Introduzione a I pragmatisti italiani. Tra alleati e nemici di G. Maddalena e G. Tuzet 1. Il Leonardo e la sua influenza Il centro del pragmatismo italiano era il Leonardo e i pragmatisti italiani sono innanzitutto coloro che crearono e redassero il Leonardo, cioè Papini e Prezzolini, e in secondo luogo coloro che aderirono al Leonardo per amicizia personale con i due giovani intellettuali e per convinzione filosofica, Vailati e Calderoni. Ci sono poi tutti coloro che collaborarono al Leonardo: Amendola, Regalia, Cecchi, Vacca, Borghese, e molti altri. Di costoro non ci occuperemo solo perché la loro adesione non fu motivata dallo studio del pragmatismo, ma da certe affinità tra i propri programmi e la personalità e il gusto dei Leonardiani. Non erano teorici del pragmatismo anche quando ne applicavano i metodi all’uno o all’altro campo, alla zoologia, alla letteratura o alla matematica. Occorrerebbe svolgere uno studio su di essi, ma ci preme in primo luogo focalizzare l’attenzione su coloro che in qualche modo cercarono una formulazione filosofica del pragmatismo. In questo senso Papini, Prezzolini, Vailati e Calderoni concentrano l’essenziale di quanto si può dire sul Pragmatismo italiano. Innanzi tutto si deve accertare il fatto che esistano dei filosofi con un pensiero originale, che possano essere indicati con un nome unitario e una connotazione nazionale: i pragmatisti italiani. Molti studiosi, in Italia e all’estero, ne hanno dubitato e ne dubitano. Spesso si è affermato che Papini e Prezzolini erano confusi e presuntuosi «ragazzacci» e che, invece, Vailati e Calderoni erano studiosi seri che avevano ben capito la formula di una filosofia all’avanguardia in America e l’avevano innestata sui loro studi già sviluppati, fornendone una variante personale. Se si legge il Leonardo e poi si studia attentamente il pensiero di questi autori ci si rende conto che invece tra i quattro sussisteva una matrice comune e che questa era in effetti la linea della rivista che essi, non a caso, proclamarono «l’organo ufficiale del pragmatismo italiano». A conferma di un’adesione meditata e sostanziale essi fondarono il «Florence Pragmatist Club». Era un tentativo di creazione di una scuola filosofica non accademica (come del resto Papini aveva già cercato di fare con il gruppo vinciano qualche anno prima) e non si può dire che fosse semplicemente una boutade di giovani in cerca di gesti eclatanti. Certo, la stagione pragmatista del Leonardo fu breve, dal 1904 alla fase finale della rivista nel 1907, cioè dal momento in cui il rapporto con Vailati e Schiller fa evolvere le idee di Papini e Prezzolini in senso più marcatamente pragmatista, abbandonando i più generici propositi del gruppo vinciano, la cui parte più legata all’arte si allontana per fondare l’Hermes. La critica ha spesso sottovalutato la semplice e doppia caratteristica, essere «pragmatisti» ed essere «italiani», che era affermata dai protagonisti di questa avventura intellettuale. Si è detto che il pragmatismo non c’entrava o che non l’avevano capito; che l’essere italiani non segnalava una peculiarità delle loro filosofie, bensì un accidente della sostanza filosofica neopositivista o scientista o liberale di Vailati e Calderoni e di quella letteraria stravagante e «magica» di Papini e di Prezzolini. I motivi di questa stranezza storiografica vanno forse rintracciati, come ha spesso sottolineato Quaranta, nel fatto che i quattro non fossero facilmente ascrivibili a nessuna delle fazioni politiche o filosofiche che combattevano in Italia all’inizio del Novecento e che poi si sono alternate per tutto il secolo. Quando scrivevano, i pragmatisti italiani non erano né positivisti né idealisti, e non era facile inserirli né allora né dopo tra i cattolici o i massoni, i comunisti o i fascisti, i liberali o i socialisti. Se si somma questa mancanza di un’identità forte e già consolidata alla brevità della stagione pragmatista e alla sporadicità dei loro scritti, nonché all’intrinseca debolezza teoretica della quale parleremo fra poco, si capisce perché essi siano stati a lungo dimenticati e perché, successivamente, furono recuperati cercando sempre di imputare loro un’identità più forte a posteriori: precursori della filosofia analitica o della filosofia della scienza o delle filosofie dell’azione o della psicologia. Raramente gli studiosi del pragmatismo, italiani e stranieri, se ne sono occupati in quanto pragmatisti. La grande eccezione, oltre a Quaranta che è un vero e proprio custode del pragmatismo italiano, è il bel libro di Santucci, che ha il solo difetto di essere inevitabilmente datato, in un campo, come quello del pragmatismo, dove gli studi sono progrediti immensamente negli ultimi quarant’anni grazie alla pubblicazione dell’opera omnia di James e Dewey e, soprattutto, grazie alla catalogazione e pubblicazione (non ancora ultimata) dei manoscritti peirceiani. Questo libro vuol essere un contributo, dato da specialisti di pragmatismo provenienti da paesi diversi, allo studio dei nostri quattro filosofi. Un contributo che li tratti a partire da ciò che essi dicevano di essere: pragmatisti italiani. E che faccia vedere, o almeno intravedere, i loro «alleati e nemici», secondo la dicitura di una delle rubriche del Leonardo, che ci permette di ampliare lo sguardo al resto della cultura dell’epoca, sia italiana (si vedano i saggi di Franzese e Nieddu) che internazionale (riassunta dall’articolo di De Waal). Il risultato che emerge, come si vedrà, è che i pragmatisti italiani capivano del pragmatismo molto più di quanto non si sia detto. Papini e Prezzolini erano giovani, ma non erano sprovveduti, e l’amicizia con Vailati li aiutò molto a crescere e a individuare i punti salienti dei problemi filosofici che avvertivano. Basta leggere «Il pragmatismo messo in ordine» (L III/2, aprile 1905) con la celebre affermazione della «teoria corridoio», la «cronaca pragmatista» (L IV/5, febbraio 1906) dove Papini distingue tre tipi di pragmatismo e «Introduzione al pragmatismo» (L V/1, febbraio 1907) per rendersi conto che non ci si trova davanti a una raffazzonata scimmiottatura di una filosofia di moda. Se si guarda all’introduzione che lo stesso Papini firmò molti anni dopo agli scritti di Calderoni e Vailati sul pragmatismo, si capisce che la consapevolezza delle idee pragmatiste e della loro importanza non era sfuggita allo scrittore fiorentino, segno di una seria comprensione e accettazione della teoria pragmatista. Papini per molti versi è la figura centrale del pragmatismo italiano, come riconoscono – con interpretazioni diverse – molti degli articoli qui raccolti. Il Leonardo è una sua creatura, come lo stesso Prezzolini ha confermato in una conversazione con Mario Quaranta nel 1982, poco prima di morire. Nei primi numeri, Prezzolini si limita a partecipare con interventi e scritti. In seguito affiancherà Papini nella direzione, anche per aiutarlo da un punto di vista di gestione economico-finanziaria. È comunque Papini che segnala gli indirizzi principali del giornale. Sono suoi i diversi programmi del Leonardo, quelli iniziali del 1903 (n. 1-2), quelli in cui si esplicitano le posizioni pragmatiste nell’accezione particolare dei Leonardiani, e anche quelli degli ultimi anni che offrono delle aperture all’occultismo. La sua esuberante personalità è il centro intellettuale e affettivo del Leonardo. Papini decide la veste grafica con gli innovativi disegni di De Carolis e sceglie di usare degli pseudonimi come firma – i celebri Gian Falco (Papini) e Giuliano il Sofista (Prezzolini). Manda Prezzolini a conoscere Bergson in Francia, e in seguito va egli stesso a incontrarlo, riportando poi sul Leonardo le posizioni del grande filosofo francese non senza un accento, e a volte un voluto «travisamento», del tutto personale, come si vede dal saggio di Maria Luisi. Nel contempo indirizza il contenuto del giornale su problemi di psicologia che lo avvicinano alle idee di James in una traiettoria che Maria Teresa Russo ricostruisce nel suo intervento. Nei primi anni del Novecento, del resto, la ricezione del pragmatismo in Italia coincide con quella di James, anche se non è vero l’inverso, come dimostra il saggio di Franzese sulla lettura di James da parte di Alliotta. Papini e gli altri pragmatisti italiani ebbero un incontro con lo stesso James durante il V Congresso Internazionale di Psicologia tenutosi a Roma nel 1905: il filosofo americano ne uscirà ammaliato dalla personalità dello scrittore fiorentino come raccontano – con accenti molto diversi – gli articoli di Colella e Colapietro che ci offrono anche uno spaccato della ricezione americana del pragmatismo italiano. È sempre Papini che, a partire ancora una volta da dibattitti di ordine psicologico, diventa amico di Vailati e, in seguito, che allaccia una significativa relazione epistolare con Miguel de Unamuno, il quale – come racconta Isazkun Martinez nel suo saggio – lo riconobbe come interlocutore privilegiato e fu attento lettore del Leonardo. Ed è ancora Papini a voler dare agli occultisti la possibilità di esprimersi dalle colonne della rivista fiorentina e, alla fine, a decidere la chiusura della rivista. Papini non è solo il «ragazzaccio» alla fine conformista, stigmatizzato da Garin (Garin 1963: 283); la sua sete di trovare «una ragione di vivere» riesce a coagulare prima i giovani del gruppo vinciano, poi ad affascinare un protagonista della scena culturale del tempo come James e un logico del calibro di Vailati che rimarrà avvinto in un’amicizia personale profonda e piena di stima. Certo, le sue affermazioni sono spesso fuori tono e soffrono il ricatto dell’immagine di sé dettata dalla gioventù e dal tempo. Papini però era consapevole di avere delle doti particolari e convinto di voler lottare contro un mondo gravato da affettazione e formalità accademiche prive di qualsiasi valore per chi cercava una ragione di vivere. Prezzolini era altrettanto arguto ed era un polemista più sottile dell’amico. Non aveva forse la stessa istintiva coscienza filosofica di Papini, ma ne seguiva l’impeto. È Prezzolini che va a conoscere Bergson e tiene i rapporti con Ferdinand C. S. Schiller, il pragmatista inglese. L’articolo di Colella ricostruisce la traiettoria del pensiero prezzoliniano da Bergson a Schiller. Colella si sofferma poi sul dibattito tra Prezzolini e Calderoni a proposito del significato del termine «pragmatismo». Ne emerge una statura di vero pensatore che non a caso avrebbe contribuito alla scoperta di autori e temi che sarebbero altrimenti rimasti ignoti al pubblico italiano. Nell’appendice al presente volume Mario Quaranta ci riconsegna parte dell’importante relazione tra Prezzolini e Schiller attraverso le lettere di quest’ultimo. Sempre riguardo a Prezzolini si concentrano i sospetti di connessioni dei pragmatisti con il fascismo che spesso hanno alimentato gli studi critici, soprattutto americani; un tipo di accusa che si ritrova anche nell’articolo di De Waal ma che è difficilmente documentabile, se si eccettuano una generica osservazione di Mussolini e una problematica genealogia del pensiero fascista attraverso La Voce. L’accusa sembra in realtà infondata: la stagione del Leonardo finisce nel 1907 e il pensiero pragmatista italiano con il suo strenuo individualismo e i suoi problemi connessi al significato, alla metodologia e alla psicologia fornisce ben pochi appigli teoretici al fascismo, a meno che non si voglia considerare il generico richiamo all’azione, che però connota quasi tutte le espressioni culturali dell’inizio del XX secolo. Infine, anche le date non sono a favore di quest’interpretazione: quando c’erano i pragmatisti il fascismo non c’era ancora e quando c’era il fascismo i pragmatisti italiani non c’erano più, perché o erano morti o avevano cambiato completamente le proprie affiliazioni culturali. Vailati, che per l’appunto morì nel 1909, era molto più vecchio dei due amici fiorentini: aveva quarant’anni quando gli altri due, ventiduenni, cominciarono il Leonardo. Apparteneva alla scuola di Peano con il quale aveva collaborato alla stesura del Formulario, una delle opere fondamentali per la nascita della logica matematica e aveva già tenuto tre corsi di Storia della meccanica presso l’Università di Torino. Era al corrente, e si teneva al corrente, di tutto ciò che veniva pubblicato in Europa nei campi di suo interesse, che si ampliarono progressivamente dalla matematica alla storia della scienza, dalla comparazione fra le varie scienze al metodo filosofico. I risultati di quest’attività, che saranno riscoperti con decenni di ritardo, possono essere paragonati, almeno per estensione e spirito, oltre che per certe assonanze nella direzione del pensiero, a quelli di Charles S. Peirce, come si evince dall’articolo di Susanna Marietti. L’amicizia tra Papini e Vailati, sui cui motivi teoretici alla luce del confronto con Peirce si concentra il contributo di Maddalena, è forse il segreto del Leonardo. Il grande logico educò Papini nel vero senso del termine, trasse fuori dal magma delle esigenze papiniane un minimo di struttura filosofico-critica senza sostituire le proprie idee a quelle dell’amico per il quale ebbe sempre stima e ammirazione. Vailati commenta a Papini ogni numero del Leonardo, correggendo, rimproverando, ma sempre cercando di sottolineare la direzione seguendo la quale il Leonardo poteva rimanere allo stesso tempo dirompente e preciso. Papini, come si sa, non sempre seguì i suggerimenti di Vailati, ma ciò non significa che non fosse influenzato dagli insegnamenti dell’amicomaestro. La permanenza di Vailati a Firenze tra il 1904 e il 1905, dovuta all’insegnamento liceale e alla nomina dei Lincei per curare l’edizione nazionale delle opere di Torricelli, è forse il periodo più interessante del Leonardo, dove si conoscono autori stranieri e dove autori stranieri dialogano con gli italiani e fra di loro. Il progetto di Papini di una vera cultura fuori dall’Accademia ha qui il suo momento più riuscito. Calderoni era l’unico vero allievo di Vailati. Ferrarese di nascita, si era laureato in Giurisprudenza a Pisa nel 1901, con una tesi sulla scienza positiva e il diritto penale, dove già aveva esposto il suo pensiero sui temi della responsabilità individuale, della volontarietà dell’azione, del ruolo delle credenze nel determinare le azioni volontarie. Questi temi, elaborati e precisati, torneranno nella sua riflessione successiva influenzata da Vailati e ispirata al pragmatismo, legata in particolare alla massima pragmatica di Peirce; il filosofo ferrarese sosterrà infatti che l’azione volontaria è quella che può essere modificata dalle credenze che ne prevedono gli effetti. E sarà proprio Calderoni a condurre sul Leonardo, con gli scritti «Le varietà del Pragmatismo» (L II/3, novembre 1904) e «Variazioni sul Pragmatismo» (L III/1, febbraio 1905), la discussione con Prezzolini circa il significato o i significati da dare al termine «pragmatismo». Ma non solo di pragmatismo, come si è detto, si occupa Calderoni: scrive di psicologia, epistemologia, teoria della percezione, diritto, politica, morale, economia; insomma, tanto di scienze teoriche quanto pratiche, empiriche e sociali. Si può ritenere che fra i protagonisti del pragmatismo italiano egli sia stato colui che, forte della lezione metodologica appresa da Peirce e Vailati e degli studi giuridici, ha cercato di estendere il pragmatismo e i suoi metodi alle scienze sociali. La sua opera più nota ed importante, «Disarmonie economiche e disarmonie morali» (1906), tenta infatti di applicare all’etica certi principi e acquisizioni dell’economia politica. Che il suo modo di trattare i temi dell’etica e della normatività sia soddisfacente è peraltro dubbio, come emerge dal contributo di Tuzet, ma l’originalità del suo tentativo è indiscussa e non mancò di suscitare delle vivaci polemiche (cui partecipò fra gli altri Croce). Assieme al maestro Vailati, Calderoni scriverà inoltre alcuni saggi di notevole acume e nettezza quali «Le origini e l’idea fondamentale del Pragmatismo» e «Il Pragmatismo e i vari modi di non dir niente», ma una morte precoce, avvenuta nel 1914, gli impedirà di mettere completamente a frutto e di articolare al meglio le tante suggestioni recepite nei suoi lavori. All’influenza della sua opera sull’ambiente culturale italiano, e in particolare su Juvalta, fa riferimento l’articolo di Anna Maria Nieddu che dimostra come i pragmatisti italiani si situassero nel cuore delle problematiche filosofiche aperte all’epoca e ne determinassero, spesso senza alcun riconoscimento, una certa evoluzione. Completano il quadro di questo volume di pragmatisti su pragmatisti gli studi di Antonino González e Marta Torregrosa su Eugenio d’Ors, forse il più pragmatista (e uno dei meno studiati in Italia) tra i pensatori spagnoli della prima metà del XX secolo. Il suo inserimento in questo volume – come quello di Unamuno e di Juvalta – vuole sottolineare l’originalità delle esigenze, incentrate sul valore della libertà del singolo individuo, che i pragmatisti italiani, sebbene sovente con insufficienze teoretiche, portarono all’interno della comprensione del pragmatismo americano molte volte veicolandola, attraverso il Leonardo, al di là dei confini nazionali. Un grande studioso di pragmatismo americano, Jaime Nubiola, parla al proposito di «pragmatismo mediterraneo» riferendosi a questa esigenza di non perdere la concretezza dell’individuo nella realizzazione delle leggi universali della matematica e della logica, della fisica e della psicologia. Lasciando a ciascun contributo il compito di dettagliare gli aspetti decisivi delle filosofie dei pragmatisti italiani, vogliamo introdurre qui alcune note generali che inquadrino i Leonardiani dal punto di vista della loro lettura del pragmatismo e, solo in questo senso preciso, della loro possibile utilità oggi quando il pragmatismo si propone nuovamente come alternativa filosofica capace di conservare allo stesso tempo le esigenze di precisione proprie del pensiero analitico e quelle di totalità di significato tipiche del pensiero ermeneutico. 2. Che cosa avevano capito i Leonardiani dell’originale pragmatismo americano? Occorrerebbe forse fare delle differenze perché il luogo comune della critica, con sfumature e accenti a volte molto diversi fra loro, è che Papini e Prezzolini avevano capito molto poco mutuando da James pochi e confusi concetti, mentre Vailati e Calderoni al contrario avevano colto l’essenza del pragmatismo, sebbene solo nell’accezione peirceana. Noi pensiamo, però, che, al di là delle forti differenze, i quattro condividessero una medesima accezione del pragmatismo. Pertanto, a prescindere dalle filosofie dei singoli, vogliamo qui vedere che cosa poteva emergere del pragmatismo originale agli occhi di un lettore del Leonardo. A prima vista, sembra che del pragmatismo americano resti molto poco. I pragmatisti italiani mescolano il pragmatismo con Nietzsche e Schopenhauer, con S. Teresa e Pascal, con Kierkegaard e con gli occultisti. D’altro canto, sul «Leonardo» si leggono saggi su Russell e Poincaré, Pikler e Duhem, Brentano e Juvalta. Ciascun autore trattato, preso singolarmente, potrebbe avere un nesso con il pragmatismo, ma tutti insieme sembrano davvero lontani da una sintesi organica. Sembra che rimanga poco anche per la scarsa comprensione delle sottili distinzioni tra James e Peirce e, ancor meno, dei singoli sistemi dell’uno e dell’altro. Il pragmatismo che essi conoscono sembra più fatto di slogan che di ragionamento. Di Peirce compare in continuazione la citazione della massima pragmatica, con tutti i fraintendimenti di utilitarismo e di arbitrarismo che essa aveva già suscitato negli Stati Uniti. C’è poi la recensione di Vailati a «What Pragmatism Is?», l’articolo di Peirce pubblicato su «The Monist» nell’aprile del 1905. Di James il Leonardo pubblica la conferenza romana su «La concezione della coscienza» (L III/3, giugno-agosto 1905), quella su «Le energie degli uomini» (L III/I, febbraio 1905) e diverse recensioni. James è molto più presente di Peirce, ma anche nel suo caso si trovano sul Leonardo tutte le classiche impressioni dovute alla dottrina del «will to believe», a detta di James un titolo «sfortunato» che gli procurò un infinito numero di incomprensioni e fraintendimenti. Dewey viene citato cinque volte e Lady Welby due. Compaiono invece molte volte Bergson, con il quale Prezzolini aveva rapporti costanti e personali (Luisi), Schiller (Quaranta in appendice, Colella) e Unamuno (Martinez), quest’ultimo un po’ forzatamente ma significativamente annoverato fra i pragmatisti. La ricchezza di questi ultimi rapporti fa pensare alla possibilità di individuare una matrice comune, se esiste, della versione europea o «mediterranea» del pragmatismo, e dà l’idea della vasta frequentazione «pragmatista» che poteva avere un lettore del Leonardo. Si può dire, sinteticamente, che, quanto ad estensione, il Leonardo forniva una conoscenza unica per il suo tempo. Quanto a profondità della comprensione, gli strumenti risultavano insufficienti se si voleva capire il sistema jamesiano e, ancor di più, quello peirceano. La debolezza non era da poco e i vari contributi la mettono in luce (De Waal, Colapietro): se i pragmatisti italiani non furono infedeli nel riportare e nell’elaborare ciò che conoscevano, non colsero invece alcune provocazioni più profonde che si trovavano nelle opere dei maestri americani e mancò loro, a volte, il nesso tra la novità del pragmatismo e gli antecedenti storici con i quali i pragmatisti americani pensavano di connettersi. Elaborarono antecedenti storici personali ma ciò fu la causa della maggior parte delle incomprensioni da parte della critica e mancò loro spesso un orizzonte filosofico più vasto e profondo all’interno del quale situare i problemi che essi trattavano. L’elemento decisivo, però, è che, pur rimanendo vere le osservazioni precedenti (notate da tutti i critici, di ora e di allora), i Leonardiani avevano colto l’essenziale del pragmatismo molto più della maggior parte dei loro critici. C’è un punto che unisce le filosofie apparentemente tanto distanti di Peirce e di James: l’anticartesianismo, il rifiuto tanto del razionalismo quanto dell’empirismo, visti come impoverimenti della ricchezza dell’esperienza (si veda la critica a Descartes nel numero del 27 gennaio 1903: «la critica del mondo è, in lui, un passo preliminare e nulla più»). Da questo punto di vista sono essenziali gli articoli «I dispregiatori del pragmatismo» dell’ottobredicembre 1905 e «Cronaca pragmatista» del febbraio 1906: ci sono differenze tra i pragmatisti italiani, ma sono tutti sicuri della necessità di partire dall’esperienza così com’è. Il pragmatista prende il mondo come un insieme di fatti a cui dà un nome collettivo neutrale: ad esempio cose, senza dire che sia spirito, materia o roba simile. E dinanzi a questo mondo dice: Io osservo che certe classi di cose cambiano quando cambiano certe altre. Fra le altre c’è una certa classe di cose, che dirò credenze, le quali cambiando, fanno cambiare anche certe altre cose alle quali si riferiscono. E Basta! Vi sono di quelli (Calderoni) i quali sostengono che sotto lo stesso nome non si possono tenere unite tante cose; che il Pragmatismo genuino è quello di Peirce e consiste semplicemente nel voler precisare il senso delle teorie […] ed è in piena contraddizione con le pericolose teorie del Will to Believe, le quali si preoccupano più del buono che del vero. Ci sono altri (Vailati) i quali riconoscono sì, che ci sono due tipi ben distinti di Pragmatismo – il logico e lo psicologico – ma che nonostante [ciò] vi sono fra i due dei legami, dei punti di contatto, delle «affinità elettive», che non si possono negare e che scusano l’unicità del nome (L I/5, febbraio 1906: 59-60). La psicologia jamesiana e la logica peirceana rifiutano la visione della ricerca che comincia dal dubbio metodico. Il dubbio è solo quello vivente – diceva Peirce – quello che solleva un’inquietudine intellettuale e morale che deve essere superata. È inutile far finta di dubitare di cose delle quali non dubitiamo affatto per poi recuperarle con una catena di ragionamenti che partono da un primum gnoseologico empirico o razionale che si deve postulare a priori per costruire poi su di esso una catena di ragionamenti. La catena avrà sempre la resistenza – poca – del più debole dei suoi anelli. La ragione umana, al contrario, si muove partendo da un’esperienza già data sulla quale ha una certezza che può venire scossa dagli eventi e dai problemi teorici o pratici, ma che deve essere recuperata. Il ragionamento che parte da tale esperienza non somiglia a una catena ma a una fune, la cui resistenza è data dalla somma e dal tipo di intreccio delle sue fibre. Questa semplice osservazione è sfuggita spesso ai critici anche perché non poteva essere compresa in questi termini dai protagonisti del Leonardo, che, per quanto ci risulta, non conoscevano il primo documento «pragmatista», la serie «anticartesiana» che Peirce pubblicò sul «Journal of Speculative Philosophy» tra il 1868 e il 1869, dove veniva affermato il nucleo anticartesiano del suo pensiero. Il più profondo in quanto a tipo di consapevolezza del valore dell’esperienza è Vailati, che nella psicologia vede il trait d’union tra la raffinata teoria della scoperta scientifica che segue Peirce e la volontà di credere che infervora i seguaci di James, e che compara tra di loro le varie scienze, fisiche e morali, cercando di mostrare la struttura interna di questa «fune» che è il ragionamento. Ma anche Papini, Prezzolini e Calderoni, ciascuno a suo modo, rifiutarono l’idea del primum gnoseologico indubitabile e per questo trovarono un’unità teoretica nell’attacco al positivismo e all’idealismo. Se avessero potuto e voluto approfondire gli scritti di Peirce e James, avrebbero scoperto tutta la profondità fenomenologica, semiotica e metafisica che tali visioni comportavano, e anche le loro intrinseche e sottili differenze. Si attestarono, invece, sulla massima pragmatica e sul «will to believe», le capirono e le discussero: in ciò, come si vedrà anche negli articoli di questo volume, sta la loro forza e la loro debolezza. 3. Che cosa avevano aggiunto i pragmatisti italiani al pragmatismo originale? Avevano aggiunto un’intonazione personalista esistenziale e una preoccupazione nichilista. Si veda il Leonardo n. 2 del 1903 nel quale Papini afferma: «Una sola ambizione conserveremo: il possesso intero della realtà». Oppure la lettera di Vailati nella quale il logico cremasco si dice perfettamente d’accordo con Papini nella sua esigenza di accordo tra pensiero e azione: Caro Papini, di ritorno da Bologna ho trovato a Crema la tua lettera ed ora qui il magnifico numero del Leonardo. Il tuo articolo «Marta e Maria», specialmente a pagina 7, colonna 2, mi chiarisce il tuo modo di sentire e di intendere la filosofia in modo ancora più bello ed energico di quanto non abbia fatto alcun tuo scritto precedente. Tra quelli che hanno sognato ciò che non si poteva fare e quelli che hanno fatto, o reso possibile che si faccia, ciò che nessuno (ed essi meno degli altri) ha mai sognato di volere, è necessario che sorgano quelli che proclamino che il fare e il poter fare non hanno valore se non in quanto servano a «realizzare qualche sogno» e che i sogni non hanno valore se non in quanto si possa sperare di avere forza e mezzi per realizzarli. Il contemporaneo riconoscimento di ambedue queste esigenze è molto di più di quanto abbisogni per dare corpo e vita a una nuova orientazione della speculazione filosofica; nessun più alto scopo questa ha mai avuto né potrà mai avere (Vailati 1971: 397). In quest’ambizione sta tutto il loro esistenzialismo, che trova nei mistici e nei nichilisti i suoi profeti perché tutti costoro hanno voluto una vita intensa, piena, teoretica e pratica allo stesso tempo. In questo senso va letto il rispetto per l’esperienza religiosa, nonché per Croce, di cui i pragmatisti disdegnavano l’idealismo tanto quanto amavano l’acume sui particolari e la scrittura non accademica. Personalismo esistenzialista descrive l’amore per le aspirazioni più totali dell’animo vissute nel particolare vitale. La sottolineatura dell’importanza del particolare e della distinzione tra particolari come demarcazione del senso delle proposizioni è una caratteristica costante di tutti i pragmatisti italiani (e non solo, come si può leggere nel saggio di Nieddu su Juvalta). Distinguere significa trovare i particolari veri, vibranti di vita, quelli che uniscono pensiero e azione, separandoli da ciò che rimane universale e vuoto o generico o privo di forza capace di diventare azione. Un «desiderio di incarnazione» dello Spirito del quale gli idealisti parlavano e che doveva urgere soprattutto in Papini ma che si ritrova anche negli altri, sebbene in forme meno marcate. Si deve considerare che l’aspetto della persona o dell’individuo era assente dal pragmatismo americano secondo il quale la persona è il risultato di una complessa intersezione di forze (fisiche, psichiche, intellettive) che muovono la realtà o il pensiero e che, da un punto di vista metafisico, si appoggiano o a diverse modalità della stessa realtà (Peirce) o a unità ultime dell’esperienza che non hanno niente a che fare con la coscienza individuale (James). In questo senso il pragmatismo italiano modifica il pragmatismo originario e comporta delle prese di posizione personali che James, ammirato, indicò in una sua lettera a Papini dicendo che i pragmatisti italiani gli avevano insegnato il «coraggio» (James 2003: 214). Paradossalmente ma in modo del tutto comprensibile, insieme alla sottolineatura della singolarità e della concretezza nella quale la vita e le sue leggi generali vibrano, nei pragmatisti italiani si ritrova uno sfondo nichilista, che si vede soprattutto nel numero 10 del novembre 1903 e in quello del dicembre 1903: è il sospetto che la vita manchi di una ragione vera, sospetto che li spinge all’adesione al pragmatismo inteso come reazione del volere al nonsenso dell’esistenza. Papini la esprimerà anni dopo con l’icastica espressione citata da Maria Luisi: «Non approvavo, non accettavo l’universo com’era. La mia attitudine era dispettosa e fiera come quella di un capaneo conficcato in un terrestre inferno. E tendevo a negare il reale, a negare le copie del reale, a disprezzare le regole della vita reale, e a rifare da me, a modo mio, un diverso e più perfetto reale» (Papini 1977: 233). È una nota di sapore nietzscheano che spesso torna nei quattro pragmatisti in maniere diverse e che sovente diventa un semplice «relativismo», come in ambito pratico per Vailati e Calderoni, secondo i quali ciascuno può scegliere la propria «tavola di valori» e poi ordinare i mezzi ai fini. Dietro a questa visione c’è, soprattutto in Papini, una certa lettura di Kierkegaard, Schopenhauer, Stirner, Nietzsche, Bergson, oltre che delle «Varietà dell’esperienza religiosa» di James. C’è poi, soprattutto in Vailati e Calderoni, una lettura dell’utilitarismo e del liberalismo inglese, di Bentham e Mill, ma anche della recente economia politica. Dal punto di vista epistemologico non si possono inoltre trascurare gli spunti tratti da Newman e dalla sua divisione tra apprensione reale del particolare e formale dell’universale, così come l’influenza di Brentano, da anni residente a Firenze e frequentato spesso dai pragmatisti, per la distinzione tra rappresentazione, credenza e volontà. Quest’ultimo tema, l’unità tra credenza e rappresentazione era il punto sorgivo della semiotica di Peirce in «A New List of Categories», che purtroppo i pragmatisti italiani non conoscevano, ed era la radice segreta dell’unità dell’esperienza nella psicologia jamesiana che permaneva anche nelle sue opere filosofiche. Il non aver riconosciuto tale unità, possiamo supporre, è il vero inizio della fine del Leonardo dal punto di vista teoretico, il motivo per cui il pragmatismo alla fine non risultava una risposta soddisfacente per i suoi propugnatori italiani. Personalismo esistenzialista e nichilismo intesi come amore al particolare e sospetto su una risposta totale segnano la peculiarità del pragmatismo italiano nel bene e nel male. Essere impegnati nella comprensione del particolare (in questo ha una certa importanza Newman), nell’apprensione reale contro a quella formale o nozionistica è il motivo che rende i pragmatisti italiani così spavaldi nel loro tentativo di conoscere e giudicare tutto ciò che si produceva in ambito intellettuale. D’altro canto, l’avversità alla conoscenza formale spesso si risolve in nominalismo e in un conseguente scetticismo che alle volte pare impedire la possibilità di una conoscenza autentica. Nell’ultimo numero della rivista Papini dice che la necessità di trovare una ragione di vivere è la cosa più importante alla quale il Leonardo non ha saputo trovare risposta. Forse perché risposta non c’è? Qui i pragmatisti si divideranno: Prezzolini tornerà all’idealismo, Vailati si fermerà a quanto espresso ne «La ricerca dell’impossibile» (ottobre 1905) ritenendo che la ricerca delle cause ultime abbia la natura di una costruzione utopica (che egli paragona ai postulati matematici), Calderoni resterà ancorato all’impossibilità di deliberare razionalmente in merito ai fini e ai valori, Papini troverà molti anni dopo una risposta nell’Incarnazione e nel cattolicesimo. La conseguenza di questo tipo di comprensione, personalista e nichilista, ci fa trovare così di fronte a diverse filosofie personali: almeno in questo senso, ha ragione Papini quando dice che non c’è il pragmatismo italiano ma i pragmatisti italiani. L’amore al particolare, alla solidità dell’esperienza e all’importanza dell’atto del volere si declina in una forma personale. Dal punto di vista pratico e operativo ciò si traduce in una perenne battaglia, tipicamente italiana, in un mondo fatto di amici e nemici. Per i pragmatisti italiani si tratta di vita o di morte e, in un certo senso, la fine del Leonardo segna la loro sconfitta o almeno la sconfitta del pragmatismo inteso come arma essenziale di questa battaglia. Calderoni e Vailati che avvertivano di meno questo sfondo esistenziale se ne dispiaceranno di più, ma anche per essi il pragmatismo era un’arma contro la superficialità o la boria del pensiero, specialmente di quello accademico. La lotta contro la ristrettezza del positivismo e la ridondanza del monismo idealista sono l’emblema di questa versione «militante» del pragmatismo italiano, caratterizzato dal «coraggio» di rischiare sulle proprie idee e dall’esigenza di cercare «alleati» tra i pensatori di tutto il mondo. 4. Che cosa i Leonardiani non avevano capito del pragmatismo? Ovvero, dove sta la debolezza dei pragmatisti italiani? Nel loro passaggio dall’astratto al concreto rispettano in fondo i termini epistemologici degli idealisti come si può capire dagli editoriali di tutti i primi numeri del Leonardo («Personalisti e idealisti nel pensiero» è la definizone del primo numero del Leonardo il 4 gennaio 1903; «Un personalismo con fondamenti gnoseologici» dice Papini nell’articolo «Me e non Me» del 14 gennaio 1903; il superamento della vita nello spirito in «Al di là della vita» del 29 marzo 1903; l’uomo interiore come autore di creazioni mistiche in «Il segreto di Leonardo» del 19 aprile 1903). In questo caso è Papini a scrivere e, anche data la sua giovane età, non poteva forse avere altri strumenti che l’idealismo. Tuttavia, non è il solo Papini a rivelare una certa incoerenza tra intendimenti generali della filosofia e attitudini epistemologiche. Il razionalismo e l’irrazionalismo che il pragmatismo personalista e nichilista dei Leonardiani alternano nei diversi settori della ricerca filosofica non riescono a scardinare l’impianto gnoseologico idealista che tanto la semiotica peirceiana quanto la psicologia jamesiana mettevano in discussione. Così c’è una forte differenza fra le dichiarazioni che mettono in luce il nocciolo anticartesiano del pragmatismo e l’articolazione epistemologica che fa spesso riferimento agli stessi maestri degli idealisti, a Locke e Hume da un lato, a Berkeley e a Schopenhauer (attraverso cui Kant, che essi sovente vogliono criticare, ritorna) dall’altro. È interessante che Papini, in uno degli articoli dei primi numeri del Leonardo («La favola del Sole dell’Unico» del 10 maggio 1903) dica che il monismo è nella volontà e non in atto, il mondo non è Dio ma sta diventandolo. Vailati e Calderoni forse non potevano condividere del tutto un’affermazione di questo genere, ma la loro decisione di non prendere posizione sui fini che ciascuno sceglie volontaristicamente rimane in forte contrasto, se non in contraddizione, con il pragmatismo metodologico. Resta uno iato tra la scelta dei mezzi e quella dei fini, che Papini e Prezzolini risolsero con la dottrina dell’uomo-Dio, Vailati e Calderoni con il relativismo etico. Lasciarono così lo spazio per il monismo, che sia poi idealista o nichilista, che volevano contrastare. Da questo punto di vista, la parabola del pensiero di Prezzolini che ritorna all’idealismo crociano è molto significativa. Tale ragione potrebbe dunque essere generalizzata dicendo che ai pragmatisti italiani mancò quello che più cercavano: la sintesi dell’esperienza, che essi vedevano, vivevano e volevano penetrare, o «possedere» – per usare i termini di Papini – sia in estensione che in intensione («l’Impero intellettuale di tutte le essenze dell’universo» dice Papini nel volume d’apertura del Leonardo). Proclamarono di volere conoscere questa sintesi o nesso profondo (soprattutto Papini nella fase iniziale e in quella occultista del Leonardo) e insieme di non volerlo (il mistero è il sole che ammalia e acceca ne «La favola del Sole e dell’Unico» del 10 maggio 1903) o di non volersi occupare di problemi che riguardano sfere dove la conoscenza non può arrivare (Vailati). Alla fine questa incertezza fu fatale al Leonardo. Quando Papini scriveva che non c’è mistero ma solo ignoto, e l’ignoto è ciò che non è, condannava l’esigenza di possesso che lo spingeva a una ricerca perpetua e vuota, costringendolo a continui cambiamenti e a una grande insoddisfazione. Gli altri erano più cauti nelle loro affermazioni ma anche in loro resta questa tensione fra una totalità a cui la ragione tende e un’epistemologia che non permette di provare a conoscerla e a parlarne. I loro tentativi filosofici rimasero così o incoerenti o incompleti. Le teorie che i pragmatisti italiani elaborarono non furono mai significative come lo erano le loro esigenze teoretiche e il gusto filosofico grazie al quale portarono in Italia una teoria filosofica importante e presentarono ai loro lettori i problemi reali della filosofia del loro tempo. Si può dire che essi in fondo violarono la regola base del sapere che Peirce aveva sintetizzato nella frase: «do not block the way of inquiry». Papini la bloccò in intensione, Vailati in estensione, Prezzolini e Calderoni seguirono i loro amici e mentori, ma la ricerca non si spinse mai a misurarsi fino in fondo con l’enigma dell’esperienza, il nesso profondo tra il pensiero e la realtà della quale esso è parte. Nel corso del testo e nelle note sono utilizzate le seguenti abbreviazioni. L Leonardo. L’abbreviazione è seguita da numero romano per il volume, numero arabo per il fascicolo, data, pagina. Ad es. L I/1, 4 gennaio 1903: 1. CP C.S. Peirce, Collected Papers of C.S. Peirce, 8 voll., a cura di C. Hartshorne, P. Weiss (voll. 1-6), e A. Burks (voll. 7-8), Harvard University Press, Cambridge (Mass.), 19311958. L’abbreviazione seguita da numero di volume e di paragrafo. Ad es. CP 5.189 (volume 5, paragrafo 189). NEM C.S. Peirce, The new elements of mathematics, a cura di C. Eisele, Mouton Publishers, The Hague 1976. EP C.S. Peirce, The Essential Peirce, a cura del Peirce Edition Project, Indiana University Press Indianapolis and Bloomington 1991-1998. WWJ W. James, The Works of William James, a cura di F. Burkhardt, F. Bowers, I. Skrupskelis, Harvard University Press, Cambridge Mass, 1975-. S G. Vailati, Scritti, 3 voll., a cura di M. Quaranta, Arnaldo Forni, Bologna 1987. SGV Scritti di G. Vailati (1863-1909), Successori B. Seeber, Firenze 1910. SMC Scritti di Mario Calderoni, a cura di O. Campa, 2 voll., La Voce, Firenze 1924. Riferimenti bibliografici Garin E. 1963 «G. Vailati nella cultura italiana del suo tempo», Rivista Critica di Storia della Filosofia, 18, 1963/3, pp. 275-293. James W. 2003 The correspondence of William James, a cura di I.K. Skrupskelis and E.M. Berkeley, University Press of Virginia, Charlottesville and London. Papini G. 1977 Un uomo finito, in Opere, Mondadori, Milano. Vailati G. 1971 Epistolario: 1891-1909, a cura di G. Lanaro, Einaudi, Torino.