmente. È però un dato di fatto che vengano sviluppati ben presto gli strumenti
matematici e le competenze per utilizzare al meglio questo nuovo bagaglio concettuale, senza però
che se ne raggiunga una profonda ed autentica comprensione. Lo scienziato moderno non è più un
filosofo della natura, e per la maggior parte delle persone coinvolte nella ricerca il raggiungimento
di risultati concreti (dalla bomba atomica al laser) è un obiettivo più che soddisfacente. Questa
visione pragmatica e positivista – compiutamente espressa dal principio di complementarità di Bohr
– viene canonizzata filosoficamente nell’interpretazione della scuola di Copenhagen. Sebbene tale
interpretazione sia maggioritaria nella comunità scientifica, non mancano tuttavia voci fuori dal
coro (di cui la più autorevole è quella di Albert Einstein) che non si rassegnano ad una rinuncia di
conoscibilità della natura. Tuttavia l’idea che la realtà sia sostanzialmente quella della fisica
newtoniana, solo un poco più complicata dalla presenza di variabili nascoste, ha molto il sapore di
ipotesi DG KRF, e nel momento in cui la tecnologia raggiunge un livello sufficiente a permetterne una
verifica sperimentale, essa cade senza possibilità di appello.
Attualmente, oltre un secolo dopo i primi lavori di Planck e Einstein, lo stato dell’arte
appare ancora confuso e per certi versi sconfortante. È possibile, al di là della classificazione
zoologica delle particelle elementari, riuscire a compiere un passo decisivo nella comprensione
della profonda razionalità della realtà fisica? È possibile considerare i concetti peculiari della
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P. Manganaro, ,OUHDOLVPRILORVRILFR. Aracne, Roma, 1996, cap. V.
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meccanica quantistica (sovrapposizione, decoerenza, ecc.) da un punto di vista diverso da quello
della perdita/recupero del determinismo meccanicista ottocentesco? Esiste o meno una relazione
profonda tra i due tipi di indeterminismo cui è pervenuta la fisica del XX secolo, vale a dire quello
quantistico e quello dei sistemi classici non lineari?
È precisa convinzione di chi scrive che queste domande possano essere produttivamente
affrontate solo all’interno di un più ampio discorso sull’ontologia dell’ente materiale che si
distacchi coraggiosamente dal pregiudizio razionalista che ha guidato tutta la scienza moderna da
Descartes ai giorni nostri e che consiste nel collasso dell’esistenza nella possibilità logica, cioè – in
ultima analisi – nella sostituzione dei modelli alla realtà. Naturalmente ciò non significa in alcun
modo negare gli straordinari successi della fisica e delle altre scienze della natura dalla rivoluzione
galileiana in avanti né negare che i paradigmi classici abbiano ancora una notevole forza propulsiva
in tutti quei settori lontani dall’ambito fondazionale e, in particolare, nella ricerca applicata; si tratta
però di prendere atto del fallimento di ogni forma di positivismo nell’indicare una strada nella
ricerca sulle questioni di base inerenti alla struttura della materia, l’origine dell’universo e della
vita. Non più dunque il pensiero prima dell’essere, secondo la celebre massima cartesiana: &RJLWR
HUJR VXP, ma ripristinare il corretto ordine secondo la forse non altrettanto celebre (ma tuttavia in
questo caso preferibile) massima della scolastica medievale che definisce la verità come:
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