EDITHPIAF ILMITOFRANCESE VIVEANCORA la Voce del popolo musica NEL CINQUANTESIMO DELLA SUA MORTE (1915-1963) RICORDIAMO LA LEGGENDARIA CANTAUTRICE DAL CUORE GRANDE E DAL TALENTO UNICO www.edit.hr/lavoce Anno 9 • n. 75 mercoledì, 30 ottobre 2013 TRADIZIONI I GRANDI MAESTRI PERSONAGGI «Così Rovigno canta e prega a Dio» di David di Paoli Paulovich Giuseppe Verdi lettere di un’epoca «War requiem» musica per tutti gli uomini In uso nella Basilica di Sant’Eufemia pratiche ed espressioni che si temevano perdute per sempre Scopriamo un documento storico di inestimabile valore che rievoca l’Italia ottocentesca dei teatri e della lirica 2|3 4|5 8 La composizione di Benjamin Britten è una specie di meditazione per chi ha visto la morte in faccia 2 mercoledì, 30 ottobre 2013 musica la Voce del popolo TRADIZIONI SCRIGNOPREZIOSO DI LIT C i sono voluti due decenni di minuziose e meticolose ricerche per ricostruire la tradizione musicale religiosa di Rovigno, città esempio di cattolicità per tutta l’Istria, parrocchia modello mai eguagliata, raccogliendo in un unico luogo – a stampa – i tantissimi documenti inediti sparsi in vari archivi e le testimonianze orali, un patrimonio culturale che il dramma dell’esodo aveva disgregato e frammentato. Parliamo di “Così Rovigno canta e prega a Dio. La grande tradizione religiosa, liturgica e musicale di Rovigno d’Istria” (Centro di Ricerche storiche, Collana degli Atti, Extra serie, vol. VII, Rovigno 2011), 1.200 pagine, un’opera ponderosa dal valore inestimabile, che sorprende per la sua compiutezza. Uno sforzo che quest’anno è valso all’autore, il musicista e studioso triestino David Di Paoli Paulovich, il primo premio assoluto “Gen. Loris Tanzella”, assegnato dall’Associazione Nazionale Venezia Giulia e Dalmazia – Comitato di Verona. Il capillare lavoro svolto dall’autore ha una duplice portata, in quanto da una parte salva la tradizione che si era sviluppata nel corso dei secoli, dall’altra parte restituisce a Rovigno il ruolo che ha da sempre avuto in Istria quale scrigno di cultura liturgica e musicale di matrice veneto-aquileiese; una cultura documentata anche attraverso la ricchissima silloge di canti liturgici e religiosi trascritti dal Di Paoli Paulovich dalla viva prassi della tradizione orale, così come fotografata a cavallo della metà del XIX secolo sino alla metà del XX secolo, in massima parte inediti o del tutto inaccessibili. Testimonianza di profonda religiosità La religiosità degli abitanti di Rovigno, che affonda in una fede bimillenaria, fa parte dell’identità stessa dell’essere rovignese. E questo volume è anche una vera miniera di notizie e testimonianze relative alla religiosità popolare e al folklore. Non mancano infatti cenni sulle problematiche origini della Chiesa rovignese, forse erede per breve tempo della sede diocesana di Cissa, da cui sarebbe giunto il corpo di Sant’Eufemia secondo la tradizione narrata in un codice membranaceo scritto e miniato tra il XIV e il XV secolo. Rovigno può vantare una parrocchia importante, dotata di un capitolo collegiale concesso da Alessandro III con bolla del 5 aprile 1178, purtroppo perduta. Nel 1747 essa fu decorata del titolo e dei privilegi di “Insigne Chiesa Collegiata” dal vescovo di Parenzo Gaspare de Nigris. La religiosità dei rovignesi era comune a quella delle altre cittadine istriane, erede della tradizione tridentina dai fastosi risvolti barocchi e associata a una forte religiosità popolare scandita dai tempi dell’anno liturgico. Di Paoli Paulovich riserva in apertura due bei capitoli a questo aspetto della sua tematica, elencando e descrivendo tutti gli edifici di culto – compresa la loro storia e destini –, gli aspetti liturigico-rituali legati all’officiatura negli stessi, riferimenti sugli arredi liturgici, piccole curiosità e racconti resi da altri. Viene così messa in evidenza la grandissima e variegata offerta culturale rovignese. Particolare attenzione viene riservata, com’è logico aspettarsi, alla parrocchiale di Sant’Eufemia, iniziata nel 1725 su progetto dell’architetto veneziano Giovanni Dozzi al posto dell’antica chiesa alto-medievale e forse anche paleocristiana attestata purtroppo solo da un pilastrino di recinzione presbiteriale tuttora visibile sul fianco destro della nuova costruzione, che si presenta come il piu grande e splendido esempio di architettura sacra barocca costruito sulla penisola istriana, dopo la cattedrale di Capodistria. Le melodie trascritte dall’autore appartengono a quel genere di canto liturgico proprio dell’Istria e del Quarnero, detto canto patriarchino, termine che indica forme particolari di canto fermo, spesso caricate di una spontanea polifonizzazione e solitamente tramandate per trasmissione orale: si tratterebbe del canto sopravvissuto alla soppressione del rito aquileiese per opera del patriarca Francesco Barbaro nel 1596. Anche nel patriarcato di Venezia, erede del patriarcato di Grado dal 1451, il rito patriarchino, nonostante l’abbandono formale, sopravvisse per consuetudine nella Basilica di San Marco sino al 1807. La decadenza e la scomparsa degli usi patriarchini e tradizionali a Rovigno furono dovuti anche a un altro fattore, come spiega Di Paoli Paulovich: il fenomeno del cosiddetto movimento ceciliano – così chiamato in onore di Santa Cecilia, patrona della musica –, esploso dopo la seconda metà dell’Ottocento con l’intenzione di disciplinare, sotto le direttive impartite dalla Santa Sede, specie dopo il Motu proprio di Pio X, “Inter sollicitudines” (1903), la struttura compositiva e le modalità di esecuzione della musica per la liturgia. Era una risposta alla quasi totale centenaria assenza del canto gregoriano e della polifonia rinascimentale dalle celebrazioni liturgiche cattoliche a favore di «COSÌ ROVIGNO CANTA E PREGA A DIO», DI DAVID DI PAOLI PAULOVICH (CENTRO DI RICERCHE STORICHE DI ROVIGNO, EXTRA SERIE, COLLANA DEGLI ATTI, VOL. VII, 2011), RECUPERA E TRASCRIVE PRATICHE ED ESPRESSIONI CHE SI TEMEVANO PERDUTE PER SEMPRE – IL CANTO POLIFONICO E DEL REPERTORIO SACRO IN LINGUA VOLGARE – IN USO NELLA BASILICA DI SANT’EUFEMIA || La Chiesa di Sant’Eufemia a Rovigno musica la Voce del popolo mercoledì, 30 ottobre 2013 3 a cura di Ilaria Rocchi ITURGIAEMUSICA stili più simili alla musica operistica. Per i territori dell’antico patriarcato di Aquileia, dove vigeva l’uso del canto patriarchino di tradizione orale a fianco di un raro e limitato uso del canto gregoriano, quelli furono anni di “riforma coatta” e di “devastazione del patrimonio patriarchino”: a Rovigno fu eliminata tutta l’ufficiatura dei defunti e quella vespertina, e fu introdotto il canto gregoriano rimesso in luce dai Benedettini francesi. L’obiettivo primario da perseguirsi era l’uniformità liturgico-musicale, mentre l’opinione dominante nelle alte sfere vaticane sul canto patriarchino doveva essere che si trattasse soltanto di corruzioni popolari del canto gregoriano. Quest’ultimi, del resto, era considerato di arduo apprendimento e noioso, e cominciava a essere ritenuto il canto povero delle liturgie solenni, ma gli influssi avversi alla tradizione rovignese sarebbero forse stati respinti se non fosse intervenuto l’esodo, deleterio anche per il culto. Tuttavia, alla tradizione rovignese avrebbe dovuto soccombere comunque di fronte al nuovo corso musicale del postconcilio. Antologia delle officiature Dalle chiese e dall’analisi della tradizione musicale, delle realtà corali e strumentali, degli organi e delle sue chiese, si passa alle officiature di Rovigno. La Messa, ricorda l’autore, poteva essere letta (messa privata), cantata (“messa granda”), solenne (“messa in terza”), che era la forma piu completa dal punto di vista cerimoniale con l’assistenza di diacono e suddiacono. Nelle grandi solennità, il Preposito del Capitolo celebrava la messa in rito pontificale con diacono e suddiacono e con l’assistenza di due presbiteri in piviale, detti ciascuno presbyter assistens. Era costume che, durante le messe lette, fossero inseriti canti anche in lingua volgare: di fatto, era una delle poche forme di partecipazione esterna riservate ai fedeli. Di questi canti eseguiti nella Collegiata, il libro propone una ricca antologia tratta da un florilegio compilato da Nina Viscovich. La messa cantata era invece preceduta – e non solo a Rovigno –, dall’aspersione con l’acqua benedetta a fini purificatori e al canto dell’Asperges me Domine o, in tempo pasquale, del Vidi aquam. La domenica veniva convenientemente santificata col canto del Vespro nel pomeriggio, tradizione, questa, abbandonata dopo il 1930, quando il parroco mons. Bartolomeo Codemo introdusse i toni gregoriani a discapito di quelli patriarchini “in un’ossessione livellatrice e unificatrice”, senza attenzione per la tradizione canora rovignese, osservò all’epoca mons. Domenico Giuricin. Il Vespro di Rovigno viene riprodotto nelle forme originali e anteriori al 1930. Il calendario dei momenti più intensi Altro momento forte era costituito dalla liturgia dei defunti, che occupava largo spazio nel rito romano antico. Nella festa di Ognissanti, che precede la commemorazione dei defunti, il Duomo era parato a lutto col catafalco (castrum doloris) a più piani, gravido di simboli mortuari e rischiarato da candelabri e lumi, usato per il rito suggestivo dell’assoluzione nell’ottavario dei defunti. Si considerano poi i tempi dell’anno liturgico secondo le antiche tradizioni della Collegiata di Sant’Eufemia, partendo dal tempo di Avvento, vissuto come tempo di penitenza ma altresi di gioiosa trepidazione nell’attesa del mistero dell’Incarnazione. Ad esso seguiva il tempo di Natale con la celebrazione della vigilia e delle tre messe nel giorno della festività e con i vesperi solenni, frequentatissimi, cantati a furor di popolo nei toni patriarchini. Ma non mancavano a Rovigno anche le laudi natalizie, dette dal popolo Verbum caro e intonate fra i muri delle case o nelle calli. Nella vigilia dell’Epifania il suono delle campane annunciava la benedizione dell’acqua. Il giorno seguente, alla messa principale, erano annunciate in canto (Noveritis) la Pasqua e le feste mobili secondo una formula e una melodia gregoriana assai simile a quella del preconio del Sabato Santo. Dopo il martedi grasso, era la volta della Quaresima, mentre la domenica di Passione aggiungeva alle chiese un ulteriore segno penitenziale con l’avvolgere di un velo violaceo tutte le croci e le immagini sacre. Uno dei riti più suggestivi, radicati e antichi della Settimana Santa era l’ufficio del Mattutino delle tenebre (oficium tenebrarum), che cominciava la sera del mercoledì, conclusa l’adorazione delle Quarant’ore, e continuava il giovedì e il venerdì: l’ufficiatura consisteva nella preghiera in canto delle ore canoniche del Mattutino e delle Lodi, mentre nel presbiterio era posto un candeliere ligneo di forma triangolare con quindici candele accese da spegnere alla conclusione di ciascun salmo. La tradizionale processione del Venerdì Santo, in cui sfilavano il capitolo e le numerose confraternite, era profondamente radicata a Rovigno, come nel resto dell’Istria costiera. La domenica di Pasqua, il giubileo si manifestava in Sant’Eufemia anche con la celebrazione della messa in forma pontificale. Il tempo pasquale era segnato dalla domenica in albis dopo l’ottava di Pasqua, in cui era consuetudine portare la comunione agli infermi; dalla festa di San Giorgio, primo patrono di Rovigno e dalla festa di San Marco, con messa solenne preceduta dalla processione delle Rogazioni Maggiori, l’ultima delle quali si volse all’interno della chiesa nel 1946. La devozione mariana si mantenne fino agli anni Sessanta, quando l’introduzione della messa vespertina con la riforma liturgica fece venir meno le pratiche usuali. Il giovedì successivo alla SS. Trinità si celebrava la festa del Corpus Domini, con la processione serale dopo il canto solenne del vespero nei toni patriarchini; lungo il percorso erano eretti quattro altari, dove il corteo si arrestava e, proclamato il principio di ciascuno dei quattro Vangeli, veniva impartita la benedizione eucaristica. Interessante anche il bacio delle croci astili inghirlandate, che avveniva quando la processione proveniente da Rovigno si fosse incontrata con quella di Villa di Rovigno in un simbolico abbraccio fra le comunità. Gli ultimi due capitoli sono dedicati al culto tributato dai Rovignesi alla Santa patrona della città, rievocando le solenni festività del luglio 1900 per l’XI centenario del suo prodigioso approdo attraverso le testimonianze dei contemporanei. Chiude il volume una bibliografia d’interesse sacro su Rovigno. A Di Paoli Paulovich va riconosciuto senza ombra di dubbio il merito di aver saputo recuperare l’eredità spirituale rovignese – ma non solo, si vedano a esempio i suoi lavori più recenti su Piemonte d’Istria e Pedena – che rischiava di scomparire, e soprattutto di avercela restituita in un’intrigante sintesi delle molteplici e plurisecolari esperienze musicali sacre, laddove il lascito della tradizione veneto-aquileiese si è fuso con la sensibilità comune, quotidiana, insita nell’animo degli abitanti del posto. “Non si potrebbe comprendere la bellezza vivida, smagliante e al contempo serena di Rovigno, che sprizza viva dalle antiche pietre che anelano, tra calìte e calisièle, come in un vortice di colori al Duomo di Sant’Eufemia, senza intuire come quel ‘bello’ sia anche il riflesso meditato e vissuto di tanta bella umanità che visse nella città istriana, educata fin dall’infanzia soprattutto ad elevare coralmente lo spirito nella bellezza delle cerimonie liturgiche, compenetrate di tanta musica sacra”, afferma Di Paoli Paulovich. “Oggi, rispetto a ieri, solo i rintocchi del campanile di Sant’Eufemia suonano eguali. Ma ‘la misaricuòrdia da Deîo la si grànda’, per usare un’espressione rovignese. Ciò che è nobile, bello e fruttuoso deve continuare. Continuità. Voglia questa fatica riporre nella sua sede l’anello mancante in quella ch’è una grande frattura dell’identità vera e autentica di Rovigno, e che la distingue dalle altre città istriane. E, soprattutto vogliano i Rovignesi di ieri e quelli di oggi, autoctoni rimasti e nuovi abitanti che la Provvidenza ebbe a destinare a questi luoghi, riappropriarsi, gustare e scoprire tanta nobile eredità, vivendola quale dono”, conclude lo studioso. Amen. || David Di Paoli Paulovich Attento studioso del canto liturgico David Di Paoli Paulovich, nato a Trieste, per parte paterna di antica famiglia istriana e per parte materna di antica famiglia toscana, dopo gli studi liceali classici, ha conseguito presso il Conservatorio “Giuseppe Tartini” di Trieste il diploma di Composizione. Ha conseguito anche il diploma di Musica Corale e Direzione di coro. All’attività compositiva affianca quella musicologica, di ricerca e di direzione corale. Inoltre, è laureato in Giurisprudenza e dal 2001 è magistrato onorario presso il Tribunale di Trieste. Già relatore presso la Fondazione Ugo e Olga Levi di Venezia, collabora con il Centro di Ricerche storiche di Rovigno; è socio della Società degli Studi Fiumani di Roma e della Società di Studi Storici e Geografici di Pirano ed è iscritto alla Società Italiana degli Autori ed Editori. Come compositore, ha al suo attivo una copiosa produzione, comprendente: musica vocale sacra (circa 50 opere, perlopiù a cappella o con organo); musica vocale profana; musica strumentale (circa 50 composizioni, per pianoforte, per altri strumenti solisti, per diversi organici da camera, per strumento solista e orchestra); numerose le trascrizioni. Il campo d’interesse della sua opera di ricerca comprende soprattutto il settore musicale sacro, in particolare tematiche musicologiche dell’area adriatica orientale e del canto liturgico patriarchino di tradizione orale. È autore di diverse monografie sulla musica sacra, tra cui varie pubblicazioni dedicate all’antico canto liturgico (specie patriarchino) dell’Istria, del Quarnero e della Dalmazia dell’area venetoadriatica e una trentina di articoli e saggi usciti in diverse opere collettanee. || In copertina, il trasferimento dell’arca di Sant’Eufemia nella chiesa di S. Giorgio sulla sommità del mons. Albanus il 13 luglio 800 4 lalaVoce Voce del popolo del popolo mercoledì, 30 ottobre 2013 I GRANDI MAESTRI a cura di Patrizia Venucci Merdžo VERDI,LETTEREDIUN’EPOCA P ubblicata per la prima volta nel 1941, divulgata nella Bur nel 1951 a cura di Aldo Oberdorfer, l’Autobiografia dalle lettere è ricomparsa in occasione del centenario della morte di Giuseppe Verdi. Un documento storico di inestimabile valore, non solo dal punto di vista della sua originalità e rigorosità, ma più semplicemente per la capacità di rievocare, in un grande affresco storico, l’Italia ottocentesca dei teatri, della lirica e delle prime grandi case musicali. Verdi racconta Verdi, dischiude al suo pubblico, all’appassionato di lirica o a chiunque abbia voglia di ascoltarlo, le sue passioni più segrete, i moti più intimi dell’animo, gli amori, le delusioni, le battaglie, i ricordi, la dirompente passione per la musica, ma anche l’aspetto più quotidiano, prosaico della vita. Una vasta galleria di personaggi sfila davanti a noi: Giuseppina Strepponi, la seconda compagna di vita, il leggendario ambiente di Casa Ricordi, i fratelli Escudier suoi editori parigini, la contessa Clara Maffei, anima dei salotti intellettuali e patriottici dell’aristocrazia meneghina. Affascinante documento di un’epoca Grazie all’intelligente e accurato lavoro di Oberdorfer, quest’opera non corre il rischio di trasformarsi in una banale antologia di lettere, al contrario può vantarsi di essere uno dei testi “storici” della letteratura verdiana che – da più di un secolo ormai – è la storia stessa del nostro modo di concepire musica, teatro e teatro in musica. In questa ottica, il Verdi di Oberdorfer costituisce l’affascinante documento di un’epoca, di un costume letterario, di un gusto. «Io son proprio nato nel ‘13» “Sapete? Io son proprio nato nel ‘13 e da pochi giorni ho compiuto i 63 anni, mia madre mi aveva sempre detto che io ero nato nel ‘14 ed io naturalmente ho creduto ed ho ingannato tutti quelli che mi domandavano de’ miei anni” (a Clara Maffei, 14 ottobre 1876); “Lei sa che a momenti siamo a San Michele ed io non ho ancora trovato la casa perché ci vuole l’affitto anticipato. Io non l’ho e ricorro a Lei... Spiacemi il doverlo tediare ora che so in che spese sia per altri. Se potessi fare a meno (lo giuro), lo farei” (al suocero, 4 settembre 1839); “Con quest’opera si può dire veramente che ebbe principio la mia carriera artistica; e se dovetti lottare contro tante contrarietà, è certo però che il Nabucco nacque sotto una stella favorevole...” (a Giulio Ricordi, 19 ottobre 1879); “Sto strabenone e presto presto vengo a sentire gli interrotti aneddoti del comune nostro amico... Si mangiano o non si mangiano questi maccheroni? Io desidero innapoletanarmi a Milano” (a Giuseppina Appiani, 1843). Le mille sfaccettature del maestro La raccolta è stata divisa in nove capitoli: “Fino al Nabucco”, “Le amiche”, “Gli amici”, “Sant’Agata”, “Patriottismo, politica e censura”, “Libretti, librettisti e interpreti”, “Gli affari”, “Torniamo all’antico” e “Inventare il vero”. Affiorano episodi, circostanze, fatti cristallizzati in forme cementate dal sentimento o risentimento; talvolta si nota un Verdi spensierato, un po’ frivolo, “così poco verdiano”, come appare in certi biglietti inviati a Giuseppina Appiani; oppure un Verdi molto rispettoso, ma estremamente cordiale, come nelle lettere a donna Emilia Morosini, madre del patriota Emilio; dalle lettere invece di Giuseppina Strepponi l’intimità del maestro n’è meglio illuminata. Grande ammiratore di Manzoni Fra gli amici, un posto preminente spetta ad Antonio Barezzi; ma l’ammirazione del || Sopra e nella pagina accanto, alcune delle lettere scritte dal maestro maestro è per Manzoni: “Cosa potrei dirvi di Manzoni? Come spiegarvi la sensazione dolcissima, indefinibile, nuova, prodotta in me alla presenza di quel santo, come voi lo chiamate? Io me gli sarei posto in ginocchio dinnanzi, se si potessero adorare gli uomini” (alla contessa Maffei, 7 luglio 1868); “Sono profondamente addolorato della morte del nostro Grande. Ma io non verrò domani a Milano chè non avrei cuore d’assistere ai suoi funerali. Verrò fra breve per visitarne la tomba, solo e senza essere visto” (alla contessa Maffei, 23 maggio 1873); “Non mi si devono ringraziamenti né da Lei né dalla Giunta per l’offerta di scrivere una Messa funebre per l’anniversario di Manzoni. È un impulso, o dirò meglio un bisogno del cuore, che mi spinge ad onorare, per quanto posso, questo Grande che ho tanto stimato come scrittore e venerato come uomo, modello di virtù e di patriottismo” (al sindaco di Milano, 9 giugno 1873). La confidente dei sentimenti più intimi La campagna di sant’Agata Busseto è la confidente dei sentimenti più intimi del maestro: “Sono in piena fabbrica. Mi alzo la Voce musica del popolo mercoledì, 30 ottobre 2013 PUBBLICATE PER LA PRIMA VOLTA NEL 1941 E CURATE DIECI ANNI DOPO DA ALDO OBERDORFER, LE LETTERE SCRITTE DAL GRANDE MAESTRO SONO UN DOCUMENTO STORICO DI INESTIMABILE VALORE CHE RIEVOCANO L’ITALIA OTTOCENTESCA DEI TEATRI E DELLA LIRICA alle cinque, vado alla muta delle quaglie: sparo qualche fucilata alle quaglie che non sono tanto imbecilli d’andare nella rete” (ad Angelo Mariani, 26 agosto 1860); “Ella avrà sentito degli scioperi nelle nostre campagne. Sien grazie al nostro Governo Riparatore! Ha lasciato predicar tanto ed ha acceso così un incendio, che difficilmente potrà spegnere” (alla contessa Giuseppina Negroni Prati Morosini, 7 ottobre 1880). Politica e patriottismo Interessanti anche certi atteggiamenti politici e patriottici: “Qui arrivano diplomatici italiani da tutte le parti: anche ieri Tommaseo; oggi Picciotti. Non riusciranno a nulla; pare impossibile che sperino ancora nella Francia. In una parola: la Francia non vuole l’Italia nazione” (a Giuseppina Appiani, 24 agosto 1848, da Parigi); “Finalmente se ne sono andati! (gli austriaci) O almeno si sono allontanati e voglia la nostra buona stella allontanarli di più in più. E chi avrebbe creduto tanta generosità nei nostri alleati? Per me confesso e dico: “mea grandissima culpa” che io non credeva alla venuta dei Francesi in Italia” (alla contessa Maffei, 23 giugno 1859); “Invece di cantare un inno di gloria, parrebbemi più conveniente oggi innalzare un lamento sulle eterne sventure del nostro paese... E dov’è dunque la tanto sospirata e promessa indipendenza d’Italia? Cosa significa il proclama di Milano? O che la Venezia non è Italia? Dopo tanta vittoria quale risultato! Quanto sangue per nulla” (alla contessa Maffei, 14 luglio 1859). «La mia vita pubblica non esiste» “Tu mi domandi notizie e documenti sulla mia vita pubblica? La mia vita pubblica non esiste. Sono deputato, è vero, ma fu per sbaglio” (a Piave, 8 febbraio 1865); “Io sono rattristato dagli avvenimenti della guerra e deploro i mali di Francia e temo un avvenire terribile per noi... Per me avrei amato dal nostro Governo una politica più generosa ed avrei voluto che si pagasse un debito di riconoscenza” (al conte Arrivabene, 13 settembre 1870); “Ma adesso tutti muoiono! Tutti! Ora il Papa! Povero Papa. Certamente io non sono per il Papa del Sillabo, ma sono per il Papa dell’amnistia e del Benedite Gran Dio l’Italia... Senza di questo, chi sa cosa saressimo ora... Un governo di preti! L’anarchia probabilmente e lo smembramento” (alla contessa Maffei, 12 febbraio 1878). Nessun compromesso Né meno interessanti sono certi giudizi su libretti, librettisti e interpreti. “Il duello tra Aida e Radamès è bellissimo nella parte cantabile e manca, secondo me, di sviluppo e di evidenza nella parte scenica. Io avrei preferito nel principio un recitativo... E perché in questo cantabile ha Ella cambiato metro, dicendo quasi le stesse cose? Era forse meglio ripetere le prime strofe” (al Ghislanzoni, 30 settemre 1870); “Voi nel tracciare Falstaff avete mai pensato alla cifra enorme dei miei anni? So bene che mi risponderete, esagerando lo stato di mia salute, buono, ottimo, robusto... E sia pur così; ciò malgrado converrete meco che potrei essere tacciato di grande temerità nell’assumermi tanto incarico” (ad Arrigo Boito, 7 luglio 1889); “Io domando semplicemente di essere padrone della roba mia e di non rovinare nissuno. Ed aggiungo, se si potesse farmi il dilemma: o accettate queste condizioni od abbruciate lo spartito, io preparerei subito il fuoco e porrei io stesso sul rogo Falstaff e la sua pancia” (a Giulio Ricordi, autunno 1892). Un accenno agli affari Non mancano nemmeno lettere con 5 Verdi, il ribelle Come Verdi tiene all’osservanza dei contratti e dei patti e si ribella a ogni tentativo di sfruttare la sua persona a scopi di pubblicità, così espone le sue idee in fatto di musica: “Torniamo all’antico: sarà un progresso” (a Francesco Florimo, 5 gennaio 1871); “Studi sulle composizioni antiche sacre e profane. Bisogna però osservare che anche fra gli antichi non tutto è bello; quindi bisogna scegliere. Nissuno studio sui moderni! Ciò parrà a molti strano; ma quando sento e vedo in oggi tante opere fatte come i cattivi sarti fanno i vestiti sopra un “patron”, io non posso cambiare opinione” (al senatore Giuseppe Piroli, 20 febbraio 1871). Le «ossa da morto» notizie relative agli affari: “Non posso accettare la somma che la S. V. mi offre nella lettera dell’1 corr. Calcolata la messa in scena dei Lombardi, la spesa del libretto, le spese di viaggio e dell’alloggio in Venezia, io verrei ad intascare per l’opera nuova (Ernani) molto meno di quello che ho avuto per i Lombardi, somma della quale non mi contenterei per l’anno venturo” (al conte Mocenigo, 3 maggio 1843). «Come voglio io e come piace a me» “Passerò sotto silenzio un monte di cose della tua lettera; non dirò nulla di alcuni frizzi e punture che a te piace lanciarmi... non t’ho mai dato il diritto di giudicarmi per un uomo debole, per un da nulla, per un imbecille, che si lascia influenzare da chichessia. Sappia il signor Ricordi che io sono solito, o bene o male, fare le cose di mia testa, come voglio io e come piace a me” (a Tito Ricordi, 25 novembre 1855); “Io farò scrupolosamente il dovere che mi sono imposto; ma gli altri dovranno adempiere a tutti i patti contratti!!!” (a Cesare De Sanctis, 7 ottobre 1872); “Scusate: ma tutti avete agito senza energia! Spieghiamoci: 1) Io ho il diritto che le mie opere, come da contratti, vengano eseguite come le ho scritte; 2) l’Editore deve mantenere tale diritto, e se in Francia, come voi diceste, non ha abbastanza autorità, subentro io come autore e domando che Falstaff venga eseguito come io l’ho immaginato” (a Giulio Ricordi, 9 giugno 1894). “L’epoca attuale parla, si dimena, si affacenda molto, produce poco e tende a fabbricarsi una musica nuova con della cipria e delle ‘ossa da morto’” (a Tito Ricordi, 22 ottobre 1862); “Per me gli augurerei (a Rossini) di disimparare la musica e scrivere un altro Barbiere” (al conte Arrivabene, 3 aprile 1864); “Il dilettantismo (fatale sempre in tutte le arti) per ismania di novità e per moda corre dietro al vago, allo strano ed affettando entusiasmi va ad annoiarsi ad una musica straniera ch’egli chiama classica” (alla contessa Maffei, 17 dicembre 1884); “Copiare il vero può essere una buona cosa, ma inventare il vero è meglio, molto meglio... copiare il vero è una bella cosa, ma è una fotografia, non pittura” (alla contessa Maffei, 20 settembre 1876); “Ho ricevuto il diploma, che mi nomina Commendatore della Corona d’Italia. Quest’ordine è stato istituito per onorare coloro che giovarono sia con le armi, sia con le lettere, scienze ed arti all’Italia. Una lettera a Rossini della E. V. benché ignorante in musica (come Ella stessa lo dice e lo crede) sentenzia che da quarant’anni non si è fatta più un’opera in Italia. Perché allora si manda a me questa decorazione? Vi è certamente un equivoco nell’indirizzo e la rimando” (al ministro Broglio, maggio 1868). L’importanza dell’epistolario verdiano Dopo questa panoramica, è facile capire l’importanza dell’epistolario verdiano per conoscere bene il grande maestro. 6 mercoledì, 30 ottobre 2013 musica la Voce del popolo EDITHPIAFL’IMMENSA LADIVINA LEGGENDE di Sandro Damiani “U ne vie de merde”: indubbiamente, anche se nella signorile lingua francese, l’espressione è ben poco elegante. È, però, la prima che viene in mente ripensando alla vita della grande e carismatica Edith Piaf. Davanti al microfono un’altra... cosa Dalla nascita alla morte (1963) è stato tutto un inciampare in disgrazie, malattie, sofferenze, guai... Eppure, o forse proprio per questo, davanti a un microfono diventava un’altra “cosa”. Non solo a lei riusciva di estraniarsi da un’esistenza maledetta, ma metteva l’uditorio nelle condizioni di sognare i mondi più belli di questo... mondo!? E viene alla mente un’altra immensa artista, l’afroamericana Billie Holiday. A suo modo ci potremmo affiancare anche Marlene Dietrich, se non fosse che a differenza di Edith e Billie, la Dietrich aveva una robusta preparazione, un background di buone letture e amicizie intellettualmente di peso e (di conseguenza) anche capacità intellettive e spirito inimmaginabili rispetto alle due artiste, immense, ma anche immensamente ignoranti, quasi analfabete e talmente sbattute dalla vita fin dalla più tenera infanzia da restarne pesantemente condizionate – anche e soprattutto – nelle scelte umane successive. Professionali, no, perché trattandosi di due “macchinette” cacasoldi, discografici manager e impresari avevano tutto l’interesse ad assecondarne le intuizioni ed i gusti in tema, appunto, di musiche (e testi) da incidere o eseguire nei concerti. Edith Piaf, dunque. «Piaf. Un mito francese» || Con l’amica Marlene Dietrich il giorno del matrimonio La leggenda vuole che sia nata sotto un lampione del centro parigino, in quanto i genitori non avrebbero fatto in tempo a raggiungere un ospedale; e che al parto fosse presente un flick. Dico “leggenda”, perché recentemente è uscito un libro, “Piaf. Un mito francese” del giornalista Robert Belleret, nel quale si afferma che Edith, nacque invece nel reparto maternità di un nosocomio. E che – sempre a proposito del processo di demolizione delle “leggende” relative alla sua vita – non sarebbe affatto vero che durante la Resistenza lei collaborasse con i maquis, bensì che cantasse nei bordelli frequentati da nazisti e militari di Vichy. Mah!? Viviamo in tempi in cui chi urla di più e le spara più grosse, se non sempre riesce ad avere ragione, comunque riesce a vendere la propria mercanzia... Oddio, nulla si può escludere, visto che informazioni su quel periodo della vita della Piaf non è che ve ne siano; epperò... epperò, non credo che i suoi amici – di quegli anni e del dopoguerra – artisti, scrittori, intellettuali rigorosamente di sinistra, le avrebbero perdonato le frequentazioni di cui scrive il Belleret. Figuriamoci poi se avrebbe potuto godere dell’amicizia (e, pare, qualcosa di più) di una Dietrich che il nazismo lo aveva combattuto – vero! – a suon di canzoni, ma in mezza Europa occupata al seguito delle truppe Alleate. Infanzia infelice Dicevamo dianzi dell’infelice infanzia di Edith. Beh, con un padre saltimbanco e una madre (livornese, deh!) cantante di strada, genitori tra tutt’e due, di una ventina di figli avuti in precedenza con vari partner, non è che potesse averne una migliore. Inoltre, la madre l’abbandonò ben presto e il padre, resosi conto di non poterla trascinare ogni sera in strada a farle da controcanto ai suoi contorsionismi per un piatto di minestra (lei, al contrario, quando diciassettenne diverrà mamma – sposata a un quasi coetaneo Marcel Doupont –, non avrà l’intelligenza di papà Louis Alphone Gassion, e la piccina se la musica la Voce del popolo mercoledì, 30 ottobre 2013 || Carisma indiscutibile 7 || Theo Sarapo le rimase accanto fino alla fine persona sana. Anzi, di avere acciacchi e mali tremendi (come l’artrite reumatoide), che la costringono a frequenti viavai con gli ospedali, a massicce dosi di morfina e oppiacei vari per lenire i dolori, che ne rendono impossibile la frequentazione e la rimbambiniscono. Questione di... corde Frattanto, il mondo la ama sempre di più. Per la particolarità delle canzoni, certo: musiche splendide, parole che si stampano nella memoria dell’ascoltatore e che ognuno sente come se gli appartenessero, ma prima di tutto grazie ad una voce e a un modo di porgerla che la musica popolare – europea e americana – non hanno mai conosciuto. A onor del vero, se gli States di quegli anni non fossero stati una insultante e vergognosa realtà umana e culturale razzista, probabilmente, benché cantasse jazz (trasformandolo in blues), Billie Holliday sarebbe stata irragiungibile, ma tant’è... A proposito, chissà cosa pensasse della musica jazz, Edith; della Holiday, di Ella, Sarah, Dinah, del blues di Bessie Smith, Ma Rayney, Alberta Hunter... A occhio e croce viene il sospetto che non lo amasse. Questione di “corde” e di feeling. Ma anche di abitus mentale. || Sul palco si trasformava NEL CINQUANTESIMO DELLA SUA MORTE, RIEVOCHIAMO IL MITO FRANCESE, PICCOLA DONNA DAL CUORE GRANDE E DI INDISCUTIBILE TALENTO CHE SFIDÒ CON CORAGGIO UNA VITA DI CONTINUE DISGRAZIE, GUAI E SOFFERENZE porterà appresso, divenenendo concausa della sua morte a poco più di due anni), l’affiderà alla propria nonna, tenutaria di un bordello... Di bene in meglio. Bisogna, comunque, aggiungere che qui godrà di attenzioni e affetto – le “madame” e “madamesuelle” non sono impellicciate signore lussiuriose, ma povere disgraziate, magari con figli a carico che battono per sbarcare il lunario. Il biglietto vincente chiamato vita Ben presto, Edith lascia la bisnonna e con la sorellastra più piccola (Simone Berteaut, ma non è mica chiaro se fossero imparentate...) si avvia lungo il percorso che fu di sua madre: cantante di strada. Così facendo... “stacca” il biglietto vincente della lotteria, chiamata vita. Infatti, per caso ovviamente, la sente cantare Louis Leplee, proprietario di un teatrino-cabaret in zona Campi Elisi, che l’ingaggia. È il 1937. L’accordo è riferito a una settimana di esibizioni (ovviamente, il repertorio della piccola e bruttina Edith, ma fin da allora con una voce più unica che rara, stiamo parlando di canzoni dei grandi interpreti dell’epoca: Mistinguette, la Damia, la Dubois, successi arrangiati alla bell’e meglio di Chevallier, eccetera). E invece ci rimane alcuni mesi e la Parigi musicalmente più esigente fa la fila per andarla a sentire. Edith diventa “Mome Piaf” – l’idea, azzeccatissima, è del Leplee, ravvisando più che nella sua voce, tutt’altro che “vocina”, nel suo fisico e nel portamento qualcosa dei passerotti. Tra il pubblico c’è il succitato Maurice Chevallier, c’è il re degli impresari Asso, c’è Elmer, c’è Merisse, ognuno dei quali le darà qualcosa (utilissimi consigli, canzoni, sicurezza materiale) c’è la Monnot, giovane ma famosa musicista, con cui costituirà un sodalizio artistico venticinquennale. Ci capita pure Cocteau col suo seguito (Jean Marais e compagnia bella, anzi bellissima). E proprio il commediografo “terribile” scriverà, dedicandolo a lei, un atto unico (“Label indifferent”), a base di taglia & cuci da “La voce umana”. Ed ecco che il fior fiore dei compositori francesi le musicano “addosso” quelli che diverranno dei successi internazionali. Alcuni testi, è Edith stessa a ispirare: non a scrivere, come si ama dire, e non solo perché, poverina, sapeva scrivere a malapena e lo faceva foneticamente, ma perché, se proprio proprio non si può parlare di “poesia”, i testi sono indubbiamente assai poco prosaici. Dalla seconda metà dei Trenta inizia per Edith Piaf la discesa/ascesa: discesa per la facilità del percorso professionale; ascesa, per quel che concerne il raggiungimento delle vette in tema di successo, sia di vendita che di affetto e ammirazione da parte del pubblico. Canto per Marcel Cominciano a entrare ed uscire dalla sua vita tanti uomini (anche donne, si dice, tra cui la divina Marlene: ma siamo a livello di “si dice”). Entrano da illustri sconosciuti, escono da potenziali o mature star. Alcuni nomi: Yves Montand, Charles Aznavour, George Fine prematura Moustaky, Gilber Becaud (a proposito della “cattiveria” sulle frequentazioni nazi di Edith... ma vi pare che il partigiano e camarade Becaud l’avrebbe, non dico di più, ma già solo salutata?!), Eddie Constantine, Leo Ferrè... Nel mezzo c’è la straziante parentesi col pugile Marcel Cerdan, sposato e padre di tre figli, ma follemente innamorato di questa piccola e bruttina e sgraziata e malaticcia donna dal cuore grande come una casa. La loro storia durerà un anno o poco più. È il 1948, lei è in tournee negli USA (ci era sbarcata la prima volta nel 1946: incompresa totale e non solo dalla critica; ma non da Orson Welles o dal connazionale, divo hollivudiano, Charles Boayer): lo supplica di raggiungerla, ma non in nave, due settimane di attesa, bensì in aereo. Il velivolo si schianterà su un’isola. La sera stessa, lei ha un recital. È distrutta. Vuole comunque esibirsi: “Stasera canto solo per Marcel”: a questo punto conquista anche l’America. La «guardarobiera» Dietrich Nel 1952 si sposa con Jaques Pills, compositore. Madrina di nozze e “guardarobiera”, la grande Dietrich. Dura quattro anni, il matrimonio... E comunque, sono tanti. In precedenza e dopo, anche a fronte di ciechi innamoramenti, non si va oltre qualche mese o settimana. Eppure, affamata d’amore, affetto, attenzioni, coccole le unioni non reggono nel tempo – e non sono certo le “corna”, più di tanto, a farle saltare. È proprio questa “fame atavica” di amore ad azzerarle, perché è ben più forte la paura di venire abbandonata. Paura, probabilmente dovuta a una faccenda di “confronti” con le tante bellezze che girano nel mondo dello spettacolo parigino, francese e internazionale; ma anche alla consapevolezza di non essere una persona facile, di non essere una È appena verso la fine – Dio solo sa, quanto prematura!? – della sua vita, che Edith trova ciò che con smania e terrore ha cercato tutta la vita: l’amore. Si chiama Theophil Lamboukas (lei lo ribattezzera’: Theo Sarapo), parrucchiere ventiseienne, dunque di vent’anni più giovane, bello come Adone, innamoratissimo di lei. Ovviamente, la convinzione, compresa quella degli amici più intimi di Edith, è che si tratti di un furbissimo “scalatore sociale”. Macché, Theo non si allontana mai, non la lascia mai sola: in casa, in clinica, in palcoscenico. Complesso materno? “Siete matti?” dice a chi lo insinua. “Se non mi interessa avere figli, è proprio perché è lei la mia bambina”. Si ricrederanno appena dopo la sua morte, quando rimasto senza il Passerotto trascorrerà qualche anno mezzo imbambolato per finire schiantato con la macchina contro un platano a trentaquattro anni, nel 1970. Lei se n’era andata, tra le sue braccia, l’11 ottobre del 1963, a causa di una cirrosi epatica intervenuta a seguito di una broncopolmite mista all’(ab)uso di medicinali di tutti i tipi. L’elogio funebre, scritto parecchio tempo prima da Jean Cocteau, viene letto sei ore prima (!) che quest’ultimo venga colpito da un infarto, presumibilmente come risposta psicofisica alla perdita della piccola grande amica. Non esiste al mondo un’altra È passato mezzo secolo dalla sua scomparsa. Non credo esista al mondo un altro/altra artista per il quale, non appena dispiega la propria voce, sale su la rabbia per quanto sia stata sfortunata, per averci lasciati così presto. Il tutto, misto a una sensazione, insieme di profonda malinconia e gioia immane. E fastidio, va aggiunto – sintomo di grande e sincero attaccamento emotivo – nell’ascoltare qualcuno che tenti (figuratevi!?) di imitarla. 8 musica mercoledì, 30 ottobre 2013 PERSONAGGI la Voce del popolo di Sergio Sablich LA COMPOSIZIONE DI BENJAMIN BRITTEN NON È SEMPLICEMENTE UN REQUIEM DI GUERRA MA UNA MEDITAZIONE PER QUELLI CHE HANNO VISTO LA MORTE IN FACCIA E VOGLIONO VIVERE ANCORA WARREQUIEM MUSICA PER TUTTI GLI UOMINI “I l mio tema è la Guerra, e la pietà della Guerra. La Poesia sta nella pietà... Tutto ciò che un poeta può fare è avvertire”. “Scrivo musica per gli esseri umani, dichiaratamente e coscientemente”. Basterebbero queste parole rispettivamente del poeta, Wilfred Owen, e del musicista Benjamin Britten, a racchiudere il senso più intimo del grandioso affresco del War Requiem. Il War Requiem non è semplicemente un requiem di guerra, o una liturgia sul tema della guerra, ma una meditazione per tutti coloro che pur avendo guardato in faccia la morte vogliono essere ancora vivi. Concezione originale, in rapporto al genere ma non alla storia dell’anima di Britten, di una visione del rito che per metà abbraccia la fede, per metà la riconduce a squarci di immediata attualità, parlando agli e per gli uomini. e dire la verità: come è potuto accadere tutto ciò, come potrà ancora e comunque accadere nelle guerre grandi e piccole? Da un lato la grande orchestra e il coro con il soprano solista scandiscono solennemente le sezioni della messa (Requiem - Dies Irae - Offertorio - Sanctus - Agnus Dei e Libera me), come fissandole religiosamente in un mondo di immagini del passato, Un valore per sempre La pace del riposo Il ricordo dei morti vive nella preghiera sul testo latino della Missa pro Defunctis, utilizzato da Britten come l’impalcatura della tradizione nella forma codificata del rito funebre; ma accanto ad esso si leva, nella lingua moderna, drammaticamente, la voce dei morti che chiedono ragione ai vivi e non ne accettano supinamente il compianto: essi vogliono non solo esser ricordati ma anche ricordare, sapere, testimoniare, accusare. Le loro anime senza sepoltura escono, come Lazzaro dalla tomba, dalla terra, per reincarnarsi in corpi mortalmente feriti e diventare i tragici cantastorie di eventi che nulla hanno a che fare con Paesi, gloria, onore, potere, maestà, dominio, ma solo con l’aberrazione senza tempo e spazio della guerra. Ed è lì che essi si parlano e si riconoscono uomini, chiedendosi perdono ancor prima di apprendere, infine rivelandolo, di essere “nemici”: “Io sono il nemico che tu hai ucciso, amico”. Le parole del poeta inglese Wilfred Owen, così cariche di asciutto stupore, più che denunciare o ammonire, registrano pensieri e sentimenti, avvertono, invitano a cercare la Voce del popolo Anno 9 /n. 75 / mercoledì, 30 ottobre 2013 IN PIÙ Supplementi è a cura di Errol Superina [email protected] Edizione Progetto editoriale Caporedattore responsabile Errol Superina MUSICA Silvio Forza Redattore esecutivo Ivana Precetti Božičević Impaginazione Annamaria Picco Collaboratori Sandro Damiani, Ilaria Rocchi, Sergio Sablich e Patrizia Venucci Merdžo Foto Archivio ricreandone l’atmosfera legata all’antico testo liturgico; dall’altro, in drammatico contrasto, il tenore e il baritono solista accompagnati da un’orchestra da camera si inseriscono a tratti brutalmente per rievocare con i versi di Owen i fatti della guerra: con crudo senso narrativo, quasi recupero novecentesco di una disperata, tutt’altro che eroica “chanson de gestes”. Sullo sfondo, come un ricordo lontano di paradisi perduti, l’eco luminosa del coro di bambini sostenuti dall’organo, a indicare con la voce immacolata dell’innocenza un approdo rasserenante nella pace del riposo. Riposino i morti, riposino con loro i vivi. Ma non dimentichino. || Britten al lavoro La suprema abilità di Britten nel comporre non solo i tre diversi piani di cui l’oratorio è costituito ma anche il continuo alternarsi di accensioni drammatiche e di sospensioni liriche nel complesso intreccio di mezzi e stili che vi prendono parte si scioglie in un flusso di emozioni musicali costantemente vitale e pregno di suggestioni, ora tensivamente aspro ora abbandonato a pudiche dolcezze. La forza di verità che ne promana non sta soltanto nella denuncia della barbarie e della fondamentale idiozia della guerra, che coinvolge vincitori e vinti, bensì soprattutto nella riflessione su un destino comune di dolore e di pianto. Britten insegna il canto della pietà, nel duplice significato religioso e umano. Sotto questo profilo la sua non è un’opera di protesta, e tanto meno schierata sul versante dell’impegno politico, ma un’opera di pace, intessuta di angoscia e di speranza, di memoria e di oblio: per dimenticare nel riposo eterno tutto quanto è necessario ricordare sul palcoscenico della vita, compassionevolmente. Perfino la ribellione cede a poco a poco al riconoscimento che solo la pietà, forma immensa di amore, può redimere l’uomo dalle sue colpe. Quando tutto si è compiuto, i testimoni moderni dell’orrore invitano a lasciarli dormire, ora; “Let us sleep now...”, intonano da soli il baritono e il tenore, i nemici finalmente riappacificati. Subito il coro di bambini risponde con ardore: “In paradisum deducant te Angeli”. E qui avviene il miracolo. Tutti i protagonisti – cori, orchestre, solisti – si riuniscono per la prima volta in un “tutti” generale e pronunciano insieme le parole del commiato, implorando la pace e la luce eterna; come svanendo, pianissimo e molto lento, il coro a cappella ripete l’estrema invocazione, saldando la fine all’inizio: “Riposino in pace, amen”. Anche se tutto ricomincerà, questa pietà che in Britten diviene sentimento universale è un valore consegnato per sempre a tutti gli uomini di buona volontà. L’unico, forse, che possa accostarci, fin dove è possibile, alla divinità, restituendo un senso ultimo alle parole della preghiera. Peter Pears, l’amore di una vita Benjamin Britten fu un bambino precoce che sentì presto il richiamo della musica. Una vocazione che lo portò a comporre opere che oggi vengono considerate vere e proprie pietre miliari del novecento musicale. Composizioni che per certi versi rompono con quella tradizione inglese che il giovane musicista del Suffolk, desideroso di cambiamento, definiva chiusa ed isolana. Lontana e monotona. Importantissimi, anzi fondamentali per la sua carriera furono due incontri: il primo con il celebre poeta W.H. Auden, per il quale musicherà più opere, il secondo con il tenore Peter Pears che diventerà non solo la sua musa ma anche il suo compagno di vita per quarant’anni pieni.Insieme i due uomini condivisero momenti di difficoltà e riconoscimenti illustri (tra cui il baronato per Britten e il titolo di Sir per Pears), successi e contestazioni (alcuni critici amavano malignamente sottolineare come il || Britten con il suo compagno Peter Pears tenore sapesse padroneggiare in realtà solo una nota e come su quella singola nota Britten avesse costruito alcune delle sue arie più celebri giusto per agevolare il compagno). Una storia d’amore durata per quasi mezzo secolo e che ci ha lasciato commoventi testimonianze sia private che artistiche. I due artisti morti a distanza di dieci anni l’uno dall’altro riposano ora insieme nel cimitero della chiesa di Pietro e Paolo nell’adorato Suffolk.