Diritto Civile

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Diritto Civile
a cura di Pietro Rescigno
con Raffaele Caterina, Vincenzo Cuffaro, Pietro Lambertucci,
Pier Giuseppe Monateri e Giuseppe Santoro-Passarelli
VENDITA DI BENI DI CONSUMO
Corte di giustizia dell’Unione Europea, I Sezione, 16 giugno 2011 (in cause riunite C-65/09 e
C-87/09), pag. 534.
La vendita di beni di consumo torna alla Corte di giustizia: eccessiva onerosità del rimedio, differenze
linguistiche e influsso della Dir. 99/44/CE sul diritto tedesco e italiano, di Geo Magri.
VACCINAZIONI OBBLIGATORIE
Cassazione civile, III Sezione, 27 aprile 2011, n. 9406, pag. 539.
Il problema dei danni da vaccinazione obbligatoria, di Marco Rizzuti.
INTERPRETAZIONE DEL CONTRATTO
Cassazione civile, III Sezione, 1o aprile 2011, n. 7557, pag. 543.
RINUNCIA AL LEGATO
Cassazione civile, Sezioni unite, 29 marzo 2011, n. 7098, pag. 546.
La forma della rinuncia al legato in sostituzione di legittima avente a oggetto beni immobili
di Marco Filippo Giorgianni.
DANNO DA MORTE
Cassazione civile, III Sezione, 24 marzo 2011, n. 6754, pag. 551.
DANNO AMBIENTALE
Cassazione civile, III Sezione, 22 marzo 2011, n. 6551, pag. 554.
Prolegomeni alla nuova disciplina del danno ambientale, di Andrea Luberti.
IMMOBILE DA COSTRUIRE
Cassazione civile, II Sezione, 10 marzo 2011, n. 5749, pag. 564.
La Corte di cassazione si pronuncia sul contratto preliminare di vendita di immobile “sulla carta”: è
valido, ma non rientra nell’ambito di applicazione del D.Lgs. n. 122/2005, di Andrea Archinà.
Cassazione civile, II Sezione, 10 marzo 2011, n. 5740, pag. 568.
Brevi note in tema di patto commissorio, procura a vendere e autonomia privata ovvero la fattispecie
e i suoi confini, di Mimmo Albanese.
SALE AND LEASE BACK
Cassazione civile, Sezione tributaria, 9 marzo 2011, n. 5583, pag. 575.
Lease back: chiaroscuri applicativi fra funzione di finanziamento e garanzia, di Giorgio Rispoli.
FALSUS PROCURATOR
Cassazione civile, II Sezione, 8 marzo 2011, n. 5425, pag. 580.
SUCCESSIONE TESTAMENTARIA
Cassazione civile, II Sezione, 3 marzo 2011, n. 5131, pag. 583.
REVOCA DI DISPOSIZIONI TESTAMENTARIE
Cassazione civile, II Sezione, 1o marzo 2011, n. 5037, pag. 586.
Giurisprudenza Italiana - Marzo 2012
DIRITTO CIVILE
DIVIETO DEL PATTO COMMISSORIO
534
Diritto Civile | VENDITA DI BENI DI CONSUMO
SCRITTURA PRIVATA
Cassazione civile, III Sezione, 28 febbraio 2011, n. 4918, pag. 588.
RESPONSABILITAv DELL’ISTITUTO SCOLASTICO
Cassazione civile, III Sezione, 15 febbraio 2011, n. 3680, pag. 590.
Il cane morde l’alunna all’uscita della scuola: quid iuris?, di Eleonora Petrone.
PETITIO HEREDITATIS
Cassazione civile, II Sezione, 9 febbraio 2011, n. 3181, pag. 594.
TUTELA RISARCITORIA DELLO STRANIERO
Cassazione civile, III Sezione, 11 gennaio 2011, n. 450, pag. 596.
La condizione di reciprocità nel danno alla persona, di Domenico Colucci.
LESIONE DI INTERESSE LEGITTIMO PRETENSIVO
Cassazione civile, III Sezione, 23 febbraio 2010, n. 4326, pag. 602.
La natura giuridica della responsabilità della pubblica amministrazione per lesione degli interessi illegittimi prima e dopo il codice del processo amministrativo, di Armando Fiorillo.
LODO MONDADORI
Appello Milano, 9 luglio 2011, pag. 607.
L’azione di responsabilità nel caso CIR-Fininvest: quali chances per la perdita di chances?
di Bruno Tassone.
VENDITA DI BENI DI CONSUMO
Corte di giustizia dell’Unione Europea, I Sezione, 16 giugno 2011 (in cause riunite C-65/09 e
C-87/09) — Tizzano Presidente — Mazák Relatore
— Gebr. Weber GmbH / Jürgen Wittmer (causa
C-65/09), Ingrid Putz / Medianess Electronics GmbH
(causa C-87/09).
Beni di consumo — Vendita di beni di consumo —
Dir. 1999/44/CE — Diritto alla sostituzione dei prodotti non conformi — Portata — Responsabilità del
venditore per i costi di rimozione di beni viziati e
l’installazione del prodotto sostitutivo conforme —
Eccessiva onerosità del rimedio — Sproporzione assoluta e relativa (Dir. 99/44/CE, art. 3; C. cons. artt.
128 e segg.).
L’art. 3, nn. 2 e 3, Dir. 99/44/CE deve essere interpretato nel senso che, quando un bene di consumo non
conforme, che prima della comparsa del difetto sia stato
installato in buona fede dal consumatore tenendo conto
della sua natura e dell’uso previsto, sia reso conforme
mediante sostituzione, il venditore è tenuto a procedere
egli stesso alla rimozione di tale bene dal luogo in cui è
stato installato e ad installarvi il bene sostitutivo, ovvero
a sostenere le spese necessarie. Tale obbligo sussiste anche nel caso in cui il venditore non fosse originariamente
1
Corte giust. CE, 17 aprile 2008, causa C-404/06, Quelle AG
c. Bundesverband der Verbraucherzentralen und Verbraucherverbiinde, in Racc., I-2685, oltre a Foro It., 2009, 1, 38 e Europa
e Dir. Priv., 2009, 1, 192, con commento di Mangiaracina. La
Giurisprudenza Italiana - Marzo 2012
tenuto ad installare il bene di consumo. L’art. 3, n. 3,
della direttiva osta ad una normativa nazionale che attribuisca al venditore il diritto di rifiutare la sostituzione
di un bene non conforme, unico rimedio possibile, in
quanto essa gli imporrebbe costi sproporzionati, rispetto
al valore del bene, per la sua rimozione e reinstallazione.
In tal caso, tuttavia, il diritto del consumatore al rimborso delle spese di rimozione del bene difettoso e di
installazione del bene sostitutivo, può esser limitato al
versamento di un importo proporzionato (1).
Per il testo della sentenza v. www.curia.europa.eu
(1) La vendita di beni di consumo torna alla
Corte di giustizia: eccessiva onerosità del rimedio, differenze linguistiche e influsso della Dir. 99/44/CE sul diritto tedesco e italiano
Sommario: 1. Le fattispecie sottoposte alla Corte. — 2. I
rimedi riconosciuti al consumatore dalla Dir. 99/44/CE. —
3. L’obbligo di rimozione del bene non conforme e di installazione di un bene conforme senza spese per il consumatore. — 4. La sproporzione tra il costo del rimedio e il
prezzo del bene. — 5. Conclusioni: gli effetti della sentenza
sulla vendita di beni di consumo in Germania e Italia.
1. Le fattispecie sottoposte alla Corte.
A distanza di tre anni dalla sentenza Quelle 1, la Corte
di giustizia UE, nelle cause riunite C-65/09 (Gebr. Wesentenza Quelle, che per certi versi può essere considerata un
precedente di quella in commento, stabiliva l’illegittimità di una
disposizione nazionale, che disponeva un compenso, a carico
del consumatore, per il godimento del bene.
Diritto Civile | VENDITA DI BENI DI CONSUMO
ber GmbH/Jürgen Wittmer) e C-87/09 (Ingrid Putz/
Medianess Electronics GmbH) 2, torna a pronunciarsi
su due ricorsi pregiudiziali sollevati dalla Magistratura
tedesca e relativi all’interpretazione di alcune disposizioni della Dir. 99/44/CE concernente la vendita di
beni mobili di consumo 3.
Questa, brevemente, la fattispecie oggetto del giudizio.
Il sig. Wittmer acquista dalla Gebr. Weber GmbH
delle piastrelle lucidate. Dopo aver fatto posare circa i
due terzi delle piastrelle presso la propria abitazione,
rileva un difetto nelle mattonelle, che presentano ombrature visibili a occhio nudo. Essendo impossibile
eliminare il difetto, si rende necessaria la rimozione di
tutte le piastrelle con un costo approssimativo di circa
6.000,00 euro (il costo delle piastrelle non superava i
2.000,00).
La signora Putz acquista, via Internet, dalla Medianess Electronics GmbH una lavastoviglie. Il bene le
viene consegnato davanti alla porta d’ingresso della sua
abitazione e al momento della consegna paga prezzo e
spese di consegna. Una volta installata la lavastoviglie
emerge un irreparabile difetto di fabbricazione. Le
parti concordano la sostituzione dell’elettrodomestico,
ma la consumatrice pretende che il bene sostitutivo le
venga consegnato e installato a domicilio, con la contestuale rimozione dell’apparecchio difettoso, oppure
che il venditore si faccia carico del pagamento delle
spese di rimozione e di reinstallazione. Pretese rifiutate
dal professionista.
I giudici tedeschi si rivolgevano alla Corte di giustizia
per sapere, rispettivamente: il Bundesgerichtshof (caso
Wittmer) se, ai sensi della Dir. 99/44/CE, un venditore
di beni viziati possa legittimamente rifiutare il rimedio
richiesto dal consumatore (nella specie la sostituzione
del bene), qualora tale rimedio comporti costi sproporzionatamente elevati e, in caso di risposta negativa,
se il professionista debba sopportare le spese relative
alla rimozione dei beni viziati dalla cosa in cui il consumatore li ha inseriti, anche quando esse siano sproporzionate rispetto al valore del bene. L’Amtsgericht
Schorndorf (caso Putz) chiedeva, invece, se, ai sensi
dell’art. 3 della direttiva, nel caso in cui il ripristino
della conformità del bene avvenga tramite sostituzione, il venditore debba sostenere sia i costi relativi alla
2
Sentenza pubblicata in Gazz. Uff. UE, C 90 del 18 aprile
2009 e riassunta in Giur. It.
3
Direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio 25 maggio
1999, n. 1999/44/CE, su taluni aspetti della vendita e delle
garanzie dei beni di consumo (Gazz. Uff. CE L 171 del 7 luglio
1999, 12).
4
Rott, La disciplina tedesca della compravendita dopo l’attuazione della direttiva 1999/44/CE, in La vendita di beni di
consumo, Milano, 2005, in specie 228 e segg. Conferma dell’importanza della decisione nell’ordinamento tedesco si può riscontrare anche nel rilievo che la stampa locale ha dato alla
decisione. Si vedano ad esempio i commenti sul periodico Focus
(www.focus.de), sulla Die Welt (www.welt.de), e sulla Frankfurter
Allgemeine Sonntagszeitung, del 17 luglio 2011, 38.
5
La nozione di difetto di conformità è desumibile dagli
esempi contenuti nell’art. 2.2 della direttiva, secondo il quale:
«Si presume che i beni di consumo siano conformi al contratto
se: a) sono conformi alla descrizione fatta dal venditore e possiedono le qualità del bene che il venditore ha presentato al
consumatore come campione o modello; b) sono idonei ad
ogni uso speciale voluto dal consumatore e che sia stato da
535
rimozione del prodotto difettoso, sia quelli dell’installazione di un nuovo prodotto privo di vizi, anche nel
caso in cui l’installazione non fosse originariamente
prevista dal contratto. Il rinvio si rendeva necessario al
fine di accertare la discussa conformità al diritto comunitario del comma 3, § 439 BGB, che consente al
venditore di rifiutare la Nacherfüllung quando imponga al venditori costi eccessivamente elevati 4.
Le cause pendenti avanti alla Corte con i numeri
C-65/09 e C-87/09, a causa della loro connessione,
venivano riunite in base al combinato disposto degli artt. 43 e 103 del regolamento di procedura della
Corte.
2. I rimedi riconosciuti al consumatore dalla Dir. 99/
44/CE.
La Dir. 99/44/CE tutela il consumatore in caso di
acquisto di beni mobili non conformi rispetto ai beni
che poteva ragionevolmente attendersi concludendo
il contratto 5. Per difetto di conformità deve intendersi ogni difetto che renda il bene inidoneo all’uso al
quale serve abitualmente un bene dello stesso tipo,
oppure che lo renda differente rispetto al bene che il
consumatore poteva attendersi in base alle dichiarazioni del venditore 6. Al fine di stabilire che cosa il
consumatore poteva attendersi, il giudizio sulla conformità deve esaminare anche le dichiarazioni pubbliche sulle caratteristiche specifiche del bene fatte dal
venditore, dal produttore, da un suo agente o rappresentante, e dalla pubblicità commerciale o dall’etichettatura 7.
La direttiva attribuisce al consumatore il diritto di
scegliere tra ripristino gratuito della conformità, mediante riparazione o sostituzione, o la riduzione del
prezzo o la risoluzione del contratto (cfr. considerando
n. 10). L’undicesimo considerando precisa la gerarchia
dell’ordine dei rimedi, affermando che il consumatore
può in primo luogo chiedere al venditore di riparare il
bene o di sostituirlo, salvo che tali rimedi risultino
«impossibili o sproporzionati».
Il contenuto dei due considerando è recepito nell’art.
3 della direttiva (“Diritti del consumatore”), là ove si
precisa che «il venditore risponde al consumatore di
qualsiasi difetto di conformità esistente al momento
della consegna del bene». Nel caso in cui un tale difetto
questi portato a conoscenza del venditore al momento della
conclusione del contratto e che il venditore abbia accettato; c)
sono idonei all’uso al quale servono abitualmente beni dello
stesso tipo; d) presentano la qualità e le prestazioni abituali di
un bene dello stesso tipo, che il consumatore può ragionevolmente aspettarsi, tenuto conto della natura del bene e, se del
caso, delle dichiarazioni pubbliche sulle caratteristiche specifiche dei beni fatte al riguardo dal venditore, dal produttore o
dal suo rappresentante, in particolare nella pubblicità o sull’etichettatura».
6
La nozione di conformità del bene al contratto è stata mutuata dall’art. 35 della Convenzione di Vienna sulla vendita internazionale di beni mobili (Mazzamuto, La vendita di beni di
consumo, in Manuale di diritto privato europeo a cura di Castronovo, Mazzamuto, Milano, 2007, 892). Sulla nozione di conformità, senza pretesa di completezza, v. Alpa, Il diritto dei consumatori, Roma-Bari, 2002, 251; De Cristofaro, Difetto di conformità al contratto e diritti del consumatore. L’ordinamento italiano e la direttiva 99/44/CE sulla vendita e le garanzie dei beni
di consumo, Padova, 2000; Mazzamuto, op. cit., 892 e segg.
7
Alpa, op. loc. cit.
Giurisprudenza Italiana - Marzo 2012
536
Diritto Civile | VENDITA DI BENI DI CONSUMO
si dovesse presentare, il consumatore ha diritto al ripristino, senza spese, della conformità del bene mediante riparazione o sostituzione, o a una riduzione
adeguata del prezzo o alla risoluzione del contratto. In
base alla direttiva, il consumatore può chiedere direttamente al soggetto dal quale ha acquistato il bene di
ripararlo o sostituirlo, senza l’addebito di spese di manodopera, spedizione e di materiali 8, salvo che ciò sia
impossibile o sproporzionato. La funzione dell’art. 3
sarebbe quindi quella di porre a disposizione del consumatore rimedi idonei a conseguire il risultato avuto
di mira al momento della conclusione del contratto,
assicurandogli, secondo alcuni, un diritto all’esatto
adempimento, secondo altri, più semplicemente, ulteriori specifiche garanzie in caso di vizi 9.
Riparazione o sostituzione devono essere effettuate,
a cura del venditore e tenendo conto della natura del
bene e dello scopo per il quale è stato acquistato, in un
lasso di tempo ragionevole e senza notevoli inconvenienti.
Soltanto qualora il consumatore non abbia diritto né
alla riparazione né alla sostituzione, o qualora il venditore non abbia esperito il rimedio entro un periodo
ragionevole o senza notevoli inconvenienti, il consumatore può ricorrere ai rimedi tradizionali previsti in
caso di vizi chiedendo, alternativamente, una congrua
riduzione del prezzo o la risoluzione del contratto (art.
3.5). In forza dell’art. 2.5 della direttiva, la responsabilità del venditore si allarga anche a difetti successivi
alla consegna e conseguenti all’imperfetta installazione
del bene, quando l’installazione costituisca oggetto di
un’obbligazione accessoria del venditore o quando,
trattandosi di prodotto concepito per essere installato
dal consumatore, lo sia stato in modo scorretto, a causa
di una carenza o di un’imprecisione delle informazioni
fornite dal venditore 10.
I rimedi offerti dalla direttiva, come precisa il considerando n. 5, hanno lo scopo di garantire un elevato
livello di protezione del consumatore 11, livello che rappresenta, però, soltanto la soglia minima di tutela 12.
Resta impregiudicata l’adozione di rimedi migliorativi
da parte dei singoli diritti nazionali 13.
3. L’obbligo di rimozione del bene non conforme e di
installazione di un bene conforme senza spese per il
consumatore.
Il primo problema che il rinvio pone alla Corte è
quello di stabilire la portata del termine «sostituzione».
Con riferimento a tale espressione va evidenziata una
differenza linguistica tra le diverse versioni della direttiva che rende difficoltosa l’interpretazione. Nel testo
inglese è utilizzato il vocabolo «replacement», cosı̀ come in quello francese il termine «remplacement»: essi,
lasciano intendere un vero e proprio “rimpiazzo” del
bene viziato con quello sostitutivo. Altre traduzioni
della direttiva, come quella spagnola («sustitución»),
italiana («sostituzione») e portoghese («substituição»),
pur adottando un’espressione più neutra, lasciano intendere che il venditore debba porre in essere tutto ciò
che è necessario per sostituire effettivamente il bene.
Altre versioni, in particolare quella tedesca che utilizza
il vocabolo «Ersatzlieferung», sembrano deporre, invece, a favore di un’accezione più ristretta, che si limita
alla sola consegna di un bene conforme, ma che esclude ulteriori interventi.
Secondo la Corte, il significato del termine «sostituzione» va individuato attraverso una lettura sistematica
della direttiva, all’esito della quale si deve ritenere che
il legislatore comunitario abbia inteso imporre l’obbligo di consegnare un bene conforme che, in caso di vizi,
deve essere rimpiazzato. Argomenti a sostegno di tale
scelta ermeneutica possono esser rinvenuti negli obblighi di ripristino della conformità (art. 3.2) e di tener
conto della natura e dello scopo del bene (art. 3.3), che
inducono a pensare che, in capo al venditore, gravi
l’onere della rimozione del bene difettoso e di reinstallare quello conforme, in modo che il consumatore possa utilizzare effettivamente il bene.
La Corte, sulla scia della sentenza Quelle, accoglie
un’interpretazione cosı̀ lata dell’art. 3 e la legittima
anche alla luce dei lavori preparatori, in base ai quali è
possibile arguire come l’Unione abbia inteso fare della
gratuità del ripristino della conformità del bene un
elemento essenziale della tutela del consumatore 14. Se
le spese di rimozione e reinstallazione fossero poste a
8
Cfr. il punto 8 delle conclusioni dell’avv. Generale Mazák,
18 maggio 2010, nelle cause C-65/09 e C-87/09.
9
Il tema è assai controverso. In dottrina vi è chi ritiene che
le tutele offerte dal codice del consumo al consumatore acquirente siano conseguenza dell’esercizio di un’azione di esatto
adempimento; per altri esse sarebbero, piuttosto, espressione
del normale effetto dell’obbligo di garanzia in capo al venditore. In senso che al consumatore sia attribuita un’azione di
esatto adempimento cfr. il commento sub art. 130, in Codice del
Consumo a cura di Cuffaro, Milano, 2008, 604; Scarpa, La
vendita dei beni di consumo: la conformità al contratto e i diritti
del consumatore tra codice del consumo e codice civile, in Giur.
di Merito, 2008, 3038. Contra Mazzamuto, op. cit., 921 e Nicolussi, Difetto di conformità e garanzie in forma specifica, in
La vendita di beni di consumo, cit., 81. Secondo Amadio, Proprietà e consegna nella vendita di beni di consumo, in La vendita
di beni di consumo, cit., 45 e seg., il dibattito sarebbe frutto del
tentativo di ricondurre alla mentalità del civil lawyer un rimedio che ad essa è estraneo. Per un rimando bibliografico più
ampio v. il commento, sub art. 129 c. cons., in Commentario
breve al codice del consumo a cura di De Cristofaro, Zaccaria,
Padova, 2010, 826.
10
Luminoso, La Compravendita, 3a ed., Torino, 2003, 312.
11
Sul punto v. anche la sentenza della Corte di giustizia 17
aprile 2008, causa C-404/06, Quelle AG c. Bundesverband
der Verbraucherzentralen und Verbraucherverbiinde, cit., punti
30 e 36.
12
Luminoso, op. cit., 296.
13
L’Avvocato generale Mazák, nelle sue conclusioni nelle
cause C-65/09 (punto 28) e 87/09 (punto 29), precisa che:
«D’altro lato, si deve tenere presente che la direttiva costituisce
una misura di armonizzazione minima, quindi non di tutti ma
solo di alcuni aspetti della vendita di beni di consumo. Perciò,
come si dichiara nel sesto considerando della direttiva stessa,
quest’ultima mira a ravvicinare le legislazioni nazionali relative
alla vendita dei beni di consumo per quanto riguarda la non
conformità dei beni con il contratto, senza però intervenire sulle
disposizioni e sui principi delle legislazioni nazionali relativi alla
responsabilità contrattuale ed extracontrattuale». Come rilevato da Luminoso (op. cit., 305), la norma da un lato rafforza la
tutela del consumatore, dall’altro aiuta l’interprete nella soluzione dei problemi di coordinamento tra le norme di attuazione
e quelle già vigenti nell’ordinamento.
14
Argomenti in questo senso ai punti 33 e 34 della sentenza
Quelle, cit.
Giurisprudenza Italiana - Marzo 2012
Diritto Civile | VENDITA DI BENI DI CONSUMO
carico del consumatore, la sostituzione, per lui, non
avverrebbe gratuitamente 15.
L’obbligo di rimozione e reinstallazione, secondo la
sentenza, sussiste indipendentemente dal fatto che il
venditore fosse tenuto o meno, in base al contratto
originario, a installare il bene. Una simile ampia responsabilità del venditore è del resto conforme a quanto previsto dall’art. 45 della Convenzione sulla compravendita internazionale di merci 16, Convenzione
che, come noto, è stata fonte di ispirazione nella redazione della Dir. 99/44/CE.
Tale conclusione non è incompatibile con il fatto che
le spese di rimozione del bene non conforme e di installazione del bene sostitutivo non figurino tra quelle
esplicitamente elencate dall’art. 3.4 della direttiva 17.
Richiamando la sentenza Quelle e disattendendo l’opinione dell’AG 18, la Corte ricorda che l’impiego dell’espressione «in particolar modo» utilizzata dall’art.
3.4 sottintende un’elencazione a carattere esemplificativo e non esaustivo 19. Inoltre, imporre al consumatore
l’onere delle spese di rimozione e di reinstallazione
sarebbe in palese contrasto con l’obbligo del venditore
di rendere conforme il bene «senza notevoli inconvenienti» enunciato nell’art. 3.3.
La gratuità del rimedio è elemento di particolare importanza nella tutela del consumatore perché, se egli
dovesse affrontare delle spese per la rimozione del bene e per l’installazione di quello sostitutivo, subirebbe
oneri finanziari che lo disincentiverebbero a richiedere
la protezione offerta dalla direttiva e che non è legittimo addossargli, posto che derivano da un inadempimento del venditore.
Imporre al venditore il pagamento dei costi di rimozione e di reinstallazione non conduce a un risultato
iniquo atteso che egli, consegnando un bene non con15
Cfr. punto 49 della sentenza in commento.
La Convenzione delle Nazioni Unite sui contratti di compravendita internazionale di merci è stata adottata l’11 aprile
1980 ed è entrata in vigore il 1o gennaio 1988. L’art. 45 dispone
che: «(1) If the seller fails to perform any of his obligations under
the contract or this Convention, the buyer may: a. exercise the
rights provided in articles 46 to 52 b. claim damages as provided
in articles 74 to 77. (2) The buyer is not deprived of any right he
may have to claim damages by exercising his right to other remedies. (3) No period of grace may be granted to the seller by a court
or arbitral tribunal when the buyer resorts to a remedy for breach
of contract». È appena il caso di ricordare che l’art. 46 della
CISG prevede i rimedi della sostituzione e della riparazione.
Per una disamina della Convenzione si rimanda a: AA.VV.,
Convenzione di Vienna sui contratti internazionali di beni mobili.
Commentario, coordinato da Bianca, Padova, 1992; Gianola,
La vendita internazionale, in Tratt. Dir. Priv. a cura di Rescigno,
Torino, 2000, XI e Magnus, Wiener UN-Kaufrecht (CISG), in
Staudinger Kommentar, De Gruyter, 2005.
17
In senso contrario, invece, cfr. punti 65 delle Conclusioni
dell’avv. Mazák nella causa C-65/09 e 66 nella causa C-87/09.
18
Secondo l’Avvocato generale, una lettura sistematica dell’art. 3 avallerebbe un’interpretazione della responsabilità del
venditore ristretta e comunque non idonea a ricomprendere
anche le spese di rimozione dei beni non conformi, posto che tali
spese non sarebbero contemplate dall’art. 3.2, che contiene
un’elencazione esaustiva dei rimedi fruibili dal consumatore.
Secondo l’A.G., il fatto che l’installazione derivi da una condotta esclusiva del consumatore sarebbe idoneo a escludere ogni
responsabilità del venditore. Nemmeno il fatto che la direttiva
preveda che i rimedi devono essere improntati alla gratuità per
il consumatore consentirebbe una diversa interpretazione (cfr.
16
537
forme, non ha correttamente adempiuto i propri obblighi; inoltre pare ragionevole far ricadere sul venditore (professionista) il rischio che il bene presenti difetti di conformità che impongono, per la loro eliminazione, particolari costi aggiuntivi, costi che, evidentemente, rientrano nel rischio d’impresa 20. Il rimborso
sarà invece escluso in tutti quei casi in cui il consumatore abbia installato il bene non tenendo conto della
sua natura, dell’uso previsto o ignorando le istruzioni
impartite dal professionista.
4. La sproporzione tra il costo del rimedio e il prezzo del
bene.
L’art. 3.3 della direttiva stabilisce che il consumatore
ha diritto a esigere dal venditore la riparazione del
bene o la sua sostituzione, in entrambi i casi senza
spese, salvo che ciò sia impossibile o sproporzionato. Si
ha una sproporzione del rimedio quando esso impone
al venditore spese irragionevoli in confronto all’altro
rimedio, tenendo conto del valore che il bene avrebbe
se non vi fosse difetto di conformità, dell’entità del
difetto di conformità e dell’eventualità che il rimedio
alternativo possa essere esperito senza notevoli inconvenienti per il consumatore.
Il BGB, al § 439, n. 3 21, in attuazione della direttiva,
nel distinguere tra sproporzione relativa e assoluta dei
costi del rimedio scelto dall’acquirente, stabilisce che il
venditore può rifiutare la modalità di adempimento
successivo, non solo quando essa gli imponga costi
sproporzionati rispetto all’altra («sproporzione relativa») 22, ma anche quando il costo della modalità scelta
dell’acquirente, ancorché l’unica possibile, sia intrinsecamente sproporzionata rispetto al valore del bene
(«sproporzione assoluta») 23.
punti 65 delle Conclusioni nella causa C-65/09 e 66 nella causa
C-87/09).
19
Cfr. sentenza Quelle, cit., punto 31.
20
Come giustamente rileva la Corte, cfr. punto 58 della sentenza, il venditore gode comunque di una responsabilità limitata
nel tempo (2 anni) e di un’azione di regresso nei confronti del
produttore del bene o dei responsabili nella catena commerciale
(cfr. art. 4 direttiva).
21
Per un commento del quale, cfr. Matusche-Beekman,
sub § 439 in Staudinger: Kommentar zum Bürgerlichen Gesetzbuch, De Gruyter, 2005; Canaris, Die Nacherfüllung durch Lieferung einer mangelfreien Sache beim Stückkauf, in JZ, 2003, 831;
Bitter-Meidt, Nacherfüllungsrecht und Nacherfüllungspflicht
des Verkäufers im neuen Schuldrecht, in ZIP, 2001, 2114.
22
Cfr. Rott, op. cit., 228.
23
Il § 439 BGB cosı̀ dispone: «1) Der Käufer kann als Nacherfüllung nach seiner Wahl die Beseitigung des Mangels oder
die Lieferung einer mangelfreien Sache verlangen. Der Verkäufer
hat die zum Zwecke der Nacherfüllung erforderlichen Aufwendungen, insbesondere Transport-, Wege-, Arbeits- und Materialkosten zu tragen. Der Verkäufer kann die vom Käufer gewählte Art der Nacherfüllung unbeschadet des § 275 Abs. 2 und 3
verweigern, wenn sie nur mit unverhältnismäßigen Kosten
möglich ist. Dabei sind insbesondere der Wert der Sache in mangelfreiem Zustand, die Bedeutung des Mangels und die Frage zu
berücksichtigen, ob auf die andere Art der Nacherfüllung ohne
erhebliche Nachteile für den Käufer zurückgegriffen werden
könnte. Der Anspruch des Käufers beschränkt sich in diesem Fall
auf die andere Art der Nacherfüllung; das Recht des Verkäufers,
auch diese unter den Voraussetzungen des Satzes 1 zu verweigern,
bleibt unberührt. Liefert der Verkäufer zum Zwecke der Nacherfüllung eine mangelfreie Sache, so kann er vom Käufer RückGiurisprudenza Italiana - Marzo 2012
538
Diritto Civile | VENDITA DI BENI DI CONSUMO
Occorre quindi determinare, su rinvio pregiudiziale
del Bundesgerichtshof, se il paragrafo del codice civile
tedesco sia conforme rispetto al testo della direttiva o
se essa abbia voluto limitarsi a escludere i casi di sproporzione relativa 24. La questione non ha rilievo soltanto per i giudici tedeschi. Anche in Italia, de iure condendo, molti interpreti hanno affermato che la sproporzione del costo del rimedio vada letta con riferimento non già alla sola sostituzione o riparazione, ma
al quadro complessivo dei rimedi esperibili dal consumatore 25.
Secondo la Corte, invece, l’ampia formulazione della
norma, pur astrattamente idonea a ricomprendere ipotesi di sproporzione assoluta e sebbene alcune versioni
linguistiche consentano una siffatta interpretazione 26,
intende riferirsi alla sola sproporzione relativa. Il giudizio di proporzionalità, quindi, va condotto con una
comparazione tra i due rimedi della riparazione e della
sostituzione, precludendo la scelta di quello dei due
che risulti sproporzionatamente oneroso, ma non privando di tutela il consumatore nel caso in cui un solo
rimedio sia possibile a un costo sproporzionato 27. La
decisione è condivisibile e conforme a una lettura sistematica della direttiva, il cui art. 3.3. è piuttosto chiaro nel disporre che un rimedio è sproporzionato «se
impone al venditore spese irragionevoli in confronto»,
non già alla generalità dei rimedi, ma espressamente
«all’altro rimedio» e aggiungendo che, nella valutazione della proporzionalità, bisogna «tener conto dell’eventualità che il rimedio alternativo possa essere
esperito senza notevoli inconvenienti per il consumatore».
Enunciato tale principio, la Corte precisa che, con
riguardo alla fattispecie sottopostale dal giudice del
rinvio — nella quale la sostituzione del bene difettoso
(unico rimedio possibile) comporta costi sproporzionati in ragione della necessità di rimuoverlo dal luogo
in cui è stato installato e di installare il bene sostitutivo —, l’art. 3.3 lascia impregiudicata l’eventualità di
una riduzione del rimborso delle spese di rimozione e
di installazione, limitandolo «ad un importo proporzionato al valore che il bene avrebbe se fosse conforme
e all’entità del difetto di conformità». Siffatta limitazione, secondo la Corte, lascia impregiudicato il diritto
del consumatore di chiedere la sostituzione del bene
non conforme, garantendo un giusto equilibrio tra gli
interessi delle parti che si vedrebbero da un lato garantita «una tutela completa ed efficace contro un’inesatta esecuzione» del contratto di vendita, dall’altro
una limitazione alle pretese risarcitorie in caso di difetto di conformità 28.
Nel caso di riduzione del rimborso dei costi di rimozione e reinstallazione, «posto che la circostanza che il
consumatore possa ottenere il ripristino della conformità del bene difettoso solo sostenendo una parte di
tali spese rappresenta [...] un notevole inconveniente»,
il consumatore è legittimato a richiedere la riduzione
del prezzo o la risoluzione del contratto. Proprio il
ricorso a tali rimedi consentirà, almeno per i consumatori italiani, di aggirare la riduzione del risarcimento
operata dalla Corte. Come noto, infatti, l’art. 1494 c.c.
consente al consumatore di richiedere, congiuntamente alla risoluzione del contratto o alla riduzione del
prezzo, anche il risarcimento del danno. La giurisprudenza è consolidata nel ritenere che la funzione del
combinato disposto tra gli artt. 1492 e 1494 c.c. sia
quella di «ristabilire il rapporto di corrispettività tra
prestazione e controprestazione», nonché porre l’acquirente nella «situazione economica in cui si sarebbe
trovato se il bene fosse stato immune da vizi» 29. Conseguentemente, ecco rientrare dalla finestra del diritto
nazionale il diritto al rimborso di tutte le spese sostenute a causa del difetto di conformità, anche se sproporzionate rispetto al valore del bene.
gewähr der mangelhaften Sache nach Maßgabe der §§ 346
bis 348 verlangen».
Rott, op. cit., 229 afferma che, secondo l’interpretazione corrente, deve ritenersi legittimo il rifiuto nel caso di una sproporzione pari o superiore al 150% del costo del rimedio rispetto al
valore dei beni; maggiori dettagli sulla percentuale che determina la sproporzione del rimedio in Matusche-Beekman, sub
§ 439, in Staudinger: Kommentar zum Bürgerlichen Gesetzbuch,
De Gruyter, 2005, 295.
24
L’ambiguità interpretativa alla quale si prestava il testo
della direttiva era già stato del resto rilevato dalla dottrina. Cfr.
Iurilli, Autonomia contrattuale e garanzie nella vendita di beni
di consumo, Milano, 2004, 207.
25
Luminoso, op. cit., 333 e seg., ritiene, ad esempio, che il
giudizio sull’eccessiva onerosità del rimedio debba essere condotto «ponendo a confronto il rimedio primario esperito dal
consumatore non soltanto con l’altro rimedio dello stesso rango
— sempreché possibile — ma anche con i rimedi secondari della
riduzione del prezzo e della risoluzione del contratto». Nello
stesso senso v. il commento all’art. 130 in Codice del Consumo a
cura di Cuffaro, cit., 605, e Iurilli, op. loc. cit.
26
Del resto, il considerando 11, tanto nella versione italiana
quanto, soprattutto, in quella tedesca, appare meno categorico
nell’escludere la proporzione assoluta. Esso dispone che:
«Unverhältnismäßig sind Abhilfen, die im Vergleich zu anderen unzumutbare Kosten verursachen»; i rimedi sono indicati
al plurale ed era quindi legittimo interrogarsi se la sproporzione
fosse con riferimento a tutti i rimedi o solo al raffronto tra
sostituzione e riparazione.
27
Punto 71 della sentenza in commento.
28
Cfr. punti 74 e 75 della sentenza.
29
Cass., 21 luglio 2004, n. 13593, in Il Civilista, 2010, 9, 34.
Giurisprudenza Italiana - Marzo 2012
5. Conclusioni: gli effetti della sentenza sulla vendita di
beni di consumo in Germania e Italia.
La sentenza in commento pone alcuni punti fermi
nell’interpretazione della Dir. 99/44/CE, che ci paiono
di indubbio rilievo e che hanno effetti anche nel nostro
ordinamento. Innanzitutto precisa che il diritto all’eliminazione dei difetti di conformità del bene consegnato, diritto enunciato nell’art. 130 c. cons., si estende
sino a imporre al venditore l’obbligo di affrontare le
spese necessarie a disinstallare il bene riconsegnandone uno conforme; ciò anche nel caso in cui, tra le sue
obbligazioni originarie, non fosse prevista quella della
consegna al domicilio dell’acquirente. L’estensione
dell’obbligo di garanzia si giustifica alla luce del dovere
di consegnare beni conformi e del corrispondente diritto del consumatore «al ripristino, senza spese della
conformità». Conseguentemente, la direttiva e sulla
sua scia le norme di attuazione nazionali riconoscono,
non solo il diritto a pretendere il pagamento dei costi
necessari per il ripristino della conformità del bene, ma
anche tutti gli oneri economici necessari affinché il
consumatore possa ottenere la materiale disponibilità
di un bene conforme.
Diritto Civile | VACCINAZIONI OBBLIGATORIE
539
Il punto centrale, sul quale merita soffermarsi con
maggiore attenzione, è tuttavia quello della sproporzione tra il rimedio invocato e il costo del bene. La
Corte evidenzia come il giudizio di proporzionalità vada condotto con riferimento ai rimedi della sostituzione e della riparazione, non alla generalità dei rimedi
invocabili dal consumatore. Le conseguenze di una
siffatta interpretazione sono pesanti con riferimento
all’ordinamento tedesco, poiché pongono nel nulla la
previsione dell’Absatz 3 del § 439 BGB. Gli effetti che
la pronuncia avrà in Germania paiono di un certo interesse, in quanto, come noto, dopo il Schuldrechtsmodernisierungsgesetz (SMG) del 2002 si è assistito alla
“consumerizzazione” del contratto di vendita e a una
generalizzazione delle tutele previste a favore del consumatore a tutte le ipotesi di vendita 30. Sarà pertanto
interessante osservare se l’ordinamento tedesco lascerà
che gli effetti della pronuncia si estendano alla vendita
in generale o se ne limiterà la portata alla sola vendita
di beni di consumo. Del resto, in Germania, il dibattito
sul ruolo che l’interpretazione del diritto comunitario
gioca su quello nazionale dopo il SMG è presente da
tempo 31.
Per quanto concerne gli effetti della pronuncia in
Italia, essi appaiono circoscritti alla tutela del consumatore e imporranno il superamento della scelta ermeneutica, propugnata da larga parte della dottrina, secondo la quale la valutazione sull’eccessiva onerosità
va condotta raffrontando il rimedio concretamente
esperito con la totalità dei rimedi a disposizione del
consumatore 32.
Geo Magri
VACCINAZIONI OBBLIGATORIE
Cassazione civile, III Sezione, 27 aprile 2011,
n. 9406 — Trifone Presidente — Vivaldi Relatore —
Golia P.M. (diff.) — F.S. ed altro (avv.ti Montani,
Primieri) - Ministero della salute (Avv. Gen. Stato).
Cassa con rinvio App. Perugia 14 aprile 2005, n. 350.
Sanità e sanitari — Vaccinazioni obbligatorie —
Attività posta in essere dal Ministero della salute —
Pericolosità ex art. 2050 c.c. — Configurabilità —
Esclusione (C.c. art. 2050).
Sanità e sanitari — Vaccinazioni obbligatorie —
Conoscibilità delle controindicazioni — Principio di
precauzione — Responsabilità aquiliana del Ministero della salute — Configurabilità (C.c. art. 2043).
L’attività del Ministero della salute, consistente nell’indirizzo e controllo sulla pratica delle vaccinazioni ob30
Cfr. Diurni-Kindler, Il codice civile tedesco “modernizzato”, Torino, 2004, 12 e 23 e segg., e Rott, op. cit., 222. Va
precisato che, nelle ipotesi di vendita commerciali, le tutele
previste e inderogabili per il consumatore possono essere convenzionalmente escluse: Prott, op. cit., 224.
31
Cfr. Grigoleit-Herresthal, Grundlagen der Sachmängelhaftung im Kaufrecht, in JZ, 2003, 118 e segg. Nel senso che
l’interpretazione della disciplina della compravendita debba essere ispirata dal diritto comunitario si è espressa anche la rela-
bligatorie, non è qualificabile come pericolosa ai sensi
dell’art. 2050 c.c., per cui eventuali responsabilità devono essere apprezzate alla stregua dell’art. 2043 c.c. (1).
Per valutare la responsabilità del Ministero della salute in materia di vaccinazioni obbligatorie, occorre verificare se, all’epoca dei fatti, fosse conoscibile, secondo le
migliori cognizioni scientifiche disponibili, la pericolosità di un certo tipo di vaccino e se, quindi, il principio di
precauzione imponesse di vietarlo (2).
Omissis. — 2.3. Con il terzo motivo i ricorrenti denunciano la violazione dell’art. 2050 c.c. per mancata
applicazione al caso di specie (art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3).
Il motivo è fondato nei termini e per le ragioni che seguono.
Gli odierni ricorrenti principali lamentano il mancato riconoscimento di un danno subito quali genitori — quindi in
proprio — per l’evento lesivo occorso al figlio M.
Tale danno non è stato riconosciuto nei loro confronti, né
dal primo giudice — che pure ne aveva affermato la ricorrenza in favore dell’allora minore — né dalla Corte di merito
che, sugli appelli proposti dal Ministero della salute e da F.S.
e L.M., aveva rigettato la domanda originariamente proposta.
La Corte di merito afferma che, nella specie, ricorre
un’ipotesi di responsabilità aquiliana ai sensi dell’art. 2043
c.c., per la lesione del diritto alla salute, negando, invece,
l’applicabilità della norma di cui all’art. 2050 c.c. in tema di
attività pericolosa, ulteriormente sostenuta, in sede di appello incidentale, dagli odierni ricorrenti principali.
La Corte rigetta, poi, la domanda perché, pur avendo gli
attori “provato il fatto della vaccinazione e la sua efficienza
causale rispetto al fatto dannoso delle lesioni”, “non hanno
provato la colpa” del Ministero, affermando che questa “non
può consistere dalla semplice derivazione del danno dal fatto
della P.A.”, ma “Occorre invece che sia allegata e provata
una negligenza, imprudenza o imperizia presente nella condotta causativa del danno”.
I ricorrenti, nel censurare l’erroneità della sentenza per la
mancata applicazione della norma dell’art. 2050 c.c., contestano, però, nell’illustrazione dello stesso motivo, anche il
mancato riconoscimento del danno a titolo di responsabilità
aquiliana ex art. 2043 c.c. (come si desume dalle pagg. 19 e
20 del ricorso principale) per il difetto dell’elemento soggettivo della colpa da parte del Ministero della Salute (all’epoca
dei fatti, della Sanità), con il conseguente, ammissibile esame, in questa sede, del motivo sotto tale profilo.
Per esaminare il motivo, occorre focalizzare il tipo di attività che sarebbe alla base della responsabilità del Ministero
della salute per attività pericolosa.
Le Sezioni Unite di questa Corte hanno operato — con la
sentenza n. 576 del 2008, in materia di responsabilità civile
per danni da emoderivati — una fondamentale distinzione di
problemi: a) il problema della qualificazione come attività
pericolosa ex art. 2050 c.c. dell’attività di produzione, commercializzazione ed effettiva trasfusione sui singoli pazienti
del sangue; b) il diverso problema dei contenuti e dei profili
di responsabilità dell’attività del Ministero in tale settore,
che attiene alla sfera non direttamente gestionale, ma piuttosto di supervisione e controllo. Affermano, in particolare,
le Sezioni Unite: “La pericolosità della pratica terapeutica
della trasfusione del sangue e dell’uso degli emoderivati non
zione al SMG (Entwurf eines Gesetzes zur Modernisierung des
Schuldrechts, in BT-Drs. 14/6040, 1 e segg.); v. anche Canaris,
Die Nacherfüllungspflicht des Stückverkäufers, in JZ, 2002, 378 e
segg.
32
Cfr. il commento all’art. 130 in Codice del Consumo a cura
di Cuffaro, loc. cit., 605; Luminoso, op. loc. cit.; De Cristofaro, Difetto di conformità al contratto e diritti del consumatore,
Padova, 2000, 207 e segg.; Iurilli, op. loc. cit.
Giurisprudenza Italiana - Marzo 2012
540
rende ovviamente pericolosa l’attività ministeriale, la cui
funzione apicale è solo quella di controllare e vigilare a tutela
della salute pubblica. Anche gli interventi per la distribuzione e ripartizione del plasma tra le strutture sanitarie o le
autorizzazioni per l’importazione del plasma non possono
considerarsi elementi di conferma di un’attività in senso lato
imprenditoriale — ritenuto da parte della dottrina, elemento
necessario per la responsabilità ex art. 2050 c.c. —, in quanto
si tratta di incombenze meramente complementari e funzionali all’organizzazione generale di un settore vitale per la
collettività”.
Affermano, invece, che la responsabilità del Ministero della salute per i danni conseguenti ad infezioni da HIV e da
epatite, contratte da soggetti emotrasfusi per l’omessa vigilanza esercitata dall’Amministrazione sulla sostanza ematica
negli interventi trasfusionali e sugli emoderivati è inquadrabile nella violazione della clausola generale di cui all’art.
2043 c.c.
Principi analoghi, pur con le precisazioni dovute alle diversità della fattispecie in esame, valgono anche per l’attività
di controllo e vigilanza esercitata dal Ministero della salute in
tema di vaccinazioni obbligatorie, come quella antipoliomielitica.
Rilevante, a tal fine, è che il Ministero — sotto questo
profilo — non svolge in concreto attività imprenditoriale in
relazione all’acquisto e distribuzione di prodotto immunizzato antipolio, ma soltanto di controllo e vigilanza a tutela
della salute pubblica.
Al che consegue l’insussistenza di una sua eventuale responsabilità per attività pericolosa, ai sensi dell’art. 2050 c.c.
In questa ottica, va ricordato quel complesso normativo
che, specie dopo il trasferimento di alcune funzioni statali in
tema di sanità dal Ministero della salute alle regioni, in attuazione della riforma dell’art. 117 Cost. operata dalla Legge
Costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3, — successiva, peraltro,
ai fatti oggetto del presente giudizio (v. sul punto anche Sez.
Un. 11 gennaio 2008, n. 584) — ed alle USL e, poi, alle ASL,
avalla il carattere generale e di indirizzo proprio delle competenze ministeriali rispetto a quelle direttamente operative
delle regioni: 1) cosı̀ la L. 23 dicembre 1978, n. 833, art. 6
(istitutiva del servizio sanitario nazionale), che riserva allo
Stato compiti di carattere generale e di indirizzo; 2) cosı̀ il
successivo art. 7, comma 2 in base al quale sono le regioni che
“provvedono all’approvvigionamento di sieri e vaccini necessari per le vaccinazioni obbligatorie” ed in base ad un
programma concordato con il Ministero della sanità, con
sub-delega delle funzioni delegate dallo stesso articolo ai
comuni; 3) cosı̀ l’art. 53 della medesima legge che riserva al
Governo la proposizione del Piano Sanitario Nazionale, contenente “linee generali di indirizzo”, da sottoporre all’approvazione del parlamento, rimesse, dall’art. 55, per l’attuazione
alle regioni. Deve, però subito osservarsi che, in ogni caso, è
rimasto all’amministrazione centrale, non solo un ruolo primario nella programmazione, ma anche un ruolo centrale di
controllo, che si attua attraverso il servizio sanitario nazionale.
Affermata, quindi, l’insussistenza di una responsabilità del
Ministero della salute per attività pericolosa, si deve passare
ad esaminare la fattispecie sotto il profilo dell’art. 2043 c.c.
In questa prospettiva va ribadito che al Ministero della sanità, prima, ed ora al Ministero della salute spettano compiti
di vigilanza e controllo preventivo, istituzionalmente attribuitigli.
E la fonte normativa che integra la norma primaria del
neminem laedere, da cui ricavare l’esistenza di tali doveri in
capo al Ministero della sanità, è costituita dalla L. 13 marzo
1958, n. 296, art. 1 che gli attribuisce “il compito di provvedere alla tutela della salute pubblica”, di “sovrintendere ai
servizi sanitari svolti dalle amministrazioni autonome dello
Stato e dagli enti pubblici, provvedendo anche ad emanare,
per la tutela della salute pubblica, istruzioni obbligatorie per
tutte le amministrazioni pubbliche che provvedono a servizi
sanitari...”.
Ora le indicazioni normative, di rango primario e secondario, che si sono susseguite nel tempo, con riferimento alla
materia della vaccinazione antipoliomielitica — e di cui è
Giurisprudenza Italiana - Marzo 2012
Diritto Civile | VACCINAZIONI OBBLIGATORIE
opportuno dare conto — sono le seguenti: 1) L. 30 luglio
1959, n 695 “Provvedimenti per rendere integrale la vaccinazione antipoliomielitica” e la successiva L. 4 febbraio
1966, n. 51 “Obbligatorietà della vaccinazione antipoliomielitica” che ha abrogato la precedente rendendo obbligatoria
la vaccinazione antipoliomielitica; 2) il D.M. 25 maggio 1967
“Disposizioni relative alla quantità e tipo di vaccino antipoliomielitico”, con il quale espressamente si prescriveva che la
vaccinazione contro la poliomielite “è temporaneamente sospesa nei confronti dei soggetti che presentano manifestazioni di malattia acuta, febbrile o diarrea e dovrà essere
ripresa appena scomparso lo stato di controindicazione”; 3)
il D.M. 14 gennaio 1972 “Nuove norme in materia di vaccinazione antipoliomielitica”; 4) il D.M. 25 novembre 1982:
Modificazioni al D.M. 14 gennaio 1972 “Nuove norme in
materia di vaccinazione antipoliomielitica”; 5) il D.M. 19
aprile 1984 “Impiego del vaccino antipoliomielitico inattivato tipo Salk”; 6) Circolare n. 11/97 “Completamento della
schedula vaccinale antipolio mediante impiego di vaccini
iniettabili aventi caratteristiche diverse”; 7) D.M. 7 aprile
1999 “Nuovo calendario delle vaccinazioni obbligatorie e
raccomandate per l’età evolutiva”; Circolare n. 5 del 7 aprile
1999 “Nuovo calendario delle vaccinazioni obbligatorie e
raccomandate per l’età evolutiva”; 8) D.M. 18 giugno 2002
“Nuovo Calendario della Vaccinazione antipolio”; 9) Circolare 6 agosto 2002 “Piano per il mantenimento della situazione di eradicazione della poliomielite; 10) Circolare del
Ministero della Salute 20/02/2004 Eradicazione della Polio
— Sorveglianza della paralisi flaccida acuta nel 2003; D.M.
15 luglio 2005 “Modifica al calendario delle vaccinazioni
antipoliomielitiche per adeguamento al Nuovo Piano nazionale Vaccini 2005-2007”.
L’excursus effettuato rende evidente come, nel tempo, siano intervenuti cambiamenti nei tipi e qualità di vaccino da
impiegare e nei tempi e modi della sua somministrazione,
che hanno determinato modifiche della “schedula vaccinale
antipolio” “con l’utilizzo esclusivo di vaccino antipoliomielitico inattivato (IPV), alla luce dell’evoluzione della situazione epidemiologica nazionale, europea e globale di tale
malattia” (D.m. salute del 18 giugno 2002 pubblicato sulla
G.U. n. 163 del 13 luglio 2002).
In particolare il D.M. 14 gennaio 1972 “Nuove norme in
materia di vaccinazione antipoliomielitica”, applicato ratione temporis nella specie per essere state le vaccinazioni effettuate nel 1981 prevedeva che “A partire dal 28 febbraio
1912 la vaccinazione obbligatoria contro la poliomielite viene eseguita gratuitamente dagli appositi servizi istituiti dai
comuni a mezzo del vaccino a base di virus attenuati secondo
Sabin, del tipo trivalente”, stabilendo modalità e tempi della
somministrazione.
È opportuno anche, per la prossimità temporale ai fatti
oggetto del presente giudizio, menzionare il D.M. 19 aprile
1984 “Impiego del vaccino antipoliomielitico inattivato tipo
Salk” con il quale il Ministero della sanità, ribadendo che la
vaccinazione antipoliomielitica continuava ad essere effettuata con vaccino attenuato orale tipo Sabin, emanava, però,
indicazioni che prevedevano l’impiego del vaccino inattivato
parenterale tipo Salk per la immunizzazione contro la poliomielite di soggetti con riscontrato stato di controindicazione
duratura all’uso del vaccino attenuato orale tipo Sabin precisandone le condizioni e ricomprendendovi le situazioni di
immunodeficienza.
Quanto, poi, alle conoscenze dei due tipi di vaccini, delle
loro caratteristiche, delle loro potenzialità e delle loro indicazioni e controindicazioni all’assunzione, la comunità
scientifica — per la fondamentale importanza della vaccinazione — ha compiuto, da tempo risalente (fin dal loro apparire sulla scena mondiale), ricerche accurate e su larga scala,
pervenendo a risultati condivisi dalla comunità scientifica
mondiale; dando atto dei risultati raggiunti, che potevano
ritenersi condiviso e comune patrimonio mondiale; come tali
conosciuti o conoscibili da parte delle singole comunità nazionali.
Le premesse normative cosı̀ esposte conducono ad una
successione logicamente concatenata di domande, articolabili come segue: a) se, all’epoca dei fatti, sul Ministero gra-
Diritto Civile | VACCINAZIONI OBBLIGATORIE
vasse un obbligo giuridico, la cui violazione poteva condurre
— con il concorso di ulteriori elementi — all’affermazione di
una sua responsabilità; b) se la condotta omissiva del Ministero (nel caso di risposta affermativa al primo quesito) abbia
avuto efficacia causale rispetto all’evento di danno (c.d. causalità dell’omissione); c) se in tale omissione — qualora la si
ritenga dotata di efficacia causale — siano ravvisabili i profili
della colpa (colpevolezza dell’omissione), e se tale colpa sia
stata a sua volta causale rispetto al danno (c.d. causalità della
colpa).
La sentenza impugnata ha risposto positivamente a tutte le
domande tranne l’ultima.
Infatti, il motivo di ricorso concerne esclusivamente il
punto relativo alla colpevolezza dell’omissione.
Cosı̀ circoscritto il thema decidendum, va osservato che
— in mancanza di fattori eccezionali che abbiano impedito
di compiere l’azione doverosa — il contenuto dell’omissione
ed il contenuto della colpa finiscono per sovrapporsi.
A tal fine, consideriamo alcune informazioni cruciali.
La prima è che — alla stregua della consulenza in atti, non
controversa — il danno al minore fu certamente derivato
dalla somministrazione del vaccino.
Pertanto — operando un ragionamento controfattuale —
l’omessa somministrazione del vaccino avrebbe scongiurato
l’evento.
In altri termini, se il Ministero della sanità avesse proibito
— per la ricorrenza di precise controindicazioni tale forma
di vaccinazione, l’evento non si sarebbe verificato.
Dunque, la condotta omissiva del Ministero, che non ha
proibito tale somministrazione (ma può dubitarsi che si tratti
di condotta omissiva e non attiva: invero, a rigore, la condotta causale è la somministrazione del vaccino, disposta dal
Ministero della Salute) è stato un antecedente causale dell’evento.
La seconda informazione — trascurata dalla sentenza impugnata — è che, già all’epoca, era conosciuta la pericolosità
di tale vaccino, e vi erano statistiche accreditate sui gravi
effetti collaterali che esso poteva provocare.
È chiaro, allora, che la sentenza impugnata ha omesso di
valutare punti decisivi della controversia cosı̀ determinabili:
a) se all’epoca della somministrazione era conosciuta o conoscibile — secondo le migliori cognizioni scientifiche disponibili — la pericolosità del vaccino; b) se alla stregua di
tali conoscenze, il rispetto del fondamentale principio di
precauzione imponesse di vietare tale tipo di vaccinazione, o
di consentirla con rigorose modalità tali da minimizzare i
rischi ad essa connessi.
L’eventuale esito favorevole delle indagini che il giudice
del rinvio andrà a compiere, e di cui ai punti a) e b) indicati,
costituirà, poi, il presupposto per la riconoscibilità agli
odierni ricorrenti — ricorrendone le condizioni probatorie,
di natura anche presuntiva — del danno lamentato (Sez. Un.
11 novembre 2008, n. 26972 punti 4.8 e 4.9).
3. Ricorso incidentale condizionato.
L’accoglimento del ricorso principale, nei termini indicati,
impone l’esame di quello incidentale condizionato.
3.1. Con il primo motivo il ricorrente incidentale condizionato denuncia la nullità della sentenza per violazione dell’art. 112 c.p.c. Il motivo non è fondato.
In primo luogo, deve sottolinearsi che l’esame del motivo
appare irrilevante alla luce delle conclusioni raggiunte in
ordine alla ricorrenza, nel caso in esame, della fattispecie
disciplinata dall’art. 2043 c.c. e non dall’art. 2050 c.c.
Una volta, infatti, escluso che si tratti di attività pericolosa
— come peraltro riconosciuto anche dalla Corte di merito —
stabilire la tardività o meno della domanda ex art. 2050 c.c.
1
Il riferimento, naturalmente, è all’art. 32.2 Cost.
Cfr. Santosuosso-Turri, I trattamenti obbligatori, in Medicina e diritto a cura di Barni, Santosuosso, Milano, 1995, 120
e seg. e 125-137.
3
Il riferimento è alla L. 25 febbraio 1992, n. 210, emanata su
impulso della sentenza Corte cost., 22 giugno 1990, n. 307, in
Foro It., 1990, 1, 2694, con nota di Princigalli e Ponzanelli,
2
541
perché proposta soltanto in appello — a fronte di quella ex
art. 2043 c.c. introduttiva del primo giudizio — e la conseguente omissione di pronuncia, da parte della Corte di merito, sulla relativa eccezione sollevata dal Ministero in quel
grado di giudizio — non produrrebbe alcun effetto favorevole per il proponente.
L’eventuale affermazione di correttezza della tesi sostenuta, infatti, — alla luce delle conclusioni raggiunte dalla Corte
di legittimità in precedenza, in ordine alla sussistenza di
un’ipotesi riconducibile alla generale responsabilità aquiliana ex art. 2043 c.c. — non sortirebbe alcuna ricaduta sull’iter
processuale, privando la parte dell’utilità degli eventuali risultati favorevoli.
La Corte di merito sul punto cosı̀ si è espressa: “Indipendentemente dalle pur possibili discussioni sulla novità della
domanda ove fondata sull’art. 2050 c.c. piuttosto che semplicemente sull’art. 2043 c.c. (l’eccezione è stata puntualmente svolta dall’Avvocatura), è opinione della Corte che
l’attività della Pubblica Amministrazione volta all’esecuzione delle disposizioni di legge sulla vaccinazione obbligatoria
non possa essere inserita tra le attività pericolose ex art. 2050
c.c.”.
Ed ha, quindi, accolto l’appello del Ministero ritenendo
che “gli attori hanno provato il fatto della vaccinazione e la
sua efficienza causale rispetto al fatto dannoso delle lesioni,
ma non hanno provato la colpa”; con ciò qualificando, evidentemente, l’azione quale extracontrattuale derivante dalla
clausola generale di cui all’art. 2043 c.c. non riconoscendone, però, la fondatezza — diversamente dal primo giudice —
per difetto di prova con riferimento all’elemento soggettivo
della colpa.
Fondatezza della domanda — in termini di violazione dell’art. 2043 c.c. — affermata, invece, in questa sede di legittimità. — Omissis.
(1-2) Il problema dei danni da vaccinazione
obbligatoria
La sentenza affronta il tema, di grande delicatezza,
delle conseguenze nocive derivanti dalla effettuazione
di una vaccinazione, resa obbligatoria dalla legge. Tali
problematiche, purtroppo non cosı̀ infrequenti, appaiono di indubbio interesse, in quanto pongono in
evidenza, in maniera estrema, la difficoltà di conciliare
istanze, tutte di importanza fondamentale per l’ordinamento, quali l’interesse collettivo alla eradicazione
di determinate malattie ed i diritti individuali di chi
viene sottoposto, in deroga ad una regola di valore
costituzionale 1, ad un trattamento sanitario obbligatorio, per consentire la realizzazione di dette finalità sociali 2. In questo genere di casi, poi, il contrasto fra tali
principi è reso particolarmente acuto dal fatto che, ad
essere vulnerato dal trattamento sanitario obbligatorio, non è solo il diritto alla libertà personale, ma è
proprio lo stesso diritto alla salute, alla cui protezione
tali pratiche dovrebbero essere finalizzate.
Un primo tentativo di affrontare questi problemi è
stato fatto dal legislatore, con una normativa, che ha
riconosciuto un indennizzo alle vittime di siffatte conseguenze della vaccinazioni obbligatorie 3. Però, a causa anche della lunghezza dei tempi burocratici necessari per usufruire di tali indennità, nonché dello scarso
e riferita anche ai danni causati da trasfusioni di sangue infetto,
altra fattispecie di frequente ricorrenza. Sul funzionamento di
detta normativa, cfr. Dragone, Responsabilità medica. Danni
da trasfusione e da contagio, Milano, 2007, 309-382, e Fineschi,
La raccolta e l’impiego del sangue umano per uso trasfusionale, in
Medicina e diritto, cit., 202-206. Per riferimenti alle esperienze
francesi e statunitensi in materia di trasfusioni di sangue infetto,
Giurisprudenza Italiana - Marzo 2012
542
Diritto Civile | VACCINAZIONI OBBLIGATORIE
importo delle somme riconosciute, tutto ciò non ha
impedito che i danneggiati continuassero ad adire le
vie giudiziali per ottenere un risarcimento 4. La giurisprudenza, peraltro, ha chiarito che la totale diversità,
di natura e di presupposti, sussistente fra l’indennizzo
e il risarcimento, rende pienamente ammissibile il cumulo delle due tutele 5. Si è cosı̀ sviluppato un discreto
contenzioso, e sulla materia adesso torna a pronunciarsi la suprema Corte.
Le argomentazioni della sentenza non appaiono, però, pienamente convincenti. In particolare, sembra discutibile l’asserzione che l’attività del Ministero della
salute nel campo delle vaccinazioni obbligatorie non
potrebbe mai configurarsi come attività pericolosa, ai
sensi dell’art. 2050 c.c. 6 Non risultano, infatti, basate
su solide fondamenta le ragioni che sorreggono questa
perentoria affermazione.
Si dice, in primo luogo, che il campo di applicazione
dell’art. 2050 c.c. sarebbe limitato alle sole attività imprenditoriali, e tale non è certamente l’attività del Ministero in questione. La dottrina, però, ha, da tempo,
posto in luce come siffatta limitazione sia totalmente
priva di fondamento normativo 7 e, del resto, la giurisprudenza ha sempre considerato pericolose talune attività, che non possono definirsi imprenditoriali 8. Sino
a qualche decennio fa, un grosso limite all’applicazione
dell’art. 2050 era rappresentato da quell’orientamento
della giurisprudenza di legittimità 9, non sempre condiviso, peraltro, da quella di merito 10, in base al quale
sfuggirebbero, comunque, all’ambito di operatività di
detta norma le attività svolte dalla pubblica amministrazione. Anche questa limitazione, però, può ormai
dirsi superata, per effetto di un consolidato revirement
della stessa Cassazione 11. Del resto, tutto ciò si inquadra coerentemente nella evoluzione di un sistema della
responsabilità aquiliana, che tende sempre più ad oggettivizzarsi, rinnegando il tradizionale principio della
centralità della colpa 12.
Si legge, inoltre, nella sentenza, che l’attività del Ministero non potrebbe, comunque, essere qualificata come pericolosa, in quanto esso ha solo il compito di
indirizzare e coordinare la pratica delle vaccinazioni,
che sono, poi, effettuate da soggetti diversi. In realtà,
può benissimo essere pericolosa anche un’attività di
organizzazione e direzione di attività altrui, come ha
avuto modo di affermare la stessa giurisprudenza di
legittimità 13. Peraltro, nel nostro caso, il pericolo nasce
tutto, e unicamente, dalla decisione di rendere obbligatorio un certo tipo di vaccino, decisione che compete
esclusivamente al Ministero e non certo ai soggetti ulteriori che gestiscono l’effettuazione delle vaccinazioni
stesse.
Sulla base di queste premesse, non stupisce che la
dottrina abbia argomentato in favore della piena applicabilità dell’art. 2050 alle attività mediche e sanitarie 14. Anche la giurisprudenza ha fatto ricorso a tale
norma, specialmente con riguardo alla fattispecie, affine alla nostra, del danno da trasfusioni di sangue
infetto 15, fondandovi anche l’affermazione di una responsabilità del Ministero della salute 16. Sarebbe,
quindi, logico che lo stesso avvenisse in materia di vaccinazioni obbligatorie, dal momento che, come risulta
dall’evidenza scientifica richiamata dalla stessa sentenza, la pericolosità delle vaccinazioni è una caratteristica
intrinseca delle stesse, almeno con riguardo a significative categorie di soggetti, e non può certo essere
considerata come un’eventualità del tutto sporadica ed
eccezionale 17. Peraltro, anche la presenza di una normativa come quella sugli indennizzi, fa pensare che ci
trovi di fronte ad un caso di attività lecita, ma perico-
cfr. Izzo, La precauzione nella responsabilità civile, Padova,
2004, 314-414.
4
Dragone, op. cit., 181 e segg.
5
Infatti, l’indennizzo non ha natura risarcitoria, ma meramente assistenziale, e prescinde totalmente dall’accertamento di
eventuali profili di colpevolezza soggettiva, rilevanti, invece,
perché possa parlarsi di responsabilità aquiliana. Cfr. Corte
cost., 22 giugno 2000, n. 226, in Rep. Giur. It., 2000, voce “Sanità e sanitari”, n. 136, e in Giust. Civ., 2000, I, 2800; Cass., 31
maggio 2005, n. 11609, in Rep. Giur. It., 2005, II, voce “Sanità
e sanitari”, nn. 392-395, e in Corriere Giur., 2005, 7, 901. Per
ulteriori riferimenti v. Bilancetti, La responsabilità penale e
civile del medico, Padova, 2006, 873 e seg. e 936-942.
6
La sentenza deriva tale dictum dall’autorevole precedente
costituito da Cass., Sez. un., 11 gennaio 2008, n. 576, in Rep.
Giur. It., 2008, II, voce “Sanità e sanitari”, n. 157, e in C.E.D.
Cass., 2008, il cui testo viene riportato nel corpo della motivazione.
7
Comporti, Esposizione al pericolo e responsabilità civile,
Napoli, 1965, 280; Recano, La responsabilità civile per esercizio
di attività pericolose, in La responsabilità civile a cura di Cendon,
Torino, 2001, XI, 197 e seg.; Sella, Sub art. 2050, in Comm.
C.C. a cura di Cendon, Milano, 2008, 810 e seg.
8
Si consideri il caso della caccia (cfr. Cass., 23 dicembre
1968, n. 4072, in Rep. Giur. It., 1969, II, voce “Responsabilità
civile”, nn. 168-172, e in Giur. It. 1969, I, 1, 2185) o della pratica
di attività sportive da parte di persone non esperte (cfr. Trib.
Milano, 21 novembre 2002, in Giurisprudenza milanese, 2003,
80).
9
V. i riferimenti in Recano, op. cit., 252 e segg.
10
Cfr. App. Milano, 4 giugno 1953, in Foro It., 1953, I, 1680.
11
Il riferimento è a Cass., 27 gennaio 1982, n. 537, in Rep.
Giur. It., 1982, II, voce “Responsabilità civile”, n. 108, e in
Foro It., 1982, I, 674, che ha accolto le sollecitazioni della
dottrina, inaugurando un indirizzo che, poi, non più stato
sconfessato.
12
V., per tutti, Ruffolo, Colpa e responsabilità, in Diritto
Civile a cura di Lipari, Rescigno, Milano, 2009, IV, III, 54-67.
13
V. i riferimenti in Curcuruto, Sub art. 2050, in Nuova
rassegna di giurisprudenza sul Codice Civile a cura di Ruperto,
Sgroi, Milano, 1994, IV, X, 4907.
14
Cosı̀ Ruffolo, Sull’applicazione dell’art. 2050 c.c. all’attività sanitaria, in AA. VV., La responsabilità medica, Milano,
1982, 89 e segg., ove si parla della professione medica come di
una «professione pericolosa»; Id., Il problema della responsabilità medica, in La responsabilità medica a cura di Ruffolo, Milano, 2004, 11-13; Zambrano, Interesse del paziente e responsabilità medica nel diritto civile italiano e comparato, Napoli, 1993,
227 e segg.; Zana, Responsabilità medica e tutela del paziente,
Milano, 1993, 80; Izzo, op. cit., 501 e segg. Dimostra, invece,
maggiore prudenza Comporti, Fatti illeciti: le responsabilità
oggettive, in Comm. C.C. a cura di Schlesinger, Milano, 2009,
242-248, il quale invita a distinguere caso per caso.
15
Cfr. Cass., 1o febbraio 1995, n. 1138, in Rep. Giur. It., 1995,
voce “Responsabilità civile”, n. 102 e in Resp. Civ. e Prev., 1996,
144; Trib. Ravenna, 28 ottobre 1999, in Danno e Resp., 2000,
1012; nonché, da ultima, Cass., 20 aprile 2010, n. 9315, in Rep.
Giur. It., 2010, II, voce “Sanità e sanitari”, n. 231, e in Responsabilità civile, 2010, 11, 732.
16
Il riferimento è a Trib. Venezia, 26 settembre 2006, a quanto consta inedita, ma citata da Dragone, op. cit., 209 e segg.
17
Del resto, si rammenti che il vaccino consiste, pur sempre,
nella inoculazione di un agente patogeno e non deve, quindi,
stupire che esso possa assumere caratteri di pericolosità.
Giurisprudenza Italiana - Marzo 2012
Diritto Civile | INTERPRETAZIONE DEL CONTRATTO
losa e, dunque, pienamente rientrante nel tipico campo
di applicazione dell’art. 2050.
L’incongruità di quanto sostenuto nella sentenza
emerge, poi, dalle conclusioni della stessa. Ci si potrebbe, infatti, attendere che, esclusa l’applicabilità dell’art. 2050 e ricondotta la fattispecie nell’ambito di
operatività del generale principio di cui all’art. 2043
c.c., la Corte ne deduca la necessità che l’attore fornisca la prova della sussistenza dell’elemento soggettivo.
Invece, i supremi giudici la ritengono, in sostanza, superflua, in quanto, in casi del genere, essa sarebbe del
tutto implicita nell’accertamento dell’elemento oggettivo, costituito, nella specie, da un nesso di causalità di
carattere omissivo 18. In tal modo, però, si arriva a costruire una responsabilità oggettiva, od “oggettivata” 19, tanto quanto l’ipotesi di cui all’art. 2050, del
quale si era voluta, con le discutibili argomentazioni di
cui sopra, escludere l’applicabilità. Alla fine, dunque,
la natura delle cose finisce per prendere il sopravvento
su dubbie qualificazioni, forse utili con riguardo alla
specifica vicenda processuale 20, ma prive di un sicuro
fondamento razionale.
Marco Rizzuti
INTERPRETAZIONE DEL CONTRATTO
Cassazione civile, III Sezione, 1o aprile 2011,
n. 7557 — Trifone Presidente — De Stefano Relatore — Lettieri P.M. (conf.) — Fondazione Conservatorio Santa Chiara (avv. Righi) - Consorzio Cuoio
Depur s.p.a. (avv. Mulargia, Comaschi) ed altro.
Obbligazioni e contratti — Interpretazione del contratto — Causa del contratto — Causa concreta —
Autonomia contrattuale — Contratto di locazione
(C.c. artt. 1322, 1343, 1362, 1363, 1364, 1366, 1371,
1571, 1590, 1591).
Con riguardo al contratto atipico di concessione in
disponibilità di un’area da destinare a discarica di rifiuti
è erronea l’interpretazione del giudice di merito che, in
difetto di espresse previsioni sull’identificazione di un
termine finale e senza considerare la causa concreta del
contratto, escluda che il concessionario sia in mora e
dunque possa conservare la disponibilità del bene anche
dopo l’esaurimento della ricettività, sino al completamento dei lavori di bonifica (1).
Omissis. — 6.1. in tema di interpretazione dei contratti, è ben noto che costituisce questione di merito, rimessa al giudice competente, valutare il grado di chiarezza
della clausola contrattuale, ai fini dell’impiego articolato dei
diversi criteri ermeneutici: con conseguente esclusione, nel
giudizio di cassazione, di una diretta valutazione della clau-
18
Come osserva, poi, incidentalmente la Corte, si potrebbe
anche dubitare della natura omissiva di tale causalità, in quanto
la condotta causale è la somministrazione del vaccino, disposta
dal Ministero, più che la mancata proibizione della stessa, ad
opera del medesimo soggetto. Comunque, le due ricostruzioni
sono, alla fine, sostanzialmente equivalenti nelle loro conseguenze.
19
Sulla labilità dei confini fra colpa oggettivata e responsa-
543
sola contrattuale, al fine di escludere la legittimità del ricorso
da parte del giudice di merito ad altri canoni ermeneutici
(Cass. 15 marzo 2005 n. 5624); in sostanza, l’interpretazione
delle clausole contrattuali rientra tra i compiti, esclusivi del
giudice di merito ed è insindacabile in cassazione se rispettosa dei canoni legali di ermeneutica ed assistita da congrua
motivazione, poiché il sindacato di legittimità può avere ad
oggetto non già la ricostruzione della volontà delle parti,
bensı̀ solamente l’individuazione dei criteri ermeneutici del
processo logico del quale il giudice di merito si sia avvalso
per assolvere la funzione a lui riservata, al fine di verificare se
sia incorso in vizi del ragionamento o in errore di diritto (tra
le molte, v. Cass. 31 marzo 2006 n. 7597);
6.2. eppure, l’insindacabilità, in sede di legittimità (trattandosi di quaestio facti), della interpretazione delle clausole
contrattuali operata dal giudice del merito trova il suo limite
nella violazione evidente dei criteri ermeneutici, che viene a
risolversi in errori giuridici, quando ad esempio l’interpretazione di una delle clausole contrattuali sia operata omettendone il riferimento ad altre tra quelle, nonché prescindendo dall’equo contemperamento degli interessi delle parti
di cui all’art. 1371 c.c. (Cass. 17 marzo 2005 n. 5788);
6.3. deve pertanto valutarsi a questa stregua l’interpretazione complessiva data dai giudici di merito, che esclude
per la concessione in godimento di un’area da destinare a
discarica di rifiuti la spettanza al concedente di un qualsivoglia corrispettivo per un tempo indefinito a partire dalla
scadenza del periodo di utilizzo del bene conformemente
alle previsioni contrattuali ed ancorato ad un evento futuro
ed incerto quale il completamento delle operazioni di bonifica.
7. Ritiene questa Corte, esaminando congiuntamente i tre
mezzi di ricorso per la loro evidente interconnessione, che
l’interpretazione complessiva data dai giudici del merito
— e quindi la loro decisione qui impugnata — sia affetta
allora da un errore di diritto e non possa essere condivisa. In
primo luogo, da un punto di vista generale:
7.1. il contratto con il quale il proprietario di un terreno ne
trasferisca la disponibilità a terzi per la sua destinazione a
discarica di rifiuti, secondo modalità negozialmente predeterminate e del tutto peculiari (ad esempio, escavazione del
terreno per consentire lo smaltimento dei rifiuti con il sistema dello stoccaggio definitivo; corrispettivo stabilito in ragione anche dei metri cubi di riempimento dello scavo; previsione di opere di bonifica a carico della conduttrice anche
dopo la chiusura della discarica) integra gli estremi del contratto atipico cui, in via analogica, sono legittimamente applicabili le norme sulla locazione (Cass. 26 novembre 2002
n. 16679);
7.2. anche di un tale contratto atipico va quindi individuata la causa concreta, la quale definisce lo scopo pratico del
negozio, la sintesi, cioè, degli interessi che lo stesso è concretamente diretto a realizzare, quale funzione individuale
della singola e specifica negoziazione, al di là del modello
astratto utilizzato: infatti, la causa, “ancora iscritta nell’orbita della dimensione funzionale dell’atto”, non può essere che
“funzione individuale del singolo, specifico contratto posto
in essere, a prescindere dal relativo stereotipo astratto, seguendo un iter evolutivo del concetto di funzione economico-sociale del negozio che, muovendo dalla cristallizzazione
normativa dei vari tipi contrattuali, si volga al fine a cogliere
l’uso che di ciascuno di essi hanno inteso compiere i contraenti adottando quella determinata, specifica (a suo modo
unica) convenzione negoziale” (in tali espressi sensi, con
argomentazioni approfondite e convincenti, si esprime Cass.
bilità oggettiva, cfr. Ruffolo, Colpa e responsabilità, cit., 70 e
seg., con specifico riferimento anche all’art. 2050 c.c.
20
Nel nostro caso, infatti, a quanto si evince, la domanda ex
art. 2050 era stata formulata tardivamente e, per evitare un
totale diniego di tutela era, quindi, necessario sforzarsi di far
rientrare la fattispecie nell’ambito dell’oggetto della domanda
ex art. 2043, invece tempestivamente proposta.
Giurisprudenza Italiana - Marzo 2012
544
8 maggio 2006 n. 10490, ripresa tra le altre da Cass. 12
novembre 2009 n. 23941);
7.3. la causa concreta costituisce del resto uno degli elementi essenziali del negozio, alla cui stregua va valutata la
conformità alla legge dell’attività negoziale effettivamente
posta in essere, in riscontro della liceità (ai sensi dell’art.
1343 c.c.) e, per i contratti atipici, della meritevolezza degli
interessi perseguiti dalle parti ai sensi dell’art. 1322 cpv. c.c.
(Cass. 19 febbraio 2000 n. 1898);
7.4. sul punto, i controlli insiti nell’ordinamento positivo
relativi all’esplicazione dell’autonomia negoziale, riferiti alla
meritevolezza di tutela degli interessi regolati convenzionalmente ed alla liceità della causa, devono essere in ogni caso
parametrati ai superiori valori costituzionali previsti a garanzia degli specifici interessi perseguiti (Cass. 19 giugno 2009
n. 14343): in tal senso dovendosi ormai intendere la nozione
di “ordinamento giuridico”, cui fa riferimento la norma generale sul riconoscimento dell’autonomia negoziale ai privati, attesa l’interazione, sulle previgenti norme codicistiche,
delle superiori e successive norme di rango costituzionale e
sovranazionale comunque applicabili quali principi informatori o fondanti dell’ordinamento stesso;
7.5. la causa concreta del negozio atipico di concessione in
disponibilità di un’area da destinare a discarica di rifiuti,
riguardo alla quale è già stata ritenuta applicabile per il criterio della c.d. prevalenza la disciplina della locazione, non si
esaurisce tuttavia in questa; l’oggetto di un tale contratto non
consiste infatti nella semplice attribuzione in godimento,
dietro pagamento di un corrispettivo, di un’area nuda non
edificata, secondo la causa tipica della locazione, ma soprattutto nel trasferimento della disponibilità di un terreno, affinché su di esso siano effettuate le opere di trasformazione
necessarie per renderlo idoneo alla gestione di discarica di
rifiuti, per un tempo determinato e comunque sino all’esaurimento della potenziale recettività del sito attrezzato, con
obbligo, alla scadenza, di rilascio del terreno al proprietario
concedente, tenuto ad accettarlo con le eventuali alterazioni
permanenti e spesso irreversibili dell’area prodotte dall’autorizzata attività di natura pubblicistica (lo smaltimento dei
rifiuti costituisce pubblico servizio), anche in conseguenza
delle limitazioni d’uso derivanti dai previsti vincoli imposti
dall’autorità (Cass. 16679/02 cit.);
7.6. è già stato affermato, in applicazione di tali principi
(sempre da Cass. 16679/02 cit.) e che sussiste allora sempre
e comunque un obbligo di restituzione del bene, da parte
dell’utilizzatore, tutte le volte in cui il rilascio costituisca
effetto previsto dal contratto ed espressamente collegato al
raggiungimento della complessa causa della convenzione atipica (ovvero qualora la destinazione del bene all’uso convenuto non risulti più possibile per sopravvenuto factum principia);
7.7. se cosı̀ è, è erronea un’interpretazione del contratto
atipico, perché non rispettosa del canone dell’art. 1371 c.c.,
e del vaglio preliminare di meritevolezza di cui all’art. 1322
c.c., in base alla quale la causa concreta possa prevedere la
facoltà — per il concessionario e salvo il caso, che però qui
non ricorre, di un factum principis — di trattenere indefinitamente e senza alcun corrispettivo il bene oggetto del
contratto per tutta la durata delle operazioni di bonifica: in
base a tale interpretazione, un tale contratto comporterebbe
uno squilibrio contrattuale inaccettabile — e contrastante
coi parametri costituzionali degli artt. 2, 41, 42 e 44 Cost.,
con conseguente non meritevolezza degli interessi perseguiti
ed inefficacia del contratto ai sensi dell’art. 1322 cpv. c.c. —
1
In tal senso Cass., 8 maggio 2006, n. 10490, in I contratti.,
2007, 7, 621, con nota di Rimoldi, ed in Rass. Dir. Civ., 2008,
569 e segg., con nota di Rossi, La teoria della causa concreta ed
il suo esplicito riconoscimento da parte della Suprema Corte; ma
anche da Id., 12 novembre 2009, n. 23941, in Giur. It., 2010, 7,
1560 ed in Nuova Giur. Civ., 2010, 5, 1, 448 con nota di Di Leo;
Id., 20 dicembre 2007, n. 26958, in Corr. Giur., 2008, 7, 921, con
nota di Rolfi.
2
A tale riguardo si è rilevato che «l’unità del concetto sia
Giurisprudenza Italiana - Marzo 2012
Diritto Civile | INTERPRETAZIONE DEL CONTRATTO
per l’indeterminatezza e l’unilateralità del sacrificio imposto
ad una delle parti. — Omissis.
13. Può cosı̀ concludersi che:
13.1. è erronea, perché incongrua e non rispettosa dei
principi dell’equo contemperamento degli interessi delle
parti e dell’efficacia del contratto atipico soltanto quando
persegua interessi meritevoli di tutela secondo l’ordinamento giuridico, l’interpretazione data del contratto atipico di
concessione di bene immobile a discarica di rifiuti che, in
difetto di espresse previsioni sull’identificazione di un diverso e ben identificato termine finale, escluda, una volta cessato l’utilizzo della discarica per il fine suo proprio a causa
dell’esaurimento della sua ricettività, l’obbligo in capo al
concessionario di riconsegnare il bene, sia pure nelle condizioni di fatto ordinariamente conseguenti all’uso normale
quale discarica e cioè senza l’obbligo di restituirlo nelle condizioni preesistenti, di libertà da ogni materiale inquinante,
ivi inserito in conformità alle pattuizioni contrattuali, ma
nelle condizioni in cui si trova a seguito del corretto uso
contrattuale quale discarica; e salva l’obbligazione del concessionario di provvedere alla successiva bonifica, ma senza
per questo trattenere l’esclusiva disponibilità del bene;
13.2. è erronea, perché incongrua e non rispettosa dei
principi dell’equo contemperamento degli interessi delle
parti e dell’efficacia del contratto atipico soltanto quando
persegua interessi meritevoli di tutela secondo l’ordinamento giuridico, l’interpretazione data del contratto atipico di
concessione di bene immobile a discarica di rifiuti che, in
difetto di espresse previsioni sull’identificazione di un diverso e ben identificato termine finale, escluda che il concessionario o locatario di una discarica, che non adduca e non
dimostri l’impossibilità di procedere ai lavori di bonifica
senza conservare la disponibilità del bene anche dopo l’esaurimento della ricettività, sia in mora anche ai fini dell’art.
1591 c.c., spettando peraltro al giudice del merito la liquidazione del relativo danno in base alla peculiarità della fattispecie, impregiudicati i rispettivi obblighi, dopo la riconsegna, per il concessionario di procedere alla bonifica e per
il concedente di consentire all’altro di eseguire le relative
operazioni;
13.3. la gravata sentenza va quindi cassata per non essersi
attenuta, nell’interpretazione del contratto, ai suesposti
principi. — Omissis.
(1) Con la sentenza in commento, la Corte di
cassazione torna a richiamare la c.d. “causa concreta” del contratto, definita «lo scopo pratico del negozio, la sintesi, cioè, degli interessi che lo stesso è
concretamente diretto a realizzare, quale funzione individuale della singola e specifica negoziazione, al di là
del modello astratto utilizzato» 1.
La elaborazione del concetto di causa del contratto 2
ha seguito un iter lungo e tormentato, che non può
ancora dirsi concluso. I termini della questione, inquadrati in un contesto in cui tradizionalmente si alternavano teorie soggettive ed oggettive, possono riepilogarsi nel modo seguente. All’indomani dell’entrata in vigore del codice del 1942 si è fatta strada la teoria,
largamente abbracciata dalla giurisprudenza 3, che individuava la causa del contratto nella funzione economico-sociale oggettivamente perseguita con il negozio;
fittizia, ossia riservata al solo nomen», cosı̀ Gambaro, Sintesi in
conclusiva in tema di causa e contratto, in AA. VV., Causa e
contratto nella prospettiva storico-comparatistica, Torino 1997,
563 e segg.
3
Tra le tante Cass., 4 aprile 2003, n. 5324, in Rep. Foro It., 2003
voce “Contratto in genere”, 375; Id., 15 luglio 1993, n. 7844, in
Giur. It. 1995, 1, I, 734 con nota di Sicchiero; Id., 20 novembre
1992, n. 12401, in Giust. Civ., 1993, I, 2759 con nota di Battaglia, Id., 7 aprile 1971, n. 1025, in Foro It. 1971, I, 2574.
Diritto Civile | INTERPRETAZIONE DEL CONTRATTO
essa, come tale, veniva riconosciuta meritevole di tutela
da parte dell’ordinamento ed andava distinta dallo scopo che le parti si propongono di perseguire mediante il
negozio oggetto della stipulazione 4. A questa concezione è, però, stato obiettato che la causa del contratto,
cosı̀ ricostruita, verrebbe a coincidere, sovrapponendosi, con il tipo negoziale, provocando un’equivalenza
tra causalità e tipicità; tale teoria «impedisce di dare
rilevanza agli specifici elementi che concorrono a formare la ragione giustificativa di ciascun particolare
contratto e che possono non essere presenti — o presentarsi diversamente — in ciascun altro contratto, anche se appartenente al medesimo tipo» 5. L’obiezione si
fondava sul presupposto che è il legislatore a determinare lo schema tipico del contratto, pertanto, per i
contratti nominati, la valutazione attinente alla esistenza e liceità della causa è fatta proprio a monte dallo
stesso legislatore 6.
Si è, cosı̀, giunti a sostenere che la causa del contratto
va individuata non in astratto, ma in concreto, di modo
da non verificare solo la corrispondenza formale tra lo
schema legale e il negozio concretamente posto in essere dalle parti; l’indagine per l’individuazione della
causa deve snodarsi sulla ricerca della funzione economico-individuale del contratto e degli interessi che le
parti abbiano voluto concretamente perseguire e, attraverso la stipulazione, realizzare. In quest’ottica il
controllo del giudice non è più, soltanto, un formale
controllo di conformità del negozio con lo schema tipico legale, ma è ben più incisivo e rivolto a verificare
che l’autonomia negoziale delle parti non sia in contrasto con i principi dell’ordinamento 7.
4
Betti, Teoria generale del negozio giuridico, rist. Napoli,
1994, in quest’opera si ha la migliore enunciazione della teoria
oggettiva della causa del contratto. V. Cass., 7 ottobre 2008,
n. 24769, in Giur. It., 2009, 7, 1655 con nota di Galati.
5
Roppo, Il contratto, in Tratt. Dir. Priv. a cura di Iudica,
Zatti, Milano, 2001, 364.
6
Rolfi, Sulla causa dei contratti atipici a titolo gratuito, in
Corr. Giur., 2003, 49; Sacco, Il contratto, in Tratt. Dir. Civ. It. a
cura di Vassalli, Torino 1975. Per quanto attiene ai contratti
innominati, la giurisprudenza ha chiarito che il controllo di
meritevolezza non debba esaurirsi soltanto in senso negativo,
nella verifica cioè che il contratto non violi norme imperative di
legge o comunque non sia illecito, dovendo piuttosto verificarsi
che il contratto sia diretto alla realizzazione di interessi meritevoli di tutela da parte dell’ordinamento giuridico, con la conseguenza che il giudice potrebbe negare riconoscimento a quel
contratto atipico che, nonostante non sia illecito, non sia idoneo
a realizzare alcuno di tali interessi. V. Cass., 23 febbraio 2004,
n. 3545, in Corr. Giur., 2004, 892 con nota di Pardolesi; Id., 19
febbraio 2000, n. 1898, in Giust. Civ. 2001, I, 2481; Id., 5 gennaio 1994, n. 75, in Rass. Dir. Civ. 1996, 185 con nota di Vitale;
Id., 24 settembre 1994, n. 7856, in Giur. It., 1995, I, 1, 1014. In
dottrina v. Galgano, Diritto civile e commerciale, V. II, 1, Padova 2004; Costanza, Meritevolezza degli interessi ed equilibrio
contrattuale, in Contr. e Impr., 1987, 423 e segg; Cataudella, I
contratti. Parte generale, Torino 2009.
7
V. Sacco, op. cit., Roppo, Il contratto, cit.; Bianca, Diritto
civile, III, Il contratto, Milano, 2000; Galgano, Diritto civile e
commerciale, Padova, 2004, II. Inoltre Rolli, Il rilancio della
causa del contratto: la causa concreta, in Contr. e Impr. , 2007, 2,
416; Rolfi, La “causa come funzione economico sociale”: tramonto di un idolum tribus?, in Corr. Giur., 2006, 12, 1718. V. Cass.,
19 giugno 2009, n. 14343, in Corr. Giur. 2010, 1, 58 con nota di
Izzo.
545
Anche la suprema Corte, (come si può evincere dalla
sentenza in epigrafe) sembra ormai nettamente orientata verso la ricostruzione della causa del contratto in
termini di concretezza; a tale riguardo un primo precedente attiene all’enunciazione di carattere generale
del concetto di “causa concreta” 8 come sintesi degli
interessi delle parti, non intendendosi per questi ultimi, però, i motivi che hanno indotto le parti ad addivenire alla stipulazione (come tali irrilevanti per l’ordinamento, a meno che trattasi di motivi illeciti, comuni ad entrambe le parti e determinanti) 9.
Altro precedente 10 che si inserisce nel solco tracciato
dal primo è inerente al contratto di viaggio “tutto compreso”, la cui causa concreta viene individuata nello
scopo di piacere o “finalità turistica” del consumatore,
evidenziandosi che esso non rappresenta un mero motivo esterno all’accordo, ma è un indice costitutivo e
primario della negoziazione, attraverso il quale essa si
dota di senso economico e razionale 11. A questa ricostruzione dei giudici di legittimità si è obiettato che
essa comporterebbe un graduale, ma inesorabile ritorno alla causa intesa in senso soggettivo come espressione dei particolari scopi di parte, delle “pulsioni”
attinenti alla sfera individuale del consumatore e, come
tali, irrilevanti perché esterne alla struttura contrattuale. La giustificazione economica del contratto di viaggio tutto compreso andrebbe piuttosto ravvisata nello
scambio fra un dare del consumatore (consistente nel
pagamento del corrispettivo) ed un facere articolato del
tour operator (tenuto ad una prestazione complessa
consistente nella predisposizione di ogni aspetto del
soggiorno).
8
V. nota 1.
Nel senso dell’irrilevanza dei motivi rispetto all’indagine
sulla causa del contratto v. Cass., 10 agosto 1998, n. 7832, in
Studium iuris, 1999, 80 e segg. con nota di Finessi, Il motivo
illecito; Id., 2 agosto 1977, n. 3384, in Arch. Civ., 1977, 1102 e
segg.; Id., 18 febbraio 1975, n. 638, in Rep. Foro It., voce cit.,
136. In dottrina Ricca, voce “Motivi (Dir. Priv.)”, in Enc. Dir.,
XXVII, Milano, 1977, 286; Santoro Passarelli, Dottrine generali del diritto civile, Napoli, 1962, 159 e segg.; Deiana, I
motivi nel diritto privato, Torino, 1980. G.B. Ferri, Causa e tipo
nella teoria del negozio giuridico, Milano 1968. Questi, in Il
negozio giuridico tra libertà e norma, parla di «contiguità, sotto
il profilo funzionale, del tema dei motivi a quello della causa».
Egli osserva che «il motivo, risultante dall’interpretazione, è
evidentemente destinato ad incidere sulla fisionomia della causa. Serve, in sostanza, a chiarire, o, a seconda delle ipotesi, a
meglio specificare e delineare la funzione stessa che al negozio
intendono attribuire il suo autore o i suoi autori e quindi ad
individuare le finalità, che, con esso, intendono perseguire».
10
Cass., 24 luglio 2007, n. 16315, in I contratti, 2008, 241 e
segg, con nota di Cavajoni, La “finalità turistica” come causa del
contratto di viaggio ed in Nuova Giur. Civ. Comm., 2008, 542 e
segg., con commento di Nardi, Contratto di viaggio “tutto compreso” ed irrealizzabilità della sua funzione concreta.
11
Cfr. Cass., 24 aprile 2008, n. 10651 in I contratti, 2009, 3,
309 e segg. con nota di Galati, Contratto di viaggio all inclusive
e “causa concreta”. In essa si legge: «il viaggio tutto compreso
costituisce un nuovo tipo contrattuale nel quale la “finalità turistica” non è un motivo irrilevante ma l’interesse che lo stesso
è funzionalmente volto a soddisfare, connotandone la causa
concreta e determinando, perciò, l’essenzialità delle attività e
dei servizi strumentali alla realizzazione del preminente fine del
godimento della vacanza per come essa viene proposta dall’organizzatore del viaggio ed accettata dall’utente».
9
Giurisprudenza Italiana - Marzo 2012
546
Diritto Civile | RINUNCIA AL LEGATO
Ulteriore trasposizione pratica del concetto di causa
concreta è rinvenibile in una pronuncia della suprema
Corte avente ad oggetto un contratto di locazione di un
terreno nel quale è stabilito in una clausola convenzionale che le parti procedono alla stipula allo scopo di
realizzare un’area di deposito per materiali edili. L’interesse al godimento è normativamente vietato perché
contrastante con i vincoli di destinazione imposti dal
piano regolatore locale (nella specie la destinazione
imposta dal piano urbanistico era a verde agricolo e
bosco) 12; l’estrinsecazione dello scopo nella suddetta
clausola fa sı̀ che esso non possa configurarsi come
mero motivo, ma come scopo pratico che il negozio è
funzionalizzato a realizzare. Esso, allora,assurge a causa concreta del contratto, qualificando dal punto di
vista economico l’accordo.
Nel caso in esame le problematiche inerenti la causa
in concreto, le quali si sono, seppur succintamente,
illustrate si intrecciano con quelle relative all’individuazione dell’oggetto del contratto e dei limiti di esso.
Il contratto in oggetto è, a parere del supremo Collegio
da considerarsi come contratto atipico, al quale, in via
analogica sono legittimamente applicabili le norme sulla locazione. La causa concreta non coincide, però, con
quella della locazione e si denuncia come erronea (perché non rispettosa del canone dell’art. 1371 c.c. e del
vaglio preliminare di meritevolezza di cui all’art. 1322
c.c.) l’interpretazione sulla base della quale venga riconosciuto al concessionario di trattenere indefinitamente e senza alcun corrispettivo il terreno oggetto del
contratto per tutta la durata delle operazioni di bonifica. Una siffatta interpretazione contrasterebbe con i
principi costituzionali di cui agli artt. 2, 41, 42, 44 e
comporterebbe uno squilibrio contrattuale notevole,
stante l’unilateralità del sacrificio imposto soltanto ad
una delle parti. La Corte sottolinea che fare ricorso alla
causa concreta per giustificare l’esclusione, in capo al
concessionario che non dimostri l’impossibilità di procedere ai lavori di bonifica, di ogni responsabilità per il
ritardo nel rilascio (ai fini dell’applicazione della norma di cui all’art. 1591 c.c.) è fuorviante; anche se rimanda al giudice del merito l’adattamento della disciplina generale alle peculiarità del caso di specie.
Emanuela Tamburrano
RINUNCIA AL LEGATO
Cassazione civile, Sezioni unite, 29 marzo
2011, n. 7098 — Vittoria Presidente — Mazzacane
Relatore — Iannelli P.M. (diff.) — B.G. (avv. Di Tullo) - F.R. (avv. Troilo).
Successione legittima e testamentaria — Rinuncia
al legato avente a oggetto beni immobili — Forma
scritta — Necessità (C.c. art. 649).
Il legittimario in favore del quale il testatore abbia
disposto, ai sensi dell’art. 551 c.c., un legato avente a
12
Contrasto che conduce irrimediabilmente alla nullità del
contratto di locazione per contrasto con norme imperative. Cfr.
Cass., 7 ottobre 2008, n. 24769 in Giur. It., cit.
Giurisprudenza Italiana - Marzo 2012
oggetto beni immobili in sostituzione di legittima, qualora intenda conseguire la legittima, deve rinunciare al
legato stesso in forma scritta ex art. 1350 c.c., n. 5,
risolvendosi la rinuncia in un atto dismissivo della proprietà di beni già acquisiti al suo patrimonio; infatti,
l’automaticità dell’acquisto non è esclusa dalla facoltà
alternativa attribuita al legittimario di rinunciare al legato e chiedere la quota di legittima, tale possibilità dimostrando soltanto che l’acquisto del legato a tacitazione
della legittima è sottoposto alla condizione risolutiva
costituita dalla rinuncia del beneficiario, che, qualora
riguardi immobili, è soggetta alla forma scritta, richiesta
dall’esigenza fondamentale della certezza dei trasferimenti immobiliari (1).
Omissis. — Motivi: Preliminarmente deve procedersi
alla riunione dei ricorsi in quanto proposti contro la
medesima sentenza.
Venendo quindi all’esame del ricorso principale, si ritiene
di esaminare prioritariamente per ragioni logico-giuridiche il
secondo motivo con il quale la F., denunciando violazione e
falsa applicazione degli artt. 551 e 649 c.c. nonché insufficiente e contraddittoria motivazione, assume che erroneamente la Corte territoriale ha escluso la possibilità di un
acquisto “ope legis” del legato in sostituzione di legittima e
conseguentemente ha negato la necessità di una sua rinuncia,
da eseguirsi in forma scritta in quanto riguardante un legato
di beni immobili.
La ricorrente principale sostiene che tale assunto si pone
in contrasto con l’indirizzo consolidato di questa Corte secondo cui anche il legato in sostituzione di legittima si acquista automaticamente all’apertura della successione; aggiunge inoltre che, poiché l’art. 551 primo comma c.c., impone una espressa rinuncia al legato qualora il legittimario
voglia ottenere la quota ad esso spettante, interpretando anche il secondo comma della menzionata norma come una
disposizione che imponga una espressione di volontà per il
conseguimento del legato, si giungerebbe alla conclusione
che il legato in sostituzione di legittima non produrrebbe
alcun effetto fino a che il legatario non esprimesse la sua
volontà in un senso o nell’altro; conclusione, quest’ultima,
inaccettabile sia in relazione all’art. 649 c.c. in materia di
legato, sia per l’impossibilità di configurare nell’art. 551 secondo comma ex, una deroga implicita alle regole generali
sul legato, sia perché per questa via si finirebbe per equiparare la figura del legatario in sostituzione di legittima a quella
dell’erede chiamato all’eredità che deve decidere se accettare
o meno l’eredità medesima.
Con il terzo motivo la F., deducendo violazione degli artt.
551 e 649 c.c. nonché insufficiente e contraddittoria motivazione, censura la sentenza impugnata per aver affermato
che, poiché non sarebbe configurabile l’acquisto “ope legis”
del legato, non sarebbe necessaria alcuna rinuncia, ma semplicemente e diversamente un mero rifiuto, anche tacito, che
come tale può essere espresso anche mediante l’azione di
riduzione.
La ricorrente principale rileva che in tal modo, nel tentativo di far prevalere una interpretazione fondata sulla lettera della legge (valorizzando sino all’estremo la locuzione
“se preferisce conseguire” di cui all’art. 551 secondo
comma c.c.), si finisce per stravolgere il senso e la lettera
del primo comma dello stesso articolo, dove è previsto che
il legittimario “può rinunziare al legato”; inoltre il giudice
di appello non ha tenuto conto che il B, che non era erede legittimario di G.F., non poteva aver ereditato dalla propria madre la facoltà di rinunciare al legato dalla stessa
ricevuto.
Diritto Civile | RINUNCIA AL LEGATO
Le enunciate censure, da esaminare congiuntamente per
ragioni di connessione, attengono entrambe alla statuizione
della Corte territoriale che, come già riferito, ha negato che
l’esperibilità dell’azione di riduzione da parte di G.B. fosse
preclusa dalla mancata rinuncia in forma scritta da parte di
B.M. al legato avente ad oggetto beni immobili, avendo affermato, sulla scorta di autorevole indirizzo dottrinario, che
la cosiddetta rinuncia al legato non si risolve in un atto dismissivo di diritti di cui il disponente è divenuto titolare, ma
configura solamente un atto impeditivo del loro acquisto,
come tale non soggetto a vincoli formali; tale assunto sarebbe
poi specificatamente avvalorato riguardo at legato in sostituzione di legittima, posto che l’art. 551 secondo comma c.c.
prevede espressamente che il legittimario preferisca “conseguire il legato”; pertanto, trattandosi di un mero rifiuto, l’atto suddetto non necessiterebbe di forme solenni, e dunque
potrebbe essere espresso anche mediante l’esercizio dell’azione di riduzione.
Orbene l’esame della questione ora enunciata, che ha determinato l’emissione della menzionata ordinanza interlocutoria della seconda sezione civile di questa Corte, comporta
da un lato una rassegna dell’orientamento giurisprudenziale
finora maturatosi al riguardo, e dall’altro una disamina degli
spunti critici sollevati dalla dottrina in senso contrario che
hanno costituito la base del convincimento espresso in proposito dalla sentenza impugnata.
Sotto un primo profilo quindi deve richiamarsi l’indirizzo
giurisprudenziale costante di questa Corte secondo cui, poiché il legato si acquista senza bisogno di accettazione, la
rinuncia al legato avente ad oggetto beni immobili, risolvendosi in un atto di dismissione della proprietà di beni già
acquisiti al patrimonio del rinunciante, ai sensi dell’art. 1350
n. 5 c.c. deve essere espressa per iscritto a pena di nullità
(vedi in tal senso “ex multis” Cass. 8-4-1954 n. 1040; Cass.
5-6-1971 n. 1683; Cass. 26-1-1990 n. 459; Cass. 2-2-1995
n. 1261; Cass. 3-7-2000 n. 8878; Cass. 22-7-2004 n. 13785;
Cass. 22-6-2010 n. 15124); queste conclusioni vengono estese alla rinuncia al legato in sostituzione di legittima sulla base
del rilievo che anche in questa ipotesi il legato si acquista di
diritto all’apertura della successione, e l’automaticità dell’acquisto non è esclusa dalla facoltà alternativa attribuita al
legittimario di rinunciare al legato e chiedere la quota di
legittima, tale possibilità dimostrando soltanto che l’acquisto
del legato a tacitazione della legittima è sottoposto alla condizione risolutiva costituita dalla rinuncia del beneficiario,
condizione che però non sottrae quest’ultima, qualora riguardi beni immobili, alla forma scritta richiesta dalla esigenza fondamentale della certezza dei trasferimenti immobiliari (cosı̀ in particolare in motivazione Cass. 2-2-1995
n. 1261).
In senso contrario si è sviluppata una dottrina la cui elaborazione, risalente a diversi decenni orsono, muove dalla
considerazione che la rinuncia al legato non avrebbe natura
di vera rinuncia, ovvero di atto con cui si dismette un diritto
già acquistato, ma piuttosto di atto ostativo o impeditivo
dell’acquisto; la rinuncia quindi impedirebbe il perfezionarsi
della fattispecie dell’acquisto, come sarebbe confermato dall’inciso “salva la facoltà di rinunziare” contenuto nell’art.
649 primo comma c.c., che invero altrimenti non avrebbe
senso, atteso che ogni acquisto di un diritto privato e perciò
disponibile fa sorgere nell’acquirente una tale facoltà; a conforto di tale assunto si sostiene che se la rinuncia al legato
fosse dismissiva di un diritto già acquisito, essa dovrebbe
comportare, per quanto riguarda gli immobili, il trasferimento della loro proprietà allo Stato (ai sensi dell’art. 827 c.c.),
laddove invece è indubitabile che tali beni tornano a far
parte del compendio ereditario come se il periodo intercorrente tra l’apertura della successione e la rinuncia al legato
non fosse mai esistito.
L’adesione a tale impostazione determina quindi di per sé
la conseguenza che anche la rinuncia al legato in sostituzione
di legittima disciplinato dall’art. 551 c.c. avente ad oggetto
beni immobili non è soggetta necessariamente alla forma
scritta.
I fautori dell’orientamento in esame traggono comunque
ulteriori motivi a sostegno del loro assunto, come pure evi-
547
denziato nell’ordinanza della seconda sezione di questa Corte sopra menzionata, dall’esame del secondo comma della
disposizione da ultimo richiamata, secondo la quale il legittimario in sostituzione di legittima “Se preferisce di conseguire il legato, perde il diritto di chiedere un supplemento,
nel caso che il valore del legato sia inferiore a quello della
legittima, e non acquista la qualità di erede”; invero in tal
caso l’adesione al legato determina la perdita non solo del
diritto alla rinuncia ma anche di quello alla quota di legittima, cosicché non sarebbe possibile prescindere dalla volontà
del legittimario, e questa esigenza spiegherebbe il diritto di
scelta attribuito a quest’ultimo dalla disposizione ora richiamata tra l’accettazione del legato ed il conseguimento della
legittima onde bilanciare l’eccezionale potere attribuito ai
testatore di privarlo del suo diritto ad una quota di eredità
tacitandolo con il lascito di beni determinati; quindi, pur
volendo ritenere automatico l’acquisto del legato ai sensi
dell’art. 649 c.c., per il legittimario cui sia stato lasciato un
legato in sostituzione di legittima la legge prevederebbe una
accettazione del legato, con la conseguenza che prima di tale
atto, non essendo ancora entrati i beni immobili oggetto
del lascito nel patrimonio del legittimario stesso, non si porrebbe la necessità di una rinuncia a tale legato nella forma
scritta.
Orbene nel procedere alla valutazione di tale autorevole
indirizzo dottrinario occorre anzitutto muovere dall’interpretazione dell’art. 649 c.c., che disciplina l’acquisto del
legato, per verificarne gli effetti per quanto riguarda la
forma della rinuncia al legato avente ad oggetto beni immobili, e poi accertare se l’art. 551 c.c., dettato per il legato in
sostituzione di legittima, autorizzi in ogni caso (e dunque
anche a prescindere dalle conclusioni che si trarranno dall’analisi dell’art. 649 c.c.) una autonoma risposta al quesito
relativo alla forma della rinuncia a tale legato, sempre ovviamente nel caso che il lascito abbia ad oggetto beni immobili.
Sotto un primo profilo deve ritenersi che l’art. 649 c.c.
non giustifichi una sua lettura diversa da quella costantemente seguita da questa Corte ed anche da una buona
parte della dottrina, considerato che il primo comma di tale
norma, nel prevedere che “il legato si acquista senza bisogno di accettazione, salva la facoltà di rinunziare”, depone
inequivocabilmente per l’automaticità dell’acquisto, con la
conseguenza che l’esercizio della “facoltà” di rinuncia comporta la dismissione di una attribuzione già acquisita al
patrimonio del legatario; non meno significativamente poi il
secondo comma della disposizione in esame prescrive che
“Quando oggetto del legato è la proprietà di una cosa determinata o altro diritto appartenente al testatore, la proprietà o il diritto si trasmette dal testatore al legatario al
momento della morte del testatore”, cosicché l’acquisto del
legato avente ad oggetto beni immobili avviene senza soluzione di continuità fin dal momento dell’apertura della successione.
È opportuno aggiungere che tale prima conclusione, legittimata dal chiaro ed inequivocabile tenore della disposizione in esame, non comporta l’assoluta inutilità dell’accettazione del legato, posto che il comportamento del legatario
può assumere rilevanza come manifestazione della sua volontà di rendere definitivo ed irretrattabile l’acquisto già verificatosi “ex lege”, o come manifestazione della opposta
volontà di spogliarsi del diritto e della qualità come innanzi
acquistati, evenienza quest’ultima che produce tra l’altro
l’effetto previsto dall’art. 467 secondo comma c.c. in materia
di rappresentazione nella successione testamentaria, nel caso
in cui l’istituito non possa o non voglia accettare il legato; in
mancanza di conferma dell’acquisto o di rinuncia si determina pertanto una situazione di incertezza (che quindi riguarda non già l’acquisto del legato ma la stabilità del medesimo) che può essere rimossa, da parte di chiunque vi
abbia interesse, attraverso l’azione prevista dall’art. 650 c.c.
chiedendo all’autorità giudiziaria la fissazione di un termine
entro il quale il legatario dichiari se intende esercitare la
facoltà di rinunziare.
Tale regime dell’acquisto del legato, nel diversificarsi dall’acquisto dell’eredità (che ai sensi degli artt. 470 e seguenti
Giurisprudenza Italiana - Marzo 2012
548
c.c. deve essere accettata per produrre effetto), è coerente
con il principio della non responsabilità per i debiti ereditari
da parte del legatario, il quale invero è tenuto all’adempimento del legato e di ogni altro onere a lui imposto dal
testatore entro i limiti del valore della cosa legata (art. 671
c.c.).
Da queste premesse discende quindi la conseguenza che
per la rinuncia ad un legato avente ad oggetto beni immobili
è necessaria la forma scritta ai sensi dell’art. 1350 n. 5 c.c.; tali
conclusioni non sono infirmate dal sopra enunciato rilievo in
senso contrario secondo cui tale assunto non spiegherebbe
come mai il bene oggetto del legato a seguito della rinuncia
rientri nell’asse ereditario; invero ciò deriva dal fatto che la
rinuncia determina la risoluzione dell’acquisto già avvenuto
in favore del legatario con effetto retroattivo al tempo dell’apertura della successione, come è confermato sia dalla
retroattività della rinuncia all’eredità espressamente prevista
dall’art. 521 c.c., sia, come è stato osservato in dottrina, dalla
equivalenza, ai fini dell’accrescimento tra collegatari, delle
ipotesi in cui il legatario non possa o non voglia acquistare il
legato (artt. 674-675 c.c.); pertanto la retroattività spiega il
ripristino della situazione antecedente, e tale “fictio juris”
opera come se l’acquisto del legato da parte del legatario
rinunciante non fosse mai avvenuto.
Occorre a tal punto focalizzare l’attenzione sull’art. 551
c.c. che disciplina il legato in sostituzione di legittima; il
primo comma di tale disposizione prevede che “Se a un
legittimario è lasciato un legato in sostituzione di legittima,
egli può rinunziare al legato e chiedere la legittima”; orbene
tale norma, prevedendo espressamente la rinuncia al legato
quale condizione del diritto di conseguire la legittima, sul
presupposto che il testatore ha inteso soddisfare i diritti del
legittimario con una disposizione a titolo particolare tacitativa di essi, stabilisce che la volontà del legittimario di ottenere la sua quota di riserva è condizionata alla dismissione
del legato in esame, e conferma la necessità della rinuncia ad
esso, rinuncia quindi da manifestare nella forma scritta qualora il legato abbia ad oggetto beni immobili; come invero è
stato rilevato, la rinuncia al legato sostitutivo cui l’art. 551
primo comma c.c. subordina la facoltà dell’onorato di chiedere la legittima, non può desumersi di per sé dalla sola
dichiarazione di rifiutare le disposizioni testamentarie in
quanto lesive dei diritti del legittimario, non potendosi negare a priori a siffatta dichiarazione il significato proprio di
una riserva di chiedere soltanto l’integrazione della legittima,
ferma restando l’attribuzione del legato (Cass. 14-4-1992
n. 4527; Cass. 11-11-2008 n. 26955).
Il secondo comma dell’art. 551 c.c. prevede poi che se il
legittimario “preferisce di conseguire il legato, perde il diritto di chiedere un supplemento, nel caso che il valore del
legato sia inferiore a quello della legittima, e non acquista la
qualità di erede. Questa disposizione non si applica quando
il testatore ha espressamente attribuito al legittimario la facoltà di chiedere il supplemento”; secondo i fautori della tesi
per la quale la rinuncia dei legittimario al legato avente ad
oggetto beni immobili non richiede necessariamente la forma scritta, tale disposizione contemplerebbe una opzione e
quindi un atto di accettazione del legato da parte del legittimario, come evidenziato dall’uso del termine “preferisce”,
sottolineando che tale scelta si impone per gli effetti rilevanti
che derivano dalla adesione al legato, ovvero la privazione
della quota di legittima.
Tale convincimento non è condivisibile sulla base delle
seguenti considerazioni.
In realtà la disposizione in esame stabilisce gli ulteriori
effetti derivanti dall’acquisizione del legato in sostituzione di
legittima (oltre la preclusione a chiedere la legittima sancita
dal primo comma dell’art. 551 c.c.), escludendo per il legittimario il diritto di chiedere un supplemento nell’ipotesi in
cui il valore dell’oggetto del legato risulti inferiore a quello
della quota di legittima; si tratta quindi di una disposizione
che, disciplinando pur sempre le conseguenze discendenti
dall’attribuzione e quindi dal conseguimento di un legato in
sostituzione di legittima — conseguenze ulteriori rispetto a
quelle già previste dai primo comma dello stesso articolo,
Giurisprudenza Italiana - Marzo 2012
Diritto Civile | RINUNCIA AL LEGATO
laddove la rinuncia al legato, come si è visto, è espressamente
prevista come condizione per chiedere la legittima — non
può portare coerentemente a conclusioni diverse con riferimento ad una pretesa necessaria accettazione del legato in
questo secondo caso, tantomeno estensibili alta ipotesi del
legittimario che intenda chiedere la legittima disciplinata dal
comma precedente (che è poi quella ricorrente nella fattispecie oggetto della presente controversia); pertanto l’interpretazione più corretta dell’espressione “se preferisce conseguire il legato, perde il diritto di chiedere il supplemento”
induce a ritenere che la perdita del diritto di chiedere un
supplemento derivi non già da una manifestazione di volontà
di acquistare il legato (invero non necessaria al fine del conseguimento dello stesso), ma dalla mancata rinuncia, da effettuarsi nella forma scritta qualora il legato abbia ad oggetto
beni immobili; in altri termini, quindi, l’interpretazione
coordinata del primo e del secondo comma dell’art. 551 c.c.
consente di affermare che la mancata rinuncia al legato in
sostituzione di legittima (da effettuarsi nella forma scritta
qualora abbia ad oggetto beni immobili) comporta la preclusione del diritto di chiedere sia la legittima, sia un suo
supplemento nel caso che il valore del legato sia inferiore ad
essa (salvo in quest’ultimo caso che il testatore abbia espressamente attribuito al legittimario la facoltà di chiedere il
supplemento); il convincimento ora espresso pertanto trova
conforto nell’inquadramento sistematico della norma di cui
all’art. 551 secondo comma c.c. in un contesto caratterizzato
non solo dal principio generale di cui all’art. 649 c.c. in
materia di accettazione del legato e da quello dell’art. 1350
n. 5 c.c. in tema di forma scritta a pena di nullità per gli atti
di rinuncia a beni immobili ed ai diritti su beni immobili, ma
anche dalla disposizione dello stesso primo comma dell’art.
551 c.c. (omissis); invero la necessità della forma scritta per
la rinuncia al legato avente ad oggetto beni immobili discende dal coordinamento delle disposizioni di carattere generale
di cui agli artt. 649 c.c. e 1350 n. 5 c.c. sopra richiamati. —
Omissis.
In conclusione quindi, ritenuti fondati i motivi in esame,
deve essere enunciato il seguente principio di diritto: il legittimario in favore del quale il testatore abbia disposto ai
sensi dell’art. 551 c.c. un legato avente ad oggetto beni immobili in sostituzione di legittima, qualora intenda conseguire la legittima, deve rinunciare al legato stesso in forma
scritta ex art. 1350 n. 5 c.c. — Omissis.
La Corte territoriale ha ritenuto tardiva l’eccezione sollevata dalla F. per la prima volta nell’atto di appello in ordine
alla mancata rinuncia da parte della B. al legato attribuitole
dal “de cuius” nella forma scritta; tale assunto non può essere
condiviso, considerato che, coerentemente con il principio
di diritto enunciato in occasione dell’esame del secondo e del
terzo motivo del ricorso principale, deve ritenersi che la
mancata rinuncia per iscritto ai sensi dell’art. 1350 n. 5 c.c.,
da parte dei legittimario che agisce per chiedere la legittima,
al legato in sostituzione di legittima avente ad oggetto beni
immobili, è rilevabile d’ufficio senza necessità di eccezione
della controparte (Cass. 18-4-2000 n. 4971; Cass. 3-7-2000 n.
8878; Cass. 16-5-2007 n. 11288).
Per le considerazioni finora espresse il ricorso principale
deve essere accolto. — Omissis.
In definitiva quindi la sentenza impugnata deve essere
cassata all’esito dell’accoglimento del ricorso principale, e la
causa deve essere rinviata ad altra sezione della Corte di
Appello di Roma per un nuovo esame della controversia in
conformità del principio di diritto sopra enunciato in occasione dell’esame del secondo e del terzo motivo del ricorso
principale nonché per la pronuncia sulle spese del presente
giudizio.
P. Q. M.
La Corte riunisce i ricorsi, accoglie il ricorso principale,
dichiara assorbito il ricorso incidentale, cassa la sentenza
impugnata in relazione all’accoglimento del ricorso principale e rinvia la causa anche per la pronuncia sulle spese del
presente giudizio ad altra sezione della Corte di Appello di
Roma. — Omissis.
Diritto Civile | RINUNCIA AL LEGATO
(1) La forma della rinuncia al legato in sostituzione di legittima avente a oggetto beni
immobili
Con la sentenza in commento, la suprema Corte di
cassazione è prepotentemente tornata a pronunciarsi
sulla necessità della forma scritta per la rinuncia a un
legato immobiliare.
Per arrivare a comprendere il complesso iter che ha
portato la giurisprudenza di legittimità a una tale pronuncia, bisogna innanzitutto cogliere le profonde differenze intercorrenti tra l’acquisto dell’eredità e l’acquisto del legato.
La prima, infatti, si acquista per effetto di un atto
d’accettazione (che può essere puro e semplice ovvero
con beneficio d’inventario, a seconda dei casi), mentre,
a norma dell’art. 649 c.c., «il legato si acquista senza
bisogno di accettazione, salva la facoltà di rinunziare.
Quando oggetto del legato è la proprietà di una cosa
determinata o altro diritto appartenente al testatore, la
proprietà o il diritto si trasmette dal testatore al legatario al momento della morte del testatore. Il legatario
però deve domandare all’onerato il possesso della cosa
legata, anche quando ne è stato espressamente dispensato dal testatore». Considerando infatti che, generalmente, l’acquisto a titolo di legato comporta un incremento patrimoniale, risulta improbabile 1, agli occhi
del nostro legislatore, che il beneficiario dell’attribuzione a titolo particolare non voglia acquistare il diritto. Pertanto, il nostro ordinamento contempla l’acquisto automatico, facendo in ogni caso salva la facoltà di
rinunzia.
Si tratta di un acquisto ope legis, che avviene al momento dell’apertura della successione coincidente con
la delazione.
Ciò non significa che l’eventuale accettazione sia superflua, mirando alla consolidazione degli effetti nonché alla loro definitività e pertanto precludendo la rinunzia 2.
L’alternativa all’acquisto automatico dell’attribuzione a titolo particolare è costituita dalla possibilità per il
legatario di rinunciarvi, con ciò preservando la propria
sfera giuridica 3. Controversa è però la natura giuridica
di quest’atto di rinuncia, essendosi da sempre contrapposti due orientamenti.
Secondo una prima tesi 4, la rinunzia risolverebbe ex
tunc gli effetti di un acquisto già verificatosi in capo al
legatario. Tale atto, infatti, attua una fictio iuris in forza
della quale è come se il legatario non avesse mai acquistato il diritto. Si tratterebbe pertanto di un’ipotesi di
rinuncia abdicativa (o rinuncia in senso stretto), che
1
In tal senso Bonilini, Diritto delle Successioni, Roma-Bari,
2004, 204.
2
In tal senso Bonilini, op. cit., 205.
3
Cosı̀ Margiotta, La forma della rinunzia al legato avente
ad oggetto beni immobili, in Il diritto per i concorsi, n. 4/2011, 11
e segg.
4
Pugliatti, Dell’istituzione di erede e dei legati, in Comm.
C.C. a cura di D’Amelio, Finzi, Firenze, 1941, 544.
5
Masi, Dei legati, in Comm. C.C. a cura di Scialoja, Branca,
Bologna-Roma, 1979, 11.
6
Cfr. Romano, in AA.VV., Diritto delle Successioni a cura di
Calvo, Perlingieri, II, Napoli, 2009, 1001.
7
C.M. Bianca, Diritto civile, II, Milano, 1985, 685.
549
renderebbe attuale un “ritorno” del bene alla massa
ereditaria, ovvero un’eventuale chiamata in sostituzione. Effettuata la rinuncia, il legatario viene considerato
come se mai fosse stato tale 5.
Emerge nitidamente dalla natura dismissiva che quest’impostazione vuol riconoscere alla rinuncia al legato
una sostanziale differenza tra rinuncia all’eredità e rinuncia al legato.
Infatti, nella prima, alla morte del testatore vi è un’offerta delle sostanze ereditarie cui dovrà far riscontro
un’accettazione del delato. La rinuncia da parte di quest’ultimo ha l’effetto di interrompere quella che è una
fattispecie a formazione progressiva, spezzando il filo
rosso tra delazione e acquisto 6.
Nella seconda ipotesi, invece, coincidendo il momento della delazione con il momento acquisitivo,
un’eventuale rinunzia non blocca il procedimento acquisitivo ma, come detto, lo risolve con efficacia ex
tunc.
Tale retroattività rappresenta poi il crinale di distinzione tra la rinunzia al legato e la rinunzia alla res legata;
con la prima, il legatario si considera come mai chiamato alla successione; la seconda, invece, presuppone
un acquisto già definitivamente avvenuto senza, pertanto, effetti retroattivi 7.
Altra parte della dottrina, invece, qualifica la rinunzia al legato non come un atto di dismissione di un
diritto già acquisito, quanto piuttosto come un atto
impeditivo dell’acquisto stesso, che si frappone all’attuarsi della fattispecie acquisitiva 8 e concreta un’omissio adquirendi 9. La rinunzia, pertanto, configurerebbe
un rifiuto impeditivo dell’ingresso del bene nella sfera
giuridica del legatario, concretando un ritorno dello
stesso nella massa ereditaria.
Sotto il profilo strutturale, la rinunzia al legato integra negozio unilaterale non recettizio, dato che, onde
risulti valida, non è previsto che debba essere indirizzata a un soggetto determinato quale, ad esempio,
l’onerato ovvero il chiamato in sostituzione 10. Isolata e
risalente appare sul punto la tesi 11 che sosteneva la
necessità che tale rinunzia sia rivolta all’onerato.
Argomento su cui si sono da sempre accertati grossi contrasti è proprio la forma della rinuncia al legato.
Gli stessi sono dovuti anche al silenzio codicistico sul
punto, osservandosi una differenza con la rinuncia all’eredità, che, a norma dell’art. 519 c.c., deve essere
espressa.
Secondo parte della dottrina 12, ne conseguirebbe
che la rinunzia al legato potrebbe essere tacita o implicita, dovendo, in tal caso, risultare la volontà di rifiutare 13 il legato da atti univoci compiuti dal beneficiario.
8
Per tutti Trabucchi, voce “Legato (dir. civ.)”, in Noviss.
Dig. It., IX, Torino, 1963, 617.
9
L. Ferri, Rinunzia e rifiuto nel diritto privato, Milano, 1960,
37.
10
Masi, op. cit., 12.
11
D’Avanzo, Delle Successioni (Parte speciale), II, Firenze,
1941, 920.
12
Messineo, Manuale di diritto civile e commerciale, VI, Milano, 1962, 507. In senso contrario, D’Avanzo, op. cit., 920, ad
avviso del quale, stante la natura recettizia del negozio di rinuncia, deve escludersi la possibilità di rinunzia tacita.
13
Cass. civ., 22 maggio 1963, n. 1337, in Foro Pad., 1963, II,
c. 32.
Giurisprudenza Italiana - Marzo 2012
550
In aderenza a tale autorevole dottrina si rinvengono
anche recenti pronunciati giurisprudenziali 14.
Dovrebbe in ogni caso risultare pacifico che non è
possibile applicare alla rinuncia al legato quanto disposto dall’art. 519 c.c. in materia di rinunzia all’eredità,
stante la tassatività (e quindi non suscettibilità di applicazione analogica) delle ipotesi di forma ad substantiam 15.
Alcuni autori 16 precisano che la rinunzia al legato
può essere implicita e risultare anche per facta concludentia qualora l’oggetto del legato non sia un diritto
reale immobiliare.
La questione assume peraltro maggiore interesse
qualora la medesima rinuncia riguardi un legato avente
a oggetto un diritto reale immobiliare.
In altre parole, se per tale atto del beneficiario-legatario sia necessario applicare il disposto dell’art. 1350,
comma 1, n. 5, c.c., che sancisce la necessità dell’atto
pubblico o della scrittura privata per gli atti di rinunzia
a diritti reali immobiliari.
Per rispondere al quesito innanzi posto, soccorrono
le due ricostruzioni sopra indicate in ordine alla natura
giuridica della rinunzia al legato.
Qualora si qualifichi tale rinunzia come un rifiuto
impeditivo dell’ingresso stesso del bene nel patrimonio
del legatario, non sarà necessario il rispetto di alcuna
forma, in quanto il bene farebbe ancora parte della
massa ereditaria e pertanto, in qualsivoglia modo lo si
esprima, tale rifiuto non andrebbe a minare la certezza
dei traffici giuridici e l’affidamento dei terzi 17.
Ove, viceversa, si ritenga che la rinunzia de quo risolva l’acquisto di un diritto già entrato nel patrimonio
del legatario, facendo ritornare retroattivamente il bene nella massa ereditaria, diventa, per tale atto di dismissione, giocoforza applicabile l’art. 1350, n. 5, c.c.,
che impone l’atto pubblico o la scrittura privata per gli
atti di rinunzia a diritti reali immobiliari 18.
La natura immobiliare dell’oggetto del legato costituisce pertanto l’unico vero limite al principio della
libertà di forma. In tal senso non può che condividersi
l’orientamento della suprema Corte oggetto del presente commento, proprio perché la forma scritta (atto
pubblico o scrittura privata autenticata) è funzionale a
garantire la certezza dei traffici giuridici e l’affidamento dei terzi 19.
Restano infine da chiarire le ulteriori peculiarità che
caratterizzano una rinuncia a un legato in sostituzione
di legittima avente a oggetto beni immobili.
Con il legato in sostituzione di legittima, previsto e
disciplinato dall’art. 551 c.c., il testatore intende tacitare i diritti di un legittimario mediante un’attribuzione a titolo particolare, di per sé svincolata da ogni
riferimento alla concreta dimensione della quota di
riserva. Recita testualmente tale norma: «Se a un legittimario è lasciato un legato in sostituzione di legittima,
14
Cass. civ., 15 maggio 1997, n. 4287, in Riv. Notar., n. 2/
1998, 757 e segg.
15
In questi termini Margiotta, op. cit., 13.
16
Cfr. Masi, voce “Legato”, in Enc. Giur. Treccani, XVIII,
Roma, 1990, 3.
17
Cosı̀ Margiotta, op. loc. cit.
18
Cass. civ., 10 luglio 2003, n. 926, in Giust. Civ. Mass., 2003,
6; Id., 26 gennaio 1990, n. 459, in Riv. Notar., n. 2/1990, 1121.
19
Margiotta, op. loc. cit.
Giurisprudenza Italiana - Marzo 2012
Diritto Civile | RINUNCIA AL LEGATO
egli può rinunziare al legato e chiedere la legittima. Se
il legittimario preferisce di conseguire il legato, perde il
diritto di chiedere un supplemento, nel caso che il
valore del legato sia inferiore a quello della legittima, e
non acquista la qualità di erede. Questa disposizione
non si applica quando il testatore ha espressamente
attribuito al legittimario la facoltà di chiedere il supplemento». Si tratta, in altri termini, di un legato sottoposto alla condizione risolutiva e potestativa della
rinuncia. Inoltre, nel caso di specie la rinuncia è funzionale al conseguimento della legittima mediante
l’esperimento dell’azione di riduzione. Una volta esperita vittoriosamente l’azione di riduzione, rimuovendo
per mezzo della stessa l’efficacia preclusiva delle disposizioni testamentarie, il legittimario acquista la qualità
di erede 20 e si rileva come, a maggior ragione, tali conclusioni siano avvalorate nell’ipotesi disciplinata dall’art. 551 c.c., laddove l’esclusione del legittimario dalla delazione ereditaria è accompagnata da una disposizione in suo favore a titolo particolare in sostituzione
della quota di legittima. Non può infatti dubitarsi che
l’istituto in esame risponda a un’esigenza di bilanciamento tra la tutela dei diritti del legittimario e il riconoscimento della volontà del testatore di escludere
quest’ultimo dalla partecipazione alla comunione ereditaria, risultando quest’ultima automatica alla morte
del testatore, mentre risulta sottoposta alla condizione
risolutivo-potestativa della rinuncia del legittimario
pretermesso la prima. Viceversa, l’accettazione del legato significherà implicitamente rinunzia all’azione di
riduzione e, come detto, impossibilità di richiedere il
supplemento qualora il valore del bene conseguito sia
inferiore alla legittima.
Pertanto, sottolineando i rilevanti effetti che comporta la rinuncia al legato sostitutivo, appare evidente
la particolarità del caso sottoposto all’attenzione della
suprema Corte.
All’interno del contesto normativo delineato dagli
artt. 551 e 649 c.c., chi vuol rinunziare a un legato
sostitutivo immobiliare è in ogni caso tenuto anch’esso
al rispetto dei principi di certezza dei traffici giuridici
e di affidamento dei terzi. E tali principi possono ricevere adeguato ossequio solo ove l’atto dismissivo rivesta forma scritta, la quale, pubblicizzata nelle forme di
legge, è funzionale all’esperimento dell’azione di riduzione e all’ottenimento della qualità di erede.
Il principio di libertà di forma, in tal senso, rimane
valido solo qualora l’oggetto del legato non sia un bene
immobile, restando invece ferma l’applicazione dell’art. 1350, n. 5, c.c. ove l’oggetto abbia natura immobiliare. Tale assunto è comunque stato affermato dalla
suprema Corte in suoi molteplici precedenti e aveva già
trovato l’adesione di autorevole dottrina 21.
Marco Filippo Giorgianni
20
In tal senso v. Cass. civ., 9 dicembre 1995, n. 12632; Id., 3
dicembre 1996, n. 10775; Id., 15 giugno 2006, n. 13804.
21
Cass. civ., 26 gennaio 1990, n. 459, in Riv. Notar., n. 2/
1990, 125 e segg., con nota di Di Mauro, In tema di forma della
rinunzia al legato avente per oggetto beni immobili, e in Giust.
Civ., I, 1990, 1241 e segg. Al riguardo v. altresı̀ MirabelliScanzano, Legato in sostituzione di legittima — Rinunzia —
Forma — Prescrizione, in Riv. Dir. Civ., II, 1990, 602.
Diritto Civile | DANNO DA MORTE
DANNO DA MORTE
Cassazione civile, III Sezione, 24 marzo 2011,
n. 6754 — Preden Presidente — Amatucci Relatore
— Velardi P.M. (parz. diff.) — M.L. ed altri (avv.ti
Gentile, Macchion) - Milano Assicurazioni s.p.a. (avv.ti
Perilli, Morelli) ed altri.
Risarcimento del danno — Responsabilità extracontrattuale — Danno da morte — Danno c.d. tanatologico — Risarcibilità — Esclusione — Danno c.d.
catastrofale — Ammissibilità (C.c. artt. 2043, 2054,
2059).
Nell’ipotesi di fatto illecito determinante il decesso
della persona offesa, è risarcibile iure hereditario il c.d.
danno catastrofale, consistente nella percezione della
propria agonia da parte della vittima, nonché iure proprio il danno non patrimoniale patito da parte dei congiunti, ma non il c.d. danno tanatologico consistente
nella mera lesione del diritto alla vita (1).
Omissis. — 1. — Il (Omissis), sei o sette ore dopo un
incidente stradale, M.C. morı̀ per le lesioni riportate.
La causa promossa dai congiunti si concluse con l’accertamento della concorrente responsabilità del conducente di
una vettura non identificata (nella misura del 60%), del conducente della vettura che aveva lateralmente sospinto quella
sulla quale viaggiava come trasportata la M. (per il 20%) e
del conducente di tale ultima vettura (per il 20%).
Con sentenza del 18.4.2003 il tribunale di Brescia condannò dunque i convenuti, fra i quali la Maa Assicurazioni
s.p.a. (poi Milano Assicurazioni s.p.a.) per il Fondo di garanzia, a risarcire ai genitori della vittima (M.L. e P.A.) ed al
fratello (M.G.) i danni patiti, liquidati in Euro 514.314,14
per i primi due ed in Euro 75.000,00 per il terzo, inclusa la
somma di Euro 197.544,76 loro riconosciuta iure hereditario
per il danno biologico subito dalla defunta.
2. — La decisione è stata parzialmente riformata dalla
corte d’appello di Milano con sentenza n. 490 del 12.6.2006.
Per quanto in questa sede ancora interessa, la corte territoriale ha escluso tale ultima voce di danno in considerazione
della brevità del periodo di sopravvivenza; ed ha, inoltre,
ridotto gli importi per il danno da “perdita parentale” (da
Euro 50.000,00 ad Euro 30.000,00 per ciascun genitore e da
Euro 25.000,00 ad Euro 15.000,00 per il fratello della vittima) sul rilievo che, essendo state già liquidate a titolo di
“danno morale” le somme di Euro 100.000,00 per ciascun
genitore e di Euro 50.000,00 per il fratello, le indicate minori
somme apparivano più eque, giacché quelle riconosciute
erano talmente cospicue da identificarsi, sia pure in parte,
con la sofferenza morale ricollegabile all’anzidetto diverso
profilo di danneggiamento. 3. — Avverso detta sentenza ricorrono per cassazione M.L., M.G. ed F.A., affidandosi a due
motivi.
Resistono con distinti controricorsi la RAS s.p.a. e la Milano Assicurazioni s.p.a., la quale ultima propone anche ricorso incidentale basato su due motivi.
Tutte le parti hanno depositato memoria illustrativa.
Motivi:
1. — I ricorsi vanno riuniti in quanto proposti avverso la
stessa sentenza.
Il ricorso principale M.-F.
2. — Col primo motivo — denunciando violazione e falsa
applicazione degli artt. 2043 e 2059 c.c. nonché ogni possibile tipo di vizio della motivazione su punto decisivo — i
ricorrenti si dolgono che la corte d’appello:
a) non abbia liquidato alcunché per il danno morale subito
dalla defunta pur avendo dichiarato di aderire al principio
enunciato da Cass., n. 11601/05, secondo il quale la brevità
del periodo di sopravvivenza alle lesioni (in quel caso di due
ore), se esclude l’apprezzabilità ai fini risarcitori del deterio-
551
ramento della qualità della vita in ragione del pregiudizio
della salute ed è pertanto ostativa alla configurabilità del
danno biologico risarcibile, non elide affatto la possibilità
che il soggetto abbia potuto percepire le conseguenze catastrofiche delle lesioni e patire dunque una sofferenza il cui
diritto al risarcimento, sotto il profilo del danno morale, era
entrato a far parte del suo patrimonio quando è sopravvenuta la morte e può dunque essere fatto valere iure hereditatis;
b) non abbia ritenuto il danno biologico e quello della
perdita della vita sempre configurabili quando la morte non
sia immediata, indipendentemente dal fatto che la sopravvivenza sia breve o prolungata, secondo il principio enunciato
da Cass., n. 15760/06.
È formulato il seguente quesito di diritto: “se, nel caso di
sopravvivenza per sei o sette ore dopo il fatto lesivo, debba
ritenersi la sussistenza di un danno diretto della vittima; se
questo sussista in tutte e tre le componenti denominate biologico, morale e tanatologico; se sia trasmissibile integralmente iure hereditatis”. 2.1. — In ordine al denunciato vizio
di motivazione non sono offerte le indicazioni di cui all’art.
366 bis c.p.c., sicché la relativa censura è inammissibile.
Quanto al dedotto vizio di violazione di legge deve preliminarmente rilevarsi che né in ricorso né in sentenza è detto
se, in relazione alle risultanze di fatto, la defunta versasse o
no in stato di coscienza durante le 6/7 ore di sopravvivenza
alle lesioni (ma la Milano Assicurazioni afferma in memoria
che era pacifico che fosse in coma). In tale contesto, lo scrutinio del motivo non può essere condotto supponendosi una
situazione di fatto (stato di coscienza della vittima) non risultante dalla sentenza e non affermata dai ricorrenti.
Non v’è dunque spazio per il risarcimento del danno cosiddetto “catastrofale”, il quale presuppone la consapevolezza in capo alla vittima dell’imminenza della morte o della
gravissima entità delle lesioni subite, consentendo che il danno da sofferenza patita (“morale” nell’accezione del termine
precedente a Cass., sez. un., n. 26972/08) possa essere fatto
valere iure hereditario per essere già entrato a far parte del
patrimonio della vittima al momento della sua morte (cfr., ex
multis, Cass., 11601/05, 17177/07, 458/09).
Il danno non è infatti risarcibile (salvo che per il tempo di
sopravvivenza, ma la questione non è neppure posta in questa sede, in relazione alla brevità dell’intervallo di tempo tra
lesioni e decesso) sotto il profilo delle conseguenze negative
della lesione sulla qualità della vita del soggetto direttamente
inciso, che connota il danno tradizionalmente definito “biologico”. Il quale, come s’è più volte chiarito, consegue alla
lesione dell’integrità psico-fisica, dunque alla lesione del diritto alla salute e non alla lesione del diritto alla vita.
Diritto alla vita che, in una virtuale scala gerarchica, è
sicuramente il primo tra tutti i diritti inviolabili dell’uomo ed
è senza dubbio, in ogni contesto e con le più variegate modalità, ampiamente garantito, com’è assolutamente ovvio;
ma che non è tuttavia suscettibile di essere tutelato, quando
è leso da terzi che provochino la morte di chi ne è titolare, a
favore dello stesso soggetto che lo abbia perso, appunto
morendo.
Del tutto improduttive paiono le disquisizioni sul se la
morte faccia parte della vita o se, contrassegnando la sua fine,
essa alla vita sia estranea. Cosı̀ come è nulla più che retorico
il pur frequente rilievo secondo il quale, essendo il risarcimento del danno da lesioni gravissime assai oneroso per
l’autore dell’illecito ed escludendosi, per converso, la risarcibilità del danno da soppressione della vita a favore dello
stesso soggetto di cui sia provocata la morte, allora dovrebbe
paradossalmente concludersi che sia economicamente più
“conveniente” uccidere che ferire. Ed è del pari improprio
l’assumere che, poiché la tutela minima di ogni diritto è
quella risarcitoria (Cass., nn. 8827 e 8828 del 2003), il negare
la risarcibilità del danno da lesione del diritto alla vita a
favore del soggetto stesso la cui vita sia spenta per fatto
imputabile ad altri, significherebbe incorrere in intima contraddizione proprio in ordine alla tutela del primo tra tutti i
diritti dell’uomo.
La questione è un’altra. È che il risarcimento costituisce
solo una forma di tutela conseguente alla lesione di un diritto
Giurisprudenza Italiana - Marzo 2012
552
Diritto Civile | DANNO DA MORTE
(o di una posizione giuridica soggettiva qualificata, pur se
non assurgente al rango di diritto soggettivo); e consiste nel
diritto di credito, diverso dal diritto inciso, ad essere tenuto
per quanto è possibile indenne dalle conseguenze negative
che dalla lesione del diritto derivano, mediante il ripristino
del bene perduto, la riparazione, la eliminazione della perdita o la consolazione — soddisfazione — compensazione se
la riparazione non sia possibile. Ora, non solo non è giuridicamente concepibile che sia acquisito dal soggetto che
muore, e che cosı̀ si estingue, un diritto che deriva dal fatto
stesso della sua morte (chi non è più non può acquistare un
diritto che gli deriverebbe dal non essere più), ma è logicamente inconfigurabile la stessa funzione del risarcimento
che, in campo civile, non è nel nostro ordinamento sanzionatoria (funzione garantita invece dal diritto penale), ma
riparatoria o consolatoria.
E in caso di morte, esclusa ovviamente la funzione riparatoria, neppure la tutela con funzione consolatoria può, per
la forza delle cose, essere attuata a favore del defunto.
Va data, invece, ai suoi congiunti: tecnicamente, posto che
un danno è ingiusto se abbia leso un interesse meritevole di
tutela e prevalente rispetto a quello del danneggiante, a chi
abbia perso, in conseguenza della morte di una persona, la
possibilità di godere del rapporto parentale con la persona
stessa in tutte le sue possibili modalità attuative (Cass., sez.
3^ n. 8828/2003).
Pretendere che sia data “anche” al defunto corrisponde, a
ben vedere, solo al contingente obiettivo di far conseguire
più denaro ai congiunti, non essendo sostenuto da alcuno
che sarebbe in linea col comune sentire o col principio di
solidarietà che il risarcimento da perdita della vita fosse erogato agli eredi “anziché” ai congiunti (se, in ipotesi, diversi)
o, in mancanza di successibili, addirittura allo Stato: il risarcimento assumerebbe allora una funzione meramente punitiva, che è invece assolta dalla sanzione penale. E si risolverebbe in breve, come l’esperienza insegna, in una diminuzione di quanto riconosciuto iure proprio ai congiunti, che
percepiscono somme comunque connesse ad un’onnicomprensiva valutazione equitativa (Cass., sez. un, n. 26972/08),
sicché risulterebbe frustrato anche lo scopo di innalzare i
limiti del risarcimento. Quand’anche lo scopo comprensibilmente perseguito dalla parte fosse, infatti, raggiunto in una
causa determinata, la giurisprudenza si assesterebbe rapidamente su standards quantitativi globali anteriori all’ipotetico
arresto (tuttavia non consentito, per le ragioni esposte), trattandosi pur sempre di stabilire quanto vada riconosciuto (in
denaro) ai sopravvissuti per la perdita del congiunto (che è
evento che provoca dolore e perdita del rapporto parentale),
con una conversione la cui entità dipende dalle qualificazioni
(1) Nell’ambito dell’annosa 1 questione del risarcimento del danno da morte, la sentenza in commento si inserisce nel consolidato filone giurisprudenziale 2 che richiede, ai fini della trasmissibilità iure hereditario del ristoro, connesso al pregiudizio non patrimoniale, derivante dalla lesione del diritto alla vita
del de cuius, un lasso di tempo intercorrente tra l’evento dannoso e la morte del danneggiato.
1
Cfr. in dottrina sul tema Facci, Il risarcimento del danno in
caso di morte, Padova, 2004; Hazan-Zorzit, Il risarcimento
del danno da morte, Milano, 2009; Magni, Brevi note in tema
di successione nel processo ed ereditarietà del danno biologico, in
Giur. It., 1994, I, 2, 977; Biondi, Intorno alla intrasmissibilità
agli eredi del diritto al risarcimento del danno non patrimoniale,
in Foro It., 1956, I, 39; Bonilini, Danno morale, in Digesto
Civ., ad vocem, Torino, 1989; Alpa, Lesione del diritto alla vita
e «danno biologico da morte», in Nuova Giur. Comm., 1995, II,
153; Palmieri, Il danno da morte tra motivazioni giuridiche ed
analisi economica, in Danno e Resp., 1998, 46; Bona, Danni
tanatologici non pecuniari iure successionis e iure proprio: vecchi e nuovi rompicapi dal risarcimento della perdita della vita al
danno esistenziale da uccisione, in Giur. It., 1999, 1636; Caso,
Incommensurabilità (e, dunque, azzeramento) del «valore della
vita»: verso il tramonto del modello restrittivo del risarcimento
del danno da morte, in Danno e Resp., 2001, 1017; Martorana, Sei ore di agonia non sono sufficienti a far nascere il diritto al risarcimento del danno biologico iure hereditario, ivi,
1999, 323; Bona, È risarcibile jure successionis il danno da
perdita della vita? (Una risposta positiva), in Giur. It., 2000,
1200; Rossetti, La liquidazione del danno da morte nel caso di
sopravvivenza quodam tempore della vittima, in Assicurazioni,
2003, II, 2, 94; Foffa, Il danno tanatologico e il danno biologico
terminale, in Danno e Resp., 2004, 1218; Caputi, Tra Pilato e
Lapalisse: il fatto morte e il danno tanatologico, ivi, 2003, 1082;
Chindemi, Diritto alla vita e nuova costruzione del danno tanatologico come danno da perdita della vita, in Resp. Civ., 2006,
1767; Scalisi, Gli obiter dicta della cassazione, tutti contenuti
in una stessa sentenza, in tema di danno esistenziale, di danno
tanatologico e di c.d. Pacs, in Resp. Civ., 2007, 9; Bona, Il valore
e l’uso dei precedenti di Strasburgo nel risarcimento per i danni
alla persona e da uccisione (l’art. 2059 c.c. «europeizzato»), in
Giur. It., 2007, 90; Tomaselli, Sul danno tanatologico: riflessioni e prospettive, in Diritto di famiglia, 2008, 2128; Zorzit,
La perdita di chance ed il «danno da morte»: prove tecniche di
resistenza e nuovi scenari, in Danno e Resp., 2009, 1121; Arnone, Danno tanatologico: l’imperituro barrage della cassazione, ivi, 2010, 807; Giovannella, Morte a Venezia (e riconoscimento del danno tanatologico), ibid., I, 475; Zilli, La «via
della consapevolezza» porta al risarcimento del danno tanatologico, in Il lavoro nella giurisprudenza, 2010, 1218; Vecchio, La
trasmissione iure ereditario del danno c.d. tanatologico, in
www.ilquotidianogiuridico.it, 2011.
2
Risalente alla pronunzia delle Sezioni unite del 22 dicembre
1925, n. 3475, in Foro It., 1926, I, 328.
Giurisprudenza Italiana - Marzo 2012
giuridiche assai meno che dalla sensibilità sociale e dalla
cultura del momento storico in cui l’evento cade.
3. — La liquidazione equitativa a favore dei congiunti è,
infine, questione di merito, sindacabile esclusivamente sotto
il profilo del vizio della motivazione.
Vizio che viene bensı̀ dedotto col secondo motivo — col
quale sono denunciate violazione e falsa applicazione dell’art. 2059 c.c. ed insufficiente motivazione su punto decisivo — che è però inammissibile per difetto di formulazione
del quesito di diritto e delle indicazioni imposte dall’art. 366
bis c.p.c., applicabile ratione temporis.
Il ricorso incidentale di Milano Assicurazioni s.p.a..
4. — Col primo motivo del ricorso incidentale la Milano
Assicurazioni si duole dell’omessa pronuncia sulla propria
domanda di restituzione, in relazione alla somma di Euro
745.078,52 versata a seguito dell’esecuzione intrapresa dai
M. —F. in forza della sentenza di primo grado.
4.1. — Il motivo è infondato in quanto la società assicuratrice (come risulta dalle sue conclusioni, trascritte a pagina
4 della sentenza) richiese la restituzione “in caso di pagamento” e non per aver pagato.
Se avesse pagato, omettendo di precisarlo nel giudizio
svoltosi, potrà comunque chiedere in separata sede la restituzione di quanto eventualmente versato in eccesso.
5. — Il secondo motivo — col quale la sentenza è censurata per ultrapetizione e contraddittorietà della motivazione
nella parte in cui ha ritenuto che il massimale può essere
superato per rivalutazione ed interessi anche in difetto di
specifica domanda da parte del danneggiato — è assorbito,
in quanto espressamente condizionato all’accoglimento del
ricorso principale, invece respinto.
Conclusioni.
6. — Entrambi i ricorsi vanno conclusivamente rigettati.
La reciproca soccombenza giustifica la compensazione
delle spese.
P.Q.M.
La Corte di cassazione riunisce i ricorsi, li rigetta e compensa le spese. — Omissis.
Diritto Civile | DANNO DA MORTE
553
Nel senso della irrisarcibilità del danno da perdita
del diritto alla vita, in quanto detta lesione configurerebbe non un danno contra ius, quanto la causa stessa
della cessazione della soggettività del danneggiato, si
colloca infatti in modo assolutamente granitico la giurisprudenza di legittimità 3.
Contra parte della giurisprudenza di merito 4 che,
partendo da un’impostazione diffusa anche in dottrina 5, ha configurato come risarcibile il danno tanatologico, in quanto lesione a fortiori del diritto alla salute
sotto il profilo della irreparabile e definitiva perdita
dell’integrità comunque sempre precedente, sia pure
in modo impercettibile, la perdita di capacità giuridica
della vittima, ed in astratto suscettibile di essere risarcita tramite la commisurazione al ristoro applicabile
per il cento per cento di invalidità permanente.
Come noto, la Corte costituzionale 6 ha precisato che
nell’ipotesi di morte del familiare spetta invece ai prossimi congiunti il risarcimento del danno alla salute iure
proprio, che sarebbe “qui il momento terminale di un
processo patogeno originato dal medesimo turbamento dell’equilibrio psichico che sostanzia il danno morale soggettivo, e che in persone predisposte da particolari condizioni (debolezza cardiaca, fragilità nervo-
sa, ecc.), anziché esaurirsi in un patema d’animo o in
uno stato di angoscia transeunte, può degenerare in un
trauma fisico o psichico permanente, alle cui conseguenze in termini di perdita di qualità personali, e non
semplicemente al pretium doloris in senso stretto, va
allora commisurato il risarcimento” e sarebbe quindi
ristorabile tramite un adattamento del danno morale.
La Cassazione 7, dopo avere promosso la rimessione
alle Sezioni unite di diciassette questioni concernenti il
danno alla persona, tra cui proprio la configurabilità
del danno tanatologico, con le pronunzie 11 novembre
2008, n. 26972; n. 26973; n. 26974 e n. 26975 8 ha
affermato la generale risarcibilità della lesione di valori
della persona costituzionalmente garantiti direttamente o indirettamente, tramite le norme interposte costituite dalla Cedu e dagli atti normativi dell’Unione europea. Con riferimento al danno tanatologico, quindi,
l’innovazione rappresentata dalle pronunzie delle Sezioni unite e recepita nella giurisprudenza di legittimità
consiste nell’aver sostituito il criterio dell’apprezzabilità del lasso di tempo della sopravvivenza con quello
della percezione dell’esito della lesione, consacrando il
concetto di “danno catastrofale” 9, in ciò anticipata da
una pronunzia di legittimità che, pur a fronte di un
3
Da ultimo Cass., Sez. III, 8 gennaio 2010, n. 79, in Danno e
Resp., 2010, 807. In precedenza Id., Sez. III, 30 giugno 1998,
n. 6404, ivi, 1999, 323; Id., Sez. III, 24 febbraio 2003, n. 2775,
ivi, 2003, 1081; Id., Sez. III, 16 maggio 2003, n. 7632, in Foro It.,
2003, I, 2681 e in Arch. Giur. Circolaz., 2003, 925; App. Campobasso, 13 luglio 2005, in Rivista giuridica del Molise e del
Sannio, 3/2005, 14; Cass., Sez. III, 12 luglio 2006, n. 15760, in
Corriere Giur., 2006, 1375; Id., Sez. lav., 27 maggio 2009,
n. 12326, in Notiziario di giurisprudenza del lavoro, 2009, 354 ed
in Foro It., 2010, I, 524; Id., Sez. III, 24 novembre 2009,
n. 24769, in Giur. It., 2010, 1294. Nello stesso senso anche
Castronovo, Il danno biologico a causa di morte aspettando la
corte costituzionale, in Vita Notar., 1994, 551.
4
Ex plurimis Trib. Monza, 30 gennaio 1998, in Resp. Civ.,
1998, 696, con nota di Ziviz; Id. Roma, 24 maggio 1998, in Foro
It., 1989, I, 892; Id. Cassino, 8 aprile 1999, in Giur. It., 2000,
1200; Id. Brindisi, 5 maggio 2002 e Id. Foggia, 28 giugno 2002,
entrambe in Foro It., 2002, I, 3494; Id. Terni, 4 marzo 2008, in
Corriere del merito, 2008, 803; Id. Venezia, 15 giugno 2009, cit.;
Id., 23 agosto 2010, in Arch. Giur. Circolaz., 2010, 933; Id.
Ravenna, 9 settembre 2009, in Rivista Giur. Lav., 2010, II, 566.
In materia di riduzione dell’equo indennizzo per infortunio del
pubblico dipendente, comminata dall’art. 49 D.P.R. 3 maggio
1957, n. 686, Cons. di Stato, Sez. IV, 11 luglio 1972, n. 689, in
Rep. Foro It., 1972, voce “Impiegato dello Stato”, n. 80, ha
ritenuto che detta decurtazione operi anche con riferimento agli
eredi in quanto essi subentrerebbero nel relativo diritto di credito a titolo successorio; sarebbe cosı̀ smentita l’intrasmissibilità
del diritto sorto a seguito di infortunio mortale. Significativamente Cass., Sez. III, 12 luglio 2006, n. 15760, in Corriere Giur.,
2006, 1375, ha affermato in astratto la risarcibilità del «(...)
danno da morte come perdita della integrità e delle speranze di
vita biologica, in relazione alla lesione del diritto inviolabile
della vita, tutelato dall’art. 2 Cost. (...) ed ora anche dall’art.
11-62 Costituzione europea, nel senso di diritto ad esistere,
come chiaramente desumibile dalla lettera e dallo spirito della
norma europea. La dottrina italiana ed europea che riconoscono
la tutela civile del diritto fondamentale della vita premono per il
riconoscimento della lesione come momento costitutivo di un
diritto di credito che entra istantaneamente come corrispettivo
del danno ingiusto al momento della lesione mortale, senza che
rilevi la distinzione tra evento di morte mediata o immediata. La
certezza della morte, secondo le leggi nazionali ed europee è a
prova scientifica, ed attiene alla distruzione delle cellule cere-
brali e viene verificata attraverso tecniche raffinate che verificano la cessazione della attività elettrica di tali cellule. La morte
cerebrale non è mai immediata, con due eccezioni: la decapitazione o lo spappolamento del cervello. In questo quadro anche
il danno da morte, come danno ingiusto da illecito, è trasferibile
mortis causa, facendo parte del credito del defunto verso il danneggiante ed i suoi solidali», non applicando però la statuizione
de qua in quanto estranea al caso concreto.
5
Cfr. Carnelutti, Natura del diritto dei superstiti nella
legge degli infortuni, in Rivista di diritto commerciale, 1914, I,
406 e segg.; Cariota Ferrara, Il momento della morte fa
parte della vita?, in Rivista di diritto civile, 1961, I, 134; De
Cupis, Il danno. Teoria generale della responsabilità civile, Milano, II, 1979, 114-125 e segg. e, in senso particolarmente critico nei confronti della giurisprudenza maggioritaria, Monateri, La responsabilità civile, in Tratt. Dir. Civ. diretto da
Sacco, Torino, 1998, 503 e segg.
6
Sent. 27 ottobre 1994, n. 372, in Giur. It., 1995, I, 406; in
Foro It., 1994, I, 3297; in Assicuraz., 1995, II, 49; in Nuova Giur.
Comm, 1995, I, 406.
7
Sez. III, 25 febbraio 2008, n. 4712, in Foro It., 2008, I, 1447,
con nota di Palmieri.
8
Ex plurimis in Giur. It., 2009, 317, con nota di Tomarchio,
L’unitarietà del danno non patrimoniale nella prospettiva delle
Sezioni unite; in Foro It., 2009, I, c. 128, con nota di Pardolesi
e Simone; in Assicurazioni, 2008, II, 2, 439; in Danno e Resp.,
2009, 19; in Nuova Giur. Comm., 2009, I, 102; in Giustizia Civ.,
2009, I, 913; in Corriere Giur., 2009, 48.
9
«(...) Il giudice potrà invece correttamente riconoscere e
liquidare il solo danno morale, a ristoro della sofferenza psichica
provata dalla vittima di lesioni fisiche, alle quali sia seguita dopo
breve tempo la morte, che sia rimasta lucida durante l’agonia in
consapevole attesa della fine. Viene cosı̀ evitato il vuoto di tutela
determinato dalla giurisprudenza di legittimità che nega, nel
caso di morte immediata o intervenuta a breve distanza dall’evento lesivo, il risarcimento del danno biologico per la perdita
della vita (...), e lo ammette per la perdita della salute solo se il
soggetto sia rimasto in vita per un tempo apprezzabile, al quale
lo commisura (...). Una sofferenza psichica siffatta, di massima
intensità anche se di durata contenuta, non essendo suscettibile, in ragione del limitato intervallo di tempo tra lesioni e
morte, di degenerare in patologia e dare luogo a danno biologico, va risarcita come danno morale, nella sua nuova più ampia
accezione».
Giurisprudenza Italiana - Marzo 2012
554
caso in cui il decesso era seguito a distanza inferiore all’ora, aveva ritenuto suscettibile di risarcimento
l’agonia percepita dalla vittima 10.
Il danno catastrofale, inteso come danno (non patrimoniale) psichico subito dal defunto cui la lesione,
pur letale, abbia consentito di prendere contezza dell’agonia subita, si distinguerebbe quindi dal danno tanatologico tout court 11. Va peraltro precisato che, in
relazione al meccanismo di selezione normativa degli
interessi meritevoli di tutela, la risarcibilità della lesione del diritto alla vita è pacificamente riconosciuta
dalla Corte europea dei diritti dell’Uomo, in forza dell’art. 2 della Cedu, che tutela espressamente il diritto
alla vita 12. Non è, quindi, improbabile ipotizzare un
futuro riconoscimento della risarcibilità del danno da
morte.
DANNO AMBIENTALE
Cassazione civile, III Sezione, 22 marzo 2011,
n. 6551 — Morelli Presidente — De Stefano Relatore — Fedeli P.M. (conf.) — Ministero dell’Ambiente (Avv. Gen. Stato) ed altri - Comune di Pozzuoli (avv.
Starace) ed altri.
Risarcimento del danno — Responsabilità extracontrattuale — Danno ambientale — Criteri liquidatori (C.c. artt. 2043, 2054, 2947; L. 8 luglio 1986,
n. 349, art. 18; D.L. 25 settembre 2009, n. 135, art. 5
bis; D.Lgs. 3 aprile 2006, n. 152, art. 311).
Risarcimento del danno — Esclusione dei danni
che il creditore avrebbe potuto evitare usando l’ordinaria diligenza — Eccezione in senso stretto — Rilevabilità d’ufficio — Esclusione (C.c. art. 1227; C.p.c.
artt. 112, 345).
In materia di risarcimento del danno ambientale, ove
i danni cagionati o i profitti conseguiti dall’agente risalgano ad epoca antecedente al termine di prescrizione,
ovvero laddove la rimessione in pristino si riveli impossibile o eccessivamente onerosa o, comunque, non sia
stata attuata dall’amministrazione competente, in attesa
dell’emanazione, da parte del Ministero dell’Ambiente,
del decreto contenente i parametri di determinazione
del risarcimento per equivalente, trovano applicazione i
criteri di liquidazione previsti dalla Dir. 2004/35/CE
del 21 aprile 2004 sulla responsabilità ambientale in
materia di prevenzione e riparazione del danno ambientale (1).
L’esclusione del risarcimento per i danni che il creditore avrebbe potuto evitare usando l’ordinaria diligenza
integra un’eccezione in senso stretto e non un’eccezione
in senso lato: ne deriva che essa non può essere applicata
d’ufficio dal giudice (2).
10
Cass., Sez. III, 8 aprile 2010, n. 8360, in Nuova Giur. Civ.
Comm., 2010, I, 1027 con nota di Foffa, La rivincita del danno
da morte.
11
Cass., 2 aprile 2001, n. 4783, in Foro It., 2001, I, 3197; in
Danno e Resp., 2001, 820; in Resp. Civ., 2001, 555.
12
Ex plurimis sentenze del 27 settembre 1995 (Mc Cann c.
Regno Unito); 19 febbraio 1998 (Kaya c. Turchia); 2 settembre
1998 (Yasa c. Turchia); 20 maggio 1999 (Ogur c. Turchia); 28
Giurisprudenza Italiana - Marzo 2012
Diritto Civile | DANNO AMBIENTALE
Omissis. — Svolgimento: — Omissis. — 3. Il ricorrente principale sviluppa tre motivi:
3.1. un primo, di violazione o falsa applicazione dell’art.
2043 c.c., della L. 8 luglio 1986, n. 349, art. 18 e del D.Lgs.
3 aprile 2006, n. 152, art. 311, in relazione all’art. 2947 c.c.,
concludendolo con il seguente quesito di diritto: dica la S.
Corte se i criteri di liquidazione del danno ambientale specificato nella L. n. 349 del 1996, art. 18 (oggi sostituito dal
D.Lgs. n. 152 del 2006, art. 113) tendono a quantificare con
riferimento all’attualità l’importo dovuto a titolo risarcitorio
per il pregiudizio arrecato ai beni immateriali oggetto di
tutela, cosı̀ da concorrere integralmente alla valutazione in
termini economici del predetto pregiudizio, e se pertanto sia
errata la sentenza impugnata, che ha ritenuto che il danno
risarcibile debba essere diminuito dei profitti realizzati oltre
cinque anni prima della proposizione della domanda, nel
presupposto che tali profitti esprimano l’ammontare dei pregiudizi arrecati giorno per giorno all’interesse pubblico e
costituiscano una voce di danno autonoma, soggetta a prescrizione estintiva; 3.2. un secondo, di violazione e falsa applicazione delle medesime norme, ma sotto altro profilo,
concludendolo con il seguente quesito di diritto: dica la S.
Corte se sia errata l’impugnata sentenza, che — in pretesa
applicazione dei principi della prescrizione estintiva — ha
ritenuto che nella liquidazione del danno ambientale si debba escludere la rilevanza dei comportamenti tenuti dal danneggiante in periodi anteriori di oltre cinque anni rispetto
alla data di proposizione della domanda risarcitoria; 3.3. un
terzo, di violazione e falsa applicazione delle medesime norme, ma sotto ulteriore profilo, nonché dell’art. 2058 c.c.,
concludendolo con il seguente quesito di diritto: dica la S.
Corte se il risarcimento del danno ambientale debba comprendere un importo equivalente ai costi occorrenti per il
ripristino dello stato originario dei luoghi, anche se tale ripristino si riveli di fatto impossibile o eccessivamente oneroso o se la Pubblica Amministrazione, nell’ambito delle sue
sfere di discrezionalità, abbia manifestato la volontà di non
procedere concretamente a simili lavori di ripristino.
4. La controricorrente Fontana Bleu spa propone controricorso con cui dispiega ricorso incidentale: 4.1. contestando
analiticamente i motivi del ricorso principale, con adesione
alle argomentazioni della gravata sentenza; 4.2. dispiegando
un motivo di autonoma ed incidentale impugnazione, di nullità della sentenza per violazione degli artt. 112 e 345 c.p.c.,
per avere dichiarato inammissibile, perché non sollevata dalla parte, un’eccezione ad essa non riservata (ex art. 1227 c.c.,
comma 2); e concludendolo con il seguente quesito di diritto: dica la Corte che anche l’eccezione fondata sull’art. 1227
c.c., comma 2 — non riservata alle parti dalla legge, né costituendo espressione di un potere esercitabile in via d’azione — rientra fra quelle rilevabili di ufficio, cosı̀ che l’eccezione sollevata dalla spa Fontana Bleu volta all’esclusione dei
danni che l’Amministrazione statale avrebbe potuto evitare
usando l’ordinaria diligenza deve essere dichiarata ammissibile a norma dell’art. 345 c.p.c.
5. Delle altre parti; 5.1. il Comune di Castelvolturno, oltre
a ribadire il proprio difetto di legittimazione passiva, dispiega numerose doglianze, riversandole in nove motivi di ricorso incidentale, i primi tre dei quali formulati in via autonoma
anche con riferimento a pretesi vizi di quello principale e gli
altri a seguito di una generica intestazione di proposizione di
ricorso incidentale condizionato; 5.2. il Comune di Pozzuoli
deposita separati controricorsi in replica al ricorso principale ed a quello incidentale della Fontana Bleu, comunque
ribadendo l’infondatezza della domanda di regresso dispie-
marzo 2000 (Kiliç c. Turchia); 10 ottobre 2000 (Akkoç c. Turchia); 14 dicembre 2000 (Gül c. Turchia); 4 maggio 2001 (Jordan c. Regno Unito; McKerr c. Regno Unito; Kelly e altri c.
Regno Unito; Shanaghan c. Regno Unito); 15 dicembre 2009
(Maiorano c. Italia); 29 marzo 2011 (Alikaj c. Italia). Nel senso
proposto nel testo già Trib. Biella, 1 giugno 2005, in Giur. It.,
2007, 88.
Diritto Civile | DANNO AMBIENTALE
gata da quest’ultima, per la carenza di legittimazione passiva
di esso Ente territoriale in luogo del suo Sindaco quale articolazione del Dipartimento della Protezione Civile; 5.3. il
Ministero dell’Ambiente e della Tutela del Territorio e del
Mare deposita controricorso a confutazione degli argomenti
del ricorso incidentale di Fontana Bleu spa.
6. In primo luogo, il ricorso incidentale dispiegato dal
Comune di Castelvolturno, proposto — si badi — avverso il
ricorso dispiegato dal Ministero dell’Ambiente, va dichiarato inammissibile per radicale carenza di interesse, non avendo alcuna delle controparti impugnato la gravata sentenza
sotto il profilo del rigetto delle domande dispiegate contro il
detto Comune; e tanto a prescindere dalle carenze formali
del primo motivo e dei quesiti dei motivi dal quarto all’ultimo, formulati in maniera generica e senza che da essi possa
trarsi la regula iuris valida per una serie potenzialmente indefinita di rapporti o fattispecie similari, in violazione della
giurisprudenza di legittimità ormai consolidatasi sul punto.
Anche le argomentazioni svolte dal Comune di Pozzuoli nel
controricorso seguono la stessa sorte, attesa la mancata impugnazione del capo della sentenza di secondo grado che
sancisce l’infondatezza di qualunque pretesa nei confronti
anche di detto Comune.
7. Ciò posto, l’ambito dell’impugnazione, come in concreto dispiegata dal ricorrente principale e dalla ricorrente incidentale, riguarda in sostanza l’identificazione dei corretti
criteri di liquidazione del danno ambientale e la rilevabilità
del comportamento del danneggiato che non si sia adoperato per contenere il danno stesso ai sensi dell’art. 1227 c.c.,
comma 2: tutti gli altri aspetti sono coperti dal giudicato
interno ormai formatosi a seguito delle statuizioni della Corte di Appello e della loro mancata impugnazione.
8. Quanto ai motivi del ricorso principale, essi si appuntano sulla ricostruzione stessa della struttura del danno ambientale, come operata dalla Corte di Appello nella qui gravata sentenza con una concezione per cosı̀ dire atomistica dei
parametri di riferimento: è evidente infatti che la Corte territoriale ha inteso applicare la disposizione della L. 8 luglio
1986, n. 349, art. 18, comma 6, secondo la quale “il giudice,
ove non sia possibile una precisa quantificazione del danno,
ne determina l’ammontare in via equitativa, tenendo comunque conto della gravità della colpa individuale, del costo
necessario per il ripristino e del profitto conseguito dal trasgressore in conseguenza del suo comportamento lesivo dei
beni ambientali”. E le censure del ricorrente chiedono a
questa Corte di precisare, nella sostanza, se tali parametri
costituiscano o meno altrettante autonome voci di danno e se
poi quelle in modo espresso escluse (costo necessario per il
ripristino) o limitate (profitto conseguito dal trasgressore
solo per gli ultimi cinque anni) meritassero l’interpretazione
riduttiva applicata dalla Corte territoriale. 8.1. Da un punto
di vista generale, effettivamente una concezione atomistica
del danno ambientale potrebbe dirsi esclusa, alla luce se non
altro dei principi generali sull’unitarietà del danno non patrimoniale elaborati dalla recente giurisprudenza di questa Corte di legittimità (per tutte, Cass., sez. un. 11.11.08
n. 26972) e comunque del tenore testuale della norma suddetta, per il quale i parametri richiamati non paiono affatto
integrare ciascuno un’autonoma voce di danno, ma piuttosto
soltanto i criteri da tenere presente per la valutazione equitativa, che rimane complessiva e riferita alla lesione nel suo
complesso. 8.2. Da tale corollario discenderebbe senz’altro
l’erroneità dell’esclusione, da tali criteri, dei costi di ripristino allorché questo sia escluso, o per obiettiva impossibilità o
per libera determinazione del danneggiato: il bene giuridico
costituito dall’ambiente rimane oggettivamente danneggiato
anche se il titolare di quello ritenga impossibile o non conveniente il ripristino, sicché il controvalore di tale diminuzione spetta comunque al danneggiato, in base a principi
affatto generali della responsabilità civile. Né sussisterebbe
alcuna locupletazione e tanto meno ingiusta: spetta incoercibilmente al danneggiato, che abbia conseguito un risarcimento per equivalente, ogni determinazione sulla sua concreta destinazione al ripristino effettivo della situazione
preesistente, ovvero sul trattenimento ed il reimpiego di
quella riparazione — attesa appunto l’assoluta fungibilità del
555
denaro in cui essa consiste — mediante sua destinazione al
soddisfacimento di fini ritenuti egualmente satisfattivi. 8.3.
Ed ancora sarebbe evidente che, non integrando il profitto
conseguito dall’inquirente una autonoma voce di danno, ma
— appunto — un semplice parametro per la liquidazione
eminentemente equitativa che viene richiesta, non può applicarsi meccanicisticamente il concetto di prescrizione elaborato per danni che maturano giorno per giorno dalla protrazione della permanenza della situazione illegittima determinata dall’immutazione dei luoghi. Infatti, per la connotazione latamente punitiva di tale parametro, la riscontrata
permanenza dell’illegittimità della situazione comporta che
il danno ambientale consistito nel permanente sconvolgimento dei luoghi con praticamente irreversibile illegittima
antropizzazione di un vasto sito costiero non si limiti ai soli
profitti che giorno per giorno abbia conseguito il danneggiante nel solo periodo dei cinque anni anteriori alla domanda, ma anche alla redditività delle somme percepite dal danneggiante in precedenza per la pregressa condotta illegittima
fin dal suo insorgere e, quindi, in sostanza a tutti i profitti già
conseguiti. 8.4. A tutto concedere, sarà ancora una volta il
carattere equitativo della liquidazione, che del resto non impone affatto una meccanica corrispondenza tra profitti conseguiti ed entità del risarcimento, a consentire di tenere in
considerazione del fattore temporale, ma appunto al fine di
valutare se l’intervallo trascorso prima dell’attivazione del
Ministero possa avere influito o meno sull’entità del danno in
rapporto ai profitti complessivamente conseguiti dalla condotta di irreversibile alterazione e danneggiamento dell’ambiente.
9. Eppure, va rilevato che l’impugnazione, effettuata in
questa sede, dei criteri di liquidazione applicati in concreto
dalla Corte di Appello consente di qualificare ancora sub
iudice la relativa questione nel suo complesso, la quale è ora
da valutare globalmente alla luce della normativa sopravvenuta. 9.1. Infatti è, nelle more del giudizio di Cassazione,
entrato in vigore il D.L. 25 settembre 2009, n. 135, art. 5 bis,
conv. con mod. in L. 20 novembre 2009 n. 166 (in G.U.
n. 274 del 24 novembre 2009 — suppl. ord.), il quale ha
modificato il D.Lgs. 3 aprile 2006, n. 152, artt. 303 e 311 e
precisamente: 9.1.1. tentando di adeguare l’ordinamento nazionale alla lettera della direttiva 2004/35/Ce ed all’esito
della procedura di infrazione n. 2007/4679 (ai sensi dell’art.
226 del Trattato Ce), relativa all’esclusione, dalla disciplina
della responsabilità ambientale, delle situazioni di inquinamento rispetto alle quali fossero già avviate le procedure di
bonifica, alla limitazione dell’obbligo di riparazione ai soli
danni causati da comportamenti dolosi o colposi ed all’ammissibilità del risarcimento del danno ambientale in forma
pecuniaria, mentre la direttiva prevede principalmente misure di ripristino dello stato dei luoghi; 9.1.2. prevedendo,
allora e tra l’altro, mediante la disposizione contenuta nell’art. b bis, comma 1, lett. b), l’aggiunta al comma 3, dell’art.
311 del richiamato D.Lgs. n. 152 del 2006, del seguente
periodo: “Con decreto del Ministro dell’ambiente e della
tutela del territorio e del mare, da emanare entro sessanta
giorni dalla data di entrata in vigore della presente disposizione, ai sensi della L. 23 agosto 1988, n. 400, art. 17, comma
3, sono definiti, in conformità a quanto previsto dal punto
1.2.3 dell’Allegato 2^ alla direttiva 2004/35/CE, i criteri di
determinazione del risarcimento per equivalente e dell’eccessiva onerosità, avendo riguardo anche al valore monetario
stimato delle risorse naturali e dei servizi perduti e ai parametri utilizzati in casi simili o materie analoghe per la liquidazione del risarcimento per equivalente del danno ambientale in sentenze passate in giudicato pronunciate in ambito
nazionale e comunitario”; 9.1.3. prevedendo, ancora e tra
l’altro, mediante la disposizione contenuta nell’art. 5 bis,
comma 1, lett. f), l’aggiunta al primo comma della lett. f)
dell’art. 303 del richiamato D.Lgs. n. 152 del 2006, del seguente periodo: “i criteri di determinazione dell’obbligazione risarcitoria stabiliti dall’art. 311, commi 2 e 3, si applicano
anche alle domande di risarcimento proposte o da proporre
ai sensi della L. 18 luglio 1986, n. 349, art. 18, in luogo delle
previsioni dei commi 6, 7 e 8 del citato art. 18, o ai sensi del
titolo 9 del libro 4 del codice civile o ai sensi di altre dispoGiurisprudenza Italiana - Marzo 2012
556
sizioni non aventi natura speciale, con esclusione delle pronunce passate in giudicato; ai predetti giudizi trova, inoltre,
applicazione la previsione dell’art. 315 del presente decreto;”. 9.2. L’intera normativa sulla liquidazione del danno
ambientale risulta quindi totalmente riscritta, con un rinvio
espresso alle previsioni della direttiva comunitaria, la quale
prevede, sul punto espressamente richiamato, testualmente
quanto appresso: — se non è possibile usare, come prima
scelta, i metodi di equivalenza risorsa-risorsa o servizio-servizio, si devono utilizzare tecniche di valutazione alternative.
L’autorità competente può prescrivere il metodo, ad esempio la valutazione monetaria, per determinare la portata delle necessarie misure di riparazione complementare e compensativa. Se la valutazione delle risorse e/o dei servizi perduti è praticabile, ma la valutazione delle risorse naturali e/o
dei servizi di sostituzione non può essere eseguita in tempi o
a costi ragionevoli, l’autorità competente può scegliere misure di riparazione il cui costo sia equivalente al valore monetario stimato delle risorse naturali e/o dei servizi perduti;
— le misure di riparazione complementare e compensativa
dovrebbero essere concepite in modo che le risorse naturali
e/o i servizi supplementari rispecchino le preferenze e il
profilo temporali delle misure di riparazione. Per esempio, a
parità delle altre condizioni, più lungo è il periodo prima del
raggiungimento delle condizioni originarie, maggiore è il numero delle misure di riparazione compensativa che saranno
avviate. 9.3. In particolare, il nuovo testo dei commi 2 e 3 del
ricordato art. 311 D.Lgs. cit., va cosı̀ letto: “... 2. Chiunque
realizzando un fatto illecito, o omettendo attività o comportamenti doverosi, con violazione di legge, di regolamento, o
di provvedimento amministrativo, con negligenza, imperizia, imprudenza o violazione di norme tecniche, arrechi danno all’ambiente, alterandolo, deteriorandolo o distruggendolo in tutto o in parte, è obbligato al ripristino della precedente situazione e, in mancanza, al risarcimento per equivalente patrimoniale nei confronti dello Stato. 3. Alla quantificazione del danno il Ministro dell’ambiente e della tutela
del territorio provvede in applicazione dei criteri enunciati
negli Allegati 3 e 4 della parte sesta del presente decreto.
All’accertamento delle responsabilità risarcitorie ed alla riscossione delle somme dovute per equivalente patrimoniale
il Ministro dell’ambiente e della tutela del territorio provvede con le procedure di cui al titolo 3 della parte sesta del
presente decreto. Con decreto del Ministro dell’ambiente e
della tutela del territorio e del mare, da emanare entro sessanta giorni dalla data di entrata in vigore della presente
disposizione, ai sensi della L. 23 agosto 1988, n. 400, art. 17,
comma 3, sono definiti, in conformità a quanto previsto dal
punto 1.2.3 dell’Allegato 2 alla direttiva 2004/35/CE, i criteri di determinazione del risarcimento per equivalente e
dell’eccessiva onerosità, avendo riguardo anche al valore
monetario stimato delle risorse naturali e dei servizi perduti
e ai parametri utilizzati in casi simili o materie analoghe per
la liquidazione del risarcimento per equivalente del danno
ambientale in sentenze passate in giudicato pronunciate in
ambito nazionale e comunitario”. 9.4. La peculiarità della
disciplina sopravvenuta sta in ciò, che essa si applica appunto anche alle domande già proposte, con il solo evidente
limite, ricavabile dai principi generali, dei giudizi già definiti
con sentenza passata in giudicato. Tanto consente di ritenere
che con la citata normativa del D.L. n. 135 del 2009 e della
L. n. 163 del 2009 siano stati completamente neutralizzati,
soprattutto ed anche per i giudizi ancora in corso e cioè non
ancora conclusi con sentenza passata in giudicato (qual è
appunto il presente), i criteri di determinazione del danno
già stabiliti dalla L. n. 349 del 1986, art. 18; e tanto probabilmente, secondo l’opinione dei commentatori, proprio per
le difficoltà applicative indotte dalla loro intrinseca contraddittorietà e per il carattere latamente punitivo che pareva
discendere dalla previsione legislativa originaria. 9.5. Peraltro, se cosı̀ è, deve rilevarsi l’imprescindibile necessità di
rivedere espressamente ogni determinazione sulla liquidazione, essendo stati appunto travolti i criteri fissati originariamente dalla L. n. 349 del 1986 e comunque rivisti, con
efficacia appunto estesa ai giudizi ancora pendenti, tutti i
criteri già applicabili. È ben vero che non consta ancora
Giurisprudenza Italiana - Marzo 2012
Diritto Civile | DANNO AMBIENTALE
essere stato emanato il decreto attuativo del Ministero, previsto espressamente dalla richiamata nuova norma di cui al
D.L. n. 135 del 2009; ma il richiamo, come operato da quest’ultima, ai criteri di una specifica previsione di fonte comunitaria ne ha consacrato, ai fini della concreta applicazione nelle singole liquidazioni, la forza precettiva, quand’anche essa non si potesse già di per sé ricavare dal contenuto
intrinseco delle disposizioni. In tal modo, in luogo dei criteri
di liquidazione equitativa già finora presi in considerazione
dai giudici del merito, del resto in applicazione delle norme
al momento vigenti, vanno applicati gli altri, previsti dalla
norma sopravvenuta, ovvero anche soltanto va verificato
l’impatto, sui primi, di questi ultimi. 9.6. Si impone quindi
una globale rivalutazione funditus della sola questione della
liquidazione del danno in applicazione dei nuovi criteri, essendo passata in giudicato la gravata pronuncia su ogni altro
aspetto (ed anche in ordine al profilo agitato nel ricorso
incidentale della Fontana Bleu spa, per quanto si dirà di qui
a tra un momento): ed a tanto non può farsi luogo se non
mediante la cassazione della pronuncia stessa limitatamente
a tale aspetto, per la rinnovazione delle operazioni di liquidazione.
10. Il motivo di ricorso incidentale è invero manifestamente infondato: la fattispecie prevista dal capoverso dell’art.
1227 c.c. (a mente del quale il risarcimento non è dovuto per
i danni che il creditore avrebbe potuto evitare usando l’ordinaria diligenza) integra, per costante giurisprudenza di
questa Corte, un’eccezione in senso proprio (tra le ultime, v.
Cass., 10 novembre 2009 n. 23734, Cass., 19 dicembre 2006
n. 27123, Cass., 26 febbraio 2003 n. 2868, Cass., 2 aprile
2001 n. 4799, Cass., 23 maggio 2001 n. 7025), visto che il
dedotto comportamento del creditore costituisce un autonomo dovere giuridico, posto a suo carico dalla legge quale
espressione dell’obbligo di comportarsi secondo buona fede. E tale indirizzo è stato confermato anche a seguito della
puntualizzazione in tema di contenuto delle eccezioni in senso stretto operata con la pronuncia richiamata dalla ricorrente incidentale (Cass., 12 gennaio 2006 n. 421), con evidente consolidamento dell’originaria impostazione: e senza
che, nonostante tale consolidamento, la controricorrente
idoneamente sviluppi, nel solo rilevante ricorso incidentale,
argomenti nuovi che si facciano carico di tale conferma. Al
riguardo, la conformità della presente affermazione a un
consolidato indirizzo impone di rigettare il ricorso incidentale che su quella si fonda.
11. In conclusione: 11.1. la disamina delle questioni agitate con il ricorso principale comporta il rilievo dello ius
superveniens e di ufficio — senza quindi potersi esaminare il
merito dei motivi di ricorso principale, atteso il travolgimento dei criteri ritenuti applicabili dai giudici dei gradi di merito — la cassazione della gravata sentenza limitatamente alla
quantificazione od alla liquidazione del danno, mentre essa
trova conferma integrale nel resto, con sostanziale definitiva
estromissione dal prosieguo del processo di tutte le parti
diverse dal ricorrente Ministero e dalla Fontana Bleu spa;
11.2. alla cassazione per quanto di ragione consegue poi il
rinvio della causa alla stessa Corte di Appello di Napoli, ma
in diversa composizione, cui va rimessa ogni determinazione
sulle spese di lite nei rapporti tra odierno ricorrente principale e la controricorrente Fontana Bleu spa, per la liquidazione del danno secondo quanto sopra indicato ed enunciandosi il seguente principio di diritto: il giudice della domanda
di risarcimento del danno ambientale ancora pendente alla
data di entrata in vigore della L. 20 novembre 2009, n. 166,
deve provvedere alla liquidazione del danno applicando, in
luogo di qualunque criterio previsto da norme previgenti, i
criteri specifici come risultanti dal nuovo testo del D.Lgs. 3
aprile 2006, n. 152, art. 311, commi 2 e 3, come modificato
dal D.L. 25 settembre 2009, n. 135, art. 5 bis, comma 1, lett.
b), conv. con mod. in L. 20 novembre 2009, n. 166: individuandosi detti criteri direttamente quanto meno nelle previsioni del punto 1.2.3. dell’Allegato 2 alla direttiva
2004/35/CE e solo eventualmente, ove sia nelle more intervenuto, come ulteriormente specificati dal decreto ministeriale previsto dall’ultimo periodo dell’art. 311, comma 3 cit.;
11.3. infine, quanto alle spese del giudizio di cassazione tra le
Diritto Civile | DANNO AMBIENTALE
altre parti che abbiano in questa sede svolto attività difensiva, esse possono compensarsi, attesa l’ultroneità o l’inammissibilità del ricorso incidentale condizionato del Comune
di Castelvolturno e del controricorso del Comune di Pozzuoli.
557
1. La Cassazione affronta nella sentenza in commento il complesso tema della quantificazione del ristoro
patrimoniale nell’ipotesi di danno all’ambiente 1, definito, giusta il disposto dell’art. 300 D.Lgs. 3 aprile
2006, n. 152, come «deterioramento significativo e misurabile, diretto o indiretto, di una risorsa naturale o
dell’utilità assicurata da quest’ultima» 2.
Il danno ambientale presenta elementi di interesse
che esulano dalla specifica sedes materiae, in quanto le
questioni pregiudiziali al suo corretto inquadramento
rappresentano crocevia delle varie funzioni e nature
attribuite al sistema della responsabilità civile 3. Il danno all’ambiente risulta infatti alternativamente qualificabile (e le riflessioni profuse nell’arresto esaminando
evidenziano tali caratteri): sotto il profilo tassonomico,
quale strumento atto a sanzionare e, quindi, a disincentivare i comportamenti pregiudizievoli per l’ambiente o quale semplice mezzo per agevolarne il ristoro; per quel che riguarda la legittimazione attiva, quale
danno a un bene collettivo incardinato nello Statocomunità oppure a un interesse, diffuso e adespota, dei
singoli, potenziali fruitori della risorsa naturale 4; non-
* Il titolo di questa breve nota presenta una significativa assonanza con uno scritto di uno dei più insigni giuristi viventi,
autore, in particolare, di ponderosi studi sulla responsabilità
amministrativa per pregiudizio all’ambiente nonché estensore
di rilevantissime pronunzie costituzionali in materia, cui si vuole
rendere omaggio in occasione della cessazione dalla carica di
giudice costituzionale. Si fa riferimento al Vicepresidente emerito della Corte costituzionale Paolo Maddalena, e in particolare al saggio L’ambiente: prolegomeni per una sua tutela giuridica, in Riv. Giur. Amb., 2008, 523, nonché in Foro Amm. TAR,
2007, 1501 (v. altresı̀ L’ambiente: riflessioni introduttive per una
sua tutela giuridica, in Ambiente, consulenza e pratica per l’impresa, 2007, 477). Dello stesso esimio A. si ricordano altresı̀
Modelli giurisdizionali per la tutela dell’ambiente, in Cons. Stato,
1980, II, 1201; Giurisdizione contabile e tutela degli interessi
diffusi, ivi, 1982, II, 291; Danno ambientale, danno pubblico e
responsabilità amministrativa, ibid., 1982, II, 1423; Il diritto all’ambiente come fondamentale diritto dell’individuo ed interesse
generale della collettività, ivi, 1983, II, 427; Beni ambientali e
teoria dell’oggettività giuridica, ivi, II, 139; La responsabilità per
danno pubblico ambientale, in I Tribunali amministrativi regionali, 1984, II, 273; La nuova cultura della tutela ambientale e
situazioni giuridiche soggettive, ivi, 1985, II, 45; Responsabilità
amministrativa, danno pubblico e tutela dell’ambiente, Rimini,
1985, passim; Il bene ambiente nella legge Galasso ed il risarcimento del danno pubblico ambientale, in Sanità pubblica, 1987,
633; Il danno all’ambiente tra giudice civile e giudice contabile, in
Riv. critica dir. privato, 1987, 445; Il danno ambientale, in I
Tribunali amministrativi regionali, 1988, II, 433; Danno pubblico
ambientale, Rimini, 1990, passim; Il diritto all’ambiente ed i diritti dell’ambiente nella costruzione della teoria del risarcimento
del danno pubblico ambientale, in Rivista giuridica sarda, 1992,
585; Il diritto umano all’ambiente, in I Diritti dell’uomo, 1992,
65; Il diritto all’ambiente come diritto inviolabile dell’uomo, in
Cons. Stato, 1995, II, 1897; Ambiente ed Europa dopo Maastricht, in Riv. Amm., 1996, 311; L’ambiente valore costituzionale
nell’ordinamento comunitario, in Cons. Stato, 1999, II, 945;
L’evoluzione del diritto e della politica per l’ambiente nell’Unione
europea — Il problema dei diritti fondamentali, in Riv. Amm.,
2000, 483; Danno alla collettività e finalità della responsabilità
amministrativa, in Riv. Corte Conti, 2008, 1, 196 e in Giust. Civ.,
2008, II, 483.
1
Per la sentenza di appello cfr. Rassegna dell’Avvocatura dello Stato, 2/2011, 106 con nota di Gerardo, In tema di danno
ambientale. Legittimazione ad agire, natura dell’illecito, componenti del danno.
2
Per la definizione di danno ambientale come «danno arrecato in maniera diretta all’ambiente in sé e per sé, nell’insieme
delle sue componenti, indipendentemente dalla lesione di un
diritto soggettivo, personale o patrimoniale» Tenella Sillani,
Responsabilità per danno ambientale, in Digesto Civ., Torino,
1998, XVII, ad vocem, 360.
3
Cfr. in dottrina Bigliazzi Geri, A proposito di danno ambientale ex art. 18, l. 8 luglio 1986, n. 349 e di responsabilità
civile, in Politica del diritto, 1987, 253; Alpa, La natura giuridica
del danno ambientale, in Riv. Trim. App., 1987, 1135; Caravita,
Il danno ambientale tra Corte dei conti, legislatore e Corte costituzionale, in Riv. Giur. Amb., 1988, 108; Giampietro, L’illecito
ambientale: struttura della fattispecie e antigiuridicità, in Giur.
It., 1989, IV, 239; Lubrano, Danno ambientale e tutela giudiziaria, in Riv. Amm., 1989, 1465; Principato, L’azione di danno
ambientale: pubblici amministratori e dipendenti fra giudice ordinario e Corte dei conti, in Raccolta di scritti in memoria di
Angelo Lener, a cura di Carpino, Napoli, 1989, passim; AA.VV.,
Proprietà, danno ambientale e tutela dell’ambiente, a cura di
Barbiera, Napoli, 1989; Busnelli, Danno alla salute e danno
ambientale: come sciogliere il «nodo gordiano»?, in Riv. It. medicina legale, 1993, 287; Chindemi, Il danno ambientale, in
Nuova Giur. Civ. Comm., 1993, II, 431; Trimarchi, a cura di,
Per una riforma della responsabilità civile per danno all’ambiente,
Milano, 1994, passim; Giacobbe, Profili sistematici della tutela
giuridica dell’ambiente, in Iustitia, 1995, 359; Tenella Sillani,
op. cit.; Granieri-Pardolesi, Oltre la funzione riparatoria della responsabilità civile nella tutela ambientale, in Danno e Resp.,
1998, 845; Monateri, Manuale della responsabilità civile, Torino, 2001, 545 e segg.; Quaranta, L’evoluzione della disciplina
del danno ambientale nella politica comunitaria, in L’ambiente,
2004, 919; Aceto Di Capriglia, Ingiustizia del danno e interessi protetti. Un confronto tra modelli, Napoli, 2003, 210 e segg.;
Schinaia, Prevenzione e risarcimento del danno ambientale, in
Il Consiglio di Stato, 2005, II, 819; Robustella, La responsabilità per danno all’ambiente tra finanziaria e testo unico ambientale, in Urbanistica e appalti, 2006, 780; Santoro, L’illecito
contabile, Bologna, 2006, 291-296; Venturini, in NovelliVenturini, La responsabilità amministrativa di fronte all’evoluzione delle pubbliche amministrazioni, Milano, 2008, 27 e segg.;
Franzoni, Trattato della responsabilità civile, vol. 2 — Il danno
risarcibile, Milano, 2010, 202 e segg.; Orefice, Manuale di contabilità pubblica, Roma, 2010, 670; Taddei, Il risarcimento del
danno ambientale dopo l’art. 5 bis del D.L. n. 135/2009, in Ambiente e sviluppo, 2010, 122. Nella giurisprudenza contabile tra
le più risalenti pronunzie si possono ricordare Corte dei conti,
Sez. I, 18 settembre 1980, n. 86, in Foro It., 1981, III, 167; in
Foro Amm., 1981, I, 975; e in Riv. Corte Conti, 1980, 884; Id.,
Sez. II, 30 aprile 1985, n. 70, in Finanza loc., 1985, 726; e in Foro
Amm., 1985, 1506; Id., Sez. giur. reg. Sicilia, 31 ottobre 1985,
n. 1423, in Foro Amm., 1986, 258.
4
Secondo Maddalena, L’ambiente: prolegomeni per una sua
P.Q.M.
La Corte dichiara inammissibile il ricorso incidentale del
Comune di Castelvolturno; rigetta il ricorso incidentale della
Fontana Bleu spa; e, pronunciando sul ricorso principale,
cassa la gravata sentenza in ordine alla liquidazione del danno e rinvia alla Corte di Appello di Napoli in diversa composizione, anche per le spese del giudizio di legittimità; compensa le spese di questo giudizio nei rapporti tra le parti
diverse dal ricorrente principale e dalla Fontana Bleu spa. —
Omissis.
(1-2) Prolegomeni alla nuova disciplina del
danno ambientale*
Giurisprudenza Italiana - Marzo 2012
558
ché, ancora, per quanto concerne la concreta determinazione, come pregiudizio economico, quantificabile
tramite una ricostruzione analitica del pregiudizio patrimoniale sofferto 5, ovvero equitativamente in relazione alla lesione del valore-ambiente 6.
Con riguardo a tali spunti, occorre una breve premessa sull’eziologia storica dell’istituto, in origine ascrivibile, come preclaro, alla giurisprudenza della Corte
dei conti con riguardo allo specifico caso, invero di non
rara verificazione, in cui il danno fosse cagionato da un
comportamento doloso o, più frequentemente, gravemente colposo tenuto da soggetto collegato alla pubblica amministrazione da uno specifico rapporto di servizio 7. Nella primazia del magistrato erariale quanto all’elaborazione di detta figura hanno giocato vari
elementi, primo tra tutti l’abitudine della jurisdiction fi-
tutela giuridica, in Riv. Giur. Amb., cit., 528, occorre, al riguardo, distinguere tra il diritto alla fruizione dell’ambiente, da qualificarsi come «diritto soggettivo assoluto e fondamentale», e
l’appartenenza formale del bene, legittimante la pretesa alla
conservazione dello status quo antea, che, riprendendo categorie
proprie della tradizione giuridica più risalente, dovrebbe essere
connotata come proprietà incardinata in capo alla collettività in
modo similare alla situazione soggettiva sottostante agli usi civici.
5
Il danno all’ambiente si contraddistingue, per vero, in
quanto comunque incide, a differenza di altre forme di danno
non patrimoniale, su una res extensa (la flora, la fauna, il suolo,
le acque, più in generale lo stato dei luoghi) suscettibile di valutazione economico-patrimoniale. È stato al riguardo sottolineato (Cass., Sez. I, 9 aprile 1992, n. 4362, in Mass. Foro It.,
1992, voce “Danni civili”, 48) come «L’ambiente in senso giuridico costituisce un insieme che, pur comprendente vari beni
o valori, si distingue ontologicamente da questi e si identifica in
una realtà, priva di consistenza materiale, ma espressiva di un
autonomo valore collettivo costituente, come tale, specifico oggetto di tutela da parte dell’ordinamento, con la l. 8 luglio 1986
n. 349, rispetto ad illeciti, la cui idoneità lesiva va valutata con
specifico riguardo a siffatto valore ed indipendentemente dalla
particolare incidenza verificatasi su una o più delle dette singole componenti, secondo un concetto di pregiudizio che, sebbene riconducibile a quello di danno patrimoniale, si caratterizza, tuttavia per una più ampia accezione, dovendosi avere
riguardo — per la sua identificazione — non tanto alla mera
differenza tra il saldo attivo del danneggiato (...) prima e dopo
l’evento lesivo, quanto alla sua idoneità, alla stregua di una
valutazione sociale tipica, a determinare in concreto una diminuzione dei valori e delle utilità economiche di cui il danneggiato può disporre, svincolata da una concezione aritmeticocontabile». L’attrazione del danno all’ambiente nell’ambito del
danno patrimoniale poteva peraltro sostenersi alla luce della
giurisprudenza costituzionale che (sentenza 14 luglio 1986, n.
184, in Foro It., 1986, I, 2053; in Giust. Civ., 1986, I, 232)
aveva ritenuto di ricondurre all’art. 2043 la risarcibilità del
danno biologico, in epoca pregressa rispetto al noto quadruplice intervento delle Sezioni unite (11 novembre 2008,
n. 26972; n. 26973; n. 26974; n. 26975, ex plurimis in Giur. It.,
2009, 317 con nota di Tomarchio, L’unitarietà del danno non
patrimoniale nella prospettiva delle Sezioni unite; in Foro It.,
2009, I, 128 con nota di Pardolesi-Simone) in materia di
danno non patrimoniale.
6
L’antinomia sarebbe insuperabile considerando che (Maddalena, op. ult. cit., 526) «L’ambiente (...) è un bene giuridico
in senso lato (nonché) un bene giuridico di valore, anzi (...) un
valore costituzionale». Sul fondamento costituzionale dell’ambiente e della tutela del paesaggio cfr. Corte cost., 27 giugno
1986, nn. 151 e 153, in Foro It., 1986, I, 2689. Per il rapporto tra
l’ambiente e il paesaggio Crosetti, in Crosetti-Vaiano, Beni
culturali e paesaggistici, Torino, 2009, 165 e segg.
Giurisprudenza Italiana - Marzo 2012
Diritto Civile | DANNO AMBIENTALE
nancière alla valutazione di pregiudizi incidenti su beni
non considerabili in forma parcellizzata 8 quale evidentemente è, tra l’altro, proprio la finanza pubblica.
Soprattutto nella prima 9 tra le pronunzie delle Sezioni riunite che hanno tratteggiato tale figura giuridica, esaltando la differenziazione tra danno erariale
stricto sensu e danno pubblico, ritenendo però attratto
il secondo pur sempre alla giurisdizione contabile (in
quanto comprensiva della lesione di interessi, non solo
finanziari, di spettanza dello Stato quale ente esponenziale della collettività 10), emergono taluni dei principali elementi che, anche nel prosieguo, contraddistingueranno detta forma di responsabilità: sussunzione
del valore danneggiato nell’ambito dell’interesse pubblico all’ambiente 11; incardinamento in capo al solo
Stato della pretesa risarcitoria 12; parziale estraneità dei
7
Nella giurisprudenza contabile per rapporto di servizio è
intesa la peculiare relazione intercorrente tra soggetto attivo
dell’illecito e p.a. in forza del quale si verifica, oltre che la mera
assunzione di obblighi nei confronti dell’ente di riferimento
(pur se diverso da quello danneggiato), l’inserzione nella struttura organica dello stesso. Sul punto cfr. Venturini, op. cit., 27
e segg.
8
Secondo un Leitmotiv che, tra l’altro, si dipana in modo
difforme dall’inquadramento operato dalla giurisprudenza civilistica della Cassazione, teso invece a riconoscere autonoma rilevanza alla tutela dell’interesse, diffuso o individuale, alla salubrità ambientale quale proiezione dell’art. 32 Cost. V. al riguardo Cass., 6 ottobre 1979 n. 5172, in Giust. Civ., 1980, I, 357; in
Resp. Civ. e Prev., 1979, 715; e in Foro It., 1979, I, 2302.
9
Pronunzia del 16 giugno 1984, n. 378/A, in Foro It., 1985,
III, 37; in Foro Amm., 1985, 613; e in Riv. Corte Conti, 1984,
818.
10
Maddalena, in Danno alla collettività e finalità della responsabilità amministrativa, in Riv. Corte Conti, cit., 4, evidenzia
che il ritorno dello Stato al ruolo di rappresentante della collettività risulta esaltato a seguito dell’entrata in vigore della «Costituzione repubblicana, la quale raccoglie i principi fondamentali del vivere comune, riconosce e tutela i diritti dell’uomo, sia
come singolo, sia come membro della Collettività, elenca alcuni
diritti fondamentali, e detta norme sull’organizzazione stessa
dello Stato (...) Ed al riguardo è da porre in risalto che l’idea
dello Stato — comunità fa riemergere quegli aspetti solidaristici
e quel bisogno di associarsi propri della persona umana».
11
Discostandosi consapevolmente dall’impostazione della
Cassazione, elaborata in relazione alle fattispecie di immissioni
inquinanti (Sez. un., 9 marzo 1979, n. 1463, in Foro It., 1979, I,
939 e 6 ottobre 1979, n. 5172, cit.), che aveva, come cennato,
configurato il danno all’ambiente quale fattispecie di danno
ingiusto lesivo di un diritto della personalità (tramite il combinato disposto degli artt. 2 e 32 Cost. e dell’art. 2043 c.c.), in
quanto interesse collegato a un bene collettivo, ma pur sempre
suscettibile di fruizione divisa. Si rammenta altresı̀ la nota Cass.,
Sez. un., 21 febbraio 2002, n. 2515 (in Giur. It., 2002, 775; Foro
It., 2002, I, 999; in Danno e Resp., 2002, 499; e in Giust. Civ.,
2002, I, 567) con cui (in relazione al c.d. caso Seveso) è stato
riconosciuto il ristoro del danno morale anche a soggetti sofferenti di intenso patimento psichico per la grave compromissione
del proprio ambiente di vita.
12
L’art. 18, comma 3, prevedeva inoltre la legitimatio ad causam degli enti territoriali sui quali insistessero i beni oggetto del
fatto lesivo. Si deve rammentare che la Corte costituzionale
(ordinanza 12 aprile 1990, n. 195, in Rivista Giur. Edilizia, 1990,
I, 483 e in Rassegna giuridica dell’energia elettrica, 1990, 683),
partendo dal presupposto in base a cui «l’ambiente, pur essendo
un bene immateriale unitario, ha varie componenti, ciascuna
delle quali può costituire, anche isolatamente e separatamente,
oggetto di cura e di tutela», ha precisato che detta riserva non
preclude all’ente titolare di diritti su beni ambientali danneg-
Diritto Civile | DANNO AMBIENTALE
559
criteri economico-patrimoniali alla determinazione del
danno risarcibile 13.
In altre parole, la creazione di detta figura giuridica
rispose alla necessità di elaborare un concetto di danno
parzialmente svincolato da criteri meramente materiali, per far invece assurgere rilievo primario alla lesione
del bene-ambiente in sé.
Proprio detti elementi, a ben vedere, risultarono decisivi nella configurazione legislativa dell’istituto da
parte dell’art. 18 L. 8 luglio 1986, n. 349 (legge “Galasso”), che, nell’ambito di un più generale intervento
normativo finalizzato al riconoscimento della rilevanza
dell’ambiente 14, delineò una specifica procedura di
promozione dell’infrazione e sottrasse al magistrato
erariale la giurisdizione sulle relative controversie, anche laddove la stessa risultasse sussistente in base all’applicazione dei criteri generali 15, con l’esclusione
della fattispecie prevista dall’art. 3 del D.P.R. 10 gennaio 1957, n. 3 (consistente nella rivalsa dell’ente di
appartenenza che avesse risarcito il danno cagionato
dal funzionario) 16.
La disciplina del risarcimento del danno ambientale
ha, peraltro, subito in tempi recenti una serie di modificazioni.
Dapprima, infatti, il D.Lgs. del 3 aprile 2006, n. 152
(c.d. codice dell’ambiente) ha operato una profonda
rivisitazione della materia anche sotto il profilo terminologico. In particolare, la fattispecie determinativa di
danno (art. 311, comma 1) è stata espressamente codificata.
Nella legge Galasso, infatti, l’art. 18 definiva il danno
ambientale come «Qualunque fatto doloso o colposo
in violazione di disposizioni di legge o di provvedimenti adottati in base a legge che comprometta l’ambiente,
ad esso arrecando danno, alterandolo, deteriorandolo
o distruggendolo in tutto o in parte (comma 1)» risarcibile anche «in via equitativa, tenendo comunque
conto della gravità della colpa individuale, del costo
necessario per il ripristino e del profitto conseguito dal
trasgressore in conseguenza del suo comportamento
lesivo dei beni ambientali» (...) «nei limiti della propria
responsabilità individuale 17», e in caso di possibilità
giati di esercitare le relative azioni, anche tramite la costituzione
di parte civile nel processo penale, propendendo per l’infondatezza delle questioni di legittimità costituzionale in ordine alla
riserva. In tal senso anche Cass. pen., Sez. III, 21 ottobre 2010,
n. 41015 (inedita). V. inoltre Corte cost., 23 luglio 2009, n. 235
in Giur. Cost., 2009, 2895; in Rivista Giur. Edilizia, 2009, I, 1257;
nonché in Riv. Giur. Amb., 2009, 943. Sul punto altresı̀ Cass., 27
novembre 1982, n. 6432, in Giust. Civ., 1983, I, 1183 e Cass.,
Sez. III, 25 settembre 1996, n. 5650, in Foro It., 1996, 3062, che,
secondo la tradizionale configurazione civilistica del danno all’ambiente come fattispecie collegata all’art. 2043, avevano invece in precedenza riconosciuto ai comuni danneggiati la possibilità di agire nei confronti del responsabile per i danni subiti
sul proprio territorio. Sulle conseguenti problematiche in ordine alla legittimazione a stipulare accordi transattivi relativi al
danno ambientale cfr. Colombo, in Carigella-Protto, a
cura di, Manuale di diritto processuale amministrativo, Roma,
1495.
13
In particolare, il comma 6 prevedeva che «Il giudice, ove
non sia possibile una precisa quantificazione del danno, ne determina l’ammontare in via equitativa, tenendo comunque
conto della gravità della colpa individuale, del costo necessario
per il ripristino e del profitto conseguito dal trasgressore in
conseguenza del suo comportamento lesivo dei beni ambientali». L’estraneità di criteri prettamente patrimoniali nella determinazione del danno risarcibile può far insorgere il dubbio
che, mirando a raggiungere finalità di deterrenza dalle condotte pericolose o nocive dell’ambiente, detta previsione costituisca in realtà una fattispecie di “danno punitivo”. Come
noto, la giurisprudenza più tradizionale ha costantemente
escluso che lo strumento risarcitorio possa essere utilizzato
quale mezzo di sanzione. Cfr. ad esempio la nota Cass. civ., Sez.
III, 19 gennaio 2007, n. 1183, in Giur. It., 2008, 395, che ha
escluso la possibilità di delibazione di una sentenza statunitense di condanna a danni qualificati come punitivi per contrarietà di detto istituto all’ordine pubblico. Un più recente orientamento giurisprudenziale e legislativo ammette, peraltro, la
possibilità di utilizzare lo strumento risarcitorio in funzione anche dissuasiva e punitiva, con esclusione dei soli casi in cui il
ristoro sia contraddistinto da una eccessiva e sproporzionata
differenza tra danno subito e liquidato. V. ad esempio la formulazione dell’art. 96, comma 3, c.p.c., introdotto dalla L. 18
giugno 2009 n. 69, che prevede che «In ogni caso, quando
pronuncia sulle spese ai sensi dell’art. 91, il giudice, anche d’ufficio, può altresı̀ condannare la parte soccombente al pagamento, a favore della controparte, di una somma equitativamente determinata», qualificata dalla stessa relazione illustrativa al disegno di legge come «strumento sanzionatorio a carico
del soccombente» che consegue «ipso facto all’accertamento
della condotta illecita». Ed in tal senso anche Trib. Varese, sezione distaccata di Luino, 23 gennaio 2010, in Foro It., 2010, I,
c. 2229.
14
Trimarchi, in Trimarchi, a cura di, op. ult. cit., 237,
evidenzia come la disciplina (che, è sottolineato, è stata approvata secondo una scansione temporale dettata dalla necessità di
apprestare una tutela immediata all’ambiente, anche sacrificando la profondità della riflessione giuridica) abbia colmato
una lacuna nell’ordinamento («L’esigenza di disposizioni speciali sulla responsabilità civile per il danno ambientale deriva
dal fatto che le regole poste a tutela della persona e della proprietà non consentono di imporre il risarcimento per la lesione
di interessi all’integrità dell’ambiente che, anche in ragione
della loro natura collettiva, non sono oggetto di diritti tradizionali»).
15
Pur a fronte della promozione da parte della Corte dei
conti di plurime questioni di legittimità costituzionale (Corte
dei conti, Sez. riun., 21 ottobre 1986, n. 107, in Giust. Civ., 1986,
I, 3271; Id., Sez. I, 28 luglio 1987, n. 81, in Foro Amm., 1987,
3144 e in Riv. Corte Conti, 1987, 1107; Id., Sez. riun., 20 marzo
1987, n. 113, in Riv. Corte Conti, 1987, 1043; Id., Sez. I, 28 luglio
1987, n. 80, in Foro It., 1988, III, 152; in Foro Amm., 1987, 3144;
e in Riv. Corte Conti, 1987, 1107; Id., Sez. riun., 20 marzo 1987,
n. 117, in Sanità pubblica, 1988, 305; Id., Sez. II, 1 aprile 1987,
in Giur. Cost., 1988, II, 279; Id., Sez. I, 16 giugno 1987, in Riv.
Corte Conti, 1989, 1, 77) la Corte costituzionale ha escluso la
fondatezza della questione sotto i prospettati profili della lesione delle attribuzioni riservate alla giurisdizione contabile nonché dell’inefficacia della tutela apprestata alle risorse pubbliche
(Corte cost., 30 dicembre 1987, n. 641, in Giur. It., 1988, I, 1,
1456; in Foro It., 1988, I, 694; in Giur. Cost., 1987, I, 3788; e in
Corriere Giur., 1988, 234; Id., 23 giugno 1988, n. 719 e 26 luglio
1988, n. 898, in Foro It., 1989, I, 574 e in Giur. Cost., 1988, I,
3262; Id., 31 luglio 1989, n. 483, ivi, 1989, I, 2258; Id., 29
dicembre 1988, n. 1162, ivi, 1988, I, 5627; in Riv. Giur. Amb.,
1990, 265; e in Regioni, 1990, 802).
16
V. sul punto la pronunzia della Corte dei conti, Sez. Molise,
21 novembre 2005, n. 148 (in Riv. Corte Conti, 2005, 6, 264), che
sottolinea la distinzione tra il danno ambientale in senso stretto
e il danno erariale, comprensivo delle spese sostenute dall’amministrazione per il ripristino dei luoghi.
17
Detta scelta ha anticipato, in relazione all’adozione di un
modello di responsabilità parziaria, quella operata dall’art. 1
quater della legge 14 gennaio 1994, n. 20, inserito dalla legge 20
dicembre 1996, n. 639, e si colloca nella più ampia tendenza in
atto a limitare il ricorso alla responsabilità solidale in favore di
quella parziaria. V. al riguardo Tassone, La ripartizione di reGiurisprudenza Italiana - Marzo 2012
560
Diritto Civile | DANNO AMBIENTALE
tramite «il ripristino dello stato dei luoghi a spese del
responsabile» (commi 6, 7 e 8).
L’attuale previsione stabilisce che «Chiunque realizzando un fatto illecito, o omettendo attività o comportamenti doverosi, con violazione di legge, di regolamento, o di provvedimento amministrativo, con negligenza, imperizia, imprudenza o violazione di norme
tecniche, arrechi danno all’ambiente (da intendersi, in
base a quanto previsto dal precedente art. 300 come
«qualsiasi deterioramento significativo e misurabile, diretto o indiretto, di una risorsa naturale o dell’utilità assicurata da quest’ultima») alterandolo, deteriorandolo
o distruggendolo in tutto o in parte, è obbligato al ripristino della precedente situazione e, in mancanza, al
risarcimento per equivalente patrimoniale nei confronti dello Stato» 18.
La competenza in materia di accertamento è attribuita al Ministro dell’ambiente che agisce, anche esercitando l’azione civile in sede penale, per il risarcimento del danno ambientale in forma specifica e, se necessario, per equivalente patrimoniale, ovvero tramite ordinanza ministeriale emanata nel rispetto delle norme
in materia di procedimento amministrativo. In particolare, l’ordinanza «Qualora il responsabile del fatto
che ha provocato danno ambientale non provveda in
tutto o in parte al ripristino nel termine ingiunto, o il
ripristino risulti in tutto o in parte impossibile, oppure
eccessivamente oneroso ai sensi dell’articolo 2058 del
codice civile» (...) ha ad oggetto «il pagamento, entro il
termine di sessanta giorni dalla notifica, di una somma
pari al valore economico del danno accertato o resi-
duato, a titolo di risarcimento per equivalente pecuniario» (313, comma 2).
La nuova formulazione, maggiormente dettagliata rispetto al passato 19, ha formulato specifici criteri risarcitori, destinati ad essere integrati a seguito del recepimento della direttiva 2004/35/CE del 21 aprile 2004.
Tali criteri hanno probabilmente avviato un processo
(lo si vedrà amplius ultra) di “monetizzazione” del danno all’ambiente e di conseguente riformulazione dell’istituto in chiave di dissuasione morale. Per lungo
tempo il risarcimento del danno ambientale è stato, in
realtà, giustificato da una visione strettamente normativa della responsabilità civile 20, e la quantificazione
doveva essere basata sul principio di ristoro, più ideale
che monetario, della lesione dell’ambiente quale valore
incardinato in capo alla collettività.
L’ulteriore aspetto innovativo è costituito dalla previsione secondo cui «Nel caso di danno provocato da
soggetti sottoposti alla giurisdizione della Corte dei
conti, il Ministro dell’ambiente e della tutela del territorio, anziché ingiungere il pagamento del risarcimento per equivalente patrimoniale, invia rapporto all’Ufficio di Procura regionale presso la Sezione giurisdizionale della Corte dei conti competente per territorio» (art. 313, comma 6) 21.
La suddetta modifica ha determinato un “ritorno”
alla giurisdizione della Corte dei conti delle fattispecie
di responsabilità erariale, anche laddove venga in considerazione il danno direttamente arrecato alla collettività dal comportamento, doloso o gravemente colposo, del funzionario.
sponsabilità nell’illecito civile — Analisi giuseconomica e comparata, passim, Napoli, 2007; Id., Solidarietà e parziarietà nell’ordinamento italiano: un’analisi operazionale, in Danno e Resp.,
2007, 1095 e segg.; Id., Concorso di condotta illecita e fattore
naturale: frazionamento della responsabilità, in Foro It., 2010, I,
1002.
18
La mancanza di un espresso riferimento all’elemento soggettivo dell’agente, enfatizzata anche dalla differenza rispetto
alla precedente formulazione della norma (che richiedeva
espressamente il dolo o la colpa: cfr. Cass., Sez. III, 3 febbraio
1998, n. 1087, cit. in Calabrò, Gli interessi protetti nella responsabilità civile, collana Il diritto civile nella giurisprudenza a
cura di Cendon, Torino, 2005, vol. III, 96), può indurre a ritenere che il legislatore abbia propeso per un sistema fondato sulla
responsabilità oggettiva. In quest’ottica, il riferimento al «fatto
illecito» ben potrebbe essere interpretato come richiedente la
necessaria sussistenza della mera fattispecie materiale di danno
contra ius, mentre i requisiti di «negligenza, imperizia, imprudenza» potrebbero agevolmente essere ritenuti relativi alla dimensione dell’antigiuridicità. Tale orientamento risulterebbe
del tutto conforme agli auspici della dottrina (cfr. in tal senso
Trimarchi, op. ult. cit., 241) circa il passaggio a un sistema di
responsabilità oggettiva. In particolare, la Dir. 2004/35/CE
(considerando nn. 8 e 9) distingue tra danni cagionati in relazione ad attività professionali che presentino un rischio per la salute umana o l’ambiente e danni non determinati da dette attività, per i quali, solamente, è previsto che la responsabilità sussista esclusivamente in presenza di dolo o colpa dell’operatore.
Per la tesi secondo cui «il principio comunitario chi inquina
paga, piuttosto che ricondursi alla fattispecie illecita integrata
dal concorso dell’elemento soggettivo del dolo o della colpa e
dall’elemento materiale, imputi il danno a chi si trovi nelle condizioni di controllare i rischi, cioè imputa il costo del danno al
soggetto che ha la possibilità della cost-benefit analysis, per cui lo
stesso deve sopportarne la responsabilità per essersi trovato,
prima del suo verificarsi, nella situazione più adeguata per evitarlo in modo più conveniente» T.A.R. Campania, Sez. V, sentenza 3 luglio 2009, n. 3727, in Dir. e Giurisp. Agr. e Ambient.,
2010, 348. Vigente la pregressa disciplina, la giurisprudenza
(Trib. Venezia, 4 febbraio 2010, in Ambiente, consulenza e pratica per l’impresa, 2010, 631) aveva comunque ammesso la possibilità di utilizzare, per le fattispecie di danno ambientale, la
previsione dell’art. 2051 c.c., al fine di superare le forche caudine concernenti l’onere probatorio dell’elemento soggettivo.
Nel senso della nota, Corte di giustizia europea, ordinanza 9
marzo 2010 (cause C-478/08 e 479/08) e sentenza 9 marzo 2010,
(causa C-378/08), in Foro It., 2010, IV, 555 e segg. Per il rapporto tra la fattispecie legislativa speciale concernente il danno
ambientale e quelle generali Panetta, Gli interessi protetti nella
responsabilità civile, cit., 117.
19
Reputava insufficiente la precedente definizione Santoro, op. cit., 293.
20
Per la concezione normativa della responsabilità civile, in
forza della quale la determinazione del danno deve essere riferita alla lesione arrecata all’interesse tutelato dalla norma, Cirillo, Diritto civile pubblico, Roma, 2007, 245.
21
Per l’osservazione secondo cui il “ritorno” alla giurisdizione contabile esprime «un nuovo e moderno disegno dell’amministrazione pubblica, nel quale assumono rilievo, accanto all’obiettivo di conservazione della consistenza patrimoniale e di
migliore utilizzazione delle risorse disponibili, la tutela degli
interessi di carattere generale pertinenti all’intera comunità, la
realizzazione del massimo dell’utilità dei cittadini, il rispetto
della legalità ed insieme della snellezza, della efficienza e della
tempestività dell’azione amministrativa, la necessità di regole di
azione in funzione strumentale al raggiungimento di dette finalità» Venturini, op. ult. cit., 106. Osserva, peraltro, Orefice,
op. cit., 671 che, nel caso di specie, continua a difettare un danno
alle finanze dello Stato, essendo il risarcimento indipendente da
un effettivo pregiudizio economico.
Giurisprudenza Italiana - Marzo 2012
Diritto Civile | DANNO AMBIENTALE
La menzionata innovazione deve essere, peraltro, apprezzata, in quanto determinante l’attribuzione della
materia a un giudice, da un lato, maggiormente competente a una considerazione unitaria del valore compromesso; dall’altro, più idoneo all’apprezzamento di
scelte amministrative eventualmente poste a base del
danno.
Con specifico riferimento ai criteri risarcitori, la Cassazione evidenzia, invece, l’ulteriore innovazione operata da parte dell’articolo 5 bis del D.L. 25 settembre
2009, n. 135, convertito, con modificazioni, nella L. 20
novembre 2009, n. 166 22.
In particolare, assume rilievo la nuova formulazione
dell’art. 311, comma 2, che, nel definire le misure alternative al ripristino dello stato dei luoghi, introduce
tra il risarcimento in forma specifica e quello per equivalente il genus dell’«adozione di misure di riparazione
complementare e compensativa», definite per relationem tramite il rinvio «alla direttiva 2004/35/CE del
Parlamento europeo e del Consiglio, del 21 aprile
2004, secondo le modalità prescritte dall’Allegato II
alla medesima direttiva» 23.
Detto intervento normativo era, in realtà, finalizzato
a porre rimedio alla procedura di infrazione (n.
2007/4679) intrapresa dalla Commissione europea nei
confronti dell’Italia in ordine alla mancata attuazione
della Dir. 2004/35/CE del 21 aprile 2004 sulla responsabilità ambientale in materia di prevenzione e riparazione del danno ambientale.
22
V. sul punto Taddei, op. cit., 122.
In particolare, l’Allegato II, punti 1.1.2 ed 1.1.3, definisce
la riparazione complementare come le misure finalizzate ad «ottenere, se opportuno anche in un sito alternativo, un livello di
risorse naturali e/o servizi analogo a quello che si sarebbe ottenuto se il sito danneggiato fosse tornato alle condizioni originarie», laddove la riparazione compensativa si contraddistingue
per il semplice dato temporale, essendo indirizzata ad assicurare
misure di compensazione interinali sino all’effettivo ripristino.
Trasponendo dette nozioni in categorie tradizionali di rango
civilistico sembra, quindi, possibile inquadrare le misure di reintegrazione in forma specifica (complementari e compensative)
tra le particolari modalità di esecuzione del medesimo obbligo
di ripristino. Il concetto di reintegrazione in forma specifica del
danno ambientale dovrebbe essere quindi inteso nel senso di
esecuzione specifica. La conferma verrebbe dalla nuova formulazione dell’art. 311, comma 2, che oggi fa riferimento all’«effettivo ripristino», che potrebbe essere inteso come un quid
pluris rispetto alla reintegrazione specifica tout court, essendo
quest’ultima solo eventualmente coartabile in executivis. Sulla
differenza tra dette categorie cfr. Scognamiglio, Il risarcimento in forma specifica, in Rivista trimestrale di diritto e procedura
civile, 1957, 201 e Monateri, La responsabilità civile, in Trattato di diritto civile a cura di Sacco, Torino, 1998, 318-333.
24
Nel secondo e terzo considerando della direttiva era espressamente illustrato che «La prevenzione e la riparazione del danno ambientale dovrebbero essere attuate applicando il principio
chi inquina paga, quale stabilito nel trattato e coerentemente
con il principio dello sviluppo sostenibile. Il principio fondamentale della presente direttiva dovrebbe essere quindi che
l’operatore la cui attività ha causato un danno ambientale o la
minaccia imminente di tale danno sarà considerato finanziariamente responsabile in modo da indurre gli operatori ad adottare
misure e a sviluppare pratiche atte a ridurre al minimo i rischi di
danno ambientale» e che l’emanazione della direttiva deve ritenersi giustificata dalla circostanza che «l’obiettivo» (...) di «istituire una disciplina comune per la prevenzione e riparazione del
danno ambientale a costi ragionevoli per la società non può
essere sufficientemente raggiunto dagli Stati membri». Con ri23
561
Deve essere osservato che la direttiva in questione
affronta la tematica del risarcimento del danno ambientale in un’ottica parzialmente diversa rispetto a
quella che, nel nostro ordinamento, ha determinato
l’insorgenza di tale figura, ab origine tratteggiata, come
sopra si accennava, quale lesione a un bene collettivo,
ed è piuttosto connotata da una visione generalpreventiva 24 realizzata tramite l’applicazione del principio
“chi inquina paga” 25.
Giova premettere che, a seguito dell’introduzione
nel codice, da parte del D.Lgs. 16 gennaio 2008, n. 4,
di un art. 3 bis che ne ha precisato la natura di normativa attuativa dei principi costituzionali “nel rispetto
del Trattato dell’Unione europea” la disciplina codicistica può ormai essere connotata da una sorta di relatio
perfecta ai principi comunitari, che pertanto dovrebbero fungere da parametro interpretativo anche in difetto di un esplicito adeguamento.
Con riferimento alle discrasia tra la disciplina nazionale e le previsioni della direttiva, in particolare, la
Commissione europea ha lamentato, oltre che la mancata previsione di misure compensative e complementari, la sostanziale non equivalenza tra il costo del ripristino e il ristoro per equivalente nei casi in cui il
primo fosse impossibile o eccessivamente oneroso, con
particolare riguardo all’art. 314, comma 3, che prevede
che, per l’ipotesi di impossibile quantificazione del
danno, esso sia determinato sulla base della sanzione
pecuniaria (amministrativa o penale) irrogata 26.
ferimento alla determinazione del danno ambientale osserva in
particolare Franzoni, op. ult. cit., 207 che «sorge il dubbio che
la liquidazione equitativa non assolva qui il compito di quantificare il danno (...) ma soddisfi la diversa esigenza di determinare
una somma che sia proporzionalmente adeguata a sanzionare ed
a prevenire una figura tipica di torto».
25
Il principio “chi inquina paga” è stato elaborato nella Dichiarazione della conferenza delle Nazioni Unite sull’ambiente e
lo sviluppo tenutasi a Rio de Janeiro dal 3 al 14 giugno 1992, che
al punto n. 16 prevede espressamente che «Le autorità nazionali
dovranno adoperarsi a promuovere l’internalizzazione dei costi
per la tutela ambientale e l’uso di strumenti economici, considerando che è in principio l’inquinatore a dover sostenere il
costo dell’inquinamento, tenendo nel debito conto l’interesse
pubblico e senza distorcere il commercio internazionale e gli
investimenti». Si tratta, in sostanza, di un’applicazione del ben
noto teorema di Coase (The problem of the social cost, in Journal
of Law and Economics, Chicago, 1960, 1 e segg.), secondo cui la
regolazione di attività potenzialmente dannose, anche in presenza di beni collettivi, si dovrebbe basare sull’individuare «the
appropriate social arrangement for dealing with the harmful effects» stabilendo «whether the gain from preventing the harm is
greater than the loss which would be suffered elsewhere as a result
of stopping the action which produces the harm». Il principio è
stato poi consacrato nell’art. 191 TFUE (prima del Trattato di
Lisbona denominato Trattato istitutivo della Comunità europea) tra i principi ed obiettivi in materia di politiche ambientali.
Esso, comunque, era già stato introdotto in forza della raccomandazione del Consiglio 74/536 del 3 marzo 1975, e successivamente applicato a livello settoriale dalla Dir. 84/63/CE e dal
Reg. 259/93. V. sul tema Bobbio, Il diritto comunitario dell’ambiente, in Il diritto comunitario tra liberismo e dirigismo a cura
di Cofrancesco, Roma, 2009, 299-314; Albertoni-Montini,
Le novità introdotte dal Trattato di Lisbona per la tutela dell’ambiente, in Riv. Giur. Amb., 2008, 505, ove in particolare si sottolinea, pur a seguito della riforma istituzionale (509), la sostanziale invarianza dei principi ambientali già in precedenza contenuti nei trattati.
26
Taddei, op. cit., p. 124.
Giurisprudenza Italiana - Marzo 2012
562
È il caso di notare che, nella legge n. 349/1986, il
riferimento alla reintegrazione in forma specifica presentava la caratteristica, rispetto alla previsione dell’art. 2058 c.c., di contemplare tra i casi di esclusione
solo l’impossibilità, e non anche l’eccessiva onerosità 27. A ben vedere, detta esclusione era sintomo della
volontà del legislatore di non rendere superflua la previsione del risarcimento in forma specifica (considerata
la cospicua rilevanza patrimoniale solitamente riscontrabile in materia di danni all’ambiente) nonché di privilegiare il ripristino dello stato dei luoghi rispetto al
mero ristoro patrimoniale.
La stessa ratio, comunque, deve riscontrarsi anche
nella disciplina codicistica, in quanto attuativa di una
direttiva comunitaria in cui l’opzione ripristinatoria è
chiaramente privilegiata 28.
È evidente, tuttavia, che l’utilizzazione in uno Stato
membro di criteri risarcitori meno stringenti, oltre che
frustrare le esigenze primarie tutelate dalla direttiva,
avrebbe altresı̀ determinato un ingiustificato vantaggio
per le imprese stabilite in detto Stato 29. L’attenzione a
tale aspetto è confermata, ad esempio, dall’indiscussa
esclusione, da parte della Commissione, della possibilità di erogazione di aiuti di stato al fine di consentire
alle imprese il recupero delle somme corrisposte per il
risarcimento del danno 30.
In quest’ottica, la novella al codice dell’ambiente ha
disposto una più generale riformulazione delle modalità di determinazione del danno risarcibile. I nuovi
criteri risarcitori (che, ai sensi di quanto comminato
dalla lett. f), comma 1, dell’art. 303 del codice, introdotto dall’art. 5 bis del D.L. 135/2009, come modificato dalla legge di conversione 20 novembre 2009,
n. 166, sono applicabili anche ai giudizi in corso) sono
stati analizzati dalla suprema Corte al fine di valutarne
l’influenza in relazione alla disciplina, vigente pro tempore, della legge n. 349/1986, che, facendo generico
riferimento al «costo necessario per il ripristino» e al
27
Franzoni, op. ult. cit., 204.
Franzoni, op. ult. cit., 205 evidenzia che «si può rilevare
che il ripristino della situazione preesistente diventa il criterio
preferito rispetto ad ogni intervento» e come «in questo settore
la aestimatio rei costituisca il criterio cardine rispetto al quale
modellare la finalità del risarcimento, mentre l’id quod interest
segna il passo».
29
In relazione alla difficoltà di reperire, anche a livello comunitario, univoci criteri risarcitori del danno “ecologico” Aceto Di Capriglia, op. cit., 220.
30
Sul punto Bobbio, op. cit., 312
31
È stata, di conseguenza, ipotizzata l’ascrizione del beneambiente alla categoria dell’universitas facti, più che a quella del
bene immateriale. Cosı̀ Maddalena, L’ambiente: prolegomeni
per una sua tutela giuridica, cit., 526. Per l’osservazione secondo
cui detto bene comprende anche res nullius Trimarchi, op. ult.
cit., 238.
32
È comunque noto che, in materia di prescrizione del risarcimento da responsabilità extracontrattuale, la giurisprudenza
più recente ha ormai abbandonato la concezione meramente
“materialistica” per far decorrere, al contrario, il termine di cui
all’art. 2935 c.c. dal momento in cui la lesione sia percepita o
percepibile come danno ingiusto utilizzando l’ordinaria diligenza. Cfr. in tal senso le pronunzie delle Sezioni unite civili dell’11
gennaio 2008, nn. 581 e 584 (emesse in data coeva ad altre otto
sentenze in materia di responsabilità civile, da 576 a 585), singulatim reperibili ex plurimis in Danno e Resp., 2009, 667; in
Giur. It., 2008, 1115; e in Foro It., 2008, I, 451. Sempre nella
stessa linea di pensiero Cass., Sez. III, 2 febbraio 2007, n. 2305,
28
Giurisprudenza Italiana - Marzo 2012
Diritto Civile | DANNO AMBIENTALE
«profitto conseguito dal trasgressore in conseguenza
del suo comportamento lesivo dei beni ambientali»
(senza considerare detti elementi come autonome voci
di danno 31) avrebbe per vero consentito di considerare
tra gli elementi di risarcimento anche i profitti conseguiti dal responsabile del danno in epoca precedente al
periodo rientrante nel tempo di prescrizione dell’illecito o gli effetti prodottisi in epoca antecedente a detto
termine 32, né avrebbe determinato l’esclusione della
risarcibilità del danno ove la reintegrazione in forma
specifica fosse stata ritenuta impossibile o eccessivamente onerosa dal titolare del bene danneggiato.
Per contro, la nuova formulazione della norma prevede che i criteri risarcitori «del risarcimento per equivalente e dell’eccessiva onerosità» (sic: rectius i casi in
cui è escluso il risarcimento in forma specifica per eccessiva onerosità) siano fissati con decreto del Ministro
dell’Ambiente in conformità alla Dir. 2004/35/CE e
con riferimento specifico «al valore monetario stimato
delle risorse naturali e dei servizi perduti e ai parametri
utilizzati in casi simili o materie analoghe per la liquidazione del risarcimento per equivalente del danno
ambientale in sentenze passate in giudicato pronunciate in ambito nazionale e comunitario», previsione quest’ultima con ogni probabilità finalizzata a scongiurare
pro futuro l’avvio di analoghe procedure di infrazione.
Secondo la Cassazione, in particolare, la perdurante
inerzia del competente Ministero (il relativo provvedimento infatti avrebbe dovuto essere emanato entro sessanta giorni dalla data di entrata in vigore della norma
primaria) determina la possibilità, per il giudice competente, di applicare direttamente i criteri risarcitori
comminati dalla direttiva (e, più precisamente, dal
punto 1.2. dell’Allegato II) per il caso di esclusione
della reintegrazione in forma specifica 33.
Più in particolare, la Corte di legittimità non trae
detta conclusione dell’immediata applicabilità della diin Foro It., 2007, I, c. 1097, in materia di risarcimento del danno
derivante da illecito anticoncorrenziale. Sulla base di tale criterio, dovrebbe attribuirsi valore unitario all’epifania del danno
anche laddove esso fosse comprensivo di condotte antecedenti
al termine prescrizionale.
33
«Nel determinare la portata delle misure di riparazione
complementare e compensativa, occorre prendere in considerazione in primo luogo l’uso di metodi di equivalenza risorsarisorsa o servizio-servizio. Con detti metodi vanno prese in considerazione in primo luogo azioni che forniscono risorse naturali
e/o servizi dello stesso tipo, qualità e quantità di quelli danneggiati. Qualora ciò non sia possibile, si devono fornire risorse
naturali e/o servizi di tipo alternativo. Per esempio, una riduzione della qualità potrebbe essere compensata da una maggiore
quantità di misure di riparazione. (...). Se non è possibile usare,
come prima scelta, i metodi di equivalenza risorsa-risorsa o servizio-servizio, si devono utilizzare tecniche di valutazione alternative. L’autorità competente può prescrivere il metodo, ad
esempio la valutazione monetaria, per determinare la portata
delle necessarie misure di riparazione complementare e compensativa. Se la valutazione delle risorse e/o dei servizi perduti
è praticabile, ma la valutazione delle risorse naturali e/o dei
servizi di sostituzione non può essere eseguita in tempi o a costi
ragionevoli, l’autorità competente può scegliere misure di riparazione il cui costo sia equivalente al valore monetario stimato
delle risorse naturali e/o dei servizi perduti. Le misure di riparazione complementare e compensativa dovrebbero essere concepite in modo che le risorse naturali e/o i servizi supplementari
rispecchino le preferenze e il profilo temporali delle misure di
Diritto Civile | DANNO AMBIENTALE
563
2. Nel caso di specie, la società condannata al ripristino dello stato dei luoghi e al risarcimento dei danni
lamentava la mancata cooperazione dell’Amministra-
zione competente nel tempestivo ristoro e la conseguente rilevanza quoad effecta ex art. 1227, comma 2
c.c., invocandone la rilevabilità anche d’ufficio da parte del giudice del gravame.
L’affermazione della non rilevabilità d’ufficio dell’inadempimento, da parte del creditore, all’obbligo di
evitare o diminuire il danno subı̀to costituisce principio consolidato in dottrina 35 e in giurisprudenza 36.
In proposito, assume rilievo la tradizionale differenziazione tra eccezioni in senso lato 37 ed eccezioni in
senso stretto 38, categoria, quest’ultima, in cui viene
fatta per l’appunto rientrare l’argomentazione difensi-
riparazione. Per esempio, a parità delle altre condizioni, più
lungo è il periodo prima del raggiungimento delle condizioni
originarie, maggiore è il numero delle misure di riparazione
compensativa che saranno avviate».
34
Al riguardo, si deve precisare che la citata direttiva non obbligava gli Stati membri alla transitoria applicazione della disciplina (in base al considerando n. 30 secondo cui «La presente
direttiva non si dovrebbe applicare al danno cagionato prima
dello scadere del termine per la sua attuazione»). V. tuttavia la
giurisprudenza della Corte giustizia europea (ex plurimis sentenza 13 novembre 1990, n. 106/89, Soc. Marleasing c. Soc. La
Comercial Internacional Alimentaciòn, in Foro It., 1992, IV, 173,
e in Riv. Dir. Internaz., 1992, 164) secondo cui il giudice nazionale
è tenuto ad interpretare secondo le direttive già emanate il proprio diritto nazionale, sin dall’entrata in vigore delle stesse.
35
Cfr. sul punto Bianca, Diritto civile, vol. 5, Milano, 1994,
ove si distinguono nettamente le due fattispecie prese in considerazione dall’art. 1227 c.c. Laddove il concorso di colpa del
danneggiato (op. cit., 139 e 141) è considerato un elemento
obiettivo di valutazione del nesso di causalità e, pertanto, opera
con riferimento al comportamento astrattamente negligente
(anche, in ipotesi, dell’incapace), potendo essere valutato d’ufficio dal giudice, il dovere del danneggiato di evitare il danno
(op. ult. cit., 144) costituisce applicazione del principio di correttezza nei rapporti obbligatori (extracontrattuali) e, in quanto
teso a mitigare la pretesa del creditore, costituisce eccezione in
senso stretto (cfr. ultra). Per la distinzione, in tale previsione, tra
l’evento interruttivo del nesso causale e l’evento concorrente Monateri, op. cit., 81 e segg.
36
Cass. civ., 28 aprile 1988, n. 3209, in Archivio civile, 1988,
1054; Id., Sez. III, 9 maggio 2000, n. 5883, in Foro It., 2001, I, 575;
Id., 9 ottobre 2000, n. 13403; in Rassegna delle locazioni e del condominio, 2001, 358. Contra nel giudizio amministrativo, con specifico riferimento all’obbligo per il privato di impugnare il provvedimento lesivo, secondo la stessa impostazione fatta propria dal
codice del processo amministrativo, ma in senso retroattivo, cfr.
Cons. Stato, Sez. VI, 17 marzo 2010, n. 1555, in Giur. Amm., 2010,
I, 337 e, più di recente, Ad. plen. 23 marzo 2011 n. 3.
37
L’eccezione in senso lato costituisce una mera argomentazione difensiva, diretta a escludere il fondamento della richiesta
dell’attore o del convenuto tramite il contrasto dell’affermazione
della parte avversa. Cfr. sul punto Montesano, La tutela giurisdizionale dei diritti, vol. XIV del Trattato di diritto civile italiano
diretto da Vassalli, Torino, 1994, 121; Montesano-Arieta,
Diritto processuale civile, Torino, 1998, 153-154; Mandrioli,
Corso di diritto processuale civile, editio minor, vol. II, Torino,
2006, 89; Satta-Punzi, Diritto processuale civile, Padova, 2000,
171. In giurisprudenza sono state, ad esempio, considerate eccezioni in senso lato: l’eccezione di carenza dei requisiti dimensionali dell’impresa ai fini dell’applicazione dell’art. 18 della L.
20 maggio 1970, n. 300 (Cass. civ., 5 marzo 1983, n. 1648, in Notiziario di Giurisprudenza del Lavoro, 1983, 471); l’eccezione di
nullità della prova costitutiva dell’obbligazione pubblica di imposta (Commissione tributaria di Matera, 8 maggio 1982, in Boll.
Trib., 1984, 1013); l’eccezione di giudicato esterno (Cass., Sez.
lav., 23 ottobre 1995, n. 11018, in Foro It., 1996, I, 599); l’eccezione di compensatio lucri cum damno (Cass., Sez. lav, 8 marzo
1996, n. 1862, in Giust. Civ., 1996, I, 1603); l’eccezione di rinun-
zia (Cass., Sez. II, 14 maggio 2003, n. 7411, in Foro It., 2004, I,
1882), interruzione (Sez. un., 27 luglio 2005, n. 15661, in Foro It.,
2005, I, 2659) e sospensione della prescrizione (Cass., Sez. III, 24
novembre 2009, n. 24680, in Foro It., 2010, I, 1833); l’eccezione
di nullità del contratto di mediazione per mancanza di iscrizione
all’albo dei mediatori (Cass., Sez. III, 26 ottobre 2004, n. 20749,
in Immobili e diritto, 2005, 6, 85); l’eccezione di inopponibilità al
passivo fallimentare di un credito per difetto di data certa (Cass.,
Sez. I, 14 ottobre 2010, n. 21251, in Foro It., 2011, I, 67).
38
L’eccezione in senso stretto costituisce argomentazione diretta non già a negare il fatto costitutivo della pretesa, ma a
dimostrarne la modificazione, estinzione o impedimento dei soli
effetti. Cfr. Montesano, cit.; Montesano-Arieta, cit.; Mandrioli, op. cit., 91; Satta-Punzi, cit. Secondo la giurisprudenza costituiscono eccezioni in senso stretto: l’eccezione di abusivo riempimento di un vaglia cambiario (Cass. civ., 28 aprile
1981, n. 2586, in Giur. It., 1982, I, 1, 560); l’eccezione di insussistenza del minimo contributivo ai fini del conseguimento del
diritto a pensione di invalidità (Cass. civ., 21 agosto 1981,
n. 4961, in Previdenza sociale, 1981, 1788); l’eccezione di non
computabilità dei giorni di assenza del lavoratore per malattia ai
fini della quantificazione di determinati elementi retributivi
(Cass. civ., 12 gennaio 1982, n. 162, in Rivista It. Dir. Lav., 1982,
II, 355); l’eccezione di decadenza ex art. 6 L. 15 luglio 1966, n.
604 per omessa impugnazione del licenziamento entro sessanta
giorni dalla ricezione della sua comunicazione (Cass. civ., 10
dicembre 1983, n. 7313, in Notiziario di giurisprudenza del lavoro, 1984, 395); la deduzione del convenuto finalizzata ad affermare la propria qualità di imprenditore agricolo a titolo principale ai sensi dell’art. 12, L. 9 maggio 1975, n. 153, in modo da
beneficiare della più lunga durata di contratto di affitto (Cass.
civ., 18 luglio 1986, n. 4644, in Giust. Civ., 1986, I, 3111); l’eccezione diretta a negare l’avvenuto licenziamento e a collegare la
cessazione del rapporto di lavoro alle dimissioni del lavoratore
(Cass., Sez. lav., 11 marzo 1995, n. 2853, in Giust. Civ., 1995, I,
2755); l’eccezione di prescrizione (Trib. Cagliari, 23 novembre
1994, in Rivista giuridica sarda, 1995, 489); l’eccezione di caducazione o di inesistenza di una circostanza presupposta (Cass.,
Sez. II, 24 marzo 1998, n. 3083, in Giust. Civ., 1998, I, 3161);
l’eccezione di estinzione del credito per remissione (Cass., Sez.
lav., 9 febbraio 1999, n. 1110, in Foro It., 1999, I, 2967); l’eccezione di intervenuta transazione (Trib. Cagliari, 22 dicembre
1997, in Rivista giuridica sarda, 2000, 493); l’eccezione di incedibilità del credito (Trib. Genova, 22 febbraio 2000, in Foro
Pad., 2000, I, 51); l’eccezione di erronea presupposizione (Cass.,
Sez. II, 6 ottobre 2000, n. 13333, in Foro Pad., 2001, I, 55);
l’eccezione di cessazione dello stato di separazione, quale motivo ostativo alla pronuncia di divorzio (App. Napoli, 2 marzo
2001, in Famiglia e Dir., 2002, 385); l’eccezione di mancanza
dell’atto scritto ai fini dell’opponibilità del pegno agli altri creditori (Cass., Sez. III, 5 settembre 2006, n. 19059, in Rivista
dell’esecuzione forzata, 2006, 831); l’eccezione di avvenuta decadenza dall’azione di regresso proposta dall’INAIL (ai sensi
dell’art. 10 D.P.R. 30 giugno 1965 n. 1124) nei confronti del
datore di lavoro (Cass., Sez. lav., 11 giugno 2009, n. 13598, in
Foro It., 2010, I, 119); l’eccezione di insussistenza del recesso, in
relazione alla domanda di liquidazione della quota proposta dal
socio (Cass., Sez. I, 15 gennaio 2009, n. 816, in Foro It., 2010, I,
rettiva 34 ma dal rinvio per relationem ai criteri dalla
stessa, da parte della legge, in relazione al contenuto
dell’emanando provvedimento ministeriale di determinazione dei criteri risarcitori, che ha quindi conferito
efficacia precettiva alla normativa comunitaria «quand’anche» — secondo la sentenza — «essa non si potesse già di per sé ricavare dal contenuto intrinseco
delle disposizioni».
Giurisprudenza Italiana - Marzo 2012
564
Diritto Civile | IMMOBILE DA COSTRUIRE
va de qua, in considerazione dell’incidenza non già sul
fatto costitutivo della responsabilità, quanto sulle conseguenze concretamente prodotte.
L’esclusione della risarcibilità dei danni che il creditore avrebbe potuto evitare tramite l’ordinaria diligenza è, anche dalla giurisprudenza, nettamente distinta
dalla fattispecie prevista dal comma 1 dell’art. 1227
c.c., ai cui sensi «Se il fatto colposo del creditore ha
concorso a cagionare il danno, il risarcimento è diminuito secondo la gravità della colpa e l’entità delle conseguenze che ne sono derivate».
In tal caso, deve infatti essere presa in considerazione
la valutazione circa l’effettiva eziologia del danno arrecato: di conseguenza, detta circostanza può essere
rilevata anche d’ufficio 39, in quanto la determinazione
del nesso causale rientra tra i poteri-doveri del giudice
investito della controversia.
Andrea Luberti
IMMOBILE DA COSTRUIRE
Cassazione civile, II Sezione, 10 marzo 2011,
n. 5749 — Triola Presidente — Giusti Relatore —
Fucci P.M. (diff.) — Cocchetti s.r.l. (avv. Profeta) Monzani (avv. Luise).
Contratti in genere — Invalidità — Nullità del contratto — Contratto preliminare di vendita di immobili
esistenti “sulla carta” — Disciplina recata dal D.Lgs.
n. 122/2005 — Applicabilità — Esclusione — Fondamento (Cost. art. 3; C.c. artt. 1351, 2932; D.Lgs. 20
giugno 2005, n. 122, artt. 1, comma 1, lett. d), 2, 6,
comma 1, lett. i).
Nell’ambito della disciplina a tutela dei diritti patrimoniali degli acquirenti di immobili da costruire, il relativo regime giuridico di protezione non si applica ai
contratti preliminari di immobili esistenti solo “sulla
carta”, ossia già allo stato di progetto, ma per il quale non
sia stato ancora richiesto il permesso di costruire o un
titolo equipollente, con la conseguenza che detti preliminari sono da ritenersi validi seppur mancanti della
relativa menzione urbanistica (1).
Per il testo della sentenza v. Giur. It., 2011, 10, 2010; v.,
inoltre, Giur. It., 2011, 11, 2277, con nota di Caradonna.
(1) La Corte di cassazione si pronuncia sul
contratto preliminare di vendita di immobile
“sulla carta”: è valido, ma non rientra nell’ambito di applicazione del D.Lgs. n. 122/2005
Sommario: 1. Premessa. — 2. Il fine tutorio del D.Lgs.
n. 122/2005. — 3. Presupposti oggettivi: la definizione di
215); la previsione dell’art. 21 octies, comma 2, della legge 7
agosto 1990, n. 241, circa la non annullabilità del provvedimento di natura vincolata nel caso di mancata comunicazione dell’avvio del procedimento (T.A.R. Catania, Sez. IV, 29 aprile
2010, n. 1282, in Giur. Amm., 2010, II, 554).
39
Cass., Sez. III, 1 febbraio 2000, n. 1073, in Giust. Civ., 2000,
I, 1983; Id., 19 luglio 2002, n. 10580, ibidem, 2003, I, 1591; Id.,
Giurisprudenza Italiana - Marzo 2012
immobile da costruire. — 4. La posizione della suprema
Corte.
1. Premessa.
La sentenza in commento giunge a conclusione di un
iter procedimentale nato con la richiesta, proposta a
norma dell’art. 2932 c.c., di dare esecuzione ad un
contratto preliminare misto di compravendita e di parziale permuta tra un terreno edificabile e alcune porzioni immobiliari da edificarsi sullo stesso.
In primo grado 1 la domanda di pronuncia costitutiva
invocata dalla società promissaria acquirente del terreno veniva rigettata essendo dichiarata la nullità del
contratto per violazione del D.Lgs. 20 giugno 2005,
art. 2 disponente la tutela dei diritti patrimoniali degli
acquirenti di immobili da costruire per il mancato rilascio della fideiussione da parte della società costruttrice.
Quest’ultima ricorreva in appello 2, ove veniva confermata la nullità del contratto preliminare sulla base
di altra motivazione. Secondo la Corte territoriale la
violazione del suddetto decreto sarebbe avvenuta con
riferimento all’art. 6, comma 1, lett. i) mancando nel
contratto preliminare l’indicazione degli estremi del
titolo che abilitava a costruire o la sua richiesta, ritenendo, altresı̀, applicabile quest’ultima disposizione
anche al contratto preliminare avente ad oggetto un
c.d. “immobile sulla carta”, ossia ancora privo del necessario titolo abilitativo la sua costruzione.
La Corte di cassazione, cassa con rinvio la decisione
dei giudici milanesi, ammettendo la validità del preliminare che abbia ad oggetto immobili esistenti solo
“sulla carta” non applicandosi ad essi le disposizioni di
cui al D.Lgs. n. 122/2005. Soluzione che, alla luce della
particolare fattispecie oggetto della controversia, appare solo parzialmente difforme rispetto ai precedenti
giurisprudenziali in materia.
2. Il fine tutorio del D.Lgs. n. 122/2005.
In esecuzione della delega contenuta nella L. 2 agosto 2004, n. 210, il Governo ha emanato il D.Lgs. 20
giugno 2005, n. 122 3 recante “Disposizioni per la tutela dei diritti patrimoniali degli acquirenti di immobili
da costruire”.
Questo provvedimento è intervenuto per regolamentare un fenomeno sempre più frequente nella
realtà economico-sociale contemporanea, al fine di attenuare la debolezza contrattuale di coloro che si trovino ad essere acquirenti di immobili da costruire o in
corso di costruzione. La ratio della nuova disciplina è
stata quella di rafforzare la posizione di questa categoria di acquirenti attraverso un intervento di limitato
impatto normativo, con finalità connotate dalla necessità e urgenza di dare maggior tutela al credito dei
compratori, qualora il costruttore versi in una situazione di crisi, senza tuttavia procedere ad una revi26 febbraio 2003, n. 2868, in Arch. Giur. Circolaz., 2003, 467; Id.,
10 novembre 2009, n. 23734, in Contratti, 2010, 464.
1
Trib. Monza 19 marzo 2008, in Mass. Giur. It., 2008.
App. Milano 19 dicembre 2009, in Mass. Giur. It., 2009.
3
Pubblicato in Gazz.Uff. n. 155 del 6 luglio 2005, e in vigore
dal 21 luglio 2005.
2
Diritto Civile | IMMOBILE DA COSTRUIRE
565
sione sistematica dell’istituto della vendita immobiliare 4.
La disciplina ha cercato di coniugare la tutela del
risparmio familiare investito sull’immobile, nonché il
diritto, costituzionalmente garantito, all’abitazione,
con gli interessi delle imprese costruttrici 5.
La ragione di una tutela limitata ai soli acquirenti di
immobili da costruire rispetto agli acquirenti di immobili già ultimati risiede nella particolare debolezza di
questa categoria, a fronte della prassi, sempre più diffusa tra le imprese edili, di finanziare la costruzione con
gli acconti versati dai compratori, i quali rimangono
cosı̀ maggiormente esposti al rischio del fallimento del
costruttore nel lungo periodo intercorrente tra la conclusione del preliminare e l’acquisto della proprietà del
bene ultimato, soprattutto se si considera l’impossibilità, secondo l’opinione prevalente 6, di richiedere
l’esecuzione in forma specifica dell’obbligo di contrarre ai sensi dell’art. 2932 c.c. qualora l’immobile non sia
stato ancora ultimato. Il promissario acquirente di immobili da costruire è cosı̀ esposto al doppio rischio di
non acquistare la proprietà e di non recuperare le somme già pagate a titolo di prezzo.
Il legislatore del decreto opera, pertanto, in una duplice direzione: da un lato predispone una pluralità di
strumenti, rivolti al futuro e destinati a trovare applicazione ai contratti stipulati dopo la sua entrata in vigore, dall’altro, istituisce un Fondo di solidarietà finalizzato ad indennizzare gli acquirenti di immobili da
costruire o in corso di costruzione coinvolti nei fallimenti dei costruttori antecedenti all’entrata in vigore
della nuova normativa 7.
In estrema sintesi, il nuovo sistema pone, in primo
luogo, molteplici obblighi a carico del costruttore, come quello di consegnare all’acquirente una fideiussione bancaria o assicurativa a garanzia della restituzione
dei corrispettivi versati per l’acquisto dell’immobile
(artt. 2 e 3); ovvero l’obbligo di consegnare un’assicurazione decennale a beneficio dell’acquirente e con effetto dalla data di ultimazione dei lavori a copertura dei
danni materiali e diretti all’immobile, derivanti da rovina totale o parziale oppure da gravi difetti costruttivi
delle opere, per vizio del suolo o per difetto della co-
struzione, e comunque manifestatisi successivamente
alla stipula del contratto definitivo di compravendita o
di assegnazione (art. 4). Inoltre, specie ai fini della decisione in esame, è rilevante l’obbligo di conformare il
contratto preliminare diretto al trasferimento della
proprietà al contenuto minimo prefissato dall’art. 6
D.Lgs. n. 122/2005.
In secondo luogo, si attribuiscono al promissario acquirente (o all’acquirente) diversi diritti e facoltà, come
quella di richiedere il frazionamento del mutuo fondiario in quote, con corrispondente frazionamento
della garanzia ipotecaria (art. 7), e il divieto di procedere alla stipulazione dell’atto finale di compravendita
se precedentemente non si sia proceduto alla suddivisione del finanziamento in quote o al perfezionamento
di un titolo per la cancellazione o frazionamento dell’ipoteca o del pignoramento (art. 8). Al promissario
acquirente (o acquirente) viene inoltre accordato un
diritto di prelazione per l’immobile che gli sia stato
consegnato, nell’acquisto dello stesso in caso di vendita
all’incanto (art. 9). Inoltre, il decreto interviene nella
disciplina della procedura fallimentare, sia introducendo esenzioni dall’assoggettabilità all’azione revocatoria, che si vanno a sovrapporre a quelle già previste nel
R.D. 16 marzo 1942 n. 267, sia introducendo il nuovo
art. 72 bis L. Fall. 8
Il D.Lgs. n. 122/2005 non è il primo esempio, nel
panorama europeo, di tutela a favore di questa categoria di acquirenti immobiliari. Esso, infatti, si ispira fortemente alla legislazione francese, in particolare agli
artt. L261-1 e seguenti del Code de la construction et de
l’habitation (partie lègislative), e agli artt. R261-1 e seguenti del medesimo Code (partie règlementarie) 9, considerato il modello più avanzato in materia di tutela
degli acquirenti di immobili da costruire. Se ne differenzia, tuttavia, in alcuni punti significativi, probabilmente a causa dell’influenza che le associazioni dei
costruttori hanno avuto sul procedimento di approvazione della legge delega: in particolare, nella legge italiana manca qualsiasi divieto, in capo al costruttore, di
ricevere acconti al di fuori della procedura fissata. Si
può, infine, notare la mancanza della previsione di un
diritto “al ripensamento” accordato all’acquirente,
4
Rizzi, Poste le “fondamenta” per la tutela dei diritti patrimoniali degli acquirenti di immobili da costruire, in Notariato,
2004, 673 e segg.
5
Dimundo, Gli effetti del fallimento sui rapporti giuridici
preesistenti, in Il diritto fallimentare riformato, a cura di Schiano
di Pepe, Torino, 2007, 228.
6
Fra i più si citi Luminoso, La contrattazione di immobili da
costruire: dalla novella n. 30/2007 allo schema di decreto attuato
dalla legge delega 28.2.2004 n. 210, in Atti del convegno Paradigma, Milano, 15 aprile 2005, 2.
7
È stato cosı̀ attuato quanto già previsto nella legge delega la
quale in merito, all’art. 3, lett. f), con una disposizione ritenuta
un po’ confusa, aveva previsto l’istituzione di un «Fondo di
solidarietà a beneficio dell’acquirente che, a seguito dell’insolvenza del costruttore a fronte della quale, in un periodo compreso tra il 31 dicembre 1993 e la data di entrata in vigore della
presente legge, siano o siano state in corso procedure implicanti
una situazione di crisi, dichiara di aver subito la perdita delle
somme versate o di ogni altro bene eventualmente corrisposto e
il mancato conseguimento della proprietà o dell’assegnazione
del bene».
8
Il legislatore cosı̀ come per gli artt. 2645 bis, 2775 bis e 2825
bis, in ossequio all’art. 3, lett. a), legge n. 210/2004, non ha
apportato alcuna modifica all’art. 72 L. Fall, pur avendo, in
questo caso sı̀, ricevuto esplicita autorizzazione nella lett. b) del
medesimo articolo. Il legislatore, infatti, pare abbia ritenuto più
opportuno inserire dopo l’art. 72 L. Fall., che era rimasto inalterato, un nuovo art. 72 bis, sia per non incidere in una cosı̀
delicata materia, sia in considerazione della imminente più ampia riforma del diritto fallimentare. Re-Scaliti, La nuova disciplina degli acquisti di immobili da costruire, Milano, 2006, 158.
9
Viene in primo luogo disciplinato in questi articoli il contratto preliminare di prenotazione (contrat préliminaire de réservation). Trattasi di un contratto specifico ed imperativo nel settore protetto in virtù del quale «...in contropartita di un deposito di garanzia (depôt de garantie), il venditore si obbliga a
riservare ad un acquirente un immobile o una parte di immobile». Le finalità tuttavia differiscono da quelle del nostro contratto preliminare di compravendita. Il modello contrattuale
francese è in primo luogo uno strumento teso a vagliare le condizioni del mercato: il venditore conserva il diritto di recedere se
la vendita non è più conveniente o se non ha trovato un numero
sufficiente di compratori tali da rendere profittevole la costruzione. Vella, La tutela dell’acquirente di immobili da costruire
nel diritto francese: spunti per il notariato italiano, in Vita Notar.,
1998, 621.
Giurisprudenza Italiana - Marzo 2012
566
sotto forma di recesso entro un dato termine dalla conclusione del contratto.
Si vedrà in seguito come, in definitiva, non sembra
che la riforma abbia accordato al compratore quella
tutela forte e piena auspicata in origine, ed, anzi, abbia
dato origine ad un sistema a volte caratterizzato da
incongruenze e contraddizioni.
3. Presupposti oggettivi: la definizione di immobile da
costruire.
La lett. d) dell’art. 1 D.Lgs. n. 122/2005 descrive gli
immobili da costruire come «gli immobili per i quali sia
stato richiesto il permesso di costruire e che siano ancora da edificare o la cui costruzione non risulti essere
stata ultimata versando in stadio tale da non consentire
ancora il rilascio del certificato di agibilità».
Emerge ad una prima lettura, la necessità che l’immobile sia regolare dal punto di vista urbanistico almeno nel senso che deve essere stata inoltrata, al momento della stipulazione del contratto, la richiesta del
permesso di costruire. Secondo parte della dottrina 10
la delimitazione dell’ambito di applicazione della disciplina ai soli casi in cui sia stato richiesto il provvedimento abilitativo troverebbe giustificazione non solo
nell’esigenza di tutela dell’acquirente (limitando la
contrattazione “sulla carta” al solo caso in cui esista già
un progetto “definitivo”, presentato a corredo della
richiesta di permesso di costruire), ma soprattutto nell’intento di contrastare l’abusivismo edilizio 11. Muovendo da questa ratio si è giunti a concludere per la
nullità, non solo relativa, bensı̀ assoluta per illiceità
dell’oggetto del contratto, non solo definitivo, ma anche preliminare, riguardante un immobile da costruire,
nel caso in cui il relativo permesso non sia stato ancora
richiesto 12.
10
Petrelli, Gli acquisti di immobili da costruire: le garanzie,
il preliminare e gli altri contratti: le tutele per l’acquirente, Milano, 2005, 30.
11
Scelta coerente, secondo alcuni, con l’operato antecedente
del legislatore che, già nel T.U. sull’edilizia, aveva sanzionato
con la nullità gli atti di trasferimento di immobili privi del permesso di costruire o realizzati in modo difforme da esso, e aveva
inoltre richiesto, ai fini della validità dell’acquisto, la menzione
nel contratto degli estremi del titolo abilitativo alla costruzione.
Morello, La sicurezza giuridica delle contrattazioni dall’informazione alle garanzie, in AA.VV, Sicurezza delle contrattazioni.
Dalle opportunità alle regole del mercato immobiliare, Milano,
1996, 13.
12
Secondo i sostenitori di detta tesi, in caso di contratto
definitivo, pur avente ad oggetto un fabbricato futuro e quindi
non ancora esistente, non sarebbe sufficiente, ai fini della validità del contratto, la semplice richiesta. Infatti, ai sensi dell’art.
46 del D.P.R. n. 380/2001 la cui previsione prevale su quella
dell’art. 6, comma 1, lett. i), del decreto in oggetto, è necessario
che il permesso di costruire sia già stato rilasciato (salva la speciale disciplina relativa alle domande di sanatoria). Del resto,
ove si ritenga che le menzioni formali ex art. 6, 1o comma, lett.
i) e comma 2, lett. b) siano richieste a pena di nullità, sia pure
relativa, del contratto, l’assenza della richiesta di permesso ne
impedirebbe la valida stipula anche per ragioni di ordine “formale”.
13
Conclusione che ai sostenitori di detta teoria parrebbe
obbligata, essendo inaccettabile la tesi per la quale gli immobili
da costruire privi del permesso di costruire venissero fatti rientrare nell’ambito di applicazione del decreto: posizione derivante da una lettura rigorosa delle disposizioni di cui all’art. 1,
comma 1, della legge delega, all’art. 1, lett. d), del decreto deGiurisprudenza Italiana - Marzo 2012
Diritto Civile | IMMOBILE DA COSTRUIRE
Se ne è fatta cosı̀ discendere l’incommerciabilità degli immobili da costruire in assenza del permesso di
costruire dal momento che sarebbe assurdo ed irragionevole, da un lato, consentire la valida conclusione
dei contratti in assenza della richiesta del provvedimento abilitativo, dall’altro, privare l’acquirente di
ogni tutela 13. Tesi supportata da argomentazioni di
carattere generale secondo le quali, in caso contrario,
si consentirebbero facili elusioni della disciplina protettiva in esame essendo sufficiente concludere il contratto preliminare “sulla carta” prima della richiesta
del permesso per evitare gli obblighi imposti al costruttore 14.
Insomma per alcuni autori l’impatto delle nuove
norme avrebbe avuto un effetto dirompente sul precedente assetto legislativo rappresentato dall’art. 40
della legge n. 47/1985 (c.d. legge sul condono) e dall’art. 46 del D.P.R. n. 380/2001 (T.U. edilizia) applicabile ai soli contratti ad affetti reali, immediati o differiti, con esclusione, pertanto, dei contratti preliminari. Secondo la giurisprudenza dominante 15, infatti,
la non conformità dell’immobile oggetto del preliminare alle prescrizioni urbanistiche, infatti, non comporterebbe l’invalidità del contratto, ma solamente
l’impossibilità di richiedere l’esecuzione in forma specifica dello stesso ai sensi dell’art. 2932 c.c., mentre
l’invalidità riguarderebbe il solo definitivo concluso
a seguito del preliminare non conforme alla disciplina urbanistica 16. Se a ciò si aggiunge che ai fini del
D.Lgs. n. 122/2005 è sufficiente la semplice richiesta
del titolo abilitativo e non l’effettivo rilascio sembra
doversi attribuire al decreto de quo un rilievo ben diverso rispetto a quello attribuito alla menzione prescritta a pena di nullità negli artt. 40 legge n. 47/1985
legato contenente la definizione di immobile da costruire, nonché dagli artt. 5, comma 1, lett. i) del decreto stesso le quali
richiedono tutte almeno la richiesta del permesso di costruire.
14
Petrelli, Gli acquisti di immobili da costruire: le garanzie,
il preliminare e gli altri contratti: le tutele per l’acquirente, cit.,
31. Altra autorevole dottrina si è espressa in senso contrario ritenendo eventuali intenti elusivi insufficienti a giustificare
interpretazioni che possano attribuire ad una legge effetti ulteriori a quelli testualmente previsti. Rizzi, Decreto Legislativo
122/2005: la garanzia fideiussoria ed i presupposti di applicazione
della nuova normativa, Studio 5813/C dell’Ufficio Studi del Consiglio Nazionale del Notariato (approvato dalla Commissione
studi civilistici il 23 luglio 2005), 15 e segg.
15
Cass., 4 gennaio 2002, n. 59, in Giur. It., 2002, 1135; Cass.,
3 settembre 1993, n. 9313, in Giust. Civ., 1994, 1323, con nota
di Sala, Preliminare di compravendita di immobile irregolare e
tutela del promissario acquirente.
16
Cass., 10 maggio 2002, n. 6731, in Corriere Giur., 2003,
371, con nota di Abatangelo, Tempi e modi della sanatoria
dell’atto nullo per mancata indicazione degli estremi della concessione: riflessi sui diritti mediatori. In dottrina Marzo, Vendita
immobiliare e disciplina urbanistica, in La vendita a cura di Bin,
in I grandi orientamenti della giurisprudenza civile e commerciale, Padova, 1995, III, 235 e segg. Non è mancato, tuttavia, chi ha
criticato detta opinione, in primo luogo in quanto non risulta
coerente con il principio di simmetria applicabile al contratto
preliminare e al contratto definitivo, in secondo luogo soprattutto poiché anche il preliminare sarebbe affetto da impossibilità giuridica dell’oggetto, specie nelle ipotesi in cui l’immobile
abusivo non sia suscettibile di sanatoria edilizia. Luminoso,
Contrattazione immobiliare e disciplina urbanistica, in Riv. Trim.
Dir. e Proc. Civ., 1993, 987.
Diritto Civile | IMMOBILE DA COSTRUIRE
567
4. La posizione della suprema Corte.
La sentenza in commento si inserisce nell’ultimo filone interpretativo anzi richiamato, non mancando di
avvertire che l’edificio esistente soltanto “sulla carta”
deve essere considerato anch’esso in prospettiva dinamica. Il mancato inserimento nell’alveo di applicazione
del decreto di simili fattispecie ne fa emergere una
profonda lacuna che pone il potenziale acquirente di
fronte al duplice rischio, da un lato, di non vedere
realizzato l’immobile tout court, dall’altro di non essere
destinatario degli strumenti di tutela apprestati in suo
favore quali la fideiussione e l’assicurazione 20.
Tuttavia, sarebbe erroneo secondo la Corte desumere a contrario dall’art. 1, lett. d), D.Lgs. n. 122/2005,
l’illiceità dei contratti preliminari aventi ad oggetto im-
mobili per i quali non sia stato ancora richiesto il permesso di costruire. La ratio del decreto non sarebbe,
infatti, quella di contrastare l’abusivismo edilizio,
bensı̀ quella di operare esclusivamente sul piano privatistico onde fornire al promissario acquirente gli
strumenti idonei per non subire gli effetti nefasti di una
possibile crisi dell’imprenditore. Del resto, la mancanza del titolo abilitativo non può essere sempre intesa
incontrovertibilmente quale intenzione delle parti di
trasferire un immobile abusivo.
Anche la tesi dell’incommerciabilità degli immobili
in questione non supera il vaglio della Corte la quale
sottolinea come proprio il caso da essa giudicato ne
faccia emergere gli inconvenienti.
L’art. 11 D.P.R. n. 381/2001, infatti, prevede il rilascio del permesso a costruire al solo proprietario dell’area edificabile e di conseguenza, al costruttore che,
prima della stipulazione del contratto traslativo dell’immobile, abbia a sua volta necessariamente già acquistato il terreno. Tale circostanza è però impossibile
ove il contratto preliminare sia una permuta del suolo
verso parte dell’edificio che il costruttore si accinge a
costruire, contratto che sarebbe inficiato cosı̀ dalla
nullità, pur in mancanza dell’intento elusivo delle
parti, le quali, come nel caso di specie, hanno espressamente rimandato ad un momento successivo l’attivazione delle pratiche per il rilascio del titolo abilitativo 21.
Se, pertanto, la menzione della richiesta del titolo
abilitativo, non può pretendersi in un contratto preliminare, il cui unico oggetto è la futura stipulazione di
un contratto definitivo e non il trasferimento dell’immobile 22, lo stesso non può dirsi per quelle fattispecie
obbligatorie con effetti traslativi differiti. In questi ultimi atti le menzioni urbanistiche sono richieste a pena
di nullità, dal momento che l’effetto traslativo che si
17
Vi è chi ha notato a tal proposito che la nuova disciplina
trovi applicazione anche nel caso in cui l’edificio venga realizzato in totale difformità dal progetto presentato a corredo della
richiesta del permesso di costruire o della denuncia di inizio
attività o in totale difformità dal titolo abilitativo eventualmente in precedenza rilasciato. La tutela predisposta dal
D.Lgs. n. 122/2005 si rivelerebbe particolarmente favorevole
per l’acquirente proprio in questi casi, tenuto conto della nullità che incombe sull’atto di acquisto dell’immobile per via degli articoli di legge citati. Re-Scaliti, La nuova disciplina degli
acquisti di immobili da costruire, cit., 158. Contra Petrelli,
Gli acquisti di immobili da costruire, cit., 25 e segg, secondo il
quale la soluzione non potrebbe essere generalizzata, occorrendo distinguere tra contratto definitivo e preliminare, valutando la nullità di quest’ultimo in termini più elastici, ma pur
sempre alla luce di quell’intento di contrasto all’abusivismo
edilizio già criticato.
18
Rizzi, Decreto Legislativo 122/2005: la garanzia fideiussoria ed i presupposti di applicazione della nuova normativa, cit., 19.
19
Per il rilascio del certificato di agibilità occorrono ai sensi
dell’art. 25 citato: l’accatastamento; la conformità dell’opera al
progetto approvato; la prosciugatura dei muri; la salubrità degli
ambienti; la conformità degli impianti; il collaudo statico e — se
richiesti — il certificato di conformità delle opere realizate alla
normativa vigente in materia di accessibilità e superamento delle
barriere architettoniche; il parere della A.S.L.; il parere dei vigili
del fuoco. Petrelli, Gli acquisti di immobili da costruire: le
garanzie, il preliminare e gli altri contratti: le tutele per l’acquirente, cit., 35.
20
Busani, Il perimetro dei contratti interessati dalla nuova
disciplina sugli edifici da costruire e tecniche contrattuali innova-
tive per “fermare l’affare”, in Quaderni della Fondaz. It. Not.,
2006, I, 53 il quale tuttavia conclude che estendere ai contratti
di specie la disciplina in esame rappresenterebbe sicuramente
una forzatura del testo del decreto legislativo.
21
L’ampiezza delle disposizioni consente, infatti, di far rientrare nella relativa disciplina ogni operazione economico-giuridiche concernente edifici da costruire, tanto se realizzata mediante contratti tipici (come la vendita o, per l’appunto, la permuta), quanto se attuate attraverso forme di contrattazione atipiche, od attraverso un collegamento negoziale. Quanto al preliminare, poi, tale contratto, come si è visto, assume una
posizione di rilievo all’interno del decreto. Anzi, proprio il promissario acquirente di un edificio da costruire (considerato da
sempre esposto più di ogni altro ai rischi nelle contrattazioni)
sembra essere il destinatario principale della tutela. Ovviamente
la nuova disciplina va ad aggiungersi al rimedio della trascrizione introdotto dalla L. 28 febbraio 1997, n. 30, in modo che
coloro che avranno trascritto il contratto preliminare avente ad
oggetto l’immobile da costruire potranno pacificamente giovarsi delle garanzie offerte dal decreto, sia che si tratti di preliminare “puro”, sia che si tratti di preliminare “ad effetti anticipati”; a quest’ultimo, in particolare, sembra rivolta la norma che
prevede il rilascio di una fideiussione per gli acconti versati in
vista della vendita definitiva. Re-Scaliti, La nuova disciplina
degli acquisti di immobili da costruire, cit., 25.
22
In giurisprudenza Cass., 11 luglio 2005, n. 1148 in Mass.
Giur. It., 2005; Id., 6 agosto 2001, n.10831, in Contratti, 2002,
221, con nota di Putti. In dottrina Santarcangelo, Condono
edilizio, Milano 1991, 352 e segg.; Marmocchi, Profili di diritto
civile della legge sul condono edilizio, in Riv. Notar., 1989, 329 e
segg.
e 46 del D.P.R. n. 380/2001 17. L’intento di contrastare
l’abusivismo edilizio può essere pertanto intravisto
come effetto puramente indiretto volto a stimolare la
responsabilizzazione dell’acquirente a concludere
l’operazione non prima della richiesta del permesso di
costruire 18.
Per quanto riguarda la consistenza materiale dell’immobile, si considera “da costruire” non solo l’immobile ancora da edificare, ma anche quello in corso di
costruzione e non ultimato, “versando in stadio tale da
non consentire ancora il rilascio del certificato di agibilità”. La portata definitoria della norma, dunque,
qualifica quale immobile “da costruire” quello compreso tra il momento in cui è stato richiesto il titolo
abilitativo all’edificazione e il momento di ultimazione
dei lavori, comprese le rifiniture e gli accessori a norma
qualifica come costruito l’immobile che si trovi in uno
stato tale da consentire il rilascio del certificato di abitabilità, rinviando cosı̀ all’art. 25 del D.P.R n. 380/2001
(T.U. edilizia) 19.
Giurisprudenza Italiana - Marzo 2012
568
Diritto Civile | DIVIETO DEL PATTO COMMISSORIO
sferire le conseguenze dell’insolvenza sulla parte più
debole. Basterà infatti anticipare la stipulazione del
contratto preliminare ad un momento anteriore la richiesta del permesso di costruire per vedere completamente bypassata tutta la serie di tutele poste dalla
legge a garanzia del promissario acquirente. Se a quest’ultimo, all’indomani dell’entrata in vigore del decreto, ci si sentiva di guardare quale soggetto cardine
per la pretesa del rilascio reale delle fideiussioni e
delle polizze assicurative, cosı̀ da poter innestare quel
circolo virtuoso idoneo al rispetto della normativa in
tutto il suo potenziale, oggi egli è da esortare a non
rimanere solo nella difficile fase delle trattative e a ricorrere a professionisti di fiducia che lo tutelino, non
già esercitando il diritto a far valere una nullità relativa di cui non è “ancora” titolare, ma ad apprestare
ex ante quegli strumenti di autonomia privata che lo
equiparino de facto ad un’acquirente di immobili da
costruire secondo la definizione di cui all’art. 1 del
D.Lgs. n. 122/2005. Compito arduo, ma doveroso, se
si considera l’investimento nell’immobile di proprietà
alla luce del difficile contesto economico in cui l’acquirente medio è oggi costretto ad operare.
verifica con la venuta ad esistenza del bene retroagisce
al momento della stipula del contratto 23.
Dunque la sentenza in commento non pare porsi in
posizione antitetica rispetto ai precedenti giurisprudenziali pronunciatisi su questi ultimi casi poiché l’oggetto della controversia è diverso. La Corte, pur escludendo che sul contratto preliminare di vendita di immobile “sulla carta” si abbatta la scure della sanzione
della nullità, conclude ritenendo impossibile che una
simile fattispecie possa essere ricompresa nell’ambito
applicativo del D.Lgs. n. 122/2005. Il tenore letterale
dell’art. 1 comma 1, lett. d) non lascerebbe spazio,
infatti, ad alcuna interpretazione estensiva della suddetta norma, sebbene una sua lettura costituzionalmente orientata spingerebbe a trattare allo stesso modo fattispecie in qualche modo omogenee. Tuttavia,
prosegue la Corte, anche un simile sforzo non potrebbe che infrangersi di fronte alla prescrizione di cui
all’art. 6, comma 1, lett. i) del decreto che «impone
— a fini di chiarezza, completezza e precisione del
contenuto contrattuale — l’indicazione degli estremi
del permesso di costruire o della sua richiesta o di ogni
altro titolo abilitativo». Dizione che riconferma l’indispensabilità della presentazione almeno della richiesta
del permesso di costruire perché sia applicata l’intera
disciplina.
Insomma, le menzioni urbanistiche non sono richieste in caso di conclusione di un contratto preliminare
di trasferimento di immobile, ma, ove quest’ultimo
possa essere definito “da costruire” ai sensi dell’art. 1,
comma 1, lett. d) del decreto, esso deve contenere gli
estremi perlomeno della richiesta, nonostante, sul punto, sia ancora aperto il dibattito dottrinale sulle conseguenze, non specificamente indicate dalla norma, per
la sua violazione 24.
La Corte, tuttavia, non manca di richiamare la fondatezza delle preoccupazioni emerse in dottrina circa
gli intenti elusivi cui la lacuna sistematica si presta,
specie in un contesto in cui, già all’indomani dell’entrata in vigore del decreto, quest’ultimo veniva spesso
disapplicato dalle imprese e dalle cooperative edilizie.
Un effetto principalmente dovuto all’ingente sforzo
economico ad esse richiesto per via degli obblighi
contrattuali imposti al costruttore, cui si cumula la
difficoltà con la quale gli istituti di credito concedono,
in particolare, la garanzia fideiussoria di cui all’art. 2
del decreto. Se a ciò si aggiunge che, eccettuata la
nullità relativa che può essere fatta valere dal solo acquirente, non vi è alcuna sanzione, né penale né amministrativa nei confronti del costruttore che manchi
di rilasciare la fideiussione e la polizza indennitaria
decennale di cui all’art. 4 25 si comprende bene come
la conclusione cui è giunta la Corte rischi paradossalmente di accentuare maggiormente la tendenza a tra-
Omissis. — Svolgimento: V.G., premesso di essere debitore in forza di un rapporto usuraio di G.S., a cui
aveva conferito una procura a vendere un proprio immobile
sito in (Omissis), procura che il creditore aveva effettivamente utilizzato trasferendo fittiziamente il bene alla propria
moglie C.M.R. con atto stipulato a mezzo del notaio Ch.Va.
in data 6 maggio 1998, convenne dinanzi al Tribunale di
23
La giurisprudenza è costante nel ritenere nulli ab origine
per illiceità dell’oggetto i contratti diretti alla costruzione e/o
all’alienazione di un’opera edilizia senza la prescritta concessione anche a seguito del D.Lgs. n. 122/2005. In particolare Cass.,
18 febbraio 2009, n. 3913, in Obbligazioni e Contratti, 2009,
881, con nota di Olivero, Nullità dell’appalto per mancanza di
concessione edilizia: vecchie certezze e criticabili novità; Id., 21
febbraio 2007, n. 4015, in Contratti, 2007, 666; Id., 10 agosto
2006, n. 18129, in Vita Notar., 2006, 1431; Id., 22 agosto 2003,
n. 12347, in Guida Dir., 2003, 39, 51.
24
Petrelli, Il contenuto minimo dei contratti aventi ad oggetto immobili da costruire, in Riv. Dir. Civ., 2006, 295 e segg.
25
Profilo di criticità che non manca di emergere rispetto alla
normativa francese la quale, oltre ad un’ammenda, prevede sanzioni sino a due anni di reclusione, con, nel caso di condanna,
successivo divieto di svolgere in futuro, direttamente o per interposta persona, ulteriori operazioni di vendita di immobili da
costruire. Petrelli, Gli acquisti di immobili da costruire: le
garanzie, il preliminare e gli altri contratti: le tutele per l’acquirente, cit., 8.
Giurisprudenza Italiana - Marzo 2012
Andrea Archinà
DIVIETO DEL PATTO COMMISSORIO
Cassazione civile, II Sezione, 10 marzo 2011,
n. 5740 — Oddo Presidente — Lania Relatore —
Russo P.M. (parz. conf.) — V.G. (avv. Pacchioli) - G.I.
e C.M.R. (avv.ti Gentile, Spadafora) - Ch.Va. (avv.ti
Giuffrè, David).
Contratto di compravendita di beni immobili —
Patto commissorio — Procura a vendere — Violazione — Nullità (C.c. art. 2744).
Il divieto del patto commissorio decretato dall’art.
2744 c.c. si estende a qualsiasi negozio, quale che ne sia
il contenuto, impiegato per conseguire il risultato vietato
dall’ordinamento. Anche una procura a vendere un immobile, rilasciata dal mutuatario al mutuante contestualmente alla stipulazione del mutuo, può integrare la
fattispecie vietata, sempre che si accerti la sua connessione funzionale con il contratto di mutuo (1).
Diritto Civile | DIVIETO DEL PATTO COMMISSORIO
Milano G.I., C.R.M. e Ch.Va., chiedendo che l’atto di compravendita fosse dichiarato nullo per violazione del divieto
del patto commissorio ovvero, in subordine, che venisse annullato, previa dichiarazione che esso era affetto da simulazione relativa, ai sensi dell’art. 1395 cod. civ., in quanto contratto dal rappresentante con se stesso, o, in ulteriore subordine, che il G. fosse condannato a versargli il prezzo della
vendita, pari all’importo di l. 280.000.000; chiese inoltre che
il notaio rogante la compravendita fosse condannato al risarcimento del danno per avere incluso nell’atto anche il
cortile antistante l’immobile, bene che non era compreso
nella procura da lui rilasciata.
Si costituirono in giudizio i convenuti opponendosi alle
domande contro di loro rispettivamente proposte e i coniugi G.I. e C.M.R. chiedendo altresı̀, in via riconvenzionale, la condanna dell’attore alla restituzione del debito di
L. 280.000.000.
Il giudice di primo grado, disattese nel corso dell’istruttoria le richieste di prove orali avanzate dalle parti, respinse
la domanda principale di nullità del contratto di compravendita per violazione delle divieto di patto commissorio e quella avanzata dall’attore nei confronti del notaio Ch.; accolse
invece quella di annullamento della compravendita ai sensi
dell’art. 1395 cod. civ., previa dichiarazione di simulazione
del contratto, nonché la domanda riconvenzionale dei convenuti G. e C., condannando l’attore al pagamento della
somma richiesta, oltre interessi legali dalla data del 14 maggio 1996 al saldo.
Interposto gravame da parte del solo V., con sentenza
n. 1112 del 26 aprile 2005 la Corte di appello di Milano
confermò in toto la decisione impugnata, affermando, con
riferimento alla riproposta domanda di nullità della compravendita ex art. 2744 cod. civ., che, nella specie, difettavano i
presupposti del patto commissorio, per insussistenza di un
nesso di interdipendenza tra l’assunzione del debito e la
procura a vendere l’immobile, atteso che quest’ultima, nelle
intenzioni delle parti, era destinata non già a realizzare il
trasferimento della proprietà del bene in capo al creditore
nel caso di inadempimento del debito, ma di consentire la
vendita del bene a prezzo di mercato, con obbligo del creditore di versare al debitore la differenza in caso di realizzo
ad un prezzo superiore al debito stesso; in relazione all’accoglimento della domanda riconvenzionale, il giudice di secondo grado ritenne invece che non era stata data la prova né
degli interessi usurari né della eccepita restituzione del debito, confermando la valutazione del primo giudice di inammissibilità delle prove orali articolate dalla parte attrice su
questi punti; ritenne infine infondato il gravame avverso il
rigetto della domanda proposta dal V. nei confronti del notaio Ch., assumendo che l’accoglimento della domanda di
annullamento del contratto da questi rogato determinava il
venir meno dell’interesse ad affermare l’eventuale responsabilità del professionista ed all’accertamento dell’eventuale
danno conseguente.
Per la cassazione di questa decisione, notificata il 17 maggio 2005, con atto notificato il 5 e 6 luglio 2005, ricorre V.G.,
affidandosi a cinque motivi.
Con distinti controricorsi resistono in giudizio sia G. I. e
C.R.M., che Ch.Va. Il ricorrente ed il controricorrente Ch.
hanno depositato memorie.
Motivi: Il primo motivo di ricorso denunzia violazione o
falsa applicazione degli artt. 1418, 1344 e 2744 cod. civ. ed
omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione su un
punto essenziale della controversia, censurando la sentenza
impugnata per avere respinto la domanda di nullità del contratto di compravendita per violazione del divieto del patto
commissorio. Ad avviso del ricorso il giudice territoriale è
pervenuto a questa conclusione in forza di una non corretta
interpretazione del divieto sancito dall’art. 2744 cod. civ., il
quale va esteso ad ogni atto negoziale che abbia il fine di far
conseguire al creditore la proprietà del bene del debitore in
caso di inadempimento del debito. Nel caso di specie, il
nesso di interdipendenza tra l’assunzione del debito e la
procura a vendere emergeva ictu oculi, essendo stato nel
corso del giudizio pienamente provato che il V. era stato
costretto a rilasciare la procura a vendere al G. nell’ambito di
569
un rapporto debitorio, che la suddetta procura era stata
rilasciata a garanzia delle somme mutuate e che la procura a
vendere era stata in concreto utilizzata dal creditore al fine di
acquisire, dietro lo schermo della moglie, l’effettiva proprietà del bene. La decisione di secondo grado è quindi
incorsa anche nel denunziato vizio di motivazione, in quanto
il giudicante, da un lato, ha sostenuto di condividere un’interpretazione estensiva dell’art. 2744 cod. civ., affermando la
sola necessità dell’interdipendenza tra i due negozi, dall’altro, contraddicendosi, ha negato che la procura a vendere
potesse considerarsi atto negoziale idoneo a far pervenire al
creditore la proprietà del bene, limitandosi sul punto ad
osservare che essa era destinata “a realizzare una vendita
effettiva e al reale valore di mercato”, ma senza rilevare che,
nel concreto, essa era servita al creditore per intestarsi il bene
attraverso lo schermo della sua vendita simulata alla moglie.
Nel proprio controricorso G.I. e C.M.R. eccepiscono
l’inammissibilità del motivo, assumendo che la controparte
non ha interesse a coltivare la domanda di annullamento del
contratto per violazione del divieto di patto commissorio,
atteso che il contratto di compravendita impugnato risulta
essere stato già annullato in accoglimento della domanda
subordinata ex art. 1395 cod. civ., in forza di una statuizione
su cui, non essendo stata impugnata, si è ormai formato il
giudicato. Il primo motivo di ricorso è fondato.
L’eccezione preliminare di inammissibilità del motivo per
difetto di interesse non può essere accolta, risultando pacifico dall’esposizione delle vicende del processo che la domanda di nullità ex art. 2744 cod. civ. è stata proposta dall’attore in via principale e quella di annullamento ex art.
1395 cod. civ. in via soltanto subordinata. Questo ordine di
proposizione delle domande, che costituisce esplicazione del
diritto di azione in giudizio (art. 24 Cost.), conferisce evidentemente alla parte il diritto di insistere sull’accoglimento
della domanda principale fino all’esaurimento di tutti i gradi
di giudizio, senza che su detto interesse possa minimamente
incidere l’avvenuto accoglimento della domanda proposta in
via subordinata e la mancata proposizione contro di essa di
impugnazione. In disparte poi il rilievo che la differenza
degli effetti sostanziali riconducibili alla dichiarazione di
nullità del contratto rispetto alla pronuncia di annullamento
conferisce un interesse anche obiettivo alla parte di insistere
sulla propria richiesta.
Tanto precisato, quanto al merito del motivo, si osserva
che il giudice territoriale ha escluso nel caso di specie che i
negozi posti in essere dalle parti volessero aggirare il divieto
del patto commissorio per l’assenza del nesso di interdipendenza tra la dichiarazione di debito firmata dal V. e la procura a vendere, dal momento che quest’ultima “era destinata
non già a realizzare il trasferimento della proprietà del bene
in favore di G. stesso o di chi per lui, ma a realizzare una
vendita effettiva e al reale valore di mercato del bene, tant’è
che, stimando il bene di valore superiore all’ammontare del
debito nei confronti di G., in caso di cessione dell’immobile
si prevedeva che G. trattenesse per sé la somma capitale corrispondente al proprio credito, versando a V. la differenza”.
Questo ragionamento non appare condivisibile, risultando del tutto inappagante l’indagine con cui il giudice territoriale ha escluso l’eventuale nesso di interdipendenza tra gli
atti negoziali posti in essere dalle parti, nonché la dedotta
finalità degli stessi di realizzare il trasferimento del bene del
debitore in caso di suo inadempimento.
In materia di violazione del divieto del patto commissorio,
questa Corte ha già avuto modo di precisare come non sia
possibile in astratto identificare una categoria di negozi soggetti a tale nullità, occorrendo invece riconoscere che qualsiasi negozio può integrare tale violazione, quale che ne sia il
contenuto, nell’ipotesi in cui venga impiegato per conseguire
il risultato concreto, vietato dall’ordinamento giuridico, di
far ottenere al creditore, mediante l’illecita coercizione del
debitore al momento della conclusione del negozio, la proprietà del bene dell’altra parte nel caso in cui questa non
adempia la propria obbligazione.
Più volte, di conseguenza, è stata ritenuta la nullità, ex art.
1344 cod. civ., per frode alla legge, in quanto finalizzati alla
Giurisprudenza Italiana - Marzo 2012
570
violazione o elusione del divieto del patto commissorio, di
atti negoziali di per sé astrattamente leciti ovvero di operazioni negoziali complesse che, pur in assenza di formale costituzione di una garanzia ipotecaria o pignoratizia, apparivano rispondenti alla finalità di attribuire al creditore la facoltà di acquisire la proprietà del bene in caso di mancato
pagamento da parte del debitore, cosı̀ costretto a sottostare
alla volontà della controparte (Cass. n. 5426 del 2010; Cass.
n. 437 del 2009; Cass. n. 2285 del 2006). Nel caso in cui il
debitore abbia accettato preventivamente — quindi al di
fuori di una concordata datio in solutum successiva all’inadempimento — la possibilità di alienazione del proprio bene
a seguito di inadempimento, viene infatti a mancare la causa
tipica dello scambio a parità di condizioni, che connota il
contratto di compravendita e si verte in ipotesi di causa
illecita, che vizia e rende nullo il negozio o l’operazione
negoziale conclusa.
In applicazione di questi principi, si è ritenuto quindi,
per quanto qui specificatamente interessa, che anche una
procura a vendere un immobile, rilasciata dal mutuatario al
mutuante contestualmente alla stipulazione del mutuo,
comporti violazione del divieto del patto commissorio, qualora si accerti che essa sia funzionalmente connessa con il
mutuo (Cass. n. 6112 del 1993) collegamento questo necessario dal momento che il patto commissorio è configurabile
solo quando il debitore sia costretto al trasferimento di un
bene a tacitazione della sua obbligazione e non anche ove
tale trasferimento sia frutto di una scelta (Cass. n. 4064 del
1995; Cass. n. 4283 del 1990). La considerazione che il
patto commissorio costituisce un vizio che attiene alla causa
del contratto, che viene piegata all’interesse del creditore ad
acquisire una garanzia reale diretta, autonoma ed atipica sul
bene del debitore, con conseguente snaturamento della
causa tipica del negozio di scambio, autorizza d’altra parte
l’interprete a svolgere, ai fini di tale accertamento, un’indagine penetrante, che non si può fermare agli aspetti formali
del negozio, ma deve inoltrarsi anche a verificarne la causa
in concreto. In particolare, ciò richiede che, in caso di operazione complessa, i singoli atti vengano valutati alla luce di
un loro potenziale collegamento funzionale e che a tal fine
venga apprezzata ogni circostanza di fatto relativa agli atti
compiuti e, non ultimo, il risultato concreto (la funzione)
che, al di là delle clausole negoziali ambigue o non vincolanti, l’operazione negoziale nel suo complesso era idonea a
produrre ed ha in concreto prodotto (cfr. Cass. n. 9466 del
2004).
Ora, se si legge la decisione impugnata alla luce di tali
principi, non si sfugge alla conclusione che essa li abbia
sostanzialmente disattesi. La Corte territoriale ha respinto la
prospettazione dell’esistenza di un patto commissorio limitandosi ad osservare che non era ravvisabile un nesso di
interdipendenza tra la dichiarazione di assunzione del debito
sottoscritta da V. e il rilascio della procura al creditore a
vendere il proprio immobile dal momento che quest’ultima
era effettivamente diretta a vendere l’immobile al reale valore di mercato, tanto che era prevista la consegna al rappresentato del prezzo di vendita per la parte eventualmente
eccedente l’ammontare del suo debito. Si tratta di un’inda-
1
Il principio, consacrato dalle Sezioni unite nel 1989 (Cass.,
Sez. un., 3 aprile 1989, n. 1611, in Giust. Civ., 1989, I, 1569; in
Riv. Notar., 1989, 890; in Foro. It., 1989, I, 1428, con note di
Mariconda, Trasferimenti commissori e principio di causalità e
di Realmonte, Stipulazioni commissorie, vendita con patto di
riscatto e distribuzione dei rischi; in Nuova Giur. Comm., 1989, I,
348; in Riv. Dir. Civ., 1990, II, 615; in Giur. It., 1990, I, 1, 104;
in Resp. Civ. e Prev., 1989, 937) ma, per il vero, anticipato da
alcune precedenti pronunce di legittimità (v. in particolare
Cass., 1o febbraio 1974, n. 282, in Giur. It., I, 1, 1024; Id., 3
giugno 1983, n. 3800, in Riv. Notar., 1983, 764, a cui hanno fatto
seguito, tra le altre, Id., 6 dicembre 1983, ivi, 1984, 403; Id., 3
novembre 1984, nn. 5569 e 5570, in Giust. Civ. Mass., 1984, 11;
Id., 6 dicembre 1986, n. 7260, ivi, 1986, 12; Id., 18 maggio 1988,
n. 3462, ivi, 1988, 5), è stato continuamente ribadito nelle sucGiurisprudenza Italiana - Marzo 2012
Diritto Civile | DIVIETO DEL PATTO COMMISSORIO
gine e di una motivazione, come detto, inappaganti. In particolare, ciò che difetta è una lettura complessiva degli atti
posti in essere dalle parti, che costituisce, come sopra si è
evidenziato, nel caso di operazioni complesse, il momento
centrale dell’indagine volta ad accertare la presunta violazione del divieto di patto commissario. La Corte territoriale ha
omesso di svolgere un’interpretazione funzionale e complessiva del comportamento negoziale delle parti, di accertare
che tipo di relazione o collegamento esse avesse inteso stabilire tra la dichiarazione di debito e la procura a vendere
l’immobile ed il risultato concreto da esse voluto, mancando,
a tal fine, di prendere in considerazione e valorizzare non
solo i singoli atti negoziali, con le relative clausole, ma anche
ogni elemento o circostanza di fatto, anche temporale, in
presenza della quale erano stati posti in essere, nonché del
risultato con essi in concreto voluto, anche alla luce del comportamento successivo delle parti (risulta ad esempio trascurato il dato secondo cui la dichiarazione di debito e la procura a vendere risultano entrambe sottoscritte lo stesso giorno, il 14 maggio 1996, nonché la circostanza che la procura
a vendere ha avuto esecuzione, attraverso la stipulazione del
rogito impugnato, circa due anni dopo, il 6 maggio 1998).
Trattasi, per le ragioni sopra esposte, di accertamenti tutti
necessari al fine di dare risposta al quesito se in realtà le parti
con la procura a vendere l’immobile intendessero effettivamente trasferire a terzi l’immobile al fine di realizzare una
provvista da destinare all’estinzione del debito ovvero, come
ritenuto dal ricorrente, costituire una garanzia reale a favore
del creditore tale da consentire allo stesso, in caso di mancata
restituzione della somma dovuta, di acquisire la proprietà
del bene o comunque il potere di disporne.
Il motivo va pertanto accolto. — Omissis.
(1) Brevi note in tema di patto commissorio,
procura a vendere e autonomia privata ovvero la fattispecie e i suoi confini
Sommario: 1. Premessa di metodo. — 2. La fattispecie e i
suoi confini. — 3. Patto commissorio e procura a vendere.
1. Premessa di metodo.
La Cassazione, con la sentenza in esame, torna ad
affrontare la tematica del divieto del patto commissorio, nuovamente affermando l’ormai consolidato principio in forza del quale non è possibile configurare in
astratto una categoria di negozi soggetti alla sanzione
della nullità perché contrastanti con il divieto decretato dall’art. 2744 c.c., occorrendo per contro riconoscere che qualsiasi negozio può integrare la violazione di
tale divieto quale che ne sia il contenuto, ove impiegato
per conseguire il risultato concreto, vietato dall’ordinamento giuridico, di far ottenere al creditore la proprietà di un bene appartenente al debitore nel caso in
cui questi non adempia la propria obbligazione 1.
cessiva produzione giurisprudenziale (v., ex multis, Cass., 12
ottobre 2011, n. 20956, in De Jure; Id., 5 marzo 2010, n. 5426,
ivi; Id., 12 gennaio 2009, n. 437, ivi; Id., 11 giugno 2007,
n. 13621, ivi; Id., 19 maggio 2004, n. 9466, ivi; Id., 20 luglio
1999, n. 7740, ivi; Id., 21 aprile 1989, n. 1907, in Foro. It., 1990,
205, con nota di Vaclavi, Intorno al divieto di patto commissorio, alla vendita simulata a scopo di garanzia ed al negozio fiduciario).
Buona parte delle sentenze poc’anzi elencate (v. in particolare
Cass., Sez. un., 3 aprile 1989, n. 1611, cit.) hanno affrontato la
tematica, oggetto di vivace dibattito sia in dottrina che in giurisprudenza sino alla pronuncia a Sezioni unite del 1989, della
vendita con patto di riscatto stipulata in funzione di garanzia
reale atipica; ad avviso dell’opinione oggi dominante l’evocata
fattispecie è nulla — nonostante l’immediatezza dell’effetto tra-
Diritto Civile | DIVIETO DEL PATTO COMMISSORIO
571
Sulla scia del principio or ora cennato, la suprema
Corte, dopo aver ribadito la necessità che l’interprete
conduca un’indagine penetrante che, lungi dall’arrestarsi ad un esame estrinseco e meramente formale
della fattispecie sottoposta alla sua attenzione, sia
orientata a sviscerare la causa concreta sorreggente il
congegno negoziale utilizzato dalle parti per raggiungere il (reale) risultato avuto di mira, giunge ad affermare come anche una procura a vendere un immobile
rilasciata dal mutuatario al mutuante contestualmente
alla stipulazione del contratto di mutuo comporti violazione del divieto del patto commissorio ove sia rinvenibile un nesso teleologico (di garanzia) tra i due
negozi 2.
Tale orientamento, per quanto apprezzabile nella misura in cui slega la valutazione dell’interprete dal freddo dato formale, non può però condividersi nella parte
in cui si accontenta di una lettura sostanziale (e non
anche sistematica) dell’art. 2744 c.c. che, isolatamente
considerato (e cioè non letto alla luce dell’intero ordinamento giuridico di cui costituisce un frammento),
non consente di delimitare in maniera soddisfacente i
limiti operativi del divieto ivi sancito comportandone,
in definitiva, un’applicazione automatica ad astrarre da
qualsiasi valutazione in merito all’equilibrio economico del contratto di garanzia.
Già da tempo la dottrina più attenta ha messo in luce
la necessità di desumere più dal sistema nel suo complesso che dalla disposizione di cui all’art. 2744 c.c. la
reale portata della fattispecie vietata, ricercando in altre norme dell’ordinamento quei limiti esterni della
figura che, per la genericità del dato testuale, non possono essere ricavati dal contenuto della norma 3. Ed è
proprio prendendo le mosse da tale impostazione che,
a parere di chi scrive, è possibile attribuire alla disposizione in commento un significato giuridico adeguato,
in quanto lontano dagli automatismi scaturenti dall’adozione di soluzioni astratte e generalizzanti che mal
si conciliano con il dovere dell’interprete di percorrere
la strada dell’interpretazione funzionale, sistematica ed
assiologica, secondo una prospettiva attenta agli interessi del caso concreto e soprattutto sensibile a valutare
l’effettiva dannosità del regolamento negoziale cosı̀ come plasmato dalle parti 4.
Accettando di ragionare nell’auspicata prospettiva,
al fine di individuare la reale portata operativa del divieto di cui all’art. 2744 c.c. 5 e, in definitiva, dei limiti
frapposti in tale materia dall’ordinamento giuridico al
libero esplicarsi dell’autonomia negoziale dei privati,
pare opportuno muovere da un’analisi comparativa
che tenga conto dell’insieme di tutte quelle disposizioni codicistiche che consentono all’interprete di delimitarne correttamente i confini evitando di attrarre nella
sua orbita fattispecie che non paiono, ove lette alla luce
del dato sistematico, meritevoli di essere sanzionate
con la nullità a prescindere da qualsiasi ulteriore valutazione relativa alle circostanze concrete dell’accordo:
non solo gli artt. 1851 c.c. (in tema di pegno irregolare)
e 1197 c.c. (in tema di prestazione in luogo dell’adempimento), quanto piuttosto l’insieme delle disposizioni
da cui è possibile trarre il più generale principio in
forza del quale le parti sono libere, nell’esercizio della
loro autonomia negoziale, di convenire particolari forme (anche atipiche) 6 di rafforzamento del credito e, in
primis, gli artt. 1322 e 1179 c.c. 7, nonché il coacervo di
norme espressione del generale principio di correttez-
slativo — per violazione del divieto di patto commissorio. Sebbene nella specie il trasferimento della proprietà, diversamente
dal modello accolto dall’art. 2744 c.c., non è sospensivamente
condizionato all’inadempimento ex latere debitoris, è del tutto
evidente come l’utilizzo dello schema della vendita sia in realtà
finalizzato ad aggirare il divieto decretato dalla citata disposizione. L’obiezione per cui, giusta la natura eccezionale dell’art.
2744 c.c., sarebbe preclusa all’interprete la possibilità di farne
applicazione analogica è superata dall’invocazione della teoretica del negozio indiretto presupposta dall’art. 1344 c.c. e accreditante la nozione di causa concreta del contratto.
2
Il richiamato collegamento funzionale viene configurato
dalla giurisprudenza quale requisito necessario affinché l’operazione negoziale possa esser sanzionata con la nullità ex art.
2744 c.c. poiché, ove mancante, non sarebbe possibile parlare di
patto commissorio, essendo questo configurabile solo quando il
debitore sia costretto a trasferire un diritto reale (ovvero ad
assumere su di sé l’obbligo di trasferire un tale diritto, ricorrendo in tal caso la figura del patto commissorio c.d. obbligatorio)
in caso di suo inadempimento (v. in tal senso le pronunce richiamate supra in nota 1).
Tra le pronunce, in vero non numerose, che hanno affrontato
la questione dell’idoneità di una procura o di un mandato ad
alienare ad integrare gli estremi del patto commissorio, v. Cass.,
1o giugno 1993, n. 6112, in Riv. Dir. Comm., 1994, II, 135; Id.,
5 febbraio 1979, n. 766, in Riv. Notar., 1979, 619; e Trib. Roma,
24 marzo 1969, in Dir. Fall., 1969, II, 468.
3
Cosı̀, quasi testualmente, Luminoso, La vendita con riscatto, in Comm. C.C. a cura di Schlesinger, Milano, 1987, 241; Id.,
Alla ricerca degli arcani confini del patto commissorio, in Riv. Dir.
Civ., 1990, 221; Anelli, L’alienazione a scopo di garanzia, Milano, 1996, 77; Calvo, Contratti e mercato, Torino, 2006, 27;
Ciatti-Calvo, Istituzioni di diritto civile, Milano, 2011, I, 547.
4
Illuminanti, al riguardo, le pagine di P. Perlingieri, Il
diritto civile nella legalità costituzionale secondo il sistema italocomunitario delle fonti, 2a ed., Napoli, 2006, 563 e segg., il quale,
nel denunciare l’inadeguatezza del canone interpretativo in claris non fit interpretatio, testualmente afferma che «la norma non
è mai sola, ma esiste ed esercita la sua funzione all’interno dell’ordinamento, e il suo significato muta con il dinamismo e la
complessità dell’ordinamento medesimo; sı̀ che s’impone un’interpretazione evolutiva della legge. Il principio di legalità non si
riduce al rispetto dei singoli precetti, implicando invece, da un
lato, il loro coordinamento (nonché l’armonizzazione con i principi fondamentali di rilevanza costituzionale) e, dall’altro, il confronto, e la contestuale conoscenza del problema concreto da
regolare, cioè del fatto, individuato nell’ambito dell’intero ordinamento, l’insieme delle proposizioni normative e dei principi, la normativa più adeguata e maggiormente compatibile agli
interessi ed ai valori in gioco. L’interpretazione è pertanto per
definizione logico-sistematica e teleologico-assiologica, cioè finalizzata all’attuazione dei valori costituzionali».
5
Si tenga a mente che analoga disposizione proibitiva c.c. è
prevista, in materia di anticresi, dall’art. 1963 c.c.
6
Significativa in tal senso la vicenda del contratto autonomo
di garanzia (Garantievertrag), espressione dell’autonomia negoziale riconosciuta ai privati dall’art. 1322 cpv. c.c., su cui v. Cass.,
Sez. un., 1o ottobre 1987, n. 7341, in Giur. It., 1988, I, 1, 1024
(che ne affermò l’ammissibilità nel nostro ordinamento) e, da
ultimo, Id., Sez. un., 18 febbraio 2010, n. 394, in Corriere Giur.,
8, 2010, 1022, con nota di Rolfi, Garantievertag e polizza fideiussoria: il grand arrêt delle Sezioni Unite tra massime ed obiter dicta.
7
Norma che ha introdotto nel vigente ordinamento il generale principio di equivalenza delle garanzie (anche atipiche) attribuendo al debitore, in mancanza di espressa previsione in tal
senso, la facoltà di scegliere la garanzia da prestare (sia essa
reale, personale o consista in qualsiasi «altra sufficiente cauteGiurisprudenza Italiana - Marzo 2012
572
za e buona fede (e in particolare gli artt. 1175, 1337 e
1375 c.c.) affondante le proprie radici nel principio
solidaristico cristallizzato nell’art. 2 Cost.
2. La fattispecie e i suoi confini.
L’art. 2744 c.c. 8 sanziona con la nullità il patto con
cui le parti convengono che, in mancanza del pagamento del credito nel termine fissato, la proprietà della
cosa ipotecata o data in pegno passi al creditore; sebbene la formula normativa rifletta un’immagine del
patto commissorio quale convenzione accessoria a una
garanzia reale nominata, non si dubita della sua estensibilità anche alle ipotesi in cui venga a configurarsi alla
stregua di convenzione autonoma, e cioè diretta ad
attribuire al creditore la proprietà di beni non previamente costituiti a oggetto di alcuna garanzia reale tipica 9. Neppure si dubita che la proibizione vada estesa
alle ipotesi in cui il patto preveda il trasferimento di un
diritto reale minore (usufrutto, enfiteusi, superficie) 10,
ovvero alla variante del patto commissorio ad effetti
obbligatori, in cui il debitore assume solo l’obbligo di
trasferire la proprietà di un bene al creditore in caso di
inadempimento 11.
La nullità, secondo la communis opinio, colpisce il
patto commissorio a prescindere dalla sussistenza di
un’effettiva sproporzione tra debito garantito e valore
del bene oggetto della garanzia: vietandolo, l’ordinamento manifesta la volontà di sanzionare un modello
negoziale, ad astrarre dal contenuto della singola concreta pattuizione e da qualsivoglia considerazione relativa all’atteggiarsi in concreto del rapporto tra i sacrifici delle parti che, ancorché modellato secondo un
criterio di equa commisurazione (si pensi all’ipotesi in
cui il valore della cosa data in garanzia sia pari o addirittura inferiore all’importo del credito), non sarebbe
idoneo a salvare la convenzione dalla scure della nullità 12. A sostegno di tale impostazione si è soliti invocare la lettera della disposizione che, non prevedendo
espressamente il requisito della sproporzione tra i suoi
elementi costitutivi, inequivocabilmente ne escluderebbe la rilevanza ai fini dell’operatività del divieto:
laddove il legislatore ha voluto attribuire rilevanza alla
sussistenza di un effettivo squilibrio dello scambio in
danno di una delle parti (come nel mutuo usurario) o
alla dimostrazione dell’approfittamento dello stato di
bisogno in cui versava uno dei contraenti (come nell’azione generale di rescissione per lesione), ciò ha reso
esplicito nel dato legislativo, elevando il requisito in
questione a elemento necessario della fattispecie. Se
la»), purché idonea (cfr. R. Genghini, Patto commissorio e
procura a vendere, in Contratto e Impresa, 1995, 275.
8
Ma v. altresı̀ il già ricordato art. 1963 c.c., che analoga disposizione detta in materia di anticresi.
9
Bianca, voce “Patto commissorio”, in Noviss. Dig. It., XII,
Torino, 1965, 715; Carnevali, voce “Patto commissorio”, in
Enc. Dir., XXXII, Milano, 1982, 502; Roppo, La responsabilità
patrimoniale del creditore, 2a ed., in Tratt. Dir. Priv. a cura di
Rescigno, Torino, 1984, XIX, 559.
10
Andrioli, Tutela dei diritti, in Comm C.C. a cura di Scialoja, Branca, VI, Della tutela dei diritti (art. 2740-2899), Bologna-Roma, 1945, 24 e segg.; Roppo, op. loc. cit.
11
Bianca, Il divieto del patto commissorio, Milano, 1957,
177; Id., voce cit., 716; Carnevali, voce cit., 505.
Con riguardo alla questione della nullità del patto commissorio immediatamente traslativo v. quanto detto supra in nota 1.
Giurisprudenza Italiana - Marzo 2012
Diritto Civile | DIVIETO DEL PATTO COMMISSORIO
cosı̀, la preclusione di cui all’art. 2744 c.c., e la correlativa sanzione, opererebbero automaticamente, a prescindere da qualsiasi valutazione circa l’equilibrio economico del negozio, venendosi a configurare, in ultima
istanza, una presunzione (invincibile) di dannosità ex
lege.
Per quanto autorevolmente sostenuta, tale conclusione mi sembra per il vero eccessiva; e invero non è
mancato chi, in dottrina, ha manifestato insofferenza
verso tale rigoroso approccio 13.
Al fine di non precludere ex ante e in maniera assoluta la validità di qualsiasi convenzione in astratto riconducibile al generico dettato dell’art. 2744 c.c., pare
qui opportuno richiamare l’attenzione del lettore su
quelle disposizioni codicistiche che, pur presentando
notevoli affinità con la fattispecie che qui occupa, sono
per contro perfettamente lecite in quanto idonee, attraverso svariati meccanismi di riequilibrio (e di controllo) dello scambio, a elidere in radice il pericolo di
ingiustificati arricchimenti di una parte in danno dell’altra.
Significativo in tal senso è l’art. 1851 c.c., che disciplina la figura del pegno irregolare in modo da evitare
che il debitore subisca perdite sproporzionate rispetto
all’ammontare del credito garantito: allorché il pegno
abbia a oggetto danaro o altre cose fungibili non individuate, il creditore ne acquista la proprietà ed è autorizzato a disporne, dovendo però restituire l’eventuale
eccedenza rispetto al credito garantito secondo una
valutazione da effettuarsi al momento della scadenza
dell’obbligazione ineseguita. Dal meccanismo poc’anzi
descritto, funzionale ad escludere la realizzazione di
profitti abusivi in capo al creditore e la correlativa sopraffazione economica ai danni del debitore, discende
la validità del pegno irregolare 14.
E ancora, è possibile ricavare preziose indicazioni
dagli artt. 2798 (assegnazione in pagamento della res
costituita in pegno) e 2803 c.c. (attribuzione della facoltà di riscossione del credito dato in pegno): il creditore è ammesso a soddisfare le sue pretese sulla cosa
o sul credito oggetto di pegno essendo, anche in tali
ipotesi, operanti meccanismi legali ovvero obblighi di
restituzione funzionali ad evitare arricchimenti ingiustificati in danno del debitore.
La legge ammette inoltre la validità della convenzione con cui il debitore conferisce ai suoi creditori (o solo
ad alcuni di essi) l’incarico di liquidare tutte o alcune
delle attività di cui egli è titolare, sı̀ da ripartirne tra
loro il ricavato a tacitazione dei crediti vantati (artt.
12
Lojacono, Il patto commissorio nei contratti di garanzia,
Milano, 1952, 28 e segg.; Bianca, Il divieto del patto commissorio, cit., spec. 221; Id., voce cit., 716; Anelli, op. cit., 74 e
segg., testualmente afferma che «l’ordinamento ha quale unico
punto di riferimento il modello negoziale descritto dall’art. 2744
c.c., per la sua idoneità a dar luogo ad un quadro effettuale
ritenuto inaccettabile».
13
Calvo, op. loc. cit.; Ciatti-Calvo, op. loc. cit.; ma l’insofferenza verso un tale rigore era già avvertita da Luminoso, Alla
ricerca degli arcani confini del patto commissorio, cit., 240 (in
nota 73).
14
Martorano, Cauzione e pegno irregolare, in Riv. Dir.
Comm., 1960, I, 110 e segg.; Luminoso, Deposito cauzionale
presso il terzo e depositi irregolari a scopo di garanzia, in Giur.
Comm., 1981, I, 432 e segg.; Carnevali, voce cit., 505.
Diritto Civile | DIVIETO DEL PATTO COMMISSORIO
1977 e segg. c.c.): si configura in tal modo una procedura (auto)satisfattiva sul patrimonio del debitore che
l’ordinamento ammette ma circonda di garanzie (rectius: di sistemi di controllo), volte a tutelare il diritto
del debitore a una corretta liquidazione e alla restituzione dell’eventuale residuo 15.
L’ordinamento attribuisce poi al debitore (ove il creditore vi consenta) la facoltà di estinguere l’obbligazione attraverso l’esecuzione di una prestazione diversa da quella dovuta (artt. 1197 e segg. c.c.), anche se,
per avventura, economicamente squilibrata a suo danno: come evidenziato in dottrina, la differenza intercorrente tra la fattispecie di cui all’art. 1197 c.c. e il
patto commissorio risiede nella circostanza che questo,
a differenza di quella, lascia sopravvivere il rapporto
obbligatorio originario, attribuendo senz’altro al creditore il diritto a far suo un bene del debitore in caso di
inadempimento, cosı̀ spingendo quest’ultimo a vincolarlo in quanto «allettato» dalla speranza (spesso illusoria) ingenerata dalla possibilità di non perderlo definitivamente, essendo ancora possibile (benché il più
delle volte poco probabile) recuperare le risorse strumentali all’esatto adempimento 16.
Dalle norme poc’anzi richiamate emerge con chiarezza che, ciò che l’ordinamento giuridico vuole evitare attraverso la previsione del divieto decretato dall’art. 2744 c.c. è, in definitiva, il pericolo d’indebiti
arricchimenti a vantaggio del creditore, la cui posizione di potere economico può riverberarsi in danno
del debitore costringendolo ad accettare una garanzia
sovrabbondante rispetto all’entità del debito 17; da ciò
discende la validità delle pattuizioni che, pur prevedendo il trasferimento della proprietà di un bene (o di
altro diritto reale) dal debitore al creditore in caso di
inadempimento, espressamente prevedono, similmente a quanto fatto dal legislatore con riguardo alle
suaccennate disposizioni, meccanismi convenzionali
capaci di eliminare in radice il pericolo di arricchi15
Spinelli, Le cessioni liquidative, Napoli, 1959, II, 617;
Barbiera, Garanzia del credito e autonomia privata, Napoli,
1971, 182; Luminoso, Alla ricerca degli arcani confini del patto
commissorio, cit., 236.
16
Cosı̀ Luminoso, La vendita con riscatto, cit., 243 nonché
Id., Alla ricerca degli arcani confini del patto commissorio, cit.,
221. V. altresı̀ quanto osservato da Bianca, Patto commissorio,
cit., 717.
17
Pur essendo consapevole che sul tema della ratio sorreggente il divieto del patto commissorio ancor oggi non v’è
concordia tra gli interpreti (Carnelutti, Note sul patto commissorio, in Studi di diritto processuale, 1925, I, 487 e segg.;
Betti, Sugli oneri ed i limiti dell’autonomia privata in tema di
garanzia e modificazione delle obbligazioni, in Riv. Dir. Comm.,
1931, II, 689; Bianca, Patto commissorio, cit., 716; Carnevali, Patto commissorio, cit., 500; Anelli, op. cit., 47 e
segg.), mi pare innegabile che, anche alla luce dell’origine
storica dell’istituto, un ruolo fondamentale rivesta la preoccupazione di scongiurare simili abusi; mi limito qui ad osservare
come, alla tradizionale obiezione per cui la sanzione della
nullità mal si concilierebbe con una tale ricostruzione del fondamento della norma, che da un lato con ciò non si intende
negare che alla base della previsione vi siano certamente altre
ragioni che concorrono a spiegarne la ragion d’essere (v. per
un’impostazione simile Costanza, Sull’alienazione in garanzia
e il divieto del patto commissorio, in Giust. Civ., 1989, I, 1824),
dall’altro, e la recente legislazione speciale (soprattutto quella
consumeristica) lo dimostra in maniera evidente, lo schema
573
menti sproporzionati in capo a quest’ultimo. Lo comprova la validità, pacificamente ammessa 18, del patto
c.d. marciano 19, convenzione con cui le parti stabiliscono che, in caso di inadempimento, il bene costituito in garanzia si trasferisce al creditore, ma questi è
obbligato a corrispondere al debitore una somma pari
alla differenza tra il valore del bene (fatto oggetto di
stima, dopo l’inadempimento, ad opera di un terzo
designato da entrambe le parti) e l’ammontare del debito insoluto.
Se quanto detto è vero, facendo un ulteriore passo
avanti, non sembra irragionevole né contrario al sistema escludere l’operatività del divieto di cui all’art.
2744 c.c. anche laddove, pur non essendo espressamente previsto alcun meccanismo volto ad escludere il
pericolo di abusivi arricchimenti in danno del debitore, nondimeno il creditore offra la prova che il valore
del bene oggetto della convenzione commissoria, al
momento della stipulazione della stessa, era pari o inferiore all’entità del credito garantito, in tal modo vincendo la presunzione (che, a parere di chi scrive, non
può essere intesa come iuris et de iure) di pericolosità/dannosità che, nell’ottica del legislatore, la ammanta 20. Ove poi la sproporzione tra valore della res e
importo del credito, assente ab origine, si manifesti in
epoca successiva, la salvezza della convenzione dalle
forche della nullità, potrebbe ricavarsi, come acutamente osservato in dottrina 21, ritenendo immanente al
sistema l’operatività dei meccanismi di riequilibrio
previsti dagli artt. 1851 e 2803 c.c.: la stima del bene
(che, lungi dall’essere effettuata una volta per tutte al
momento della stipulazione della convenzione, le parti, ove interessate a far salvo il patto, hanno l’onere di
rinnovare al momento della scadenza del debito e non
prima) ad opera di un terzo (scelto ex post di comune
accordo secondo lo schema modellato dall’art. 1349
c.c. o per il quale sia stato anteriormente fissato il criterio di scelta 22) e il conseguente obbligo gravante il
tradizionale che riconduce la nullità alla lesione di un interesse
generale sembra oggi sempre più in crisi a fronte del moltiplicarsi delle nullità comminate a carico di contratti che
ledono l’interesse non della generalità dei consociati, ma di
ben definite classi di contraenti (sul tema v. le osservazioni di
Roppo, Il contratto, 2a ed., in Tratt. Dir. Priv. a cura di Iudica,
Zatti, Milano, 2011, 708).
18
Andrioli, Tutela dei diritti, cit., 93; Lojacono, op. cit.,
71 e segg.; Bianca, Patto commissorio, cit., 717; Carnevali,
Patto commissorio, cit., 500; Roppo, La responsabilità patrimoniale del creditore, cit., 561; Calvo, op. loc. cit.; Ciatti-Calvo,
op. loc. cit.
In giurisprudenza v. Cass., 21 giugno 1946, n. 732, in Giur. It.,
1947, I, 1, 32; Id., 27 novembre 1951, n. 2696, in Foro It., 1952,
I, 11; Id., 30 marzo 1954, n. 988, in Repertorio Foro It., 1954,
voce “Vendita”, 99; App. Trento, 18 febbraio 1975, in Giur. di
Merito, 1975, I, 424.
19
D., 20, 1, 16, 9.
20
Cfr. Luminoso, Alla ricerca degli arcani confini del patto
commissorio, cit., 240 (in nota 73).
21
Ciatti-Calvo, op. loc. cit.
22
Nell’ipotesi in cui il creditore riesca ad imporre la nomina
di un soggetto non imparziale, sarebbe giocoforza ammettere la
possibilità per il debitore di far valere il suo diritto ad un equo
accertamento, impugnando la determinazione manifestamente
iniqua o erronea ex art. 1349, comma 1, c.c. (cfr. Bianca, Patto
commissorio, cit., 718, in tema di stima del bene e nomina del
terzo stimatore nel patto marciano).
Giurisprudenza Italiana - Marzo 2012
574
Diritto Civile | DIVIETO DEL PATTO COMMISSORIO
3. Patto commissorio e procura a vendere.
Ed è proprio alla luce di quanto poc’anzi affermato
che, a parere di chi scrive, la pronuncia in commento
suscita qualche perplessità laddove, ribaltando il decisum della Corte territoriale, àncora la declaratoria di
nullità ex art. 2744 c.c. all’accertamento del solo collegamento funzionale intercorrente tra la procura (o il
mandato) ad alienare e il contratto di mutuo, e non
anche alla circostanza che il regolamento negoziale sia,
in concreto, suscettibile di rendere eccessivamente gravosa la posizione del mutuatario.
Non sembra, in vero, ragionevole far discendere la
nullità della convenzione lato sensu commissoria con
cui il debitore incarica il proprio creditore di alienare
a terzi un bene di sua proprietà 24, con l’obbligo di
imputare al proprio credito il ricavato della cennata
attività liquidatoria, dalla sola circostanza che la sua
efficacia sia sospensivamente condizionata all’inadempimento del preesistente rapporto obbligatorio, non
potendo, una simile eventualità, essere considerata ex
se pregiudizievole per il debitore (ed anzi, la maggior
celerità nella vendita del bene potrebbe addirittura essere vantaggiosa per quest’ultimo ove si consideri che
ciò non solo eviterebbe il lievitare degli interessi moratori e degli altri accessori del credito 25, ma altresı̀
consentirebbe di realizzare un valore superiore rispetto a quello che, di regola, realizzerebbero l’espropriazione e la vendita coattiva del bene). Ed infatti, accettando di leggere il divieto decretato dall’art. 2744 c.c.
come limite all’autonomia negoziale delle parti operante nei soli casi in cui non sia dato rinvenire adeguati
meccanismi (legali o convenzionali) di riequilibrio del
rapporto, sarebbe auspicabile l’adozione di soluzioni
più liberali, capaci di slegare simili pattuizioni rafforzative del credito dalle catene della nullità ogniqualvolta queste siano tali da evitare che l’inadempimento
si tramuti in occasione di ingiustificato arricchimento
del creditore 26.
Se cosı̀, l’incarico gestorio in rem propriam, quantunque irrevocabile ex art. 1723 cpv. c.c., sfuggirebbe alle
forche del rimedio estintivo giusta l’operatività dello
statuto dettato dagli artt. 1703 e segg. c.c. che, in quanto non derogato dalle parti, prevede a carico del mandatario non solo l’obbligo di agire con la diligenza
richiesta dall’art. 1710 c.c. (norma che, come osservato
in dottrina, va completata con la previsione di cui all’art. 1176 cpv. c.c. 27), ma altresı̀ un obbligo di rendiconto (art. 1713, comma 1, c.c.) dal quale discende
l’esistenza di un vero e proprio diritto del mandante/debitore a ripetere l’eventuale eccedenza rispetto al
credito garantito, cosı̀ sventando il paventato rischio di
arricchimenti abusivi 28. Ove poi il potere rappresentativo non sia associato ad un rapporto gestorio ex
causa mandati (eventualità che, per quanto rara, non
può escludersi a priori), venendosi in tal caso a configurare in capo al rappresentante/creditore il solo potere, e non anche l’obbligo, di agire nell’interesse del
rappresentato/debitore, le parti avranno l’onere, strumentale alla salvezza della convenzione avente funzione di garanzia del credito, di predisporre meccanismi
idonei ad evitare il realizzarsi degli abusi avversati dall’ordinamento attraverso la previsione del divieto del
patto commissorio; in particolare verrà in rilievo la
presenza o meno di un obbligo a carico del rappresentante/creditore di rendiconto e di restituzione di quanto ricavato in esubero ovvero di altri meccanismi che,
similmente, impediscano il realizzarsi di abusi in danno
del creditore.
23
Sebbene parte della dottrina e della giurisprudenza, ravvisando nell’art. 2744 c.c. uno strumento volto ad assicurare
l’effettività del principio della par condicio creditorum (Carnelutti, Note sul patto commissorio, cit., 888; Andrioli, Tutela
dei diritti, cit., 51 e segg.; in giurisprudenza v., in particolare,
Cass., 21 aprile 1989, n. 1907, cit.), ovvero l’inderogabilità della
procedura giudiziaria esecutiva (Betti, op. cit., 689 e segg.),
configurando la nullità decretata dal citato articolo quale conseguenza necessitata che prescinde da qualsiasi valutazione circa le circostanze concrete connotanti la singola vicenda negoziale, ritengo risolutiva al riguardo l’impostazione di quella dottrina che esaurisce la portata del principio della par condicio
creditorum in ciò, che esso si limiterebbe a disattendere il criterio della priorità cronologica del sorgere del credito, quale possibile criterio per dirimere i conflitti tra una pluralità di creditori
che cercano soddisfazione sul patrimonio del debitore comune
(Roppo, La responsabilità patrimoniale del creditore, cit., 529 e
segg.). Il vigente ordinamento, al contrario, consente all’autonomia privata ogni tipo di discriminazione fra i creditori, ponendo quale unico limite il rispetto del principio di correttezza
e buona fede e sanzionando eventuali comportamenti fraudolenti con l’azione revocatoria di cui all’art. 2901 c.c. (cfr. R.
Genghini, op. cit., 279).
24
Ma lo stesso discorso vale ove oggetto dell’incarico gestorio sia l’incasso di un credito del creditore.
25
R. Genghini, op. cit., 282.
26
Cfr. R. Genghini, op. loc. ult. cit.
27
Calvo, op. cit., 271; Ciatti-Calvo, op. cit., 609.
28
Come autorevolmente sostenuto in dottrina, attraverso
l’evocata fattispecie negoziale le parti potrebbero lecitamente
porre in essere una deroga alle procedure legali di espropriazione coattiva, con ciò non incorrendo nel divieto sancito dall’art. 2744 c.c. (Bianca, Il divieto del patto commissorio, cit., 187
e segg.; Id., Garanzie mediante alienazione simulata e conferimento al creditore di un mandato di vendere, in Foro Pad., 1958,
I, 455; Id., Patto commissorio, cit., 718; Fragali, Del mutuo, in
Comm. C.C. a cura di Scialoja, Branca, IV, Delle obbligazioni,
Bologna-Roma, 1966, 250; Sesta, Le garanzie atipiche, Padova,
1988, 13; R. Genghini, op. loc. ult. cit.; contra Andrioli, Tutela dei diritti, cit., 57).
creditore di restituire l’eventuale eccedenza, sı̀ da evitare il consolidarsi di indebiti arricchimenti in capo al
creditore 23.
La soluzione prospettata, oltre ad essere rispettosa
dell’autonomia negoziale delle parti (che qui si declina nella possibilità di dar vita a forme particolari di
rafforzamento del credito), è altresı̀ conforme al canone di autoresponsabilità gravante sul soggetto che
liberamente decide di immettersi nel traffico giuridico: non pare ragionevole né corretto attribuire al
debitore che dopo aver concluso un contratto né
squilibrato né altrimenti viziato decida, melius re perpensa, di invocare il rimedio caducatorio sancito dall’art. 2744 c.c. per liberarsi dalla garanzia convenzionale nonostante la sua assoluta inidoneità a tradursi
in un sacrificio patrimoniale ingiusto, tutto ciò risolvendosi, in ultima istanza, in un esercizio abusivo del
citato rimedio in spregio al generale dovere di correttezza e buona fede informante l’intera materia
delle obbligazioni in generale e del contratto in particolare.
Giurisprudenza Italiana - Marzo 2012
Diritto Civile | SALE AND LEASE BACK
575
In quest’ordine di idee non sembra condivisibile
l’atteggiamento della suprema Corte che, con la pronuncia in commento, non tiene in debito conto la
circostanza che la procura a vendere fosse altresı̀ accompagnata dalla previsione della determinazione del
prezzo del bene con riguardo al suo valore di mercato
(al momento dell’inadempimento del debitore) e dall’obbligo, gravante sul rappresentante/creditore, di
restituire al rappresentato/debitore l’eventuale eccedenza rispetto all’ammontare del credito garantito.
Meglio sarebbe stato, come del resto avvenuto sia in
primo che in secondo grado, sanzionare il comportamento abusivo del mutuante (che, nel caso di specie, attraverso il congegno dell’interposizione fittizia
di persona mirava ad eludere il divieto di autocontratto sancito dall’art. 1395 c.c.), con l’annullamento
della compravendita proprio ai sensi del citato art.
1395, previa dichiarazione di simulazione (relativa)
del contratto da questi concluso con la propria moglie.
Mimmo Albanese
SALE AND LEASE BACK
Cassazione civile, Sezione tributaria, 9 marzo
2011, n. 5583 — Panebianco Presidente — Scarano
Relatore — Gambardella P.M. (diff.) — Bioagricola
s.r.l. (avv. Altieri) - Agenzia delle entrate, Ministero
dell’economia e delle finanze (Avv. Gen. Stato).
Conferma Comm. trib. Salerno,
14 dicembre 2004, n. 250.
Obbligazioni e contratti — Autonomia privata —
Sale and lease back — Funzione di finanziamento —
Liceità — Accertamento — Necessità — Violazione
del divieto di patto commissorio — Configurabilità —
Condizioni (C.c. artt. 1344, 1963, 2744).
Il divieto di patto commissorio deve ritenersi violato
allorché lo scopo di garanzia assurga a causa concreta della vendita con patto di riscatto o di retrovendita e
non quando costituisca invece un mero motivo del contratto (1).
Omissis. — Relativamente al 4 motivo va infine sottolineato come questa Corte ormai da tempo abbia affermato che nel contratto di sale and lease back con il quale
una impresa commerciale o industriale vende un bene immobile di sua proprietà ad un imprenditore finanziario che
ne paga il corrispettivo, diventandone proprietario, e contestualmente lo cede in locazione finanziaria (leasing) alla
stessa venditrice, che versa periodicamente dei canoni di
leasing per una certa durata, con facoltà di riacquistare la
proprietà del bene venduto, corrispondendo al termine di
durata del contratto il prezzo stabilito per il riscatto, la vendita ha scopo di leasing, e non di garanzia, perché nella
configurazione socialmente tipica del rapporto costituisce
solo il presupposto necessario della locazione finanziaria,
inserendosi nella operazione economica secondo la funzione specifica di questa, che è quella di procurare all’imprenditore, nel quadro di un determinato disegno economico di potenziamento dei fattori produttivi, liquidità immediata mediante l’alienazione di un suo bene strumentale,
conservandone a questo l’uso con facoltà di riacquistarne la
proprietà al termine del rapporto.
Tale vendita, ed il complesso rapporto atipico nel quale si
inserisce, non è allora di per sé in frode al divieto del patto
commissorio. — Omissis.
Divieto che, essendo diretto ad impedire al creditore
l’esercizio di una coazione morale sul debitore spinto alla
ricerca di un mutuo (o alla richiesta di una dilazione nel caso
di patto commissorio ab intervallo) da ristrettezze finanziarie, e a precludere, quindi, al predetto creditore la possibilità
di fare proprio il bene attraverso un meccanismo che lo
sottrarrebbe alla regola della par condicio creditorum, deve
ritenersi tuttavia violato ogniqualvolta lo scopo di garanzia
costituisca non già mero motivo del contratto ma assurga a
causa concreta della vendita con patto di riscatto o di retrovendita (Omissis), a meno che non risulti, in base a dati
sintomatici ed obiettivi, quali la presenza di una situazione
credito-debitori a preesistente o contestuale alla vendita o la
sproporzione tra entità del prezzo e valore del bene alienato
e, in altri termini, delle reciproche obbligazioni nascenti dal
rapporto (Omissis), che la predetta vendita, nel quadro del
rapporto diretto ad assicurare una liquidità all’impresa alienante, è stata invero piegata al rafforzamento della posizione
del creditore-finanziatore, il quale in tal modo tenta di acquisire l’eccedenza del valore, abusando della debolezza del
debitore. — Omissis.
Cosı̀ come il c.d. leasing finanziario (Omissis), anche il
contratto di sale&lease back si configura, si è da questa
Corte precisato, secondo uno schema negoziale socialmente
tipico (in quanto frequentemente applicato, sia in Italia che
all’estero, nella pratica degli affari), come caratterizzato da
una specificità sia di struttura che di funzione (e, quindi, da
originalità e autonomia rispetto ai tipi negoziali codificati),
e concretamente attuato attraverso il collegamento tra un
contratto di vendita di un proprio bene di natura strumentale da parte di un’impresa (o di un lavoratore autonomo)
ad una società di finanziamento che, a sua volta, lo concede
contestualmente in leasing all’alienante il quale corrisponde, dal suo canto, un canone di utilizzazione con facoltà, alla scadenza del contratto, di riacquistarne la proprietà esercitando un diritto di opzione per un predeterminato prezzo.
Manca pertanto nel sale&lease back la trilateralità propria
del leasing, potendo essere due (e soltanto due) i soggetti
dell’operazione finanziaria (e, conseguentemente, le parti del
contratto), l’imprenditore assumendo la duplice veste del
fornitore-venditore e dell’utilizzatore, secondo un procedimento non diverso da quello dell’antico costituto possessorio. Ne consegue che il negozio di sale&lease back viola la
ratio del divieto del patto commissorio, al pari di qualunque
altra fattispecie di collegamento negoziale, sol che (e tutte le
volte che) il debitore, allo scopo di garantire al creditore
l’adempimento dell’obbligazione, trasferisca a garanzia del
creditore stesso un proprio bene riservandosi la possibilità di
riacquistarne il diritto dominicale all’esito dell’adempimento dell’obbligazione, senza peraltro prevedere alcuna facoltà,
in caso di inadempimento, di recuperare l’eventuale eccedenza di valore del bene rispetto all’ammontare del credito,
con un adattamento funzionale dello scopo di garanzia del
tutto incompatibile con la struttura e la ratio del contratto di
compravendita. — Omissis.
L’operazione contrattuale può dunque definirsi fraudolenta nel caso in cui si accerti, con una indagine che è
tipicamente di fatto, sindacabile in sede di legittimità
soltanto sotto il profilo della correttezza della motivazione,
la compresenza delle seguenti circostanze: l’esistenza di
una situazione di credito e debito tra la società finanziaria
e l’impresa venditrice utilizzatrice, le difficoltà economiche di quest’ultima, la sproporzione tra il valore del bene trasferito ed il corrispettivo versato dall’acquirente. —
Omissis.
L’esistenza invece di una concreta causa negoziale di scambio (che può riguardare, o meno, tanto il sale&lease back
quanto lo stesso leasing finanziario) esclude in radice la configurabilità del patto vietato. — Omissis.
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Diritto Civile | SALE AND LEASE BACK
576
(1) Lease back: chiaroscuri applicativi fra
funzione di finanziamento e garanzia
Sommario: 1. La fattispecie. — 2. La natura giuridica. —
3. I controversi rapporti con il divieto del patto commissorio. — 4. Le problematiche relative all’ammissibilità di
un lease back in funzione di garanzia.
1. La fattispecie.
La decisione contiene una lunga digressione — peraltro quasi obiter — sulla figura del sale and lease back.
Si tratta dell’operazione in cui un’impresa commerciale o industriale vende un bene di sua proprietà ad un
imprenditore finanziario che ne paga il corrispettivo
— diventandone proprietario — e contestualmente lo
cede in leasing (locazione finanziaria) alla stessa società
alienante, che versa periodicamente dei canoni di leasing per una durata temporale determinata, con facoltà
di riacquistare la proprietà del bene venduto corrispondendo alla scadenza del contratto il prezzo stabilito per il riscatto 1. Qualora la parte alienante non eserciti detta facoltà ben potrebbe comunque optare per la
continuazione della locazione finanziaria a canoni ridotti. La pronuncia si inscrive dunque in quel filone
giurisprudenziale — relativamente recente — che ammette tale fattispecie alla stregua di un complesso rapporto socialmente tipico 2. E infatti per diverso tempo
la giurisprudenza non ha riconosciuto la validità di
siffatta operazione sostenendo che non fosse meritevole di tutela. Questo perché si riteneva che detto negozio — configurando una sorta di alienazione in garanzia — impingesse nel divieto di patto commissorio
sancito dall’art. 2744 c.c. e ribadito all’art. 1963 c.c. in
tema di antı̀cresi. In verità in un primo tempo la Cassazione ha ritenuto questi contratti comunque validi,
anche se stipulati a scopo di garanzia, rilevando che il
trasferimento della proprietà del bene alla società di
leasing avrebbe effetto immediato 3 e pertanto esulerebbe dal meccanismo operativo del c.d. “patto commissorio”. Siffatta impostazione era basata su un’interpretazione letterale dell’art. 2744 c.c. che espressamente si riferisce solo al passaggio della proprietà che si
verifica a seguito dell’inadempimento. Ciò in considerazione della necessità di evitare al debitore una pressione in fase d’adempimento. Ove invece la predetta
1
In argomento Cassano, Il contratto di sale and lease back,
in Giur. It., 2005, 5, 927 e segg.; Lascialfari, Un lontano passato nel futuro del lease back: la validità del contratto tra acquisizioni commissorie e tutela marciana, in Giur. It., 2007, 8-9, 1956
e segg.; Id., La cessione dei crediti a scopo di garanzia, in ChinèLasciarfari-Magni, Le garanzie rafforzate del credito a cura di
Cuffaro, Torino, 2000, 288 e segg.
2
Sul punto Branca, Il “sale and lease back” si fa largo nel
nostro ordinamento, in Notariato, 2004, 5, 494 e segg.; Calice,
Sale and lease back: la Suprema Corte ne riafferma la “tendenziale” liceità, in Contratti, 2004, 11, 1014 e segg. In giurisprudenza cfr. Cass., 22 marzo 2007, n. 6969, in Mass. Giur. It., 2007;
Id., 14 marzo 2006, n. 5438, in Dir. e Prat. Società, 2007, 9, 70,
con nota di Petri; Id., 2 febbraio 2006, n. 2285, in Obbligazioni
e contratti, 2006, 6, 549.
3
Cosı̀ Cass., 6 marzo 1978, n. 1104, in Arch. Civ., 1978, 864
e segg.
4
Cfr. Cass., Sez. un., 3 aprile 1989, n. 1611, in Foro It., 1989,
I, 1428 e segg.; Id., 3 giugno 1983, n. 3800, in Foro It., 1984, I,
212 e segg. Più recentemente App. Cagliari, 3 marzo 1994, in
Giur. Comm., 1994, II, 662, con nota di Chessa; Trib. Genova,
Giurisprudenza Italiana - Marzo 2012
pressione fosse esercitata in sede di conclusione del
contratto ben avrebbe potuto la parte avvalersi degli
specifici rimedi previsti dalla legge per detta fase (annullamento, rescissione, risoluzione). Siffatta analisi ricostruttiva nega dunque recisamente la riconducibilità
del lease back entro il paradigma normativo del divieto
di patto commissorio, poiché nella fattispecie si verifica un passaggio di proprietà immediato, dunque non
differito né condizionato. Tale soluzione è stata tuttavia aspramente criticata dai formanti sociali, per cui
negli anni successivi si è verificato un completo revirement da parte della suprema Corte che — a Sezioni
unite — ha precisato come la violazione del patto commissorio sarebbe operante in qualsiasi contratto in cui
la garanzia venisse a connotarsi come la sua stessa causa, a nulla rilevando l’immediato verificarsi dell’effetto
traslativo 4. La dottrina invece — eccetto qualche autorevole ma isolata opinione 5 — è stata sempre prevalentemente orientata nel senso della liceità 6 del lease
back.
Ciò anche sulla scorta delle esperienze giuridiche di
altri paesi dell’Europa continentale, ove il lease back ha
trovato da tempo espresso riconoscimento. Il legislatore francese ha infatti inserito nel sistema positivo
siffatta figura fin dal 1966. La dottrina francese peraltro — a proposito del lease back — tende a negarne la
natura locativa configurandolo piuttosto come un prestito di denaro.
2. La natura giuridica.
Ulteriore quesito attiene la natura giuridica del lease
back. Secondo una tesi tale operazione si sostanzierebbe infatti in una pluralità di negozi, consistente nella
combinazione fra un duplice contratto di vendita e di
leasing intercorrente fra i medesimi soggetti 7. In tale
prospettiva una delle parti rivestirebbe un doppio ruolo in due distinti contratti: alienante nella vendita ed
utilizzatore nel leasing. Siffatta analisi ricostruttiva parrebbe maggiormente ancorata all’origine storica del
lease back, che sorge come variante autonoma del leasing, figura concettuale mutuata dall’esperienza statunitense 8 diffusa in Italia a partire dagli anni Sessanta
del secolo scorso dapprima come negozio socialmente
tipico e successivamente oggetto di riconoscimento
normativo ex art. 17 legge n. 183/1976 che la definisce
30 gennaio 1992, in Riv. Notar., 1993, 926; App. Brescia, 29
giugno 1990, in Riv. Notar., 1991, 181.
5
In tal senso Ferrarini, La locazione finanziaria («Leasing»), in Tratt. Dir. Priv. a cura di Rescigno, 11, Obbligazioni e
contratti, Torino, 1984, III, 17; Corbo, Autonomia privata e
causa di finanziamento, Milano 1990, 216 e segg.
6
V., ex multis, De Nova, Appunti sul sale and lease back e
il divieto del patto commissorio, in Rivista italiana del leasing,
1985, 308 e seggg.; Clarizia, La locazione finanziaria, in
Nuova Giur. Comm., 1985, II, 42 e segg.; Ghia, I contratti di
finanziamento dell’impresa. Leasing e factoring, Milano, 1997,
62 e segg.
7
Sul punto Cricenti, I contratti in frode alla legge, Milano,
1996, 115 e segg.
8
In argomento Mirabelli, Il leasing e il diritto italiano, in
Banca Borsa, 1974, I, 228 e segg.; Gabrielli, Sulla funzione del
leasing, in Riv. Dir. Civ., 1979, II, 465 e segg.; De Nova, Il
leasing e il factoring come strumenti di finanziamento, in Riv. Dir.
Civ., 1983, 9 e segg.; Zeno Zencovich, L’equivalenza delle
prestazioni nei contratti di leasing, in Rivista italiana del leasing,
1986, 240 e segg.
Diritto Civile | SALE AND LEASE BACK
«operazione di locazione di beni mobili o immobili,
acquistati o fatti costruire dal locatore, su scelta e indicazione del conduttore che ne assume tutti i rischi, e
con facoltà per quest’ultimo di divenire proprietario
dei beni locati al termine della locazione, dietro versamento di un prezzo prestabilito». Altra prospettazione 9 qualificherebbe invece il lease back alla stregua di
una struttura unitaria, in virtù delle sue caratteristiche
strutturali e funzionali. Si tratterebbe in pratica di
un’autonoma figura contrattuale 10. Nella pronuncia in
esame la Cassazione aderisce ad una teoria per cosı̀ dire
eclettica, di raccordo fra entrambe le sopra citate impostazioni, sottolineando da un lato l’originalità nonché l’autonomia di struttura e di funzione del lease
back quale schema negoziale socialmente tipico e dall’altro il meccanismo operativo della figura coincidente
con il collegamento fra un contratto di vendita ed uno
di leasing. Ricorrerebbe in tal caso il fenomeno del c.d.
“collegamento negoziale” presente allorché in una pluralità di negozi l’uno influenzi l’altro in termini di validità ed efficacia a cagione delle proprie peculiarità
strutturali (c.d. “collegamento genetico”) oppure applicative (c.d. “collegamento funzionale”) in guisa tale
che sussista fra questi un evidente nesso d’interdipendenza. È opportuno precisare che parte della dottrina 11 ritiene necessaria la sussistenza di un’esplicita manifestazione di volontà delle parti contraenti al fine di
configurare un collegamento negoziale. Ciò in armonia
con la giurisprudenza che riconosce in detto fenomeno
un elemento soggettivo costituito dal comune intento
pratico delle parti di volere non solo l’effetto tipico dei
singoli negozi in concreto posti in essere, ma anche il
coordinamento tra di essi per la realizzazione di un fine
ulteriore, che ne trascende gli effetti tipici e che assume
una propria autonomia anche dal punto di vista causale 12. Pertanto, il criterio distintivo tra contratto unico e contratto collegato non è dato da elementi formali,
quali l’unità o la pluralità dei documenti contrattuali, o
dalla contestualità delle stipulazioni, bensı̀ dall’elemento sostanziale dell’unicità o pluralità degli interessi
perseguiti 13.
In pratica, il collegamento negoziale si realizza attraverso la creazione di un vincolo tra i contratti che, nel
rispetto della causa e dell’individualità di ciascuno, li
indirizza al perseguimento di una funzione unitaria che
trascende quella dei singoli contratti e investe la fattispecie negoziale nel suo complesso 14.
Siffatta interdipendenza funzionale è presente nello
schema del lease back, in cui mentre una parte cede il
bene conservandone tuttavia il materiale godimento
9
In tal senso Chessa, Sale and lease-back qualificazione dell’operazione e interferenze con il divieto di patto commissorio, in
Giur. Comm., 1994, II, 669 e segg.; Cinquemani, Sale and lease
back tra liceità e frode al divieto del patto commissorio, in Giur.
It., 1996, I, 1, 1381 e segg.; Oberto, Vendita con patto di riscatto,
divieto del patto commissorio e contratto di lease back, in Quadrimestre, 1984, 372. In giurisprudenza Cfr. App. Cagliari, 3
marzo 1993, in Riv. Giur. Sarda, 1994, 301; Trib. Milano, 3
marzo 1988, in Rivista italiana del leasing, 1988, 445, con nota di
Pelosi.
10
Cosı̀ Fanan, Lease back, in I contratti del commercio, dell’industria e del mercato finanziario, Torino, 1996, 789 e segg.
11
Per tutti De Gennaro, I contratti misti, Padova, 1934, 61.
12
Cosı̀ Cass., 17 maggio 2010, n. 11974, in Mass. Giust. Civ.,
2010, 5, 761.
577
l’altra ne acquista invece la titolarità consapevole dell’altrui fruizione del cespite 15.
Tale caratteristica varrebbe inoltre a differenziare la
figura del lease back dal tradizionale archetipo del leasing, in cui la vendita ed il leasing non sarebbero contratti collegati poiché il fornitore non pone in essere la
vendita in funzione della circostanza che la res sarà in
un momento successivo concessa in leasing all’acquirente 16.
Si discute se il collegamento negoziale coessenziale
alla struttura del lease back abbia carattere reciproco
oppure unilaterale. Siffatta questione — lungi dal risolversi in una mera disputa dottrinaria — implica notevoli conseguenze pratiche. Ove infatti si ritenga che il
predetto collegamento abbia rilievo bilaterale le vicende patologiche (nullità, annullabilità, rescissione, risoluzione) della vendita si ripercuoteranno sul leasing e
viceversa. Tale ultimo effetto non si verificherebbe laddove si acceda invece ad una concezione unilaterale del
collegamento negoziale sotteso al lease-back. In questa
prospettiva, infatti, le vicende della vendita sarebbero
idonee ad incidere sull’efficacia o validità del leasing ma
quelle del leasing non influirebbero sulla vendita che
resterebbe ad esse per cosı̀ dire impermeabile.
La tesi che sostiene la natura bilaterale 17 del collegamento sottolinea come nella maggior parte dei casi la
determinazione volitiva delle parti sia orientata al riacquisto finale della titolarità del cespite da parte dell’utilizzatore. Di conseguenza l’eventuale inefficacia o
invalidità del leasing determinerebbe la caducazione
del collegato contratto di vendita poiché i contraenti
non avrebbero più alcun interesse a mantenerlo in essere.
Ulteriore prospettazione 18 conclude invece per
l’unilateralità di siffatto collegamento, accogliendo una
qualificazione meramente strumentale del contratto di
vendita rispetto a quello di finanziamento. In pratica le
parti porrebbero in essere la vendita non per il suo
tipico effetto di scambio bensı̀ al fine di ottenere la
stipula del leasing e la garanzia del pagamento del relativo canone. A causa di tale nesso strumentale l’inadempimento dell’obbligo di pagamento dei canoni potrebbe comportare la risoluzione del contratto di leasing ma non già di quello di vendita, che resterebbe
comunque in vita.
3. I controversi rapporti con il divieto del patto commissorio.
La giurisprudenza italiana, peraltro, anche ove ammette la liceità della fattispecie del lease back ne circo13
Lo rileva Cass., 26 marzo 2010, n. 7305, in Mass. Giur. It.,
2010.
14
Sul punto Cass., Sez. un., 25 novembre 2008 n. 28053, in
Mass. Giur. It., 2008.
15
Cfr. Ghini, Lease back: provvisorio passaggio di proprietà
e liquido per le iniziative imprenditoriali, in Riv. Dott. Commercialisti, 1999, 48.
16
Cosı̀ De Nova, Il contratto e la giurisprudenza, in Manuale
del leasing a cura di Carretta, De Laurentis, Milano, 1998,
37.
17
In tal senso De Nictolis, Nuove garanzie reali e personali:
Garantievertrag, fideiussione ominibus, lettere di patronage, sale-lease back, Padova, 1988, 445 e segg.
18
Lo rileva Cricenti, op. cit., 115; Cfr. altresı̀ Leo, Il lease
back approda in Cassazione, in Giur. It., 1997, I, 1, 686.
Giurisprudenza Italiana - Marzo 2012
Diritto Civile | SALE AND LEASE BACK
578
scrive tuttavia in modo significativo la portata applicativa perché la identifica con una connotazione negativa
sostanzialmente coincidente con i casi che si sottrarrebbero all’applicazione del divieto del patto commissorio. Ciò in ossequio ad un’asserita lettura «materiale» e non già «formale» dell’art. 2744 c.c., che risulterebbe applicabile ad ogni operazione teleologicamente
orientata ad uno scopo di garanzia 19. Siffatta linea interpretativa ha determinato il sorgere di distinzioni e
classificazioni — frutto della funzione nomopoietica di
un’attenta giurisprudenza pretoria soprattutto di merito 20 — fra un lease back c.d. normale nonché lecito e
diverse varianti c.d. anomale e illecite perché in frode
al disposto dell’art. dell’art. 2744 c.c. In particolare
questo processo ha condotto all’elaborazione di tutta
una serie d’indici da cui desumere l’anomalia dell’operazione. Tale soluzione è stata fatta propria anche dalla
Cassazione nella decisione in esame. A giudizio della
suprema Corte, infatti, il divieto di patto commissorio
dovrebbe ritenersi violato allorché risulti che il lease
back sia volto al rafforzamento della posizione del creditore-finanziatore in base a dati sintomatici ed obbiettivi quali la presenza di un rapporto debitorio presistente o contestuale alla vendita o la sproporzione fra
entità del prezzo e valore del bene alienato. Tuttavia
detto assunto non sembrerebbe pienamente condivisibile. E infatti la giurisprudenza sembrerebbe impostare la valutazione della liceità del lease back su profili
relativi alla condizione soggettiva delle parti quali le
difficoltà economiche del venditore oppure la sproporzione fra il valore del bene trasferito e il corrispettivo
versato dall’acquirente piuttosto che su aspetti attinenti alla fattispecie oggettiva del contratto 21. Ciò in difformità al disposto dell’art. 2744 c.c. che si limita a
vietare il patto con cui si conviene — in mancanza del
pagamento del credito nel termine fissato — il passaggio della proprietà della cosa ipotecata o data in pegno
al creditore. Occorre pertanto sottolineare come
l’eventuale sproporzione fra le prestazioni — rilevante
ai fini della rescissione o risoluzione del contratto —
non rivesta alcuna importanza con riferimento al divieto del patto commissorio. Questo perché siffatto
divieto è operante anche nei confronti di pattuizioni
che remunerino equamente il bene trasferito. In presenza di un patto commissorio, peraltro, si ritiene che
l’operazione di lease back sia nulla perché posta in
essere in frode alla legge ai sensi dell’art. 1344 c.c.
19
Cfr. Luminoso, La vendita con riscatto, in Comm. C.C. a
cura di Schlesinger, Milano, 1987, 227 e segg..; Barba, La connessione tra negozi ed il collegamento negoziale, in Riv. Trim. Dir.
Proc. Civ., 2008, 4, 1167 e segg.; Pironti, Collegamento negoziale ed autonomia disciplinare dei contratti collegati, in Contratti, 2008, 12, 999 e segg.; Battelli, Il collegamento negoziale
occasionale, in Contratti, 2008, 2, 134 e segg.; Fochesato, Causa unitaria nell’ambito dell’operazione di leasing finanziario e
tutela dell’utilizzatore: una svolta della Cassazione?, in Contratti,
2007, 4, 374 e segg.
20
V. Trib. Milano, 13 giugno 1985, in Foro Pad., 1986, I, 105.
Cfr. altresı̀ Cass., 22 marzo 2007, n. 6969, in Mass. Giur. It.,
2007; App. Roma, 26 gennaio 2006, in Obbligazioni e contratti,
2006, 6, 556.
21
Sul punto Lascialfari, op. cit., 1958.
22
Cfr. Cass., 4 ottobre 2010, n. 20576, in Giust. Civ., 2011, 2,
379; Cass., 9 luglio 2009, n. 16130, in Mass. Giur. It., 2009.
Giurisprudenza Italiana - Marzo 2012
Detta norma è volta a reprimere le pattuizioni conformi alla lettera della legge benché contrarie al suo spirito 22. È il caso della vendita con patto di riscatto o di
retrovendita (c.d. pactum de retroemendo) stipulata per
una causa di garanzia invece della tipica causa di scambio. La giurisprudenza 23 ritiene che siffatto negozio si
sostanzierebbe in un mutuo assistito da un patto commissorio poiché il trasferimento del bene servirebbe
unicamente a costituire una posizione di garanzia
provvisoria portata ad evolversi in relazione alla circostanza dell’adempimento o inadempimento del debitore. Da ciò discenderebbe la nullità di siffatta pattuizione in quanto volta ad eludere la norma imperativa
prevista all’art. 2744 c.c. pur non violandola direttamente. In tale ipotesi la causa del negozio sarebbe dunque illecita con contestuale applicazione della sanzione
prevista dall’art. 1344 c.c. L’intento del legislatore è
infatti quello di impedire che il creditore possa acquisire beni di valore nettamente superiore all’importo del
suo credito, nell’inosservanza altresı̀ del principio della
par condicio creditorum. In tale ottica — propugnata da
autorevole dottrina — siffatto divieto sarebbe precipuamente posto a tutela dei creditori che correrebbero
il rischio della sottrazione di un cespite alla garanzia
comune dei loro crediti 24. Detta ricostruzione si contrappone dunque all’impostazione più tradizionale secondo cui la ratio del divieto di patto commissorio
inerirebbe la tutela del debitore quale contraente presumibilmente più debole 25. Tuttavia tale ultima prospettazione non sembrerebbe pienamente convincente. E infatti l’attuale evoluzione normativa ha condotto
all’inserimento, nel sistema civilistico, di una miriade
di strumenti ben più efficaci del mero divieto del patto
commissorio volti alla tutela del contraente presumibilmente più debole. Si pensi, ad esempio, alla disciplina delle c.d. “clausole vessatorie” di cui all’art. 33
del D.Lgs. n. 206/2005 (c.d. codice del consumo). Tali
rimedi si rivelano maggiormente incisivi perché assistiti dal sistema della c.d. “nullità relativa”. In tal modo
spetta solo alla parte contrattuale ritenuta più debole
optare o meno per la caducazione dell’assetto d’interessi potenzialmente lesivo della propria sfera giuridica. E infatti la tutela di una parte nei confronti delle
possibili prevaricazioni dell’altra è di norma attuata dal
sistema civilistico attraverso meccanismi azionabili
unicamente su istanza della parte lesa. Ciò a differenza
di quanto avviene nella fattispecie di cui all’art. 2744
23
V., per tutti, Cass., 7 settembre 2009, n. 19288, in Giust.
Civ., 2009, 12, I, 2682.
24
Nel senso del contrasto fra il patto commissorio e il principio della par condicio creditorum cfr. Carnelutti, Mutuo pignoratizio e vendita con clausola di riscatto, in Riv. Dir. Proc.,
1946, II, 146 e segg.; Amorth, Divieto del patto commissorio
apposto a un mutuo ipotecario, in Riv. Trim. Dir. Proc. Civ., 1949,
717 e segg.; Miele, Sul patto commissorio immobiliare, in Riv.
Dir. Comm., 1946, II, 65 e segg.; Andrioli, Divieto del patto
commissorio, in Niccolò-Andrioli-Gorla, Della responsabilità patrimoniale, delle cause di prelazione e della conservazione
della garanzia patrimoniale, in Comm. C.C. a cura di Scialoja,
Branca, 2a ed., Bologna-Roma, 1958, 50 e segg.
25
Sul punto Roppo, Note sopra il divieto del patto commissorio, in Riv. Notar., 1981, 401 e segg.
Diritto Civile | SALE AND LEASE BACK
579
c.c., in cui la nullità della pattuizione è indisponibile,
assoluta e rilevabile d’ufficio perché corrispondente ad
un interesse non già unicamente della parte più debole
ma bensı̀ superindividuale: quello al rispetto del principio della par condicio creditorum. Pertanto il divieto
di patto commissorio costituisce un rimedio avverso
l’indebito conseguimento del sopra citato plusvalore
da parte del creditore e non già contro l’iniquità delle
prestazioni del contratto 26. A fronte di una sproporzione delle prestazioni, infatti, gli strumenti di tutela
del contraente più debole sono quelli della rescissione
per lesione del contratto concluso in stato di bisogno
(se il vizio è genetico) ex art. 1448 c.c. o della risoluzione per eccessiva onerosità sopravvenuta (in ipotesi
di vizio c.d. “funzionale”) ex art. 1467 c.c.
Inoltre a tale operazione potrebbe forse applicarsi in
via analogica il disposto dell’art. 2803 c.c. che impone
al creditore pignoratizio di ritenere il denaro ricevuto
nella misura idonea a soddisfare le proprie ragioni e di
restituire il residuo al costituente, onde prevenire l’ingiustificato arricchimento del finanziatore. L’applicazione della richiamata norma potrebbe operare ipso
iure, in via integrativa dell’assetto d’interessi voluto
dalle parti oppure, più verosimilmente, attraverso
un’esplicita convenzione.
È altresı̀ opportuno sottolineare come sia particolarmente inappropriato per l’operatore giuridico concreto — in primis il notaio — ancorare il giudizio sulla
liceità del lease back a requisiti cosı̀ vaghi e atecnici
quali le difficoltà economiche del venditore oppure la
sproporzione fra il valore del bene trasferito e il corrispettivo versato dall’acquirente. E infatti l’art. 28 della
legge notarile (R.D. n. 89/1913) impone al notaio di
ricusare di ricevere solo gli atti espressamente vietati
dalla legge. Orbene in presenza di un contratto di lease
back si comprende come il notaio non potrebbe rifiutare di redigere il relativo atto perché non espressamente vietato dalla legge. Tuttavia questi rischierebbe
agevolmente di incorrere nelle strette maglie della responsabilità professionale ove la liceità del negozio fosse valutata in relazione ai sopra citati requisiti, peraltro
poco suscettibili di sindacato ex ante da parte del professionista. Lo strumento forse più adeguato al fine di
depurare il lease back dai rischi di sovrapposizione con
la disciplina del divieto del patto commissorio risultante dall’interpretazione di parte della giurisprudenza
sarebbe allora la predisposizione della cautela marciana 27, meccanismo negoziale attraverso cui al momento
in cui il creditore consegue la titolarità del bene — in
seguito all’inadempimento dell’obbligazione garantita — il valore del bene de quo è sottoposto ad una stima
peritale prodromica alla restituzione in favore del debitore dell’eventuale eccedenza del valore stesso rispetto all’ammontare del credito rimasto insoluto. In
particolare, il patto commissorio si differenzierebbe da
quello marciano perché quest’ultimo si configura
quando il creditore insoddisfatto diviene definitivo
proprietario del bene ma con l’obbligo di versare la
differenza tra l’importo del credito e il valore del bene
stimato successivamente all’inadempimento. La linea
di demarcazione dalla pattuizione commissoria si coglie pertanto non in ragione della semplice rilevazione
che non è svantaggioso per il debitore ma della circostanza che mentre nel patto commissorio la vantaggiosità del negozio per l’equivalenza tra valore del bene e
valore del credito garantito è del tutto casuale, nel patto marciano essa è assunta a contenuto stesso del contratto: costituendo oggetto di un precipuo diritto del
debitore 28.
Di conseguenza la cautela marciana è uno strumento
idoneo ad elidere entrambe le conseguenze negative
che le sopra citate tesi contrapposte pongono come
fondamento del divieto di patto commissorio: l’inosservanza del principio della par condicio creditorum e lo
squilibrio del sinallagma contrattuale, in quanto la stima del bene oggetto di garanzia volta a qualificare
l’eventuale maggior costo che dovrebbe sopportare il
creditore per acquisire la titolarità del cespite — pagando un prezzo aggiuntivo al debitore — sarebbe
idonea a ristabilire l’equilibro sinallagmatico 29 fra le
prestazioni del contratto di lease back.
26
Cfr. Cass., 10 marzo 2011, n. 5740, in Giust. Civ., 2011, 6,
1449; Id., 18 gennaio 2010, n. 649, in Mass. Giur. It., 2010. In
dottrina v. Navone, Il divieto di patto commissorio nell’ermeneutica contrattuale: la linea di confine tra il patto vietato e la
datio in solutum, in Nuova Giur. Civ. Comm., 2008, I, 1435 e
segg.; Valentino, La circolazione dei beni in funzione di garanzia, in Rass. Dir. Civ., 2007, 511; Scozzafava, Note in tema di
alienazione a scopo di garanzia, in Contratto e Impresa, 2006, 16;
Mattiangeli, Divieto di patto commissorio, ratio, fondamento
ed analisi delle posizioni di dottrina e giurisprudenza, in Vita
Notar., 2006, 1092; Verdi, Patto commissorio e collegamento
negoziale, in Riv. Dir. Civ., 2006, II, 509.
27
Cfr. Trib. Roma, 16 settembre 2008, in Giust. Civ., 2009, 6,
I, 1424.
28
In argomento Bianca, voce “Patto commissorio”, in Noviss. Dig .It., Torino 1976, XII, 718 e segg.; Minniti, Patto marciano e irragionevolezza del disporre in funzione di garanzia, in Riv.
Dir. Comm., 1997, 1-2, 29 e segg. Cfr. altresı̀ Cipriani, Patto commissorio e patto marciano, Napoli 2000, 12 e segg.; Ragazzini,
Vendita in garanzia con patto di riscatto. Patto commissorio. Patto
marciano, in Riv. Notar., 1991, 1-2, 133 e segg.; Quartapelle,
Divieto del patto commissorio, trasferimento della proprietà e del
credito in garanzia, sale and lease back e patto marciano, in Vita
Notar., 1989, 1-3, 246 e segg. Più recentemente Cipriani, La
cessione di crediti a scopo di garanzia tra patto commissorio e patto
marciano, in Riv. Dir. Impresa, 2010, 1, 129 e segg.
29
In tal senso Trib. Monza, 24 maggio 1988, in Foro It., 1989,
I, 1271.
4. Le problematiche relative all’ammissibilità di un lease back in funzione di garanzia.
Alla luce di quanto prospettato si evince come non
sia condivisibile la tralatizia asserzione della Cassazione secondo cui la causa di garanzia renderebbe in ogni
caso illecita l’operazione di lease back.
Questo perché anche un lease back in funzione di
garanzia potrebbe astrattamente non confliggere con il
divieto del patto commissorio ove al creditore non sia
consentita l’automatica appropriazione dell’eventuale
plusvalore fra l’importo dell’obbligazione garantita e il
valore del cespite offerto in garanzia. Si pensi ad esempio al lease back in funzione di garanzia avente ad oggetto un bene mobile del medesimo valore dell’obbligazione garantita. Tralasciando tale ipotesi di scuola,
sembrerebbe comunque adeguato asserire che non sarebbe la mera funzione di garanzia a determinare l’illiceità del lease back. Detta illiceità deriverebbe invece
dall’assenza di criteri volti ad impedire che il finanziatore si arricchisca ingiustificatamente, sfruttando a
Giurisprudenza Italiana - Marzo 2012
Diritto Civile | FALSUS PROCURATOR
580
proprio vantaggio la differenza fra il valore del bene al
momento dell’inadempimento dell’utilizzatore e il corrispettivo pagato 30.
E infatti delle due l’una: o la pattuizione contiene un
patto commissorio nel senso sopra chiarito ed allora è
vietata ai sensi degli artt. 1963 e 2744 c.c.; o l’accordo
è scevro dal predetto patto — eventualmente in virtù
dell’apposizione della cautela marciana — e allora è
permesso, a prescindere dalla sussistenza o meno della
funzione di garanzia. Questo perché ciò che l’ordinamento intende precludere non è la stipula di un negozio in funzione di garanzia bensı̀ quella forma di autotutela satisfattoria del creditore in spregio alla par condicio creditorum e alle ragioni della parte contrattuale
presumibilmente più debole che si sostanzia nell’accordo commissorio.
Occorre peraltro rilevare — come osservato da attenta dottrina 31 — che il patto commissorio costituisce
uno strumento attinente al profilo solutorio e non già a
quello della garanzia.
Ciò in quanto nello schema negoziale in esame la
funzione di garanzia (del contratto di vendita) e quella
solutoria (della convenzione commissoria) rimangono
separate: la prima si realizza in ogni caso, la seconda
— ove apposta — resta eventuale operando solo a
seguito dell’inadempimento del credito garantito.
Sicché proprio non si comprende per quale ragione a
proposito del lease back il menzionato filone giurisprudenziale propenda per l’asserita illiceità dell’operazione di garanzia nel suo complesso e non già del solo ed
eventuale segmento commissorio, ove precipuamente
risiede l’effetto contra legem.
In tale ipotesi sarebbe forse invece applicabile il disposto dell’art. 1419 c.c. per cui la nullità di singole
clausole di un contratto determina l’invalidità dell’intero negozio solo se risulta che i contraenti non lo
avrebbero concluso senza quella parte del suo contenuto che è colpita dalla nullità.
Ciò anche in ossequio al principio — immanente nel
nostro ordinamento — della conservazione del contratto.
È inoltre opportuno sottolineare come nella fattispecie del lease back la vendita è per cosı̀ dire pura, ossia
non sottoposta ad alcun tipo di condizione — sospensiva o risolutiva — né collegata all’eventuale adempimento o inadempimento del venditore 32.
Questo perché all’integrale pagamento dei canoni
non segue la risoluzione del contratto di vendita, bensı̀
l’esercizio del diritto di opzione di acquisto da parte
dell’utilizzatore-venditore mediante il pagamento del
relativo prezzo. Tali caratteristiche varrebbero a differenziare siffatta operazione dall’ipotesi — in precedenza menzionata — della vendita a scopo di garanzia 33.
Al contrario l’eventuale inadempimento da parte
dell’utilizzatore non rende il concedente proprietario
del bene trasferito dato che ad egli già appartiene a
titolo definitivo siffatta titolarità. Un’ulteriore circostanza che parrebbe allontanare il lease back — ancor30
Cosı̀ Imbrenda-Carmini, Leasing e lease back, in Trattato
di diritto civile del Consiglio nazionale del Notariato a cura di
Perlingieri, Napoli, 2008, 367.
31
Imbrenda-Carmini, op. cit., 371 e segg.
32
Sul punto Clericò, Sale and lease back e patto commissorio, in Riv. Notar., 2006, 1577 e segg.
Giurisprudenza Italiana - Marzo 2012
ché stipulato in funzione di garanzia — dalle fattispecie potenzialmente lesive del divieto del patto commissorio è infine l’insussistenza, nella maggior parte dei
casi, di un precedente rapporto creditorio fra il venditore e l’acquirente.
Il dibattito relativo all’ammissibilità di un lease back
in funzione di garanzia sembrerebbe dunque mutatis
mutandis ripercorrere — a distanza di alcuni decenni — la vivace dialettica fra formanti sociali che ha
condotto al riconoscimento della liceità e della tipicità
sociale nel nostro ordinamento dapprima del leasing e
successivamente del lease back c.d. normale od ordinario.
Alla giurisprudenza si chiede pertanto un deciso passo in direzione di una qualificazione sostanziale delle
istanze sottese al divieto di patto commissorio. Solo
un’interpretazione particolarmente attenta alla lettera
ed allo spirito degli artt. 1963 e 2744 c.c. potrebbe
infatti scongiurare un applicazione di tale divieto tralatizia e acritica perché scissa dalla sua ratio, che non
sembra differenziarsi dal comportamento dell’ebbro
portato ad aggrapparsi al lampione non per ricevere
illuminazione bensı̀ sostegno.
Giorgio Rispoli
FALSUS PROCURATOR
Cassazione civile, II Sezione, 8 marzo 2011,
n. 5425 — Elefante Presidente — Bianchini Relatore — Fedeli P.M. (conf.) — B.M ed altro (avv. Piergiorgio) - S.n.c. O.T.A.M.A (avv. Sabre).
Conferma App. Torino, 3 ottobre 2003, n. 886.
Contratti in genere — Rappresentanza — Negozio
concluso dal falsus procurator — Ratifica — Fattispecie a formazione progressiva — Invalidità — Esclusione — Inefficacia — Sussistenza (C.c. artt. 1398,
1399).
Il contratto concluso dal falso rappresentante costituiva una fattispecie soggettivamente complessa a formazione successiva, che rimane inefficace nei confronti del
dominus sino alla ratifica (1).
Omissis. — La snc OTAMA di B. C. & C. citò innanzi
al Tribunale di Saluzzo i coniugi B.M. e Z.S. chiedendo
che fossero condannati a pagare L. 45 milioni — oltre interessi e rivalutazione — per l’acquisto di un trattore. La B. si
costituı̀ eccependo la carenza della propria legittimazione
passiva perché il contratto era stato sottoscritto dal marito
quale titolare di autonoma impresa agricola e con il quale
vigeva il regime patrimoniale della separazione dei beni; in
subordine fece valere la nullità del contratto per indeterminatezza dell’oggetto — non essendo stata indicata la targa né
altri elementi identificativi — e, in via di ulteriore subordine,
chiese che il contratto fosse risolto in quanto il trattore,
acquistato usato, era affetto da vizi che lo avevano reso ini-
33
Cfr. Cass., 4 novembre 1996, n. 9540, in Riv. Notar., 1998,
1013, con nota di De Martinis. In argomento Baralis, Vendita per ragioni di garanzia e vendita per ragioni di bisogno, in Riv.
Notar., 2009, 2, 317 e segg.; Iurilli, Alienazioni a scopo di
garanzia e patto commissorio, in Giur. It., 1999, 10, 1825 e segg.
Diritto Civile | FALSUS PROCURATOR
doneo all’uso. Lo Z. si costituı̀, eccependo a sua volta la
nullità del negozio in quanto sottoscritto per conto di una
impresa agricola — quella intestata alla moglie — senza la
necessaria autorizzazione; parimenti fece valere la indeterminatezza dell’oggetto della compravendita e l’assoluta inidoneità del mezzo acquistato. L’adito Tribunale, pronunziando sentenza n. 490/2001, respinse la domanda nei confronti di entrambi i convenuti; proposero appello la società
soccombente e gravame incidentale gli appellati; all’esito del
procedimento di impugnazione la Corte di Appello di Torino, con sentenza n. 886/2003, condannò la sola B. al pagamento di Euro 23.240,56 — libera restando la stessa di ritirare il mezzo presso la venditrice, presso la quale era rimasto
ricoverato per l’esecuzione delle riparazioni e non più ripreso — regolando di conseguenza le spese di lite. Il giudice del
gravame pervenne a tale determinazione ritenendo che la B.
avesse tenuto, nei confronti della venditrice, un comportamento concludente — rappresentato dall’uso del trattore sui
propri fondi e dalla contestazione dei vizi alle società alienante — che univocamente doveva essere interpretato come
ratifica dell’operato del marito; ritenne al contempo infondata la reiterata deduzione di non identificabilità del mezzo
e non provata la sussistenza di vizi redibitori, tenuto conto
che il trattore era stato acquistato usato. I coniugi Z. hanno
proposto ricorso in cassazione sulla base di sei motivi, contro
i quali ha resistito con controricorso la snc OTAMA.
Motivi: 1 — I ricorrenti, con il primo motivo, deducono la
“nullità del giudico per carenza di legitimatio ad processus
stante la nullità della procura ad litem della soc. OTAMA
C.C. snc, in relazioneall’art. 360 c.p.c., n. 4” in ragione del
fatto che il mandato professionale trascritto a margine dell’atto di appello e della citazione in primo grado sarebbe
stato conferito da persone fisiche di cui non sarebbe stata
allegata la titolarità di poteri rappresentativi in capo alla
società neppure nell’intestazione dell’impugnazione. Il motivo non è fondato. 1/a — Invero va innanzi tutto escluso che
possa esser scrutinato in sede di legittimità un vizio della
sentenza di primo grado che non sia stato fatto valere come
motivo di appello; 1/b — in secondo luogo la verifica della
legittimazione va condotta sulla procura in relazione alle
indicazioni contenute nella intestazione dell’atto introduttivo del giudizio: dal momento che i conferenti la procura
erano indicati come B.G. e B.A. e che nella intestazione
dell’appello la società impugnante era denominata O.T.A.M.A. di Bertinetti C & C doveva presumersi che i citati B.
avessero inteso agire non nomine proprio ma nella qualità di
rappresentanti della società. 1/c — Va altresı̀ sottolineato
che la chiara indicazione del nome e del cognome dei conferenti la procura e l’inserimento del cognome B. nella ragione sociale della società di persone già di per sé costituiva
allegazione di un potere rappresentativo — con presunzione
rafforzata dalla descrizione, in questa sede non contestata,
nell’epigrafe del presente ricorso di legittimità, dello stesso
B.G. come legale rappresentante della succitata società — a
fronte della quale sarebbe stato onere della eccipiente contrastarne la corrispondenza con l’effettiva attribuzione —
per statuto o con atto soggetto a pubblicità legale — mediante specifica deduzione difensiva: ciò in quanto “i terzi
hanno la possibilità di verificare il potere rappresentativo
consultando gli atti soggetti a pubblicità legale e, quindi,
spetta a loro fornire la prova negativa (cosı̀ Cass., S.U.
20596/2007, con statuizione poi consolidata dalle successive
Cass., 28.401/2008; Cass., 22287/2009; Cass., 22605/2009;
Cass., 9908/2010) che, nella fattispecie, è mancata. 2 — Con
il quarto ed il quinto motivo — da esaminare con precedenza
rispetto agli altri, per la loro logica pregiudizialità — i ricorrenti sostengono che la gravata decisione sarebbe viziata da
“falsa applicazione delle norme di legge in relazione all’eccezione di nullità del contratto asseritamente stipulato inter
partes” e che sussisterebbe altresı̀ un “vizio di insufficiente
motivazione su un punto decisivo della controversia ex art.
360 c.p.c., n. 5, in relazione all’eccezione di nullità del contratto per in determinatezza dell’oggetto” lamentando che la
Corte distrettuale abbia ritenuto che la semplice indicazione
della marca e del modello del trattore — ma non della targa,
del colore o di altri elementi identificativi — valesse ad in-
581
dividuare l’oggetto della compravendita. 2/a — I motivi non
possono essere accolti in quanto la motivazione della Corte
di Appello risponde pienamente ai canoni di ragionevolezza
e compiutezza argomentativa che ne impediscono uno sfavorevole scrutinio in sede di legittimità; se poi con il vizio si
fosse voluto sottoporre a censura la violazione dell’art. 1346
c.c. — pure richiamato nello svolgimento di entrambi i motivi — neppure in tal caso la doglianza potrebbe essere accolta in quanto lo stesso materiale trasferimento del mezzo
nella disponibilità delle parti oggi ricorrenti e l’uso del medesimo costituiscono univoche circostanze contrarie all’assunto che qui si esamina; il fatto poi che si trattasse di bene
il cui trasferimento fosse soggetto a particolari forme di pubblicità non ha alcuna rilevanza, incidendo queste ultime sulla
opponibilità a terzi ma non sull’effetto traslativo. 3 — Con il
secondo motivo viene denunciata l’esistenza di un “vizio di
insufficiente e contraddittoria motivazione su un punto decisivo della controversia ex art. 360 c.p.c., n. 5, in relazione
all’art. 345 c.p.c.” assumendosi che erroneamente la Corte
Torinese avrebbe ritenuto non tardivamente proposta — nel
giudizio di primo grado — l’eccezione di intervenuta ratifica
da parte della B., opinando invece che la stessa avrebbe
concretizzato una mera contro difesa che non avrebbe comportato l’esame di elementi di fatto nuovi rispetto all’originaria impostazione difensiva delle parti. 3/a — Sulla base di
tale presupposto sostengono le parti ricorrenti che la Corte
territoriale sarebbe incorsa essa stessa nella violazione del
divieto di introdurre nova nel giudizio di gravame — violando cosı̀ il disposto dell’art. 345 c.p.c., nella formulazione
successiva alla riforma introdotta con la l. 353 del 1990. 3/c
— Il motivo non può trovare accoglimento. Va innanzi tutto
messo in evidenza che il vizio di motivazione formalmente
censurato nella descrizione del motivo non sussiste in quanto
ben chiaro appare il procedimento logico seguito dal primo
giudice per pervenire al rigetto del motivo di appello né lo
stesso appare contraddittorio nelle sue proposizioni logiche.
3/d — Se poi si volesse sottolineare — nuovamente — il
valore non vincolante in assoluto da attribuire alla “rubrica”
del ricorso al fine della qualificazione del vizio denunciato
(cfr. Cass., 7882/2006 e Cass., 7981/2007) e, di conseguenza,
ritenere che il vizio denunciato consistesse piuttosto in quello descritto nell’art. 360 c.p.c., n. 4, sub specie della violazione dell’art. 345 c.p.c. e dell’art. 360 c.p.c., n. 3, per violazione delle norme disciplinanti il negozio concluso dal rappresentante senza poteri, neppure in questo caso la censura
potrebbe dirsi fondata dal momento che l’esistenza di una
ratifica si pone come elemento costitutivo negativo dell’eccezione di inefficacia del negozio sollevata dalla parte falsamente rappresentata e, come tale, conoscibile anche d’ufficio: ciò in quanto, come anche di recente statuito da questa
Corte “Il negozio concluso dal falsus procurator costituisce
una fattispecie soggettivamente complessa a formazione successiva, la quale si perfeziona con la ratifica del dominus, e,
come negozio in itinere o in stato di pendenza (però suscettibile di perfezionamento attraverso detta ratifica), non è
nulla, e neppure annullabile, bensı̀ inefficace nei confronti del dominus sino alla ratifica di questi” cosı̀ Cass.,
14.618/2010; Cass., 27399/2009). Ne consegue che la motivazione della Corte territoriale, essendosi sostanzialmente
attenuta a tali principi non è suscettibile di alcuna censura in
questa sede. 4 — Con il terzo motivo la sentenza della Corte
torinese viene censurata adducendosi la “violazione di norme di legge (art. 360 c.p.c. n. 3) in relazione alla fattispecie
della ratifica dell’operato del falsus procurator — vizio di
contraddittoria ed insufficiente motivazione in ordine ad un
punto decisivo della controversia con riferimento all’art.
2697 c.c. sulla base dell’osservazione che le condotte della B.
— valutate dalla Corte distrettuale come atti di ratifica —
non avrebbero al contrario rivestito quei caratteri di chiarezza ed univocità che l’interpretazione di legittimità assume
necessari per attribuzione di efficacia del negozio, in capo al
soggetto falsamente rappresentato. La censura in esame è
infondata”. 4/a — Invero non è riscontrabile il vizio di sussunzione del fatto alla norma applicata atteso che quello che
forma oggetto di censura è la interpretazione delle emergenze di fatto in maniera difforme a quella suggerita dai ricorGiurisprudenza Italiana - Marzo 2012
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renti e non già, ferma restando quella interpretazione, che le
stesse potessero rientrare nel concetto di ratifica; 4/b —
quanto poi al preteso vizio di motivazione, in presenza di
argomentata esposizione in merito, sufficiente a far ripercorrere il percorso logico seguito dal Giudice dell’appello e non
contraddittoria nelle sue varie proposizioni, non è consentito
alle parti ricorrenti di sollecitare la Corte a diversamente
delibare le prove addotte: a ciò infatti è d’ostacolo l’uniforme
interpretazione di legittimità — alla quale il Collegio intende
dare continuità — secondo la quale i vizi di motivazione “...
non possono consistere nella difformità dell’apprezzamento
dei fatti e delle prove dato dal giudice del merito rispetto a
quello preteso dalla parte, spettando solo al giudice di merito
individuare le fonti del proprio convincimento, valutare le
prove, controllarne l’attendibilità e la concludenza, scegliere
tra le risultante istruttorie quelle ritenute idonee a dimostrare i fatti in discussione, dare prevalenza all’uno o all’altro
mezzo di prova, mentre alla Corte di cassazione non è conferito il potere di riesaminare e valutare autonomamente il
merito della causa, bensı̀ solo quello di controllare, sotto il
profilo logico e formale e della correttezza giuridica, l’esame
e la valutazione compiuti dal giudice del merito, cui è riservato l’apprezzamento dei fatti” (cosı̀ Cass., n. 10657/2010
cui adde: Cass., n. 18119/2008; Cass., n. 7972/2007; Cass., n.
15489/2007). 5 — Con il sesto motivo si assume che la Corte
territoriale sia incorsa in un “vizio di contraddittoria motivazione su un punto decisivo della controversa ex art. 360
c.p.c., n. 5, in punto di compensazione delle spese tra il
ricorrente Z.S. e la soc. O.ta.ma. snc in relazione ai disposto
dell’art. 92 c.p.c.” pur essendo stata respinta la domanda
della società contro il falsus procurator: la censura non ha
fondamento in quanto non il solo esito definitivo del giudizio
influisce sulla ripartizione dell’onere delle spese ma anche la
considerazione complessiva della vicenda sostanziale oggetto di contenzioso e, in questa prospettiva, appariva evidente
che lo Z. tosse stato il primario artefice della situazione di
originaria inefficacia del contratto con la venditrice. 6 — La
soccombenza disciplina, anche in questo giudizio di legittimità, la ripartizione delle spese, secondo quanto indicato in
dispositivo. — Omissis.
Diritto Civile | FALSUS PROCURATOR
(1) La sentenza che si annota offre lo spunto per
procedere ad una breve ricostruzione della natura giuridica del contratto concluso dal falsus procurator.
La Corte di cassazione, in conformità ad un indirizzo
espresso in numerose altre pronunce 1, qualifica il negozio concluso dal falso rappresentante come fattispecie a formazione progressiva, suscettibile di perfezionamento attraverso la ratifica dell’interessato, che non
è né nullo né annullabile, bensı̀ inefficace nei confronti
del dominus dell’affare sino alla ratifica dello stesso.
Per una migliore comprensione della sentenza in
commento è opportuno prendere le mosse dai principali orientamenti dottrinali e giurisprudenziali relativi
alla configurazione giuridica della fattispecie di cui all’art. 1398 c.c.
Secondo una prima tesi 2 il negozio concluso dal falso
rappresentante sarebbe invalido. Tale impostazione fa
leva sul testo dell’art. 1398 c.c. che fa riferimento alla
«validità» del contratto. Come affermato dalla Cassazione 3, queste conclusioni sono da respingere, in quanto non si tratterebbe né di nullità, in quanto la nullità
opera in maniera definitiva, mentre il dominus può
ratificare con effetto retroattivo; né di annullabilità,
poiché prima della ratifica il contratto non produce
nessun effetto per il rappresentato.
Un’altra impostazione 4 ritiene che il contratto concluso dal falso rappresentante è valido, ma inefficace,
in quanto sottoposto alla condizione legale della ratifica del rappresentato.
Si tratterebbe di un contratto perfetto in tutti i suoi
elementi essenziali, ma improduttivo di effetti sino al
momento della ratifica, che opererebbe alla stregua di
una condicio iuris di efficacia. In tal senso si è espressa
anche la Cassazione in una pronuncia risalente 5.
Il richiamo alla condizione legale però necessita di
una precisazione: l’efficacia del contratto, come affermano i sostenitori di tale tesi, non discende dalla legge,
ma dalla volontà del rappresentato il quale, secondo gli
schemi della rappresentanza volontaria, fa propri, con
la ratifica, gli effetti del negozio concluso dal falso rappresentante 6.
Tale tesi, nel respingere la teoria della invalidità, afferma che il termine «validità» di cui all’art. 1398 c.c. è
stato adoperato impropriamente, come confermato dal
comma 3 dell’articolo successivo, il quale contemplando la possibilità che il terzo e il falsus procurator possono d’accordo sciogliere il contratto prima della ratifica, ne presuppone la validità. Si tratterebbe, secondo
la dottrina 7, di un caso legalmente tipizzato di risoluzione per mutuo dissenso.
La giurisprudenza 8 ha avuto modo di precisare che,
in caso di risoluzione del contratto per mutuo dissenso
tra terzo e falso rappresentante, l’effetto risolutorio
non ha ad oggetto il contratto stesso, di per sé inefficace, ma incide solo sul potere di ratifica del soggetto
falsamente rappresentato.
1
Cass., 17 giugno 2010, n. 14618, in Rep. Foro It., 2010,
Rappresentanza nei contratti (5490) n. 10; Id., 17 giugno 2010,
n.14618, ivi, 2009, Rappresentanza nei contratti (5490) n. 10;
Id., 28 dicembre 2009, n. 27399, ibid., Rappresentanza nei contratti (5490) n. 5; Id., 9 maggio 2008, n. 11509, in Nuova giur.
civ., 2008, I, 1322, con nota di Mariconda; Id., 26 febbraio
2004, n. 3872, in Rass. Loc., 2004, 577; Id., 26 novembre 2001,
n. 14944, in Contratti, 2002, 671, con nota di Scardigno; Id.,
9 febbraio 2000, n. 1443, in Vita not., 2000, 173, con nota di
Triola; Cass., 10 marzo 1995, n. 2802, in Rep. Foro It., 1995,
Mandato (4070) n. 10.
2
Betti, Teoria generale del negozio giuridico, in Trattato Dir.
Civ. a cura di Vassalli, XV, II, Torino, 1943, 381 e segg.: «il
difetto del potere di rappresentanza provoca l’invalidità del negozio: invalidità pendente, sinché non sopravvenga la ratifica
dell’interessato». Secondo l’autore «i negozi la cui efficacia sia
subordinata ad un evento futuro ed incerto — sia questa una
condizione in essi prevista o elemento costitutivo di una fattis-
pecie complessa in cui il negozio per sua natura si inquadra —
possono dar luogo al fenomeno della invalidità pendente o sospesa». Per una panoramica sugli orientamenti dottrinali e giurisprudenziali v. Diener, Il contratto in generale, Milano, 2002,
596 e segg.
3
Cass., 16 febbraio 2000, n. 1708, in Dir. e pratica società,
2000, XVII, 77, con nota di Guerinoni; Id., 12 aprile 1996, n.
3482, in Riv. Not., 1996, 6, , 1465; in Riv. Giur. Edilizia, 1996, 4,
779.
4
Gazzoni, Manuale di diritto privato, Napoli, 2007, 1060;
Natoli, Rappresentanza (diritto privato), in Enc. Dir.,
XXXVIII, Padova, 1987, 483 e segg.
5
Cass., 9 ottobre 1971, n. 2801, in Giust. Civ., 1972, 113.
6
Bianca, Diritto civile, III, Milano, 2000, 110
7
Chianale, La Rappresentanza, in I contratti in generale, III,
a cura di Gabrielli, Torino, 1999, 1148.
8
Cass., 16 luglio 1997, n. 6488, in Rep. Foro It., 1997, Rappresentanza nei contratti (5490), n. 17.
Giurisprudenza Italiana - Marzo 2012
Diritto Civile | SUCCESSIONE TESTAMENTARIA
In altre parole ciò che si risolve per effetto dell’accordo è unicamente la situazione di soggezione in cui
versa il terzo, a fronte del potere di ratifica che compete
all’interessato.
A tale conclusione perviene anche la Cassazione con
la pronuncia in epigrafe la quale, in conformità ad un
indirizzo giurisprudenziale di ampio respiro 9, qualificata la vicenda in termini di fattispecie a formazione
successiva, ne afferma la inefficacia nei confronti del
rappresentato sino alla ratifica di questi.
La ratifica è un negozio unilaterale recettizio mediante il quale il soggetto rende efficace nei propri confronti il negozio concluso dal falsus procurator.
Secondo i sostenitori della tesi della invalidità del
negozio concluso dal falso rappresentante 10, la ratifica
si atteggia come atto autonomo, ovverosia come atto di
appropriazione degli effetti del negozio concluso dal
falso rappresentante.
Tuttavia, in senso critico è stato osservato 11 che non
ci si può appropriare di effetti che non si sono mai
prodotti, a causa della nullità del contratto. Inoltre se
il contratto fosse nullo, il falsus procurator ed il terzo
potrebbero recedere unilateralmente con effetto immediato. Invece l’art. 1399, comma 3, c.c. ammette la
possibilità di sciogliere il contratto prima della ratifica,
ma solo di comune accordo tra le parti.
In linea con la ricostruzione seguita dalla Cassazione,
la ratifica va inquadrata come negozio integrativo, funzionalmente collegato a quello concluso dal falso rappresentato, mediante il quale il «soggetto falsamente
rappresentato in un contratto manifesta all’altro contraente la volontà di fare propri gli effetti del negozio» 12
Come affermato dalla Cassazione 13 si tratta di un
negozio di legittimazione successiva che opera come
una sorta di procura a posteriori che deve rivestire la
stessa forma del contratto concluso dal falsus procurator.
Secondo autorevole dottrina 14 il negozio concluso
dal falso rappresentante viene, in esito alla ratifica, considerato efficace ab initio, come se fosse stato posto in
essere originariamente da persona fornita di poteri
rappresentativi.
La ratifica deve rivestire, ai sensi dell’art. 1399 c.c. la
stessa forma richiesta per la conclusione del contratto
da ratificare.
Nel caso in cui la forma richiesta per il contratto da
ratificare sia ad probationem, la ratifica può risultare
anche da facta concludentia, a patto che contenga, come chiarito dalla Cassazione 15, l’espressione chiara e
univoca della volontà del dominus di far propri gli
effetti del precedente contratto stipulato in nome e per
conto di lui dal falso rappresentante
9
V. nota 1.
V. nota 2.
11
Gazzoni, Manuale di diritto privato, cit., 1060; Cass., 29
ottobre 1999, n. 12144, in Rep. Foro It., 1999, Rappresentanza
nei contratti (5490) n. 13.
12
Cass., 9 giugno 1987, n. 5040, in Rep. Foro It., 1987, Rappresentanza nei contratti (5490) n.15.
13
Cass., 9 marzo 1985, n. 1901, in Foro It., 1985, I, 2006; in
Resp. civ. e prev., 1986, 1, 62.
14
Passarelli, Dottrine generali del diritto civile, Napoli,
1997, 292.
10
583
Nella fattispecie oggetto di analisi la Cassazione ha
ravvisato un comportamento concludente idoneo alla
ratifica nella condotta del soggetto che ha utilizzato e
trasferito il bene acquistato dal falso rappresentante
nella sua materiale disponibilità.
Nel caso di specie si trattava dell’acquisto di un trattore e secondo la Cassazione «il fatto che si trattasse di
bene il cui trasferimento fosse soggetto a particolari
forma di pubblicità, non ha alcuna rilevanza, incidendo quest’ultima sulla opponibilità, ma non sull’effetto
traslativo».
Ai sensi dell’art. 1398 c.c. il falsus procurator è responsabile del danno sofferto dal terzo contraente, il
quale abbia fatto affidamento senza sua colpa nella
validità del contratto. La responsabilità del falso rappresentante è unanimemente 16 ritenuta di natura precontrattuale, riconducibile all’art. 1338 c.c., ed il risarcimento è di conseguenza limitato all’interesse negativo, ravvisandosi nel casi di specie una lesione della
libertà contrattuale del terzo.
SUCCESSIONE TESTAMENTARIA
Cassazione civile, II Sezione, 3 marzo 2011,
n. 5131 — Oddo Presidente — Mazzacane Relatore
— Carestia P.M. (diff.) — Silva (avv.ti Facchino,
Paiar) - Gorano ed altri (avv.ti Di Rienzo, De Finis).
Successione legittima e testamentaria — Testamento in genere — Disposizioni a favore di persona incerta — Criterio di determinabilità del beneficiario
(C.c. art. 628).
Ai fini dell’identificazione del soggetto beneficiario di
una disposizione testamentaria, che non sia individuato
nominativamente, occorre richiamarsi non alla situazione in essere all’atto della redazione del testamento, bensı̀
a quella che si sia realizzata fino alla morte del testatore,
essendo possibile che egli si riferisca ad una situazione
futura dal cui verificarsi emerga l’individuazione del soggetto beneficiato, anche qualora si tratti, al momento
della redazione del testamento, di persona non conosciuta (1).
Omissis. — Per ragioni di priorità logico-giuridica occorre esaminare anzitutto il primo motivo del ricorso
incidentale con il quale S.C. e S.S., denunciando violazione
e falsa applicazione dell’art. 628 c.c., censurano la sentenza
impugnata per aver ritenuto nulla l’istituzione di erede contenuta nella scheda testamentaria del 1995 per l’assoluta genericità della designazione quale erede del soggetto che si
sarebbe preso cura della testatrice; premesso che il testamento deve essere interpretato nel senso di prediligere, tra le
15
Cass., 14 maggio 1990, n. 4118, in Giur. It., 1991, 7, 818,
con nota di Bolzano; in Foro It., 1991, 4, 1191.
16
In dottrina v. Bianca, Diritto civile, cit., 115; Santoro
Passarelli, Dottrine generali del diritto civile, cit., 291; in giurisprudenza v. Cass., 20 febbraio 1987, n. 1817, in Rep. Foro It.,
1987, Contratto in genere (1740) n. 355; Id., 28 aprile 1986,
n. 2945, ivi, 1986, Rappresentanza nei contratti (5490) n. 7; Id.,
25 agosto 1986, n. 5170, ibid., Rappresentanza nei contratti
(5490) n. 5.
Giurisprudenza Italiana - Marzo 2012
584
Diritto Civile | SUCCESSIONE TESTAMENTARIA
della successione; infatti il giudice di appello, ritenendo di
poter ricondurre l’insieme di quei cespiti di diversa natura al
legato di tutto il mio capitale in “denaro”, non si è posto il
problema se tale disposizione potesse essere letta disgiuntamente da tutte le altre disposizioni a titolo particolare ivi
contenute, caratterizzate dal ricorso alle virgolette per conferire una evidente connotazione beffarda all’esclusione dalla successione delle altre persone ivi nominate (“Lascio ai
miei cugini R. e G.P. tutto il mio “disprezzo”... a G.S. una
“pesetas bucata”... a S.C.” la speranza” di poter avere qualcosa
di mio”); infatti occorreva chiedersi se anche nella disposizione successiva virgolettata quanto alla parola denaro vi
fosse lo stesso proposito di mandare elusa una più ampia
aspettativa, destinando soltanto una elemosina in denaro alla
cugina che, evidentemente, aveva ostentato le proprie pratiche devozionali in favore della testatrice al fine di captarne
la benevolenza a proprio beneficio.
Con il secondo motivo la ricorrente principale, deducendo violazione e falsa applicazione dell’art. 625 c.c. ed
omessa ed insufficiente motivazione, assume che comunque, pur volendo escludere che anche la disposizione particolare in favore della G. avesse lo stesso intento irrisorio
tipico di tutti gli altri legati, tuttavia la statuizione relativa
all’oggetto di tale legato è censurabile sotto altri profili; invero l’affermazione secondo cui il riferimento della “de
cuius” al proprio capitale in denaro non consentirebbe di
operare alcuna distinzione tra denaro in contanti e denaro
custodito attraverso strumenti bancari trascura di considerare che anche il linguaggio corrente conosce una differenziazione tra denaro inteso nella sua materialità ed i crediti,
per loro natura immateriali; quantomeno non poteva essere
ignorata la distinzione tra disponibilità finanziaria immediata ed investimenti in titoli di credito (come le obbligazioni) che possono essere tramutati in denaro solo mediante
operazioni di negoziazione.
Le enunciate censure restano assorbite all’esito dell’accoglimento del primo motivo del ricorso incidentale; infatti
l’eventuale accertamento in sede di rinvio che l’istituzione di
erede effettuata dalla C. con il secondo testamento non sia
nulla ai sensi dell’art. 628 c.c. comporterebbe la caducazione
del primo testamento olografo del 24-3-1985 (con il quale
era stato designato erede universale il fratello A.) e dunque il
venir meno della qualità di erede per rappresentazione di
S.L.R.; tale evenienza comporterebbe quindi il venir meno
dell’interesse di quest’ultima ad impugnare la statuizioni della sentenza del giudice di appello riguardo al contenuto del
legato disposto in favore della G. con il testamento olografo
del 26-12-1995. — Omissis.
varie interpretazioni, quella favorevole alla sua conservazione, i ricorrenti incidentali assumono che il riferimento della
testatrice, quanto al soggetto beneficiario del suo patrimonio, a “chi mi curerà”, rendeva valida la disposizione in quanto riguardante persona certamente determinabile seppur indeterminata, da individuare, in base al chiaro criterio enunciato dalla C., tra i pochi parenti e conoscenti che avevano
avuto rapporti con quest’ultima nel periodo 1996/1998.
La censura è fondata.
La Corte territoriale ha ritenuto che la disposizione contenuta nel secondo testamento redatto il 26-12-1995 da
C.E. del seguente tenore: “Nelle piene facoltà mentali lascio
tutto quel che possiedo a chi mi curerà” non forniva parametri utili alla individuazione del soggetto beneficiario atteso
che, a fronte di un periodo più o meno lungo di necessità
della “de cuius” di affidarsi ad altra o più persone per la sua
cura, sarebbe rimasta una assoluta incertezza se attribuire
tale qualifica di erede a chi avrebbe garantito una assistenza
materiale non specialistica, a casa o in un centro ospedaliero, o al medico curante o a chi avrebbe assicurato sostegno morale o spirituale; ha poi considerato dato di comune
esperienza che nella maggior parte dei casi la cura di una
persona anziana e non del tutto sufficiente richiede l’avvicendarsi di più figure di riferimento con la conseguente assoluta impossibilità di procedere alla determinazione dell’erede in mancanza di qualsiasi ulteriore specificazione da
parte del testatore.
Tale convincimento non può essere condiviso in quanto
frutto di una valutazione astratta della disposizione della
testatrice che ha precluso in radice di accertare la possibilità
di identificare il beneficiario (o i beneficiari) della disposizione stessa.
Invero il riferimento della C. a “chi mi curerà” consente di
affermare che ella ha inteso richiamarsi, quanto a detta identificazione, non alla situazione in essere all’atto della redazione del testamento in oggetto, bensı̀ a quella che si sarebbe
via via realizzata fino alla sua morte in evidente relazione alle
sue future esigenze di assistenza, cosicché il criterio indicato,
ai fini di poter verificare se esso fornisse univoci dati oggettivi
per la determinazione del beneficiario, avrebbe dovuto essere applicato con specifico riferimento alla situazione esistente al momento dell’apertura della successione (vedi in tal
senso Cass. 8-2-1962 n. 2629); in altri termini, poiché la
volontà del testatore ai sensi dell’art. 628 c.c., deve essere
almeno determinabile, è possibile che il “de cuius” faccia
riferimento ad una delineata futura situazione di fatto dalla
cui realizzazione emerga in termini inequivocabili l’individuazione del soggetto beneficiario (anche qualora si tratti di
persona neppure conosciuta dal testatore), come appunto
nella fattispecie, dove occorre verificare la sussistenza o meno di persone che si siano prese cura della C. dall’epoca di
redazione del testamento fino alla sua morte.
È quindi necessario procedere in sede di rinvio ad un
nuovo accertamento di tale punto decisivo della controversia
alla luce delle considerazioni esposte onde verificare se sia
possibile identificare in modo chiaro ed inequivocabile la
persona onorata dalla disposizione testamentaria in oggetto,
con l’esclusione, in tale ipotesi, della sua nullità ai sensi dell’art. 628 c.c. — Omissis.
Venendo quindi all’esame del ricorso principale, si rileva
che con il primo motivo S.L.R., denunciando violazione dell’art. 625 c.c., ed omessa motivazione, afferma che la sentenza impugnata non ha trattato il primo degli argomenti addotti dall’esponente al fine di contestare la pretesa della G. di
ricevere, oltre il denaro che la testatrice teneva presso di sé,
anche i libretti bancari, il saldo del conto corrente esistente
all’apertura della successione e quanto confluito in esso alla
scadenza delle obbligazioni successivamente all’apertura
(1) La sentenza in epigrafe consente alla suprema
Corte di pronunciarsi sul criterio per la determinabilità dei soggetti beneficiari di una disposizione testamentaria laddove il testatore non abbia provveduto
a specificarli in maniera sufficientemente determinata.
In base all’art. 628 c.c., «è nulla ogni disposizione fatta
a favore di persona che sia indicata in modo da non
poter essere determinata». Questa norma sancisce la
nullità della clausola di ultima volontà, qualora il de
cuius, nel designare un soggetto, non fornisca all’interprete indicazioni per una certa identificazione della
persona beneficiata, né con riguardo al momento della
redazione del testamento (perché non è possibile attribuire alcun significato alle parole usate dal testatore),
né con riferimento al momento dell’apertura della successione 1. La ratio sottesa a tale disposizione è rinve-
1
Cosı̀ Gangi, La successione testamentaria nel vigente diritto
italiano, I, Milano, 1964; Capozzi, Successioni e donazioni, I,
Milano, 2009. In generale, sull’art. 628 c.c., v. Bonilini, Il testamento. Lineamenti, Padova, 1995; Gardani Contursi Lisi,
Dell’istituzione di erede e dei legati, in Comm. C.C. a cura di
Scialoja, Branca, Bologna-Roma, 1983; Bigliazzi Geri, Il testamento, in Tratt. Dir. Priv. a cura di Rescigno, VI, Successioni,
II, Torino, 1982; Auletta, Disposizioni a favore di persona incerta, in Le successioni testamentarie a cura di Bianca, Torino,
1983; Burdese, Successioni e donazioni, Torino, 1982; Azzari-
Giurisprudenza Italiana - Marzo 2012
Diritto Civile | SUCCESSIONE TESTAMENTARIA
585
nibile nel principio generale secondo il quale una dichiarazione di volontà non produce effetti se non risulti essere sufficientemente chiara e determinata nei
suoi elementi essenziali, se resta non intellegibile, nonostante l’ausilio degli strumenti ermeneutici predisposti dall’ordinamento. In questa materia, in particolare, emerge inoltre il principio del favor testamenti da
parte del legislatore, sulla base del quale fra le diverse
interpretazioni possibili deve prediligersi quella che
consente la conservazione, piuttosto che la caducazione, della disposizione testamentaria 2. L’art. 628 c.c.
è dunque l’espressione del principio di certezza, che
unitamente a quelli di personalità, revocabilità e formalismo costituisce il perno attorno al quale ruota la
normativa predisposta in tema di successione testamentaria.
Tale disposizione è considerata un’integrazione del
disposto dell’art. 625 c.c., che ha a oggetto l’ipotesi di
errore ostativo nell’indicazione del chiamato; applicazioni del principio di certezza sono considerate le norme di cui agli artt. 629 3 e 630 c.c. La prima delle due
disposizioni ha a oggetto le disposizioni a favore dell’anima e sancisce la salvezza delle sole disposizioni
nelle quali siano determinati i beni o possa essere determinata la somma da impiegarsi. La norma di cui
all’art. 630 c.c. che ha a oggetto le disposizioni testamentarie in favore dei poveri può, senza dubbio, considerarsi una norma integrativa dell’incompleta manifestazione di volontà del testatore 4, dal momento che
dispone che il lascito in favore dei poveri sia attribuito
ai poveri del luogo in cui il testatore aveva il domicilio
al tempo della sua morte e che i beni siano devoluti al
Comune. Nelle ultime due diposizioni citate emerge
che l’intervento suppletivo del legislatore è diretto a
colmare la situazione di incertezza riguardo all’individuazione del beneficiario di una disposizione testamentaria, incertezza che, altrimenti, condurrebbe alla
loro invalidità.
Come si è detto, l’indeterminatezza sic et simpliciter
circa la persona del beneficiario di una disposizione
testamentaria non è causa di nullità della stessa. La
disposizione di cui all’art. 628 c.c. contempla due fattispecie di nullità: la prima riguarda l’ipotesi in cui non
sia possibile attribuire un significato risolutivo alle parole utilizzate dal disponente (come ad esempio il caso
in cui la designazione non corrisponde ad alcuna persona, ma è frutto di immaginazione, oppure il caso in
cui esista effettivamente un soggetto avente le generalità espresse dal testatore, ma risulta impossibile che a
esso il testatore abbia voluto riferirsi 5). La seconda,
invece, attiene al caso in cui le espressioni utilizzate
risultino incomplete e non si possa procedere a un’integrazione della volontà del testatore neanche attraverso il ricorso a elementi oggettivi, richiamati dallo stesso
disponente, estrinseci al testamento stesso. L’individuazione di tali elementi esterni può avvenire in un
duplice modo: mediante la relatio 6 in senso formale 7,
con riguardo a una volontà già manifestata dallo stesso
testatore, ovvero mediante la relatio in senso sostanziale, che si ha quando viene affidato a un terzo il
compito di integrare la disposizione testamentaria;
quest’ultima, però, ha carattere eccezionale, infatti
opera nelle sole ipotesi previste dalla legge. Ciò è consentito dalla norma di cui all’art. 631 c.c., la quale,
però, contempla tale possibilità soltanto laddove il testatore medesimo abbia provveduto a indicare delle
categorie entro cui effettuare tale scelta. Si sono ritenute, però, valide, e ciò emerge anche dalla sentenza in
commento, quelle disposizioni in favore di persona
non espressamente indicata dal testatore, ma determinabile in base a una situazione futura, come un avvenimento o una qualità particolari.
Con specifico riferimento al caso di cui si discorre,
l’indeterminatezza circa la persona del beneficiario
scaturiva, secondo la pretesa attorea, dall’utilizzo, da
parte del testatore, dell’espressione «a chi mi curerà»;
ti, voce “Successioni (diritto civile): successione testamentaria”, in Noviss. Dig. It., XVIII, Torino, 1977; Cicu, Testamento,
2a ed., Milano, 1951; Barassi, Le successioni per causa di morte,
3a ed., Milano, 1947; Palazzo, Le successioni, in Tratt. Dir. Priv.
a cura di Iudica, Zatti, II, Milano, 2000; Bonilini-Confortini, Codice commentato delle successioni e delle donazioni, Torino, 2011.
2
In tema di interpretazione del testamento con riferimento al
principio del favor testamenti, cfr. Trib. Treviso, 27 marzo 1999,
n. 457, in Corriere Giur., 2000, 1232. Inoltre Baralis, L’interpretazione del testamento, in Successioni e donazioni a cura di
Rescigno, I, Padova, 1994. La Corte di cassazione, con sentenza
19 marzo 2001, n. 3940, in Giur. It., 2002, 733, si è espressa nel
senso che la volontà del testatore può desumersi anche da elementi estrinseci rispetto alla scheda testamentaria, quali la cultura, l’istruzione, il contesto sociale. Nello stesso senso, cfr.
Cass., 28 dicembre 1993, n. 12861, in Giur. It., 1994, I, 1768, con
nota di Masucci; Id., 24 agosto 1990, n. 8668, in Mass. Giur. It.,
1990, secondo cui l’indagine circa l’interpretazione della scheda
testamentaria si basa non solo su criteri ermeneutici oggettivi
previsti nella disciplina contrattuale, ma anche e soprattutto su
principi di carattere soggettivo diretti a cogliere la reale volontà
del testatore, al di là delle espressioni che lo stesso ha in concreto
adoperato.
3
Cfr. Cass., 6 agosto 2003, n. 11844, in Riv. Notar., 2004, 4,
1055, con nota di Moscatiello, Considerazioni in tema di
individuazione del beneficiario delle disposizioni a favore dei poveri e ruolo della volontà del testatore. Ieva, Manuale di tecnica
testamentaria, Milano, 1996.
4
Marinaro, Commento agli artt. 601-648, in C.C. annotato
a cura di Perlingieri, Torino, 1980, 341.
5
Cfr. Cicu, op. cit., 189.
6
In riferimento al negozio giuridico per relationem, in generale, v.: Cecchetti, voce “Negozio per relationem”, in Enc.
Giur. Treccani, XX, Roma, 1990; Nicolò, La relatio nei negozi
formali, in Riv. Dir. Civ., 1972, 117. Con specifico riguardo alla
materia successoria, si rimanda a Irti, Disposizione testamentaria rimessa all’arbitrio altrui, Milano, 1967; Giordano-Mondello, Il testamento per relazione. Contributo alla teoria del
negozio per relationem, Milano, 1966.
7
Taluni autori (Cicu, op. cit., 188; Allara, Il testamento,
Padova, 1934, 252) ammettono il ricorso alla relatio formale
anche laddove il testamento non sia dotato di tutti i requisiti
formali richiesti dalla legge, ma solo di quelli essenziali ai fini
della dimostrazione della provenienza del documento dal testatore, come l’autografia. Secondo Barbero, Sistema del diritto
privato, 3a ed., a cura di Liserre e Floridia, Torino, 2001, la
relatio formale in materia testamentaria deve essere limitata alla
fattispecie in cui la scheda stessa presenti tutti gli elementi formali di un testamento valido. In giurisprudenza, cfr. Trib. Voghera, 28 gennaio 1998, in Vita Notar., 1999, 55, con nota di
Ferro, secondo cui è valido il testamento olografo contenente
una clausola di relatio, che rimandi a un documento esterno al
testamento, quale imprescindibile completamento della disposizione di ultima volontà, alla sola condizione che la relatio
formale sia espressamente manifestata attraverso la forma testamentaria e contenga un rinvio a un dato estrinseco e determinato.
Giurisprudenza Italiana - Marzo 2012
586
la suprema Corte afferma, invece, che non è ravvisabile
tale supposta indeterminatezza, dal momento che il
beneficiario era determinabile avuto riguardo alla cerchia dei pochi parenti e conoscenti con cui la de cuius
aveva intrattenuto rapporti in un circoscritto periodo
di tempo. Al contrario, i giudici di merito avevano
asserito che l’espressione era da considerarsi ambigua
e l’individuazione del beneficiario incerta, sulla base
della considerazione che la cura di una persona anziana, generalmente, vede coinvolte più figure, con conseguente impossibilità di accertare con certezza a chi il
testatore volesse riferirsi.
Dalla pronuncia in commento emerge, seppur incidentalmente, un aspetto sul quale è opportuno soffermarsi. Nel testamento oggetto della controversia erano
contenute, tra le altre, disposizioni di carattere non
patrimoniale (quali la revoca dei precedenti testamenti); con riguardo a queste ultime si suole contrapporre
il contenuto atipico (di cui esse sono espressione) al
contenuto tipico del testamento. In riferimento al primo, in dottrina si sono avvicendati due distinti orientamenti, alla cui base vi è una diversa ricostruzione
della causa del negozio di ultima volontà.
Secondo una prima teoria, il testamento è un negozio
all’interno del quale possono essere contenute soltanto
le tradizionali disposizioni di istituzione di erede o legatario; un negozio all’interno del quale sarebbe contenuta una serie di sotto-negozi, tutti caratterizzati dal
contenuto patrimonialistico 8, essendo le ipotesi di disposizioni a contenuto non patrimoniale soltanto quelle previste dalla legge (sulla base di un’interpretazione
strettamente letterale dell’art. 587, comma 2, c.c.).
In base al secondo orientamento, indubbiamente
prevalente, il testamento è qualificabile come negozio
complesso, avente lo scopo di regolare gli interessi del
de cuius per il tempo in cui egli avrà cessato di vivere;
proprio in virtù di questa sua funzione, tale atto può
contenere ogni disposizione, sia essa di carattere patrimoniale che non patrimoniale, essendo lo strumento
attraverso il quale l’ereditando può validamente manifestarle, in modo da consentire che esse producano
effetti al momento della sua morte.
REVOCA DI DISPOSIZIONI TESTAMENTARIE
Cassazione civile, II Sezione, 1o marzo 2011,
n. 5037 — Schettino Presidente — Mazzacane Relatore — Fucci P.M. (diff.) — DE.MA.LU.MA. ed
altri (avv. Zompı̀ ed altri) - M.A. (avv. D’Ambrosio).
Rigetta App. Lecce, 20 novembre 2004.
Successione legittima e testamentaria — Revocazione delle disposizioni testamentarie per sopravvenienza di figli — Atto dispositivo del figlio naturale di
rinuncia dietro corrispettivo all’eredità — Forma —
In genere — Forma solenne — Necessità — Esclusione (C.c. art. 687).
8
Betti, Teoria generale del negozio giuridico, Napoli, 1994;
Ferri, Disposizioni generali sulle successioni, in Comm. C.C. a
cura di Scialoja-Branca, Bologna-Roma, 1997. In tema di contenuto atipico del testamento v. anche Giampiccolo, Il conteGiurisprudenza Italiana - Marzo 2012
Diritto Civile | REVOCA DI DISPOSIZIONI TESTAMENTARIE
L’atto con il quale, aperta la successione, si dispone dei
diritti successori dietro versamento di una somma di
denaro (da parte del figlio naturale a cui favore opera la
revoca di diritto del testamento), non è soggetto alle
formalità previste per la rinuncia all’eredità (1).
Omissis. — Venendo quindi all’esame del ricorso si
rileva che con l’unico articolato motivo i ricorrenti,
denunciando violazione e falsa applicazione degli artt. 487,
687 e 1418 c.c., censurano la sentenza impugnata anzitutto
per aver affermato l’imperatività della disposizione di cui
all’art. 687 c.c. e conseguentemente la nullità della scrittura
privata del 22-5-1985 attraverso cui le parti avrebbero tentato di eludere tale precetto inderogabile.
I ricorrenti rilevano che l’erroneità di tale assunto emerge
chiaramente dalla stessa formulazione dell’art. 687 c.c. nella
parte in cui stabilisce che “se i figli o discendenti non vengono alla successione e non si fa luogo alla rappresentazione,
la disposizione ha il suo effetto”; la lettera della norma, infatti, dimostra che la “ratio” della revoca riguarda solamente
la tutela degli interessi patrimoniali dei figli o discendenti
che dovrebbero avvantaggiarsene; inoltre è pacifico che tra le
varie ipotesi cui fa riferimento la disposizione citata rientra
anche il caso di rinuncia all’eredità del figlio sopravvenuto.
I ricorrenti sotto diverso profilo, attinente alla rinuncia di
cui alla scrittura privata del 22-5-1985, sostengono poi che la
sua pretesa invalidità non potrebbe certamente desumersi
dal divieto dei patti successori di cui all’art. 458 c.c. per la
ragione che tale disposizione fa espresso riferimento ai diritti
concernenti una successione non ancora aperta, laddove nella specie era pacifico che la successione si era aperta anteriormente alla convenzione di cui alla suddetta scrittura;
neppure poteva ritenersi la nullità della rinuncia posta in
essere dal M., come pure sostenuto dalla controparte, per il
fatto che costui prima della sentenza di riconoscimento non
era stato ancora chiamato all’eredità di D. M.O. e pertanto
non avrebbe potuto validamente disporre dei propri diritti
successori; anzitutto doveva tenersi presente che la sentenza
di accertamento della paternità naturale, per il suo carattere
dichiarativo, produce effetti a decorrere dalla nascita, cosicché il M., una volta intervenuto l’accertamento giudiziale sul
suo “status”, doveva considerarsi fin dall’inizio chiamato all’eredità del padre naturale; inoltre, anche volendo ritenersi
che la rinuncia contenuta nella scrittura del 2-5-1985 avesse
ad oggetto diritti futuri, non ne scaturirebbe affatto la nullità
della stessa, essendo ammesso che la rinuncia, quale espressione dell’autonomia privata, possa riguardare anche diritti
futuri ed eventuali, purché determinati o determinabili nel
loro contenuto o nella loro estensione, come appunto nella
specie, dove si trattava di una successione già aperta, e dunque era agevole stabilire l’ampiezza dei diritti, “anche di
carattere successorio”, esplicitamente menzionati nella scrittura stessa.
I ricorrenti rilevano inoltre l’infondatezza dell’eccezione
di controparte relativa alla pretesa nullità della rinuncia operata dal M. per difetto delle forme solenni prescritte dall’art.
519 c.c., posto che la rinuncia suddetta non si configurava
come rinuncia all’eredità prevista da tale norma, configurando invece un negozio dispositivo traslativo dei suoi diritti
successori non soggetto alle formalità previste dall’art. 519
c.c.
La censura è fondata nei termini che saranno ora specificati.
La sentenza impugnata ha ritenuto che l’art. 687 c.c. ha
natura di norma imperativa perché tutela gli interessi successori dei figli e dei discendenti del testatore e si fonda sulla
presunta volontà dello stesso il quale, se avesse voluto o non
avesse ignorato di avere figli o discendenti, avrebbe diversa-
nuto atipico del testamento – Contributo ad una teoria dell’atto di
ultima volontà, Milano, 1954; Cuffaro, Il testamento, in Trattato breve delle successioni e donazioni a cura di Rescigno, Padova, 2010.
Diritto Civile | REVOCA DI DISPOSIZIONI TESTAMENTARIE
587
mente disposto delle proprie sostanze con il testamento, ed
ha aggiunto che la legge, sancendo la revoca di diritto delle
disposizioni testamentarie effettuate nella ricorrenza di tali
presupposti, prescinde da qualsiasi prova di una volontà
contraria del testatore, cosicché l’inefficacia del testamento
consegue “ipso iure”.
Da tale premessa in diritto la Corte territoriale ha ritenuto
la nullità del negozio di cui alla scrittura privata del 22-51985 in quanto le parti, in contrasto con l’art. 687 c.c., avevano riconosciuto piena efficacia a disposizioni testamentarie delle quali la norma citata prevedeva la revoca di diritto
nella ricorrenza delle specifiche circostanze ivi previste; in
altri termini, ha aggiunto il giudice di appello, nel momento
in cui il M. era stato riconosciuto figlio naturale di D.M.O.
con sentenza del Tribunale di Lecce del 21-4-1991, le disposizioni a contenuto patrimoniale contenute nel testamento
redatto da quest’ultimo erano state revocate di diritto con
decorrenza dal 20-7-1983, cosı̀ aprendosi la successione “ab
intestato”.
Tale convincimento non può essere condiviso in quanto il
giudice di appello, pur partendo da una premessa logica e
giuridica corretta, ne ha tratto conseguenze erronee in ordine alla ritenuta nullità del negozio di cui alla scrittura privata
del 22-5-1985 con la quale il M. aveva rinunciato a tutti i suoi
diritti di carattere patrimoniale (ivi compresi quelli successori) derivanti dal suo preteso stato di figlio naturale dietro
versamento della somma di L. 130.000.000.
È invero indubitabile che, a seguito del riconoscimento di
M.A. quale figlio naturale di D.M.O. con sentenza del Tribunale di Lecce del 21-4-1991, le disposizioni di natura patrimoniale contenute nel testamento olografo del 16-7-1983
sono state revocate di diritto con decorrenza dal 20-7-1983,
giorno dell’apertura della successione dello stesso D.M.O.,
ai sensi dell’art. 687 c.c., comma 1, norma che ha il suo
fondamento oggettivo nella modificazione della situazione
familiare in relazione alla quale il testatore aveva disposto dei
suoi beni (Cass. 9-3-1996 n. 1935), cosı̀ aprendosi la successione “ab intestato” in favore dell’unico erede legittimo, ovvero appunto il M. stesso.
Sulla base di tali presupposti quest’ultimo nella rilevata
qualità ben poteva disporre da allora dei suoi diritti successori (considerato che la sentenza di accertamento della filiazione naturale dichiara ed attribuisce uno “status”
che conferisce al figlio naturale i diritti che competono al
figlio legittimo con efficacia retroattiva fin dalla nascita vedi,
“ex multis” Cass. 3-11-2006 n. 23596; Cass. 17-12-2007
n. 26575), come in effetti è avvenuto con la scrittura privata
del 22-5-1985 con la quale egli aveva rinunciato a tali diritti
in favore di D.M.L. e D.M.A. dietro un corrispettivo in denaro, circostanza quest’ultima che evidenzia che egli aveva
posto in essere una rinuncia traslativa a diritti di cui egli era
divenuto titolare proprio in base alla successione legittima,
(1) La Corte di cassazione, affermata la validità
dell’atto con il quale il figlio legittimato rinuncia
ai diritti successori dietro corrispettivo di un prezzo,
stabilisce che tale negozio non è soggetto ad alcun
onere formale.
I giudici di cassazione, muovendo dalle medesime
premesse della Corte territoriale, sostengono la natura
imperativa dell’art. 687 c.c. attraverso il richiamo a
precedenti analoghi 1, che ravvisano il fondamento oggettivo della norma richiamata, nella modificazione di
una situazione familiare in relazione alla quale il testatore aveva disposto dei suoi beni 2.
La norma, infatti, prescindendo dalla manifestazione
di volontà del de cuius, prevede l’eliminazione delle
disposizioni del testatore in relazione alla situazione
oggettiva, rappresentando nel particolare un’«ipotesi
di caducazione legale del testamento» 3.
Sulla base di tali presupposti, in relazione all’ipotesi
del figlio naturale, l’effetto eliminatorio si produce anche qualora la legittimazione sopravviene in esito al
perfezionamento del testamento purché, come sostenuto da recente giurisprudenza 4, il riconoscimento sia
stato operato dal de cuius nel tempo anteriore rispetto
alla redazione della volontà testamentaria 5.
1
Cass., Sez. II, 9 marzo 1996, n. 1935, in Mass. Giur. It., 1996.
Anche la giurisprudenza meno recente è orientata in tal senso:
Cass., 22 agosto 1956, n. 3146, in Giust. Civ., 1957, I, 1116; Id.,
6 ottobre 1954, n.3298, ivi, 1954, I, 222; Id., Sez. II, 3 novembre
2006, n. 23596, in Mass. Giur. It., 2006.
2
In dottrina si rileva come l’applicabilità della revoca del
testamento ex art. 687 c.c. all’ipotesi del figlio naturale, riconosciuto prima del testamento ma legittimato successivamente con
dichiarazione giudiziale, è indice di acquisizione da parte del
figlio naturale di una situazione migliore, che comporta la revoca delle disposizioni testamentarie a carattere patrimoniale. Cosı̀
Rossi Carleo, voce “Revoca degli atti”, in Enc. Giur. Treccani,
XXVII, Roma, 1991, 15. V. in particolare Cicu, Il testamento,
Milano, 1951. Di recente Palazzo, Le successioni, in Tratt. Dir.
Priv. a cura di Iudica, Zatti, Milano, 2000. V. anche CuffaroDelfino, Comm. C.C. a cura di AA.VV., II, Delle successioni
(artt. 565-712), Milano, 2010; Bonilini, Manuale di diritto ereditario e delle donazioni, Torino, 2006.
3
Bianca, Diritto Civile, II, La famiglia. Le successioni, Milano, 2005, 828. V. anche Bonilini (diretto da), Trattato di
diritto delle successioni e delle donazioni, II, Milano, 2009,
1735. La revocazione ex art. 687 c.c. ha un fondamento controverso. Secondo parte della dottrina, la ratio discende dalla presunzione della volontà del testatore, il quale avrebbe disposto
diversamente «si nascituros filios cogitasset». Tuttavia, seguendo un orientamento prevalente sia in dottrina che in giurisprudenza, il fondamento del dispositivo risiede nel contemperamento degli interessi successori dei discendenti. V. anche
Gangi, La successione testamentaria nel vigente diritto italiano,
II, Milano, 1964.
4
Cass., Sez. II, 9 marzo 1996.
5
Pertanto, i figli naturali non riconosciuti e quelli non riconoscibili non possono beneficiare della revocazione di diritto;
Giannattasio, Delle successioni. Successioni testamentarie, in
Comm. C.C. a cura di magistrati e docenti, II, Torino, 1978, 386.
Tuttavia un indirizzo ormai risalente ritiene che, anche nell’ipotesi di dichiarazione giudiziale, non trova applicazione l’istituto
della revocazione, poiché l’intervenuto riconoscimento giudiziario del figlio naturale non muterebbe, nei confronti del testatore, la situazione del figlio non riconosciuto; Talamanca, Suc-
posto che altrimenti il versamento della suddetta somma non
avrebbe avuto alcun titolo.
Pertanto, contrariamente all’assunto della sentenza impugnata, la pattuizione suddetta, lungi dall’eludere l’art. 687
c.c. e sottrarre alla regolamentazione delle parti gli interessi
successori dei figli la cui esistenza era ignorata dal testatore
al momento della redazione del testamento, ha consentito al
M., unico soggetto nella specie titolare degli interessi tutelati
dalla suddetta norma, di disporre di diritti a lui spettanti
proprio in seguito alla revoca di diritto del citato testamento
olografo.
In definitiva la sentenza impugnata deve essere cassata in
seguito all’accoglimento del ricorso; questa Corte, poi, considerato che il giudice di appello non ha rilevato altri profili
di nullità del negozio di cui alla scrittura privata del 22-51985 oltre quello sopra enunciato, e che quindi non sono
necessari ulteriori accertamenti in fatto, decidendo la causa
nel merito ai sensi dell’art. 384 c.p.c., rigetta la domanda
proposta dal M. con atto di citazione notificato il 12-10-1993
dinanzi al Tribunale di Lecce.
Ricorrono giusti motivi, avuto riguardo alla natura controversa delle questioni oggetto di causa, per compensare
interamente tra le parti le spese sia del giudizio di appello che
del presente giudizio. — Omissis.
Giurisprudenza Italiana - Marzo 2012
588
Diritto Civile | SCRITTURA PRIVATA
lità obbligatorie rispetto ai terzi e la rinuncia mediante
forma contrattuale tra coeredi, desumendosi, in tal
caso, la certezza della rinuncia anche da fatti concludenti 14.
La natura traslativa della scrittura privata con la quale
l’erede rinuncia ai diritti successori, non configurando
un atto in parte oneroso e in parte gratuito, pone le parti
in una situazione simmetrica. In tal senso, il trasferimento a titolo oneroso fa sı̀ che non sia necessaria l’osservanza di forme solenni ai fini di validità dello stesso.
Alla luce di quanto esposto, si può affermare che la
rinuncia traslativa a diritti successori appartenenti al
figlio naturale non può considerarsi quale elemento
elusivo dell’art. 687c.c., in quanto la stessa scrittura
privata, intervenuta la sentenza di riconoscimento, ha
permesso al figlio naturale di disporre validamente dei
diritti successori con decorrenza dall’apertura della
successione.
La suprema Corte ha affermato la revoca di diritto
delle disposizioni testamentarie, con conseguente decorrenza delle disposizioni revocate dal momento dell’apertura della successione e, discostandosi dalla pronuncia dei giudici d’appello, ha sostenuto la piena validità della scrittura privata intervenuta dopo l’apertura della successione ab intestato.
In questo senso, l’intervenuta sentenza di accertamento della filiazione attribuisce al figlio naturale quei
diritti che competono al figlio legittimo con efficacia
retroattiva 6.
Pertanto, afferma la Corte, «[...] quest’ultimo nella
rilevata qualità ben poteva disporre da allora dei suoi
diritti successori [...]» 7, escludendo, peraltro, qualsiasi
previsione dei patti successori di cui all’art. 458 c.c.
La sentenza consente di accennare all’interessante
problema della forma prevista per la rinuncia inerente
a diritti derivanti da una successione già aperta.
La decisione segue, sul punto, la dottrina più recente 8 che, in assenza di espresse norme di carattere generale, ammette la previsione di atti traslativi di diritti
ereditari pur in assenza di forme solenni dell’atto, al
fine di raggiungere un conveniente assetto di interessi
in relazione alle sostanze ereditarie.
Secondo tale impostazione, il fondamento del formalismo «mira all’esigenza di responsabilizzazione del
consenso, ed alla certezza dell’atto» 9.
Il divieto di analogia sancito per le norme eccezionali
dall’art. 14 delle disp. prel. c.c. non preclude tuttavia
un’interpretazione estensiva della norma, consentendo
cosı̀ il compimento, senza il formalismo richiesto, di un
atto di uguale portata.
La rinuncia traslativa dietro versamento di un corrispettivo in denaro, secondo l’orientamento richiamato 10, non può configurarsi quale rinuncia a eredità ex
art. 519 c.c., trattandosi invece di un contratto atipico
e in quanto tale non soggetto alle forma richiesta dal
citato articolo.
A ben vedere, una tale accordo sarebbe in realtà una
rinuncia traslativa o impropria 11, che, al di là del nomen, rivestirebbe nella realtà un vero e proprio contratto.
Sul tema, la giurisprudenza 12 condivide l’orientamento della dottrina e, riconducendo l’atto traslativo
nella medesima prospettiva di un negozio atipico con
effetto retroattivo dall’apertura della successione, lascia spazio alla validità della scrittura pur in assenza
delle formalità prescritte per la rinuncia ai diritti ereditari.
Tuttavia, un indirizzo giurisprudenziale meno recente 13 opera una distinzione tra l’osservanza delle forma-
Omissis. — 3. Con il terzo motivo, deducendo la violazione degli artt. 214, 215, 216 e 223 c.p.c., il ricorrente, in estrema sintesi, assume che, proposta querela di
falso, pur in presenza di un giudiziale riconoscimento della
sottoscrizione della scrittura per mancato suo disconoscimento, incomberebbe pur sempre all’altra parte l’onere di
promuovere il giudizio di verificazione ex art. 216 c.p.c.
Si tratta di censura che non può essere accolta.
Questa Corte ha già affermato (Cass., n. 13104/2000) che
colui che intende contestare globalmente una scrittura pri-
cessioni testamentarie, in Comm. C.C. a cura di Scialoja, Branca,
sub artt. 679-712, Bologna-Roma, 1975.
6
Cass., Sez. I, 17 dicembre 2007, n. 26575, in Mass. Giur. It.,
2007, nonché in Fam. e Dir., 2008, 6, 563, con nota di Russo.
7
Cass., Sez. II, 1o marzo 2011, n. 5037.
8
Barbero, Il sistema del diritto privato, Torino, 1993; Palazzo, voce “Forme del negozio giuridico”, in Digesto Civ.,
VIII, Torino, 1992.
9
Palazzo, voce cit., 442. Per un esame approfondito, v.
anche Natale, Autonomia privata e diritto ereditario, Milano,
2009.
10
In senso contrario Ferri, Successioni in generale,
in Comm. C.C. a cura di Scialoja, Branca, Bologna-Roma,
1965.
11
In realtà il termine di rinuncia sarebbe inappropriato, poiché si tratterebbe piuttosto di un atto contrario, ovvero di un’accettazione seguita da un atto di disposizione del diritto: Barbero, op. cit.
12
Cass., 7 giugno 1990, n. 5454, in Foro It., 1991, I, 172.
13
Cass., Sez. II, 19 luglio 1960, n. 2008, in Repertorio Giust.
Civ., 1960, Successione in genere, 32. Per una studio più approfondito v. Capozzi, Successioni e donazioni, Milano, 2002.
14
Sull’inammissibilità di una rinuncia tacita all’eredità, v. L.
Ferri, Rinuncia e rifiuto nel diritto privato, Milano, 1960. Diversamente la giurisprudenza ammette la validità anche della
rinuncia tacita: Trib. Roma, 9 febbraio 1952, in Foro It., 1953, I,
623; App. Roma, 10 luglio 1956, in Repertorio Foro It., 1957,
Successione, 53.
Giurisprudenza Italiana - Marzo 2012
SCRITTURA PRIVATA
Cassazione civile, III Sezione, 28 febbraio 2011,
n. 4918 — Trifone Presidente — Uccella Relatore
— Fucci P.M. (diff.) — B.P. (avv. D’Onofrio) - V.N.
(avv. Di Biase).
Conferma App. Roma, 12 luglio 2008, n. 3320.
Prove — Scrittura privata — Sottoscrizione in bianco — Riempimento abusivo — Riempimento absque
pactis — Compilazione contra pacta — Rilevabilità
d’ufficio — Inammissibilità (C.c. art. 2702; C.p.c. artt.
214, 215, 216, 221).
Colui che intende contestare globalmente una scrittura privata attribuitagli deve impugnarla con querela di
falso per impedire che il documento costituisca piena
prova della provenienza delle dichiarazioni in esso contenute da chi l’ha sottoscritto non potendo limitarsi a
disconoscerla (1).
Diritto Civile | SCRITTURA PRIVATA
vata attribuitagli, e non soltanto la firma da essa risultante,
non può limitarsi a disconoscerla, perché, se dal procedimento di verifica risulta che la firma è sua, deve impugnarla
con querela di falso per impedire che il documento costituisca piena prova della provenienza delle dichiarazioni, in esso
contenute, da colui che l’ha sottoscritto.
È stato, altresı̀, chiarito (ex plurimis: Cass., n. 16007/2003;
Cass., n. 3155/2004) che la sottoscrizione di un documento
integrante gli estremi della scrittura privata vale, ex se, ai
sensi dell’art. 2702 cod. civ., ad ingenerare una presunzione
iuris tantum di consenso del sottoscrittore al contenuto dell’atto e di assunzione della paternità dello scritto, indipendentemente dal fatto che la dichiarazione non sia stata vergata o redatta dal sottoscrittore. Ne consegue che, se la parte
contro la quale la scrittura sia stata prodotta ne riconosce la
sottoscrizione (ovvero se quest’ultima debba aversi per riconosciuta), la scrittura fa piena prova della provenienza delle
dichiarazioni da chi l’ha sottoscritta, mentre il sottoscrittore
che assuma, con querela di falso, che la sottoscrizione era
stata apposta su foglio firmato in bianco ed abusivamente
riempito, ha l’onere di provare sia che la firma era stata
apposta su foglio non ancora riempito, sia che il riempimento era avvenuto absque pactis.
Orbene, nella specie, in cui si era trattato proprio di contestazione del contenuto del documento per abusivo suo
riempimento absque pactis, correttamente il giudice del merito ha ritenuto che dovesse essere proposta la querela di
falso e che la dimostrazione del falso era a carico del querelante, sicché, non avendola costui fornita, ben poteva il documento essere utilizzato come fonte di prova sia del fatto
che il querelante lo aveva sottoscritto, sia del suo contenuto
(il cd. intrinseco). — Omissis.
589
(1) La Cassazione statuisce — in armonia con i
propri precedenti — la non ammissibilità del mero disconoscimento della scrittura privata da parte del
suo sottoscrittore. Ed infatti il soggetto che intende
contestare globalmente una scrittura privata — e non
già la mera sottoscrizione ivi apposta — ha l’onere
d’impugnarla con querela di falso allorché dal procedimento di verifica risulti l’autografia della firma apposta dall’autore 1.
Questo perché la sottoscrizione di un documento
sussumibile entro il paradigma normativo della scrit-
tura privata sarebbe idoneo a ingenerare una presunzione iuris tantum di consenso del sottoscrittore al contenuto dell’atto, indipendentemente dalla circostanza
che siffatta dichiarazione sia stata o meno vergata o
redatta da quest’ultimo 2.
Occorre peraltro rilevare che il riempimento abusivo
del documento sottoscritto in bianco da compilare in
seguito (c.d. biancosegno) genera conseguenze sanzionatorie in ambito civile e penale 3.
E infatti l’art. 486 c.p. punisce il soggetto che abusi di
un foglio firmato in bianco per procurare a sé o ad altri
un ingiusto vantaggio, attraverso la redazione di un
atto — produttivo di effetti giuridici — diverso da
quello cui era obbligato o autorizzato.
La pronuncia si inquadra in quel consolidato filone
giurisprudenziale secondo cui la denuncia di riempimento abusivo di un documento sottoscritto in
bianco — ove tale sottoscrizione sia riconosciuta —
richiederebbe l’esperimento della querela di falso 4
qualora detto riempimento sia avvenuto absque
pactis.
Siffatta espressione identifica il comportamento del
soggetto che abusi del biancosegno senza essere preventivamente autorizzato ad apporre alcuna modifica o
integrazione al testo scritto.
Al contrario, la querela di falso non sarebbe necessaria allorché il riempimento abusivo sia avvenuto contra pacta, ossia nell’inosservanza di un accordo di riempimento precedentemente intercorso fra le parti.
Questo perché, mentre nel primo caso ci sarebbe una
falsità materiale idonea a travolgere il collegamento fra
dichiarazione e sottoscrizione, nella seconda ipotesi
l’abuso si tradurrebbe invece in una disfunzione interna del procedimento di formazione dell’espressione di
volontà 5.
Precisamente, in tal caso si ravviserebbe un inadempimento del mandato ad scribendum poiché, non potendo escludersi la provenienza del documento dal suo
sottoscrittore, attraverso il patto di riempimento questi
1
In argomento Nurra, Biancosegno, riempimento abusivo e
querela di falso, in Riv. Giur. Sarda, 2011, 1, 6 e segg.
2
Cfr. Cass., 2 agosto 2011, n. 16915, in Mass. Giur. It., 2011;
Id., 6 luglio 2011, n. 14906, ibid.
3
In argomento Spina, Negozio di separazione consensuale ed
abusivo riempimento, in Giur. It., 2008, 11, 2443 e segg.; Marmocchi, Scrittura privata, in Riv. Notar., 1987, 6, 963 e segg.;
Rocchietti, Falso ideologico in scrittura privata e abuso di biancosegno alla luce del nuovo orientamento giurisprudenziale, in
Riv. Dir. Civ., 1986, 5, 525 e segg.; Schermi, Abusivo riempimento di foglio in bianco e querela di falso, in Giust. Civ., 1981,
11, 2713 e segg.
4
In tal senso, ex multis, Cass., 16 dicembre 2010, n. 25445,
in Mass. Giur. It., 2010, per cui: «Il disconoscimento non costituisce mezzo processuale idoneo a dimostrare l’abusivo riempimento del foglio in bianco, sia che si tratti di riempimento
absque pactis, sia che si tratti di riempimento contra pacta,
dovendo, invece, essere proposta la querela di falso, se si sostenga che nessun accordo per il riempimento sia stato raggiunto dalle parti, e dovendo invece essere fornita la prova di
un accordo dal contenuto diverso da quello del foglio sottoscritto, se si sostenga che l’accordo raggiunto fosse, appunto,
diverso»; Id., 22 maggio 2008, n. 13101, in Giust. Civ. Mass.,
2008, 5, 786, secondo cui: «Quando sia stata accertata — in
relazione ad una scrittura privata — l’autenticità della sottoscrizione e la parte contro cui essa è stata prodotta non abbia
inteso promuovere querela di falso, la deduzione di abusivo
riempimento di foglio firmato in bianco — qualora non sia
esclusa l’esistenza stessa del patto di riempimento — deve
ritenersi tardiva ove venga proposta per la prima volta in sede
di memorie autorizzate ai sensi dell’art. 184 c.p.c. (nel testo
antecedente alla sostituzione di cui all’art. 2 del d.l. n. 35 del
2005, convertito, con modificazioni, nella legge n. 80 del
2005), trattandosi di eccezione in senso proprio»; Id., 7 febbraio 2006 n. 2524, in. Giust. Civ., 2007, 7-8, 1743; Id., 6
maggio 1998 n. 4582, in Mass. Giur. It., 1998.
5
Cosı̀ Cass., 27 agosto 2007, n. 18059, in Mass. Giur. It.,
2007, per cui: «La denuncia dell’abusivo riempimento di un
foglio firmato in bianco postula il rimedio della querela di falso
tutte le volte in cui il riempimento risulti avvenuto absque pactis
o sine pactis — ipotesi che ricorre anche quando la difformità
della dichiarazione rispetto alla convenzione sia tale da travolgere qualsiasi collegamento tra la dichiarazione e la sottoscrizione — mentre tale rimedio non è necessario nell’ipotesi di
riempimento contra pacta, ossia in caso di mancata corrispondenza tra quanto dichiarato e quanto si intendeva dichiarare. (In
applicazione di tale principio, la S.C. ha confermato la sentenza
impugnata, la quale — poiché nel giudizio era stata fornita la
prova documentale circa l’entità del compenso spettante ad un
professionista, tramite una scrittura privata non disconosciuta
da colei che risultava averla firmata — aveva affermato che tale
prova poteva essere superata solo con la querela di falso.)».
Conforme Cass., 2 febbraio 1995, n. 1259, in Mass. Giur. It.,
1995.
Giurisprudenza Italiana - Marzo 2012
590
Diritto Civile | RESPONSABILITAv DELL’ISTITUTO SCOLASTICO
Omissis. — 3.1. La ricorrente, con unico motivo, denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 2043
e 2048 c.c., in una con insufficiente e contraddittoria motivazione. Chiede che la sentenza sia cassata in applicazione
del principio di diritto per cui, stante la portata generale
dell’obbligo dell’amministrazione scolastica di garantire la
sicurezza degli alunni, cosı̀ che la sorveglianza e la custodia
degli spazi frequentati dagli allievi deve intendersi finalizzata
alla prevenzione di qualsivoglia rischio prevedibile, compresa l’introduzione di animali privi di custodia, chi agisce per
il risarcimento deve dimostrare l’evento dannoso e il suo
verificarsi nel tempo in cui l’alunno era sottoposto alla vigilanza dell’insegnante, restando indifferente che invochi la
responsabilità contrattuale per negligente adempimento dell’obbligo di sorveglianza o la responsabilità extracontrattuale per omissione delle cautele necessarie, suggerite dall’ordinaria prudenza, in relazione alle specifiche circostanze di
tempo e di luogo, affinché sia salvaguardata l’incolumità dei
discenti minori.
4. Il ricorso è fondato.
4.1. Da quasi un decennio è principio consolidato, nella
giurisprudenza di legittimità, che il titolo della responsabilità del Ministero della pubblica istruzione, nel caso di
alunni che subiscano danni durante il tempo in cui dovrebbero esser sorvegliati dal personale della scuola, può essere
duplice e può esser fatto valere contemporaneamente. Il titolo è contrattuale se la domanda è fondata sull’inadempimento all’obbligo specificatamente assunto dall’autore del
danno di vigilare, ovvero di tenere una determinata condotta o di non tenerla; extracontrattuale se la domanda è
fondata sulla violazione del generale dovere di non recare
danno ad altri.
Quindi, lo stesso comportamento può essere fonte per il
suo autore sia di una responsabilità da inadempimento, sia di
una responsabilità da fatto illecito, quando l’autore della
condotta anziché astenersene la tenga, ovvero manchi di tenere la condotta dovuta e le conseguenze sono risentite in un
bene protetto, non solo dal dovere generale di non fare danno ad altri, ma dal diritto di credito, che corrisponde ad una
obbligazione specificamente assunta dalla controparte verso
di lui. Quando una tale situazione si verifica, il danneggiato
può scegliere, sia di far valere una sola tra le due responsabilità, sia di farle valere ambedue (in particolare da Cass.
n. 16947 del 2003 sino a tempi molto recenti).
Pure pacifico da tempo è che l’accoglimento della domanda di iscrizione, con la conseguente ammissione dell’allievo
alla scuola, determina l’instaurazione di un vincolo negoziale, dal quale sorge a carico dell’istituto l’obbligazione di vigilare sulla sicurezza e l’incolumità dell’allievo nel tempo in
cui questi fruisce della prestazione scolastica in tutte le sue
espressioni (anche al fine di evitare che l’allievo procuri danno a se stesso). Nonché, che è applicabile il regime probatorio desumibile dall’art. 1218 c.c.; sicché, mentre l’attore
deve provare che il danno si è verificato nel corso dello
svolgimento del rapporto, sull’altra parte incombe l’onere di
dimostrare che l’evento dannoso è stato determinato da causa non imputabile né alla scuola né all’insegnante (da s.u.
n. 9346 del 2002 sino al 2010).
6
Cfr. Cass., 13 marzo 2009, n. 6167, in Giust. Civ. Mass., 2009,
3, 446, per cui: «Nel caso in cui il fideiussore abbia sottoscritto
il documento contrattuale in bianco senza l’indicazione del beneficiario e si dolga della successiva apposizione del nominativo
del beneficiario in modo difforme da quello pattuito, colui che
intende avvalersi della scrittura non è tenuto a proporre istanza
di verificazione della stessa, non ribadendosi in un caso di disconoscimento della sottoscrizione, ed incombendo, invece, sul
fideiussore sottoscrittore che abbia proposto l’eccezione dell’abusivo riempimento contra pacta l’onere di provare la relativa
circostanza, senza che il medesimo sia tenuto a proporre querela
di falso, necessaria, invece, nel caso in cui si assuma che il riempimento sia avvenuto absque pactis»; Id., 10 marzo 2006, n. 5245,
in Mass. Giur. It., 2006, secondo cui: «La denunzia dell’abusivo
riempimento di un foglio firmato in bianco postula la proposizione della querela di falso tutte le volte in cui il riempimento
risulti avvenuto absque pactis, non anche nell’ipotesi in cui il
riempimento abbia avuto luogo contra pacta: nel primo caso, infatti, il documento esce dalla sfera di controllo del sottoscrittore
completo e definitivo, sicché l’interpolazione del testo investe il
modo di essere oggettivo dell’atto, tanto da realizzare una vera e
propria falsità materiale, che esclude la provenienza del documento dal sottoscrittore; nel secondo caso, invece, tale provenienza non può essere esclusa, in quanto attraverso il patto di
riempimento il sottoscrittore fa preventivamente proprio il risultato espressivo prodotto dalla formula che sarà adottata dal
riempitore. Ciò che rileva, ai fini dell’esclusione della querela di
falso, è che il riempitore sia stato autorizzato al riempimento,
mentre nessuna importanza ha il fatto che egli miri a far apparire
il documento come collegato ad un’operazione economica diversa da quella alla quale si riferisce l’autorizzazione. (In applicazione di tale principio, la S.C. ha confermato la sentenza impugnata, la quale, in riferimento al riempimento di cambiali in
bianco, aveva escluso che fosse necessaria la querela di falso per
dimostrare che i titoli erano stati abusivamente utilizzati dal creditore, per documentare un finanziamento diverso da quello per
il quale erano stati originariamente rilasciati».
7
Lo rileva Galgano, Diritto civile e commerciale, Padova,
2004, II, 1, 264 e segg.
8
Sul punto Spina, op. cit., 2245.
accetterebbe preventivamente il risultato espressivo
che il riempitore adotterà 6.
In entrambi i casi, però, l’abuso del biancosegno non
è rilevabile d’ufficio dal giudice. Spetta dunque alla
parte interessata l’onere di provare il riempimento contra pacta oppure la compilazione absque pactis del documento.
Ulteriore quesito concerne la validità dell’atto indebitamente prodotto.
Secondo parte della dottrina, la fattispecie dell’abusivo riempimento di biancosegno configurerebbe una
causa speciale di annullabilità 7.
Siffatta tesi è criticata da chi osserva che l’annullabilità è un vizio testuale, pertanto ammissibile solo ove
espressamente prevista dalla legge 8. Tale caratteristica
vale infatti a differenziarla dalla nullità, che costituisce
invece una sanzione c.d. virtuale, ossia ravvisabile allorché il legislatore abbia previsto una forma d’invalidità senza specificarne la natura.
RESPONSABILITAv DELL’ISTITUTO SCOLASTICO
Cassazione civile, III Sezione, 15 febbraio 2011,
n. 3680 — Petti Presidente — Carluccio Relatore
— Golia P.M. (conf.) — M.R. (avv.ti Esposito, Pelosi)
- Ministero della pubblica istruzione.
Responsabilità civile — Ministero della pubblica
istruzione — Alunni che subiscono danni nel periodo
di sorveglianza da parte del personale scolastico —
Duplicità del titolo della responsabilità — Alternatività tra azione contrattuale ed extracontrattuale —
Scelta del danneggiato (C.c. artt. 1218, 2043).
Nel caso di danno subito da un alunno, spetta al danneggiato la scelta di far valere nei confronti del Ministero della pubblica istruzione sia la responsabilità da inadempimento o da fatto illecito, sia di farle valere entrambe (1).
Giurisprudenza Italiana - Marzo 2012
Diritto Civile | RESPONSABILITAv DELL’ISTITUTO SCOLASTICO
4.2. La sentenza impugnata contrasta, evidentemente, con
questi principi. Oltre ad ignorare il duplice titolo di responsabilità e la facoltà di scelta in capo al danneggiato, non ha
valutato la portata degli obblighi contrattuali derivanti all’amministrazione scolastica dall’iscrizione dell’alunno.
Con l’iscrizione, gli alunni sono affidati all’amministrazione scolastica, che esplica il proprio servizio attraverso il personale — docente e non — e mediante la messa a disposizione di locali, laboratori ecc. Dall’iscrizione deriva a carico
dell’istituto l’obbligazione di vigilare sulla sicurezza e l’incolumità dell’allievo nel tempo in cui questi fruisce della prestazione scolastica in tutte le sue espressioni. Quindi, anche
l’obbligo di vigilare, predisponendo gli accorgimenti necessari a seconda della conformazione dei luoghi, affinché nei
locali scolastici non si introducano terzi (persone o animali)
che possano arrecare danni agli alunni. — Omissis.
591
Un’alunna veniva addentata alla mano da un cane
incustodito nel cortile antistante la scuola, mentre si
accingeva a uscire dall’edificio al termine delle lezioni.
A seguito delle lesioni subite, avanzava domanda di
risarcimento danni nei confronti del Ministero della
pubblica istruzione. Il Tribunale rigettava la domanda,
non potendosi configurare, in capo alla P.A., l’obbligo
di impedire simili eventi. In appello l’attrice deduceva
la violazione dell’obbligo contrattuale di garantire la
sicurezza dei minori affidati alla scuola, ma la domanda
veniva ritenuta nuova.
Con ricorso per cassazione, si chiedeva l’applicazione del principio di diritto secondo cui sussiste un obbligo generale dell’amministrazione scolastica di garantire la sicurezza degli alunni, per cui chi agisce per
il risarcimento dei danni deve dimostrare l’evento dannoso e il suo verificarsi durante il tempo in cui l’alunno
era sottoposto alla vigilanza dell’insegnante, restando
indifferente che si invochi la responsabilità contrattuale o aquiliana.
La suprema Corte, con la sentenza che si annota,
nell’accogliere il ricorso ha riaffermato alcuni principi
consolidati nella giurisprudenza di legittimità.
In particolare, la pronuncia pone in evidenza come
sia ormai pacifico che l’accoglimento della domanda
di iscrizione con cui si ammette l’allievo alla scuola
determina l’instaurazione di un vincolo negoziale, dal
quale sorge a carico dell’istituto l’obbligo di vigilare
sulla sicurezza e l’incolumità dell’allievo nel tempo in
cui questi fruisce della prestazione scolastica, anche al
fine di impedire che nei locali scolastici si introducano
terzi che possano arrecare danno agli allievi 1. Pertanto, il regime probatorio applicabile è quello previsto dall’art. 1218 c.c., in materia di responsabilità contrattuale.
Il ragionamento è senz’altro lineare, e comporta notevoli vantaggi in tema di onere probatorio per il danneggiato.
Ad ogni modo, la sentenza enuncia un altro principio, altrettanto consolidato nell’ambito della giurisprudenza, secondo il quale il titolo della responsabilità del Ministero della pubblica istruzione, per i danni
che gli alunni subiscano durante il tempo in cui dovrebbero essere sotto la sorveglianza del personale scolastico, può essere duplice e può essere fatto valere
contemporaneamente. Invero, la responsabilità è contrattuale se la domanda si fonda sull’inadempimento
dell’obbligo specifico di vigilare sull’incolumità dell’allievo — obbligo sorto in virtù, appunto, della conclusione del contratto —, mentre la responsabilità è aquiliana se la domanda si fonda sulla violazione del generale principio del neminem laedere.
In altri termini, il medesimo comportamento può dar
luogo sia ad una responsabilità da inadempimento, sia
ad una responsabilità da fatto illecito, a seconda che la
lesione derivi dalla violazione del diritto di credito ovvero del dovere generale di non recare danno ad altri.
In tale ipotesi, spetta al danneggiato la scelta se far
valere una delle due responsabilità, ovvero se farle valere entrambe 2.
Se si tiene fede a questo principio, sembra però quasi
superfluo precisare che tra l’allievo e la scuola sussiste
un rapporto contrattuale, dal quale sorge l’obbligo di
vigilare sulla sicurezza di quanti fruiscano delle prestazioni scolastiche.
In verità, cosı̀ ragionando, dovrebbe piuttosto concludersi nel senso che il regime applicabile è, in ogni
caso, quello previsto dall’art. 1218 c.c. Una volta affermato, infatti, che l’istituto scolastico non è paragonabile al quisque de populo — con conseguenti vantaggi
processuali in capo al danneggiato 3 — non si vede
l’utilità di accordare alla vittima la possibilità di far
valere la responsabilità aquiliana. D’altronde, tra gli
obblighi contrattuali assunti dall’istituto scolastico con
l’ammissione dell’allievo alla scuola vi è proprio quello
di vigilare sulla sicurezza e sull’incolumità dello stesso,
beninteso, nel tempo in cui questi fruisce della prestazione scolastica in tutte le sue espressioni. Se poi si
afferma che il predetto obbligo comprende il dovere di
predisporre gli accorgimenti necessari affinché nei locali scolastici non si introducano terzi (persone o animali, come nella specie è accaduto) che possano arrecare danno agli alunni, allora non si vede come si possa
inquadrare la fattispecie nell’ambito della responsabilità «del chiunque o del passante». In verità, si tratta
della violazione di uno specifico obbligo assunto con la
conclusione del contratto.
La vera difficoltà sta nell’individuare le ipotesi concrete in cui a carico dell’istituto scolastico possa ritenersi sussistere una responsabilità da fatto illecito.
Le ipotesi di lesione derivante dalla violazione del
dovere di vigilanza sulla sicurezza degli alunni, come
detto, sono incluse negli obblighi contrattuali assunti
all’atto dell’iscrizione. Pertanto, residuerebbero le
1
È questo il principio enunciato da Cass., Sez. un., 27 giugno
2002, n. 9346, in Foro It., 2002, I, 2635. V. anche, tra le altre,
Cass., Sez. III, 29 aprile 2006, n. 10030, in De Jure, nonché Id.,
Sez. III, 3 marzo 2010, n. 5067, ivi.
2
Cosı̀, in precedenza, Cass., Sez. III, 11 novembre 2003, n.
16947, in Foro It., 2004, I, 426, citata peraltro dalla pronuncia
che si annota.
3
Per le differenze di disciplina tra la responsabilità contrattuale ed extracontrattuale e i conseguenti risvolti applicativi, v.
Scognamiglio, Responsabilità contrattuale ed extracontrattuale, in Noviss. Dig. It., XV, Torino, 1968, 670 e segg., nonché
Rossello, Responsabilità contrattuale ed extracontrattuale, in
La responsabilità civile a cura di Alpa-Bessone, Torino, 1987, I,
291 e segg.
(1) Il cane morde l’alunna all’uscita della
scuola: quid iuris?
Giurisprudenza Italiana - Marzo 2012
592
Diritto Civile | RESPONSABILITAv DELL’ISTITUTO SCOLASTICO
ipotesi in cui l’allievo cagioni danni a un terzo 4, come
tali estranee a quella oggetto della pronuncia in commento.
A ragionare diversamente, si finirebbe per sminuire
la portata della teoria del contatto sociale, elaborata
dagli interpreti proprio al fine di poter estendere l’applicabilità della disciplina in materia di contratti (in
primis, il riparto dell’onere probatorio) in talune ipotesi in cui tra le parti non è intercorso un vero e proprio negozio, ma in virtù del “contatto” tra le medesime sarebbe ingiusto equiparare l’altro contraente a un
semplice passante, il cui unico obbligo sarebbe quello
di non recare danno ad altri 5. In quest’ottica, può conseguire un evidente alleggerimento dell’onere probatorio in capo al danneggiato. Egli, infatti, dovrà dimostrare semplicemente che il danno si è verificato durante l’orario scolastico e allegare l’inadempimento,
mentre in capo al danneggiante graverà la prova di non
aver potuto impedire il fatto, ai sensi dell’art. 1218 c.c.
Piuttosto si sarebbe dovuto considerare quanto recentemente affermato dalle ormai note Sezioni unite 6,
e cioè che il danno non patrimoniale è risarcibile anche
all’interno della responsabilità contrattuale, se si tratta
della violazione di diritti inviolabili della persona (come nel caso che ci occupa). In seguito a tale violazione,
infatti, sorge in capo al danneggiante l’obbligo di risarcire il danno, quale che sia la fonte della responsabilità,
contrattuale o extracontrattuale.
Invero, «se l’inadempimento dell’obbligazione determina, oltre alla violazione degli obblighi di rilevanza
economica assunti con il contratto, anche la lesione di
un diritto inviolabile della persona del creditore, la
tutela risarcitoria del danno non patrimoniale potrà
essere versata nell’azione di responsabilità contrattuale, senza ricorrere all’espediente del cumulo di azioni».
In altre parole, dal contratto sorge altresı̀ l’obbligo di
non ledere la persona dell’altro contraente 7.
Le Sezioni unite, peraltro, richiamavano altresı̀ l’ipotesi del contratto di protezione che si instaura tra l’allievo e l’istituto scolastico e affermavano, per l’appunto, che tra gli interessi non patrimoniali che si inten-
dono perseguire con detto contratto figura proprio
quello all’integrità fisica dell’allievo, con conseguente risarcibilità del danno non patrimoniale, anche da
autolesione. Con l’ulteriore effetto che il risarcimento
sarà regolato esclusivamente e semplicemente dalle
norme dettate in materia di responsabilità contrattuale.
In altre parole, «sotto l’ombrello protettivo del contratto trovano adeguata tutela giuridica fattispecie nelle quali il danno non può dirsi derivare da una casuale
o non desiderata collisione di soggetti terzi e il superamento dei confini della responsabilità aquiliana è comunque giustificato dalla presenza dell’affidamento
del terzo in un particolare status professionale. In questi casi, infatti si avrebbe una vera e propria responsabilità di natura contrattuale nei confronti del terzo
danneggiato attesa la configurabilità di un rapporto
obbligatorio, seppur imperniato non già su un obbligo
di prestazione (di cui i doveri di protezione sarebbero
accessori), bensı̀ limitato al solo profilo della protezione o della sicurezza del terzo» 8.
Cosı̀ ragionando, troverebbero certo soluzione le
problematiche scaturenti da alcune situazioni di confine nelle quali lo stesso fatto dannoso potrebbe essere,
prima facie, qualificato e come illecito extracontrattuale e come inadempimento di un’obbligazione contrattuale, situazioni in cui, appunto, la giurisprudenza e la
dottrina hanno parlato di concorso o cumulo delle
azioni 9.
Invero, le regole di responsabilità contrattuale rivestirebbero carattere di specialità rispetto alle regole
della responsabilità aquiliana. Dunque bisognerebbe
dare prevalenza all’autonomia privata che ha scelto di
attribuire a un determinato interesse una tutela particolare 10.
È pur vero che, almeno fino a oggi, il precedente
giudiziario, per quanto autorevole, non può essere
considerato vincolante e che i giudici, ove lo ritengano,
possono discostarsene 11.
Il ragionamento finora seguito peccherebbe di incompletezza laddove non ci si interrogasse sulla reale
4
Cass., Sez. un., 27 giugno 2002, n. 9346, cit. Dalla motivazione di queste Sezioni unite, invero, «si evince che l’amministrazione scolastica risponde a titolo contrattuale esclusivamente nell’ipotesi di autolesione dell’allievo mentre in tutti gli altri
casi in cui un allievo rechi danno ad altro allievo o ad un terzo,
tale responsabilità avrebbe natura extracontrattuale, con la conseguente applicazione dell’art. 2048 c.c.»: cosı̀, letteralmente,
Menini, I confusi limiti della responsabilità dell’amministrazione scolastica e dell’insegnante nel caso di danni provocati da un
alunno a se stesso o ad altro alunno, in Nuova Giur. Comm., 2007,
363.
5
In giurisprudenza, il tema del contatto sociale è stato affrontato principalmente da Cass., Sez. un., 22 gennaio 1999,
n. 589, in De Jure; sul punto, particolare rilievo assume anche
Id., Sez. un., 11 gennaio 2008, n. 577, ivi. Cosı̀, il medico dipendente dell’azienda sanitaria, pur non avendo stipulato un
vero e proprio contratto con il paziente, risponderà ugualmente
a titolo di responsabilità contrattuale, in virtù del “contatto”
intercorso tra i due soggetti, tale da escludere che la prestazione
del medico sia equiparabile a quella del quisque de populo.
6
Si allude alla nota sentenza emessa nel 2008 in tema di
danno non patrimoniale: Cass., Sez. un., 11 novembre 2008,
n. 26972, in De Jure.
7
Si rinvia, peraltro, al testo integrale della sentenza. Cfr., sul
punto, Poletti, La dualità del sistema risarcitorio e l’unicità
della categoria dei danni non patrimoniali, in Resp. Civ. e Prev.,
2009, 76.
8
Pastore, Responsabilità da contatto sociale dell’insegnante:
cui prodest?, in Danno e Resp., 2011, 392. Sul contratto con
effetti protettivi a favore di terzo, Castronovo, voce “Obblighi
di protezione”, in Enc. Giur. Treccani, XXI, Roma, 1990.
9
Cfr. Visintini, voce “Responsabilità contrattuale ed extracontrattuale”, in Enc. Giur. Treccani, XXXI, Roma, 1988, 1; Id.,
Responsabilità contrattuale ed extracontrattuale (una distinzione
in crisi?), in Rass. dir. civ., 1983, 1077. Tra le ipotesi in cui la
distinzione tra responsabilità contrattuale ed extracontrattuale
sembra sfumare vi è quella del trasporto di persone, laddove
l’azione può fondarsi, a seconda dei casi, sull’art. 1681 ovvero
sull’art. 2054 c.c. Sul tema Antonini, Responsabilità contrattuale ed extracontrattuale: il diritto dei trasporti, banco di prova di
una adeguata evoluzione del regime del concorso, in Resp. Civ. e
Prev., 2010, 253; cfr. inoltre Rossello, op. cit., 306. Negli stessi
termini Lepre, Responsabilità aquiliana e contrattuale: un unico
modello giurisprudenziale di responsabilità?, in Giur. di Merito,
2007, 3063.
10
Rossello, op. cit., 322, il quale sottolinea l’incompatibilità
tra i due diversi regimi di responsabilità.
11
V. però l’art. 118 disp. att. c.p.c., laddove dispone che il
giudice, nel motivare la sentenza, deve far riferimento altresı̀ a
precedenti conformi. Forse un passo in avanti del legislatore, il
Giurisprudenza Italiana - Marzo 2012
Diritto Civile | RESPONSABILITAv DELL’ISTITUTO SCOLASTICO
593
portata della pronuncia in commento e sui risvolti applicativi dell’accoglimento dell’opinione contraria a
quella sin qui esposta.
L’alternatività tra i due tipi di azione viene accordata
proprio allorché la distinzione tra responsabilità contrattuale ed extracontrattuale risulti problematica, in
occasione di illeciti commessi in vista della conclusione
di un contratto o di comportamenti scorretti che incidono nella fase di esecuzione di un rapporto obbligatorio 12. È naturale, infatti, che per potersi parlare di
alternatività occorre che danneggiante e danneggiato
coincidano rispettivamente con il debitore e il creditore dell’obbligazione e che il danno sia conseguenza
dell’inadempimento dell’obbligazione 13.
Al riguardo, parte della dottrina si preoccupa di distinguere il concetto di cumulo da quello di concorso,
spesso e volentieri indicati in maniera promiscua 14.
Invero, se con cumulo si intende la possibilità da parte
del danneggiato di assommare i vantaggi dell’una e
dell’altra azione e quindi di ottenere due volte il risarcimento per lo stesso fatto lesivo, esso di certo non può
trovare riconoscimento nel nostro ordinamento 15. Se
invece si identifica il cumulo con la possibilità, per il
danneggiato, di scegliere, in via alternativa, l’una o l’altra azione, la distinzione tra cumulo e concorso si risolve in quella tra concorso di azioni e concorso di
norme 16. In altri termini, si ha concorso quando è ammessa l’esperibilità, in via alternativa, dell’una o dell’altra azione, ovvero cumulo di azioni, laddove sia possibile cumulare i vantaggi dell’una e dell’altra azione
nell’ambito del medesimo procedimento 17.
Nel caso che ci occupa, si è trattato di un inadempimento contrattuale cui è conseguita la lesione di diritti
assoluti della persona: sicché, al più, si potrebbe parlare di cumulo e non di possibilità di scelta tra le due
azioni. Sennonché la Cassazione, con la pronuncia in
commento, quando afferma che il titolo della responsabilità del Ministero dell’istruzione può essere duplice ed essere fatto valere contemporaneamente, sembra
dimenticare la necessità, di tipo garantistico, di evitare
duplicazioni risarcitorie. Nella mente dei giudici,
l’alunno non solo può scegliere l’una o l’altra via, ma
può anche decidere di seguirle entrambe e in contemporanea, senza (pare) la necessità di distinguere le ipotesi in cui l’evento dannoso scaturisca dall’inadempimento degli obblighi contrattuali assunti da quelle, come detto, in cui il danno sia subito altresı̀ da un soggetto che sia estraneo al rapporto.
La dottrina favorevole all’ammissibilità del concorso
evidenzia il carattere inderogabile delle norme di responsabilità aquiliana, ma soprattutto, si afferma, non
vi sarebbe una ragione ben precisa per la quale un
rimedio dovrebbe escludere l’altro 18.
In realtà, occorre precisare che, quando unico è il
fatto produttivo del danno, il concorso non può essere
ammesso: se il fatto illecito si riferisce alle obbligazioni
nascenti dallo speciale rapporto che si è fra le parti
costituito in seguito all’accordo, non può parlarsi che
di colpa contrattuale, anche quando si tratti di obblighi
che per avventura sarebbero potuti sussistere in assenza di detto rapporto. La presenza di quest’ultimo si va
semplicemente a sovrapporre al rapporto generale esistente fra tutti gli uomini, e imprime agli obblighi volontariamente assunti un carattere di specialità 19. Cosı̀,
nel caso che ci interessa, se si parte dal presupposto che
tra l’allievo e la scuola intercorre un rapporto di tipo
negoziale, che sorge a seguito dell’atto di iscrizione, si
ha come conseguenza che il danneggiato dovrebbe
esercitare esclusivamente l’azione di responsabilità
contrattuale, nella quale, come detto, si versa l’azione
di responsabilità extracontrattuale. Risulta, cosı̀, contraddittoria la soluzione della pronuncia in commento
la quale, dopo aver posto l’accento sull’alternatività tra
le due azioni, si concentra in special modo sulla portata
degli obblighi contrattuali assunti dall’amministrazione scolastica con l’iscrizione dell’allievo, concludendo
nel senso che il regime probatorio applicabile è quello
di cui all’art. 1218 c.c.
Inoltre, non si vede come il danneggiato possa, in
ipotesi, ritenere più vantaggiosa la disciplina in tema di
responsabilità aquiliana, posto che i termini di prescrizione sono dimidiati e l’onere della prova è certamente
più gravoso per il danneggiato 20. Se l’interesse meritevole di tutela si colloca nell’ambito esclusivo del rap-
quale ha cosı̀ espressamente attribuito importanza all’opera di
interpretazione dei nostri giudici.
12
La tesi, tuttavia, può ritenersi superata, in quanto ormai
pacificamente si ritiene che gli obblighi di buona fede e correttezza devono essere osservati in ogni fase del contratto e cioè
anche nell’espletamento delle trattative: sicché, anche in questa
ipotesi, si può parlare di responsabilità contrattuale. Cfr. Cass.,
Sez. III, 18 settembre 2009, n. 20106, in De Jure. Al riguardo, si
parla di fragili basi della regola del cumulo: cosı̀ Visintini, op.
loc. cit.; cfr., poi, Monateri, Cumulo di responsabilità contrattuale ed extracontrattuale. Analisi comparata di un problema,
Padova, 1989, passim. V., inoltre, Rossello, op. cit., 307. Sulla
crisi della distinzione tradizionale tra responsabilità contrattuale ed extracontrattuale v., inoltre, Casamassima, Responsabilità
contrattuale ed extracontrattuale, in I danni risarcibili nella responsabilità civile, Torino, 2005, 275, in Il diritto civile nella
giurisprudenza a cura di Cendon.
13
Resta fuori, pertanto, l’ipotesi in cui in capo al medesimo
debitore sussista una responsabilità contrattuale nei confronti
del creditore e di una responsabilità extracontrattuale nei confronti di terzi estranei al rapporto. Si pensi all’ipotesi in cui un
soggetto stipuli un contratto di trasporto con un altro soggetto
e nel contempo decida di trasportare un terzo soggetto solo a
titolo di cortesia. In tale evenienza, laddove da un medesimo
fatto scaturiscano danni per entrambi i trasportati, non si potrà
certo dire che il contraente risponda solo a titolo di responsabilità contrattuale.
14
Rossello, op. cit., 316.
15
L’esigenza di evitare duplicazioni risarcitorie è, d’altronde,
alla base della motivazione delle note Sezioni unite del 2008 già
menzionate.
16
Rossello, op. cit., 316.
17
Monateri, Il concorso di responsabilità contrattuale ed extracontrattuale: cenni essenziali, in I danni risarcibili nella responsabilità civile. Aspetti processuali ed applicativi, Torino, 2005,
299 e seg., in Il diritto civile nella giurisprudenza a cura di Cendon.
18
Scognamiglio, op. loc. cit. In realtà si tratta di un argomento debole, francamente poco idoneo a risolvere la questione.
19
Cfr. la giurisprudenza menzionata da Rossello, op. cit.,
331.
20
Più precisamente, e per dovere di completezza, esistono
casi, diverso da quello in esame, in cui, pur nella consapevolezza
del più complesso onere probatorio proprio dell’azione extracontrattuale (relativo alla dimostrazione del dolo o della colpa
del soggetto agente), l’esperienza concreta ha evidenziato l’utilità della stessa ogniqualvolta quella contrattuale risulta prescritGiurisprudenza Italiana - Marzo 2012
594
Diritto Civile | PETITIO HEREDITATIS
porto contrattuale, davvero non si vede la necessità di
attribuire al danneggiato una possibilità di scelta tra
due tipi di azioni, posto che tramite l’esperimento dell’azione contrattuale il medesimo può trovare il pieno
soddisfacimento delle proprie pretese.
In quest’ottica, ha ragione quella dottrina che afferma che «per quanto riguarda l’obbligo di protezione
che la scuola assume nei confronti dell’allievo, non vi è
ragione di ritenere che il danneggiato possa preferire
l’azione di tipo extracontrattuale, piuttosto che contrattuale, al fine di non subire, ai sensi dell’art. 1225
c.c., una limitazione del risarcimento da conseguire in
ragione della prevedibilità del danno: non fosse altro
perché la scuola, essendo tenuta a tutelare l’incolumità
degli allievi che le vengono affidati, ha motivo di prevedere che, in caso di suo inadempimento, i danni al
minore potrebbero essere anche, in casi particolarmente sfortunati, di gravissima entità» 21.
E l’espansione delle ipotesi di responsabilità contrattuale costituiscono certamente un segno dell’evoluzione dei tempi: «mentre, da una parte, la responsabilità
extracontrattuale conquista lidi che sino a pochi anni
fa le erano preclusi (un esempio su tutti: l’area degli
interessi legittimi), dall’altra, il regime giuridico della
responsabilità contrattuale tende, via via, a guadagnare
terreno in ambiti tradizionalmente coperti dalla disciplina dell’illecito aquiliano» 22.
Diverso è il caso in cui un terzo estraneo al rapporto
negoziale intercorrente tra due diversi soggetti si insinui con una condotta illecita nel medesimo rapporto e
arrechi un danno a una delle parti del rapporto al quale
egli è estraneo: si pensi allo storno di dipendenti di un
altro imprenditore. Ma questa ipotesi non è paragonabile a quella in esame, giacché alcun legame contrattuale esiste tra danneggiante e danneggiato. Il contratto c’è, ma il danno non discende dagli obblighi assunti
dalle parti con la stipula del medesimo.
È pur vero, d’altra parte, che nel caso di scelta dell’azione per responsabilità aquiliana troverebbe applicazione non sempre la disciplina generale di cui all’art.
2043 c.c., bensı̀, nel caso di fatto illecito dell’allievo,
quella speciale dell’art. 2048 c.c. che, come noto, è
tradizionalmente inquadrata tra le ipotesi di responsabilità semi-oggettiva, poiché pone in capo al danneggiante una prova liberatoria che può ritenersi, per certi
versi, diabolica 23.
Inoltre, se si accoglie la tesi favorevole al concorso,
venuta meno una delle due azioni per qualunque ragione, rimane ferma l’altra azione la quale, anche se
fondata sui medesimi presupposti di fatto, è soggetta al
suo proprio termine prescrizionale 24.
È probabile che la Cassazione, con la pronuncia in
commento, nel richiamare le norme in tema di responsabilità extracontrattuale, abbia avuto in mente le ipotesi in cui a subire un danno sia un soggetto terzo,
estraneo al rapporto tra allievo e istituto scolastico. In
verità, subito dopo la stessa si è concentrata sul rapporto di tipo negoziale che intercorre ormai pacificamente tra scuola e studente.
Diversamente opinando, non si capirebbe la ragione
di concludere la parte motiva ponendo un marcato
accento sulla portata degli obblighi contrattuali esistenti in capo all’amministrazione scolastica e sui conseguenti risvolti applicativi in tema di riparto dell’onere probatorio 25.
Forse, allora, la pronuncia non si discosta molto dal
percorso argomentativo fin qui seguito, e che segue il
sillogismo in base al quale se c’è il contratto la responsabilità è, seppur entro certi limiti, contrattuale e, dunque, la disciplina applicabile è quella di cui agli artt.
1218 e segg. c.c.
ta, oppure non esercitabile in maniera satisfattoria per la sussistenza di limiti legali nel risarcimento o di un particolare regime
esonerativo. Infatti, diversamente rispetto alla regola generale,
nel campo dei trasporti il termine di estinzione dei diritti nascenti dal contratto è più breve. Sicché, estinto il diritto al risarcimento del danno da inadempimento contrattuale, può non
esserlo quello nascente dall’atto illecito, assistito da un termine
prescrizionale ben più lungo. Cosı̀, letteralmente, Antonini,
op. loc. cit.
Per una disamina delle differenze principali intercorrenti tra
la responsabilità contrattuale ed extracontrattuale v. altresı̀ Monateri, op. ult. cit., 302.
21
Di Ciommo, La responsabilità contrattuale della scuola
(pubblica) per il danno che il minore si procura da sé: verso il
ridimensionamento dell’art. 2048 c.c., in Foro. It., 2002, 2636,
nota a Cass., Sez. un., 27 giugno 2002, n. 9346. La sensazione,
dunque, è, secondo l’A., che il ricorso giudiziale all’art. 2048,
per illeciti patiti da minori (anche a causa di altri minori sotto-
posti alla vigilanza degli stessi adulti) durante il periodo di loro
affidamento a enti culturali, sportivi o sociali, diminuirà notevolmente.
22
Di Ciommo, op. loc. cit. Cfr. anche Lepre, op. loc. cit.
23
Invero, i precettori e i maestri si liberano da responsabilità
laddove provino di non aver potuto impedire il fatto; in altri
termini, la prova consiste nella dimostrazione del fortuito. Per
un’analisi approfondita della fattispecie di cui all’art. 2048, v.
Galgano, Trattato di diritto civile, Padova, 2010, 195 e segg.
24
Galgano, op. cit., 298, nota 3.
25
Invero, la sentenza conclude nel senso che nelle controversie per il risarcimento del danno da lesioni provocate dall’aggressione di un cane incustodito, nei locali e pertinenze della
scuola, l’attore deve provare che il danno si è verificato nel corso
dello svolgimento del rapporto, mentre l’amministrazione ha
l’onere di dimostrare che l’evento dannoso è stato determinato
da causa non imputabile, essendo stati predisposti gli accorgimenti idonei a impedire l’accesso a terzi.
Giurisprudenza Italiana - Marzo 2012
Eleonora Petrone
PETITIO HEREDITATIS
Cassazione civile, II Sezione, 9 febbraio 2011,
n. 3181 — Triola Presidente — Giusti Relatore —
Golia P.M. (conf.) — M.S. (avv. Lania) - M.M.C. ed
altro (avv. Sponga).
Successione legittima e testamentaria — Azione di
petizione di eredità — Beni compresi nell’asse ereditario al momento dell’apertura della successione —
Beni trasferiti dal de cuius prima della morte — Esclusione — Fondamento (C.c. art. 533).
L’azione di petizione di eredità non può essere esperita
nei confronti del coerede per far ricadere in successione
beni che il de cuius gli abbia attribuito in vita (1).
Diritto Civile | PETITIO HEREDITATIS
V. già Giur. It., 2012, 2, 300, con nota di Cimmarusti.
(1) Al fine di meglio comprendere il dictum riportato nella massima, è necessario un breve riepilogo della questione.
Tizio, deceduto, aveva nominato erede ed esecutore
testamentario il nipote Caio, al quale in vita aveva conferito l’incarico di procedere al prelievo di somme di
denaro dal proprio conto corrente, allo scopo di poterne disporre — per suo conto — in favore di Caia e
Filana.
Tizia e Sempronia, rispettivamente moglie e figlia di
Tizio, convenivano in giudizio Caio, Caia e Filana reclamando all’eredità le suddette somme. Il giudice di
prime cure rigettava per inammissibilità la domanda
attorea. Successivamente, proposta impugnazione avverso tale pronuncia, la Corte d’appello respingeva il
gravame per insussistenza del presupposto dell’azione
ereditaria, difettando la contestazione della qualità di
eredi delle appellanti e in quanto la domanda di restituzione era stata proposta sulla base dell’affermazione
che i beni fossero stati posseduti senza titolo da coloro
nei cui confronti venivano rivendicati, mentre dagli atti
risultava che i beni erano stati trasferiti con il consenso
del de cuius a terzi. La Corte territoriale rilevava infine
che l’azione di eredità non poteva essere esperita nei
confronti di Caio, non essendo questi il destinatario
ultimo delle somme di cui si chiedeva la restituzione.
Proposto ricorso per cassazione, i giudici di legittimità, accogliendo le censure mosse dai resistenti, rigettavano definitivamente il ricorso e affermavano che
l’erede, con l’hereditatis petitio, può reclamare solo i
beni nei quali è succeduto mortis causa al defunto e non
quelli acquisiti in forza di un titolo preesistente.
La caratteristica universalità della petitio hereditatis,
infatti, nella duplice accezione di azione esperibile erga
omnes e avente a oggetto una universitas iuris 1, incontra un limite invalicabile, evidenziato dalla massima in
commento, nella appartenenza dei beni contestati all’asse ereditario.
L’analisi della natura giuridica e della funzione pratica dell’istituto evidenzia che l’azione ereditaria è uno
1
Cirillo, in Trattato breve delle successioni e donazioni a
cura di Rescigno, Milano, 2010, 488, precisa che la petitio ha
natura di actio de universitate in quanto è esperibile erga omnes,
è strumento diretto a eliminare l’incertezza circa l’appartenenza
dell’universum ius e oggetto del giudizio è l’universitas iuris e
non i singoli beni.
2
Astuni, in Comm. C.C. a cura di Gabrielli, Delle successioni, a cura di Cuffaro, Delfini, Torino, 2010, I, Artt. 456-564, 459
e segg., qualifica l’hereditatis petitio come azione speciale e nuova, non preesistente nel patrimonio del defunto, accordata all’erede allo scopo di difendere la sua qualità e il diritto al possesso dei beni ereditari.
3
Messineo, Manuale di diritto civile e commerciale, II, Milano, 1967, 452, ravvisa la specificità della petitio nella tutela di
una «condizione giuridica personale» o di uno status (la qualità
di erede), riducendo la restituzione dei beni ereditari posseduti
dal convenuto a una semplice finalità secondaria o accessoria. Si
tratterebbe pertanto di azione di mero accertamento della qualità di erede e solo eventualmente di condanna alla restituzione
dei beni.
4
Giannattasio, Delle successioni, in Comm. C.C., Torino,
1959, 239.
5
Astuni, op. cit., 461, nega che si tratti di azione diretta in via
esclusiva al mero accertamento della qualità di erede.
595
strumento diretto al riconoscimento 2 da un lato della
qualità di erede dell’attore, dall’altro dell’appartenenza allo stesso dell’universum ius defuncti, cui consegue,
in caso di condanna, l’obbligo di restituzione dei beni
ereditari posseduti dal convenuto a titolo di erede o
senza titolo alcuno.
Secondo la concezione classica, il fine restitutorio
configurerebbe un semplice riflesso 3, una conseguenza
necessaria 4 del riconoscimento della qualità di erede.
Sotto questo profilo, la dottrina moderna 5 ha messo in
luce quello che è forse il punto di maggiore debolezza
di tale ricostruzione dogmatica, ovvero il momento recuperatorio del bene ereditario, visto come risultato
solo indiretto di una sequenza che si articola in via
primaria nell’accertamento della qualità di erede.
L’esistenza di una controversia sul titolo ereditario,
infatti, non è di per sé sufficiente a giustificare l’azione,
essendo l’interesse dell’erede principalmente diretto al
ripristino del factum possesionis rispetto ai beni che ha
ricevuto dal defunto.
In tal senso, la giurisprudenza ha sistematicamente
affermato che «l’azione di petizione ereditaria, prevista
dall’art. 533 c.c. ha natura prevalentemente recuperatoria, essendo il riconoscimento della qualità di erede,
cui essa tende, strumentalmente diretto all’ottenimento dei beni ereditari» 6, e, poiché resta fermo l’onere di
dimostrare l’appartenenza del bene all’asse ereditario
al momento dell’apertura della successione, occorre
stabilire cosa si intenda per «bene ereditario» ai sensi
dell’art. 533 c.c., al fine di poter escludere, nell’ottica
della sentenza che si annota, ciò che ereditario non è.
Secondo l’opinione tradizionale 7, il requisito della
ereditarietà compete a tutte le entità suscettibili di possesso, ancorché costituenti oggetto di un diritto diverso dalla proprietà, ovvero di un diritto reale parziario o
di un diritto personale di godimento o di garanzia,
attributivo dello ius possidendi o detinendi 8.
Cosı̀ circoscritto l’ambito oggettivo della tutela al
vaglio, il passaggio immediatamente successivo risiede
nell’impossessamento 9 di tali beni da parte di terzi in
occasione dell’apertura della successione o, più esattamente, come prevede la norma, il possesso dei mede6
Cass., 20 ottobre 1984, n. 5304, in Giust. Civ. Mass., 1984,
10. Nello stesso senso Cass., 26 maggio 1998, n. 5225, in Giust.
Civ. Mass., 1998, 1137 e Id., 2 agosto 2001, n. 10557, ivi, 2001,
1525.
7
Bonilini, Manuale di diritto ereditario e delle donazioni,
Torino, 2006, 4a ed., 107; Coppola, Commento all’art. 533 c.c.,
in Cod. ipertestuale delle successioni e donazioni a cura di Bonilini, Confortini, Torino, 2007, 336; Schlesinger, La petizione
di eredità, Milano, 1957, 182; Cicu, Successioni per causa di
morte, in Tratt. Dir. Civ. e Comm. a cura di Cicu, Messineo,
Milano, 1961, 243; Conti, La petizione di eredità, in Tratt. Dir.
Priv. a cura di Rescigno, Successioni, II, Torino, 1982, 271 e
segg.; Ceccherini, voce “Petizione di eredità (dir. priv.)”, in
Enc. Dir., XXXIII, Milano, 1983, 627 e seg.; Palazzo, Commento all’art. 533 c.c., in Comm. C.C. a cura di Cendon, Torino,
1991, I, 108; Capozzi, Successioni e donazioni, 9a ed., a cura di
Ferrucci, Ferrentino, I, Milano, 2009, 361 e segg.
8
È stato osservato che, sul piano dell’onere della prova, ciò
comporta che sia sufficiente dimostrare, oltre alla qualità di
erede, l’appartenenza del bene al compendio ereditario senza
che vi sia bisogno di indagare la specifica situazione giuridica in
cui il de cuius si trovava rispetto al bene; in tal senso cfr. Cirillo, op. loc. cit.
9
L’impossessamento deve essere avvenuto dopo l’apertura
Giurisprudenza Italiana - Marzo 2012
596
simi da parte del convenuto a titolo di erede o senza
titolo alcuno. Occorre allora domandarsi cosa accada
nell’ipotesi in cui il convenuto possieda a titolo diverso
da quello ereditario, per esempio per aver acquistato il
bene dal defunto, come nel caso di specie, oppure da
un terzo, e inoltre se anche in tal caso l’erede possa
avvalersi della petitio hereditatis 10.
Preliminarmente, si deve sottolineare che l’ampiezza
del concetto di acquisto a causa di morte è tale da
ricomprendere ogni tipo di acquisto traslativo o traslativo-costitutivo, sia esso stabilito dalla volontà del defunto o dalla legge, purché dipenda dal patrimonio del
defunto 11. Ai fini della qualifica ereditaria, deve cioè
instaurarsi un rapporto di necessaria derivazione del
bene dall’asse, in forza del quale può ritenersi che la
sua trasmissione a favore dell’erede abbia la sua causa
nella morte dell’originario titolare. Tale qualifica, per
contro, deve negarsi rispetto a quei beni che appartenevano in vita al de cuius e si trovino nella disponibilità
dell’erede dopo la sua morte, ma per esservi transitati
in forza di altro titolo.
Il successore universale infatti subentra al de cuius in
tutti i rapporti patrimoniali trasmissibili, attivi e passivi. La successione fa capo a un acquisto derivativo,
perché la posizione del successore deriva appunto da
quella dell’autore, spetta al successore se e in quanto
spettava al suo dante causa 12.
Pertanto, rispetto a quei beni usciti dal patrimonio
dell’ereditando anteriormente alla sua morte, ancorché
attribuiti in forza di un valido atto dispositivo a colui
che sarà successivamente designato erede, non potrà
più parlarsi di trasmissione, perché il trasferimento
non coincide con l’estinzione dell’autore, bensı̀ di alienazione e precisamente di successione inter vivos, la
quale non può che essere a titolo particolare 13.
Cosı̀, nel caso di specie, le somme di denaro fuoriuscite dal patrimonio del de cuius prima della sua morte
non possono essere oggetto di petizione ereditaria, in
quanto “beni ereditari” non sono.
Tali beni saranno eventualmente “recuperabili” lato
sensu alla massa ereditaria, quali liberalità indirette,
sussistendo i presupposti per la riunione fittizia e la
collazione, ai fini del computo della quota di legittima
e della tutela dei condividenti, stante il rapporto intercorrente tra il de cuius e l’erede legittimario. Ma la vis
attractiva alla massa ereditaria che gli istituti al vaglio
esercitano rispetto a tali beni ha natura, funzione ed
effetti completamente diversi rispetto alla petitio, con
la quale nulla condivide sotto il profilo strutturale.
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Sgroi P.M. (conf.) — Llaftiu (avv.ti Chibbaro, Tufariello) - Italiana Assicurazioni s.p.a. ed altro.
Cassa con rinvio App. Napoli, 20 luglio 2009.
Stranieri — Sinistro stradale — Danno alla persona
— Risarcibilità — Condizione di reciprocità — Accertamento — Esclusione — Azione diretta contro
l’assicuratore — Sussistenza (C.c. disp. prel. art. 16;
L. 24 dicembre 1969, n. 990, art. 18; D.Lgs. 7 settembre 2005, n. 209, art. 144).
Lo straniero (anche extracomunitario) che, a causa di
un sinistro stradale, abbia subito una lesione dei diritti
inviolabili alla salute e all’integrità psicofisica e/o ai rapporti parentali-familiari, può chiedere il risarcimento dei
danni patrimoniali e non patrimoniali conseguenti, indipendentemente dalla condizione di reciprocità di cui
all’art. 16 preleggi e senza alcuna disparità di trattamento rispetto al cittadino italiano, anche con l’azione diretta nei confronti dell’assicuratore o del Fondo di garanzia
per le vittime della strada (1).
Per il testo della sentenza v. Giur. It., 2011, 10, 2023,
con nota di Puoti.
(1) La condizione di reciprocità nel danno
alla persona
Sommario: 1. Il fatto. — 2. La condizione di reciprocità. —
3. Il risarcimento del danno. — 4. Osservazioni critiche.
Cassazione civile, III Sezione, 11 gennaio 2011,
n. 450 — Preden Presidente — Segreto Relatore —
1. Il fatto.
Con la sentenza che si annota la III Sezione della
Corte di cassazione ha dato risposta alla domanda di
tutela avanzata da una cittadina albanese, residente in
Albania, che, premesso di aver perso il figlio (anch’esso
cittadino albanese) in un incidente stradale avvenuto in
Italia, agiva nei confronti del conducente del veicolo
responsabile e della compagnia di assicurazioni che lo
garantiva per la responsabilità civile in virtù della legge
n. 990/1969 (ora D.Lgs. n. 209/2005), per vedere riconosciuto il suo diritto al risarcimento del danno patrimoniale e non patrimoniale subito.
La ricorrente aveva adito il Tribunale di Santa Maria
Capua Vetere che, sposando la tesi difensiva della convenuta Compagnia di assicurazioni, secondo la quale
ostava all’accoglimento della domanda la mancanza
della condizione di reciprocità di cui all’art. 16 delle
disposizioni preliminari al codice civile, rigettava la
domanda.
La Corte di appello di Napoli confermava la sentenza
del giudice di prime cure, ritenendo che nella fattispecie operasse la condizione di reciprocità, che detta condizione andasse provata dall’appellante e che nel caso
di specie tale prova non fosse stata raggiunta.
Pertanto, la sentenza della Corte partenopea veniva
impugnata in Cassazione che, con la sentenza in com-
della successione, in tal senso Schlesinger, op. cit., 66 e Grosso-Burdese, Le successioni. Parte generale, in Tratt. Dir. Civ. It.
a cura di Vassalli, Torino, 1977, XII, 399.
10
Secondo Ferri, Successioni in generale, Artt. 456-511, in
Comm. C.C. a cura di Scialoja, Branca, Bologna-Roma, 1981,
207, in caso di acquisto dal defunto l’azione ereditaria si converte in azione contrattuale, mentre in caso di acquisto dal terzo
l’erede dovrebbe agire in rivendica; secondo Grosso-Burdese,
op. cit., 398 e segg., invece, per paralizzare l’azione di petizione
il convenuto deve necessariamente provare l’acquisto a titolo
particolare, che funge da fattispecie impeditiva o eliminativa del
diritto alla restituzione da parte dell’erede.
11
Capozzi, op. cit., 20.
12
Santoro Passarelli, Dottrine generali del diritto civile,
Napoli, 1966, 91.
13
Capozzi, op. cit., 13.
TUTELA RISARCITORIA DELLO STRANIERO
Giurisprudenza Italiana - Marzo 2012
Diritto Civile | TUTELA RISARCITORIA DELLO STRANIERO
597
2. La condizione di reciprocità.
La prima questione che la III Sezione della suprema
Corte si trova ad affrontare e risolvere è quella relativa
all’applicazione al caso di specie dell’art. 16 delle disposizioni preliminari al codice civile 1, il quale subordina il godimento dei diritti civili da parte degli stranieri alla condizione di reciprocità.
Riportando fedelmente le parole di un’autorevole
giurista che oltre vent’anni or sono ha commentato una
sentenza in cui le Sezioni unite escludevano che operasse, in danno di una cittadina etiope, la condizione di
reciprocità in materia di diritto alla retribuzione proporzionata al lavoro svolto ed adeguata ai bisogni personali e della sua famiglia, si può dire che «la sentenza
[...] merita di essere segnalata per la semplicità del
ragionamento e l’assennatezza della soluzione: è un
invito a non inventare problemi inutili e, di quelli reali,
a controllare i contenuti concreti» 2.
Infatti, la motivazione della sentenza resa dalla III
Sezione della suprema Corte si apprezza per la puntuale ricostruzione delle origini e della ratio della disposizione di cui all’art. 16 delle disposizioni preliminari al codice civile, rilevando che l’art. 3 del codice
civile del 1865, di matrice liberale e sensibile ai principi
della solidarietà fra i popoli, non prevedeva siffatto
ostacolo nell’esercizio dei diritti civili a carico dello
straniero ed era informato al principio di parità con i
cittadini nella titolarità dei diritti civili.
Alla base di tale scelta, germogliata nell’humus delle
idee risorgimentali, e in palese contrasto con quanto
previsto nel Code Napoléon del 1804, vi fu certamente
l’influenza del pensiero di Pasquale Stanislao Mancini
e l’auspicio che gli altri Stati sarebbero stati indotti a
fare altrettanto.
La storia ha dimostrato che quell’idea non riuscı̀ a
diffondersi in Europa e, nel mutato clima socio-politico del primo dopoguerra, con il conseguente aumento
dei flussi migratori all’interno dell’Europa e oltre oceano, e del ventennio fascista, influenzato dalla mutata
considerazione dello straniero — del diverso — che ne
seguı̀, anche l’Italia operò un giro di vite nelle politiche
migratorie con una serie di leggi speciali 3. L’art. 16
delle disposizioni sulla legge in generale, dunque, altro
non fece che inserirsi in quel solco già tracciato dalla
normativa speciale nei più disparati settori della vita e
dell’economia e generalizzare il principio della reciprocità come condizione di riconoscimento dei diritti
civili allo straniero.
Con l’entrata in vigore della Carta costituzionale, in
un clima del tutto nuovo, è sorta la necessità di dover
coordinare l’art. 16 delle preleggi con il mutato quadro
costituzionale.
Invero, in passato, dottrina e giurisprudenza hanno
affrontato, con soluzioni non sempre coerenti, la questione dell’effettiva portata e dell’ambito di applicazione della condizione di reciprocità 4.
In dottrina si registra una posizione estrema — invero rimasta minoritaria — che prospetta l’illegittimità
costituzionale l’art. 16 delle disposizioni preliminari al
codice civile per contrasto con l’art. 10 Cost., nella
parte in cui fa obbligo al legislatore ordinario di disciplinare la condizione dello straniero in conformità alle
norme ed ai trattati internazionali, sul presupposto che
nell’ordinamento internazionale non esisterebbe una
norma che ponga in termini generali la condizione di
reciprocità 5.
La tesi, per come fu prospettata allora — sebbene costituisca un encomiabile tentativo di eliminare dall’ordinamento una norma che, come si dirà in seguito, comporta in alcuni casi delle ingiustificate discriminazioni
— non può essere condivisa poiché incorre nell’evidente errore metodologico di considerare vietato quello
che non è espressamente previsto nell’ordinamento internazionale o non regolato in un trattato internazionale; invero, la compatibilità della condizione di reciprocità con l’art. 10 Cost. discende proprio dalla semplice considerazione che l’ordinamento internazionale
non la vieti e/o un trattato internazionale non la regoli 6.
Maggiormente seguita, invece, è la tendenza ad una
interpretazione che tende a restringerne l’ambito di
operatività, sia attraverso una verifica della condizione
di reciprocità a maglie larghe attraverso la verifica della
sussistenza della «reciprocità di fatto» 7; sia, sotto il
profilo oggettivo, attraverso un’interpretazione costi-
1
La tematica della condizione di reciprocità è stata oggetto
di un approfondito studio monografico da parte di Calò, Il
principio di reciprocità, Milano, 1994.
2
Rescigno, Capacità di diritto privato e discriminazione dei
soggetti, in Riv. Dir. Civ., 1988, I, 6, 787 in cui si commenta
Cass., Sez. un., 4 marzo 1988, n. 2256.
3
Per una sintesi, Giardina, Commento all’art. 16 Disposizioni sulla legge in generale, in Comm. C.C. a cura di Scialoja,
Branca, Bologna-Roma, 1978.
4
Per un’interessante applicazione della condizione di reciprocità all’esercizio del diritto di surroga assicuratoria fatta valere da una Compagnia assicuratrice straniera nei confronti di
una società italiana, v. Trib. Bergamo, Sez. Grumello del Monte,
26 novembre 2002, in Giur. It., 2003, 2076, nota di Savarese,
che conclude per l’abrogazione implicita dell’art. 16 delle preleggi e alla quale si rinvia anche per i riferimenti bibliografici.
5
Tra gli altri, Colombini, Stranieri e condizione di reciprocità, in Arch. Civ., 2003, I, 5, 469, secondo cui «se la condizione
dello straniero per la nostra Costituzione è quindi regolata dalla
legge — che deve però essere conforme ai trattati internazionali
— viene da domandarsi se l’inciso dell’art. 16 delle preleggi sia
in linea o meno con il dettato costituzionale. Se non c’è norma
di diritto internazionale — e questo è certo — che metta come
base a queste situazioni la condizione di reciprocità, se non
esiste un trattato fra due Stati che regoli, a condizione di reciprocità pari ed effettiva, il godimento di determinati diritti, non
può essere certo la nostra legge e imporre unilateralmente tale
reciprocità».
6
Rescigno, op. cit.
7
In relazione alla qualità della restrizione operata dalla condizione di reciprocità sul godimento dei diritti civili da parte
dello straniero, in dottrina si distingue tra: 1) reciprocità diplomatica, quando la parificazione tra cittadino e straniero ricorre
soltanto per effetto di un trattato internazionale e limitatamente
alle materie ivi contemplate; 2) reciprocità legislativa, quando la
parificazione tra cittadino e straniero ricorre soltanto in seguito
a positiva verifica che nello stato straniero esistono disposizioni
dal contenuto identico a quelle nazionali; 3) reciprocità di fatto
o sostanziale, quando l’equiparazione tra cittadino e straniero
ricorre in seguito alla positiva verifica che l’ordinamento stra-
mento, accoglieva la domanda avanzata dalla cittadina
albanese rendendo una decisione — sicuramente condivisibile — in cui si affrontano questioni di sicura
rilevanza che, condensati nel principio di diritto enunciato, meritano di essere approfonditi.
Giurisprudenza Italiana - Marzo 2012
598
tuzionalmente orientata dell’art. 16 delle preleggi che
esclude dalla condizione di reciprocità il godimento,
da parte dello straniero, dei diritti civili che rientrano
nel novero dei diritti inviolabili costituzionalmente garantiti, in ossequio all’art. 2 Cost. 8; sia, sotto il profilo
soggettivo, attraverso l’equiparazione al cittadino nel
godimento dei diritti civili operata da talune norme
nazionali e internazionali 9.
La sentenza che si annota, in primo luogo ribadisce la
sufficienza della “reciprocità di fatto” mentre, quanto
alla disciplina di cui al D.Lgs. n. 286/1998 — T.U. immigrazione — correttamente ne esclude l’applicazione
ratione temporis, poiché il sinistro era avvenuto nel
1996, e ratione personae, poiché la ricorrente risiedeva in
Albania. Infine, richiamando la precedente giurisprudenza di legittimità, affronta la questione della portata
applicativa della condizione di reciprocità con riferimento all’art. 2 Cost., per giungere alla conclusione che
l’ambito di operatività dell’art. 16 è delimitato dall’art.
2 Cost. che, nel riconoscere e garantire i diritti inviolabili
dell’uomo, non distingue tra cittadini e stranieri cosı̀ che
la relativa tutela apprestata dall’ordinamento va assicurata, senza alcuna disparità di trattamento, a tutte le persone indipendentemente dalla cittadinanza.
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3. Il risarcimento del danno.
Dopo aver affrontato, anche storicamente, la questione relativa alla condizione di reciprocità, la supre-
ma Corte ha affrontato anche il problema specifico del
risarcimento del danno spettante alla madre — cittadina
albanese ivi residente — per la perdita del figlio in un
incidente stradale avvenuto in Italia, nonché della possibilità per quest’ultima di agire direttamente nei confronti della compagnia di assicurazione del veicolo responsabile. La stessa Corte rileva l’esistenza di contrasti
esistenti soprattutto nella giurisprudenza di merito e,
dunque, perviene alla decisione resa attraverso una rigorosa argomentazione delle soluzioni abbracciate.
Il fulcro del ragionamento svolto dai giudici della III
Sezione della Cassazione poggia sull’esclusione della
condizione di reciprocità nel caso in cui sia leso un
diritto fondamentale costituzionalmente garantito. Ciò
posto, allo straniero leso in un diritto fondamentale, e
per ciò stesso inviolabile, devono essere risarciti i danni
sia patrimoniali sia non patrimoniali conseguenti alla
lesione del diritto stesso in quanto «è il bene leso che
caratterizza la diretta copertura costituzionale della tutela, mentre il danno conseguenza (patrimoniale e non
patrimoniale) individua solo la perdita (o il pregiudizio) in concreto verificatosi e risarcibile» 10.
Tale principio assume massima rilevanza nell’incerto
contesto della giurisprudenza formatasi in precedenza
sul tema 11, l’influenzata non poco dalla coeva interpretazione dell’art. 2059 c.c. 12
Preme rilevare, piuttosto, che la sentenza che si annota fa corretta applicazione dei più recenti approdi
niero, in base alla legislazione e alla prassi vigenti, previene allo
stesso risultato finale cui perviene quello nazionale. La dottrina
e la giurisprudenza prevalenti ritengono che la condizione di
reciprocità deve ritenersi soddisfatta quando sussista una reciprocità anche soltanto di fatto. In proposito, in dottrina, Giardina, op. cit.; mentre in giurisprudenza, Cass., Sez. III, 10 febbraio 1993, n. 1681, in Foro It., 1993, I, 3067, con nota di Calò,
cui aderiscono Trib. Genova, 21 dicembre 1997, in Riv. Dir.
Internaz. Priv. e Process., 1997, 172; Id. Monza, 8 maggio 1998,
in Danno e Resp., 1998, 927.
8
Per tutte, Cass., Sez. III, 19 maggio 2009, n. 10504, in Dir.
ed Eco. Assicurazione, 2010, 2, 375, con nota di De Strobel. Tra
le pronunce di merito, Trib. Roma, 13 giugno 2005, in Resp. Civ.
e Prev., 2006, 5, 938; Trib. Monza, 8 maggio 1998, cit. In dottrina, in passato, con mirabile lungimiranza, si è osservato che
«al fine di delimitare l’area di applicabilità dell’art. 16 delle
preleggi, il novero delle libertà e delle condizioni garantite senza
riguardo alla nazionalità dei soggetti, va anche, e considerevolmente, oltre le norme costituzionali contrassegnati dai termini
«tutti» e «nessuno» o dal riferimento, anche formale, ad ogni
persona», Rescigno, op. cit.; Sulla stessa posizione si attesta
Gazzi, Risarcimento del danno dello straniero, condizione di
reciprocità prevista dall’art. 16 delle preleggi e Fondo di garanzia
vittime della strada, in Resp. Civ. e Prev., 1998, 1113.
9
È indubbio che la legislazione ordinaria e l’adesione dell’Italia a trattati internazionali hanno limitato sensibilmente l’applicazione dell’art. 16 delle disposizioni preliminari al codice civile
sotto il profilo soggettivo. Infatti, l’art. 2, D.Lgs. n. 286/1998 —
T.U. immigrazione — prevede che allo straniero comunque presente alla frontiera o nel territorio dello Stato sono riconosciuti
i diritti fondamentali della persona umana previsti dalle norme di
diritto interno, dalle convenzioni internazionali in vigore e dal
diritto internazionale generale. Inoltre, il cittadino che soggiorni
in territorio italiano e sia titolare di carta di soggiorno o di un
permesso di soggiorno rilasciato per motivi di lavoro subordinato, di lavoro autonomo e familiari gode dei diritti civili che la
legge riconosce al cittadino italiano senza che vi sia necessità di
verificare l’esistenza della condizione di reciprocità. Inoltre, in
virtù degli impegni internazionali assunti dall’Italia, si prescinde
dalla verifica della condizione di reciprocità: per l’apolide rego-
larmente residente in Italia da almeno tre anni (secondo quanto
previsto dall’art. 18 della Convenzione relativa allo status di apolide, adottata a New York il 28 settembre 1954 e resa esecutiva in
Italia con L. 1o febbraio 1962, n. 306); per il rifugiato regolarmente residente in Italia da almeno tre anni (in virtù dell’art. 7,
comma 2, della Convenzione di Ginevra del 28 luglio 1951 relativa allo status di rifugiato e resa esecutiva in Italia con L. 24
luglio 1954, n. 722); per i «cittadini comunitari» in ossequio al
principio di non discriminazione sulla base della nazionalità e di
libera circolazione, dei cittadini di uno stato membro, all’interno
dell’Unione europea; per i cittadini degli Stati membri dell’Efta
in virtù degli artt. 31, 33, 34 dell’Accordo sullo spazio economico
europeo, sottoscritto (ad Oporto il 2 maggio 1992 e ratificato
dall’Italia con L. 2 luglio 1993, n. 300, in Gazz. Uff., 18 giugno
1993, n. 191) dagli Stati membri dell’Unione europea, nonché
dall’Islanda, dal Liechtestein e dalla Norvegia.
10
Cosı̀ testualmente in sentenza.
11
Nella giurisprudenza, soprattutto di merito, si registra infatti una non uniforme interpretazione circa i danni risarcibili:
secondo Trib. Roma, 27 settembre 2001, in Giurisprudenza romana, 2002, 76, «la condizione di reciprocità di cui all’art. 16
disp. prel. c.c. non è operante allorché il cittadino straniero
chieda, dinanzi al giudice italiano, il risarcimento del danno da
lesione di diritti fondamentali, come quello alla salute, nonché il
danno morale e quello patrimoniale derivanti da una lesione della
salute»; mentre, per Trib. Bergamo, 14 maggio 2008, in Foro It.,
2008, I, 2032; in Danno e Resp., 2009, I, 77, «l’ultimo rilievo attiene ai danni patrimoniali conseguenti alla lesione dei diritti inviolabili ex art. 2, 29 e 32 Cost: il danno per spese di funere (danno
conseguenza della lesione ex art. 32 Cost.) e il danno per perdita
di contribuzione economica che il figlio inviava ai genitori e
avrebbe continuato ad inviare (danno conseguenza della lesione
ex art. 29 Cost.). Si ritiene che queste tipologie di danni siano
soggette alla prova — non fornita come detto — della condizione
di reciprocità. Si tratta invero di danni che non sono identificabili
quali espressione diretta della lesione del diritto inviolabile, risarcibili cioè sulla base del mero disposto costituzionale. Al contrario, la loro risarcibilità presuppone l’applicazione di una
norma di diritto interno quale l’art, 1223 c.c.».
12
Per un excursus sintetico ed esaustivo sugli orientamenti di
Giurisprudenza Italiana - Marzo 2012
Diritto Civile | TUTELA RISARCITORIA DELLO STRANIERO
599
della giurisprudenza di legittimità in tema di danni non
patrimoniali, ritenuti risarcibili, in virtù di un’interpretazione costituzionalmente orientata dell’art. 2059 c.c.
Coerentemente, richiamando la precedente giurisprudenza sul punto, la suprema Corte individua nella definitiva perdita del rapporto parentale, la lesione di un
diritto inviolabile della persona la cui tutela è individuabile negli artt. 2, 29 e 30 Cost.
Gli artt. 2 e 29 Cost., invero, sono posti a presidio di
interessi essenziali della persona, relativi alla sfera degli
affetti e della reciproca solidarietà endo-familiare, che
pre-esistono allo Stato 13; interessi che esigono tutela al
massimo livello e che risultano irrimediabilmente violati in caso di uccisione di un congiunto. Non può
dubitarsi, infatti, che la morte, ex abrupto, di un parente stretto alteri irrimediabilmente l’equilibrio e l’armonia — anche economica se il parente defunto forniva un apporto reddituale — dell’intero nucleo familiare, privando le persone superstiti di tutti quei legami
affettivi, psicologici — ed eventualmente anche economici — che sono una componente fondamentale del
modo di essere e di realizzarsi di una persona anche nei
rapporti esterni. Ne consegue che l’ordinamento non
può non riconoscere a chiunque, anche allo straniero a
prescindere dalla condizione di reciprocità, la relativa
tutela in caso di lesione; tutela che, come ribadito nella
sentenza che si annota, non può limitarsi al riconoscimento dei soli danni non patrimoniali, ma deve estendersi anche ai danni patrimoniali; sempre che, gli uni e
gli altri, siano adeguatamente allegati e provati in giudizio.
Infine si pone la questione della possibilità, per la
ricorrente straniera, di spiegare azione diretta nei confronti della compagnia di assicurazioni del veicolo responsabile 14.
Secondo il ragionamento della Corte di cassazione,
poiché l’art. 2 Cost. riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo indipendentemente dalla cittadinanza e dalla residenza del titolare 15, essendo — ovviamente — solo necessario che la lesione di tali diritti
sia avvenuta nel territorio dello Stato, l’azione diretta
nei confronti della compagnia che assicura il veicolo
responsabile sarà riconosciuta allo straniero in osse-
quio al principio di uguaglianza — formale e sostanziale — sancito dall’art. 3 Cost.
Sul punto la sentenza che si annota, richiamando
alcune conformi pronunce della Corte costituzionale,
mostra di aderire a quella posizione secondo la quale la
corretta interpretazione dell’art. 3 Cost. impone di superare il dato letterale della disposizione, che fa espresso riferimento ai soli cittadini, per riconoscere l’uguaglianza davanti alla legge anche agli stranieri quando si
tratta di assicurare la tutela di diritti inviolabili 16, sempre che un trattamento differenziato non sia giustificato sulla base del criterio di ragionevolezza.
La suprema Corte, inoltre, partendo dal presupposto
che la condizione di reciprocità non trova applicazione
quando lo straniero invochi la tutela di diritti fondamentali costituzionalmente garantiti, perviene all’ammissibilità dell’azione diretta da parte dello straniero
percorrendo una diversa via tutta civilistica che muove
dalla considerazione dell’interesse del danneggiante,
che ha stipulato il contratto per restare indenne da
eventuali domande di risarcimento da chiunque vantate, cittadini italiani, comunitari ed extracomunitari.
Non ammettere l’azione diretta nei confronti dell’assicuratore da parte del danneggiato straniero che invochi la tutela di diritti inviolabili, pertanto, da un lato
comporterebbe un irragionevole trattamento limitativo della tutela effettiva del diritto da parte del titolare
straniero e, dall’altro, vedrebbe scoperto il danneggiante che ha stipulato un contratto perché l’assicurazione risarcisca direttamente i danneggiati.
dottrina e giurisprudenza in materia di danno non patrimoniale
antecedente a Cass., Sez. un., n. 26972/2008, v. CaringellaGarofoli-Rovagnoli, Giurisprudenza civile 2006, Milano,
2007.
13
V. Cavana, La famiglia nella Costituzione italiana, in Dir.
Famiglia, 2007, 2, 902, il quale osserva che il verbo “riconoscere” significativamente ricorre nel testo costituzionale con analogo significato solo negli artt. 2, 5 e 29 con l’intento di rimarcare
l’esistenza di situazioni, rapporti e realtà primarie che precedono la Repubblica, intesa come l’insieme delle articolazioni istituzionali in cui si esprime la comunità politica, e ne costituiscono una sorta di presupposto pre-politico.
14
Tra le pronunce di merito che hanno affrontato la questione, Trib. Bergamo, 14 maggio 2008, cit. La sentenza si segnala
perché a domandare tutela erano i genitori — anche in quel caso
cittadini albanesi ivi residenti — di un minore deceduto in seguito ad un sinistro stradale e il Tribunale legittima l’azione diretta nei confronti della Compagnia di assicurazioni sul presupposto dell’inviolabilità del diritto leso e sulla funzione dell’assicurazione obbligatoria quale strumento con cui lo Stato ha
adempiuto ai suoi doveri inderogabili di solidarietà ex art. 2 Cost.
15
La sentenza richiama, tra le altre, una decisione della Corte
costituzionale che, giudicando legittimo il trattamento differen-
ziato tra cittadino e straniero in materia di custodia preventiva,
afferma che «se è vero che l’art. 3 si riferisce espressamente ai
soli cittadini, è anche certo che il principio di eguaglianza vale
pure per lo straniero quando trattisi di rispettare quei diritti
fondamentali», Corte cost., 23 novembre 1967, n. 120, in
www.cortecostituzionale.it. Nella dottrina che si è occupata di
trattamento dello straniero, la questione dell’estensione del
principio di uguaglianza di cui all’art. 3 Cost. oltre il riferimento
letterale ai soli cittadini è diffusamente trattata. Tra gli altri, v.
Tucci-Di Muro, Diritti fondamentali, principio di uguaglianza
e riforma della normativa in materia di immigrazione, in Riv.
critica dir. privato, 2003, 179.
16
Il riferimento è a Cass., Sez. III, 30 ottobre 2008, n. 26063,
in Riv. Dir. Internaz. Priv. e Process., 2009, 661, che, nel confermare la sentenza gravata, ha ritenuto inadempiente il promissario acquirente, tunisino, di un immobile, dopo che non si era
giunti alla stipula del definitivo, poiché il notaio incaricato aveva
informato i contraenti che il Servizio per il contenzioso diplomatico presso il Ministero degli affari esteri gli aveva comunicato che tra l’Italia e la Tunisia non sussisteva la condizione di
reciprocità; e ciò perché il promissario acquirente tunisino non
era riuscito a dimostrare la mancanza di reciprocità tra la Tunisia
e l’Italia.
4. Osservazioni critiche.
La sentenza in commento si apprezza per l’ampiezza
della motivazione resa e per la linearità delle soluzioni
adottate nel tentativo di mettere ordine nelle principali
questioni dibattute in giurisprudenza attorno al tema
della condizione di reciprocità.
Invero, con riferimento alle controversie aventi ad
oggetto la domanda di risarcimento dei danni, per la
lesione di diritti fondamentali, conseguenti a sinistri
stradali, come nel caso specifico deciso dalla suprema
Corte, probabilmente sarebbe sufficiente far riferimento non tanto alla giurisprudenza formatasi in pre-
Giurisprudenza Italiana - Marzo 2012
600
cedenza, quanto alla circolare emanata nel 2000 dall’Istituto per la vigilanza sulle assicurazioni private 17
che invita, con l’autorevolezza che gli è propria, le imprese di assicurazioni ad evitare discriminazioni in
danno di cittadini extracomunitari mediante il richiamo improprio alla condizione di reciprocità.
Riportando il discorso all’analisi della decisione resa
dalla III Sezione, la sentenza pecca per eccesso poiché,
come detto, la suprema Corte ha dovuto decidere sulla
domanda di risarcimento avanzata da una cittadina
albanese ivi residente per i danni, conseguenti alla lesione del legame parentale, subiti a seguito del decesso
del figlio, investito da un auto mentre viaggiava su una
bicicletta; leggendo la sentenza non pare emergere che
vi fosse richiesta di risarcimento dei danni — patrimoniali — conseguenti alla lesione del patrimonio della
vittima e/o dell’attrice.
Quindi la suprema Corte ha riconosciuto il diritto
dell’istante al risarcimento dei danni patrimoniali e
non patrimoniali subiti in conseguenza della lesione
dei diritti fondamentali costituzionalmente garantiti
escludendo che nel caso operasse la condizione di reciprocità.
La motivazione avrebbe potuto arrestarsi a questo
punto. La pronuncia che si annota, invece, è andata
oltre affermando che «non potrà invece essere fatto
valere, in assenza della condizione di reciprocità, il
danno da perdita o danneggiamento di cose (generalmente il veicolo) subito dallo straniero extracomunitario» poiché ad essere leso sarebbe il diritto di proprietà che non costituirebbe — a dire della suprema
Corte — un diritto inviolabile della persona umana.
È evidente che questa parte della motivazione non ha
affatto l’autorità di un precedente ma costituisce soltanto un obiter dictum discutibile.
Sul punto, invero, sia consentito dissentire sulla scorta di alcune considerazioni relative all’errato presupposto circa la tutela che riceverebbe la proprietà nel
nostro ordinamento e agli effetti, sul piano dei valori,
che una simile affermazione porta con sé.
Se è vero, infatti, che tradizionalmente il diritto di
proprietà non viene comunemente annoverato tra i diritti fondamentali costituzionalmente garantiti, è pur
vero che il Trattato di Lisbona ha introdotto importanti modifiche all’art. 6 del Trattato Unione europea relativamente alla tutela dei diritti fondamentali con la
17
Circ. n. 407/D del 12 aprile 2000, in www.isvap.it. In giurisprudenza ha riconosciuto il diritto al risarcimento dei danni
conseguenti alla lesione di diritti fondamentali costituzionalmente garantiti anche allo straniero irregolare Trib. Trieste, 28
maggio 2009, in Nuova Giur. Comm., 2009, II, 1144, con nota di
Centonze.
18
Per un utile approfondimento sul tema, Manganaro, La
convenzione europea dei diritti dell’uomo e il diritto di proprietà,
in Diritto amministrativo, 2008, 2, 379.
19
Per Campeis-De Pauli, «si ritiene peraltro che siano comunque inviolabili (quindi sfuggano alla reciprocità) anche i
diritti civili come tali riconosciuti dalle Convenzioni internazionali di cui il nostro Paese è parte: cosı̀ per il diritto di proprietà,
non direttamente tutelato come inviolabile in sede costituzionale, attesa la riserva di legge, ma garantito come diritto e libertà
fondamentale limitabile solo per pubblica utilità, dall’art. 1,
comma 1, del primo protocollo addizionale alla Convenzione
europea sui diritti dell’uomo del 4.11.1950, l. 4.8.1955, n. 848.»,
nella nota a Cass., Sez. I, 15 giugno 2000, n. 8171, in Nuova Giur.
Giurisprudenza Italiana - Marzo 2012
Diritto Civile | TUTELA RISARCITORIA DELLO STRANIERO
“comunitarizzazione” della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (c.d. Carta di Nizza), che all’art. 17 riconosce il diritto di ogni persona di godere
dei beni che ha acquistato legalmente, di usarli di disporne e di lasciarli in eredità senza possibilità che una
persona possa essere privata della proprietà se non per
causa di pubblico interesse ed in cambio di una giusta
indennità pagata in tempo utile.
Poiché la Carta di Nizza si riferisce ad “ogni persona”, dunque indipendentemente dalla cittadinanza, è
evidente che l’art. 16 delle preleggi, nella misura in cui
comprimesse il diritto di proprietà dello straniero sarebbe in contrasto con il diritto comunitario e dovrebbe, per ciò stesso, essere disapplicato dal giudice nazionale.
Inoltre, la Convenzione europea dei diritti dell’uomo — resa esecutiva in Italia con L. 4 agosto 1955,
n. 848 — stabilisce all’art. 14 il principio generale di
non discriminazione, comprendendo in esso — fra gli
altri — il divieto della distinzione basata sulla nazionalità delle persone; e ancora, il primo protocollo addizionale, siglato a Parigi il 20 marzo 1952, all’art. 1,
comma 1, garantisce il diritto di proprietà al pari dei
diritti e delle libertà fondamentali, con l’unico limite
della pubblica utilità 18. Ciò implica che, in tutti i casi di
regolamentazione del diritto di disporre e godere da
parte dei privati dei propri beni, nessuna discriminazione sarà possibile fra cittadini e stranieri 19 e il richiamo alla condizione di reciprocità in tali ipotesi sarebbe
in contrasto con l’impegno internazionale assunto dall’Italia.
Pertanto, poiché, come pure ha affermato la III Sezione nella sentenza in commento, il risarcimento del
danno è la tutela minima che l’ordinamento offre per
riparare alla lesione del diritto subita dal suo titolare;
ne consegue logicamente che allo straniero che subisca
una lesione al suo diritto di proprietà nel territorio
dello Stato deve riconoscersi il diritto di vedere risarcito il danno conseguente, essendo il risarcimento del
danno nient’altro che un aspetto della titolarità del
diritto leso e, perciò stesso, non sottoposto alla condizione di reciprocità 20 a meno di non incorrere in una
violazione dell’art. 117, comma 1, Cost.
Infatti, in seguito alle sentenze della Corte costituzionale n. 348 e 349/2007 21 il parametro costituzionale
in esame comporta l’obbligo del legislatore ordinario
Comm., 2001, I, 191. Sulla stessa posizione si attesta anche
Giardina, op. cit.
20
Sulla stessa posizione, Calò, secondo cui «il neminem
laedere è un principio insuscettibile di essere subordinato alla
reciprocità, sia perché lo si assume in qualche modo quale norma di applicazione necessaria oppure sulla considerazione che
una diversa interpretazione porterebbe ad asserire la liceità di
qualsiasi danno cagionato allo straniero», nella nota di commento a Cass., Sez. III, 10 febbraio 1993, n. 1681, cit. Lo stesso
autore, recentemente afferma che «l’art. 16 Prel. riguarda l’acquisizione di diritti, mentre i principi che sono alla base del
principio neminem laedere riguardano non l’acquisizione di alcunché bensı̀ la perdita di un diritto. Tanto basterebbe per
sottrarre la responsabilità aquiliana al principio di reciprocità»,
in Calò, Il diritto internazionale privato e dell’unione europea
nella prassi notarile, consolare e forense, Milano, 2010, 115.
21
Corte cost., 24 ottobre 2007, n. 348 e Id., 24 ottobre 2007,
n. 349, entrambe in Gazz. Uff. 31 ottobre 2007, a cui hanno fatto
seguito, per la parte che qui interessa, Id., 24 luglio 2009, ivi, 29
Diritto Civile | TUTELA RISARCITORIA DELLO STRANIERO
di rispettare le norme della Cedu, con la conseguenza
che la norma nazionale incompatibile con esse, e dunque con gli obblighi internazionali di cui all’art. 117,
comma 1, Cost., viola per ciò stesso tale parametro
costituzionale 22.
Sotto questo profilo si potrebbe prospettare, dunque, l’illegittimità costituzionale dell’art. 16 delle preleggi, nella parte in cui non consenta a chiunque, a
prescindere dalla cittadinanza e dalla residenza, di agire in giudizio per vedere risarcito il danno subito in
Italia in conseguenza della lesione del diritto di proprietà, per contrasto con l’art. 117, comma 1, Cost.
Inoltre, spostando il ragionamento su un diverso piano, non sembra superfluo rimarcare che anche al di
fuori dell’area dei diritti fondamentali e/o inviolabili,
in ossequio al principio di uguaglianza di cui all’art. 3
Cost., è necessario che le differenziazioni normative
disposte con legge non siano arbitrarie e irragionevoli;
dunque il canone della ragionevolezza rappresenta il
parametro imprescindibile sulla base del quale interpretare l’art. 16 delle preleggi per decidere se lo straniero potrà far valere il danno da perdita o danneggiamento di cose a prescindere dalla condizione di reciprocità.
Cosı̀ impostato il problema, poiché quello della cittadinanza non pare essere un criterio ragionevole per
selezionare i danni risarcibili o per giustificare un differente trattamento tra italiani e stranieri, né tanto meno un differente trattamento tra stranieri di diverse
nazionalità (comunitaria o extra-comunitaria) e condizione (rifugiati, irregolari ecc.), nel residuale ambito di
applicazione soggettivo dell’art. 16 delle preleggi 23, la
soluzione non potrà che essere nel senso di riconoscere
il risarcimento del danno in ogni caso allo straniero.
Sotto questo profilo, considerando, altresı̀, l’irragionevolezza sopravvenuta della norma — che forse aveva
un senso in epoche passate, in cui i nostri concittadini
emigravano in gran massa, e si proponeva di migliorarne la condizione nei Paesi stranieri — e l’incongruità
rispetto al fine — poiché non possono farsi gravare
sullo straniero le conseguenze del deteriore trattamento che il suo Paese eventualmente riservi al nostro concittadino — si potrebbe (ri)proporre 24, la questione di
legittimità costituzionale dell’art. 16 delle preleggi anche in riferimento all’art. 3, comma 1, Cost. 25, oltre
che, come detto, all’art. 117, comma 1, Cost.
Sul diverso piano dei valori, invece, dare credito all’affermazione della suprema Corte significa accettare
luglio 2009, n. 239; Id., 26 novembre 2009, n. 311, ivi, 2 dicembre 2009 e Id., 4 dicembre 2009, n. 317, ivi, 9 dicembre 2009, e
tutte in www.cortecostituzionale.it. In particolare, nella sentenza
n. 311 citata si legge che «l’art. 117, primo comma, Cost., ed in
particolare l’espressione “obblighi internazionali” in esso contenuta, si riferisce alle norme internazionali convenzionali anche
diverse da quelle comprese nella previsione degli artt. 10 e 11
Cost. Cosı̀ interpretato, l’art. 117, primo comma, Cost., ha colmato la lacuna prima esistente quanto alle norme che a livello
costituzionale garantiscono l’osservanza degli obblighi internazionali pattizi. La conseguenza è che il contrasto di una norma
nazionale con una norma convenzionale, in particolare della
Cedu, si traduce in una violazione dell’art. 117, primo comma,
Cost.».
22
Cosı̀, Tucci, Il nuovo pluralismo delle fonti, ruolo delle
Corti e diritto privato, in Riv. Dir. Priv., 2010, 2, 101.
601
che nel nostro ordinamento possa essere colpevolmente distrutta, rubata o anche solo danneggiata la proprietà di uno straniero e il fatto restare impunito solo
perché non risulta verificata la condizione di reciprocità.
È indubbio che l’elencazione dei diritti fondamentali
non è prevista in alcun testo normativo in termini restrittivi 26 e che l’interpretazione e l’applicazione della
norma giuridica nel caso concreto sottende un giudizio
di valore che il giudice è chiamato ad esprimere facendosi, il più possibile, fedele interprete della coscienza
della collettività, dunque sia consentito fare proprie le
testuali parole che è dato leggere in una sentenza del
Tribunale di Catania che — anche in quel caso incidentalmente — riconosce allo straniero anche il risarcimento dei danni alle cose cosı̀ motivando: «A fronte
del frequente richiamo che in tante occasioni viene
fatto — molto spesso a sproposito —, in questo tempo
nel quale i rapporti fra italiani e stranieri sono sempre
più frequenti, al principio di reciprocità, può essere
opportuno sottolineare che i diritti che la Costituzione riconosce — e non attribuisce — a chiunque sono
diritti in questo senso assoluti, non negoziati né negoziabili.
Dunque, essi non possono essere messi in discussione dall’interesse — che spesso viene indicato come
nobile fondamento della reciprocità — a condizionare
i governi di paesi stranieri verso politiche più aperte,
più egualitarie, più giuste.
Alla stregua del dettato costituzionale, il Popolo italiano in nome del quale vengono pronunziate le sentenze riconosce quei diritti non per convenienza o per
opportunismo, né per sinallagma, ma per propria convinzione profonda, perché crede quel riconoscimento
oggettivamente e incondizionatamente giusto e doveroso e lo considera elemento distintivo della propria
anima e della propria identità.
E qualora dovesse prendere atto che altri popoli non
abbiano raggiunto il sufficiente grado di maturità e
civiltà da riconoscere pure essi quei diritti fondamentali delle persone, se ne dorrà, ma non muterà le proprie convinzioni, le proprie regole di condotta, i propri
giudizi, facendosi correo della arretratezza e inciviltà
che criticasse in quegli altri, ma riconoscerà il diritto
alla vita, alla salute, alla dignità personale, all’integrità
fisica e morale non soltanto ai popoli amici, soci, alleati,
ma a ogni uomo incondizionatamente e a ogni uomo in
quanto tale e non in quanto facente parte di questo o
23
V. nota 9.
Della condizione di reciprocità, la Corte costituzionale si è
interessata in una risalente pronuncia relativa al divieto di iscrizione all’albo professionale dell’ordine dei giornalisti per gli
stranieri che fossero cittadini di uno Stato che non praticasse in
proposito il trattamento di reciprocità. Corte cost., 23 marzo
1968, n. 11, in www.cortecostituzionale.it.
25
Con riferimento al controllo di ragionevolezza che compie
la Consulta nel vaglio delle norme con riferimento al principio
di uguaglianza, Celotto, Art. 3, co. I, in Commentario alla
Costituzione a cura di Bifulco, Celotto, Olivetti, Roma, 2006.
26
Secondo Calò, «l’elencazione i diritti fondamentali, a prescindere dalla formula prescelta, si trova nelle coscienze di ciascuno e di tutti i membri di una collettività e non in un testo
normativo», nella nota di commento a Cass., Sez. III, 10 febbraio 1993, n. 1681, cit.
24
Giurisprudenza Italiana - Marzo 2012
602
Diritto Civile | LESIONE DI INTERESSE LEGITTIMO PRETENSIVO
quel gruppo politico, etnico, sociale, economico, religioso, ecc.» 27.
Nell’auspicio, dunque, che quella parte della motivazione della sentenza che si annota non riceva il consenso della futura giurisprudenza, si avverte l’opportunità di un intervento legislativo che regoli in modo
diverso il godimento dei diritti civili degli stranieri,
superando il discrimen della cittadinanza; nel frattempo, all’interprete è rimesso l’arduo compito di evitare
che sotto l’egida del principio di reciprocità si operino
delle ingiustificate discriminazioni in danno degli stranieri extracomunitari e allora la condizione di reciprocità «finisce col testimoniare l’antica miseria del diritto
e la pena del giurista che cerca di riscattarla» 28.
Domenico Colucci
LESIONE
DI INTERESSE LEGITTIMO PRETENSIVO
Cassazione civile, III Sezione, 23 febbraio 2010,
n. 4326 — Varrone Presidente — Vivaldi Relatore
— Iannelli P.M. (diff.) — Publionda s.r.l. (avv.ti
Manzi, Laruffa) - Comune di Milano (avv.ti Surano,
Fraschini, Rizzo).
Responsabilità civile — Pubblica amministrazione
— Illegittimo esercizio della funzione pubblica —
Danno ingiusto — Lesione di un interesse giuridicamente rilevante — Interessi pretensivi e interessi oppositivi — Configurabilità — Rilevanza ai fini della
tecnica dell’accertamento dell’esistenza del danno —
Fattispecie (C.c. art. 2043).
In tema di risarcimento del danno prodotto dall’illegittimo esercizio della funzione pubblica la tecnica di
accertamento della lesione varia a seconda della natura
dell’interesse legittimo, nel senso che, se l’interesse è
oppositivo, occorre accertare che l’illegittima attività dell’amministrazione abbia leso l’interesse alla conservazione di un bene o di una situazione di vantaggio; mentre,
se l’interesse è pretensivo, concretandosi la sua lesione
nel diniego o nella ritardata assunzione di un provvedimento amministrativo, occorre valutare a mezzo di un
giudizio prognostico la fondatezza o meno della richiesta
di parte, onde stabilire se la medesima fosse titolare di
una mera aspettativa, come tale non tutelabile, o di una
situazione che, secondo un criterio di normalità, era destinata ad un esito favorevole (1).
Per il testo della sentenza v. Giur. It., 2011, 2, 319.
(1) La natura giuridica della responsabilità
della pubblica amministrazione per lesione
degli interessi illegittimi prima e dopo il codice del processo amministrativo
Sommario: 1. Introduzione. — 2. Il risarcimento dell’interesse legittimo. — 2.1. La sentenza n. 500/1999 delle Se27
Trib. Catania, 13 giugno 2005, in Foro It., 2005, 2573.
Rescigno, L’abuso del diritto, Bologna, 1998, 144, che
raccoglie alcuni saggi pubblicati dall’autore attorno alla metà
degli anni Sessanta del secolo scorso.
28
Giurisprudenza Italiana - Marzo 2012
zioni unite. — 2.2. La natura giuridica della responsabilità
della pubblica amministrazione. — 2.2.1. La responsabilità da contatto amministrativo qualificato. — 2.2.4. La
soluzione del codice del processo amministrativo.
1. Introduzione.
Il 16 settembre 2010 è entrato in vigore il nuovo
codice del processo amministrativo. Il neonato codice
è stata l’occasione, per il legislatore, di porre la parola
fine al lungo dibattito sull’elemento fondamentale in
tema di risarcimento del danno per lesione degli interessi legittimi, ovverosia la natura giuridica della responsabilità della pubblica amministrazione. E, come
vedremo, si è optato per il modello della responsabilità
aquiliana. Tenendo a mente, sin da subito, che dopo
l’art. 7 L. 21 luglio 2000, n. 205, il risarcimento del
danno da lesione dell’interesse legittimo appartiene alla giurisdizione amministrativa.
2. Il risarcimento dell’interesse legittimo.
2.1. La sentenza n. 500/1999 delle Sezioni unite.
Per lungo tempo, la giurisprudenza ha negato la tutela risarcitoria dell’interesse legittimo.
Fino alla oramai arcinota sentenza delle Sezioni unite
22 luglio 1999, n. 500 1. In questa sentenza, la massima
espressione della suprema Corte ha operato un revirement rispetto alla interpretazione, fino ad allora pacifica, dell’art. 2043 c.c. Centrale, spiegano le Sezioni
unite, nella disposizione dettata all’art. 2043 c.c., è il
danno, ed è ad esso, e non come avvenuto fino a quel
momento alla condotta, che deve essere riferita l’ingiustizia. L’area della risarcibilità, si legge, è definita da
una clausola generale, espressa dalla formula “danno
ingiusto”, in virtù della quale è risarcibile il danno che
presenta le caratteristiche dell’ingiustizia, e cioè il danno arrecato non iure, da ravvisarsi nel danno inferto in
difetto di una causa di giustificazione (non iure), che si
risolve nella lesione di un interesse rilevante per l’ordinamento. Ne consegue, aggiungono i giudici di Piazza Cavour, che la norma sulla responsabilità aquiliana
è una norma primaria, volta ad apprestare una riparazione del danno ingiustamente sofferto da un soggetto
per effetto dell’attività altrui. In definitiva, «è ingiusto
il danno che l’ordinamento non può tollerare che rimanga a carico della vittima, ma che va trasferito sull’autore del fatto, in quanto lesivo di interessi giuridicamente rilevanti, quale che sia la loro qualificazione
formale, ed in particolare senza che assuma rilievo determinante la loro qualificazione in termini di diritto
soggettivo». Ma quali siano gli interessi rilevanti per
l’ordinamento giuridico non è possibile stabilirlo a
priori, in quanto «caratteristica del fatto illecito delineato dall’art. 2043 c.c., inteso nei sensi suindicati come norma primaria di protezione, è infatti la sua atipicità». È il giudice, dunque, che deve procedere ad
una comparazione degli interessi in conflitto, al fine di
stabilire se il sacrificio dell’interesse del soggetto che si
afferma danneggiato trovi o meno giustificazione nella
realizzazione del contrapposto interesse del soggetto
1
Cass., Sez. un., 22 luglio 1999, n. 500, in Foro It., 1999, I, 2,
2487.
Diritto Civile | LESIONE DI INTERESSE LEGITTIMO PRETENSIVO
603
preteso danneggiante, in ragione della sua prevalenza.
Comparazione e valutazione che il giudice deve effettuare alla stregua del diritto positivo. La suprema Corte aderisce ad una concezione sostanzialistica dell’interesse legittimo. Esso non rileva, infatti, come situazione meramente processuale, quale titolo di legittimazione per la proposizione del ricorso al giudice amministrativo, del quale non sarebbe quindi neppure
ipotizzabile la lesione produttiva di danno patrimoniale, ma ha anche natura sostanziale, nel senso che si
correla ad un interesse materiale del titolare al conseguimento di un bene della vita, la cui lesione (in termini
di sacrificio o di insoddisfazione) può determinare
danno. «Ciò che caratterizza l’interesse legittimo e lo
distingue dal diritto soggettivo è soltanto il modo o la
misura con cui l’interesse sostanziale ottiene protezione» 2. Vale a dire, l’interesse legittimo emerge nel momento in cui l’interesse del privato, ad ottenere oppure
a conservare un bene della vita, viene a confronto con
il potere amministrativo e cioè con il potere della pubblica amministrazione di incrementare (con provvedimenti ampliativi della sfera giuridica dell’istante) o di
sacrificare (con provvedimenti ablatori) la sfera giuridica del privato stesso. E potrà «pervenirsi al risarcimento soltanto se l’attività illegittima della pubblica
amministrazione abbia determinato la lesione dell’interesse al bene della vita al quale l’interesse legittimo,
secondo il concreto atteggiarsi del suo contenuto, effettivamente si collega, e che risulta meritevole di protezione alla stregua dell’ordinamento 3. [...] Per quanto
concerne gli interessi legittimi oppositivi, potrà ravvisarsi danno ingiusto nel sacrificio dell’interesse alla
conservazione del bene o della situazione di vantaggio,
conseguente all’illegittimo esercizio del potere. Circa
gli interessi pretensivi, la cui lesione si configura nel
caso di illegittimo diniego del richiesto provvedimento
o di ingiustificato ritardo nella sua adozione, dovrà
invece vagliarsi la consistenza della protezione che l’ordinamento riserva alle istanze di ampliamento della
sfera giuridica del pretendente». In quest’ultimo caso,
cioè, il giudice deve prima stabilire se, in base alla
normativa di settore, l’istanza del privato sia fondata o
meno, perché solo se fondata, o meglio, destinata ad
essere accolta secondo un criterio di normalità, egli è
titolare di una situazione giuridicamente protetta.
Dunque, «la lesione dell’interesse legittimo è condizione necessaria, ma non sufficiente, per accedere alla
tutela risarcitoria ex art. 2043 c.c., poiché occorre altresı̀ che risulti leso, per effetto dell’attività illegittima
(e colpevole) della P.A., l’interesse al bene della vita al
quale l’interesse legittimo si correla, e che il detto interesse al bene risulti meritevole di tutela alla luce dell’ordinamento positivo» 4.
Le Sezioni unite, in definitiva, negano la coincidenza
tra illegittimità del provvedimento e illiceità del comportamento della pubblica amministrazione. E ciò fanno non solo sotto il profilo dell’elemento oggettivo, ma
anche di quello soggettivo. Ai fini dell’accertamento
della colpa non è più utilizzabile dal giudice ordinario
il principio secondo il quale la colpa della struttura
pubblica sarebbe in re ipsa nel caso di esecuzione volontaria di atto amministrativo illegittimo. Egli, difatti,
dovrà svolgere una più penetrante indagine, «estesa
anche alla valutazione della colpa, non del funzionario
agente (da riferire ai parametri della negligenza o imperizia), ma della P.A. intesa come apparato [...] che
sarà configurabile nel caso in cui l’adozione e l’esecuzione dell’atto illegittimo (lesivo dell’interesse del danneggiato) sia avvenuta in violazione delle regole dell’imparzialità, di correttezza e di buona amministrazione alle quali l’esercizio della funzione amministrativa
deve ispirarsi e che il giudice ordinario può valutare, in
quanto si pongono come limiti esterni alla discrezionalità» 5. Si tratta di una illegittimità aggravata 6 dall’inosservanza dei principi di imparzialità, correttezza
e buona amministrazione.
2
Cass., Sez. un., 22 luglio 1999, n. 500, in Foro It., 1999, I, 2,
2487.
3
Cass., Sez. un., 22 luglio 1999, n. 500, cit.
4
Cass., Sez. un., 22 luglio 1999, n. 500, cit.
5
Cass., Sez. un., 22 luglio 1999, n. 500, cit. Come rilevato in
dottrina (Caranta, op. cit., 155), la Cassazione, per quanto
riguarda l’elemento soggettivo, non fa altro che utilizzare la sua
giurisprudenza formatasi sulla responsabilità per attività od
omissioni di carattere materiale della pubblica amministrazione
nonché quella formatasi per alcune attività giuridiche della pubblica amministrazione, in particolare di vigilanza o controllo,
svolte dall’amministrazione su determinati settori dell’eco-
nomia privata, come, ad esempio, la raccolta del pubblico risparmio.
6
Corsaro-Iannotta, La sentenza n. 500/1999 delle Sezioni
Unite della Cassazione relativa alla risarcibilità degli interessi
legittimi: continua i dibattito, in Giust. Civ., 1999, 517.
7
Castronovo, La nuova responsabilità civile, 2a ed., Milano, 1997, 177 e seg.; Protto, Responsabilità della P.A. per
lesione di interessi legittimi: alla ricerca del bene perduto, in
Urbanistica e Appalti, 9, 2000, Milano, 1005 e seg.; Vaiano,
Pretesa di provvedimento e processo amministrativo, Milano,
2002, 270 e seg.
2.2. La natura giuridica della responsabilità della pubblica amministrazione.
Le Sezioni unite, dunque, hanno ricompreso la responsabilità della pubblica amministrazione per lesione degli interessi legittimi nel sistema della responsabilità aquiliana previsto dall’art. 2043 c.c. Norma generale, che sanziona, con un obbligo risarcitorio, la
violazione del principio del neminem ledere. Ma tale
inquadramento non è assolutamente pacifico né in dottrina né in giurisprudenza.
2.2.1. La responsabilità da contatto amministrativo
qualificato.
Una parte della dottrina 7, ha fondato la propria critica alla scelta operata dalle Sezioni unite, ponendo al
centro della propria ricostruzione teorica, il rapporto
che si genera tra privato e pubblica amministrazione,
quando il primo si rivolge, entra in contatto, con la
seconda. Un rapporto, un contatto, che oggi è disciplinato, in ogni sua parte, dalla legge sul procedimento
amministrativo, la n. 241/1990. Pertanto, la pubblica
amministrazione non si trova, e non potrà mai trovarsi,
rispetto al privato leso nel suo interesse legittimo, nella
posizione del “passante” o del “chiunque”, che costituisce il presupposto fondamentale perché si abbia la
forma giuridica della responsabilità extracontrattuale.
E il rapporto, il contatto, che si instaura tra privato e
pubblica amministrazione è un rapporto giuridico. È
Giurisprudenza Italiana - Marzo 2012
604
stato sottolineato che questo rapporto, questo contatto,
rispetto a quello che si instaura tra le parti di una trattativa contrattuale, è assai più ricco di contenuti, essendo l’amministrazione tenuta non solo a comportarsi
secondo buona fede ma anche a conformarsi ai principi
di economicità, di efficacia, di pubblicità e di non aggravamento 8. Più precisamente, si tratta di un rapporto
che rientra tra quelli definiti «rapporto senza obbligo
primario di prestazione» 9. Sono fattispecie poste al
confine tra la responsabilità contrattuale e quella extracontrattuale. Se rispetto all’obbligazione, nella sua configurazione ordinaria, esse sono prive dell’elemento
fondante del rapporto obbligatorio, ossia la prestazione, dall’altro «la forma giuridica del torto extracontrattuale appare insufficiente in quanto annega in una
troppo generica responsabilità del passante o responsabilità del chiunque, caratterizzata dal mettere in relazione soggetti fino a quel momento estranei, il danno
cagionato da un soggetto a un altro, laddove uno specifico obbligo di attenzione sembra esistere già» 10. In
queste fattispecie, cioè, gli obblighi non sono al servizio
di un obbligo di prestazione, che non esiste, ma ciò nonostante essi danno vita a un rapporto, di contenuto
ridotto rispetto a quello dell’obbligazione ordinaria, a
metà strada tra l’assenza di un precedente rapporto, che
caratterizza la responsabilità extracontrattuale, e il rapporto obbligatorio pieno, che in genere precede la responsabilità contrattuale 11. E questi obblighi sono obblighi di protezione della sfera giuridica della controparte, la cui fonte deve essere rinvenuta nell’art. 1173
c.c., il quale stabilisce il carattere aperto delle fonti delle
obbligazioni, rinviando ad «ogni atto o fatto idoneo a
produrle in conformità dell’ordinamento giuridico». E
siccome si tratta di obblighi, la violazione di essi dà vita
ad una responsabilità contrattuale, analogamente all’inadempimento della prestazione 12. Secondo questo
insegnamento, quindi, il rapporto giuridico che si instaura tra privato e pubblica amministrazione, nel corso
del procedimento, genera obblighi e l’inadempimento
di questi obblighi da parte della pubblica amministrazione configura un autonomo titolo dell’obbligazione
risarcitoria 13. E la fonte della responsabilità per l’inadempimento di questo rapporto, deve essere individuata «nell’affidamento obiettivo ingenerato in una
parte dal comportamento dell’altra e che fa si che l’obbligo imposto dalla legge ad un soggetto si precisi
in relazione al soggetto che a seguito dell’inadempimento subisce la perdita economica». Contrariamente,
quindi, a quanto sostenuto dalle Sezioni unite, l’obbligazione risarcitoria della pubblica amministrazione
prescinde totalmente dalla lesione del rapporto giuridico tra pubblica amministrazione e privato, in riferimento all’utilità finale cui aspira quest’ultimo.
8
Scoca, Per una amministrazione responsabile, in Giur.
Cost., 1999, 3, 4061.
9
Castronovo, op. cit., 177 e seg.
10
Castronovo, op. cit., 177 e seg. In Enc. Giur. Treccani,
voce “Obblighi di protezione”, XXIV, Roma, 1990, 1 e seg.
11
Castronovo, La nuova responsabilità civile, cit., 181.
12
Castronovo, La nuova responsabilità civile, cit., 180 e
seg.
13
Protto, op. cit., 1006.
14
Cons. di Stato, Sez. IV, 14 giugno 2001, n. 3169, in www.
giustizia-amministrativa.it.
Giurisprudenza Italiana - Marzo 2012
Diritto Civile | LESIONE DI INTERESSE LEGITTIMO PRETENSIVO
Anche una parte della giurisprudenza ha fatto proprio questo orientamento. Per primo il Consiglio di
Stato. Anche se ai soli fini della prova della colpa, il
Consiglio di Stato, Sezione IV, vi si richiama nella sentenza n. 3169/2001 14. Con l’avvio del procedimento
amministrativo, si legge, tra la pubblica amministrazione e il privato si verifica un significativo “contatto”. Ciò
determina che il vincolo procedimentale e i doveri posti in capo al soggetto pubblico siano più forti. Esso è
tenuto a garantire al privato la piena partecipazione al
procedimento. In caso contrario, «il contatto procedimentale ben può facilitare il giudizio sull’esistenza della colpa, specie sul piano probatorio [...] l’onere del
privato di provare la colpa è soddisfatto se si dimostra
che l’amministrazione ha provveduto a seguito di un
procedimento che ha visto la presenza del privato stesso, secondo una regola che evoca quella sul riparto
dell’onere probatorio in tema di responsabilità contrattuale». Pure nella sentenza n. 4239/2001 15, la Sezione V del Consiglio di Stato non recepisce totalmente la tesi della natura contrattuale della responsabilità
della pubblica amministrazione per lesione degli interessi legittimi, ma afferma, in ogni caso, un regime
dell’onere della prova, in ordine all’elemento dell’imputabilità del fatto dannoso, secondo criteri corrispondenti a quelli dell’art. 1218 c.c. La stessa Sezione, poi,
torna ad utilizzare questi concetti nella sentenza n.
3796/2002 16. Tra le ipotesi, in cui appare giusto ricomprendere nella responsabilità per inadempimento contrattuale la responsabilità per ingiusta lesione degli interessi legittimi, si dice, vi è quella in cui la pubblica
amministrazione, «ove non avesse adottato un illegittimo provvedimento di aggiudicazione, [...] non avrebbe potuto esimersi dall’attribuire il bonum al soggetto
richiedente, secondo uno schema logico assimilabile
all’adempimento». Ma è con la sentenza n. 204 del 20
gennaio 2003 17 che Consiglio di Stato, VI Sezione,
abbraccia totalmente la tesi della responsabilità da
contatto amministrativo qualificato. «Allorché il privato sia titolare di un interesse legittimo di natura pretensiva, il contatto che si stabilisce fra lui e l’amministrazione dà vita ad una relazione giuridica di tipo relativo, nel cui ambito il diritto al risarcimento del danno ingiusto, derivante dall’adozione di provvedimenti
illegittimi presenta una fisionomia sui generis, non riducibile al modello aquiliano dell’art. 2043 del codice
civile, in quanto, al contrario, caratterizzata da alcuni
tratti della responsabilità precontrattuale e di quella
per inadempimento delle obbligazioni».
Anche la Cassazione, decidendo la medesima controversia oggetto della Sentenza n. 500/1999, ha accolto questo orientamento 18. La suprema Corte parte dal
rilievo che il modello della responsabilità aquiliana,
15
Cons. di Stato, Sez. V, 6 agosto 2001, n. 4239, in www.giustizia-amministrativa.it. Negli stessi termini si esprime Cons. di
Stato, Sez. V, 2 settembre 2005, n. 4461, in Giust. Civ., 2006, 3,
705; T.A.R. Lazio, Roma, Sez. III, 5 novembre 2007, n. 10852,
in www.giustizia-amministrativa.it.
16
Cons. di Stato, Sez. V, 8 luglio 2002, n. 3796, in www.giustizia-amministrativa.it.
17
Cons. di Stato, Sez. VI, 20 gennaio 2003, n. 204, in www.
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18
Cass., 10 gennaio 2003, n. 157, in Foro It., 2003, I, 78.
Diritto Civile | LESIONE DI INTERESSE LEGITTIMO PRETENSIVO
appare il più congeniale ad una pubblica amministrazione autoritativamente caratterizzata. Al contrario,
sotto la spinta di sempre maggiori interessi economici,
bisognosi di un ordinamento efficiente e competitivo,
l’apparato burocratico ha subito una trasformazione in
senso aziendalistico. Ne è prova, dice il supremo Consesso, la legge n. 241/1990, con la quale i principi di
efficienza e di economicità dell’azione amministrativa,
e insieme di partecipazione del privato al procedimento amministrativo, sono diventati criteri giuridici positivi. Sin dall’avvio del procedimento amministrativo, il
privato non è più destinatario passivo dell’azione amministrativa, ma concorre con la pubblica amministrazione, nei limiti previsti dall’ordinamento giuridico,
alla definizione dell’interesse pubblico. Il privato diventa il beneficiario di obblighi di imparzialità, di correttezza e di buona amministrazione, ai quali l’esercizio
della funzione pubblica deve ispirarsi e che divengono
l’essenza stessa dell’interesse legittimo 19. In questo
quadro, l’interesse legittimo diviene pretesa, del cittadino nei confronti della pubblica amministrazione, al
rispetto delle norme che disciplinano il procedimento
amministrativo. Mentre il bene della vita, investito dai
fatti procedimentali, resta ai margini della vicenda giuridica. La lesione dell’interesse legittimo costituisce, in
realtà, inadempimento alle regole di svolgimento dell’azione amministrativa, e integra una responsabilità
contrattuale. Gli obblighi procedimentali posti dall’ordinamento giuridico a carico della pubblica amministrazione diventano vere e proprie prestazioni da
adempiere secondo il principio di correttezza e buona
fede ex artt. 1174 e 1175 c.c. E la loro violazione dà
luogo ad una responsabilità da inadempimento ex art.
1218 c.c.
Una prima voce critica a questo insegnamento è
giunta da Consiglio di Stato, VI Sezione, sentenza n.
1945/2003 20. Questo Collegio opera un distinguo. Se
il cittadino limita la sua domanda risarcitoria al danno
derivante dall’inadempimento, da parte della pubblica amministrazione, degli obblighi di imparzialità,
di correttezza e buona amministrazione, il giudice potrà, in via equitativa, attribuirgli un risarcimento di
carattere forfettario 21. All’opposto, se il cittadino
chiede il risarcimento del pregiudizio connesso all’illegittima preclusione, da parte della pubblica amministrazione, del bene della vita anelato, il giudizio sulla
spettanza diventa ineludibile e il suo esito positivo
condiziona il risarcimento del danno. Questa soluzione è stata propugnata da altra giurisprudenza amministrativa 22. Tutto dipende, quindi, dalla domanda
risarcitoria proposta dal privato. Il giudice ammini19
Caringella, Manuale di Diritto Amministrativo, Milano,
2007, 172.
20
Cons. di Stato, Sez. VI, 15 aprile 2003, n. 1945, in www.
giustizia-amministrativa.it.
21
Caringella, Manuale di Diritto Amministrativo, cit., 175
22
Cons. di Stato (ord.), Sez. IV, 7 marzo 2005, n. 875, in Riv.
Giur. Edilizia, 2005, 800; T.A.R. Lazio, Latina, 24 aprile 2007,
n. 291, in Foro Amm. TAR, 2007, 9, 2805. In dottrina, Bacosi,
Dall’interesse legittimo al diritto condizionato, Torino, 2003, 139
e seg., ha sostenuto che in caso di lesione dell’interesse legittimo,
si verifica un cumulo delle responsabilità. Ovverosia, sorge in
capo alla pubblica amministrazione sia una responsabilità contrattuale ex art. 1173 e 1218 c.c., sia una responsabilità aquiliana
ex art. 2043 c.c..
605
strativo potrà applicare il regime della responsabilità
da conttatto procedimentale o aquiliana a seconda
che il privato si limiti a chiedere il danno da illegittimità procedimentale o l’intero pregiudizio patito a
causa della perdita del bene. Soluzione, tuttavia,
stroncata dall’Adunanza plenaria, la quale, con la sentenza n. 7 del 15 settembre 2005 23, ha escluso il risarcimento degli interessi legittimi meramente procedimentali, che prescinda dalla lesione dell’interesse legittimo al bene della vita.
2.2.4. La soluzione del codice del processo amministrativo.
Tutto il dibattito sulla natura della responsabilità della pubblica amministrazione per lesione degli interessi
legittimi, è di fondamentale importanza. Le conseguenze derivanti dalla soluzione adottata non sono di
poco momento. Ad esempio, in caso di responsabilità
extracontrattuale, la prescrizione del diritto al risarcimento del danno è di cinque anni. Mentre, nella responsabilità contrattuale, la prescrizione del diritto al
risarcimento del danno è pari a 10 anni.
Ebbene, con il codice del processo amministrativo,
introdotto, come detto, dal D.Lgs. n. 104/2010, il legislatore ha optato per il modello della responsabilità
aquiliana. Ciò si evince 24 dalla formulazione letterale
dell’art. 30, comma 2 del codice del processo amministrativo, molto simile a quella dell’art. 2043 c.c. E, in
particolare, dal richiamo al danno ingiusto e dall’espresso rinvio al risarcimento in forma specifica di
cui all’art. 2058 c.c. Ad ulteriore conforto di questa
interpretazione, in materia di risarcimento del danno
da ritardo amministrativo (art. 2 bis legge n. 241/1990;
art. 30, comma 4 e art. 131, comma 1, lett. a), del codice
del processo amministrativo), la legge richiede espressamente dolo o colpa, quali requisiti soggettivi dell’illecito, e l’ingiustizia del danno. Al pari di quanto affermato dalle Sezioni unite della Cassazione nella sentenza n. 500/1999 25, quindi, gli elementi della responsabilità risarcitoria da lesione degli interessi legittimi
sono individuabili, alla stregua delle indicazioni dell’art. 2043 c.c., in: 1) la sussistenza di un evento dannoso; 2) l’ingiustizia del danno in relazione alla sua
incidenza su un interesse rilevante per l’ordinamento;
3) il nesso causale, di guisa che l’evento dannoso sia
riferibile ad una condotta (positiva od omissiva) della
pubblica amministrazione; 4) l’imputabilità del danno
al danneggiante secondo il criterio del dolo o della
colpa della pubblica amministrazione. E tale conclusione 26, non è revocata dal comma 3 dell’art. 30 del
codice del processo amministrativo, il quale stabilisce
23
Cons. di Stato, Ad. plen., 15 settembre 2005, n. 7, in www.
giustizia-amministrativa.it.
24
Caringella, Corso di Diritto Amministrativo. Profili sostanziali e processuali, 6a ed., Milano, 2011, I, 439 e seg.
25
V. supra paragrafo 2.1. Altre sentenze, come anche quella
in commento, che si esprimono negli stessi termini sono: Cass.,
27 maggio 2009, n. 12282, in Giust. Civ. Mass., 2009, 5; Id., 15
marzo 2007, n. 6005, ivi, 2007, 3; Id., 29 marzo 2004, n. 6199,
ivi, 2004, 3.
26
Caringella, Corso di Diritto Amministrativo. Profili sostanziali e processuali, cit., 439 e seg.
Giurisprudenza Italiana - Marzo 2012
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Diritto Civile | LESIONE DI INTERESSE LEGITTIMO PRETENSIVO
un termine decadenziale di 120 giorni per l’esperimento della domanda di risarcimento 27. La suprema Corte 28, infatti, ha ricordato come sia «nella disponibilità
del legislatore disciplinare la tutela delle situazioni soggettive assoggettando a termini di decadenza l’esercizio dell’azione».
Le conseguenze che derivano da tale scelta sono,
come anticipato, fondamentali. Anzitutto, l’elemento
soggettivo. La natura aquiliana della responsabilità da
lesione di interessi legittimi, comporta che la lesione
derivante da atto illegittimo sia determinata da dolo o
colpa. Il dolo è da imputarsi all’organo persona fisica
che ha agito in nome e per conto dell’amministrazione.
Quanto alla colpa, la giurisprudenza ha affermato la
necessità della colpa solo in caso di violazioni gravi, in
virtù di quanto affermato a livello comunitario dalla
Corte di giustizia, oppure ha sostenuto che l’illegittimità del provvedimento costituisce indizio grave, preciso e concordante della colpa della pubblica amministrazione 29.
Ancora. L’allegazione e la quantificazione del danno
sofferto. Sia dal punto di vista della sua effettiva sussistenza (inteso quali conseguenze dannose dell’attività
illegittima della pubblica amministrazione: c.d. “danno conseguenza”) sia dal punto di vista del suo effettivo ammontare. Punto di partenza è l’art. 1223 c.c., il
quale prevede che il pregiudizio risarcibile è composto
dal danno emergente e dal lucro cessante. Il privatodanneggiato, cioè, deve provare di aver patito una effettiva diminuzione del suo patrimonio a causa della
inutile partecipazione al procedimento. E deve provare la perdita di una utilità economica connessa all’adozione del provvedimento illegittimo. Quest’ultimo elemento non è facilmente dimostrabile. Ma il privatodanneggiato potrà fare ricorso a criteri presuntivi di
determinazione del quantum 30.
La quantificazione del danno, ulteriormente, passa
attraverso l’art. 1225 c.c., che stabilisce l’estensione del
risarcimento anche al danno imprevedibile solo qualora sia integrato un comportamento doloso 31.
Il codice del processo amministrativo, poi, pur non
evocando esplicitamente la norma dettata all’art. 1227,
comma 2, c.c., all’art. 30, comma 3, prevede come limite alla liquidazione del danno da lesione dell’inte-
resse legittimo, quello dell’irrisarcibilità dei danni evitabili con l’ordinaria diligenza, anche attraverso l’esperimento degli strumenti di tutela previsti dall’ordinamento giuridico. Il legislatore del codice, rileva l’Adunanza plenaria 32, ha mostrato di apprezzare, sul
versante sostanziale, la rilevanza eziologica della mancata impugnazione processuale del provvedimento
dannoso ma anche dell’omessa attivazione di altri rimedi potenzialmente idonei ad evitare il danno, quali
la via dei ricorsi amministrativi e l’assunzione di atti di
iniziativa finalizzati alla stimolazione dell’autotutela
amministrativa (c.d. “invito all’autotutela”), come fatto valutabile al fine di escludere la risarcibilità dei danni che, secondo un giudizio causale di tipo ipotetico,
sarebbero stati presumibilmente evitati in caso di tempestiva reazione. «Operando una ricognizione dei
principi civilistici in tema di causalità giuridica e di
principio di auto-responsabilità, il codice del processo
amministrativo sancisce la regola secondo cui la tenuta,
da parte del danneggiato, di una condotta, attiva od
omissiva, contraria al principio di buona fede ed al
parametro della diligenza, che consenta la produzione
di danni che altrimenti sarebbero stati evitati secondo
il canone della causalità civile imperniato sulla probabilità relativa (secondo il criterio del “più probabilmente che non”: Cass., Sez. un., 11 gennaio 2008, n.
577; Cass., Sez. III, 12 marzo 2010, n. 6045), recide, in
tutto o in parte, il nesso causale che, ai sensi dell’art.
1223 c.c., deve legare la condotta antigiuridica alle
conseguenze dannose risarcibili».
Norma di chiusura è l’art. 1226 c.c., il quale stabilisce
la liquidazione equitativa del danno da parte del giudice. Norma, si sostiene 33, quasi necessaria, nelle ipotesi in cui siano difficilmente apprezzabili le effettive
implicazioni economiche della violazione accertata.
Ovverosia, soprattutto per la definizione del valore
economico degli interessi legittimi pretensivi o procedimentali lesi dall’atto illegittimo. E il legislatore del
codice del processo amministrativo, conscio delle difficoltà di quantificazione del danno da lesione dell’interesse legittimo, ha previsto all’art. 34, 4o comma una
definizione consensuale del quantum.
In ultimo, altra conseguenza della scelta operata dal
legislatore, del codice del processo amministrativo, a
27
L’art. 30 del codice del processo amministrativo al comma
1 prevede: «L’azione di condanna può essere proposta contestualmente ad altra azione o, nei soli casi di giurisdizione esclusiva e nei casi di cui al presente articolo, anche in via autonoma».
Relativamente alla prima ipotesi, il comma 5 dell’art. 30 stabilisce: «Nel caso in cui sia stata proposta azione di annullamento
la domanda risarcitoria può essere formulata nel corso del giudizio o, comunque, sino a centoventi giorni dal passaggio in
giudicato della relativa sentenza». Mentre, per l’azione di condanna al risarcimento del danno proposta in via autonoma, il
comma 3 statuisce che il termine di decadenza di centoventi
giorni decorre «dal giorno in cui il fatto si è verificato ovvero
dalla conoscenza del provvedimento se il danno deriva direttamente da questo». Il Cons. di Stato, Ad. plen., 30 marzo 2011,
n. 3, in www.giustizia-amministrativa.it ha rilevato che «la norma, da leggere in combinazione con il disposto del comma 4
dell’art. 7 — il cui inciso finale prevede la possibilità che le
domande risarcitorie aventi ad oggetto il danno da lesione di
interessi legittimi e di altri diritti patrimoniali consequenziali
siano introdotte in via autonoma — sancisce , dunque, l’autonomia sul versante processuale, della domanda di risarcimento
rispetto al rimedio impugnatorio. Detta autonomia è conferma-
ta, per un verso, dall’art. 34, comma 2, secondo periodo, che
considera il giudizio risarcitorio quale eccezione al generale divieto, per il giudice amministrativo, di conoscere della legittimità di atti che il ricorrente avrebbe dovuto impugnare con
l’azione di annullamento; e, per altro verso, dal comma 3 dello
stesso art. 34, che consente l’accertamento dell’illegittimità a fini
meramente risarcitori allorquando la pronuncia costitutiva di
annullamento non risulti più utile per il ricorrente».
28
Cass., Sez. un., 13 giugno 2006, n. 13659 (ord.), in Urbanistica e Appalti, 2006, 1174.
29
Tutti i riferimenti giurisprudenziali sono in Caringella,
Corso di Diritto Amministrativo. Profili sostanziali e processuali,
cit., 443.
30
Caringella, Corso di Diritto Amministrativo. Profili sostanziali e processuali, cit., 444.
31
Caringella, Corso di Diritto Amministrativo. Profili sostanziali e processuali, cit., 444.
32
Cons. di Stato, Ad. plen., 30 marzo 2011, n. 3, in www.
giustizia-amministrativa.it.
33
Caringella, Corso di Diritto Amministrativo. Profili sostanziali e processuali, cit., 444.
Giurisprudenza Italiana - Marzo 2012
Diritto Civile | LODO MONDADORI
607
favore natura aquiliana della responsabilità da lesione
degli interessi legittimi, è in materia probatoria. Come
affermato dal Consiglio di Stato 34, la domanda di risarcimento dei danni da lesione degli interessi legittimi, soggiace al criterio dell’onere della prova di cui
all’art. 2697 c.c., «in base al quale chi vuol far valere
un diritto in giudizio deve provare i fatti che ne costituiscono il fondamento, per cui grava sul danneggiato l’onere di provare, ai sensi del citato articolo, tutti
gli elementi costitutivi della domanda di risarcimento
del danno per fatto illecito (danno, nesso causale e
colpa)».
Armando Fiorillo
LODO MONDADORI
Appello Milano, 9 luglio 2011 — De Ruggiero
Presidente — Soc. Fininvest (avv.ti Frignani, Saletti,
Lepri, Vaccarella) - Soc. CIR - Compagnie industriali
riunite (avv.ti Roppo, Rubini).
Responsabilità civile — Danno ingiusto — Sentenza relativa all’impugnazione di un arbitrato rituale di
equità — Corruzione di un componente del Collegio
giudicante — Nesso di causa — Perdita della chance
di una sentenza favorevole — Fattispecie (C.c. artt.
1123, 2043).
L’emissione di una sentenza che accoglie l’impugnazione di un lodo rituale di equità, ingiusta in quanto
frutto della corruzione di uno dei componenti del Collegio (nella specie, giudice relatore), va considerata
“tamquam non esset” e comunque determina, per la
parte soccombente, danni patrimoniali e non patrimoniali risarcibili, da non qualificare in termini di mera
perdita di chance, intesa come opportunità di ottenere
una decisione favorevole in presenza di una pluralità di
opzioni motivazionali (riconoscimento della liceità di
patti di sindacato; scindibilità degli stessi rispetto alla
complessiva pattuizione cui essi accedevano; limiti alla
stessa possibilità di riforma, da parte della Corte d’appello, di un lodo in equità) supportanti il riconoscimento dell’incensurabilità del giudizio arbitrale. (Nella
specie, è stato concesso alla parte soccombente il diritto
al risarcimento del danno in via integrale ritenendo, in
applicazione del criterio del “più probabile che non”,
che un Collegio incorrotto avrebbe certamente confermato il lodo, con conseguente riforma della sentenza di
primo grado la quale aveva invece ritenuto che le probabilità di conferma del lodo fossero dell’ottanta per
cento) (1).
Omissis. — I fatti di causa e le allegazioni di Cir.
Le vicende giudiziarie dedotte in causa originano dalla
domanda di risarcimento svolta in primo grado da CIR spa
per danni asseritamente cagionati dalla corruzione in atti
giudiziari del consigliere Vittorio Metta della Corte di Appello di Roma, che scrisse la sentenza 14-24.1.1991; ciò accadeva in relazione alla vicenda relativa al controllo del grup-
po editoriale Mondadori, risalente ai primi anni ‘90 ed intercorsa fra l’attrice e Fininvest spa, meglio conosciuta come
“guerra di Segrate”. — Omissis.
Il secondo motivo di appello di Fininvest, ripreso in memoria conclusionale alle pagine 10 e seguenti, è complesso e
necessita di analisi dettagliata.
L’appellante sosteneva che CIR avrebbe dovuto dimostrare che: 1) essa aveva una rilevante possibilità di ottenere una
sentenza di conferma del lodo, 2) la sentenza della Corte
d’appello di Roma era ingiusta, mentre giusto era il lodo
Pratis e che 3) tale sentenza era frutto della corruzione. Perché fosse fondata la pretesa di CIR doveva ricorrere la prova
di ognuna delle tre allegazioni.
Tali assunti, però, non erano veri e, comunque, non erano
dimostrati: ciò spezzava il nesso eziologico — come evidenziato dall’appellante nel primo motivo di appello trattato al
capitolo seguente — che doveva ricorrere per poter coltivare
l’ipotesi risarcitoria ex art 2043 C.C. — Omissis.
A fronte della complessità dei motivi esposti da Fininvest,
appare logicamente opportuno invertirne l’ordine e procedere in primo luogo all’analisi dell’ultima parte della seconda
doglianza, laddove Fininvest riteneva, al fine di dimostrare
l’insussistenza di un nesso causale e quindi di sconfessare gli
argomenti a fondamento della sua responsabilità, che la sentenza della Corte d’appello di Roma non fosse conseguenza
della corruzione (nda: in quanto Metta non era corrotto e, in
ogni caso, gli altri due componenti del Collegio erano giunti
a quelle medesime conclusioni).
Questa Corte non può che ribadire quanto sopra detto in
ordine alla corruzione di Metta. Resta, invece, da verificare la
valenza causale di tale fatto, tenuto conto della collegialità
della decisione. In sostanza, come si vedrà, ritiene questa
Corte che una sentenza “normale”, non condizionata dalla
presenza di un componente corrotto che aveva alterato tutto
l’iter decisionale, certamente non sarebbe giunta alle conclusioni alle quali pervenne la Corte d’appello di Roma; ciò
che stabilisce il nesso fra corruzione e contenuto della pronuncia. — Omissis.
In questa sede civile si può dunque fin d’ora affermare che
la sentenza della Corte d’appello di Roma è “tamquam non
esset”: già per la sola presenza nel Collegio del giudice corrotto, a prescindere dal merito della decisione e dal convincimento degli altri componenti del Collegio.
Questo principio, come enucleato dalla sentenza appena
citata, è di per se stesso sufficiente a smentire l’essenza della
censura di Fininvest, nella parte in cui svolgeva una sorta di
“prova di resistenza”, affermando che, comunque, gli altri
componenti del Collegio erano giunti alle stesse conclusioni
del corrotto Metta.
Ma quand’anche, invece, si ritenesse necessario, in tema di
nesso di causalità, valutare in concreto l’incidenza dell’intervento di Metta sul tenore finale della decisione della Corte,
non si potrebbe prescindere dalle dichiarazioni rese dagli
altri due componenti del Collegio in sede penale, oltretutto,
in qualche modo, obbligate ed evidentemente elusive, stante
il rischio di affermare circostanze contra se. — Omissis.
Ribadisce allora questa Corte che nel caso di specie le
modalità ed i limiti della discussione interna al Collegio inducono a ritenere integrata anche la prova cosı̀ come richiesta dalla appena citata sentenza della Cassazione penale a
Sezioni unite [n. 22327 del 30.10.2002, ric. Carnevale, secondo cui “mentre nei giudizi monocratici è necessariamente
inevitabile riferire la deliberazione esclusivamente al giudizio
dell’unico magistrato deliberante, in quelli collegiali, invece, la
decisione è un atto unitario, alla formazione del quale concorrono i singoli componenti del Collegio, in base allo stesso titolo
e agli stessi doveri: sia essa sentenza, ordinanza o decreto, non
rappresenta la somma di distinte volontà e convincimenti, ma
la loro sintesi — operata secondo la regola maggioritaria — la
quale rende la decisione impersonale e perciò imputabile al
34
Cons. di Stato, Sez. V, 15 settembre 2010, n. 6797, in
www.giustizia-amministrativa.it. Negli stessi termini Id., Sez.
VI, 11 gennaio 2010, n. 14, ivi.
Giurisprudenza Italiana - Marzo 2012
608
Collegio nel suo insieme”, per cui “allorché, in punto di contestazione accusatoria, si sostenga che una determinata decisione collegiale, anziché il prodotto di una autonoma scelta
collettiva, imputabile all’organo collegiale nel suo complesso,
rappresenti invece il risultato, raggiunto attraverso l’alterazione del regolare procedimento formativo della volontà collegiale, addebitabile ad un singolo soggetto, occorre fornire prova
rigorosa di una condotta, da parte di quest’ultimo, se non di
vera e propria coartazione e prevaricazione, almeno di concreto
condizionamento esercitato sulla volontà dei componenti del
Collegio o di qualcuno di essi, che si siano perciò orientati ad
operare proprio in funzione di quell’illecito intervento” —
n.d.r.]: si ripete, infatti, che le sfuggenti dichiarazioni del
consigliere Paolini e lo studio solo teorico e monotematico
da parte del presidente Valente evidenziano la dinamica decisionale di un Collegio che ha visto la presenza decisiva del
giudice relatore corrotto, il quale ha in concreto condizionato le determinazioni degli altri due componenti. La natura
solo formalmente collegiale della sentenza della Corte d’appello di Roma non interrompe quindi — trattandosi nella
specie di collegialità abnorme e sostanzialmente fittizia — il
nesso di causalità materiale tra la corruzione di Metta ed il
contenuto della decisione. — Omissis.
Ma la sentenza della Corte di Roma è ingiusta anche nel
merito, poiché una sentenza giusta avrebbe inevitabilmente
respinto l’impugnazione e confermato il lodo.
Per verificare questa conclusione — nella logica della citata Cass. Pen. (“in ogni caso spetterà al giudice civile... di
valutare se la decisione sia comunque conforme a giustizia,
nel merito”) — non si può che partire dall’analisi specifica
della situazione concreta di fronte alla quale si sarebbe trovato un relatore non corrotto (ovvero “Metta non corrotto”,
nel lessico di CIR), affiancato da componenti del Collegio
sinergicamente partecipi all’iter decisionale di una sentenza
“normale”.
In altri termini, rimossa sul piano logico-giuridico la sentenza Metta, occorre, immedesimandosi nella situazione giuridico processuale concretamente azionata dalle parti, chiedersi non tanto o non solo quali fossero gli eventuali errori
della motivazione della sentenza della Corte d’appello di
Roma, quanto, propriamente, quale sarebbe stata la sentenza
che giudici terzi, mediamente preparati della Corte di Roma,
preposti “ratione materiae” alla decisione in quel momento
storico, normativo e giurisprudenziale, avrebbero emesso
nel caso di specie secondo il canone di “normalità”, cioè
escludendo le ipotesi astratte e quelle eccezionali (quali gli
errori giudiziari, la distrazione o la particolare ignoranza dei
giudicanti...), fatti che in rerum natura possono anche darsi,
ma che per l’appunto (fortunatamente) non sono “normali”.
È evidente, peraltro, che una ricostruzione della sentenza
“giusta” porti per converso a riscontrare gli errori e le forzature della sentenza “Metta”. — Omissis.
Svolta la necessaria ricostruzione in fatto, è ora possibile
trarne le debite conseguenze in tema di nesso di causalità.
Come si ricorderà, il primo motivo delle doglianze di Fininvest, che si collega a quanto sino a qui trattato, consisteva
nella erroneità della sentenza del Tribunale per violazione e
falsa applicazione degli articoli 2043, 1223 e 2056 CC, nella
parte in cui riconosceva il danno subito da CIR come danno
da perdita di “chance”.
Per converso l’appellante incidentale CIR, nel secondo dei
suoi motivi di appello — il cui esame è logicamente prioritario — si doleva della reiezione della propria domanda principale relativa al riconoscimento di un nesso immediato e
diretto fra la corruzione di Metta e l’annullamento del lodo;
a detta di CIR, il Tribunale aveva errato nella applicazione
delle norme sul nesso di causalità, dovendosi affermare l’esistenza di un nesso immediato, diretto e non interrotto fra la
corruzione di Metta e l’annullamento del lodo. — Omissis.
Ciò precisato, CIR evidenziava che la corruzione di
Metta era stata consumata affinché egli propiziasse una sentenza di annullamento del lodo Pratis; ne risultava che il
danno sofferto da CIR era conseguenza immediata e diretta
della corruzione: se la sentenza non fosse stata frutto della
corruzione, essa sarebbe stata favorevole a CIR, che si sarebbe seduta al tavolo delle trattative finali in una condiGiurisprudenza Italiana - Marzo 2012
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zione di forza e non nella condizione di debolezza nella
quale si era trovata.
Il Tribunale, invece, aveva disatteso tale progressione logico-giuridica, affermando erroneamente che “nessuno può
dire in assoluto quale sarebbe stata la decisione che un Collegio nella sua totalità incorrotto, avrebbe emesso: ... una
sentenza ingiusta avrebbe potuto essere emessa anche da un
Collegio nella sua interezza non corrotto” (sentenza appellata, pagg. 125-126). Il Tribunale, dunque, a detta di CIR,
aveva malamente concluso: “proprio per questo, appare più
aderente alla realtà del caso in esame determinare concettualmente il danno subito da CIR come danno da perdita di
“chance”: vale a dire, posto che nessuno sa come avrebbe
deciso una Corte incorrotta, certamente è vero che la corruzione del giudice Metta privò la CIR della “chance” di ottenere da quella Corte una decisione favorevole” (sentenza
appellata, pag. 126).
Sussisteva, dunque, anche a detta di CIR, pur in prospettiva diversa rispetto a quella indicata da Fininvest, un errore
del Tribunale nell’applicazione delle norme sul nesso di causalità; l’astratta possibilità della emissione di una sentenza
ingiusta non valeva ad escludere il nesso eziologico. Infatti, la
corretta applicazione del canone “più probabile che non”
(indicato da Cass. 16.10. 2007 n. 2119) rendeva ampiamente
provata l’esistenza di un nesso di causalità immediato, diretto e non interrotto fra la corruzione di Metta e l’annullamento del lodo Pratis. In sostanza, si chiedeva retoricamente
CIR: era più probabile che un giudice incorrotto avrebbe
emesso una sentenza giusta oppure una sentenza ingiusta?
La prima ipotesi era di gran lunga la più probabile e ciò
giustificava l’affermazione di un rapporto diretto ed immediato fra corruzione, sentenza ingiusta e danno subito da
CIR. La corruzione di Metta, in definitiva, aveva privato CIR
non tanto della “chance” di una sentenza favorevole, ma
della sentenza favorevole “tout court”.
Quando poi il Tribunale aveva affermato che anche un
giudice incorrotto avrebbe potuto emettere una sentenza
ingiusta, si riferiva, errando, ad un giudice astrattamente
ipotizzato, mentre il punto di riferimento doveva essere Metta, in quel contesto specifico, nel caso in cui non fosse stato
corrotto: in tale ipotesi era molto più probabile che la sentenza sarebbe stata giusta (piuttosto che non), proprio perché Metta era un giudice preparato.
La censura è fondata.
Ragionando di nesso eziologico e di valutazione della prova, evidenzia la Corte che, come insegna tra le altre Cass.
10285/2009, “la scelta da porre a base della decisione di
natura civile va compiuta applicando il criterio della probabilità prevalente. Bisogna, in sede di decisione sul fatto, scegliere l’ipotesi che riceve il supporto relativamente maggiore
sulla base degli elementi di prova complessivamente disponibili. Trattasi, quindi, di una scelta comparativa e relativa
all’interno di un campo rappresentato da alcune ipotesi dotate di senso, perché in vario grado probabili, e caratterizzato
da un numero finito di elementi di prova favorevoli all’una o
all’altra ipotesi”.
Sul punto non si può, dunque, prescindere dal considerare
con Cass. sez. III, 16 ottobre 2007, n. 21619, che il giudizio
di causalità non è mai un giudizio in termini di certezze
assolute, bensı̀ è sempre e in ogni caso un giudizio probabilistico, peraltro suscettibile di diverse gradazioni in relazione
ai vari contesti applicativi; in campo penale, quello che richiede il grado di probabilità più alto, il criterio di giudizio
sulla causalità si identifica con quello dell’alta “credibilità
razionale” (“oltre ogni ragionevole dubbio”); nell’ipotesi di
responsabilità civile il criterio si attesta su un grado di probabilità minore giustificato dal tipo di interesse protetto (e
tenuto conto della sua evoluzione storica), e cioè “sul versante della probabilità relativa, caratterizzata... dall’accedere
a una soglia meno elevata di probabilità rispetto a quella
penale” e suscettibile di “assumere molteplici forme espressive” quali ad esempio “serie e apprezzabili possibilità” o
“ragionevole probabilità”, il che può riassumersi dicendo
che, in definitiva, “la causalità civile... obbedisce alla logica
del “più probabile che non”; sempre in campo civile sussiste
un ulteriore e più basso livello di probabilità, dato dalla
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semplice possibilità, che è sufficiente a giustificare la figura
della “chance” (sul tema si confrontino, tra le altre, Cass.
00/632 e Cass. 05/7997).
Infatti, come testualmente ritenuto in motivazione nella
citata Cass. 21619/07, e ciò si dice evidenziando che la sentenza si riferisce ad una fattispecie diversa (di natura sanitaria), “non è illegittimo immaginare, allora, una “scala discendente”, cosı̀ strutturata: 1) in una diversa dimensione di analisi sovrastrutturale del (medesimo) fatto, la causalità civile
“ordinaria”, attestata sul versante della probabilità relativa
(o “variabile”), caratterizzata, specie in ipotesi di reato commissivo, dall’accedere ad una soglia meno elevata di probabilità rispetto a quella penale, secondo modalità semantiche
che... possono assumere molteplici forme espressive (“serie
ed apprezzabili possibilità”, “ragionevole probabilità” ecc.),
senza che questo debba, peraltro, vincolare il giudice ad una
formula peritale, senza che egli perda la sua funzione di
operare una selezione di scelte giuridicamente opportune in
un dato momento storico: senza trasformare il processo civile (e la verifica processuale in ordine all’esistenza del nesso
di causa) in una questione di verifica (solo) scientifica demandabile tout court al consulente tecnico: la causalità civile, in definitiva, obbedisce alla logica del “più probabile che
non”; 2) in una diversa dimensione, sempre nell’orbita del
sottosistema civilistico, la causalità da perdita di “chance”,
attestata tout court sul versante della mera possibilità di
conseguimento di un diverso risultato (terapeutico), da intendersi, rettamente, non come mancato conseguimento di
un risultato soltanto possibile, bensı̀ come sacrificio della
possibilità di conseguirlo, intesa tale aspettativa (la guarigione da parte del paziente) come “bene”, come diritto attuale,
autonomo (e diverso rispetto a quello alla salute). Quasi
certezza (ovvero alto grado di credibilità razionale), probabilità relativa e possibilità sono, dunque, in conclusione, le
tre categorie concettuali che, oggi, presiedono all’indagine
sul nesso causale nei vari rami dell’ordinamento...”. In definitiva, il supremo Collegio lascia intendere che il canone
“più probabile che non”, valevole in sé per ogni ipotesi di
responsabilità civile, non serve a dirimere la questione circa
la natura del danno, in quanto detto parametro rileva sia per
il danno diretto e immediato che per quello da perdita di
“chance”, che sono due tipi diversi di danno risarcibile.
Alla luce di tali principi, che la giurisprudenza di legittimità citata riferisce ad una ipotesi in fatto diversa, ma che
sono analogicamente rapportabili anche alla presente fattispecie, si deve allora riconoscere, con l’appellante incidentale, che la corruzione di Metta ha privato CIR non tanto della
“chance” di una sentenza favorevole, ma, senz’altro, della
sentenza favorevole, nel senso che, con “Metta non corrotto”, l’impugnazione del lodo sarebbe stata respinta.
E cosı̀ è in effetti: da quanto si è fin qui motivato in fatto
derivano — con certezza sufficiente ai fini civilistici — le
affermazioni che: 1) la sentenza della Corte d’appello di
Roma è stata frutto della corruzione, 2) la stessa è stata ingiusta e 3) CIR, senza la corruzione, avrebbe ottenuto una
sentenza di conferma del lodo.
Dunque, un nesso immediato e diretto: la relazione causale
tra la condotta del giudice corrotto, relatore ed apparente
estensore, e la sentenza ingiusta è stata accertata in fatto secondo un normale criterio di causalità materiale, essendosi
cioè ritenuto provato che la corruzione ha determinato in
concreto un diverso esito di quel giudizio “collegiale”.
È evidente, d’altronde, l’errore del Tribunale nell’applicazione delle norme sul nesso di causalità: tra l’altro, il primo
1
La decisione di prime cure è Trib. Milano, 3 ottobre 2009,
la quale si legge in versione integrale in Foro It., Le banche dati,
archivio Merito ed extra, ed è commentata da Castronovo,
Vaga culpa in contraendo: invalidità responsabilità e la ricerca
della chance perduta, in Europa Dir. Priv., 2010, 33; Franzoni,
La chance, il danno non patrimoniale e il caso Mondadori, in
Contr. Impr., 2009, 1169; Gazzoni, Ci vorrebbe un giudice di un
altro pianeta (qualche dubbio «garantista» sulla sentenza di risarcimento del danno per il c.d. lodo Mondadori), in Dir. Fam., 2009,
609
giudice sovrapponeva impropriamente, come evidenziato
anche da Fininvest, il piano del nesso eziologico con quello
del tipo di danno risarcibile: il canone del “più probabile che
non” giustifica entrambe le ipotesi di danno, sia esso immediato e diretto che per perdita di “chance”, non valendo
esclusivamente per questa seconda ipotesi; l’astratta possibilità, ritenuta dal primo giudice, della emissione di una
sentenza ingiusta anche da parte di giudici incorrotti — proprio in quanto ipotesi astratta, forse formulata sul presupposto che errare sia comunque umano — non vale ad escludere il nesso eziologico nella accezione giuridica sopra indicata. Come correttamente evidenziato da CIR, “se cosı̀ fosse,
nessun danno sarebbe più integralmente risarcibile come
previsto dall’articolo 1223 C.C.”. Allorché, invece, il nesso
causale risulti accertato — anche eventualmente in base al
canone della probabilità qualificata — è evidente che tutti i
danni, e non una percentuale di essi, debbano essere risarciti.
— Omissis.
Conferma della perdita del parametro di riferimento del
Tribunale è la considerazione non giuridica (ed in definitiva
più che altro esistenziale) per cui “nessuno sa come avrebbe
deciso una Corte incorrotta”. Il problema che il Tribunale si
sarebbe dovuto porre era invece proprio quello: ricostruire
(nella logica “controfattuale” del tutto consueta in larga parte delle controversie risarcitorie) come avrebbe deciso una
Corte incorrotta o, meglio, proprio quella Corte nel caso in
cui Metta non fosse stato corrotto; in altri termini, il giudice
di prime cure avrebbe dovuto stabilire, come si è qui tentato
di fare, se il lodo sarebbe stato confermato, alla luce delle
regole e della giurisprudenza all’epoca vigenti e a disposizione di una “Corte normalmente preparata”. E, come si è
visto, erano tanti e tali gli argomenti — di rito e di merito, di
legge e di giurisprudenza, principali e subordinati, sistematici e letterali — che imponevano il rigetto dell’impugnazione, che si deve concludere che questo esito era, in concreto,
certo. — Omissis.
(1) L’azione di responsabilità nel caso CIRFininvest: quali chances per la perdita di
chances?
Sommario: 1. Introduzione. — 2. Le tappe di un cammino
giurisprudenziale (in piena evoluzione). — 3. (Segue):
Nesso di causa vs. perdita di chances nella regola decisionale adottata. — 4. Considerazioni conclusive (e provvisorie).
1. Introduzione.
La decisione che la Corte d’appello di Milano ha reso
nel luglio 2011 nel caso CIR-Fininvest, in larga parte
confermando la sentenza del giudice Mesiano dell’autunno 2009, è relativa ad un’azione di responsabilità
extracontrattuale di straordinaria complessità, i cui
snodi problematici sono almeno pari agli spunti di interesse 1.
Dando per nota la vicenda anche per via del suo
risalto mediatico, l’iter decisionale seguito dai giudici
di prime e seconde cure — con le differenze che si
porranno in luce fra un attimo — può essere riassunto
nel modo che segue 2: ricondotta alla Fininvest la corruzione del giudice Metta (anche in forza dell’accerta1886; Santoro, Due casi di danno da perdita di chance: per
sentenza ingiusta e per tardiva consegna di un telegramma, in
Danno e Resp., 2010, 76; Scognamiglio, Ingiustizia e quantificazione del danno da sentenza frutto di corruzione di uno dei
componenti del Collegio, in Resp. Civ. e Prev., 2010, 611; Tescaro, Danni da perdita di chance e danni non patrimoniali nella
controversia CIR-Fininvest, in Resp. Civ., 2010, 258.
2
Per maggiori dettagli v. gli altri contributi citati nel presente lavoro.
Giurisprudenza Italiana - Marzo 2012
610
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mento intervenuto in sede penale, ancorché senza poter dare diretta efficacia al relativo giudicato in sede
civile 3), viene stabilito che lo stesso aveva avuto un’influenza decisiva sul Collegio in cui era relatore e sulla
decisione assunta dalla Corte d’appello di Roma nel
gennaio 1991; cioè quella, come molti lettori ricorderanno, con cui era stato annullato il lodo Pratis del
giugno 1990, favorevole a CIR e intervenuto a fronte
della mancata esecuzione dell’accordo del dicembre
1988 in forza del quale la stessa avrebbe dovuto acquisire il controllo del gruppo Mondadori; di qui l’indebolimento della sua posizione negoziale nella trattativa
(già in corso al momento della sentenza della Corte
d’appello romana) volta alla spartizione del colosso
editoriale e la conclusione della transazione dell’aprile
1991 a condizioni nettamente diverse da quelle che,
altrimenti, le parti avrebbero concordato 4.
La corposa sentenza in commento, che consta di ben
283 pagine nella versione originale, diverge però da
quella di prime cure con riguardo a due aspetti non
secondari. Il Tribunale, infatti, aveva ricostruito la fattispecie in termini di perdita di chances, ritenendo che
CIR fosse stata privata della consistente possibilità di
veder confermato il lodo Pratis, con tutto quanto ne
era poi derivato: ancorché la sentenza venisse fatta discendere dalla condotta del relatore, non era del tutto
certo — secondo il giudice di prime cure — che un
Collegio non corrotto avrebbe adottato una diversa
decisione, sicché le probabilità di conferma del lodo
andavano stimate nella misura dell’80%.
La Corte d’appello invece, fa leva sull’equazione corruzione = sentenza ingiusta = danno risarcibile, statuendo che era la domanda risarcitoria principale e
non quella subordinata da perdita di chances a dover
essere accolta: una volta accertato il legame fra la corruzione del giudice e la citata sentenza, questa era
“tamquam non esset” e, comunque, in assenza del condizionamento di Metta una Corte “normale” mai
avrebbe reso quella decisione; pertanto, non era dato
di considerare la possibilità, definita “esistenziale”, che
il Collegio addivenisse alla medesima determinazione e
si doveva affermare (secondo il canone del “più probabile che non”, sul quale più oltre si tornerà) che “un
giudice incorrotto avrebbe emesso una sentenza giu-
sta”, con il conseguente “rapporto diretto ed immediato fra corruzione, sentenza ingiusta e danno subito
da CIR” 5.
In secondo luogo, mentre il Tribunale aveva condannato Fininvest ad un risarcimento di quasi 750 milioni
di Euro — con successiva sospensione della sentenza
su accordo delle parti e dietro il rilascio di una fideiussione a prima richiesta fornita da varie banche —, la
Corte d’appello quantifica i danni in somma di poco
superiore ai 540 milioni di Euro, optando per una differente metodologia di computo, correggendo un errore di calcolo e contenendo gli effetti della liquidazione equitativa operata dal giudice di prime cure (senza però procedere, ovviamente, alla riduzione derivante dall’applicazione del richiamato 80%).
Tuttavia, ancorché si tratti di questioni non trattate
dai brani della decisione selezionati e sopra riportati,
a mo’ di (seppur incompleta) panoramica vale la pena
di ricordare che, per giungere alla statuizione di condanna, la pronuncia ha intanto dovuto ammettere che
l’azione risarcitoria valga non solo a by-passare il problema della mancata proposizione della revocazione
contro la sentenza Metta (nel frattempo passata in
giudicato), ma anche la validità e l’efficacia di un accordo transattivo non impugnato e ritenuto (almeno
dalla sentenza di prime cure) non impugnabile: come
dire che il risultato non conseguibile dall’attore attraverso l’azione di annullamento del contratto (il cui accoglimento avrebbe peraltro provocato una messe di
problemi in ragione del pluriennale consolidamento
degli assetti societari) e alla rimozione del titolo (la cui
inidoneità a precludere l’azione risarcitoria è tutta da
discutere 6), glielo si può concedere per via extracontrattuale, con una singolare costruzione del rapporto
— da indagare in altra sede — fra regole di invalidità
e regole di responsabilità (senza contare il possibile
vaglio della domanda di CIR alla luce degli orientamenti formatisi in tema di responsabilità pre-contrattuale 7).
Inoltre, la riconduzione della corruzione a Fininvest
attraverso l’immedesimazione organica e comunque ex
art. 2049 c.c. perché il suo legale rappresentante “non
poteva non sapere”, nonché — sempre in forza di detta
norma — per l’opera del “mandatario generale” Cesa-
3
Per la ricostruzione degli antecedenti penali dell’odierna
azione si veda la nota di Pardolesi-Palmieri a Trib. Milano, 3
ottobre 2009, in Foro It., 2009, I. 3193. Giusto in punta di penna
si può rammentare che, non essendo Fininvest entrata nel giudizio penale quale parte civile e non facendo stato nei suoi
confronti le statuizioni civili rese nei confronti degli altri imputati (peraltro in termini di condanna generica), le pronunce
intervenute in quella sede non potevano essere direttamente
usate a fini risarcitori.
4
Senza poter dedicare spazio in questa sede ai delicati profili
relativi al quantum debeatur, si può ricordare in una battuta che
durante la trattativa “pre-sentenza Metta” CIR aveva chiesto
528 miliardi e Fininvest ne aveva (ad un certo punto) offerti 400,
mentre la transazione aveva obbligato la prima (sostanzialmente
a parità di cessioni azionarie) ad un versamento di 365 miliardi.
In proposito, si vedano però le riflessioni svolte da Nicita, La
costruzione dello scenario controfattuale per la valutazione economica del danno nel caso CIR/Fininvest, in Danno e Resp.,
2011, 1098, il quale si sofferma particolarmente sul problema
della relazione causale tra l’annullamento del lodo Pratis e l’indebolimento della posizione negoziale di CIR alla luce delle
difficoltà concernenti la “misurazione” del diverso potere con-
trattuale e del modo in cui esso sarebbe stato esercitato «in uno
scenario controfattuale non viziato dal fatto illecito», nonché
considerando che la proposta transattiva formulata da Fininvest
nel 1990 pare indistintamente assunta come base per valutare sia
la diminuzione di detto potere che il pregiudizio a ciò conseguente.
5
Pagina 185 dell’originale (alla cui numerazione si farà riferimento d’ora in avanti).
6
Sul punto, si vedano Di Ciommo, Transazione non impugnata e risarcimento dei danni per illecito incidente sulla formazione della volontà negoziale: brevi note sulla sentenza d’appello
CIR/Fininvest, nonché Vasquez, La certezza del diritto e fatti
nuovi nel contenzioso e nella transazione CIR-Fininvest, entrambe in Danno e Resp., 2011, 1083 e 1077, che si soffermano sia sul
problema della validità della transazione (con conclusioni divergenti), sia sul rilievo del “fatto nuovo” (rispetto al perimetro
dell’accordo) costituito dalla successiva conoscenza della corruzione del giudice Metta e della sua condanna in sede penale.
7
Su tale aspetto Simone, Appunti in margine alle ricadute del
Lodo Mondadori: atto II, in Danno e Resp., 2011, 1090, ove
anche l’ipotesi che il più corretto rimedio azionabile fosse quello
dell’ingiustificato arricchimento.
Giurisprudenza Italiana - Marzo 2012
Diritto Civile | LODO MONDADORI
611
chances, sul quale si ritornerà con specifico riferimento
alle due sentenze in commento dopo averne tentato
una prima collocazione all’interno dei tumultuosi
orientamenti in materia.
re Previti, solleva non pochi interrogativi, a partire da
quelli concernenti l’intreccio delle presunzioni e la
connessa “gestione” della prova in sede civile 8.
Di contro, alla sentenza della Corte d’appello di Roma si possono certamente attribuire rilevanti forzature,
nella logica della res ipsa loquitur: dalle più leggere
concernenti la declaratoria di nullità del patto di sindacato — a quel tempo effettivamente opinabile — per
via della violazione di norme di ordine pubblico, alle
più pesanti in ordine alla “inintelligibilità” della motivazione del lodo Pratis in punto di scindibilità del patto stesso dalla restante parte dell’accordo del 1988, sı̀
da poterne ribaltare totalmente il disposto nonostante
le strette maglie concesse all’impugnazione dei lodi
rituali di equità; e tuttavia pare vi sia ancora margine
per riflettere su detta scindibilità 9, nonché — soprattutto — sul fatto che la Corte d’appello doveva ritenersi certamente attrezzata a vagliare quel tipo di ricorsi e che una pronuncia in rito (rectius sull’insindacabilità del lodo e sull’inammissibilità della stessa impugnazione) sarebbe stata verosimilmente più “facile”,
sicché residuano non pochi dubbi (come meglio si vedrà nel terzo paragrafo) sull’incidenza causale della
condotta di Metta.
Inoltre, all’accoglimento della pretesa risarcitoria di
CIR si frappone la rinuncia al ricorso in cassazione
— ancorché avvenuta in forza dell’accordo transattivo —, la quale obbliga per certi versi l’azione di responsabilità a passare fra Scilla e Cariddi: per rintuzzare l’osservazione a tenore della quale CIR si è volontariamente privata della possibilità di rimuovere la pronuncia incriminata, occorre far leva sulla non più tollerabile instabilità nel governo del gruppo e/o sulle
pressioni del mondo politico; ma se altre sono state le
ragioni che hanno obbligato l’attrice a mettere una
pietra sopra alla vicenda, la transazione finisce per acquisire un diverso significato e il legame sussistente fra
gli anelli della lunga catena eziologica rischia di indebolirsi ulteriormente, a prescindere che la si guardi in
chiave di perdita di chances o alla luce dei principi in
materia di interruzione del nesso causale 10.
Peraltro, a fronte dell’impossibilità di approfondire
qui tutti i profili appena indicati e quelli ulteriori nemmeno evocati, appare di particolare interesse il rapporto fra l’elemento oggettivo dell’illecito e la perdita di
2. Le tappe di un cammino giurisprudenziale (in piena
evoluzione).
Come pure messo in luce in alcuni commenti, colpisce che a fronte di un identico accertamento in fatto la
stessa controversia sia vagliata in primo grado alla luce
della perdita di chances e in secondo grado alla stregua
di quella che, secondo la sistematica più oltre richiamata, viene definita come “causalità civile ordinaria” 11. Infatti, ciò induce a chiedersi — già prima
facie — se si tratti di differenze ontologiche o di mere
tecniche di gestione del (medesimo) nesso eziologico,
perché è unico il filo che lega i passaggi presi in considerazione, ma diverso il modo di “etichettarlo” in
applicazione dell’art. 2043 c.c.
D’altronde, si è già accennato in altra sede che una
prospettiva attraverso cui guardare alla (storia più recente della) perdita di chances è proprio quella di considerare come l’elaborazione in materia di nesso sia
arrivata fino al caso Franzese e quali direzioni abbia poi
preso, volendolo assumere tale pronuncia come spartiacque — almeno ideale — di un’evoluzione tutt’altro
che coerente 12.
In proposito — nel rinviare a quanto già esposto per
i passaggi meno recenti e volendo solo gettare le basi
per la trattazione di quelli successivi 13 —, un buon
punto di partenza è costituito dalla considerazione per
cui già la nota teoria della condicio rappresenta un’elaborazione di “seconda generazione” rispetto ai primi
studi della dottrina (soprattutto tedesca), che ben presto si rende tuttavia conto dei rischi di eccessivo allargamento delle maglie della responsabilità ad essa connaturati 14. E se sul versante penalistico questi dovrebbero essere in qualche modo ridimensionati dalla presenza dell’elemento soggettivo (per quanto il problema
resti per i delitti aggravati dall’evento), lo stesso non
vale in sede civile tutte le volte in cui ci si trova di fronte
ad una fattispecie di responsabilità oggettiva. Del resto, anche a prescindere dai casi di strict liability, si
rinvengono pure in sede civile decisioni che ricalcano
da presso l’esempio (da manuale) del danneggiato che
8
Rispetto all’uso delle presunzioni da parte del Tribunale di
Milano, particolarmente taglienti le critiche di Gazzoni, Ci
vorrebbe un giudice di un altro pianeta, cit.
9
Sul problema di cui nel testo, Lener, Note minime intorno
alla clausola di inscindibilità, in Danno e Resp., 2011, 1104, il
quale lo affronta anche in relazione al delicato rapporto fra la
clausola di inscindibilità presente dell’accordo transattivo e la
disciplina di cui all’art. 1419 c.c.
10
Le “grandi linee” della catena vengono cosı̀ ricostruite da
Palmieri, Corruzione del giudice, sentenza sfavorevole e indebolimento della posizione negoziale: dalla perdita di chance alla
logica del “più probabile che non”, in Danno e Resp., 2011: (1)
corruzione del giudice relatore (2) emanazione di una sentenza
erronea contraria agli interessi di CIR (3) indebolimento della
posizione negoziale di CIR (4) accordo transattivo stipulato a
condizioni poco vantaggiose per CIR = lesione di un interesse
giuridicamente rilevante (5) diminuzione patrimoniale subita da
CIR.
11
Sul punto sia consentito rinviare a Tassone, Perdita di
chances e nesso causale nel caso Cir-Fininvest, in Danno e Resp.,
2011, 1067. In argomento, sebbene in modo più sfumato, anche
Palmieri, Corruzione del giudice, cit.
12
Il riferimento è ovviamente a Cass. pen., Sez. un., 10 luglio
2002, n. 30328, Franzese, fra le tante in Foro It., 2002, II, 601,
con nota di O. Di Giovine, La causalità omissiva in campo
medico-chirurgico al vaglio delle Sezioni unite.
13
Sia consentito, al riguardo, il rinvio a Tassone-Nicotra,
Autonomia e diversità di modelli nell’accertamento del nesso causale in sede civile e penale (in nota a Trib. Palmi, 11 febbraio
2006), in Danno e Resp., 2007, 325 segg., il cui percorso è stato
ripreso e proseguito in Id., Diagnosi erronea, nesso di causa e
regimi processuali (in nota a Trib. Rovereto, 2 agosto 2008, Id.
Modena, 25 agosto 2008, Id. Roma, 27 novembre 2008 e Cass.,
18 settembre 2008, n. 23846), ivi, 2009, 538 segg., nonché aggiornato con Id., Riflessioni minime in punto di ripartizione di
responsabilità, perdita di chances e protezione della vittima (in
nota a Trib. Terni, 2 luglio 2010), Id., 2011, 435 segg.
14
Sempre efficace la panoramica offerta da Antolisei,
Manuale di diritto penale — Parte generale, Milano, 1994, 216
segg.
Giurisprudenza Italiana - Marzo 2012
612
viene trasportato in ospedale per esser lı̀ vittima di
ulteriori danni 15, come alcune di quelle rese in materia di contagio per emotrasfusione o relative al caso
del malato affetto da depressione (a causa del sinistro)
che decide di togliersi la vita a distanza di un anno e
mezzo 16.
Uno schema dominante suggerisce di utilizzare ancora la condicio come teorica di base, seppur con il
corredo di vari temperamenti 17: lo stesso, con non secondarie precisazioni di carattere processuale, è infatti
espressamente enunciato nell’ambito delle dieci sentenze della suprema Corte a Sezioni unite dell’11 gennaio 2008, in specie nel segmento argomentativo della
decisione n. 576 poi ripreso dalle pronunzie nn. 581,
582 e 584 18, oltre che in una recentissima decisione
della III Sezione del 9 giugno 2011, n. 12686 19.
Tuttavia, la giurisprudenza degli ultimi decenni dimostra che la linea di continuità fra le più moderne
elaborazioni e l’originaria impostazione è, almeno in
parte, apparente: in tutti i casi in cui l’illecito dev’essere
ascritto al responsabile su base fondamentalmente
probabilistica — specialmente, ma non solo, nel settore della colpa omissiva — il procedimento di sottrazione mentale proprio della condicio mostra tutti i propri limiti e le maglie che apparivano prima troppo larghe possono diventare per la vittima una barriera invalicabile.
15
Nel senso che la teoria della condicio «conduce a conseguenze assurde anche dove il diritto richiede per la responsabilità il concorso del dolo o della colpa», come nel caso «della
persona che, dopo essere stata ferita, sia pure con intenzione
omicida, rimanga vittima di un incidente fortuito verificatosi nel
nosocomio in cui è stata ricoverata», Antolisei, Manuale, cit.,
218.
16
Per il primo caso, si veda Trib. Perugia, 8 giugno 1991, in
Resp. Civ. e Prev., 1993, 636, mentre per il secondo, Cass., Sez.
lav., 23 febbraio 2000, n. 2037, in Danno e Resp., 2000, 1203. Per
un ampio e articolato commento alla giurisprudenza in materia,
Pucella, La causalità «incerta», Torino, 2007, passim.
17
Fra i temperamenti di cui nel testo, quelli della causalità
adeguata, dell’id quod plerumque accidit — per chi non lo riconduce alla prima —, della causalità umana o dell’efficienza
causale. Per ampie rassegne sulle numerose teorie in materia,
Capecchi, Il nesso di causalità — Da elemento della fattispecie
“fatto illecito” a criterio di limitazione del risarcimento del danno,
Padova, 2005, 128 segg. e, più di recente, Nocco, Il «sincretismo causale» e la politica del diritto: spunti dalla responsabilità
sanitaria, Torino, 2010, 33 segg.
18
Le decisioni nn. 577, 578, 581, 582 e 584 — che si leggono,
fra le altre, in Foro It., 2008, I, 453, con nota di Palmieri —
contengono al riguardo un pattern motivazionale identico a
quello spiegato dalla n. 576 (come pure risulta dalla “mappa”
offerta nella nota appena citata, alla quale si rinvia).
19
Secondo la decisione di cui nel testo, infatti, «il nesso causale è regolato dai principi di cui agli artt. 40 e 41 c.p., per il
quale un evento è causato da un altro se il primo non si sarebbe
verificato in assenza del secondo, nonché della cosiddetta causalità adeguata, sulla base della quale, all’interno della serie
causale, occorre dar rilievo a quegli eventi che non appaiano
— ad una valutazione “ex ante” — del tutto inverosimili, ferma
restando, peraltro, la diversità del regime probatorio applicabile, in ragione dei diversi valori sottesi ai due processi: nel senso
che, nell’accertamento del nesso causale in materia civile, vige la
regola del “più probabile che non”, mentre nel processo penale
vige la regola della prova “oltre ogni ragionevole dubbio”».
20
Tassone-Nicotra, Autonomia e diversità di modelli nell’accertamento del nesso causale, cit.
21
È noto che in forza della pronuncia di cui nel testo la
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In questo scenario si inseriscono le decisioni che hanno portato al citato caso Franzese e, soprattutto, quelle
successive dei giudici civili, foriere di un’elaborazione
cui la pronuncia delle Sezioni unite penali ha impresso
un’accelerazione assai significativa. Premesso che anche su tali aspetti ci si è in altra sede soffermati 20 e che
non vi è qui lo spazio per discutere delle molteplici
“interpretazioni” della decisione 21, è certo che essa
— ancorché relativa ad un caso di colpa medica —
interessi immediatamente la ricostruzione del nesso sul
piano generale 22, perché la responsabilità penale dell’imputato viene ristretta proprio attraverso una limitazione del criterio di imputazione in parola, in contrasto con un orientamento sorto negli anni ’80 e giunto all’apice nei primi anni ’90 23.
In proposito, la sentenza non condivide l’approccio
basato sulle sole stime cliniche (che fa leva sulla probabilità che a un dato tipo di omissione corrisponda un
dato tipo di evento) e tenta di ridurre il ruolo attribuito
ai coefficienti dedotti dalle leggi statistiche, affermando che il giudizio sul nesso causale va compiuto avendo
riguardo alle prove disponibili nel caso concreto 24. E
sia lo stimolo a prestare una maggiore attenzione alle
specifiche circostanze che lo caratterizzano, sia l’opera
di razionalizzazione che si tenta di svolgere in una materia tanto complessa (per decenni trascurata sul versante civilistico, ove con Cass., 18 aprile 2005, n. 7997
sussistenza del nesso causale non può essere affermata solo considerando il «coefficiente di probabilità espresso dalla legge
statistica» e che questa, invece, va verificata alla luce delle «circostanze del fatto e dell’evidenza disponibile», in modo che
«all’esito del ragionamento probatorio che abbia altresı̀ escluso
l’interferenza di fattori alternativi, risulti giustificata e processualmente certa la conclusione che la condotta omissiva del
medico è stata condizione necessaria dell’evento lesivo con “alto
o elevato grado di credibilità razionale” o “probabilità logica”».
Ancorché la decisione sia annotata da un grande numero di
commentatori, appare doverosa — in aggiunta alla già richiamata nota di Di Giovine — la menzione degli studi del compianto Prof. Federico Stella, fra i quali si segnala Giustizia e
modernità — La protezione dell’innocente e la difesa delle vittime, Milano, 2004, le cui conclusioni vengono in parte sintetizzate in Id., A proposito di talune sentenze civili in tema di causalità, in Riv. Trim. Dir. Proc. Civ., 2005, 1159 segg.
22
Per uno studio che mette in relazione gli insegnamenti del
caso Franzese con la casistica penale in materia di malattie da
amianto, cloruro di vinile ed altre sostanze nocive, Blaiotta,
La ricostruzione del nesso causale nelle esposizioni professionali,
in Cass. Pen., 2006, 797 segg., mentre per l’affermazione secondo cui le regole dettate dalle Sezioni unite dovrebbero trovare
applicazione agli illeciti commissivi, Masera, Il modello causale
delle Sezioni unite e la causalità omissiva, in Dir. Pen. Proc., 2006,
493 segg.
23
Per i necessari riferimenti, si veda di nuovo Tassone-Nicotra, Autonomia e diversità di modelli, cit.
24
Con la statuizione di cui nel testo vengono in linea teorica
respinti sia l’orientamento basato sulla individuazione delle “serie ed apprezzabili possibilità di successo”, sia quello — più
recente — che richiedeva un grado di probabilità prossimo alla
certezza, con la precisazione che secondo alcuni commentatori
gli orientamenti erano in realtà tre, posto che quello enunciato
dalle Sezioni unite penali si rinveniva anche in alcune decisioni
precedenti. Per una ricognizione delle diverse interpretazioni
che la dottrina penalistica ha dato alla decisione di cui si tratta,
Di Landro, L’accertamento del nesso causale nella responsabilità penale del medico: dopo la sentenza delle Sezioni unite, un
confronto fra la dottrina penalistica e quella medico-legale, in
Indice pen., 2005, 101 segg.
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613
si è ad esempio invocata una “logica aristotelica” a dir
poco sibillina 25), sono da salutare con favore; cosı̀ come è sicuramente apprezzabile il tentativo di reificare
(sebbene in termini non cosı̀ espliciti) la distinzione fra
causalità generale e causalità individuale 26; la quale
porta necessariamente ad evocare le suggestioni di
chiara matrice nordamericana secondo cui la statuizione risarcitoria può essere pronunciata in base ad un
giudizio di “preponderanza dell’evidenza” e senza bisogno che la responsabilità risulti “oltre ogni ragionevole dubbio” 27, consentendo altresı̀ che i più stringenti
criteri adottati in sede penale abbiano come contrappeso un minor rigore sul piano civile.
Venendo allora alla perdita di chance, interessa particolarmente che il distacco dall’insegnamento Franzese non sia inizialmente avvenuto mercé una contrapposizione frontale 28, forse anche sulla scia di una tradizionale tendenza dei giudici civili a seguire gli
orientamenti enunciati in sede penale 29: con la decisione del 4 marzo 2004, n. 4400, infatti la via seguita
passa proprio attraverso il richiamo alla figura testé
menzionata 30 e, del resto, in linea con l’orientamento
poi respinto dalle Sezioni unite penali la Cassazione
aveva da tempo riconosciuto in sede civile la possibilità di accertare il nesso in chiave probabilistica 31,
mentre non sarebbero mancate a breve pronunce tese
a smentire l’applicabilità dell’insegnamento Franzese
all’illecito aquiliano 32, con statuizioni sempre più incisive 33.
Fra tali decisioni è da segnalare la già citata Cass.,
7997/2005, la quale — dopo la presa di coscienza che il
nesso solleva un «problema ermeneutico pressoché insolubile sul piano della dogmatica giuridica pura [...] destinato inevitabilmente a risolversi entro i (più pragmatici) confini di una dimensione “storica”, o, se si vuole,
di politica del diritto» — propone un duplice livello di
analisi, statuendo che «la valutazione del nesso di causalità giuridica [...] si compie secondo criteri; a) di probabilità scientifica, se esaustivi, b) di logica aristotelica,
se appare non praticabile o insufficiente il ricorso a leggi
scientifiche di copertura». E l’analisi costituisce la base
per la più nota decisione del 16 ottobre 2007, n. 21619
— cui fa espresso riferimento anche la sentenza in commento —, la quale pone (fra gli altri) il non secondario
problema di capire come una causalità civile ordinaria,
accertata su base probabilistica, possa convivere con una
causalità da perdita di chances pure essa accertata su base
probabilistica; anzi, secondo la decisione della Corte
d’appello di Milano (ma, come si vedrà, questa non è
affatto l’unica interpretazione possibile del “decalogo”
offerto dalla suprema Corte), da valutare secondo il medesimo canone del “più probabile che non”; e da mettere poi in relazione ad una situazione protetta (dai più
espressamente ricondotta nell’alveo del danno emergente) che pure trova definizione con l’ausilio delle percentuali (di addivenire un risultato più favorevole o
meno dannoso secondo il canone della “mera possibilità”, stando sempre a Cass., n. 21619/2007) 34.
25
In Corr. Giur., 2006, 257 segg., con nota di Rolfi, Il nesso
di causalità nell’illecito civile: la Cassazione alla ricerca di un
modello unitario, il quale spiega il riferimento di cui nel testo alla
luce del rilievo che altra parte della motivazione attribuisce alle
massime d’esperienza. Ben più nette le critiche di Stella, A
proposito di talune sentenze civili, cit.
26
La differenza fra causalità generale e individuale stimola a
non basare l’accertamento solo sulle astratte probabilità di verificazione del danno, cioè su ciò che accade in un dato numero
di casi, sı̀ da constatare, nei limiti del possibile, ciò che è effettivamente successo nel caso concreto. Al riguardo, si vedano
Stella, La vitalità del modello della sussunzione sotto leggi: a
confronto il pensiero di Wright e Mackie, in Id., I saperi del
giudice — La causalità ed il ragionevole dubbio, Milano, 2004, 1
segg., nonché Wright, Causation, Responsibility, Risk, Probability, Naked Statistics, and Proof: Pruning the Bramble Bush by
Clarifying the Concepts, 73 Iowa L. Rev. 1001 (1988), e ancora
Boston, Toxic Apportionment: A Causation and Risk Contribution Model, 25 Envtl. L. 549 (1995).
27
Per l’affermazione di cui nel testo, Taruffo, La prova dei
fatti giuridici, 1992, Milano, 158 segg. Sul punto altresı̀ Frosini,
Le prove statistiche nel processo civile e nel processo penale, Milano, 2002, 39 segg.
28
Del resto, la dottrina aveva avuto già modo di affermare
che anche sotto lo specifico profilo del nesso di causalità l’illecito civile e penale dovevano viaggiare su binari separati, alla
luce dei diversi fini che gli stessi perseguono e della diversa
logica che li ispira, come emerge fra i tanti da V. Zeno-Zencovich, Questioni in tema di responsabilità per colpa professionale
sanitaria, in Nuova Giur. Civ. Comm., 1992, I, 362 segg.
29
Solo a titolo di esempio, si vedano Cass., 6 luglio 2006,
n. 15383, in Foro It., 2006, I, 3358, Cass., Sez. un., 1o luglio 2002,
n. 9556, ivi, 2002, I, 3060, nonché la storica sentenza resa dalla
suprema Corte nel caso Meroni, cioè Cass., 26 gennaio 1971,
n. 174, in Giur. It., I, 1, 680.
30
La pronuncia — che si legge fra le altre in Foro It., 2004,
1403 — afferma che, «in presenza di fattori di rischio legati alla
gravità della patologia o alle precarie condizioni di salute del
paziente», la diagnosi errata o inadeguata del soggetto esercente
la professione sanitaria «aggrava la possibilità che l’evento negativo si produca» e determina «in capo al paziente la perdita
delle chance di conseguire un risultato utile», sicché è dato allo
stesso di avanzare una domanda «diversa rispetto a quella di
risarcimento del danno da mancato raggiungimento del risultato sperato». Sebbene la sentenza esprima ampia approvazione
per il dictum proveniente dalle Sezioni unite penali, nella trama
motivazionale e nell’enunciazione della regola da applicare in
sede di rinvio rimangono affermazioni con esso incompatibili.
Fra esse, quelle inerenti l’espressa conferma dell’orientamento
avversato dalle Sezioni unite penali, la menzione della sentenza
Franzese quale semplice «specificazione» di questo e, infine, un
doppio riferimento alle probabilità di salvezza con cui la suprema Corte «sembra invitare [...] a valutare se “probabilmente” il
paziente avrebbe avuto la “probabilità” di salvarsi», che appare
ben lontano da un giudizio di “alta credibilità razionale”, come
ad esempio ricorda Rossetti, Allargati ancora i confini della
responsabilità del medico. Ma è contrasto tra le Sezioni civili e
penali della suprema Corte, in Dir. Giust., 2004, XIV, 35 segg.
31
Si vedano, anche al di fuori dell’area della colpa medica,
Cass., 13 maggio 1982, n. 3013, in Rep. Foro It., 1982, voce
“Professioni intellettuali”, n. 45; Id., 10 luglio 1987, n. 8290, in
Riv. It. Med. Legale, 1989, 662; Id., 16 novembre 1993, n. 11287,
Rep. Foro It., 1993, voce “Responsabilità civile”, n. 56; Id., 6
febbraio 1998, n. 1286, in Foro It., 1998, I, 1917; Id., 21 gennaio
2000, n. 632, in Giur. It., 2000, I, 1, 1817; Id., 4 giugno 2001,
n. 7507, in Dir. Econ. Ass., 2001, 1166.
32
Si consultino anche Cass., 31 maggio 2005, n. 11609, in
Danno e Resp., 2006, 269 segg., Id., 23 settembre 2004, n. 19133
in Giust. Civ., 2005, I, 1239, Id., 21 giugno 2004, n. 11488, in
Danno e Resp., 2005, 23 segg., nonché Id., Sez. lav., 5 settembre
2006, n. 19047, in Guida Dir., 2006, XXXVII, 71.
33
Fra le prime decisioni che segnano la maggior distanza
dall’orientamento di cui si discute, Cass., 19 maggio 2006,
n. 11755, in Danno e Resp., 2006, 1238 segg., con nota di Nocco, Causalità: dalla probabilità logica (nuovamente) alla probabilità statistica, la Cassazione civile fa retromarcia.
34
La decisione — fra le altre pubblicata in Corr. Giur., 2008,
35, con nota di Bona, Il decalogo della Cassazione a due “dimenGiurisprudenza Italiana - Marzo 2012
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Peraltro, il divario fra accertamento civile e penale
viene, almeno sul piano formale, ridimensionato con
le citate pronunce dell’11 gennaio 2008, visto che si
pone la questione in una dimensione per lo più processuale 35. Ma, come dimostrano proprio le due decisioni rese nel caso CIR-Fininvest, oltre che la recentissima Cass., 21 luglio 2011, n. 15991, sulla quale fra un
attimo si tornerà, la necessità di un coordinamento fra
il criterio del “più probabile che non” e la teorica
della perdita di chances non è affatto venuta meno e
continua a schiudere le porte ad una miriade di problemi (o forse anche di opportunità, come si dirà in
chiusura) 36.
D’altronde, si è in altra sede messo in luce che — a
prescindere dal detto problema generale — la regola in
concreto adottata da Cass., n. 21619/2007 sfiorava i
territori dell’illecito senza danno (accertato) e che, dopo tale pronuncia, si è registrato almeno un ulteriore
tassello con la sentenza del 19 maggio 2008, n. 23846:
la quale ha finito per risarcire, sempre sotto l’etichetta
della perdita di chance, voci per un verso da leggere in
termini “certi” e, per l’altro, di pregiudizio del tutto
volatile e di dubbia consistenza 37.
Infine, leggendo Cass., n. 4400/2004 in chiave di apportionment of liability fra condotta omissiva umana e
concausa naturale (lo stato del paziente) 38, acquisiva
ancor maggiore rilevanza la successiva sentenza del 16
gennaio 2009, n. 975 39: questa, nell’enunciare il principio del “frazionamento della responsabilità” e nell’affrontare in apparenza il solo tema del concorso fra
causa umana e naturale 40, in realtà apriva le porte all’accertamento proporzionale della responsabilità anche sul piano della causalità commissiva 41 e consentiva
di non limitare il giudizio contro-fattuale alle ipotesi di
responsabilità omissiva 42.
Tuttavia, la possibilità di esonerare il danneggiante
dalla parte di pregiudizio eziologicamente riconducibile alle concause naturali è stata da pochissimo esclusa
da Cass., n. 15991/2011, proprio riprendendo Cass., n.
21619/2007; salvo poi stabilire — sul piano operazionale — che è dato al giudice del merito di tenere conto
di esse (seppur con limiti che paiono più stringenti di
quanto non consentisse la liquidazione “equitativa”
propiziata da Cass., n. 975/2009) in sede di determinazione del quantum: cioè non sul piano della causalità
materiale, bensı̀ su quello della causalità giuridica, gettando cosı̀ le basi per un ripensamento della teoria del
doppio nesso formatasi sull’art. 1223 c.c. e disegnando
una regola che ha un evidente rilievo anche per il caso
di specie 43.
Peraltro, fermo restando il problema di coniugare la
“causalità civile ordinaria” con quella “da perdita di
sioni di analisi” — afferma in sostanza che ai fini dell’accertamento del nesso causale possono essere individuati tre livelli: il
primo è quello delineato dalla sentenza Franzese, che — mette
conto aggiungere — se vale in sede penale sarà a fortiori utilizzabile in sede civile, ove ve ne siano i presupposti; il secondo è
quello della «causalità civile “ordinaria”, che costituisce una
dimensione d’analisi del nesso di causa distinta dalla “causalità
da perdita di chance”» e che «si attesta sul versante della probabilità relativa (o “variabile”) [...] caratterizzata dall’accedere
ad una soglia meno elevata di probabilità rispetto a quella penale», in particolare individuato anche dalla «relazione probabilistica concreta tra comportamento ed evento dannoso secondo il criterio (ispirato alla regola della normalità causale) del
“più probabile che non”»; il terzo, infine, è rappresentato dalla
«causalità da perdita di chance, attestata sul versante della mera
possibilità di conseguire un diverso risultato terapeutico, da
intendersi non come mancato raggiungimento di un risultato
soltanto possibile, bensı̀ come sacrificio della possibilità di conseguirlo, dovendosi intendere l’aspettativa di guarigione da parte del paziente come “bene”, e cioè come diritto attuale, autonomo e diverso rispetto a quello alla salute».
35
Invero, nell’iter motivazionale proposto dalle sentenze nn.
576, 581, 582 e 584 si legge che «i principi generali che regolano
la causalità di fatto sono anche in materia civile quelli delineati
dagli artt. 40 e 41 c.p. della “regolarità causale”, in assenza di
altre norme dell’ordinamento ed integrando essi principi di tipo
logico e conformi a massime di esperienza», con la precisazione
che non può «costituire valida obbiezione la pur esatta considerazione delle profonde differenze morfologiche e funzionali
tra accertamento dell’illecito civile ed accertamento dell’illecito
penale», sı̀ da concludere che «ciò che muta sostanzialmente tra
il processo penale e quello civile è la regola probatoria, in quanto
nel primo vige la regola della prova “oltre il ragionevole dubbio”
[...] mentre nel secondo vige la regola del “più probabile che
non”». Sul punto e per una più approfondita lettura in ordine
alla nozione di nesso causale accolta dalle decisioni di cui si
tratta, Simone, Equivoci della causalità adeguata e contaminazione dei modelli di spiegazione causale, in Danno e Resp., 2008,
1011 segg.
36
Per ulteriori rilievi critici e per la dottrina che ha toccato lo
specifico aspetto problematico in questione, sia consentito il
rinvio a Tassone, Diagnosi erronea, cit.
37
La sentenza — che si legge in Danno e Resp., 2009, 155
segg. — si occupa del danno derivante dalla mancata rilevazione
e cura di un processo morboso terminale, le cui conseguenze si
valutano in termini di perdita di chances. È peraltro evidente che
la ridotta qualità della vita e la maggior sofferenza connesse al
ritardo nella diagnosi e nella somministrazione di farmaci, oltre
che alla minore invasività che un tempestivo intervento chirurgico avrebbe avuto (perché da effettuare su masse tumorali più
ridotte), derivano dalla condotta in modo certo. Viceversa, i
pregiudizi relativi alla diminuita possibilità di “auto-determinarsi” una volta saputo del male e alla riduzione delle aspettative
di vita rischiano di porsi fra l’incerto e l’imponderabile.
38
Per tale lettura sia consentito il rinvio a Tassone, La ripartizione di responsabilità nell’illecito civile — Analisi giuseconomica e comparata, Napoli, 2007, 237.
39
La sentenza si legge fra le altre in Danno e Resp., 2010, 372,
con note di Capecchi, Il revirement della Corte di Cassazione
sulla interpretazione dell’art. 2055 c.c.: si apre una nuova stagione
nel rapporto tra nesso causale e risarcimento del danno?, e di
Tassone, Il frazionamento della responsabilità secondo la cassazione e in prospettiva di comparazione.
40
Ciò riprendendo un orientamento degli anni ’70 poi tacitamente abbandonato, oltre che alcune sentenze di merito rimaste abbastanza ignorate. Al riguardo, sia consentito il rinvio
a Tassone, Concorso di condotta illecita e fattore naturale: frazionamento della responsabilità, in Foro It., 2010, I, 994. Per
ulteriore casistica, si veda la meticolosa rassegna di Pucella, La
causalità «incerta», cit., 164 segg.
41
Il rilievo è di Capecchi, Il revirement della Corte di Cassazione, cit.
42
Premesso che il tale complesso discorso non può essere
sviluppato in questa sede, ci si può limitare a menzionare che
secondo parte della dottrina la sede propria del giudizio controfattuale rimane quella della responsabilità per omissione, come
ad esempio emerge dalla lettura di Simone, Appunti in margine
alle ricadute del Lodo Mondadori, cit.
43
In specie, ipotizzando di poter riportare alla “situazione
del danneggiato” almeno alcune delle concause che avrebbero
potuto incidere negativamente sull’esercizio del potere negoziale di CIR.
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chance”, la decisione si inserisce all’interno dell’orientamento che dà ormai per acquisito il criterio del “più
probabile che non”, se del caso denominato della “preponderanza dell’evidenza”, in linea con la sistematica
proposta dalle decisioni dell’11 gennaio 2008 secondo
cui la formula esprimerebbe in sostanza una diversità
solo processuale della causalità civile e potrebbe compendiare al suo interno diverse ricostruzioni sostanziali 44; ma in poco più di un mese — segnatamente con le
citate decisioni 12686/2011 e 15991/2011, cui aggiungere Cass., 14 giugno 2011, n. 12961 —, la stessa suprema Corte pare aver trattato dell’accertamento del
nesso in termini non sempre e perfettamente coincidenti, almeno sul piano operazionale e terminologico;
per cui l’elaborazione in materia sembra sul piano generale tutt’altro che conclusa e — come dimostra il
“piano particolare” rappresentato dal caso di specie —
essa non è comunque scevra da problemi e contraddizioni di notevole spessore, cui occorre subito rivolgere
l’attenzione.
3. (Segue): Nesso di causa vs. perdita di chances nella
regola decisionale adottata.
Per affermare che la sentenza della Corte d’appello
di Roma sia causalmente derivata dalla condotta del
giudice Metta, le decisioni di primo e secondo grado
devono affrontare la delicata questione dell’influenza
del relatore sul resto del Collegio, il cui presidente e
consigliere a latere pure avevano votato per l’accoglimento dell’impugnazione e, inoltre, cosa sarebbe accaduto in assenza della corruzione.
44
Nel rinviare a Palmieri, Corruzione del giudice, cit., per
ulteriori riferimenti, si può ricordare che dopo le pronunce delle
Sezioni unite dell’11 gennaio 2008 la formula del “più probabile
che non” è stata utilizzata da Cass., 13 giugno 2008, n. 15986, in
Giud. Pace, 2009, 27, da Id., 15 settembre 2008, n. 23676, in
Giur. It., 2009, 1126, da Id., 18 novembre 2008, n. 27337, ibid.,
850; da Id., 11 maggio 2009, n. 10741, in Danno e Resp., 2009,
1167; da Id., 11 maggio 2009, n. 10743, in Nuova Giur. Civ.,
2009, I, 1276; da Id., 11 giugno 2009, n. 13530, in Resp. Civ. e
Prev., 2009, 1779; da Id., 2 febbraio 2010, n. 2354, in Rep. Foro
It., 2010, voce “Professioni intellettuali”, n. 160; da Id., 8 luglio
2010, n. 16123, ibid., voce “Responsabilità civile”, n. 271; da Id.,
10 novembre 2010, n. 22837, ibid, voce “Professioni intellettuali”, n. 174; nonché da Id., 13 dicembre 2010, n. 25116, ibid, voce
“Responsabilità civile”, n. 322.
45
In specie, si vedano le pagine 125-126 della sentenza nella
versione originale (cui si farà d’ora in avanti riferimento).
46
Pagina 155.
47
In proposito, la pronuncia richiama Cass. pen., Sez. un., 30
ottobre 2002, Carnevale, in Foro It., 2003, II, la quale afferma i
principi riportati nel testo della decisione, nonché Cass. pen., 16
maggio 2007, Rovelli, in Cass. Pen., 2009, 170, con osservazioni
di Carella Prada, Sul rapporto tra il reato di riciclaggio e la
corruzione in atti giudiziari, “mediato” da una sentenza del giudice civile, a tenore della quale «la presenza, all’interno di un
organo giurisdizionale collegiale, di un componente privo del
requisito dell’imparzialità, perché partecipe di un accordo corruttivo, inficia, nonostante l’estraneità degli altri componenti
all’accordo corruttivo, la validità dell’intero iter decisionale, per
sua natura dialettico e sinergico, e conseguentemente del provvedimento giudiziario emanato, poiché il giudice corrotto (cosı̀
come il soggetto non-giudice per vizi di nomina), è del tutto
privo di legittimazione (nella specie, la corruzione riguardava il
giudice relatore ed estensore della motivazione)». Al riguardo, si
è più estesamente osservato in Tassone, Nesso causale e perdita
di chance, cit., che qualsiasi decisione formata in modo analogo
615
In proposito, come in parte anticipato, il Tribunale
rinviene una perdita di chances dacché «nessuno può
dire in assoluto quale sarebbe stata la decisione che
un Collegio nella sua totalità incorrotto, avrebbe
emesso» e «una sentenza ingiusta avrebbe potuto essere emessa anche da un Collegio nella sua totalità
incorotto» 45. La Corte d’appello, invece, ritiene che,
accertato il legame fra la corruzione del relatore e la
citata sentenza — secondo la regola del “più probabile che non”, peraltro condividendo sul punto la valutazione del giudice monocratico —, non si possa poi
considerare l’eventualità di una diversa determinazione, perché «una sentenza “normale”, non condizionata dalla presenza di un componente corrotto che
aveva alterato tutto l’iter decisionale, certamente non
sarebbe giunta alle conclusioni alle quali pervenne la
Corte d’appello di Roma» 46; a non volerla addirittura
e ancor prima considerare “«tamquam non esset» [...]
già per la sola presenza nel Collegio del giudice corrotto” (senza che, come in alta sede osservato, appaia
però condivisibile una “traslazione” sul piano dell’accertamento del nesso degli orientamenti formatisi in
materia di revocazione e di corruzione che la decisione menziona 47).
A tal fine, la pronuncia ripercorre in vitro il giudizio
che un ideale trio di magistrati avrebbe svolto — in
ventitre lunghe pagine (sopra non riportate) 48 —, concludendo che «la corruzione di Metta ha privato CIR
non tanto della “chance” di una sentenza favorevole,
ma, senz’altro, della sentenza favorevole, nel senso che,
con “Metta non corrotto”, l’impugnazione del lodo
sarebbe stata respinta» 49, sı̀ da indirizzare al giudice
a quella della Corte d’appello di Roma si candida naturalmente
ad essere vagliata quale atto giuridico invalido e può costituire
un rilevante indizio ai fini dell’accertamento della retrostante
corruzione. Tuttavia, non pare che gli orientamenti sopra richiamati siano immediatamente applicabili quando occorre verificare la sussistenza dell’elemento eziologico, perché ciò vuol dire
“estendere” all’intero Collegio gli effetti della corruzione o un
dolo processualmente rilevante: fino a non lasciare spazio, ad
esempio, per un concorso fra una condotta dolosa del soggetto
corrotto e una condotta colposa degli altri due giudici apprezzabile ex lege n. 117/1988. Sul punto, si vedano anche le considerazioni di Gazzoni, Ci vorrebbe un giudice di un altro pianeta,
cit., 1886 segg., il quale ritiene che la prima decisione sopra
citata avrebbe in realtà dovuto orientare il Tribunale di Milano
in senso inverso, perché la presunzione di collegialità viene superata solo dallo specifico accertamento del “concreto condizionamento”, nel caso deciso dalle Sezioni unite posto in essere
da un giudice che non faceva parte del Collegio.
48
Pagine 160-183. In via di estrema sintesi e con grandi
semplificazioni: un lodo rituale di equità era censurabile ai
sensi del vigente art. 829 c.p.c. solo per violazione di norme
fondamentali e cogenti di ordine pubblico, essendo però assai
discusso se fossero tali quelle in forza delle quali si potevano
ritenere vietati sindacati di voto — peraltro contenuti in puntuali limiti di tempo e oggetto — quali quelli previsti dalla convenzione del 1988 e, comunque, che nel caso di specie se ne
riscontrasse la violazione; inoltre, risultava arduo affermare
l’inscindibilità delle clausole del sindacato dal resto dell’accordo, sicché la loro nullità non si sarebbe potuta estendere ad
esso; senza contare che tale profilo del lodo era censurabile
solo per assoluta inintelligibilità della motivazione, con la
grande difficoltà a ritenere che il Prof. Rescigno, il Prof. Irti e il
giudice Pratis non fossero stati in grado di rendere comprensibile il proprio pensiero.
49
Pagina 185 (corsivo aggiunto).
Giurisprudenza Italiana - Marzo 2012
616
Diritto Civile | LODO MONDADORI
monocratico il rimprovero di non aver sostanzialmente
svolto un accertamento in concreto 50.
In realtà, il Tribunale aveva tentato di verificare cos’era accaduto nel caso sottoposto al suo esame senza
però riuscire a gestire totalmente i problemi di “incertezza causale” connessi agli altri decorsi ipotizzabili 51,
nonché — quale altra faccia della medaglia, secondo
quella che appare la “vera” ratio decidendi — al «probabile condizionamento del Collegio» 52, non essendo
in verità cosı̀ certa la derivazione della sentenza Metta
dalla corruzione del consigliere relatore (come esplicitato in altra sede) 53.
E proprio nel momento in cui la Corte d’appello gli
muove il suddetto addebito, ma al contempo cerca di
stabilire «se il lodo sarebbe stato confermato, alla luce
delle regole e della giurisprudenza all’epoca vigenti e a
disposizione di una “Corte normalmente preparata”»,
sembra che proprio l’accertamento in concreto venga
eluso; come peraltro conferma il fatto che la motivazione si deve rifugiare nella «natura solo formalmente
collegiale della sentenza della Corte d’appello di Roma» 54, facendo leva sulle dichiarazioni rese dagli altri
due giudici in sede penale 55 il cui rilievo nel giudizio de
quo lascia però ampio margine di discussione 56.
Ovviamente, è proprio qui che il modello del “più
probabile che non” svela tutto il proprio fascino, in
ragione della possibilità di dotare la verità processuale
di un forte crisma di “scientificità” e certezza grazie
all’ideale attribuzione di un numero percentuale al peso di ciascun elemento istruttorio 57. Ma in tal modo
emerge pure il suo carattere artificiale, anche perché la
concretezza dell’accertamento rischia evidentemente
di svaporare non poco quando si va a stabilire cosa un
ipotetico Collegio avrebbe deciso 58.
50
Cioè di non aver valutato «un diverso esito di quel giudizio
“collegiale”», mentre «il problema che il Tribunale si sarebbe
dovuto porre era [...] quello [di] ricostruire [...] come avrebbe
deciso [...] proprio quella Corte nel caso in cui Metta non fosse
stato corrotto» (pagine 188-189 — corsivi aggiunti).
51
Dacché la domanda di accertamento proposta dalla CIR in
sede arbitrale era «consequenziale ad una pluralità di opzioni
concretamente possibili, mentre la Corte d’appello di Roma
decise per la nullità della convenzione per intero, che era l’unica
opzione sulla base della quale si potesse rigettare la domanda
attorea».
52
Secondo le parole di cui alle pagine 82 segg. della sentenza
del Tribunale (riportate con i corsivi aggiunti) «è notorio» che il
giudice relatore può esercitare una notevole influenza sul Collegio per via della sua maggiore conoscenza del fascicolo in punto
di fatto e di diritto, nonché della possibilità di orientare la discussione; nel procedimento penale era emerso che il presidente
si era focalizzato sullo studio della «questione giuridica» — cioè
«presumibilmente della validità dei patti di sindacato», su cui il
Metta «presumibilmente orientò la discussione» — e non anche
sui limiti attraverso i quali poteva essere censurato un lodo rituale
di equità «che rappresentava il punto focale della causa» e sul
quale «non sembra» che il giudice corrotto si soffermò (perché
attraverso un inesistente vizio di motivazione si erano fatte passare, sostanzialmente, una delibazione ex novo del merito e la
pronuncia rescissoria); il consigliere a latere, dal canto suo, si era
limitato a «leggere gli atti regolamentari» di rito, confermando
che il relatore era «da tutti giudicato molto preparato in diritto».
53
Al riguardo, rinviando di nuovo a Tassone, Perdita di
chances e nesso causale, cit., non è dato di sapere cosa davvero
sarebbe accaduto in assenza di detta fattispecie di reato; se gli
altri due consiglieri siano stati “schiacciati” dalla personalità di
Metta; se non abbiano letto le carte per mancanza di tempo (ad
esempio a fronte della “pressione”, magari non imputabile al
solo relatore, transitata attraverso il timore di pregiudicare nelle
more l’attività di un importantissimo gruppo imprenditoriale);
se si siano fidati troppo; se il peso della responsabilità li abbia
portati a lasciar fare; o se invece erano pienamente convinti della
decisione che andavano ad adottare e poi della motivazione che
l’avrebbe accompagnata, fino alla sua ultima parola.
54
Pagina 189.
55
Alle pagine 154 segg. della decisione di seconde cure viene
riportata la dichiarazione del presidente Valente per cui «io mi
pigliai... il compito di andare a verificare gli articoli di dottrina
che erano stati pubblicati [...] sulla validità dei patti di sindacato
azionario»; emerge poi che «Vittorio Metta espose la sua tesi
circa l’invalidità del lodo [e] tutto considerato, il Collegio si
convinse e pronunciò sul lodo come pronunciò»; concludendo
che «le sfuggenti dichiarazioni del consigliere Paolini e lo studio
solo teorico e monotematico da parte del presidente Valente
evidenziano la dinamica decisionale di un Collegio che ha visto
la presenza decisiva del giudice relatore corrotto». Di conse-
guenza, non viene accolta la «prova di resistenza» proposta da
Fininvest e basata sul fatto che il teste Paolini aveva riferito che
erano state esaminate «tutte le questioni giuridiche che l’appello
poneva» e sul fatto che il teste Valente non solo lo aveva ribadito,
ma aveva aggiunto che egli aveva voluto, come presidente del
Collegio, che «fossero fissati tutti i punti particolari che il Collegio riteneva dovessero essere trasfusi nella motivazione della
sentenza», dichiarando che aveva letto «attentamente la sentenza verificando che la motivazione corrispondesse agli appunti
scritti in camera di consiglio».
56
In specie, con riguardo alle deposizioni di cui alla nota che
precede, viene da chiedersi fino a che punto si possano considerare attendibili — ai fini che interessano la complessa valutazione del nesso di causa nella diversa sede civile — le dichiarazioni degli altri due consiglieri, evidentemente preoccupati di
sminuire il loro ruolo e le conseguenti responsabilità; e quale
valore il giudice civile debba attribuire alle stesse nel quadro
istruttorio che gli si para davanti: volendo sofisticare, prima la
probabilità (per cosı̀ dire da 0 a 100) che le medesime riflettano
realmente e completamente la discussione sviluppatasi in camera di consiglio e poi (sempre per cosi dire da 0 a 100) il “peso”
dell’elemento istruttorio cosı̀ acquisito sul primo degli “anelli”
volti a dimostrare l’esistenza del nesso.
57
D’altronde e a prescindere dalle considerazioni di cui alla
nota che precede, se si soppesa in astratto l’incidenza della
“concausa Metta” sul primo anello della catena, si può pervenire alla conclusione che la sua corruzione — in quanto relativa
un consigliere su tre — ha privato CIR solo del 33% delle
possibilità di addivenire ad una diversa sentenza; o al più al
50%, tenendo a mente che il Collegio decide a maggioranza e,
quindi, che bastava incassare il voto favorevole di un altro suo
membro (peraltro su tutte le “sotto-decisioni” relative agli argomenti che hanno consentito tanto il giudizio rescindente
quanto quello rescissorio); e se a ciò si aggiunge la considerazione di tutti gli altri elementi istruttori (che valorizzano le imponderabili alchimie di una discussione legata all’interazione fra
più volontà), non è arduo approdare alla preponderance of the
evidence. È allora chiaro che, ancorché declinabile in più modi,
la forza della regola sta nel carattere centrifugo che si attribuisce
alla “verità processuale”, la quale scende dagli empirei cieli della
filosofia del diritto — è ovvio che sul piano generale non è dato
al giudice (e se per questo nemmeno all’uomo) di conoscere fino
in fondo tutte le cause degli eventi — su quello della singola
domanda risarcitoria, al punto che persino il garantista principio “in dubio pro reo” può convivere in sede penale, oltre che
civile, con una verifica svolta in via presuntiva (in proposito, è la
stessa Corte milanese a richiamare Cass., 11 novembre 2008,
n. 26972, fra le altre in Danno e Resp., 2009, 19; cui si aggiunga
Cass., 1o agosto 2007, n. 16993, in Rep. Foro It., 2007, voce
“Presunzione”, n. 4.
58
Rispetto all’adozione del criterio del “decisore ideale” si
potrebbe in astratto ipotizzare che l’operazione sia volta solo ad
Giurisprudenza Italiana - Marzo 2012
Diritto Civile | LODO MONDADORI
617
In sostanza, sembra che trovandosi di fronte al medesimo problema di “incertezza”, le due decisioni abbiano adottato un diverso modello decisionale rispetto
al primo segmento della serie causale: mentre la Corte
d’appello si arresta all’applicazione del citato criterio,
il Tribunale pare “correggere” la derivazione causale
della sentenza dalla corruzione tramite la perdita di
chances (pur dopo averla anch’esso accertata secondo il
canone del “più probabile che non”) proprio per tenere conto degli altri fattori che, comunque, lasciavano
adito a non secondari dubbi 59.
Ebbene, a quanto consta è la prima volta che tale
categoria per cosı̀ dire “reagisce” sul nesso di causalità
ordinario e ne tempera gli effetti attraverso un’ulteriore scomposizione del fatto, sı̀ da apprezzare concause
che sono tutt’altro che ignote (anche se munite di incidenza accertabile solo in via ipotetica) e — sul piano
della politica del diritto — forse da non addebitare
integralmente (nelle loro conseguenze) al convenuto.
D’altronde, è chiaro che, se la complessa serie di
circostanze che porta dalla condotta al danno viene
vivisezionata in più passaggi dotati di plausibile autonomia e ciascuno di essi viene poi deciso all’insegna
del “più probabile che non”, alla fine può accadere
che la fedeltà al modello di riferimento, almeno nella
sua configurazione matematica, risulti tradita: se la
condotta X e i susseguenti eventi A, B e C sono legati
al danno D ciascuno da una probabilità di verificazione maggiore dell’ipotesi avversa (quindi X è al
51% all’origine di A, che è al 51% all’origine di B e
cosı̀ via), in che misura quel pregiudizio è davvero ricollegato al comportamento del convenuto secondo la
formula del 51%?
L’obiezione, ovviamente, è rintuzzata dall’osservazione per cui è la stessa scomposizione della catena
nei singoli anelli ad essere artificiale, evocandosi cosı̀
la gorliana idea per cui, in fondo, quella del nesso è
sovente una questione solo “mentale” 60. E il dubbio
che a livello operazionale il Tribunale di Milano abbia
in realtà impiegato il doppio passaggio nesso di causaperdita di chance per valutare, in controluce, l’incidenza della sola condotta di Metta (nella misura dell’80%) sull’iter che dalla corruzione portava alla riforma del lodo (senza operare poi ulteriori “sconti”
nei passaggi successivi), apre la strada a considerazioni di carattere più generale, anche se necessariamente provvisorie.
4. Considerazioni conclusive (e provvisorie).
Di fronte ad un unico accertamento in fatto e ad
un’identica individuazione degli anelli della catena si
stagliano tre modelli (“più probabile che non” duro e
puro, accertamento del nesso temperato dalla perdita
di chance, considerazione della concausa a fronte di
altri fattori di non secondaria incidenza eziologica) con
almeno due soluzioni concrete (risarcimento integrale
o proporzionale).
In tale scenario, si colloca l’obiezione della Corte
d’appello secondo cui il Tribunale «sovrapponeva impropriamente, come evidenziato anche da Fininvest, il
piano del nesso eziologico con quello del tipo di danno
risarcibile» 61. Ma la sovrapposizione, a ben vedere, è in
re ipsa, perché almeno in questo caso la perdita di
chances è una finzione. Comoda, necessaria, lodevole
— perché animata dall’intento di sfuggire all’approccio all-or-nothing e di dare un senso alle varie incognite
che segnano la ricostruzione del nesso —, ma pur sempre una finzione: è davvero distinguibile un danno “finale” derivante dalla mancata conferma del lodo Pratis
e un distinto danno — reificato in autonoma situazione
giuridica protetta — per via della possibilità che quel
lodo fosse confermato?
Forse, se non si tratta del tutto o in tutti i casi di una
finzione, si è perlomeno di fronte a una tecnica di gestione dei problemi propri dell’elemento eziologico.
Ma allora occorre chiamare le cose con il proprio
nome e accorgersi che, probabilmente, la sovrapposizione sta “a monte”, cioè nella citata decisione n.
21619/2007, ove si ipotizza che il nesso sia da accertare anche rispetto alla figura di cui si tratta (pur se
non necessariamente nei medesimi termini della “causalità civile ordinaria”, bensı̀ “sul versante della mera
possibilità”).
È allora evidente — al netto delle considerazioni
svolte e di quelle che si dovranno svolgere in altra
occasione — che, quando la verifica del pregiudizio
addebitabile al convenuto si sposta tutta sul versante
del danno risarcibile, il nesso esiste sempre (o quasi) al
100%: se è la stessa possibilità che il lodo Pratis sia
confermato a divenire oggetto di tutela, una volta affermata la derivazione causale della sentenza (che quel
lodo ha riformato) dalla corruzione, è chiaro che la
chance è stata eliminata con un grado di probabilità
prossimo alla certezza (il che parrebbe valere, anche
qui con riserva di ritornare sul punto, per molte delle
individuare il parametro di un giudizio “storico”. Tuttavia, è
vero che non è precluso al giudice di ricostruire il diverso corso
degli eventi anche in relazione ad una pronuncia che si sarebbe
potuta rimuovere — come nella responsabilità dell’avvocato che
lascia scadere i termini di impugnazione —, ma nel caso che qui
ci occupa non si parla di un successivo e ipotetico giudizio mai
svolto, bensı̀ di cosa è accaduto in quello che ha effettivamente
avuto luogo. In altre parole, è rispetto alla specifica camera di
consiglio o, comunque, al singolo procedimento decisionale,
che bisogna valutare le conseguenze della condotta di Metta.
59
In effetti, fra l’affermare che la sentenza Metta è “più probabilmente che non” derivata dalla sua corruzione e il negare
ogni incidenza della condotta degli altri consiglieri (se del caso
da valorizzare sulla falsariga della logica “interruttiva” di cui
all’art. 41 c.p.), quasi che gli stessi avessero il ruolo di “concause
naturali” strutturalmente inerti, ne corre: come si è detto, il
Collegio era pur sempre da ritenersi pienamente in grado di
applicare le technicalities connesse all’impugnazione dei lodi e
una pronuncia di diverso contenuto sarebbe stata certamente
più facile sul piano tecnico, se non anche foriera di minori
responsabilità; a tacer d’altro — come si è anticipato —, perché
una decisione nel senso della insindacabilità del lodo e/o dell’inammissiblità dell’impugnazione avrebbe lasciato aperta la
via al vaglio della Cassazione sulla violazione di una regola processuale e delle connesse norme sostanziali, quali — ad esempio
— quelle in punto di qualifica delle regole sui patti di sindacato
come norme di ordine pubblico; in sostanza, rimane un dubbio
sulla reale efficacia eziologica della condotta di Metta — non
certo teorico o “esistenziale” —, considerando che gli altri due
giudici non sollevarono obiezioni “a monte” del merito dell’impugnazione e che, quindi, una decisione di egual contenuto
sarebbe pur sempre potuta intervenire.
60
Il riferimento è a Gorla, Sulla cosiddetta causalità giuridica: «fatto dannoso e conseguenze», in Riv. Dir. Comm., 1951, I,
405 segg.
61
Pagina 188.
Giurisprudenza Italiana - Marzo 2012
618
fattispecie decise all’insegna della perdita di chances);
salvo poi scaricare i relativi problemi sulla consistenza
del bene protetto tramite la fatidica soglia del 50%,
spiegandosi forse cosı̀ le prese di posizione critiche
— se non pure alcune vere e proprie crisi di rigetto —
che anche di recente hanno connotato importanti decisioni in ambiente di Common Law 62; e salvo poi doversi davvero ingegnare per scongiurare il rischio di
concedere ristoro a qualsiasi “possibilità” che l’attore
aveva di migliorare la propria posizione (come sa bene,
ad esempio, la giurisprudenza amministrativa che si
occupa del danno connesso all’illegittima aggiudicazione delle gare 63).
Peraltro, nel più recente arresto costituito da Cass.,
n. 15991/2011, si ipotizza che il più “probabile che
non” venga inteso in termini relativi invece che assoluti e si nega cittadinanza alla «aberrante regola del 50
plus unum» in favore della «compiuta valutazione dell’evidenza del probabile» 64, con enunciazioni in linea
con altre pronunce 65; cosı̀ consentendosi per un verso
di scendere (anche in forza del regime ordinario) al di
sotto della fatidica soglia sopra indicata e, per l’altro,
smentendo l’interpretazione di chi aveva ritenuto che
la “causalità civile ordinaria” potesse propiziare l’operatività di un criterio più rigido di quanto a prima
vista non sembrasse 66; il che però — giova sottolinearlo — avrebbe dato qualche possibilità in più all’impresa volta al suo coordinamento con la perdita di
chances.
Ovviamente, con quanto si è detto non si può e non
si vuole patrocinare un’incondizionata e acritica applicazione del nesso causale in chiave proporzionale. Ma
si deve anche considerare che uno sguardo dall’alto
— anche oltre i confini nazionali — sulla perdita di
chance induce a ritenere che essa abbia più “anime”: si
è già detto che il richiamato insegnamento di Cass.,
n. 4400/2004 la candida quale modalità di attuazione
per operare l’apportionment of liability fra la condotta
umana e la concausa naturale, evidenziando una scelta
di policy che — tra mille insidie — è dotata di indubbio
62
Si vedano la House of Lords in Hotson vs. Health Berkshire del 1987 (2 All ER 909) e Greg vs. Scott del 2005 (4 All
ER 812) per il Regno Unito, la Corte Suprema in Laferriére vs.
Lawson del 1991 (1 SCR 541) per il Canada, la Suprema Corte
del Kentucky in Kemper v Gordon del 2008 (272 SW 3d
146) per il relativo stato dell’Unione d’America, nonché la
High Court in Tabet vs. Gett del 2010 (240 CLR 537) per l’Australia.
63
In proposito la recente rassegna a cura di Lo Moro, Perdita di chance nella giurisprudenza amministrativa, in Danno e
Resp., 2011, 485.
64
Da cui discende che «se, in tema di trasfusione di sangue
infetto, le possibili cause appaiono plurime e quantificabili in
misura di dieci, ciascuna con un’incidenza probabilistica pari al
Giurisprudenza Italiana - Marzo 2012
Diritto Civile | LODO MONDADORI
buon senso; l’uso fatto dalla giurisprudenza amministrativa, poc’anzi richiamato, sembra trasformarla in
una sorta di “griglia di contenimento”, tramite le variegate regole presuntive che pongono il limite massimo del 10% del valore della gara, se del caso considerando l’eventuale “fermo” delle risorse produttive dell’impresa e il numero dei partecipanti all’agone; e come
si è anticipato nel secondo paragrafo, un’accurata analisi del caso concreto deciso da Cass., n. 21619/2007,
oltre che le riflessioni svolte su Cass., n. 23846/2008,
possono consentire di individuare fattispecie di “illecito senza danno” 67.
D’altronde, i menzionati problemi ricostruttivi che la
decisione pone in punto di tripartizione del nesso portano a chiedersi se un modo di conciliare la causalità
“civile ordinaria” con quella da “perdita di chances”
non consista nell’ipotizzare un doppio esame inerente
il nesso e la situazione soggettiva, che li faccia divenire
“interdipendenti” (nel senso che al decrescere della
probabilità di successo il valore di ciascun punto percentuale potrebbe scendere in modo più che proporzionale; e, ancora, resta da capire se altra possibilità
offerta dalla figura in parola non sia quella di valorizzare per altra via la citata distinzione fra causalità generale e causalità individuale, rapportando apertamente — ma con idonei correttivi — il ristoro del danno al
dato statistico.
Di qui ad un passo si porrebbero le considerazioni
volte a sottolineare che i problemi della chance sono
“difficili” (sotto ogni cielo) perché, a ben vedere, essi
sono i medesimi dell’illecito aquiliano nel suo complesso. Ma non essendovi lo spazio per esporle in questa
sede, ci si accontenta di chiedersi se la dialettica fra le
due decisioni milanesi in commento evidenzi un nuovo
modo di usare la perdita di chances come tecnica di
accertamento del nesso causale; e se, cosı̀ facendo, essa
apra nuove prospettive o ne metta ulteriormente in
crisi le chances di sopravvivenza.
Bruno Tassone
3%, mentre la trasfusione attinge al grado di probabilità pari al
40%, non per questo la domanda risarcitoria sarà per ciò solo
rigettata — o geneticamente trasmutata in risarcimento da chance perduta — dovendo viceversa il giudice [...] valutare la complessiva evidenza probatoria del caso concreto».
65
Cass., 5 maggio 2009, n. 10285, fra le altre in Danno e
Resp., 2009, 959.
66
Al riguardo, Pucella, Causalità civile e probabilità: spunti
per una riflessione, in Danno e Resp., 2008, 61.
67
In effetti, se il subacqueo (risalito troppo rapidamente) di
cui ci si occupava fosse stato portato subito in camera iperbarica
invece che con un imperdonabile ritardo, non è davvero dato di
sapere (i CTU non lo dicono) quali maggiori possibilità avrebbe
avuto di sfuggire alla paralisi.
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