Inpiù musica 30.10.2013

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EDITHPIAF
ILMITOFRANCESE
VIVEANCORA
la Voce
del popolo
musica
NEL CINQUANTESIMO DELLA SUA
MORTE (1915-1963) RICORDIAMO
LA LEGGENDARIA CANTAUTRICE
DAL CUORE GRANDE
E DAL TALENTO UNICO
www.edit.hr/lavoce
Anno 9 • n. 75
mercoledì, 30 ottobre 2013
TRADIZIONI
I GRANDI MAESTRI
PERSONAGGI
«Così Rovigno canta e prega a Dio»
di David di Paoli Paulovich
Giuseppe Verdi
lettere di un’epoca
«War requiem»
musica per tutti gli uomini
In uso nella Basilica di Sant’Eufemia pratiche
ed espressioni che si temevano perdute per sempre
Scopriamo un documento storico di inestimabile valore
che rievoca l’Italia ottocentesca dei teatri e della lirica
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La composizione di Benjamin Britten è una specie
di meditazione per chi ha visto la morte in faccia
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mercoledì, 30 ottobre 2013
musica
la Voce
del popolo
TRADIZIONI
SCRIGNOPREZIOSO DI LIT
C
i sono voluti due decenni di
minuziose e meticolose ricerche per
ricostruire la tradizione musicale
religiosa di Rovigno, città esempio di
cattolicità per tutta l’Istria, parrocchia
modello mai eguagliata, raccogliendo in
un unico luogo – a stampa – i tantissimi
documenti inediti sparsi in vari archivi
e le testimonianze orali, un patrimonio
culturale che il dramma dell’esodo aveva
disgregato e frammentato. Parliamo di “Così
Rovigno canta e prega a Dio. La grande
tradizione religiosa, liturgica e musicale
di Rovigno d’Istria” (Centro di Ricerche
storiche, Collana degli Atti, Extra serie, vol.
VII, Rovigno 2011), 1.200 pagine, un’opera
ponderosa dal valore inestimabile, che
sorprende per la sua compiutezza. Uno
sforzo che quest’anno è valso all’autore, il
musicista e studioso triestino David Di Paoli
Paulovich, il primo premio assoluto “Gen.
Loris Tanzella”, assegnato dall’Associazione
Nazionale Venezia Giulia e Dalmazia –
Comitato di Verona.
Il capillare lavoro svolto dall’autore ha una
duplice portata, in quanto da una parte
salva la tradizione che si era sviluppata nel
corso dei secoli, dall’altra parte restituisce
a Rovigno il ruolo che ha da sempre avuto
in Istria quale scrigno di cultura liturgica
e musicale di matrice veneto-aquileiese;
una cultura documentata anche attraverso
la ricchissima silloge di canti liturgici e
religiosi trascritti dal Di Paoli Paulovich
dalla viva prassi della tradizione orale,
così come fotografata a cavallo della
metà del XIX secolo sino alla metà del XX
secolo, in massima parte inediti o del tutto
inaccessibili.
Testimonianza di profonda religiosità
La religiosità degli abitanti di Rovigno, che
affonda in una fede bimillenaria, fa parte
dell’identità stessa dell’essere rovignese. E
questo volume è anche una vera miniera
di notizie e testimonianze relative alla
religiosità popolare e al folklore. Non
mancano infatti cenni sulle problematiche
origini della Chiesa rovignese, forse erede
per breve tempo della sede diocesana di
Cissa, da cui sarebbe giunto il corpo di
Sant’Eufemia secondo la tradizione narrata
in un codice membranaceo scritto e miniato
tra il XIV e il XV secolo. Rovigno può vantare
una parrocchia importante, dotata di un
capitolo collegiale concesso da Alessandro
III con bolla del 5 aprile 1178, purtroppo
perduta. Nel 1747 essa fu decorata del titolo
e dei privilegi di “Insigne Chiesa Collegiata”
dal vescovo di Parenzo Gaspare de Nigris.
La religiosità dei rovignesi era comune a
quella delle altre cittadine istriane, erede
della tradizione tridentina dai fastosi risvolti
barocchi e associata a una forte religiosità
popolare scandita dai tempi dell’anno
liturgico.
Di Paoli Paulovich riserva in apertura due
bei capitoli a questo aspetto della sua
tematica, elencando e descrivendo tutti gli
edifici di culto – compresa la loro storia e
destini –, gli aspetti liturigico-rituali legati
all’officiatura negli stessi, riferimenti sugli
arredi liturgici, piccole curiosità e racconti
resi da altri. Viene così messa in evidenza
la grandissima e variegata offerta culturale
rovignese. Particolare attenzione viene
riservata, com’è logico aspettarsi, alla
parrocchiale di Sant’Eufemia, iniziata nel
1725 su progetto dell’architetto veneziano
Giovanni Dozzi al posto dell’antica chiesa
alto-medievale e forse anche paleocristiana
attestata purtroppo solo da un pilastrino di
recinzione presbiteriale tuttora visibile sul
fianco destro della nuova costruzione, che
si presenta come il piu grande e splendido
esempio di architettura sacra barocca
costruito sulla penisola istriana, dopo la
cattedrale di Capodistria.
Le melodie trascritte dall’autore
appartengono a quel genere di canto
liturgico proprio dell’Istria e del Quarnero,
detto canto patriarchino, termine che indica
forme particolari di canto fermo, spesso
caricate di una spontanea polifonizzazione
e solitamente tramandate per trasmissione
orale: si tratterebbe del canto sopravvissuto
alla soppressione del rito aquileiese per
opera del patriarca Francesco Barbaro nel
1596. Anche nel patriarcato di Venezia,
erede del patriarcato di Grado dal 1451, il
rito patriarchino, nonostante l’abbandono
formale, sopravvisse per consuetudine nella
Basilica di San Marco sino al 1807.
La decadenza e la scomparsa degli usi
patriarchini e tradizionali a Rovigno furono
dovuti anche a un altro fattore, come
spiega Di Paoli Paulovich: il fenomeno
del cosiddetto movimento ceciliano – così
chiamato in onore di Santa Cecilia, patrona
della musica –, esploso dopo la seconda
metà dell’Ottocento con l’intenzione di
disciplinare, sotto le direttive impartite
dalla Santa Sede, specie dopo il Motu
proprio di Pio X, “Inter sollicitudines”
(1903), la struttura compositiva e le
modalità di esecuzione della musica per la
liturgia. Era una risposta alla quasi totale
centenaria assenza del canto gregoriano
e della polifonia rinascimentale dalle
celebrazioni liturgiche cattoliche a favore di
«COSÌ ROVIGNO CANTA E PREGA A DIO», DI DAVID DI
PAOLI PAULOVICH (CENTRO DI RICERCHE STORICHE DI
ROVIGNO, EXTRA SERIE, COLLANA DEGLI ATTI, VOL. VII,
2011), RECUPERA E TRASCRIVE PRATICHE ED ESPRESSIONI
CHE SI TEMEVANO PERDUTE PER SEMPRE – IL CANTO
POLIFONICO E DEL REPERTORIO SACRO IN LINGUA
VOLGARE – IN USO NELLA BASILICA DI SANT’EUFEMIA
|| La Chiesa di Sant’Eufemia a Rovigno
musica
la Voce
del popolo
mercoledì, 30 ottobre 2013
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a cura di Ilaria Rocchi
ITURGIAEMUSICA
stili più simili alla musica operistica.
Per i territori dell’antico patriarcato di
Aquileia, dove vigeva l’uso del canto
patriarchino di tradizione orale a fianco di
un raro e limitato uso del canto gregoriano,
quelli furono anni di “riforma coatta” e di
“devastazione del patrimonio patriarchino”:
a Rovigno fu eliminata tutta l’ufficiatura dei
defunti e quella vespertina, e fu introdotto
il canto gregoriano rimesso in luce dai
Benedettini francesi. L’obiettivo primario da
perseguirsi era l’uniformità liturgico-musicale,
mentre l’opinione dominante nelle alte sfere
vaticane sul canto patriarchino doveva essere
che si trattasse soltanto di corruzioni popolari
del canto gregoriano. Quest’ultimi, del resto,
era considerato di arduo apprendimento e
noioso, e cominciava a essere ritenuto il canto
povero delle liturgie solenni, ma gli influssi
avversi alla tradizione rovignese sarebbero
forse stati respinti se non fosse intervenuto
l’esodo, deleterio anche per il culto. Tuttavia,
alla tradizione rovignese avrebbe dovuto
soccombere comunque di fronte al nuovo
corso musicale del postconcilio.
Antologia delle officiature
Dalle chiese e dall’analisi della tradizione
musicale, delle realtà corali e strumentali,
degli organi e delle sue chiese, si passa alle
officiature di Rovigno. La Messa, ricorda
l’autore, poteva essere letta (messa privata),
cantata (“messa granda”), solenne (“messa
in terza”), che era la forma piu completa dal
punto di vista cerimoniale con l’assistenza di
diacono e suddiacono. Nelle grandi solennità,
il Preposito del Capitolo celebrava la messa
in rito pontificale con diacono e suddiacono
e con l’assistenza di due presbiteri in piviale,
detti ciascuno presbyter assistens. Era costume
che, durante le messe lette, fossero inseriti
canti anche in lingua volgare: di fatto, era una
delle poche forme di partecipazione esterna
riservate ai fedeli. Di questi canti eseguiti
nella Collegiata, il libro propone una ricca
antologia tratta da un florilegio compilato
da Nina Viscovich. La messa cantata era
invece preceduta – e non solo a Rovigno –,
dall’aspersione con l’acqua benedetta a fini
purificatori e al canto dell’Asperges me Domine
o, in tempo pasquale, del Vidi aquam.
La domenica veniva convenientemente
santificata col canto del Vespro nel
pomeriggio, tradizione, questa, abbandonata
dopo il 1930, quando il parroco mons.
Bartolomeo Codemo introdusse i toni
gregoriani a discapito di quelli patriarchini “in
un’ossessione livellatrice e unificatrice”, senza
attenzione per la tradizione canora rovignese,
osservò all’epoca mons. Domenico Giuricin.
Il Vespro di Rovigno viene riprodotto nelle
forme originali e anteriori al 1930.
Il calendario dei momenti più intensi
Altro momento forte era costituito dalla
liturgia dei defunti, che occupava largo
spazio nel rito romano antico. Nella festa di
Ognissanti, che precede la commemorazione
dei defunti, il Duomo era parato a lutto
col catafalco (castrum doloris) a più piani,
gravido di simboli mortuari e rischiarato da
candelabri e lumi, usato per il rito suggestivo
dell’assoluzione nell’ottavario dei defunti.
Si considerano poi i tempi dell’anno
liturgico secondo le antiche tradizioni della
Collegiata di Sant’Eufemia, partendo dal
tempo di Avvento, vissuto come tempo di
penitenza ma altresi di gioiosa trepidazione
nell’attesa del mistero dell’Incarnazione.
Ad esso seguiva il tempo di Natale con la
celebrazione della vigilia e delle tre messe
nel giorno della festività e con i vesperi
solenni, frequentatissimi, cantati a furor di
popolo nei toni patriarchini.
Ma non mancavano a Rovigno anche le
laudi natalizie, dette dal popolo Verbum
caro e intonate fra i muri delle case o nelle
calli. Nella vigilia dell’Epifania il suono
delle campane annunciava la benedizione
dell’acqua. Il giorno seguente, alla messa
principale, erano annunciate in canto
(Noveritis) la Pasqua e le feste mobili secondo
una formula e una melodia gregoriana
assai simile a quella del preconio del Sabato
Santo. Dopo il martedi grasso, era la volta
della Quaresima, mentre la domenica di
Passione aggiungeva alle chiese un ulteriore
segno penitenziale con l’avvolgere di un
velo violaceo tutte le croci e le immagini
sacre. Uno dei riti più suggestivi, radicati e
antichi della Settimana Santa era l’ufficio del
Mattutino delle tenebre (oficium tenebrarum),
che cominciava la sera del mercoledì, conclusa
l’adorazione delle Quarant’ore, e continuava
il giovedì e il venerdì: l’ufficiatura consisteva
nella preghiera in canto delle ore canoniche
del Mattutino e delle Lodi, mentre nel
presbiterio era posto un candeliere ligneo di
forma triangolare con quindici candele accese
da spegnere alla conclusione di ciascun salmo.
La tradizionale processione del Venerdì
Santo, in cui sfilavano il capitolo e le
numerose confraternite, era profondamente
radicata a Rovigno, come nel resto dell’Istria
costiera. La domenica di Pasqua, il giubileo
si manifestava in Sant’Eufemia anche con la
celebrazione della messa in forma pontificale.
Il tempo pasquale era segnato dalla domenica
in albis dopo l’ottava di Pasqua, in cui era
consuetudine portare la comunione agli
infermi; dalla festa di San Giorgio, primo
patrono di Rovigno e dalla festa di San
Marco, con messa solenne preceduta dalla
processione delle Rogazioni Maggiori, l’ultima
delle quali si volse all’interno della chiesa nel
1946. La devozione mariana si mantenne
fino agli anni Sessanta, quando l’introduzione
della messa vespertina con la riforma liturgica
fece venir meno le pratiche usuali. Il giovedì
successivo alla SS. Trinità si celebrava la festa
del Corpus Domini, con la processione serale
dopo il canto solenne del vespero nei toni
patriarchini; lungo il percorso erano eretti
quattro altari, dove il corteo si arrestava e,
proclamato il principio di ciascuno dei quattro
Vangeli, veniva impartita la benedizione
eucaristica.
Interessante anche il bacio delle croci astili
inghirlandate, che avveniva quando la
processione proveniente da Rovigno si fosse
incontrata con quella di Villa di Rovigno in un
simbolico abbraccio fra le comunità. Gli ultimi
due capitoli sono dedicati al culto tributato
dai Rovignesi alla Santa patrona della città,
rievocando le solenni festività del luglio
1900 per l’XI centenario del suo prodigioso
approdo attraverso le testimonianze dei
contemporanei. Chiude il volume una
bibliografia d’interesse sacro su Rovigno.
A Di Paoli Paulovich va riconosciuto senza
ombra di dubbio il merito di aver saputo
recuperare l’eredità spirituale rovignese – ma
non solo, si vedano a esempio i suoi lavori
più recenti su Piemonte d’Istria e Pedena –
che rischiava di scomparire, e soprattutto
di avercela restituita in un’intrigante sintesi
delle molteplici e plurisecolari esperienze
musicali sacre, laddove il lascito della
tradizione veneto-aquileiese si è fuso con
la sensibilità comune, quotidiana, insita
nell’animo degli abitanti del posto. “Non si
potrebbe comprendere la bellezza vivida,
smagliante e al contempo serena di Rovigno,
che sprizza viva dalle antiche pietre che
anelano, tra calìte e calisièle, come in un
vortice di colori al Duomo di Sant’Eufemia,
senza intuire come quel ‘bello’ sia anche
il riflesso meditato e vissuto di tanta bella
umanità che visse nella città istriana, educata
fin dall’infanzia soprattutto ad elevare
coralmente lo spirito nella bellezza delle
cerimonie liturgiche, compenetrate di tanta
musica sacra”, afferma Di Paoli Paulovich.
“Oggi, rispetto a ieri, solo i rintocchi del
campanile di Sant’Eufemia suonano eguali.
Ma ‘la misaricuòrdia da Deîo la si grànda’,
per usare un’espressione rovignese. Ciò che
è nobile, bello e fruttuoso deve continuare.
Continuità. Voglia questa fatica riporre nella
sua sede l’anello mancante in quella ch’è una
grande frattura dell’identità vera e autentica
di Rovigno, e che la distingue dalle altre città
istriane. E, soprattutto vogliano i Rovignesi di
ieri e quelli di oggi, autoctoni rimasti e nuovi
abitanti che la Provvidenza ebbe a destinare
a questi luoghi, riappropriarsi, gustare e
scoprire tanta nobile eredità, vivendola quale
dono”, conclude lo studioso. Amen.
|| David Di Paoli Paulovich
Attento studioso del canto liturgico
David Di Paoli Paulovich, nato a Trieste, per parte paterna di antica famiglia istriana
e per parte materna di antica famiglia toscana, dopo gli studi liceali classici, ha
conseguito presso il Conservatorio “Giuseppe Tartini” di Trieste il diploma di
Composizione. Ha conseguito anche il diploma di Musica Corale e Direzione di
coro. All’attività compositiva affianca quella musicologica, di ricerca e di direzione
corale. Inoltre, è laureato in Giurisprudenza e dal 2001 è magistrato onorario
presso il Tribunale di Trieste.
Già relatore presso la Fondazione Ugo e Olga Levi di Venezia, collabora con il Centro
di Ricerche storiche di Rovigno; è socio della Società degli Studi Fiumani di Roma e
della Società di Studi Storici e Geografici di Pirano ed è iscritto alla Società Italiana
degli Autori ed Editori.
Come compositore, ha al suo attivo una copiosa produzione, comprendente: musica
vocale sacra (circa 50 opere, perlopiù a cappella o con organo); musica vocale
profana; musica strumentale (circa 50 composizioni, per pianoforte, per altri
strumenti solisti, per diversi organici da camera, per strumento solista e orchestra);
numerose le trascrizioni.
Il campo d’interesse della sua opera di ricerca comprende soprattutto il settore
musicale sacro, in particolare tematiche musicologiche dell’area adriatica orientale
e del canto liturgico patriarchino di tradizione orale. È autore di diverse monografie
sulla musica sacra, tra cui varie pubblicazioni dedicate all’antico canto liturgico
(specie patriarchino) dell’Istria, del Quarnero e della Dalmazia dell’area venetoadriatica e una trentina di articoli e saggi usciti in diverse opere collettanee.
|| In copertina, il trasferimento dell’arca di Sant’Eufemia nella chiesa di S. Giorgio sulla sommità del mons. Albanus il 13 luglio 800
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del popolo
del popolo
mercoledì, 30 ottobre 2013
I GRANDI MAESTRI
a cura di Patrizia Venucci Merdžo
VERDI,LETTEREDIUN’EPOCA
P
ubblicata per la prima volta nel
1941, divulgata nella Bur nel
1951 a cura di Aldo Oberdorfer,
l’Autobiografia dalle lettere è ricomparsa
in occasione del centenario della morte di
Giuseppe Verdi. Un documento storico
di inestimabile valore, non solo dal punto
di vista della sua originalità e rigorosità,
ma più semplicemente per la capacità di
rievocare, in un grande affresco storico,
l’Italia ottocentesca dei teatri, della
lirica e delle prime grandi case musicali.
Verdi racconta Verdi, dischiude al suo
pubblico, all’appassionato di lirica o a
chiunque abbia voglia di ascoltarlo, le
sue passioni più segrete, i moti più intimi
dell’animo, gli amori, le delusioni, le
battaglie, i ricordi, la dirompente passione
per la musica, ma anche l’aspetto più
quotidiano, prosaico della vita. Una
vasta galleria di personaggi sfila davanti
a noi: Giuseppina Strepponi, la seconda
compagna di vita, il leggendario ambiente
di Casa Ricordi, i fratelli Escudier suoi
editori parigini, la contessa Clara Maffei,
anima dei salotti intellettuali e patriottici
dell’aristocrazia meneghina.
Affascinante documento di un’epoca
Grazie all’intelligente e accurato lavoro
di Oberdorfer, quest’opera non corre
il rischio di trasformarsi in una banale
antologia di lettere, al contrario può
vantarsi di essere uno dei testi “storici”
della letteratura verdiana che – da più di
un secolo ormai – è la storia stessa del
nostro modo di concepire musica, teatro e
teatro in musica. In questa ottica, il Verdi
di Oberdorfer costituisce l’affascinante
documento di un’epoca, di un costume
letterario, di un gusto.
«Io son proprio nato nel ‘13»
“Sapete? Io son proprio nato nel ‘13 e
da pochi giorni ho compiuto i 63 anni,
mia madre mi aveva sempre detto che io
ero nato nel ‘14 ed io naturalmente ho
creduto ed ho ingannato tutti quelli che
mi domandavano de’ miei anni” (a Clara
Maffei, 14 ottobre 1876); “Lei sa che a
momenti siamo a San Michele ed io non
ho ancora trovato la casa perché ci vuole
l’affitto anticipato. Io non l’ho e ricorro a
Lei... Spiacemi il doverlo tediare ora che
so in che spese sia per altri. Se potessi fare
a meno (lo giuro), lo farei” (al suocero,
4 settembre 1839); “Con quest’opera si
può dire veramente che ebbe principio la
mia carriera artistica; e se dovetti lottare
contro tante contrarietà, è certo però
che il Nabucco nacque sotto una stella
favorevole...” (a Giulio Ricordi, 19
ottobre 1879); “Sto strabenone e presto
presto vengo a sentire gli interrotti aneddoti
del comune nostro amico... Si mangiano
o non si mangiano questi maccheroni? Io
desidero innapoletanarmi a Milano” (a
Giuseppina Appiani, 1843).
Le mille sfaccettature del maestro
La raccolta è stata divisa in nove capitoli:
“Fino al Nabucco”, “Le amiche”, “Gli
amici”, “Sant’Agata”, “Patriottismo,
politica e censura”, “Libretti,
librettisti e interpreti”, “Gli affari”,
“Torniamo all’antico” e “Inventare
il vero”. Affiorano episodi, circostanze,
fatti cristallizzati in forme cementate dal
sentimento o risentimento; talvolta si
nota un Verdi spensierato, un po’ frivolo,
“così poco verdiano”, come appare in certi
biglietti inviati a Giuseppina Appiani;
oppure un Verdi molto rispettoso, ma
estremamente cordiale, come nelle
lettere a donna Emilia Morosini, madre
del patriota Emilio; dalle lettere invece
di Giuseppina Strepponi l’intimità del
maestro n’è meglio illuminata.
Grande ammiratore di Manzoni
Fra gli amici, un posto preminente spetta
ad Antonio Barezzi; ma l’ammirazione del
|| Sopra e nella pagina accanto, alcune delle lettere scritte dal maestro
maestro è per Manzoni: “Cosa potrei dirvi
di Manzoni? Come spiegarvi la sensazione
dolcissima, indefinibile, nuova, prodotta in
me alla presenza di quel santo, come voi lo
chiamate? Io me gli sarei posto in ginocchio
dinnanzi, se si potessero adorare gli
uomini” (alla contessa Maffei, 7 luglio
1868); “Sono profondamente addolorato
della morte del nostro Grande. Ma io non
verrò domani a Milano chè non avrei cuore
d’assistere ai suoi funerali. Verrò fra breve
per visitarne la tomba, solo e senza essere
visto” (alla contessa Maffei, 23 maggio
1873); “Non mi si devono ringraziamenti
né da Lei né dalla Giunta per l’offerta
di scrivere una Messa funebre per
l’anniversario di Manzoni. È un impulso,
o dirò meglio un bisogno del cuore, che mi
spinge ad onorare, per quanto posso, questo
Grande che ho tanto stimato come scrittore
e venerato come uomo, modello di virtù e di
patriottismo” (al sindaco di Milano, 9
giugno 1873).
La confidente dei sentimenti più intimi
La campagna di sant’Agata Busseto è la
confidente dei sentimenti più intimi del
maestro: “Sono in piena fabbrica. Mi alzo
la Voce
musica
del popolo
mercoledì, 30 ottobre 2013
PUBBLICATE PER LA PRIMA VOLTA NEL 1941 E CURATE
DIECI ANNI DOPO DA ALDO OBERDORFER, LE LETTERE
SCRITTE DAL GRANDE MAESTRO SONO UN DOCUMENTO
STORICO DI INESTIMABILE VALORE CHE RIEVOCANO
L’ITALIA OTTOCENTESCA DEI TEATRI E DELLA LIRICA
alle cinque, vado alla muta delle quaglie:
sparo qualche fucilata alle quaglie che non
sono tanto imbecilli d’andare nella rete”
(ad Angelo Mariani, 26 agosto 1860);
“Ella avrà sentito degli scioperi nelle nostre
campagne. Sien grazie al nostro Governo
Riparatore! Ha lasciato predicar tanto ed
ha acceso così un incendio, che difficilmente
potrà spegnere” (alla contessa
Giuseppina Negroni Prati Morosini,
7 ottobre 1880).
Politica e patriottismo
Interessanti anche certi atteggiamenti
politici e patriottici: “Qui arrivano
diplomatici italiani da tutte le parti:
anche ieri Tommaseo; oggi Picciotti. Non
riusciranno a nulla; pare impossibile
che sperino ancora nella Francia. In
una parola: la Francia non vuole l’Italia
nazione” (a Giuseppina Appiani, 24
agosto 1848, da Parigi); “Finalmente se
ne sono andati! (gli austriaci) O almeno
si sono allontanati e voglia la nostra
buona stella allontanarli di più in più. E
chi avrebbe creduto tanta generosità nei
nostri alleati? Per me confesso e dico: “mea
grandissima culpa” che io non credeva
alla venuta dei Francesi in Italia” (alla
contessa Maffei, 23 giugno 1859);
“Invece di cantare un inno di gloria,
parrebbemi più conveniente oggi innalzare
un lamento sulle eterne sventure del nostro
paese... E dov’è dunque la tanto sospirata
e promessa indipendenza d’Italia? Cosa
significa il proclama di Milano? O che la
Venezia non è Italia? Dopo tanta vittoria
quale risultato! Quanto sangue per nulla”
(alla contessa Maffei, 14 luglio 1859).
«La mia vita pubblica non esiste»
“Tu mi domandi notizie e documenti sulla
mia vita pubblica? La mia vita pubblica
non esiste. Sono deputato, è vero, ma fu
per sbaglio” (a Piave, 8 febbraio 1865);
“Io sono rattristato dagli avvenimenti
della guerra e deploro i mali di Francia
e temo un avvenire terribile per noi...
Per me avrei amato dal nostro Governo
una politica più generosa ed avrei voluto
che si pagasse un debito di riconoscenza”
(al conte Arrivabene, 13 settembre
1870); “Ma adesso tutti muoiono! Tutti!
Ora il Papa! Povero Papa. Certamente io
non sono per il Papa del Sillabo, ma sono
per il Papa dell’amnistia e del Benedite
Gran Dio l’Italia... Senza di questo, chi
sa cosa saressimo ora... Un governo di
preti! L’anarchia probabilmente e lo
smembramento” (alla contessa Maffei,
12 febbraio 1878).
Nessun compromesso
Né meno interessanti sono certi giudizi
su libretti, librettisti e interpreti. “Il duello
tra Aida e Radamès è bellissimo nella parte
cantabile e manca, secondo me, di sviluppo
e di evidenza nella parte scenica. Io avrei
preferito nel principio un recitativo... E
perché in questo cantabile ha Ella cambiato
metro, dicendo quasi le stesse cose? Era
forse meglio ripetere le prime strofe” (al
Ghislanzoni, 30 settemre 1870); “Voi
nel tracciare Falstaff avete mai pensato
alla cifra enorme dei miei anni? So bene
che mi risponderete, esagerando lo stato
di mia salute, buono, ottimo, robusto...
E sia pur così; ciò malgrado converrete
meco che potrei essere tacciato di grande
temerità nell’assumermi tanto incarico”
(ad Arrigo Boito, 7 luglio 1889); “Io
domando semplicemente di essere padrone
della roba mia e di non rovinare nissuno.
Ed aggiungo, se si potesse farmi il dilemma:
o accettate queste condizioni od abbruciate
lo spartito, io preparerei subito il fuoco e
porrei io stesso sul rogo Falstaff e la sua
pancia” (a Giulio Ricordi, autunno
1892).
Un accenno agli affari
Non mancano nemmeno lettere con
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Verdi, il ribelle
Come Verdi tiene all’osservanza dei
contratti e dei patti e si ribella a ogni
tentativo di sfruttare la sua persona a
scopi di pubblicità, così espone le sue idee
in fatto di musica: “Torniamo all’antico:
sarà un progresso” (a Francesco
Florimo, 5 gennaio 1871); “Studi sulle
composizioni antiche sacre e profane.
Bisogna però osservare che anche fra gli
antichi non tutto è bello; quindi bisogna
scegliere. Nissuno studio sui moderni! Ciò
parrà a molti strano; ma quando sento e
vedo in oggi tante opere fatte come i cattivi
sarti fanno i vestiti sopra un “patron”,
io non posso cambiare opinione” (al
senatore Giuseppe Piroli, 20 febbraio
1871).
Le «ossa da morto»
notizie relative agli affari: “Non posso
accettare la somma che la S. V. mi offre
nella lettera dell’1 corr. Calcolata la messa
in scena dei Lombardi, la spesa del libretto,
le spese di viaggio e dell’alloggio in Venezia,
io verrei ad intascare per l’opera nuova
(Ernani) molto meno di quello che ho avuto
per i Lombardi, somma della quale non mi
contenterei per l’anno venturo” (al conte
Mocenigo, 3 maggio 1843).
«Come voglio io e come piace a me»
“Passerò sotto silenzio un monte di cose
della tua lettera; non dirò nulla di alcuni
frizzi e punture che a te piace lanciarmi...
non t’ho mai dato il diritto di giudicarmi
per un uomo debole, per un da nulla,
per un imbecille, che si lascia influenzare
da chichessia. Sappia il signor Ricordi
che io sono solito, o bene o male, fare
le cose di mia testa, come voglio io e
come piace a me” (a Tito Ricordi, 25
novembre 1855); “Io farò scrupolosamente
il dovere che mi sono imposto; ma gli
altri dovranno adempiere a tutti i patti
contratti!!!” (a Cesare De Sanctis, 7
ottobre 1872); “Scusate: ma tutti avete
agito senza energia! Spieghiamoci: 1)
Io ho il diritto che le mie opere, come da
contratti, vengano eseguite come le ho
scritte; 2) l’Editore deve mantenere tale
diritto, e se in Francia, come voi diceste,
non ha abbastanza autorità, subentro io
come autore e domando che Falstaff venga
eseguito come io l’ho immaginato” (a
Giulio Ricordi, 9 giugno 1894).
“L’epoca attuale parla, si dimena, si
affacenda molto, produce poco e tende a
fabbricarsi una musica nuova con della
cipria e delle ‘ossa da morto’” (a Tito
Ricordi, 22 ottobre 1862); “Per me gli
augurerei (a Rossini) di disimparare la
musica e scrivere un altro Barbiere” (al
conte Arrivabene, 3 aprile 1864);
“Il dilettantismo (fatale sempre in tutte
le arti) per ismania di novità e per
moda corre dietro al vago, allo strano ed
affettando entusiasmi va ad annoiarsi
ad una musica straniera ch’egli chiama
classica” (alla contessa Maffei, 17
dicembre 1884); “Copiare il vero può
essere una buona cosa, ma inventare il
vero è meglio, molto meglio... copiare il
vero è una bella cosa, ma è una fotografia,
non pittura” (alla contessa Maffei,
20 settembre 1876); “Ho ricevuto il
diploma, che mi nomina Commendatore
della Corona d’Italia. Quest’ordine è stato
istituito per onorare coloro che giovarono
sia con le armi, sia con le lettere, scienze
ed arti all’Italia. Una lettera a Rossini
della E. V. benché ignorante in musica
(come Ella stessa lo dice e lo crede)
sentenzia che da quarant’anni non si è
fatta più un’opera in Italia. Perché allora
si manda a me questa decorazione? Vi è
certamente un equivoco nell’indirizzo e la
rimando” (al ministro Broglio, maggio
1868).
L’importanza dell’epistolario verdiano
Dopo questa panoramica, è facile capire
l’importanza dell’epistolario verdiano per
conoscere bene il grande maestro.
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mercoledì, 30 ottobre 2013
musica
la Voce
del popolo
EDITHPIAFL’IMMENSA
LADIVINA
LEGGENDE
di Sandro Damiani
“U
ne vie de merde”:
indubbiamente, anche se nella
signorile lingua francese,
l’espressione è ben poco elegante. È, però,
la prima che viene in mente ripensando
alla vita della grande e carismatica Edith
Piaf.
Davanti al microfono un’altra... cosa
Dalla nascita alla morte (1963) è stato
tutto un inciampare in disgrazie, malattie,
sofferenze, guai... Eppure, o forse proprio
per questo, davanti a un microfono
diventava un’altra “cosa”. Non solo a lei
riusciva di estraniarsi da un’esistenza
maledetta, ma metteva l’uditorio nelle
condizioni di sognare i mondi più belli
di questo... mondo!? E viene alla mente
un’altra immensa artista, l’afroamericana
Billie Holiday. A suo modo ci potremmo
affiancare anche Marlene Dietrich, se
non fosse che a differenza di Edith e
Billie, la Dietrich aveva una robusta
preparazione, un background di buone
letture e amicizie intellettualmente di
peso e (di conseguenza) anche capacità
intellettive e spirito inimmaginabili rispetto
alle due artiste, immense, ma anche
immensamente ignoranti, quasi analfabete
e talmente sbattute dalla vita fin dalla più
tenera infanzia da restarne pesantemente
condizionate – anche e soprattutto – nelle
scelte umane successive. Professionali, no,
perché trattandosi di due “macchinette”
cacasoldi, discografici manager e impresari
avevano tutto l’interesse ad assecondarne
le intuizioni ed i gusti in tema, appunto, di
musiche (e testi) da incidere o eseguire nei
concerti.
Edith Piaf, dunque.
«Piaf. Un mito francese»
|| Con l’amica Marlene Dietrich il giorno del matrimonio
La leggenda vuole che sia nata sotto un
lampione del centro parigino, in quanto
i genitori non avrebbero fatto in tempo a
raggiungere un ospedale; e che al parto
fosse presente un flick. Dico “leggenda”,
perché recentemente è uscito un libro,
“Piaf. Un mito francese” del giornalista
Robert Belleret, nel quale si afferma che
Edith, nacque invece nel reparto maternità
di un nosocomio. E che – sempre a
proposito del processo di demolizione
delle “leggende” relative alla sua vita –
non sarebbe affatto vero che durante la
Resistenza lei collaborasse con i maquis,
bensì che cantasse nei bordelli frequentati
da nazisti e militari di Vichy. Mah!?
Viviamo in tempi in cui chi urla di più e le
spara più grosse, se non sempre riesce ad
avere ragione, comunque riesce a vendere
la propria mercanzia... Oddio, nulla si può
escludere, visto che informazioni su quel
periodo della vita della Piaf non è che
ve ne siano; epperò... epperò, non credo
che i suoi amici – di quegli anni e del
dopoguerra – artisti, scrittori, intellettuali
rigorosamente di sinistra, le avrebbero
perdonato le frequentazioni di cui scrive il
Belleret. Figuriamoci poi se avrebbe potuto
godere dell’amicizia (e, pare, qualcosa
di più) di una Dietrich che il nazismo
lo aveva combattuto – vero! – a suon di
canzoni, ma in mezza Europa occupata al
seguito delle truppe Alleate.
Infanzia infelice
Dicevamo dianzi dell’infelice infanzia di
Edith. Beh, con un padre saltimbanco
e una madre (livornese, deh!) cantante
di strada, genitori tra tutt’e due, di una
ventina di figli avuti in precedenza con
vari partner, non è che potesse averne una
migliore. Inoltre, la madre l’abbandonò
ben presto e il padre, resosi conto di non
poterla trascinare ogni sera in strada a
farle da controcanto ai suoi contorsionismi
per un piatto di minestra (lei, al contrario,
quando diciassettenne diverrà mamma
– sposata a un quasi coetaneo Marcel
Doupont –, non avrà l’intelligenza di papà
Louis Alphone Gassion, e la piccina se la
musica
la Voce
del popolo
mercoledì, 30 ottobre 2013
|| Carisma indiscutibile
7
|| Theo Sarapo le rimase accanto fino alla fine
persona sana. Anzi, di avere acciacchi e
mali tremendi (come l’artrite reumatoide),
che la costringono a frequenti viavai con
gli ospedali, a massicce dosi di morfina
e oppiacei vari per lenire i dolori, che ne
rendono impossibile la frequentazione e la
rimbambiniscono.
Questione di... corde
Frattanto, il mondo la ama sempre di più.
Per la particolarità delle canzoni, certo:
musiche splendide, parole che si stampano
nella memoria dell’ascoltatore e che
ognuno sente come se gli appartenessero,
ma prima di tutto grazie ad una voce
e a un modo di porgerla che la musica
popolare – europea e americana – non
hanno mai conosciuto. A onor del vero, se
gli States di quegli anni non fossero stati
una insultante e vergognosa realtà umana
e culturale razzista, probabilmente, benché
cantasse jazz (trasformandolo in blues),
Billie Holliday sarebbe stata irragiungibile,
ma tant’è... A proposito, chissà cosa
pensasse della musica jazz, Edith; della
Holiday, di Ella, Sarah, Dinah, del blues di
Bessie Smith, Ma Rayney, Alberta Hunter...
A occhio e croce viene il sospetto che
non lo amasse. Questione di “corde” e di
feeling. Ma anche di abitus mentale.
|| Sul palco si trasformava
NEL CINQUANTESIMO DELLA SUA MORTE, RIEVOCHIAMO
IL MITO FRANCESE, PICCOLA DONNA DAL CUORE GRANDE
E DI INDISCUTIBILE TALENTO CHE SFIDÒ CON CORAGGIO
UNA VITA DI CONTINUE DISGRAZIE, GUAI E SOFFERENZE
porterà appresso, divenenendo concausa
della sua morte a poco più di due anni),
l’affiderà alla propria nonna, tenutaria di
un bordello... Di bene in meglio. Bisogna,
comunque, aggiungere che qui godrà
di attenzioni e affetto – le “madame” e
“madamesuelle” non sono impellicciate
signore lussiuriose, ma povere disgraziate,
magari con figli a carico che battono per
sbarcare il lunario.
Il biglietto vincente chiamato vita
Ben presto, Edith lascia la bisnonna e con la
sorellastra più piccola (Simone Berteaut, ma
non è mica chiaro se fossero imparentate...)
si avvia lungo il percorso che fu di sua
madre: cantante di strada. Così facendo...
“stacca” il biglietto vincente della lotteria,
chiamata vita. Infatti, per caso ovviamente,
la sente cantare Louis Leplee, proprietario
di un teatrino-cabaret in zona Campi Elisi,
che l’ingaggia. È il 1937. L’accordo è riferito
a una settimana di esibizioni (ovviamente,
il repertorio della piccola e bruttina Edith,
ma fin da allora con una voce più unica
che rara, stiamo parlando di canzoni dei
grandi interpreti dell’epoca: Mistinguette,
la Damia, la Dubois, successi arrangiati
alla bell’e meglio di Chevallier, eccetera).
E invece ci rimane alcuni mesi e la Parigi
musicalmente più esigente fa la fila per
andarla a sentire. Edith diventa “Mome
Piaf” – l’idea, azzeccatissima, è del Leplee,
ravvisando più che nella sua voce, tutt’altro
che “vocina”, nel suo fisico e nel portamento
qualcosa dei passerotti. Tra il pubblico c’è
il succitato Maurice Chevallier, c’è il re
degli impresari Asso, c’è Elmer, c’è Merisse,
ognuno dei quali le darà qualcosa (utilissimi
consigli, canzoni, sicurezza materiale) c’è
la Monnot, giovane ma famosa musicista,
con cui costituirà un sodalizio artistico
venticinquennale. Ci capita pure Cocteau col
suo seguito (Jean Marais e compagnia bella,
anzi bellissima). E proprio il commediografo
“terribile” scriverà, dedicandolo a lei, un atto
unico (“Label indifferent”), a base di taglia &
cuci da “La voce umana”. Ed ecco che il fior
fiore dei compositori francesi le musicano
“addosso” quelli che diverranno dei successi
internazionali. Alcuni testi, è Edith stessa a
ispirare: non a scrivere, come si ama dire, e
non solo perché, poverina, sapeva scrivere
a malapena e lo faceva foneticamente, ma
perché, se proprio proprio non si può parlare
di “poesia”, i testi sono indubbiamente assai
poco prosaici.
Dalla seconda metà dei Trenta inizia per
Edith Piaf la discesa/ascesa: discesa per la
facilità del percorso professionale; ascesa,
per quel che concerne il raggiungimento
delle vette in tema di successo, sia di vendita
che di affetto e ammirazione da parte del
pubblico.
Canto per Marcel
Cominciano a entrare ed uscire dalla sua vita
tanti uomini (anche donne, si dice, tra cui
la divina Marlene: ma siamo a livello di “si
dice”). Entrano da illustri sconosciuti, escono
da potenziali o mature star. Alcuni nomi:
Yves Montand, Charles Aznavour, George
Fine prematura
Moustaky, Gilber Becaud (a proposito
della “cattiveria” sulle frequentazioni nazi
di Edith... ma vi pare che il partigiano
e camarade Becaud l’avrebbe, non dico
di più, ma già solo salutata?!), Eddie
Constantine, Leo Ferrè... Nel mezzo c’è
la straziante parentesi col pugile Marcel
Cerdan, sposato e padre di tre figli, ma
follemente innamorato di questa piccola e
bruttina e sgraziata e malaticcia donna dal
cuore grande come una casa. La loro storia
durerà un anno o poco più. È il 1948, lei
è in tournee negli USA (ci era sbarcata
la prima volta nel 1946: incompresa
totale e non solo dalla critica; ma non
da Orson Welles o dal connazionale,
divo hollivudiano, Charles Boayer): lo
supplica di raggiungerla, ma non in nave,
due settimane di attesa, bensì in aereo. Il
velivolo si schianterà su un’isola. La sera
stessa, lei ha un recital. È distrutta. Vuole
comunque esibirsi: “Stasera canto solo per
Marcel”: a questo punto conquista anche
l’America.
La «guardarobiera» Dietrich
Nel 1952 si sposa con Jaques Pills,
compositore. Madrina di nozze e
“guardarobiera”, la grande Dietrich. Dura
quattro anni, il matrimonio... E comunque,
sono tanti. In precedenza e dopo, anche
a fronte di ciechi innamoramenti, non
si va oltre qualche mese o settimana.
Eppure, affamata d’amore, affetto,
attenzioni, coccole le unioni non
reggono nel tempo – e non sono certo
le “corna”, più di tanto, a farle saltare. È
proprio questa “fame atavica” di amore
ad azzerarle, perché è ben più forte la
paura di venire abbandonata. Paura,
probabilmente dovuta a una faccenda
di “confronti” con le tante bellezze
che girano nel mondo dello spettacolo
parigino, francese e internazionale; ma
anche alla consapevolezza di non essere
una persona facile, di non essere una
È appena verso la fine – Dio solo sa,
quanto prematura!? – della sua vita, che
Edith trova ciò che con smania e terrore
ha cercato tutta la vita: l’amore. Si chiama
Theophil Lamboukas (lei lo ribattezzera’:
Theo Sarapo), parrucchiere ventiseienne,
dunque di vent’anni più giovane, bello
come Adone, innamoratissimo di lei.
Ovviamente, la convinzione, compresa
quella degli amici più intimi di Edith, è che
si tratti di un furbissimo “scalatore sociale”.
Macché, Theo non si allontana mai, non
la lascia mai sola: in casa, in clinica, in
palcoscenico. Complesso materno? “Siete
matti?” dice a chi lo insinua. “Se non mi
interessa avere figli, è proprio perché è lei
la mia bambina”. Si ricrederanno appena
dopo la sua morte, quando rimasto senza
il Passerotto trascorrerà qualche anno
mezzo imbambolato per finire schiantato
con la macchina contro un platano a
trentaquattro anni, nel 1970. Lei se n’era
andata, tra le sue braccia, l’11 ottobre
del 1963, a causa di una cirrosi epatica
intervenuta a seguito di una broncopolmite
mista all’(ab)uso di medicinali di tutti i
tipi. L’elogio funebre, scritto parecchio
tempo prima da Jean Cocteau, viene letto
sei ore prima (!) che quest’ultimo venga
colpito da un infarto, presumibilmente
come risposta psicofisica alla perdita della
piccola grande amica.
Non esiste al mondo un’altra
È passato mezzo secolo dalla sua
scomparsa. Non credo esista al mondo
un altro/altra artista per il quale, non
appena dispiega la propria voce, sale su la
rabbia per quanto sia stata sfortunata, per
averci lasciati così presto. Il tutto, misto
a una sensazione, insieme di profonda
malinconia e gioia immane. E fastidio, va
aggiunto – sintomo di grande e sincero
attaccamento emotivo – nell’ascoltare
qualcuno che tenti (figuratevi!?) di
imitarla.
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musica
mercoledì, 30 ottobre 2013
PERSONAGGI
la Voce
del popolo
di Sergio Sablich
LA COMPOSIZIONE DI BENJAMIN BRITTEN NON È SEMPLICEMENTE
UN REQUIEM DI GUERRA MA UNA MEDITAZIONE PER QUELLI CHE
HANNO VISTO LA MORTE IN FACCIA E VOGLIONO VIVERE ANCORA
WARREQUIEM
MUSICA
PER TUTTI
GLI UOMINI
“I
l mio tema è la Guerra, e la pietà
della Guerra. La Poesia sta nella
pietà... Tutto ciò che un poeta può
fare è avvertire”.
“Scrivo musica per gli esseri umani,
dichiaratamente e coscientemente”.
Basterebbero queste parole rispettivamente
del poeta, Wilfred Owen, e del musicista
Benjamin Britten, a racchiudere il
senso più intimo del grandioso affresco
del War Requiem. Il War Requiem non è
semplicemente un requiem di guerra, o
una liturgia sul tema della guerra, ma
una meditazione per tutti coloro che pur
avendo guardato in faccia la morte vogliono
essere ancora vivi. Concezione originale,
in rapporto al genere ma non alla storia
dell’anima di Britten, di una visione del rito
che per metà abbraccia la fede, per metà la
riconduce a squarci di immediata attualità,
parlando agli e per gli uomini.
e dire la verità: come è potuto accadere
tutto ciò, come potrà ancora e comunque
accadere nelle guerre grandi e piccole? Da
un lato la grande orchestra e il coro con il
soprano solista scandiscono solennemente
le sezioni della messa (Requiem - Dies
Irae - Offertorio - Sanctus - Agnus Dei e
Libera me), come fissandole religiosamente
in un mondo di immagini del passato,
Un valore per sempre
La pace del riposo
Il ricordo dei morti vive nella preghiera
sul testo latino della Missa pro Defunctis,
utilizzato da Britten come l’impalcatura
della tradizione nella forma codificata del
rito funebre; ma accanto ad esso si leva,
nella lingua moderna, drammaticamente,
la voce dei morti che chiedono ragione
ai vivi e non ne accettano supinamente il
compianto: essi vogliono non solo esser
ricordati ma anche ricordare, sapere,
testimoniare, accusare. Le loro anime
senza sepoltura escono, come Lazzaro
dalla tomba, dalla terra, per reincarnarsi
in corpi mortalmente feriti e diventare i
tragici cantastorie di eventi che nulla hanno
a che fare con Paesi, gloria, onore, potere,
maestà, dominio, ma solo con l’aberrazione
senza tempo e spazio della guerra. Ed
è lì che essi si parlano e si riconoscono
uomini, chiedendosi perdono ancor prima
di apprendere, infine rivelandolo, di essere
“nemici”: “Io sono il nemico che tu hai
ucciso, amico”.
Le parole del poeta inglese Wilfred Owen,
così cariche di asciutto stupore, più che
denunciare o ammonire, registrano pensieri
e sentimenti, avvertono, invitano a cercare
la Voce
del popolo
Anno 9 /n. 75 / mercoledì, 30 ottobre 2013
IN PIÙ Supplementi è a cura di Errol Superina
[email protected]
Edizione
Progetto editoriale
Caporedattore responsabile
Errol Superina
MUSICA
Silvio Forza
Redattore esecutivo
Ivana Precetti Božičević
Impaginazione
Annamaria Picco
Collaboratori
Sandro Damiani, Ilaria Rocchi, Sergio Sablich e Patrizia Venucci Merdžo
Foto
Archivio
ricreandone l’atmosfera legata all’antico
testo liturgico; dall’altro, in drammatico
contrasto, il tenore e il baritono solista
accompagnati da un’orchestra da camera
si inseriscono a tratti brutalmente per
rievocare con i versi di Owen i fatti della
guerra: con crudo senso narrativo, quasi
recupero novecentesco di una disperata,
tutt’altro che eroica “chanson de gestes”.
Sullo sfondo, come un ricordo lontano di
paradisi perduti, l’eco luminosa del coro di
bambini sostenuti dall’organo, a indicare
con la voce immacolata dell’innocenza un
approdo rasserenante nella pace del riposo.
Riposino i morti, riposino con loro i vivi. Ma
non dimentichino.
|| Britten al lavoro
La suprema abilità di Britten nel comporre
non solo i tre diversi piani di cui l’oratorio
è costituito ma anche il continuo alternarsi
di accensioni drammatiche e di sospensioni
liriche nel complesso intreccio di mezzi e
stili che vi prendono parte si scioglie in un
flusso di emozioni musicali costantemente
vitale e pregno di suggestioni, ora
tensivamente aspro ora abbandonato a
pudiche dolcezze. La forza di verità che ne
promana non sta soltanto nella denuncia
della barbarie e della fondamentale idiozia
della guerra, che coinvolge vincitori e
vinti, bensì soprattutto nella riflessione su
un destino comune di dolore e di pianto.
Britten insegna il canto della pietà, nel
duplice significato religioso e umano.
Sotto questo profilo la sua non è un’opera
di protesta, e tanto meno schierata sul
versante dell’impegno politico, ma un’opera
di pace, intessuta di angoscia e di speranza,
di memoria e di oblio: per dimenticare nel
riposo eterno tutto quanto è necessario
ricordare sul palcoscenico della vita,
compassionevolmente. Perfino la ribellione
cede a poco a poco al riconoscimento che
solo la pietà, forma immensa di amore, può
redimere l’uomo dalle sue colpe. Quando
tutto si è compiuto, i testimoni moderni
dell’orrore invitano a lasciarli dormire,
ora; “Let us sleep now...”, intonano da soli
il baritono e il tenore, i nemici finalmente
riappacificati. Subito il coro di bambini
risponde con ardore: “In paradisum
deducant te Angeli”. E qui avviene il
miracolo. Tutti i protagonisti – cori,
orchestre, solisti – si riuniscono per la prima
volta in un “tutti” generale e pronunciano
insieme le parole del commiato, implorando
la pace e la luce eterna; come svanendo,
pianissimo e molto lento, il coro a cappella
ripete l’estrema invocazione, saldando la
fine all’inizio: “Riposino in pace, amen”.
Anche se tutto ricomincerà, questa pietà che
in Britten diviene sentimento universale è
un valore consegnato per sempre a tutti gli
uomini di buona volontà. L’unico, forse, che
possa accostarci, fin dove è possibile, alla
divinità, restituendo un senso ultimo alle
parole della preghiera.
Peter Pears, l’amore di una vita
Benjamin Britten fu un bambino precoce
che sentì presto il richiamo della musica.
Una vocazione che lo portò a comporre
opere che oggi vengono considerate vere
e proprie pietre miliari del novecento
musicale. Composizioni che per certi
versi rompono con quella tradizione
inglese che il giovane musicista del
Suffolk, desideroso di cambiamento,
definiva chiusa ed isolana. Lontana
e monotona. Importantissimi, anzi
fondamentali per la sua carriera
furono due incontri: il primo con il
celebre poeta W.H. Auden, per il quale
musicherà più opere, il secondo con
il tenore Peter Pears che diventerà
non solo la sua musa ma anche il suo
compagno di vita per quarant’anni
pieni.Insieme i due uomini condivisero
momenti di difficoltà e riconoscimenti
illustri (tra cui il baronato per Britten
e il titolo di Sir per Pears), successi e
contestazioni (alcuni critici amavano
malignamente sottolineare come il
|| Britten con il suo compagno Peter Pears
tenore sapesse padroneggiare in realtà
solo una nota e come su quella singola
nota Britten avesse costruito alcune
delle sue arie più celebri giusto per
agevolare il compagno). Una storia
d’amore durata per quasi mezzo
secolo e che ci ha lasciato commoventi
testimonianze sia private che artistiche.
I due artisti morti a distanza di dieci
anni l’uno dall’altro riposano ora
insieme nel cimitero della chiesa di
Pietro e Paolo nell’adorato Suffolk.
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