STORIA CROMATICA DELLA MUSICA ANTICA E MEDIOEVALE

Giampaolo Nardella
STORIA CROMATICA
DELLA MUSICA ANTICA E
MEDIOEVALE
Armonia e metafisica
nel mondo premoderno
ARMANDO
EDITORE
Sommario
Ouverture: Larghetto amabile
7
Adagio espressivo
10
Leggermente più mosso
13
Andante spianato
17
Largo cantabile
24
Maestoso
27
Lento quasi grave
36
Allegretto
39
Allegro moderato
43
Adagio sostenuto
48
Largo espressivo
53
Allegro molto e con brio
60
Andante quasi adagio
68
Allegretto grazioso
75
Moderato con espressione
82
Allegro ma non troppo
89
Adagio poco mosso
96
Finale: Presto non agitato con nota bibliografica
104
Ouverture: Larghetto amabile
Quando nel 1618 Cartesio medita e redige il Compendium
musicae, lineare e scolastico trattatello riassuntivo della teoria
musicale rinascimentale, l’occidentale arte dei suoni ha oramai
compiuto un lunghissimo percorso della sua storia ultrabimillenaria.
Il cammino della musica sino a questa fatidica data ha conosciuto e realizzato imprese e invenzioni, concezioni e sperimentazioni a dir poco mirabili e memorabili. Esse, che coprono
appunto un arco cronologico vastissimo concernente peraltro
una geografia musicale estesissima, sembrano però non essere
rilevanti e appassionanti non soltanto per il grande pubblico, ma
anche per il più esiguo drappello degli studiosi e dei cultori a
vario titolo della nostra disciplina.
Questa storia – chiamiamola premoderna unicamente per ragioni di brevità espositiva – appare affatto priva di interesse,
dunque, come se non si caratterizzasse per una durata effettivamente così consistente e fosse priva o povera di quei valori
culturali ed estetici che fondano e distinguono l’opera d’arte.
Insomma è un problema, quello del rapporto tra musica antica e/o medioevale e moderna e quello connesso del primato
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intellettuale della seconda sulle prime, anch’esso tipicamente
moderno, nel senso che per noi moderni la centralità del valore
“musica” e della relativa sua “storia” si decide e si vive prevalentemente nell’orizzonte temporale del quale l’età cartesiana
rappresenta il più significativo terminus a quo.
Si manifesta in questo modo, ci pare di poter affermare senza
il rischio di emettere una sgradevole stonatura, una situazione
palesemente paradossale e inconsapevolmente contraddittoria;
cioè che vi sia una storia musicale – quella riguardante l’Antichità e il Medioevo – non degna di… nota!
Ma checché ne dica Cartesio, maestro concertatore di razionalismo matematico e geometria analitica, la curiosità per il
passato, anche quello remotissimo, non ci rende ignoranti delle
cose presenti: anzi, la razionalità, nel suo ininterrotto procedere
verso l’autocoscienza, non può che perennemente e proficuamente giovarsi del sistematico rinvio alla vivente memoria di
sé. Ragione e storia, razionalismo e storicismo non sono per
natura estranei ed estrinseci; non soltanto in filosofia, ma anche
in storiografia.
La storia premoderna della musica può, quindi, divenire oggetto specifico e privilegiato di un’illustrazione che, però, potrebbe indignare modernisti e contemporaneisti.
Essi, infatti, preferiscono intonare all’unisono il canto del
primato dell’arte moderna, superiore a quella antica e medioevale, piuttosto che modulare tra le voci plurime e lontane della
traditio. Per loro i secoli vissuti dall’arte musicale dalle vichiane “remote antichità” alla cartesiana ragione “tutta spiegata” si
comprimono compattamente e riducono essenzialmente a una
storia che doveva necessariamente essere superata e integrata
in direzione di una perfezione mai prima ottenuta.
Con questa precomprensione i modernisti e i contemporanei8
sti studiano ed eseguono la musica, sia quella composta da loro
che quella del repertorio storico. Essi sono forse persuasi – e ne
avrebbero del resto ben donde – della definitività dello statuto
della loro arte così come esso si è rassodato nonostante le grandi trasformazioni del linguaggio musicale nel Novecento.
Ma lasciamo a costoro di arrovellarsi, se desiderano, sulle
questioni di fondo della musica moderna e contemporanea. A
noi pertiene di occuparci del mondo antico e medioevale dei
suoni e delle annesse afferenze.
Perché mai, però, una storia cromatica? Non sarebbe stato
magari più opportuno scrivere una storia diatonica?
I musici sanno che il mondo si divide in due macrocategorie, la cromatica e la diatonica per l’appunto. Esse configurano nella musica l’omologo del dualismo cartesiano tra spirito e
materia o l’analogo della diade informatica tra apocalittici e integrati o ancora l’opposizione speculativa tra analitici e continentali. Insomma, due visioni della realtà con l’ambizione mica
tanto nascosta di rappresentare il sistema vero dell’universo con
l’esclusione del versante antagonistico.
Cromatico e diatonico si riferiscono ovviamente ai suoni,
come quelli disposti nella successione delle scale. A proposito della terminologia, vogliamo subito notare che il permanere
dell’uso della parola “scala” indica senza alcun dubbio l’origine antica della teoria e della prassi di riferimento; nelle civiltà
premoderne, infatti, non si conosceva l’ascensore e neppure il
montacarichi. Però, quale che fosse la condizione tecnologica
delle società preindustriali, i musicisti intendono che la scala
cromatica è più ricca di suoni di quella diatonica, come se avesse più “colori” e, per conseguenza, maggiore potenzialità teorica ed esecutiva a un tempo.
Ed è per questa profonda differenza tra i due generi che la
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nostra storia si picca di definirsi cromatica; essa aggiunge ciò
che una narrazione puramente e sinceramente diatonica riterrebbe disarmonico o dissonante, neutro o addirittura ostile alla
specifica essenza della musica.
Nel 1618 il giovane Cartesio di certo non si attardava su riflessioni consimili, ma altrettanto sicuramente non avrebbe detto che il nostro titolo suona male o che il relativo sottotitolo è
dissonante.
Adagio espressivo
Le origini della musica, qualcuno dice con locuzione molto
originale, “si perdono nella notte dei tempi”.
Nelle tenebre delle “remote antichità”, non si sa esattamente
in quale regione o circondario del pianeta, sarà certamente accaduto, possiamo non erroneamente immaginare pur facendo
sana economia d’inventiva, che gli uomini popolanti le società,
che l’antropologia culturale non chiama più “primitive”, iniziassero a distinguere i rumori dai suoni e a intendere che una
consapevole organizzazione degli ultimi ottenesse realizzazioni
– più tardi si parlerà di “composizioni” – in grado di esprimere
ed evocare sentimenti con contenuto edonistico, spirituale, mistico, pedagogico, celebrativo, estetico.
Può all’incirca essere andata così qualche migliaio di anni
fa. Questa straordinaria invenzione, quasi il lascito di una rivelazione divina, non ha un padre da vantare, uno scopritore che
scriva il suo nome con lettere d’oro nell’albo universale degli
inventori.
Essa si afferma, almeno nel suo stadio d’avvio e rimanendo
in tale condizione per secoli, come prodotto di un’azione co10
munitaria, come elaborazione collettiva di un linguaggio frutto
e segno insieme, più che dell’apporto innovativo del singolo,
dell’attività “compositiva” anonima e codificata in regole oggettive e immutabili.
Per noi, figli naturali ed eredi fortunati della cultura moderna
e romantica, la musica è arte nel senso che quest’attività si fonda ontologicamente e s’esprime liberamente secondo il primato
del soggetto.
L’arte, direbbe il filosofo idealista, è “intuizione lirica”, cioè
produzione – “creazione”, un po’ come quella di Dio – dell’individuo che è legge dell’estetica.
L’artista, secondo la rivelazione moderna dell’essenza
dell’arte, non è un riproduttore, un replicante, un esecutore
obbediente a prescrizioni rispecchianti un’oggettività data una
volta per sempre. L’artista, il musicista è lui il datore dell’oggettività, il creatore delle norme, delle tecniche, del linguaggio
e dei contenuti che attraverso queste modalità si manifestano.
Il mondo antico e medioevale, tutt’al contrario, si regge esattamente sull’opposta presupposizione che la techne – i Greci
leggevano arte – non prevedesse l’emergere della personalità
originale o del genio caro alla sensibilità romantica, ma l’espressione di valori conformi alla traditio ritenuta immodificabile
perché segno e conferma dell’ordine eterno delle cose.
Non esultino i moderni al cospetto di questo principio della
filosofia e dell’estetica, né cantino di gioia di fronte a questa
millenaria precomprensione.
Gli antichi e i medioevali non sono i profeti dell’omologazione e dell’egualitarismo né intellettuale né canoro né d’altra
sorta. Non sono gli antesignani della teoria della massificazione
di fatto delle coscienze e dei gusti.
Essi conoscono molto bene il significato e la forza della
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realtà individuale, ma altrettanto bene intuiscono e difendono
il senso oggettivo delle cose. Questo senso si può comunicare
per mezzo dei suoni scientemente organizzati ed esteticamente
fungenti da specchio di quell’ordine medesimo.
Detto ciò, il problema dell’origine della musica, di quella
occidentale come di quella presente nelle civiltà altre, resta un
bel mistero.
Perché gli uomini, quali che siano le condizioni storicoculturali e le coordinate spazio-temporali in cui si collocano la
loro riflessione e la loro azione, decidono di mettersi a cantare
e suonare?
Essi lo fanno evidentemente in maniere molto diverse sia dal
punto di vista diacronico che sincronico, ma che cosa li sollecita
a dar luogo alla prassi e all’arte musicali? Chi mai risponderà a
queste inquietanti domande? Lo psicologo del profondo o il sociologo della superficie? L’antropologo evoluzionista o l’etnomusicologo fissista? Quale compiuta teoria ci fornirà elementi
e leggi della genesi del fenomeno “musica”? Lo strutturalismo
à la mode o il funzionalismo à la page?
Il mondo attuale, direbbe Fernand Braudel, è ahinoi consegnato alle sofisticate e alchemiche competenze delle scienze sociali, dalla cui rarefatta epistemologia dipende oggigiorno ogni
discorso orientato a cogliere la verità dell’uomo e della realtà.
Qualcuno ritiene, dunque, con ottime ragioni e abbondanza
di documentazione, che la questione dell’origine della scienza
dei suoni vada un po’ abbandonata a se stessa: è meglio prendere
atto, come dicono i drammaturghi, dell’irresolvibilità dell’enigma “metafisico” dell’inizio e votarsi con maggior profitto alla
narrazione dei “fatti” concernenti la musica così come essi sono
testimoniati dall’immenso corpus di fonti, repertori, codici e
testi d’ogni fatta costituenti la nostra traditio.
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Leggermente più mosso
Ebbene, ci compete di avviarci proprio risalendo ai primordi
remotissimi e immersi nel mito della nostra traditio.
Gli scientisti e i laboratoristi non abbiano un soprassalto di
sgomento: mito non significa necessariamente e sempre “fantasia arbitraria che nega la verità”, poiché tutte le origini sono
mitiche, pure quelle della scienza e dei laboratori.
Il mito è la dimensione originaria e naturale di ogni sapere
e arte, di ogni conoscenza e tecnologia, di ogni religione e metafisica.
Il mito non è lo stadio inferiore della coscienza che attende la
necessitante dialettica della crescita e del superamento di sé.
Il mito è il luogo irripetibile di manifestazione della verità
destinata non all’obliterazione ma all’attualizzazione di sé.
Ciò è vero per il pensiero e per l’arte e nessun contingente
modernismo può insidiare la certezza teoretica e storica che la
verità non coincida unicamente con quella fetta di civiltà – la
moderna appunto – che dell’umanità esprimerebbe l’essenza
assoluta.
Che cosa vuol dire esattamente ciò? Sembra un discorrere
affatto dissonante rispetto all’aspettativa dell’homo modernus
che desidera la conferma della consonanza con se stesso.
È un ritmo, questo, che egli non percepisce se non, forse, con
un disagio crescente a misura che ci si distanzia dall’orizzonte
più frequentato e sicuro delle sue esperienze e dei suoi valori.
La civiltà moderna – quella che convenzionalmente si data
dall’età del Rinascimento – ha prodotto la sua riflessione, la sua
arte e la sua industria persuadendosi sempre più che esse fossero in assoluto il meglio di ciò che la “civiltà” degna di questo
nome potesse realizzare.
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