Paolo Agostinis Strade di polvere Paolo Agostinis, Strade di polvere Copyright© 2012 Edizioni del Faro Gruppo Editoriale Tangram Srl Via Verdi, 9/A – 38122 Trento www.edizionidelfaro.it – [email protected] Prima edizione: novembre 2012 – Printed in Italy ISBN 978-88-6537-853-3 In copertina: foto di Paolo Agostinis I fatti narrati in questo libro sono liberamente ispirati ai ricordi di medico volontario in Africa. “I vecchi sono la nostra biblioteca” (detto Africano) Strade di polvere A mavo i miei picchi dolomitici che andavano a prendere il cielo, la mia valle tagliata dal fiume e dalle brume del suo respiro, le case in pietra e legno con i ballatoi scricchiolanti, il gocciolio delle fontane nelle piazze a misura d’uomo. Le vie di acciottolato erano animate da gente a piedi che ancora si salutava scambiando una parola e un sorriso, una mano, se serviva. Amavo la mia valle dentro le sue stagioni, i prati a primavera che si punteggiavano di colchici bianchi e lilla, i cieli caldi d’estate che venivano solcati dai voli acrobatici delle rondini e riempiti dai canti dei grilli, gli aghi dei larici che nei mesi autunnali si doravano e i ciliegi che arrossivano prima di spogliarsi. Nel lungo inverno i gatti rimanevano acciambellati dinanzi al camino, in compagnia dei vecchi, oppure si accovacciavano sulle soglie dei balconi, a vedere nevicare. I vetri fini delle case si appannavano del nostro respiro, con la punta di un dito disegnavamo 9 i nostri sogni. I tetti spioventi si coprivano di neve, il fiume e i torrenti si nascondevano sotto una coperta bianca, scomparendo. Anche i camini, a volte, scomparivano. A un certo punto del cammino, come un viandante la cui anima è in cerca di significato, mi sono messo a guardare l’Africa, a fissarla, in silenzio, come si sta ad adorare la montagna del cuore che si staglia contro cieli azzurri e tersi. L’immaginavo in tutta la sua bellezza finché, dalla sommità delle sue alture, sono cominciate a rotolare verso di me pietre vulcaniche, nere, che scintillavano fame e miseria, figure orrende come la tratta degli schiavi o le guerre, malattie falcidianti, come malaria, tubercolosi, aids. Pietre roventi. Conoscevo la bellezza di quel paese, soprattutto sulla scorta di libri, articoli di giornale, fotografie, documentari. Potevo invece solo immaginare l’altra faccia dell’Africa, quella ossuta dagli occhi grandi, dagli sguardi perduti, che camminava su gambe scheletriche e barcollanti. Quella faccia era arrivata anche a casa mia, in qualche cartolina missionaria piena di graffi, oppure in una lettera spedita da qualche associazione. L’accompagnava un vaglia po10 stale. Sotto le feste di Natale quei ritratti venivano mandati in onda anche in televisione, ma di solito molto tardi, a notte fonda, forse per non scuotere le coscienze già addormentate. Un inverno di diversi anni fa, quando nel mio paese i vecchi cominciavano a girare con il pastrano pesante e i loro respiri in strada erano nubecole di vapore che salivano, decisi di mettere piede sui suoi sentieri. Partii all’alba gettando ancora uno sguardo alle mie dolomiti, vestite di neve e polvere dorata. I camini delle case fumavano, sui tetti si era già appoggiata una coltre di neve. Le strade erano silenziose, i torrenti ammutoliti da una lastra di ghiaccio, l’aria pungente, il cielo blu. All’orizzonte luccicava la stella polare. Sulle spalle avevo uno zaino, ma questa volta non portavo con me imbragatura, corda, cordini, moschettoni, chiodi, martello, rinvii. Dentro avevo un fonendoscopio e un camice verde. Ero partito per spendere le ferie, che avevo accumulato, in un ospedale africano. In Africa mi si affacciarono alberi giganti, il canto del cuculo, tramonti meravigliosi e caldi che non 11 dimenticavano alcun villaggio, schiere di visi sorridenti, quelli dei bambini innocenti che non avevano ricevuto il balsamo grasso dell’odio e della guerra. Sorrisi stupefacenti perché autentici, non ancora macchiati dalle atrocità dei grandi. Negli ospedali mi toccarono il silenzio e la pazienza degli ultimi. “La pazienza è un albero: le radici sono amare, i frutti dolcissimi” mi disse un vecchio che andò via aiutandosi con un bastone, soddisfatto. Aveva atteso quella visita un giorno intero, senza lamentarsi. Nei villaggi imparai a stare fra la gente, intorno al fuoco brulicante, accettando una zuppa di fagioli, ascoltando in silenzio gli anziani, sempre tenuti in grande considerazione. “Quando muore un vecchio brucia una biblioteca”, mi sentii ripetere. Ritornato alle mie radici non riuscii a non pensare, camminando per monti o sostando davanti al camino. Dalla parte dove stavo vedevo bambini e uomini sempre più sazi. Di là vagabondavano ventri gonfi, abitati da vermi schifosi, corpi stonati su gambe ossute e labbra spaccate. Dalla parte dove stavo mordevano l’asfalto automobili ancora più grandi, aggressive come pantere, con sedili riscaldabili e televisori 12 incorporati. Di là camminavano carretti cigolanti, trascinati da asini maledetti, con le orecchie basse, destinati solo a subire e obbedire. Nelle città del mio paese operavano medici illustri, in grandi ospedali. Nella loro terra si imperlavano di sudore le fronti di grandi medici, in ospedali miseri, troppo lontani da chi stava male e non aveva forze o monete in tasca per arrivarvi. Nei miei ospedali ci si affidava a macchine diagnostiche sempre più sofisticate e costose, avveniristiche analisi genomiche e di biologia molecolare, non sempre infallibili. Nei loro ospedali bastavano il microscopio, che funzionava grazie a uno specchietto e alla luce del sole, i vetrini, che venivano lavati e riutilizzati, i grandi ratti africani che, ben allenati, sapevano riconoscere tra cento un paziente con tubercolosi: annusavano, in un batter di ciglio, una goccia di saliva posata in un pozzetto. Da me crescevano i morbi dei vizi e della vecchiaia. Di là la causa principale di morte nei bambini era la polmonite batterica: sulle spalle dei fratellini o della madre i piccoli arrivavano tardi per potersi giovare degli antibiotici, o non arrivavano affatto. La malaria falciava le giovani anime malnutrite come una roncola gli steli d’erba ancora teneri. La tubercolosi attaccava i figli della miseria, costret13