Diritti della persona e diritto dello Stato: prime

Giovanni Savoia
Dottore di ricerca in “I problemi della legalità”, Università Cattolica del S. Cuore di Milano
Diritti della persona e diritto dello Stato: prime riflessioni di diritto
costituzionale*
SOMMARIO: 1. Introduzione: perimetro e ragioni dell’indagine. - 2. I desideri
individuali come nuova frontiera del diritto: la crisi del costituzionalismo. - 3. I
desideri individuali come nuova frontiera del diritto: la crisi antropologica. - 4.
Problematiche di diritto costituzionale: a) sui principi di libertà ed eguaglianza. - 5.
Problematiche di diritto costituzionale: b) sul ruolo dei giudici. - 6. Problematiche di
diritto costituzionale: c) sul ruolo del legislatore. - 7. Conclusioni: per una riscoperta
del primato della politica.
1. Introduzione: perimetro e ragioni dell’indagine.
È profondo e a tratti disorientante il senso di inadeguatezza di chi scrive nel
confrontarsi con un tema come quello proposto in questo breve saggio. Non solo e
non tanto per la vastità e complessità dell’argomento – che peraltro ha già trovato
compiuta forma nelle riflessioni di numerosi studiosi – quanto per il rischio assai
concreto di scadere nella banalità del già detto.
Il rapporto tra diritti della persona e diritto dello Stato si presta, infatti, a
letture di taglio ideologico, a ricostruzioni di teoria generale, a indagini su specifici
profili problematici.
Costituisce, tuttavia, preziosa occasione la riflessione trasversale promossa
dalla rivista Jus sul tema “Persona e diritto”, che suscita nello studioso di diritto
costituzionale numerosi quesiti, non tutti di semplice trattazione. Se, anzi, ci si pone
attenzione, il titolo “Persona e diritto” consente di toccare alcuni dei più rilevanti
profili del diritto costituzionale, quali – tra gli altri – i principi fondamentali, il
rapporto tra politica e diritto, il ruolo del legislatore paragonato a quello del giudice.
Nelle pagine che seguono, si cercherà dunque di raccogliere la sfida lanciata
da Jus, proponendo alcune considerazioni di ordine generale sulle principali
problematiche emergenti sotto l’angolatura del diritto costituzionale. In particolare,
si proverà ad analizzare l’attuale stato dei rapporti tra diritti della persona e diritto
*Il contributo è stato sottoposto a valutazione.
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dello Stato, osservando le tendenze di fondo che li caratterizzano e gli aspetti di
novità portati dai tempi recenti, e tentando di far emergere i punti di più rilevante
criticità e di proporre, infine, alcuni primi spunti di riflessione, nella consapevolezza
che una piena e completa comprensione del tema richiederebbe sforzi assai
maggiori.
La tesi di fondo che si anticipa qui è la seguente: nella dimensione
contemporanea, il diritto – inteso come posizione giuridica soggettiva – sta
progressivamente perdendo due elementi che da sempre lo hanno caratterizzato, la
relazione con il potere e la relazione con il dovere, per acquisire al contrario un profilo
di assolutezza e di ‘indipendenza’ del tutto nuovo.
2. I desideri individuali come nuova frontiera del diritto: la crisi del
costituzionalismo.
Quello dei diritti della persona può essere considerato uno dei ‘fronti caldi’
del diritto costituzionale contemporaneo1. Ma questo non dovrebbe stupire più di
tanto, giacché è insita nella natura del costituzionalismo la ricerca di una sempre
maggior tutela dei diritti del singolo2.
Infatti, pur avendo conosciuto la storia del pensiero giuridico diverse
gradazioni del costituzionalismo – da quello moderato a quello radicale, come
ricorda Maurizio Fioravanti 3 – queste ultime hanno avuto tutte una caratteristica
comune: la tensione verso la definizione di un nucleo minimo di diritti personali
intangibili dallo Stato. Questo, a sua volta, doveva sapersi trasformare attraverso la
restrizione del potere ab-soluto del monarca nelle precise e vincolanti maglie della
separazione dei poteri, al duplice scopo di rendere il proprio apparato più efficiente
e più garantiti i cittadini.
Tale elemento è presente fin dai tempi di quella che può, a buon diritto,
essere considerata come la madre di tutte le carte costituzionali, la Magna Charta
Libertatum del 1215, di cui è stato da poco celebrato l’ottocentesimo anniversario
della concessione. In essa, infatti, emerge il primo tentativo di stabilire una
1 Siamo, infatti, nel bel mezzo di quella che è stata chiamata l’età dei diritti (N. B OBBIO , L’età dei
diritti, Einaudi, Torino 1990). A dimostrazione del grande interesse giuridico e filosofico che incontra il tema
si segnalano, tra gli altri, per la loro rilevanza, anche se su basi e prospettive differenti rispetto a quelle
sostenute nel presente scritto, S. RODOTÀ, Il diritto di avere diritti, Laterza, Roma-Bari 2012 e L.
FERRAJOLI , Diritti fondamentali. Un dibattito teorico, a cura di E. Vitale, Laterza, Roma-Bari 2001.
2 Sull’evoluzione storica che ha caratterizzato i diritti umani cfr., tra gli altri, C. C ARDIA , Introduzione
storico giuridica alla Carta, in P. GIANNITI (a cura di), I diritti fondamentali nell’Unione Europea. La Carta di Nizza
dopo il Trattato di Lisbona, Zanichelli, Bologna-Roma 2013, p. 324 ss., e la bibliografia ivi richiamata. Per un
quadro generale cfr., da ultimo, M. OLIVETTI , I diritti fondamentali. Lezioni, Claudio Grenzi Editore, Foggia
2015.
3 Cfr. M. F IORAVANTI , Costituzionalismo: percorsi della storia e tendenze attuali, Laterza, Roma-Bari 2009,
p. 70 ss.
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limitazione ai poteri tradizionalmente riconosciuti in età medievale al sovrano: tra le
clausole più significative per l’epoca si possono ricordare la n. 12 4, che costituisce
una sorta di antenato del moderno no taxation without representation; la n. 20 5 che
cristallizza il principio della proporzionalità delle pene e la n. 39 6 che è rimasta
famosa come primo germoglio del principio di legalità in materia penale e di un
giudizio imparziale.
A partire dalla Magna Charta il costituzionalismo ha incarnato il tentativo –
assai riuscito – di espandere la sfera dei diritti, limitando contemporaneamente
quella del potere.
Si può tuttavia osservare una significativa metamorfosi del costituzionalismo
odierno, che lo allontana da quello delle origini: se quest’ultimo, infatti, era sorto al
fine di operare una progressiva limitazione dei poteri assoluti del sovrano,
riconoscendo però al potere una sua dignità e giungendo a un bilanciamento tra
questi due poli, il primo perde tale connotazione, riducendosi ormai al tentativo di
adeguare il diritto dello Stato alle pretese di ciascun soggetto dell’ordinamento.
Siffatta operazione avviene proprio rivestendo tali pretese, tali desideri
individuali, con il manto solenne della qualificazione di diritto, spesso accompagnato
dall’aggettivo ancor più solenne fondamentale. Di fronte a un diritto fondamentale,
naturalmente, l’ordinamento non può che inchinarsi con deferenza, apprestando una
tutela piena ed effettiva.
Dal punto di vista costituzionale, ciò, in astratto, non pone particolari
problemi, perché è scolpito nell’art. 2 Cost. il dovere per la Repubblica – quindi per
tutti i soggetti dell’ordinamento – di riconoscere e tutelare i diritti inviolabili della
persona. Il problema nasce allorché il termine ‘diritto fondamentale’ venga utilizzato
per definire posizioni giuridiche che tali non sono o, quantomeno, è discutibile che
lo siano.
È dunque questo un primo elemento che spiega la situazione attuale: anche
per effetto dell’affermarsi di veri e propri ordinamenti sovranazionali dedicati alla
tutela dei diritti fondamentali, si è diffusa e orami radicata la convinzione che quella
dei diritti sia una marcia inarrestabile nel tempo e illimitata nello spazio (concettuale)
del diritto, sicché è lecito non solo attendersi che lo Stato, e l’ordinamento più in
generale, riconoscano e tutelino ogni differente posizione giuridica che si assume
“Nessun pagamento di scutagio o auxilium sarà imposto nel nostro regno se non per comune consenso…”.
“Nessun uomo libero sia punito per un piccolo reato, se non con una pena adeguata al reato; e per un grave reato la
pena dovrà essere proporzionata alla sua gravità senza privarlo dei mezzi di sussistenza…”.
6 “Nessun uomo libero sarà arrestato, imprigionato, multato, messo fuori legge, esiliato o molestato in alcun modo, né
noi useremo la forza nei suoi confronti o demanderemo di farlo ad altre persone, se non per giudizio legale dei suoi pari e per la
legge del regno”.
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possa essere qualificata come diritto individuale, ma anche pretendere che ciò
avvenga come atto dovuto, scontato, ‘naturale’.
È perciò evidente la trasformazione subita dal costituzionalismo: da
movimento teso a equilibrare i due piatti della bilancia costituiti dal potere e dai diritti
individuali, esso ha mutato natura concentrandosi esclusivamente sul secondo
elemento7. Ciò che si vuol dire, in altri termini, è che mentre in passato era chiara la
dicotomia tra potere politico e diritti e il conseguente tentativo del costituzionalismo
di attenuare tale divario, riequilibrando un rapporto che l’assolutismo aveva
profondamente inciso, ai giorni nostri si assiste all’affermarsi di una cultura dei diritti
che vede unico protagonista l’individuo con il proprio bagaglio di bisogni, desideri,
aspettative, a prescindere del tutto da un confronto con il potere.
Una volta conquistate, con le costituzioni del secondo dopoguerra, la
sovranità popolare e la democrazia, pare che il costituzionalismo sia andato in cerca
di un ulteriore e ambizioso traguardo. Orfano del ‘confronto/scontro’ con il potere, il
costituzionalismo ha imboccato la strada dei diritti fondamentali, utilizzando la
Costituzione come fonte dalla quale trarre legittimazione per accreditare nuove
posizioni soggettive, sconosciute nel passato e oggi ritenute meritevoli di tutela, non
già dagli arbítri del potere, bensì in sé e per sé considerate, quali attribuzioni
connaturate a ciascun individuo. Ma se, nell’immediato dopoguerra e fino a tutti gli
anni ’60 l’attenzione si è concentrata sui c.d. diritti sociali, a partire dai primi anni ’70
e soprattutto nei tempi recenti, investiti dalla crisi economico-finanziaria, si può
notare una “tendenza espansiva dei diritti etico-sociali, a fronte del carattere
tendenzialmente recessivo dei diritti economico-sociali”8.
La tendenza descritta però non può essere compresa appieno se non se ne
considera l’altro elemento fondamentale, che prescinde del tutto dalla sufficienza di
risorse economiche in grado di sostenere la domanda di nuovi diritti: tale elemento
consiste nel venir meno della relazione tra diritto e obbligo.
7 Si tratta di quello che è stato definito neocostituzionalismo (si pensi ad autori quali Alexy, Dworking,
Zagrebelsky, solo per citarne alcuni), i cui caratteri essenziali sono stati recentemente ben riassunti da N.
ZANON , Pluralismo dei valori e delle culture, unità del diritto. Una riflessione, Lettura annuale 2015 della Fondazione
Magna Carta, 5 marzo 2015, in http://magna-carta.it/articolo/la-lectio-magistralis-di-nicol-zanon, e poi
ripresi in ID., Pluralismo dei valori e unità del diritto: una riflessione, in Quad. cost. n. 4/2015, p. 919 ss.: a)
qualificazione dello Stato democratico contemporaneo come Stato costituzionale e non più legislativo; b)
dicotomia qualitativa tra costituzione e legge; c) composizione del diritto costituzionale da principi più che da
regole; d) rifiuto del tradizionale sillogismo della sussunzione e valorizzazione del metodo del bilanciamento
tra principi; e) attribuzione di un’importanza crescente del potere giudiziario rispetto al potere politicorappresentativo.
Sul punto cfr. più diffusamente, ex multis, S. POZZOLO, Neocostituzionalismo e positivismo giuridico,
Giappichelli, Torino 2001.
8 A. R UGGERI , Il futuro dei diritti fondamentali: viaggio avventuroso nell’ignoto o un ritorno al passato?, in
Federalismi.it – Focus Human Rights n. 1/2013, p. 8.
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3. I desideri individuali come nuova frontiera del diritto: la crisi
antropologica.
Mai come oggi la concezione che riconosce all’uomo, a differenza degli altri
esseri viventi, l’attributo essenziale della ragione, appare regressiva a fronte di una
vera e propria esplosione della considerazione e del valore attribuiti a sensazioni,
sentimenti, emozioni. Risucchiato nella propria dimensione puramente
individualistica e autoreferenziale, l’uomo ha abdicato del tutto alla propria
prerogativa per eccellenza, il pensiero, per tuffarsi nel mare fluttuante e incerto del
sentimentalismo. Di qui una profonda mutazione della stessa idea di uomo e di
persona, tanto che, anche per effetto di correnti scientifiche assai agguerrite 9, si è
giunti a equiparare uomo e animale e a definire quest’ultimo come ‘persona non
umana’ 10 : la qualifica di persona dunque perde l’esclusivo riferimento all’’essere
umano’, dotato della facoltà del pensiero, e declina verso una condizione di mero
‘essere vivente’, cioè essere che esiste.
Ecco dunque che la tendenza, sopra descritta, della logica dei diritti ha una
causa più profonda e remota, che si trascina da tempo ed è ora esplosa in tutta la sua
portata rivoluzionaria. Sta cambiando cioè l’idea di uomo, l’idea di persona come il
pensiero filosofico e teologico l’hanno sempre intesa, al punto che numerosi autori
parlano apertamente di crisi antropologica11.
E questo è il cuore del problema, perché se cambia la nozione di persona
cambia anche, inevitabilmente, il concetto di diritto della persona.
Quello presente non è certo un saggio di filosofia, né chi scrive ha le
competenze e gli strumenti per scandagliare a fondo un tema così vasto e
insidioso12. E non è questa la sede per scendere nell’analisi particolare dei singoli
settori interessati da tale cambiamento, di cui i c.d. temi etici, tanto di moda
ultimamente, costituiscono solo una parte. È chiaro, però, come il mutare del
Si pensi alla complessiva opera di Jacques Derrida e, in particolare, al suo J. DERRIDA, L’animale che
dunque sono, edizione stabilita da Marie-Louise Mallet, trad. it. di Massimo Zannini, Jaca Book, Milano 2006.
10 Ha destato notevole scalpore una decisione della Corte dei giudici di Buenos Aires del dicembre
2014, che ha ordinato la liberazione di un orango da uno zoo della capitale argentina sul fondamento che si
tratta, appunto, di ‘persona non umana’.
11 Sul punto la letteratura sta diventando assai copiosa; di “regressione antropologica” parla C.
CARDIA, La metamorfosi dei diritti. Dal nuovo Sinai di Hannah Arendt alla nuova Torre di Babele, in Iustitia n. 1/2014,
per il quale l’euforia dei nuovi diritti, soprattutto quelli resi concretamente ‘realizzabili’ attraverso il progresso
tecnologico (si pensi alla vastissima materia della bioetica e del biodiritto), sta progressivamente rendendo
l’uomo sempre più solo, perché, privatosi dell’essenza dell’umanità, cioè del suo carattere intimamente
relazionale, si è concentrato totalmente su se stesso: “Un uomo davvero solo, infinitamente solo, alla fine avrà
tanti diritti ma non saprà che farsene perché la solitudine li rende inutili”.
12 Per un quadro generale sull’evoluzione della concezione dei diritti individuali nel pensiero
occidentale, cfr. A. DE GENNARO, I diritti in Occidente. Diritti individuali e filosofia politico-sociale occidentale,
Bononia University Press, Bologna 2006.
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significato del termine persona produca conseguenze rilevantissime in ordine ai diritti
a questa attribuiti.
Si produce, infatti, un ulteriore scollamento del diritto individuale: non solo –
come già ricordato nel paragrafo precedente – rispetto al potere, ma anche rispetto
all’obbligo. In altre parole, il diritto perde quella ontologica dimensione relazionale,
che trova fondamento nel carattere, anch’esso relazionale, della persona umana, e
che ha da sempre qualificato il fenomeno giuridico.
Inoltre, se è sicuramente vero che molti di questi cambiamenti sono dovuti
all’affermarsi di un pensiero dominante sempre più appiattito sullo sviluppo
scientifico e tecnologico 13 , ciò tuttavia non esaurisce il fenomeno che si sta
commentando, che è il prodotto di una vera e propria trasformazione culturale.
Si pensi, a titolo esemplificativo, al dibattito infuocato che sta causando il
diffondersi della c.d. teoria del gender14, e al conseguente problema dell’inserimento
di tale teoria nei programmi di insegnamento delle scuole.
Si pensi all’altrettanto divisivo tema del matrimonio tra persone dello stesso
sesso e della strettamente correlata nozione di famiglia, che l’art. 29 della nostra
Costituzione definisce come “società naturale fondata sul matrimonio”. Ebbene, nel
giugno scorso il Parlamento Europeo ha approvato una Risoluzione sulla strategia
per la parità di genere tra donne e uomini15: in questo documento, tutto peraltro
concentrato sulla pienamente condivisibile necessità di abbattere le differenze di
trattamento tra uomo e donna che ancora permangono, soprattutto in ambito
Cfr., ex multis, A. MORRONE, Ubi scientia ibi iura, in Consulta Online, 13 giugno 2014, scritto
all’indomani della sentenza della Corte costituzionale n. 162/2014, che ha dichiarato l’illegittimità
costituzionale del divieto di fecondazione eterologa, imposto originariamente dalla L. n. 40/2004 sulla
procreazione medicalmente assistita, sulla base del principio di ragionevolezza, che osterebbe a un diverso
trattamento della fecondazione eterologa rispetto a quella omologa. Secondo l’A., tuttavia, “la soddisfazione
dello studioso [per l’utilizzo del canone di ragionevolezza da parte della Corte] non può arrivare fino al punto
di nascondere le forti perplessità che derivano dall’analisi critica degli enunciati e dalla considerazione delle
possibili conseguenze di politica del diritto costituzionale che questa decisione apre: sia sul versante della
concezione della persona e dei diritti fondamentali sia, per questa via, della stessa Costituzione, nelle vicende
che la interessano nel nostro tempo presente” (p. 2). Di qui il rischio dell’emersione, anche nelle pronunce
della Corte costituzionale, di “una concezione delle libertà meramente individualistica, egoistica, sradicata da
relazioni intersoggettive, lontana dall’idea repubblicana della ‘libertà sociale’. L’idea che i diritti fondamentali
siano attributi della persona come animale sociale e politico, sembra essere scalzata da un’innovativa teoria
delle libertà come facoltà consentite all’uomo dalla scienza e dalla tecnica” (p. 4).
Plaude al dispiegarsi del principio di ragionevolezza con riguardo a un’altra pronuncia della Corte,
anche A. RUGGERI , Questioni di diritto di famiglia e tecniche decisorie nei giudizi di costituzionalità (a proposito della
originale condizione dei soggetti transessuali e dei loro ex coniugi, secondo Corte cost. n. 170 del 2014), sulla stessa Rivista,
13 giugno 2014, p. 5.
14 Su cui cfr. S. S ALUCCI , La differenza sessuale e l’ideologia del “genere” (gender theory): un excursus tra filosofia
e diritto, in Iustitia n. 1/2013, pp. 87 ss.
15 Risoluzione del Parlamento europeo del 9 giugno 2015 sulla strategia dell'Unione europea per la parità tra donne e
uomini dopo il 2015 (2014/2152(INI)).
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lavorativo, vi sono due passaggi che evidenziano molto bene il cambiamento
culturale che si sta cercando di descrivere.
Al punto 31 della risoluzione, infatti, si afferma: il Parlamento Europeo
“raccomanda, dal momento che la composizione e la definizione delle famiglie si evolve nel tempo,
che le normative in ambito familiare e lavorativo siano rese più complete per quanto concerne le
famiglie monoparentali e genitorialità LGBT”.
Stupisce, tra le altre cose, il fatto che l’evoluzione nel tempo della definizione
di famiglia venga presentata come dato assiomatico e incontrovertibile, del quale
non può che prendersi atto: ciò, naturalmente, potrebbe essere oggetto di ampia e
approfondita discussione, anche sulla base dello stesso diritto europeo, giacché l’art.
9 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea afferma testualmente che
“il diritto di sposarsi e di costituire una famiglia sono garantiti secondo le leggi nazionali che ne
disciplinano l’esercizio”16. Dunque è l’Unione stessa a rimettere alla discrezionalità dei
singoli Stati membri la disciplina del matrimonio e del diritto di famiglia.
Più oltre, al punto 61, si formula un invito alla Commissione “a creare incentivi
per una formazione competente all’utilizzo critico dei media negli Stati membri, che metta in
discussione gli stereotipi e le strutture tradizionali, (…) a sostenere programmi di sensibilizzazione
in merito agli stereotipi, al sessismo e ai ruoli di genere tradizionali nell’istruzione e sui media,
nonché a condurre campagne per la promozione di modelli di ruolo femminili e maschili positivi”.
Ciò che colpisce, in quest’ultima raccomandazione, è la stigmatizzazione
neanche troppo velata per le ‘strutture’ e i ‘ruoli di genere tradizionali’, accostati per
ben due volte agli ‘stereotipi’, come se fosse insito nel concetto di ‘tradizione’ un
connotato negativo, da superare attraverso un’evoluzione culturale innovatrice. Tale
operazione desta non poche perplessità e anche qualche preoccupazione, atteso che,
16 Sul punto, con riguardo particolare all’ordinamento italiano, basti ricordare quanto affermato dalla
Corte costituzionale nella sent. n. 138/2010 – “è vero che i concetti di famiglia e di matrimonio non si possono ritenere
‘cristallizzati’ con riferimento all’epoca in cui la Costituzione entrò in vigore, perché sono dotati della duttilità propria dei principi
costituzionali e, quindi, vanno interpretati tenendo conto non soltanto delle trasformazioni dell’ordinamento, ma anche
dell’evoluzione della società e dei costumi. Detta interpretazione, però, non può spingersi fino al punto d’incidere sul nucleo della
norma [l’art. 29 Cost.], modificandola in modo tale da includere in essa fenomeni e problematiche non considerati in alcun modo
quando fu emanata” – e anche nella successiva sent. n. 170/2014 (che pure ha aperto, attraverso un’additiva di
principio, alla possibilità che il matrimonio tra due persone, di cui una successivamente cambi sesso, si
converta in un “rapporto di coppia giuridicamente tutelato con altra forma di convivenza registrata”), in cui si conferma
che “la nozione di matrimonio presupposta dal Costituente (cui conferisce tutela il citato art. 29 Cost.) è quella stessa definita
dal codice civile del 1942, che stabiliva (e tuttora stabilisce) che i coniugi dovessero essere persone di sesso diverso”. Contra F.
DONATI , La famiglia nella legalità costituzionale, in Riv. AIC n. 4/2014, p. 12, il quale auspica un intervento
complessivo del legislatore sulla materia del diritto di famiglia, che “dovrebbe tenere conto del fatto che il
matrimonio, da elemento fondante della famiglia, è ormai divenuto un elemento accidentale della stessa”;
inoltre, “l’evoluzione del contesto sociale e le novità sul piano normativo e giurisprudenziale (…), giustificano
(…) una valorizzazione del principio di autodeterminazione e auto-responsabilità dei coniugi, con
conseguente riconoscimento dell’autonomia privata come strumento principale di regolazione del rapporto di
coppia (matrimoniale o more uxorio) e di prevenzione e soluzione delle crisi del medesimo”.
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se è ben noto quale sia il ‘modello tradizionale’ che secondo il Parlamento Europeo
andrebbe rifuggito, non così si può dire dell’esito cui si vorrebbe giungere: i ‘modelli
di ruolo femminili e maschili positivi’ (sic) restano un concetto assai vago e generico,
quasi un contenitore vuoto all’interno del quale ciascuno, a proprio piacimento, può
inserire il contenuto che più gli aggrada.
Ma questo, della tendenza culturale in atto, è solo un esempio, forse quello di
cui più si dibatte, ma certamente non il più dirompente, dal momento che vi sono
altri confini delicati che si vorrebbe valicare, primo fra tutti quello tra vita degna di
essere vissuta e vita – evidentemente – indegna17.
4. Problematiche di diritto costituzionale: a) sui principi di libertà ed
eguaglianza.
Così inquadrato il fenomeno che si intende qui cominciare a studiare, si può
ora procedere nell’analisi dell’impatto che esso produce sulle principali categorie
tradizionali del nostro diritto costituzionale, senza peraltro pretendere in questa sede
di svolgere considerazioni esaustive, data la vastità del tema.
Anzitutto, subisce una significativa trasformazione il contenuto dei due
fondamentali principi su cui è stato edificato lo Stato di diritto e democratico: libertà
ed eguaglianza.
La libertà è una delle maggiori conquiste dei tempi recenti e ha trovato
consacrazione prima nelle carte dei diritti dell’età moderna e, successivamente, nelle
costituzioni liberaldemocratiche contemporanee.
Nella Costituzione italiana il principio di libertà viene concretamente
declinato in diverse disposizioni, che tradizionalmente vengono appunto definite
diritti di libertà: essi possono consistere in una libertà da qualcuno/qualcosa (es.
libertà personale), ma anche in una libertà di fare o non fare qualcosa (si pensi alla
libertà di riunione o di associazione). Elemento peculiare della disciplina dei diritti di
libertà consiste, come noto, nella loro finalizzazione, cioè nell’“individuazione di un
valore fondativo, che orienta e limita la stessa libertà individuale”18: la dignità della
persona umana.
17 Sul rapporto tra dignità umana e diritto alla vita, cfr. M. E. G ENNUSA – L. V IOLINI , Dignità umana
e diritto alla vita, in P. GIANNITI (a cura di), I diritti fondamentali nell’Unione Europea, cit., pp. 449 ss. (in
particolare pp. 509 ss.).
Più in generale, sul significato della dignità nel diritto costituzionale, cfr. P. VERONESI , La dignità
umana tra teoria dell’interpretazione e topica costituzionale, in Quad. cost. n. 2/2014, pp. 315 ss.
18 F. P IZZOLATO , Finalismo dello Stato e sistema dei diritti nella Costituzione italiana, Vita e Pensiero,
Milano 1999, p. 121.
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La nuova logica dei diritti cambia profondamente il senso del principio di
libertà, perché la riconduce a una valutazione individualistica e soggettivistica di ciò
che il singolo ritiene debba essere libero di fare o non fare: “perché non posso
essere libero di…?” è questa la domanda che sempre più spesso viene posta dai
sostenitori di questa nuova e impetuosa corrente di pensiero.
Evidente pare la distanza rispetto all’idea di libertà accolta nella Costituzione
italiana, la quale la colloca al centro del sistema, ma accanto ai “doveri inderogabili
di solidarietà” e con una tensione verso il fine comune dello sviluppo della persona
umana (art. 2)19.
A riprova di tale scollamento tra l’idea originaria di libertà e quella
contemporanea si può notare come sempre più spesso il termine libertà venga
sostituito con quello di autodeterminazione20.
Letteralmente, ‘autodeterminazione’ significa decisione autonoma, cioè
capacità di determinarsi liberamente e autonomamente da sé. Tale concetto è sorto a
partire dalla Dichiarazione di indipendenza americana per affermarsi anzitutto e
soprattutto nel diritto internazionale, sotto la declinazione dell’autodeterminazione
dei popoli21: si tratta di un principio consacrato in numerose carte internazionali (es.
Carta delle Nazioni Unite del 1945) e ormai considerato facente parte del diritto
internazionale consuetudinario. Con esso, si riconosce a tutti i popoli il diritto di
scegliere autonomamente il proprio assetto politico, economico e sociale 22.
Se però si scava un poco nell’etimologia del termine autodeterminazione ci si
potrebbe stupire alquanto: determinazione, infatti, deriva dal latino terminus, cioè
confine. L’autodeterminazione, dunque, è il diritto di darsi un confine, il che porta
direttamente al problema della sovranità, se riconduciamo l’autodeterminazione a
una prerogativa dei popoli.
Sulla natura dell’art. 2 Cost., norma chiusa o norma aperta, non è possibile soffermarsi in questa
sede: in argomento la letteratura è molto vasta e ad essa si rinvia per ottenere una visione d’insieme: cfr., ex
multis, A. BARBERA, Commento all’art. 2, in G. BRANCA (a cura di), Commentario della Costituzione, Zanichelli,
Bologna-Roma 1975; P. B ARILE, Diritti dell’uomo e libertà fondamentali, Il Mulino, Bologna 1984; A. PACE,
Problematica delle libertà fondamentali. Parte generale, CEDAM, Padova 2003.
Ci si limita qui a condividere l’impostazione contenuta in F. PIZZOLATO, Finalismo dello Stato, cit., p.
163, secondo cui, se da un lato non possono essere accolte le interpretazioni ‘chiuse’ dell’art. 2 Cost., dall’altro
lato però “la stessa concezione dell’art. 2 come norma ‘aperta’ sic et simpliciter, ‘in bianco’, incorre in un rischio
simmetrico: di slegare i diritti stessi dal nesso con il valore dello sviluppo della personalità e di sprigionare
potenzialità espansive delle libertà, senza però fornire criteri orientativi sufficientemente precisi”.
20 Cfr. S. M ANGIAMELI , Autodeterminazione: diritto di spessore costituzionale?, in C. N AVARINI (a cura di),
Autonomia e autodeterminazione – Profili etici, bioetici e giuridici, Editori riuniti University Press, Roma 2011, pp. 79
ss.
21 T. E. F ROSINI , Costituzione, autodeterminazione, secessione, in Riv. AIC n. 1/2015, pp. 2 s.
22 Per alcune coordinate generali sul punto, cfr. F. L ATTANZI , Autodeterminazione dei popoli, in Dig.
disc. pubbl., UTET, Torino 1987, pp. 4 ss.; G. ARANGIO RUIZ, Autodeterminazione (diritto dei popoli alla), in Enc.
giur., Treccani, Roma 1988, pp. 1 ss.
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L’operazione culturale contemporanea, però, riconduce l’autodeterminazione
a un diritto del singolo individuo: di fronte a tale diritto lo Stato e l’ordinamento più
in generale debbono approntare ogni più ampia forma di tutela, al fine di
consentirne la piena realizzazione. Ma se a questo punto riprendiamo il significato
etimologico del termine autodeterminazione, scopriamo un vero e proprio
paradosso: lungi dal consistere solo ed esclusivamente nel diritto di determinarsi
autonomamente, esso può essere declinato nel diritto/possibilità di darsi un termine,
cioè un confine, un limite. E tale limite non può che essere il diritto dell’altro, se
accettiamo una concezione relazionale dell’essere umano.
Ecco, dunque, l’autentico significato della libertà: poter determinare da sé le
proprie azioni e i propri comportamenti, nella consapevolezza di essere inseriti in un
contesto di relazioni che rende implicitamente il diritto all’autodeterminazione di
ciascuno anche un dovere di rispetto nei confronti di colui che è altro da sé. Scrive
limpidamente Mary Ann Glendon: “Effective protection for individual rights
requires citizens who are willing to respect the rights of others even at some cost to
themselves”23.
Cambia notevolmente – si diceva – anche il significato dell’eguaglianza: da
regola che tratta in modo eguale fattispecie eguali e in modo diverso fattispecie
diverse a principio che tende a uniformare la società, le persone, gli istituti giuridici,
nella convinzione di abbattere le differenze che la cultura tradizionale avrebbe
imposto24.
In questa materia, infatti, viene in particolare considerazione quella specifica
declinazione dell’eguaglianza che si incarna nel divieto di discriminazione. Esso,
come noto, è consacrato al primo comma dell’art. 3 Cost., che sancisce il principio
di eguaglianza formale: “Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali
davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni
politiche, di condizioni personali e sociali”. A fronte, dunque, di tale divieto (posto in capo
a tutte le istituzioni della Repubblica) si ha il corrispondente, e contrapposto, diritto
di ciascun individuo a non vedersi discriminato in relazione al sesso, alla razza, alla
lingua e alle altre caratteristiche che inevitabilmente – si vorrebbe dire ‘per natura’ –
distinguono gli esseri umani25.
23 M. A. G LENDON , Individualism and communitarianism in contemporary legal systems: tensions and
accommodations, in Brigham Young University Law Review, 1993 (corsivo aggiunto, n.d.a.).
24 Cfr. ampiamente, sul tema delle diseguaglianze, le relazioni del recente Convegno annuale
dell’Associazione dei giovani costituzionalisti “Gruppo di Pisa” su La dis-eguaglianza nello Stato costituzionale
(Campobasso, 19-20 giugno 2015), in versione ancora provvisoria in www.gruppodipisa.it
25 Andrebbero rilette, sul punto, le sagge considerazioni di C. ESPOSITO , Eguaglianza e giustizia
nell’art. 3 della Costituzione, in ID., La Costituzione italiana. Saggi, CEDAM, Padova 1954, p. 37: “la dichiarazione
che tutti i cittadini sono eguali davanti alla legge statuisce la pari sottoposizione formale dei cittadini (di
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Il divieto di discriminazione, tuttavia, reca con sé due profili problematici.
Da un lato, pone la questione delle c.d. azioni positive, cioè quegli interventi
normativi volti a rimuovere una condizione di discriminazione, sulle quali non è
certo il caso di soffermarsi, essendo queste oggetto di notevole dibattito dottrinale e
giurisprudenziale26.
Dall’altro lato – e questo probabilmente è l’aspetto più interessante – il
divieto di discriminazione rischia di essere interpretato come diretto a eliminare
qualsiasi tipo di differenza tra gli individui, rendendo uniforme e omogenea
l’applicazione di istituti tradizionalmente pensati, invece, per disciplinare specifiche
situazioni meritevoli di tutela. Se, infatti, la normativa antidiscriminatoria nasce
sull’esigenza di intervenire in favore di soggetti caratterizzati oggettivamente da
particolari elementi di debolezza (es. età, disabilità, etc.), essa subisce una torsione
allorché si voglia renderla uno strumento di omologazione e livellamento giuridico,
con il rischio di travolgere il razionale bilanciamento dei diritti con i doveri, e dei
diritti del più forte con i diritti del più debole. Si sta, in altre parole, diffondendo la
convinzione per cui taluni istituti, concepiti e disciplinati come peculiari per
specifiche fattispecie meritevoli di protezione da parte dell’ordinamento, siano in
realtà da estendere erga omnes, sulla base del divieto di discriminazione. E ciò – si
badi – non per effetto di valutazioni e provvedimenti assunti dagli organi
ciascun cittadino) all’ordinamento giuridico, ma non garantisce ad ogni cittadino un pari status di positiva o
negativa libertà. Solo le regole sui singoli diritti politici e di libertà sparse nella costituzione stabiliscono fino
dove e in quali limiti ve ne sia pari titolarità nei singoli cittadini, e fino a qual punto i cittadini che ne godono
ne abbiano un eguale godimento”.
Sulle condizioni personali ‘altre’ rispetto a quelle espressamente elencate all’art. 3 Cost., cfr., da
ultimo, M. M ASSA, Diseguaglianza e condizioni personali. Una polemica sull’eguaglianza, in www.gruppodipisa.it, che,
dopo una dettagliata e puntuale analisi della giurisprudenza costituzionale, sintetizza così – in maniera
condivisibile – i caratteri dell’eguaglianza: “il principio di eguaglianza non è neutrale, né oggettivo, né
generale, né astratto, e nemmeno egalitario” (p. 21).
26 Ci si può però limitare a osservare come, a volte, la volontà di rimuovere una situazione di
discriminazione finisca col causarne un’altra opposta: è il noto rischio della c.d. reverse discrimination. Per
evitarlo sarebbe sufficiente considerare che il vero significato del principio di eguaglianza consiste
nell’“assicurare le condizioni essenziali o minime perché ogni cittadino abbia pari chances di libertà” (così A.
BALDASSARRE , voce Diritti sociali, in Enc. Giur., vol. XI, Treccani, Roma, p. 12). Questo, del resto, è il portato
dell’art. 3, comma 2, Cost., da molti erroneamente invocato come grimaldello attraverso il quale ampliare
incondizionatamente il catalogo dei diritti fondamentali: “È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di
ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno
sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica
e sociale del Paese”. È chiaro lo scopo della norma citata: rendere i cittadini eguali nelle posizioni di partenza,
per consentire a ciascuno il pieno (e inevitabilmente, si vorrebbe dire ‘naturalmente’, diverso) sviluppo della
persona. Sul punto, cfr., ex multis, A. BETTETINI , Divieto di discriminazioni e tutela del soggetto debole, in P.
GIANNITI (a cura di), I diritti fondamentali nell’Unione Europea, cit., p. 654: “Una piena uguaglianza nel
trattamento giuridico implica non tanto una matematica assegnazione di posizioni, ma un’uguaglianza nelle
condizioni di partenza, proprio per fare vera giustizia, e non una giustizia astratta, e pertanto falsa”; ma già C.
ESPOSITO, Eguaglianza e giustizia nell’art. 3 della Costituzione, cit., p. 18: “L’articolo non manifesta alcuna
tendenza ad istituire mortificanti parità di fatto, anzi si propone, nella pari situazione di diritto e nella garanzia
di alcune situazioni di fatto, di creare le condizioni per il libero sviluppo individuale dei cittadini”.
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rappresentativi degli interessi della collettività, bensì in ossequio al principio già
ricordato di autodeterminazione. Ma sul punto si tornerà a breve.
5. Problematiche di diritto costituzionale: b) sul ruolo dei giudici.
L’esplosione dei diritti fondamentali incide notevolmente anche sull’assetto
dei poteri disciplinato formalmente dalla Costituzione e alimentato quotidianamente
dal concreto operare dei diversi attori istituzionali. Tale fenomeno si ripercuote
indubbiamente, e con una certa forza, soprattutto sui diversi ruoli di due di questi
attori fondamentali: i giudici e il legislatore.
Con riguardo ai primi, è sotto gli occhi di tutti il profondo mutamento che
caratterizza l’odierna funzione di ius dicere: si potrebbe anzi dire che essa sta
diventando sempre più un’attività di ius facere, di creazione del diritto e dei diritti.
Siffatto cambiamento è sicuramente il prodotto della progressiva integrazione degli
ordinamenti – in particolare nazionale, dell’Unione Europea e sovranazionale
(CEDU) – che va ad alterare la tradizionale gerarchia delle fonti e impone al giudice
interno non solo di tenere conto del diritto ‘esterno’, ma a volte di applicarlo
direttamente alle concrete fattispecie che gli vengono sottoposte27.
Ciò inevitabilmente comporta un rafforzamento del giudice quale tutore del
corretto rispetto del diritto ‘multilivello’, e tale sta diventando anche la stessa
percezione che i cittadini hanno del giudice: se l’ordinamento positivo non
garantisce direttamente una determinata posizione giuridica che si ritiene meritevole
di tutela e protezione, ecco che il ricorso all’autorità giudiziaria può costituire una
via per vedersi riconosciuta tale tutela. E se anche i giudici nazionali dovessero
respingere le istanze avanzate dal cittadino, ci sarà sempre un ‘giudice a Berlino’28 –
rectius: a Lussemburgo o, più spesso, a Strasburgo – che potrà rendere una giustizia
piena ed effettiva.
È allora assai utile riscoprire quella suggestiva distinzione operata da Mary
Ann Glendon, nel suo A Nation under Lawyers del 1994, tra giudice classico e giudice
romantico: il primo sarebbe caratterizzato da “modesty, impartiality, restraint, and
interpretive skill”; il secondo, al contrario, è “bold, creative, compassionate, result-oriented,
and liberated from legal technicalities”. Tali definizioni chiariscono molto bene
27 Cfr., ex multis, S. G AMBINO , Livello di protezione dei diritti fondamentali (fra diritto dell’Unione, convenzioni
internazionali, costituzioni degli Stati membri e dialogo fra le Corti). Effetti politici nel costituzionalismo interno ed europeo, in
Federalismi.it n. 13/2014; con particolare riguardo ai diritti fondamentali nella prospettiva multilivello, cfr.
diffusamente A. CARDONE , Diritti fondamentali (tutela multilivello dei), in Enc. dir., Ann., IV, Giuffrè, Milano
2011.
28 È rimasta famosa la battuta brechtiana che riprende la frase del mugnaio di Potsdam che non
intendeva soggiacere ai soprusi di un nobile, e che, dopo aver adito invano i giudici tedeschi competenti, si
rivolse al ‘ giudice a Berlino’, cioè al Re di Prussia Federico il Grande, per veder tutelato il proprio diritto.
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l’evoluzione che ha caratterizzato e sta tuttora caratterizzando la figura del giudice
nelle società contemporanee: liberatosi da quella deferenza quasi timida nei
confronti della legge tipica del modello montesquieuiano del giudice bouche de la loi,
gli attuali ‘applicatori del diritto’ si sentono chiamati a rendere una giustizia
sostanziale, effettiva, concreta, anche a costo di valicare il confine tracciato dalla
norma o, nel caso di sua assenza, di crearne una nuova. Tale operazione, tuttavia,
mascherata dal velo apparentemente convincente dell’attuazione diretta dei principi
costituzionali e sovranazionali, realizza in realtà una duplice conseguenza: da un lato,
un allontanamento dal perimetro costituzionale e, dall’altro, uno scivolamento verso
una tirannia dei valori che poi si riduce a una tirannia del sentimento29.
Si produce, in primo luogo, uno scostamento dal modello di giudice
delineato dalla Costituzione. Come noto, ai sensi dell’art. 101, comma 2, Cost., “i
giudici sono soggetti soltanto alla legge”. Tale principio si collega strettamente con
quello sancito all’art. 104, comma 1, Cost., secondo cui “la magistratura costituisce
un ordine autonomo e indipendente da ogni altro potere”. L’interpretazione naturale
del combinato disposto di queste due disposizioni costituzionali è quella che
enfatizza la presenza dell’avverbio “soltanto” nell’art. 101 e dell’aggettivo
“indipendente” nell’art. 104; ciò che consente di qualificare quello giudiziario come
un potere non soggetto ad alcuna altra autorità che non sia quella della legge, che,
evidentemente, il giudice è tenuto ad applicare nella sua attività di iurisdictio. Viene
così disegnato un perimetro di garanzie (dalla istituzione del C.S.M. alla nomina per
concorso, dall’inamovibilità alla distinzione solo per funzioni) che tutela la
magistratura da indebite interferenze provenienti dagli altri poteri statali.
Eppure, il principio della soggezione alla legge può essere indagato anche
sotto una diversa angolatura, dando maggior peso all’espressione “è soggetto”, più
che all’avverbio “soltanto”: dire che il giudice è soggetto alla legge significa
affermare che “l’indipendenza funzionale del giudice non equivale (…) all’arbitrio
ma ha senso solo nell’ambito di ciò che la legge prevede”30.
29 Cfr. G. P IFFER – T. E. EPIDENDIO , Rapporti tra diritti fondamentali, giudici e politica, in
www.ilsussidiario.net, 24 e 31 marzo e 7 aprile 2011 (corsivo orginale).
Dure e taglienti sul punto sono le note posizioni del compianto giudice della Corte Suprema degli
Stati Uniti ANTONIN S CALIA, ben riassunte in La mia concezione dei diritti. Intervista di Diletta Tega ad Antonin
Scalia, in Quad. cost. n. 3/2013, pp. 669 ss.: sull’idea che spetti al giudice bilanciare i diversi interessi in gioco in
una controversia, egli afferma che “l’unico soggetto che possa porre in essere un bilanciamento di questo tipo
sia il legislatore, in quanto rappresentante del popolo. E il ruolo del giudice (…) è quello di discernere in quale
punto ideale il legislatore abbia tracciato la linea di bilanciamento tra i vari interessi in gioco. (…) I giudici che
hanno la pretesa di andare oltre questa funzione (…) si auto-attribuiscono un ruolo che finisce per erodere i
fondamenti della democrazia” (p. 671).
30 N. ZANON – F. B IONDI , Diritto costituzionale dell’ordine giudiziario. Status e funzioni dei magistrati alla
luce dei principi e della giurisprudenza costituzionali, Giuffrè, Milano 2002, p. 35.
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Se, dunque, non è espressamente configurabile una soggezione del giudice al
legislatore, è altresì possibile ricavare da tale lettura l’affermazione di una sorta di
primato dell’organo legislativo, del Parlamento, che si collega direttamente al
principio della sovranità popolare ex art. 1, comma 2, Cost. 31 e che continua ad
avere nella legge il suo luogo elettivo di manifestazione.
Ecco, quindi, il primo scostamento: il protagonismo giudiziario sempre più
massiccio, alimentato dalla proliferazione dei diritti individuali, conduce il giudice sul
confine del campo delimitato dalla legge e gli apre di fronte orizzonti sconfinati. Il
giudice “soggetto soltanto alla legge”, ma comunque soggetto a essa, diventa così un
potenziale ‘legislatore inter partes’, un artigiano del diritto bisognoso di nuove
conquiste animate dall’esigenza di una giustizia vera ed effettiva.
In secondo luogo, il distacco dalla soggezione alla legge rischia di tradursi in
un ampliamento eccessivo della discrezionalità del giudice, il quale sarà portato non
a decidere in base a quanto stabilisce la norma applicabile alla fattispecie concreta,
bensì a seguire la propria idea personale e soggettiva di giustizia32.
Di qui il rischio assai realistico di un fiorire di interpretazioni differenti, di
una frammentazione ulteriore dell’ordinamento con una serie di pronunce
potenzialmente contraddittorie tra di loro, che gli organi superiori della giurisdizione
non riescano, nella loro attività nomofilattica, a rendere omogenee e a fronte delle
31 Il tema della legittimazione democratica del potere giudiziario è assai risalente. Cfr., ex multis, M.
CAPPELLETTI , Giudici legislatori?, Giuffrè, Milano 1984, pp. 82 ss., il quale tuttavia afferma che “la produzione
giudiziaria del diritto ha, per lo meno, la potenzialità di essere altamente democratica: vicina e sensibile ai
bisogni della popolazione e alle aspirazioni sociali”, purché si verifichino due condizioni: a) selezione dei
giudici aperta “a tutti gli strati della popolazione” e b) uguale opportunità per tutti di accesso alle corti (p. 94);
sul punto v. anche G. MOSCHELLA, Magistratura e legittimazione democratica, Giuffrè, Milano 2009.
32 Cfr., sul punto, F. D’A GOSTINO , Responsabilità dei giudici e limiti del loro potere, in Iustitia n. 1/2012,
pp. 1 ss., che pone in guardia dal rischio dell’interpretazione evolutiva: essa, infatti, “è un’interpretazione
‘straordinaria’, che forza indebitamente sia la lettera che lo spirito della legge. Nelle altre forme di
interpretazione il giudice opera come custode dell’ordinamento, utilizzando nell’applicazione che è chiamato a
fare del testo normativo fattori che sono intrinseci alla legge. Nell’interpretazione evolutiva, invece, il giudice
pone se stesso come motore del cambiamento sociale e pretende di leggere nella legge ciò che nella legge non
c’è, ma che egli vorrebbe tanto che ci fosse. Il giudice, però, non esiste per modellare la società futura, ma per
tutelare quella esistente (…) è compito della politica, anzi è il suo più nobile compito, leggere i segni dei
tempi, interpretarli e tradurli in buone leggi. Il compito dei giudici, non meno nobile, ma ben diverso, è solo
quello di applicare le leggi secondo giustizia”.
Sulla stessa linea di pensiero e con toni assai netti cfr. A. SCALIA, La mia concezione dei diritti cit., pp.
677 s.: “Il maggior rischio per i giudici è sempre stato rappresentato dal fatto che questi potessero deviare dal
tessuto normativo stabilito dalle disposizioni testuali, per dare sfogo alle proprie teorie su cosa fosse più
giusto (teorie che potrebbero non rispettare la visione della società entro cui essi stessi agiscono). (…)
Nell’inviare a un giudice il messaggio che può farsi guidare dai principi, che può prendere in considerazione
tutti i principi esistenti al mondo, per poi fare applicazione di quello che ritiene più giusto, si invita il giudice a
utilizzare le proprie convinzioni personali e le proprie visioni filosofiche”.
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quali il legislatore si veda costretto a intervenire in maniera occasionale,
emergenziale, irrazionale33.
Ecco che allora l’analisi sull’evoluzione del ruolo del giudice porta
inevitabilmente, come diretta conseguenza, a dover studiare i rapporti tra potere
giudiziario e potere legislativo.
6. Problematiche di diritto costituzionale: c) sul ruolo del legislatore.
A fronte della descritta emersione del giudice quale tutore e garante dei diritti
individuali, si assiste – si potrebbe dire ‘sul versante opposto’ – a un progressivo
indebolimento del potere legislativo, e quindi del Parlamento, incapace di far fronte
alla descritta massiccia domanda di nuovi diritti.
Tale graduale infiacchimento del potere legislativo non riguarda certo
esclusivamente la tutela dei diritti fondamentali, ma si manifesta vistosamente anche
per ciò che concerne il settore dell’economia e del lavoro. Tuttavia, mentre, in
questo secondo caso, la debolezza del Parlamento viene compensata da un maggior
intervento del Governo – tale fenomeno comunque rientrando nell’ampio perimetro
della funzione di indirizzo politico, di quello che un tempo si sarebbe definito
gubernaculum – per quanto riguarda i diritti individuali il legislatore appare come uno
scoglio isolato in mezzo al mare, le cui onde a volte lo lambiscono soltanto, altre
volte si infrangono con potenza su di esso, ma in entrambi i casi lo erodono
progressivamente.
Tale erosione è provocata, lo si è detto nel paragrafo precedente, da un
attivismo giudiziario che non conosce precedenti e che si presenta come l’unica via
attraverso la quale le istanze individuali immaginano di poter ricevere soddisfazione:
di fronte all’inadeguatezza del legislativo, sono solo i giudici a poter accogliere le
domande di tutela avanzate da chi ritiene che gli appartenga un diritto non altrimenti
riconosciuto.
Ma quali sono le cause di tale fenomeno?
Si possono individuare due livelli sovrapposti. A un livello profondo, come
tendenza ormai consolidata, si colloca la crisi della rappresentanza politico33 Un recente caso emblematico di protagonismo giudiziario, che peraltro fuoriesce dal tema della
c.d. bioetica, è quello che ha riguardato l’ILVA di Taranto, che ha visto uno contro l’altro armati diritto al
lavoro e diritto alla salute. Sul punto, in particolare sul rapporto tra potere giudiziario e pubblica
amministrazione, cfr. le convincenti analisi di R. BIN, L’ILVA e il soldato Baldini, in Quad. cost. n. 1/2013, pp.
122 ss. “la funzione affidata al potere giudiziario non riguarda, in linea di principio, la tutela di interessi
pubblici specifici (che non sia quello dell’applicazione obiettiva del diritto), perché a questo deve provvedere
la pubblica amministrazione, alla cui discrezionalità è affidata la tutela bilanciata di tutti gli interessi in gioco”.
Dello stesso autore cfr., altresì, Giurisdizione o amministrazione, chi deve prevenire i reati ambientali? Note alla sentenza
“Ilva”, in Giur. cost. n. 3/2013, pp. 1505 ss.
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parlamentare tradizionale, che perdura da tempo e non accenna ad arrestarsi: è un
prodotto non certo solo italiano, ma che caratterizza in generale l’esperienza delle
democrazie contemporanee e ha come causa principale l’incessante processo di
globalizzazione.
A un livello più superficiale e contingente, ma che non per questo è meno
importante, si colloca il particolare ‘problema’ italiano della inadeguatezza e
impreparazione della classe dirigente: incapacità, dunque, della politica e dei partiti di
svolgere correttamente ed efficacemente la propria funzione. Di fronte a tale
incapacità ecco emergere il giudice come figura autorevole e impegnata ‘sul campo’ a
provvedere alla tutela dei diritti individuali34.
È tuttavia assai chiara e netta la differenza qualitativa tra legislatore e giudice,
il che certo non significa che l’uno sia ‘meglio’ dell’altro, ma solo che la Costituzione
ha attribuito a ciascuno un compito ben definito. Proprio a proposito della materia
dei diritti fondamentali, è stato autorevolmente affermato che “la costituzione non
ha abbandonato, ed anzi ha confermato ripetutamente la fede nella giustizia del
34 Il punto meriterebbe ben altri approfondimenti rispetto a quelli che si possono svolgere in questa
sede. Infatti, quando si parla di giudice, non ci si riferisce solo al giudice comune, ordinario o amministrativo
che sia, ma s’intende lato sensu ogni soggetto dotato di poteri giurisdizionali sulla base dell’ordinamento
interno o sovranazionale. In tale ampia categoria di giudici, dunque, rientrano altresì la Corte di Giustizia
dell’Unione Europea di Lussemburgo, la Corte Europea dei diritti dell’uomo di Strasburgo e anche la Corte
costituzionale italiana.
Quello dei rapporti tra legislatore e giudice costituzionale è anzi un tema di grande attualità,
alimentato da recenti pronunce della Corte che hanno posto in crisi più che in passato il dogma della
discrezionalità del legislatore (cfr. S. LIETO – P. PASQUINO, Metamorfosi della giustizia costituzionale in Italia, in
Quad. cost. n. 2/2015, pp. 351 ss.). Basti pensare alla ormai celebre sent. n. 1/2014 sulla parziale illegittimità
della legge elettorale (così come modificata dalla L. n. 270/2005), con particolare riguardo alla previsione del
premio di maggioranza e alle c.d. liste bloccate: sul punto la letteratura è divenuta rapidamente assai copiosa
(cfr., ex multis, M. D’AMICO – S. CATALANO (a cura di), Prime riflessioni sulla “storica” sentenza 1 del 2014 in
materia elettorale, Franco Angeli Ed., Milano 2014, e l’ampio confronto d’opinioni contenuto in Giur. cost. n.
1/2014, pp. 629 ss.). O ancora, su tematiche del tutto differenti, si pensi alle recenti pronunce in materia di
c.d. Robin Tax (n. 10/2015), blocco della rivalutazione dei trattamenti pensionistici (n. 70/2015) e blocco
della contrattazione del settore pubblico (n. 178/2015). Tali sentenze hanno attirato l’attenzione della
dottrina, poiché se da un lato dimostrano un rinnovato coraggio della Corte nel far rispettare i principi
costituzionali, dall’altro lato restringono notevolmente gli spazi di discrezionalità a disposizione del potere
legislativo, rischiando di venir percepite come – o di essere effettivamente – indebite ‘invasioni di campo’.
Non pare allora fuori luogo richiamare qui l’insegnamento di un illustre maestro del diritto
costituzionale, Carlo Esposito, che invitava la Corte costituzionale, ancor prima dell’inizio del suo effettivo
operare, alla prudenza. Nella relazione al Congresso internazionale di diritto processuale del 1950, egli si
domandava: “il potere incontrollabile della Corte di giudicare infallibilmente della costituzionalità delle leggi e
della propria competenza in tal materia non rischia di fare di questo organo l’arbitro irresponsabile della vita
dello Stato: il padrone invece che il servo o il tutore della Costituzione? E l’efficacia, le conseguenze generali
della dichiarazione di incostituzionalità della Corte non possono dare luogo (in fatto se non in diritto) a
pericolosi conflitti politici tra la Corte e la maggioranza del parlamento?” (così C. ESPOSITO, Il controllo
giurisdizionale sulla costituzionalità delle leggi in Italia, in Atti del Congresso internazionale di diritto processuale di Firenze,
CEDAM, Padova 1950, ripubblicata in ID., La Costituzione italiana, cit., p. 281). In queste parole sicuramente
forti, oltre all’esplicita preferenza per un sindacato diffuso di costituzionalità, è concentrato tutto il pensiero
di un giurista convinto della superiorità del Parlamento, timoroso che “il legislatore o i sudditi alla legge più
che ai giudizi siano sottoposti alla sovrana volontà della Corte, se non alle opinioni e convinzioni personali
dei suoi componenti” (C. ESPOSITO, Oss. a sent. n. 1/1962, in Giur. cost. 1962, pp. 4 s.).
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legislatore (…). Il parlamento, proprio in quanto rappresentativo al massimo grado,
(…) è a ben vedere il primo giudice della convivenza delle libertà e dei doveri (…). Solo il
legislatore (principio di legalità) può metter mano alla conformazione normativa dei
diritti”35.
Spetta, insomma, alla politica declinare i principi di libertà ed eguaglianza 36,
giacché è solo il Parlamento, nella nostra forma di governo, a essere direttamente
investito del compito di rappresentare la volontà generale. Nel Parlamento siedono i
rappresentanti della Nazione, eletti direttamente dai cittadini e titolari della funzione
legislativa: è attraverso la legge, infatti, che si esprime il Parlamento, e dunque,
indirettamente, si manifesta la volontà del popolo italiano. È la legge che garantisce,
attraverso le sue procedure di approvazione – anche lunghe e complesse – e i propri
presidi in termini di pubblicità, ponderazione e trasparenza, la migliore tutela per i
cittadini37.
Ciò in linea teorica. Se però dal piano astratto si prova a scendere nel
concreto operare dei poteri all’interno della forma di governo, ebbene non c’è da
stupirsi dello stato odierno della democrazia parlamentare. E ciò, come noto, non
può che imputarsi allo stato comatoso cui sono ridotti i partiti politici, che
dovrebbero costituire il motore, la linfa vitale di ogni sistema rappresentativo.
7. Conclusioni: per una riscoperta del primato della politica.
G. BERTI, Interpretazione costituzionale. Lezioni di diritto pubblico, CEDAM, Padova 2001, pp. 427 s.
(corsivo originale, n.d.a.). Ma sul punto cfr. già le note posizioni di C. SCHMITT, La tirannia dei valori. Riflessioni
di un giurista sulla filosofia dei valori (1960), trad. it. a cura di G. Gurisatti, Adelphi, Milano 2008, p. 67:
“all’interno di una comunità la cui Costituzione prevede un legislatore e delle leggi, è compito del legislatore e
delle leggi dallo stesso promulgate stabilire la mediazione tramite regole misurabili e applicabili e impedire il
terrore dell’attuazione immediata e automatica dei valori”; nonché quelle in materia di giustizia costituzionale
avanzate da E. FORSTHOFF , Sulla situazione attuale di una dottrina della costituzione (1968), in A. MANGIA,
L’ultimo Forsthoff, CEDAM, Padova 1995, p. 115: la giurisprudenza costituzionale sui valori rischia di
trasformare “la decisione fondamentale del costituente in una delega generalizzata agli interpreti della
costituzione”, con ciò svuotando di fatto la funzione del Parlamento.
36 Cfr. M. M ASSA , Diseguaglianza e condizioni personali, cit., pp. 23 s.: “La distinzione tra diseguaglianze
(dovute a previsioni giuridiche positive, o all’assenza di previsione che contrastino determinate situazioni di
fatto) consentite e non è materia di scelta: di scelte costituzionali, in primo luogo, e poi legislative. Non c’è
nulla di anomalo nel fatto che, in un determinato momento storico, a proposito di queste scelte si aprano
divergenze all’interno del corpo sociale: l’identificazione dei problemi dell’eguaglianza e delle loro soluzioni è
una sfida perenne, che richiede un processo di intelligenza collettiva organico, corale, aperto. Non sempre le
corti ne sono la sede più appropriata”.
37 Cfr. N. ZANON – F. B IONDI , Diritto costituzionale dell’ordine giudiziario, cit., p. 5: qualità
“irrinunciabile” della legge è “quella di scaturire da un procedimento di formazione pubblico e trasparente,
che si svolge in Parlamento, e potenzialmente al cospetto dell’opinione pubblica, e che coinvolge l’intera
rappresentanza politica, composta da maggioranza e minoranze”.
Molto netta sul rapporto maggioranza-minoranze e sul ruolo del giudice la posizione di A. SCALIA,
La mia concezione dei diritti, cit., p. 676: “Non spetta ad alcun organo giurisdizionale introdurre nuovi limiti [ai
diritti] ai quali la maggioranza non ha mai dato il proprio assenso. (…) gli unici diritti delle minoranze che
esistano in una democrazia sono quelli che la maggioranza ha deciso volontariamente di introdurre e
accettare”.
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Nelle pagine che precedono si è cercato di delineare i contorni di una materia
assai insidiosa e meritevole di approfondimenti ben più articolati. Scopo del
contributo era quello di porre in evidenza i principali focolai critici che il rapporto
tra diritti della persona e diritto dello Stato pone dal punto di vista del diritto
costituzionale.
I mutamenti, si vorrebbe dire epocali, che stanno caratterizzando le società
contemporanee chiamano il giurista a riflettere profondamente sugli stessi solidi e
tradizionali pilastri su cui si è edificato il diritto moderno. In particolare, sotto
l’angolo visuale del diritto pubblico, diverrà sempre più importante studiare la
dicotomia che si crea tra diritti e diritto, tra persona e Stato.
Un’unica considerazione conclusiva, che riprende quanto accennato sul finire
del paragrafo precedente.
Il protagonismo giudiziario e la debolezza del legislatore sono due facce della
stessa medaglia, due prodotti di un unico fenomeno che connota i tempi attuali: la
crisi della politica e dei partiti. È infatti compito di questi ultimi recepire, filtrare e
incanalare nelle sedi istituzionali i grandi bisogni della collettività. Non già in
maniera passiva, inchinata ai desideri di questa o quella lobby, bensì con volontà e
atteggiamento propositivi nel quadro di un e bilanciamento degli interessi
contrapposti. I partiti contemporanei hanno perso gran parte del loro consenso
proprio perché non sono più capaci di realizzare questa operazione: ridurre a sintesi
le istanze provenienti dalla compagine sociale, elaborare una proposta politica alta e
qualificata e tradurla eventualmente in atto normativo per il tramite dei propri
rappresentanti in Parlamento. Né appaiono convincenti le pur seducenti sirene del
populismo e dell’antipolitica che, se possono ottenere un consenso anche largo ma
superficiale e non ragionato, certamente non sono in grado di rispondere alle pesanti
domande che pongono i mutamenti culturali in atto.
È sul terreno dei diritti, forse il più importante, che si giocherà la sfida del
futuro: solo forze politiche credibili e solide potranno affrontarla.
ABSTRACT: This study is about the dichotomy between the individual rights and the State law,
from a constitutional point of view. The idea is to show the main constitutional issues concerning
the recognition of rights. The article draws attention to the danger of considering the State as
something that merely converts individual desires into rights, and invites to rethink the role of the
law as an instrument to defend the human dignity for the common good.
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Jus-online n. 3/2015
KEY WORDS: Individual Rights; State Law; Constitutionalism; Legislative and Judiciary Powers;
Human Dignity.
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