L`idea di letteratura in Sartre

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Davide Tonioli
L’idea di letteratura
in Sartre
INDICE
INTRODUZIONE
3
CAPITOLO I
LA LETTERATURA COME PASSIONE PER IL PROPRIO TEMPO
1. Arte e letteratura
2. Dall’immaginazione all’azione
3. La dialettica di scrittura e letteratura
4. Il recupero della materialità dell’arte
6
13
20
26
CAPITOLO II
SITUAZIONE DELLA LETTERATURA
1. Dall’alienazione all’astrazione
2. La Negazione assoluta come nuovo spirituale
3. La «grande chiacchierata surrealista»
4. Un altro surrealismo
35
42
56
66
CAPITOLO III
LO SCRITTORE E L’INTELLETTUALE ESISTENZIALISTA
1. L’“avanguardia” esistenzialista
2. Una letteratura della storicità
3. Situazione dello scrittore
4. Situazione dell’intellettuale
71
80
88
95
CONCLUSIONE
102
BIBLIOGRAFIA
104
2
INTRODUZIONE
Non è facile affrontare un pensiero controverso come quello di Sartre, seguirne le diverse
articolazioni disciplinari, così come le diverse espressioni letterarie: dal saggio filosofico al
romanzo, dal reportage all’opera teatrale, dalle numerose interviste da lui rilasciate alle
testimonianze infine di tutti quelli che, godendo della sua nota disponibilità, hanno avuto modo di
incontrarlo e di confrontarsi con lui. A nulla servono i continui richiami all’austerità della propria
filosofia, che Sartre non ha mai smesso di sostenere contro l’intenzione di farla scadere a moda o
addirittura a “impostura”. Il pensiero sartriano è ancora oggetto di profondo sospetto da parte del
mondo filosofico, e se gli attacchi che gli venivano rivolti un tempo – invadenti anche la sfera
intima del suo principale rappresentante – sono certamente passati in secondo piano, ciò è più che
altro manifestazione del fatto che l’esistenzialismo giace dimenticato e sorpassato. Sorpassata è
l’idea di intellettuale totale che Sartre ha voluto rappresentare per il suo tempo, e controversa appare
a questo punto l’idea di impegno in campo letterario. Ma soprattutto, sorpassata è l’epoca
movimentata e difficile in cui Sartre si è trovato a scrivere, quell’epoca a cui egli, non senza rischi e
indiscutibile errori, ha voluto sempre dare voce.
Al punto che, oggi, non si sa bene quanto sia rimasto di quella filosofia e di quella esperienza di
pensiero. Sono quanto mai lontane nel tempo le famigerate conferenze di Sartre, che si
trasformavano inevitabilmente in sommosse popolari, con grida e svenimenti tra la folla immane,
così come quella attesa e quella fiducia che tale folla riponeva nella sua irripetibile figura. Sono
lontani i violenti dibattiti sui giornali, l’infamante stagione dei cosiddetti “suicidi esistenzialisti”, e
tutto il mondo della Parigi dei caffè e dei suoi intellettuali, sempre pronti a schierarsi in questa o
quella faccenda sociale e politica, e sempre sicuri di ottenere ascolto da parte della società.
Se dunque la filosofia di Sartre appare imprescindibile, e volontariamente, dal proprio tempo, la
domanda legittima è che cosa essa può ancora significare, dal momento che quel tempo è
definitivamente tramontato. A tale domanda il presente studio vuole tentare di dare risposta,
uscendo così da quella che è la semplice documentazione storica di un periodo e di una filosofia,
per scoprine la sua possibile attualità. Si è scelto così di soffermarsi sull’idea di letteratura sostenuta
da Sartre, nella convinzione che tale aspetto sia tutt’altro che marginale all’interno della sua
riflessione. Si veda infatti come per Sartre la letteratura rappresenti sempre il valore supremo,
3
l’espressione più compiuta della situazione storica nonché la sua principale vocazione di pensatore.
Ma, soprattutto, la riflessione sartriana sulla letteratura è il luogo in cui meglio egli ha precisato la
nozione cardine di impegno, e in cui ha voluto mettere in luce il carattere morale del suo pensiero
contro qualsiasi accusa di settarismo e malafede.
Il saggio di Sartre a cui si è fatto principale riferimento è Che cos’è la letteratura?, pubblicato tra il
febbraio e il luglio del 1947 su Les Temps Modernes. In queste pagine troviamo una concezione
complessa di letteratura, che è forse possibile suddividere in tre temi principali e fortemente
interconnessi: quello d’immaginario, così com’è esso è studiato e precisato da Sartre a partire dalle
sue prime ricerche di psicologia; quello di produzione artistica come specchio critico di un’epoca,
vale a dire l’«azione per rivelazione» che permette di svelarci una situazione e dunque rendercene
responsabili; quello infine della funzione sociale della letteratura, e dunque di un impegno che
supera la semplice rivelazione della situazione per farsi volontà consapevole e impegnata di
incidere sul reale.
Rispondere quindi a che cosa sia la letteratura significa analizzare tre diverse questioni: che cosa sia
esattamente l’attività prosastica in contrasto con le altre attività artistiche; quale sia il movente e lo
scopo a cui si tende nel momento di scrivere; infine, come si sia modificata nel tempo l’idea di
letteratura, tramite la dialettica di scrittore e lettore, quale sia il suo presente e il suo possibile
futuro.
Il primo capitolo del presente studio si occupa dei primi due punti. La letteratura differisce dall’arte
(comprendente in Che cos’è la letteratura? anche la poesia) in quanto questa non si avvale di segni,
e dunque di rimandi a significati esterni, ma rimane confinata all’interno di un senso che si offre
quale oggetto di pura contemplazione. Essa cioè vive della sua completa autonomia e intransitività,
come Sartre sottolinea nel suo studio su Tintoretto e nei saggi su vari artisti contemporanei, e non
può proporsi di agire concretamente sul reale. La letteratura invece, proprio in virtù del suo
linguaggio transitivo, è chiamata ad un impegno che è rivelazione della situazione e sua
comunicazione, dal momento che nominare significa svelare e dunque rendere consapevoli. Contro
quindi ogni accusa di un’idea di letteratura che sia precettistica (nella forma di “romanzi a tesi”) e
moralizzatrice, Sartre sostiene una nozione di impegno che riguarda tale peculiarità del linguaggio
prosastico, e al tempo stesso reclama un atteggiamento da parte dello scrittore che, a partire da
questo potere della parola, lo renda più consapevole della propria implicazione nella storia, e
dunque della sua possibilità di agire nel mondo.
L’oggetto letterario assume tuttavia senso solo nella collaborazione, che Sartre chiama generosità,
tra scrittore e lettore, e nel reciproco riconoscimento delle diverse libertà. Il secondo capitolo
studierà quindi in che modo tale rapporto abbia cambiato nella storia l’idea di letteratura, secondo
4
un processo che va dall’alienazione di essa ad un potere dominante (esemplificata nella figura del
chierico del XII secolo), alla sua liberazione astratta e formale (a partire dal supporto alla borghesia
degli scrittori del XVIII secolo fino al distacco dal reale intrapreso da quelli del XIX secolo), alla
sua possibilità di raggiungere una liberazione concreta sotto il socialismo. Particolare attenzione è
stata dedicata alla letteratura del XIX secolo, e quindi alle figure esemplari di Baudelaire, Flaubert,
Mallarmé, oggetto da parte di Sartre di studi autonomi rispetto a Che cos’è la letteratura?. Tali
studi rivelano quale sia la grandezza ma soprattutto il limite inaccettabile di questa letteratura: la
totale ignoranza delle condizioni sintetiche, in nome di un’esclusiva attenzione analitica verso i
caratteri; l’idea di immaginazione come negazione illimitata del reale, senza alcuna intenzione
costruttiva; la ripetuta dichiarazione di irresponsabilità dello scrittore, sulla base del suo assoluto
rifiuto del temporale.
Il terzo capitolo si occupa infine di come la letteratura esistenzialista, una volta superato l’aspetto
meramente negativo, e recuperando l’ancora sterile adesione al proprio tempo ricercata dal
surrealismo, possa farsi finalmente propositiva: come possa cioè trasformarsi in una letteratura della
storicità, della prassi e dunque divenire uno strumento tanto di comprensione quanto di
cambiamento del reale. In questo senso, è stato intrapreso un parallelo tra quest’idea di Sartre e le
precedenti posizioni delle Avanguardie europee. Con la sua contestazione del creativo, del
piacevole, del marginale, e con la sua insistenza sulla funzione sociale dell’arte, la posizione di
Sartre si configura come l’ultimo grande esempio di idea “forte” di arte, vale a dire un’arte che
possa essere ancora esperienza essenziale e fondante nella vita umana.
Evidentemente, però, le grandi ambizioni della letteratura sono frustrate dalla decadenza del valore
culturale, di cui soffre l’intera arte contemporanea. Così Sartre precisa, in saggi successivi sulla
funzione dell’intellettuale e dello scrittore, la necessità di ricorrere ai nuovi mass-media, di
schierarsi comunque con il proletariato, al di là del sospetto che suscita la sua figura
d’intermediario, e di vivere per tutti la contraddizione che gli è propria, quella tra universalità del
sapere e sua particolarità di classe. Solo in questo modo la letteratura potrà, in quanto attività
dell’immaginario, sottrarsi al dato e al tempo stesso abbozzare un ordine futuro. Nella società
socialista, essa sarà libera e concreta, avrà cioè come pubblico l’intera umanità, e sarà quindi
descrizione del presente non meno che suo giudizio, e continua e responsabile presenza a sé da
parte della società.
L’idea di letteratura così intrapresa da Sartre è certamente storia di un fallimento, di una speranza
mancata. Se però il socialismo non si è infine realizzato, e la letteratura odierna ha preso forme
diverse rispetto a quelle auspicate da Sartre, l’esigenza morale che lui ha con tanta forza reclamato
in ambito letterario rimane quanto mai attuale, e quanto mai ignorata.
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CAPITOLO I
LA LETTERATURA COME PASSIONE PER IL PROPRIO TEMPO
1. Arte e letteratura
Il primo punto da considerare riguardo alla questione fondamentale, in Sartre, della distinzione che
egli pone nettamente tra segni e cose, e che si tramuta immediatamente nella distinzione tra
scrittura prosastica e fare artistico, è la negazione che esista un qualsivoglia parallelismo tra le arti.
L’attacco di Che cos’è la letteratura? è, per l’appunto, subito volto a delegittimare le accuse
inevitabili per cui lo scopo di Sartre, e in generale dell’intero indirizzo culturale di Les Temps
Modernes, sarebbe quello di reclamare un impegno politico da parte di tutte le arti, come se le idee
valide per una determinata arte potessero tranquillamente applicarsi anche alle altre. Come se queste
fossero appunto parallele, o derivate da un’unica Arte dell’epoca, riflessa poi nelle varie arti
particolari. Se per Sartre però rimane incontestabile che si può «trovare, all’origine di qualsiasi
vocazione artistica, una scelta indifferenziata, che solo più tardi le circostanze, l’educazione e il
contatto con il mondo determineranno», e che «le arti di una stessa epoca si influenzano a vicenda e
sono condizionate dagli stessi fattori sociali», resta anche vero che non è solamente la forma che
crea una diversità invalicabile tra le arti, ma è anche e soprattutto la sostanza: pertanto, «una cosa è
lavorare sui colori e sui suoni, un’altra esprimersi con parole»1.
Il distinguo è così già precisamente posto, e si tratta di un distinguo a cui Sartre guarderà in tutte le
occasioni in cui si troverà a parlare di letteratura, di arti figurative, di musica o del ruolo
dell’intellettuale in quanto artista o in quanto scrittore. Il fatto determinante è qui che le note, i
colori o le forme non sono segni, vale a dire non rimandano a qualcosa che sia loro esterno: essi
sono cose al massimo grado, presentate in quanto tali dall’artista e sottolineate in tutta la loro
opacità di cose tra le cose. L’esempio più lampante che Sartre propone è quello noto dello squarcio
giallo di cielo posto dal Tintoretto al di sopra del Golgota: l’intenzione dell’autore non è qui di
significare l’angoscia né tantomeno di provocarla, ma si tratta piuttosto di «un’angoscia trasformata
1
J-P. SARTRE, Che cos’è la letteratura? (1947), in Che cos’è la letteratura?, trad. it. di L. Arano-Cogliati, Milano, Net
2004, p. 12.
6
in squarcio giallo del cielo e che, di colpo, viene sommersa, impastata dalle qualità proprie delle
cose, dalla loro impermeabilità, estensione, permanenza cieca, esteriorità, e da quella infinità di
rapporti che queste hanno con le altre cose»2.
Sarà poi il Sartre della critica d’arte posteriore a rivalutare quest’elemento schiettamente materiale,
a cui le arti non significanti rimangono sempre legate. Per il momento, non si può non indovinare in
Sartre una certa diffidenza nei confronti delle cose del fare artistico, create come oggetti di pura
contemplazione, e più precisamente una diffidenza riguardo alle loro obiettive possibilità di influire
sul mondo reale, o di fornire qualche utile chiave interpretativa che ispiri l’azione concreta. Se i
significati non possono essere dipinti né messi in musica, risulta vana e sciocca la pretesa di un
impegno per le arti, o per lo meno di quello stesso impegno che è invece alla portata della prosa e
del suo linguaggio transitivo.
Qual è la peculiarità della prosa e ciò che determina le sue preziose possibilità, il suo particolare
impegno?
«L’arte della prosa si esercita sul discorso, la sua materia è naturalmente significante: cioè, le
parole non sono soprattutto oggetti, ma designazioni di oggetti. Non si tratta di sapere,
innanzitutto, se piacciano o dispiacciano in sé, ma se designano correttamente una determinata
cosa del mondo o una certa nozione»3.
Quest’affermazione tanto categorica apre chiaramente diverse questioni: la questione se davvero per
Sartre l’elemento materiale delle parole in prosa è così irrilevante, se queste devono semplicemente
transitare verso un significato preciso e univoco per poi annullarsi, la questione anche della forma,
dello stile con cui esprimere questi significati precisi e dell’importanza che può avere il piacere
estetico in questa visione. Tuttavia, per ora preme sottolineare il carattere utilitario che il linguaggio
della prosa manifesta a questo punto per Sartre, in quanto è questo carattere che pone l’ulteriore
distinzione, e se è possibile ancor più controversa, tra prosa e poesia.
Il prosatore e il poeta hanno in comune il semplice gesto di tracciare delle lettere; per il resto, i loro
due ambiti di discorso rimangono radicalmente distinti e contrapposti. Avremo da un lato un uomo
che si serve delle parole, per designare, dimostrare, persuadere, interpellare o comandare; dall’altro,
un uomo che piuttosto, afferma Sartre, serve queste parole, il che significa che esse non valgono a
discernere il vero, a dare definizioni o in generale a trasportare verso un significato, ma rimangono
2
3
Ivi, p. 13.
Ivi, p. 21.
7
al contrario cose del mondo, da maneggiare e recepire in tutta la loro opacità. Esse conservano cioè
il loro “stato selvaggio”, e non vanno addomesticate come nel caso del linguaggio transitivo. Per il
prosatore in questo modo «le parole sono convenzioni utili, strumenti che si logorano a poco a poco
e che si gettano quando non servono più». Per il poeta invece «sono cose naturali che crescono
naturalmente sulla terra, come l’erba e gli alberi»4.
È come se il poeta scegliesse un atteggiamento “alla rovescia” nei confronti delle parole: non sono
per lui mezzi atti a prolungare la sua azione nel mondo, ad orientarsi, non sono cioè strumenti ma
anzitutto barriere o trappole per afferrare una realtà che continua a darsi come sfuggente, e che va
presentata tenendo conto della sonorità e perfino dell’aspetto visivo delle parole. Non le si sceglierà
quindi in primo luogo per la loro chiarezza di accezione, ma proprio per la loro ricca ambiguità e
per la loro somiglianza con l’aspetto del mondo che si vuole catturare, in virtù del loro statuto di
“immagini verbali” (ad esempio, dice Sartre, la parola usata dal poeta per presentare il salice o il
frassino non sarà necessariamente quella che anche noi utilizziamo per designare questi oggetti). In
questo modo, l’emozione che sta all’origine della poesia «è diventata cosa, ha ora l’opacità delle
cose; è offuscata dalle proprietà ambigue dei vocaboli dov’è stata rinchiusa. E, soprattutto, c’è
sempre molto di più, in ogni frase e in ogni verso; come c’è molto di più che una semplice angoscia
in quel cielo giallo sopra il Golgota»5.
Il punto da tener fermo è che dunque per Sartre la poesia è fuori dalla funzione transitiva delle
parole intese come segni, in quanto in poesia lo spessore fisico della parola non svanisce nel
momento in cui ci si muove in direzione del significato, ma resta invece sempre presente. Pertanto
non si può chiedere al poeta di impegnarsi nel senso di dare alla sua emozione originaria, che può
certamente essere anche un’emozione di indignazione sociale o una passione politica, una forma
determinata e precisa che provochi l’indignazione o l’entusiasmo politico nel lettore, dal momento
che siamo fuori dall’utilizzo quotidiano del linguaggio. Siamo di fronte a parole come cose, allo
sforzo singolo di istituire rapporti tra le cose caotiche del mondo per darvi essenzialità, e di
testimoniare, tramite il proprio fallimento, la disfatta umana in generale6.
Il problema che qui si apre non è chiaramente solo quello della possibilità o meno di un impegno in
poesia: il problema è più vasto, e riguarda esattamente l’apparente intransigenza con cui Sartre pone
la distinzione tra prosa e poesia in virtù della distinzione di due unici modi per intendere la parola:
come segno, mezzo per perseguire la realtà significata, o come realtà a sé stante, come oggetto.
4
Ivi, p. 16.
Ivi, p. 20.
6
«La poesia è «chi perde vince». E il poeta autentico sceglie di perdere fino alla morte, pur di vincere […] È il senso
profondo della sfortuna, della maledizione dalla quale si stente da sempre perseguitato e che attribuisce sempre a un
intervento esterno, mentre è la sua scelta più profonda, e non la conseguenza, bensì la fonte della sua poesia. Il poeta è
sicuro del fallimento totale dell’impresa umana e s’arrabatta per fallire nella sua esistenza personale, allo scopo di
testimoniare, attraverso la propria disfatta singola, la disfatta umana in generale». Ivi, p. 117.
5
8
Tuttavia, questa radicale distinzione tra poesia e prosa, che Sartre sostiene in Che cos’è la
letteratura?, andrebbe in realtà ridimensionata, in virtù sia di quanto Sartre stesso afferma di
seguito nel saggio, sia delle sue formulazioni teoriche sull’argomento contemporanee o di poco
successive, e sia infine sulle sue dichiarazioni riguardanti il suo personale modo di realizzare opere
in prosa. Si può vedere in questo modo come la parola non abbia una funzione così netta ed
esclusiva a seconda dell’ambito in cui è utilizzata, e come mantenga sempre il suo lato intransitivo e
il suo lato transitivo qualunque sia l’intenzione dell’autore.
Dopo aver appunto illustrato perché la poesia si distingue dalla prosa, e perché non si può
pretendere un impegno poetico, scrive in nota:
«Inutile dire che in ogni poesia è presente una certa forma di prosa, cioè di successo; e
reciprocamente la prosa più asciutta racchiude sempre un po’ di poesia, cioè una certa forma di
insuccesso: nessun prosatore, per quanto lucido, comprende totalmente ciò che vuole dire; dice
troppo o non abbastanza, ogni frase è una scommessa, un rischio assunto; più si va a tentoni, più la
parola diventa singolare; nessuno, come ha dimostrato Valéry, può capire una parola sino in fondo.
Così ogni parola è usata simultaneamente per il suo significato chiaro e sociale e per certe
risonanze oscure, direi quasi per la sua fisionomia»7.
Conviene soffermarsi su questa nota per evitare facili e fuorvianti manicheismi. Afferma Sartre che
è semplicemente per chiarezza espositiva che ha dovuto trattare i casi, per il resto impossibili, di
poesia pura e prosa pura. Un conto è quindi il significato che un autore vuole coscientemente
comunicare tramite delle parole, un altro è invece, come dire, la permanente ambiguità di queste nel
porsi al tempo stesso come oggetto e come segno. Chiaramente, un autore dovrà evitare di insistere
troppo sull’oscurità di un termine per non spezzare la compattezza e la coerenza della prosa, così
come non dovrà, nel caso della poesia, porsi nell’intenzione di spiegare o insegnare tramite parole.
Ma quanto preme a Sartre sottolineare è che, per quanto strumentale si voglia intendere il
linguaggio, e per quanto sia prioritaria in prosa la comunicazione di significati, l’elemento materiale
delle parole rimane e si configura per l’appunto come lo stile dell’autore.
L’importante è che lo stile rimanga sempre qualcosa di accessorio e secondario, nella creazione
letteraria, qualcosa addirittura che deve passare inosservato: l’idea deve sempre precedere la forma,
ciò che si ha da dire si configura come il valore primo della prosa, e non il modo che si sceglie per
dirlo. Scrive Sartre:
7
Ivi, p. 118.
9
«Poiché le parole sono trasparenti e lo sguardo le passa da parte a parte, sarebbe assurdo far
scivolare in mezzo dei vetri offuscati. La bellezza, in questo caso, è soltanto una forza dolce e
insensibile […] Nella prosa, il piacere estetico è puro soltanto se viene oltre il resto […] Si tratta,
insomma, di sapere su che cosa si vuol scrivere: sulle farfalle o la condizione degli ebrei»8.
Questo discorso, che esibisce inequivocabilmente l’insistenza di Sartre sul carattere morale della
scrittura, e allo stesso modo mostra una certa sua indifferenza per i caratteri più propriamente
estetici o letterari, non deve tuttavia apparire, di nuovo, come un atteggiamento intransigente da
parte dell’autore sul carattere puramente comunicativo delle parole, quasi si volesse svilire la
letteratura e ridurla ad una sorta di elenco di enunciati. L’autore stesso tornerà sulla questione dello
stile in una conversazione del 1975 con Michel Rybalka, distinguendo ulteriormente la scrittura
filosofica, in cui davvero è opportuno mirare solamente ai concetti, da quella letteraria, in cui lo
stile si configura come un’economia nel «costruire delle frasi in cui coesistano molteplici significati
e in cui le parole siano prese come allusioni, come oggetti piuttosto che come concetti […] Lo stile
è un certo rapporto con le parole, e rinvia a un senso che non si può ottenere per semplice addizione
di parole»9.
A tal proposito sarebbe anche utile ricordare la distinzione tra lingua tecnica e lingua comune, di
cui si avvale il letterato, che Sartre pone nell’ambito delle conferenze del 1965 sul ruolo
dell’intellettuale e della particolarità dello scrittore come intellettuale. Mentre infatti un tecnico che
ha qualcosa da dire cerca un linguaggio che contenga il massimo di informazione e il minimo di
disinformazione, lo scrittore sceglie al contrario la lingua comune, quella cioè che ha il massimo di
disinformazione, di non significante e non concettuale. La parola del prosatore ha così molta più
materialità di un simbolo matematico, che scompare davanti al significato: essa punta al significato
e al tempo stesso si impone come presenza. E questo sempre in virtù della “doppia faccia” delle
parole:
«Da un lato sono oggetti sacrificati: li si oltrepassa verso i loro significati, i quali, una volta
compresi, divengono schemi verbali polivalenti che possono esprimersi in cento modi diversi, cioè
con altre parole. Dall’altro, sono realtà materiali: in tal senso, hanno strutture oggettive che si
impongono e possono sempre affermarsi a spese dei significati. La parola «rana» o la parola «bue»
hanno figure sonore e visive: sono delle presenze. In quanto tali, contengono una parte importante
di non-sapere. Molto più che i simboli matematici. «La rana che vuol farsi grossa quanto il bue»
contiene, nel miscuglio inestricabile della sua materialità e del suo significato, molta maggiore
corporeità che «x → y». E non è malgrado questa pesantezza materiale, ma a causa di essa che lo
scrittore sceglie di usare il linguaggio comune. La sua arte, pur rilasciando un significato il più
8
Ivi, pp. 24-5.
M. RYBALKA, Una vita per la filosofia. Conversazione con Jean-Paul Sartre, trad. it. di L. Angelino, in «Segni e
comprensione», n. 55, Lecce 2005, p. 10.
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