GIDM Forum 20, 143-170, 2000 DIABETE E IPERTENSIONE COORDINATO DA P. CAVALLO PERIN, CON LA PARTECIPAZIONE DI: C. CALVI, G. DEFERRARI, D. GIUGLIANO, G. GRASSI, G. MANCIA, C. NOACCO, A. TIENGO, R. TREVISAN, B. TRIMARCO PRESENTAZIONE P. CAVALLO PERIN Dipartimento di Medicina Interna, Università di Torino Introduzione Il controllo della pressione arteriosa nel paziente diabetico costituisce un problema clinicamente rilevante e di grande attualità sia per le conoscenze raggiunte nell’ultimo decennio sia per i mezzi di intervento oggi disponibili. Ciò pone il medico di fronte alla responsabilità professionale di operare in modo appropriato per salvaguardare la qualità di vita del paziente diabetico limitando le conseguenze dell’ipertensione. L’obiettivo del Forum è di fornire un’analisi dei punti salienti dell’argomento, corredata di bibliografia essenziale, nel tentativo di tradurre le conoscenze in un comportamento clinico motivato. Per favorire la leggibilità del tema, il Forum è stato strutturato raccogliendo il parere di un gruppo di esperti in risposta ai seguenti quesiti: • A quali altri fattori di rischio cardiovascolare si associa l’ipertensione nel paziente diabetico? • Quali sono i criteri diagnostici e quali i valori soglia di pressione per l’intervento terapeutico? • Quali valori di pressione devono essere raggiunti e mantenuti con la terapia antipertensiva? • Quali sono i farmaci antipertensivi preferibili nel paziente diabetico? • L’associazione tra farmaci antipertensivi è necessaria in molti casi? Vi sono alcune associazioni più indicate? • La presenza di nefropatia pone problemi particolari per la terapia antipertensiva? Alla presentazione del parere dell’esperto sul singolo quesito, si è ritenuto opportuno far precedere alcune nozioni preliminari utili all’inquadramento del problema. L’importanza della misura della pressione arteriosa nel paziente diabetico In passato l’obiettivo della terapia del diabete consisteva nel salvare la vita del paziente, correggere i sintomi della malattia (poliuria, polidipsia, calo ponderale) e prevenire le complicanze acute (chetoacidosi, coma iperglicemico-iperosmolare, ipoglicemia). Oggi l’obiettivo della terapia si è esteso alla prevenzione delle complicanze croniche. Perciò, il compenso del diabete non è più soltanto riferito alla glicemia (profilo glicemico e HbA1c), ma è inteso in senso più allargato, coinvolgendo anche i parametri di rischio vascolare macroe micro-angiopatico. Il concetto di “compenso globale” scaturisce da evidenze secondo le quali il compenso glicemico di per sé non è in grado di ridurre il rischio cardio-vascolare senza la simultanea correzione del sovrappeso corporeo, del quadro lipidico, della pressione arteriosa e dell’abitudine al fumo. Ne deriva che il controllo della pressione arteriosa costituisce uno degli indici di qualità della cura del diabete. Ciò stabilisce l’importanza della misurazione sistematica della pressione arteriosa e di una continua correzione terapeutica dei livelli pressori ritenuti pericolosi per il paziente in rapporto all’età, alle complicanze del diabete e al danno degli organi bersaglio dell’ipertensione. La misura della pressione Le modalità di misurazione della pressione arteriosa nel paziente diabetico non differiscono ovviamente da quelle di tutti gli altri soggetti (almeno 5 minuti di 144 GIDM Forum 20, 143-170, 2000 riposo, arto superiore appoggiato, parte centrale dell’avambraccio all’altezza del cuore, misurazioni ripetute in più di 2 occasioni diverse per la diagnosi ecc.). È tuttavia importante tenere presenti tre considerazioni: a) la maggior parte dei pazienti con diabete di tipo 2 (60-70%) presenta sovrappeso o obesità con risultante aumento della circonferenza del braccio; b) la macroangiopatia diabetica può determinare stenosi arteriose a livello dei tronchi sopra-aortici su base aterosclerotica con risultanti valori di pressione arteriosa diversi tra le due braccia; c) la neuropatia diabetica autonomica può causare ipotensione ortostatica. Ne deriva l’importanza: 1) di utilizzare bracciali di misura appropriata per evitare errori di sovrastima; 2) di misurare la pressione arteriosa inizialmente su entrambe le braccia per poter prendere in considerazione il valore più elevato e controllarlo successivamente sullo stesso braccio; 3) di procedere alla misurazione sia in clinoche in ortostatismo per svelare una eventuale ipotensione posturale da neuropatia autonomica. La presenza di ipotensione ortostatica assume rilevanza anche ai fini della terapia: inizio del trattamento farmacologico, scelta appropriata dei farmaci antipertensivi, livelli ai quali mantenere la pressione arteriosa. L’ipertensione nelle varie forme di diabete A parte le forme di diabete associato a particolari condizioni o sindromi, in cui talora è presente una forma di ipertensione secondaria, le caratteristiche cliniche dell’ipertensione essenziale variano notevolmente tra il diabete tipo 1 e il diabete tipo 2. • Nel diabete tipo 1 1. L’ipertensione è assente alla diagnosi di diabete 2. Lo sviluppo di ipertensione è correlato all’insorgenza della nefropatia 3. La pressione sistolica e quella diastolica aumentano proporzionalmente 4. L’ipertensione accelera notevolmente la progressione della nefropatia • Nel diabete tipo 2 1. L’ipertensione è di comune riscontro alla diagnosi di diabete 2. L’ipertensione è correlata con il grado di obesità e con l’età 3. La pressione sistolica aumenta in misura maggiore rispetto alla pressione diastolica 4. L’ipertensione è scarsamente correlata con la presenza di nefropatia La patogenesi dell’ipertensione nel diabete La patogenesi dell’associazione tra ipertensione e diabete non è ancora completamente chiarita. Si ritiene che diversi meccanismi di alterato controllo possano essere in misura diversa responsabili dell’elevazione dei valori pressori e anche della difficoltà della loro correzione terapeutica. I principali sono elencati di seguito: Fattori di regolazione della pressione arteriosa nel paziente diabetico Fattori genetici Disfunzione endoteliale Pool del sodio scambiabile Catecolamine plasmatiche Ipertono simpatico Attività reninica plasmatica Aldosterone plasmatico Sensibilità barorecettoriale Compliance arteriosa Resistenze arteriolari Risposta agli stimoli pressori Aumentata escrezione urinaria di albumina Adiposità addominale/ viscerale Insulino-resistenza Trasporto cationico transmembrana multifattoriali spesso presente di solito aumentato normali spesso presente normale o bassa normale o basso ridotta ridotta aumentate aumentata spesso presente aumentata nel diabete tipo 2 presente nel diabete tipo 2 e nel tipo 1 con microalbuminuria aumentato controtrasporto sodio-idrogeno Come risulta dalla frammentarietà delle alterazioni sopra elencate, non è possibile proporre un modello unificato per illustrare la patogenesi dell’ipertensione nel diabete. Ciò è facilmente comprensibile data l’eterogeneità fisiopatologica presente sia nel diabete sia nell’ipertensione essenziale. Provvisoriamente, si può ipotizzare che, in presenza di una predisposizione genetica all’ipertensione, le alterazioni metaboliche e/o emodinamiche presenti nel diabete possano determinare l’aumentata penetranza del fenotipo ipertensione negli individui diabetici. 145 GIDM Forum 20, 143-170, 2000 Epidemiologia dell’ipertensione nel diabete La prevalenza dell’ipertensione è del 25% nella popolazione adulta, in cui rappresenta il fattore di rischio cardiovascolare più comune. L’ipertensione aumenta il rischio cardiovascolare di 2-3 volte ed è responsabile del 35% di tutti gli eventi cardiovascolari. La prevalenza del diabete è del 4-7% per il diabete tipo 2 e dello 0,1% per il diabete tipo 1, ma la prevalenza di entrambe le forme è in aumento. Nel diabete tipo 2 l’aterosclerosi rappresenta la prima causa di morte e circa il 50% dei pazienti con infarto miocardico è diabetico. Il diabete tipo 2 presenta un rischio cardiovascolare circa doppio rispetto alla popolazione non diabetica. L’associazione tra diabete e ipertensione è molto frequente. La prevalenza dell’ipertensione è circa doppia nei diabetici rispetto alla popolazione generale: circa il 40% dei pazienti con diabete tipo 1 e circa il 60% di quelli con diabete tipo 2 sviluppano ipertensione nel corso della malattia. Nei pazienti con ipertensione arteriosa la prevalenza del diabete risulta aumentata rispetto ai soggetti normotesi: 6,3% vs 4,3% negli uomini e 6,4% vs 2,1% nelle donne. La prevalenza dei soggetti affetti da diabete e ipertensione nella popolazione generale è stata stimata del 3-4% e la compresenza delle due patologie si associa a un rischio cardiovascolare 4 volte superiore a quello dei soggetti esenti dalle due affezioni. I pazienti diabetici con ipertensione arteriosa presentano un’incidenza (numero di nuovi eventi in un dato intervallo) di episodi cardiovascolari superiore al 4% per anno, vale a dire un’incidenza cumulativa del 40% in 10 anni. La presenza di altri fattori di rischio cardiovascolare (obesità, dislipidemia, fumo) produce un effetto moltiplicativo sul rischio cardiovascolare. Ne deriva l’importanza di valutare nel singolo paziente il “rischio cardiovascolare assoluto” non solo ai fini prognostici ma soprattutto per stabilire l’intervento terapeutico più adeguato per prevenire l’insorgenza o rallentare l’evoluzione delle complicanze. Rischio cardiovascolare nel diabetico iperteso Gli studi epidemiologici dimostrano una correlazione positiva indipendente e continua tra valori pressori ed eventi cardiovascolari, senza evidenziare un valore soglia al di sotto del quale venga meno il rapporto tra valori pressori ed eventi. Inoltre, la relazione tra pres- sione arteriosa e rischio cardiovascolare è proporzionalmente simile nella popolazione diabetica e nondiabetica: nei pazienti diabetici ogni grado di incremento pressorio si associa allo stesso incremento proporzionale del rischio dei soggetti non diabetici, ma parte da un livello basale più elevato. • Cardiopatia ischemica. La prevalenza della cardiopatia ischemica nel diabete tipo 2 risulta molto elevata (40-50%) e nel 50-70% dei casi ne costituisce la causa di morte. Il rischio di infarto miocardico nel paziente diabetico è pari al 20% nell’arco di 7 anni e risulta del tutto sovrapponibile a quello di recidiva dell’evento nella popolazione non diabetica già colpita da un infarto in precedenza. I dati disponibili per il diabete tipo 1 indicano un rischio relativo di cardiopatia ischemica paragonabile a quello del diabete tipo 2: la mortalità per eventi coronarici raggiunge il 35% prima dei 55 anni di età in confronto al 4-8% nella popolazione non diabetica. Anche il decorso della fase acuta e post-acuta successiva all’infarto miocardico risulta più sfavorevole, configurando una prognosi peggiore nel paziente diabetico: si registra un eccesso di mortalità del 38% negli uomini e dell’86% nelle donne, con una mortalità totale entro il primo anno del 44% negli uomini e del 37% nelle donne. La prevalenza dell’ischemia miocardica silente nel paziente diabetico risulta 3 volte più elevata rispetto a quella della popolazione generale, attestandosi su valori del 612%. • Ictus. Il rischio di ictus nel paziente diabetico risulta doppio rispetto alla popolazione non diabetica ed è responsabile del 15% della mortalità totale. In presenza di diabete e ipertensione il rischio relativo di ictus e TIA raggiunge il valore di 3-6 volte rispetto alla popolazione esente da diabete e ipertensione. Come nel soggetto non diabetico anche nel paziente diabetico l’ictus ischemico rappresenta la forma largamente più frequente rispetto all’ictus emorragico. La prognosi risulta più sfavorevole nel paziente diabetico: la sopravvivenza a 5 anni è del 20% nel paziente diabetico rispetto al 40% nel soggetto non diabetico; la frequenza delle recidive è del 24% nei pazienti diabetici e del 7% nei soggetti non diabetici. • Scompenso cardiaco. Nel soggetto iperteso non diabetico il rischio relativo di sviluppare scompenso cardiaco è pari a 4,0 nei maschi e 2,1 nelle femmine. Nel paziente diabetico il rischio è fino a 2,5 volte più elevato rispetto alla popolazione non diabetica e l’ipertensione è considerata responsabile dello scompenso cardiaco nel 30-40% dei casi. Nello studio UKPDS il rischio assoluto di scompen- 146 GIDM Forum 20, 143-170, 2000 so cardiaco è risultato di 3 eventi/1000 pazienti/anno. A parità di livelli di pressione arteriosa, la prevalenza di ipertrofia ventricolare sinistra risulta doppia nei pazienti diabetici ipertesi rispetto ai pazienti non diabetici ipertesi (72% vs 32%). Questo dato è rilevante in quanto l’incidenza di scompenso cardiaco aumenta di circa 8 volte in presenza di ipertrofia ventricolare sinistra. Nella storia naturale della cardiopatia ipertensiva del paziente diabetico iperteso, la disfunzione diastolica compare in modo anticipato rispetto alla disfunzione sistolica; in particolare, è stato osservato che la disfunzione diastolica è documentabile nel paziente iperteso con alterata tolleranza al glucosio anche in assenza di ipertrofia ventricolare sinistra. • Arteriopatia periferica. Nell’iperteso non diabetico il rischio relativo di arteriopatia periferica è di 2,0 negli uomini e 3,7 nelle donne. I pazienti diabetici presentano un rischio di amputazione degli arti inferiori 10-15 volte superiore a quello dei non diabetici, con un’incidenza annuale variabile tra 3 e 18/1000. È stata documentata una correlazione positiva tra pressione sistolica e arteriopatia agli arti inferiori, particolarmente evidente nel diabetico anziano. Ipertensione arteriosa e complicanze microangiopatiche Oltre all’associazione con il rischio cardiovascolare, l’ipertensione costituisce insieme all’iperglicemia un determinante maggiore della microangiopatia. È stato infatti documentato che livelli pressori elevati, anche nell’ambito della normotensione, sono in grado di favorire l’insorgenza e/o di accelerare l’evoluzione sia della retinopatia che della nefropatia, mentre non sembrano influenzare la neuropatia diabetica. In particolare, l’evoluzione della retinopatia e della nefropatia è sfavorevolmente influenzata da valori crescenti della pressione arteriosa, senza che sia possibile individuare un valore soglia di rischio. Accanto agli studi osservazionali, gli studi di intervento hanno documentato che la riduzione dei livelli di pressione arteriosa risulta protettiva sull’evoluzione del danno retinico e renale. Terapie non farmacologiche nell’ipertensione del diabetico Il trattamento antipertensivo si avvale non solo di farmaci, ma anche di modificazioni dello stile di vita, le quali devono essere realizzate in fase iniziale e mantenute successivamente durante la terapia farmacologica. • Dieta. La correzione del sovrappeso risulta efficace a migliorare il compenso globale del paziente diabetico. Infatti, la correzione anche parziale del sovrappeso è in grado di ridurre l’insulino-resistenza, la pressione arteriosa, i valori glicemici e lipidemici. La riduzione dell’apporto di sodio, combinata con la restrizione calorica, produce un effetto antipertensivo additivo. Ciò dipenderebbe dal fatto che la riduzione del sodio riduce la reattività vascolare, mentre il calo ponderale riduce la volemia, il ritorno venoso, la portata cardiaca e l’ipertono simpatico. È perciò indispensabile un’informazione continua del paziente, richiamando nel tempo la sua attenzione sull’importanza della riduzione dell’apporto calorico. Nel paziente con escrezione urinaria di albumina aumentata è opportuno ridurre l’apporto proteico entro 0,8-1 g/kg/die (microalbuminuria) o < 0,8 g/kg/die (macroalbuminuria), dando la preferenza all’uso di proteine di origine vegetale. Ciò nell’intento di ritardare la progressione verso l’insufficienza renale, sebbene non vi siano ancora prove definitive di efficacia in proposito. La risposta pressoria all’introito di sodio è variabile e solo il 50% dei pazienti ipertesi è “sodio-sensibile”. Tuttavia, poiché i pazienti sodio-sensibili non sono facilmente identificabili e una moderata restrizione sodica (6 g/die di cloruro di sodio o 2,3 g/die di sodio) non produce alcun danno, questa dovrebbe essere prescritta a tutti i pazienti diabetici in cui sia necessario ridurre la pressione arteriosa. Un eccessivo consumo di alcool si associa a un’aumentata prevalenza di ipertensione, ma un moderato apporto comporta un più ridotto rischio coronarico rispetto all’astinenza totale. Sembra perciò appropriato consigliare un apporto di etanolo non superiore a 30 g/die (ad es. 200-300 mL di vino oppure 500-600 mL di birra) e invitare all’astensione totale solo nei rari casi in cui l’effetto pressorio si mantenga anche per tali dosi. Sebbene acutamente l’assunzione di caffeina induca un aumento della pressione arteriosa, il consumo cronico di caffè non si accompagna a un significativo aumento della pressione arteriosa. La proscrizione assoluta del consumo di caffè rappresenta pertanto un provvedimento ingiustificato, mentre l’assunzione di 2-3 tazzine di caffè al giorno non costituisce alcun rischio nel paziente con questa abitudine. • Attività fisica. L’esercizio fisico moderato, regolare, aerobico, isotonico (non anaerobico-isometrico!), non è pericoloso e può migliorare i valori pressori, 147 GIDM Forum 20, 143-170, 2000 glicemici e lipidemici. Se sono sedentari, tali pazienti devono perciò essere incoraggiati a compiere ad esempio 3-4 km al giorno a passo di marcia oppure 40 minuti di bicicletta in pianura (o di cyclette in casa) almeno 3 volte alla settimana. Tale programma migliora l’efficacia della restrizione calorica, riducendo l’insulino-resistenza e la pressione arteriosa. • Abolizione del fumo. Sebbene il fumo di sigaretta aumenti acutamente la pressione arteriosa, nel tempo si sviluppa tolleranza agli effetti emodinamici della nicotina, cosicché cronicamente l’abitudine al fumo non si associa a livelli di pressione più elevati o a una più elevata prevalenza di ipertensione. Tuttavia, il fumo è un importante fattore di rischio cardiovascolare indipendentemente dagli effetti sulla pressione arteriosa. Perciò tutti i pazienti diabetici ipertesi dovrebbero essere fermamente e ripetutamente convinti a smettere di fumare, poiché questa misura rappresenta uno strumento efficace per ridurre il rischio cardiovascolare. Bibliografia American Diabetes Association: Treatment of hypertension in diabetes (Consensus Statement). Diabetes Care 16, 1394-1401, 1993 American Diabetes Association: Standards of medical care for patients with diabetes mellitus. Diabetes Care 23 (suppl 1), S32-S42, 2000 Estacio RO, Jeffers BW, Gifford N, Schrier RW: Effect of blood pressure control on diabetic microvascular complications in patients with hypertension and type 2 diabetes. Diabetes Care 23 (suppl. 2), B24-B64, 2000 Grossman E, Messerli FH: Diabetic and hypertensive heart disease. Ann Intern Med 125, 304-310, 1996 Kannel WB: Vital epidemiologic clues in heart failure. J Clin Epidemiol 53, 229-235, 2000 Mogensen CE: Microalbuminuria, blood pressure and diabetic renal disease: origin and development of ideas. Diabetologia 42, 286-291, 1999 The sixth Report of the Joint National Committee on Prevention, Detection, Evaluation and Treatment of High Blood Pressure (JNC VI). Arch Intern Med 157, 2413-2446, 1997 UK Prospective Diabetes Study Group: Tight blood pressure control and risk of macrovascular complications in type 2 diabetes (UKPDS 38). BMJ 317, 703-713, 1998 UK Prospective Diabetes Study Group: Efficacy of atenolol and captopril in reducing the risk of macrovascular complications in type 2 diabetes (UKPDS 39). BMJ 317, 713-720, 1998 A QUALI ALTRI FATTORI DI RISCHIO CARDIOVASCOLARE SI ASSOCIA L’IPERTENSIONE NEL PAZIENTE DIABETICO? C. NOACCO Unità di Diabetologia, Ospedale di Udine La ricerca epidemiologica nel campo dell’ipertensione ha riconosciuto che l’elevazione della pressione arteriosa (PA), sia sistolica (PAS) che diastolica (PAD), è un fattore di rischio comune e significativo di tutte le maggiori malattie cardiovascolari: malattia coronarica ischemica, ictus, arteriopatia periferica e scompenso cardiaco. L’ipertensione si presenta tuttavia in forma isolata in non più del 20% dei casi, mentre è spesso associata ad altri fattori di rischio cardiovascolare. Il diabete e la ridotta tolleranza al glucosio, l’obesità, l’ipertrofia ventricolare, le dislipidemie sono i principali fattori di rischio cardiovascolare ai quali l’ipertensione è associata. L’associazione dell’ipertensione con due o più di questi fattori di rischio si verifica con una frequenza 4 volte superiore a quanto ci si potrebbe aspettare se l’associazione fosse casuale. Tale aumentata associazione è riconducibile, almeno nella maggior parte dei casi, alla condizione di insulino-resistenza, genetica e/o acquisita, e al conseguente iperinsulinismo, del quale l’obesità, e l’obesità addominale in particolare, è uno dei fattori causali. Lo studio di Framhingam ha calcolato che la prevalenza della sindrome da insulino-resistenza nella popolazione generale potrebbe essere di 22% nel sesso maschile e di 27% in quello femminile. Inoltre, nei soggetti ipertesi, solo il 14% degli eventi coronarici nell’uomo e il 5% nelle donne si verificano in assenza di fattori di rischio addizionali, mentre il 40% degli eventi nei maschi e il 68% nelle donne possono essere attribuiti alla presenza di due o più fattori di rischio addizionali (1). È quindi evidente che diventa importante, in particolare nei soggetti diabetici, procedere a una stratificazione del rischio cardiovascolare e individuare quali possano essere i fattori di rischio aggiuntivi; in altre parole di quanto aumenti il rischio cardiovascolare nel soggetto iperteso per il fatto che egli sia o diventi diabetico e quali altri fattori di rischio si associno nel diabetico all’iperglicemia, che comunque definisce e caratterizza il diabete mellito. 148 GIDM Forum 20, 143-170, 2000 Diabete e ipertensione L’iperglicemia è nota essere di per sé un fattore di rischio cardiovascolare. L’incidenza della malattia coronarica è 50% più elevata nei maschi diabetici e 200% nelle donne diabetiche rispetto ai soggetti non diabetici; nelle donne diabetiche viene inoltre a mancare la protezione da eventi cardiovascolari rappresentata dal sesso. L’impatto dell’iperglicemia sulle sequele cardiovascolari è maggiore in termini di rischio relativo (RR) sull’arteriopatia periferica e sullo scompenso cardiaco, ma la malattia coronarica è in termini assoluti la più importante e l’unica in cui viene quasi annullata la differenza tra i sessi. Quando al diabete si associano l’ipertensione, l’ipercolesterolemia e il fumo di sigaretta, la mortalità cardiovascolare rispetto a soggetti non diabetici, ma con gli stessi fattori di rischio, aumenta in maniera quasi esponenziale: il MRFIT ha calcolato che il RR di un soggetto diabetico per morte da cardiopatia ischemica è 2,3-3,2 rispetto alla popolazione non diabetica, aggiustato per PA, colesterolo totale e numero di sigarette fumato. Quando poi la mortalità cardiovascolare (CV), corretta per l’età, veniva calcolata in termini assoluti in base alla presenza di 1, 2 o 3 fattori di rischio aggiuntivi, la mortalità per 10.000 in un follow-up di 12 anni raddoppiava per ogni fattore di rischio nei diabetici (30, 58, 90 e 128 decessi per 10.000 diabetici rispettivamente) (2). Fig. 1. Mortalità CV, corretta per l’età, per presenza di fattori di rischio (fumo di sigaretta, colesterolo totale, PA sistolica) nei soggetti maschi sottoposti a screening per il MRFIT, con e senza diagnosi di diabete mellito alla base-line. Yudkin recentemente ha proposto coefficienti di rischio coronarico per decadi di età per maschi e femmine in base alla presenza o meno di diabete, ipertensione sistolica, rapporto colesterolo totale/HDL, presenza o meno di microalbuminuria. 149 Il rischio di malattia cardiovascolare in 10 anni raddoppia, in assenza di altri fattori di rischio, sia in un maschio sia in una donna sessantenni (da 5-10% a 10-20%) per la sola presenza del diabete. L’associazione di ipertensione sistolica raddoppia ulteriormente sia nei maschi che nelle femmine il rischio da 10-20% a 20-40%. Se inoltre al diabete e all’ipertensione si associa microalbuminuria, il rischio raggiunge il 40-60% (3). Fig. 2. Stratificazione del rischio CV a 10 anni in rapporto alla presenza di diabete mellito, alla PA sistolica, al rapporto colesterolo totale/HDL e alla presenza di microalbuminuria in soggetti di 60 anni (modificato da Yudkin, ref. 3). La stratificazione del rischio assume particolare importanza per valutare il peso relativo dei vari fattori di rischio conosciuti e il NNT (Number Needed to Treat) per evitare un evento cardiovascolare in asso- GIDM Forum 20, 143-170, 2000 luto. Infatti, supponendo in base ai maggiori trial di intervento che la riduzione dei fattori di rischio porti a una diminuzione di 25% degli eventi, si può prudenzialmente calcolare che, se il rischio a 10 anni è 60%, la riduzione del 25% lo porterà a 45%, con risparmio di 15 eventi ogni 10 anni per 100 soggetti a rischio della stessa categoria. Ne deriva che è sufficiente trattare 6,7 (100:15) soggetti con questi livelli di rischio (NNT) per evitare in 10 anni 1 evento cardiovascolare. Per valutare l’impatto del diabete quale fattore di rischio cardiovascolare aggiuntivo nel soggetto iperteso è importante considerare gli studi di intervento. L’UKPDS (4) è stato il primo studio controllato a lungo termine a dimostrare l’effetto di una riduzione dei valori glicemici e dell’HbA1c sugli eventi cardiovascolari (infarto del miocardio, ictus, vasculopatia periferica, morti correlate al diabete). La riduzione dell’HbA1c dell’11% (esposizione media nel corso di 11 anni) riduce del 16% il rischio di infarto del miocardio (p=0,052), mentre non si sono rilevate differenze significative per il rischio di ictus ischemico cerebrale. Nel sottogruppo di pazienti diabetici obesi il trattamento con metformina, a parità di effetto sulla glicemia e sulla HbA1c, riduceva significativamente (39%) il rischio di infarto del miocardio. Il diabete quindi rappresenta un fattore di rischio cardiovascolare indipendente e significativo, e la riduzione dei valori di HbA1c è probabilmente efficace nel ridurre l’incidenza di eventi cardiovascolari nel diabetico, anche se sembrerebbe che altri fattori incidano sulle complicanze macrovascolari del diabetico in misura ancora maggiore dell’iperglicemia: infatti a una riduzione delle complicanze microvascolari di 25% dei soggetti in trattamento intensivo corrispondevano una riduzione di 16% di infarto e nessuna riduzione significativa di ictus e arteriopatia periferica. L’analisi epidemiologica dei risultati dell’UKPDS dimostra infatti che ipertensione e iperglicemia concorrono ad amplificare il rischio CV: i pazienti con valori pressori sistolici >150 mmHg e HbA1c > 8% presentano un rischio di eventi macrovascolari 6 volte superiore rispetto ai soggetti con PAS < 130 mmHg e HbA1c < 6%, a dimostrazione che più che il singolo fattore di rischio è importante l’aggregazione dei fattori. Nel braccio di intervento HDS (Hypertension in Diabetes Study) dell’UKPDS i diabetici posti in trattamento ipotensivo “ottimale” (media PA 144/82 mmHg), sia con ACE-inibitori sia con beta-bloccanti, presentavano una riduzione del rischio di malattia macrovascolare del 34% (21% infarto, 44% ictus) rispetto al gruppo in trattamento “non ottimale” (media PA 154/87 mmHg) e significativamente supe- riore a quello ottenuto con il solo migliore controllo metabolico (5). Anche lo studio di intervento Sys-Eur Trial conferma l’impatto del diabete sulla mortalità CV e sugli eventi CV: Il trattamento intensivo dell’ipertensione sistolica (obiettivo < 150 mmHg) riduce in una popolazione di ipertesi gli end point CV del 26%, ma nel sottogruppo di 492 soggetti ipertesi e diabetici la riduzione della mortalità CV è stata del 55% (da 45 a 26 eventi/1000 pazienti/anno) e quella di ogni evento CV del 69%, significativamente superiore a quella dei non diabetici (6). Analoghi risultati sono riportati dallo studio SHEP (Systolic Hypertension in the Eldery Programme): il trattamento attivo (diuretico+beta-bloccante o reserpina) riduceva in 5 anni il rischio di eventi CV maggiori nei diabetici di 34%, valore doppio rispetto ai non diabetici. Fig. 3. Incidenza di eventi CV maggiori in 5 anni (%) nello studio SHEP. Gli eventi includono infarto del miocardio, morte cardiaca improvvisa, angioplastica, by-pass aorto-coronarici, aneurismi, endoarteriectomia carotidea. Lo studio HOT ha inoltre valutato i benefici della riduzione della PAD a vari livelli in soggetti ipertesi. Mentre nei soggetti non diabetici nei quali la PAS veniva ridotta a circa 140 mmHg la riduzione della PAD da 90 a 85 a 80 mmHg non modificava significativamente il rischio di eventi coronarici maggiori (10/1000 paz/anno) e di mortalità CV, nei 1501 pazienti diabetici il numero di eventi CV maggiori si riduceva significativamente da 24/1000 paz/anno (PAD < 90 mmHg) a 18/1000 paz/anno (PAD <85 mmHg), a 12/1000 paz/anno (PAD < 80 mmHg) e la mortalità CV diminuiva da 11 eventi/1000 paz/anno a 4 eventi/1000 paz/anno se la PAD veniva mantenuta < 80 mmHg. I dati dello studio HOT dimostrano come il diabete sia un rischio CV aggiuntivo e la mortalità CV e gli even- 150 GIDM Forum 20, 143-170, 2000 ti CV siano più che raddoppiati nei pazienti diabetici rispetto ai non diabetici con valori di PAD in un range considerato “normale” (8). Fig. 4. Eventi cardiovascolari maggiori (infarto del miocardio, ictus, morte cardiovascolare) per 1000 pazienti/anno nello studio HOT in rapporto all’obiettivo di PA diastolica. Il gruppo dei diabetici migliora significativamente gli esiti con livelli di PA diastolica inferiori. Recentemente Haffner ha riportato i dati dell’incidenza di infarto del miocardio in una popolazione di maschi finlandesi non diabetici e diabetici con e senza precedente infarto del miocardio. Nei non diabetici l’incidenza di infarto del miocardio in 7 anni è stata di 3,5% nei soggetti senza pregresso infarto e 18,8% nei soggetti con pregresso infarto. Nei diabetici l’incidenza è stata rispettivamente di 20,2% e 45% nei gruppi senza e con pregresso infarto. Quindi la sola presenza di diabete mellito tipo 2 rende il rischio di infarto uguale a quello di un soggetto non diabetico già infartuato, e la mortalità nel diabetico infartuato risulta quasi 3 volte superiore a quella dell’infartuato non diabetico. Dato che nei soggetti con pregresso infarto la mortalità CV è di 3-7 volte superiore alla mortalità della popolazione non infartuata, si può calcolare che il diabete tipo 2 aumenta per un fattore di 3-7 la mortalità CV rispetto alla popolazione non diabetica (9). Iperinsulinemia, obesità, insulino-resistenza Il rischio cardiovascolare nei soggetti con ipertrigliceridemia o intolleranza ai carboidrati, quindi per definizione con glicemia a digiuno “normale”, è circa doppio rispetto alla popolazione generale. Una recente metanalisi che ha preso in considerazione 95.000 soggetti ha dimostrato una correlazione 151 positiva tra glicemia a digiuno, 1 ora e 2 ore dopo carico orale di glucosio ed eventi CV senza che si sia dimostrata una soglia di rischio: il rischio relativo di una glicemia a digiuno di 110 mg/dL è pari a 1,33 rispetto a una glicemia a digiuno di 76 mg/dL e una glicemia dopo carico di 140 mg/dL rappresenta un rischio relativo di 1,56 (10). Sembra quindi che i valori di glucosio rappresentino un fattore di rischio cardiovascolare continuo, anche in un range inferiore ai valori patologici, analogamente a quanto dimostrato per il colesterolo totale e la PA. Ciò non sorprende quando si pensi che l’iperglicemia si sviluppa quando le cellule beta pancreatiche non riescono più a compensare il difetto di azione insulinica periferica, o resistenza insulinica, responsabile di molti casi di diabete tipo 2 e che il diabete mellito viene dignosticato dopo anni di livelli glicemici post-prandiali più o meno elevati e di iperinsulinemia “compensatoria”. Almeno 3 studi prospettici hanno infatti posto in relazione l’iperinsulinemia con la malattia CV. Lo studio di Helsinki (11) ha dimostrato una correlazione positiva tra insulinemia 1 e 2 ore dopo carico orale di glucosio e malattia coronarica anche dopo correzione per BMI, glicemia, trigliceridemia, colesterolo totale, attività fisica, fumo e PA sistolica. Lo studio PARIS ha dimostrato una maggiore incidenza di coronaropatia in soggetti con elevata insulinemia a digiuno, indipendente dalla tolleranza al glucosio e dalla PA (12). Lo studio di Busselton ha dimostrato una correlazione tra insulinemia e incidenza di coronaropatia e mortalità cardiovascolare in soggetti di sesso maschile nella 6ª decade di vita. La mortalità per ogni causa era correlata positivamente all’insulinemia negli uomini nella 4ª e 5ª decade di vita (13). Infine, il San Antonio Heart Study ha dimostrato che nella popolazione ispano-americana, che presenta una prevalenza di diabete tipo 2 da 3 a 5 volte maggiore della popolazione bianca, l’insulinemia a digiuno e la risposta insulinemica al carico orale di glucosio sono più elevate e si associano a un aumentato rischio CV. In questi soggetti prevalgono inoltre l’obesità e la distribuzione di tipo centrale dell’adipe, che si accompagna a maggiore insulino-resistenza. Nello stesso studio sono stati esaminati a 7 anni dall’arruolamento i soggetti che nel corso dello studio avevano manifestato un diabete tipo 2: quelli che all’inizio dello studio presentavano una predominante insulinoresistenza (metodo HOMA) presentavano al controllo una PA più elevata, un colesterolo HDL più basso e una trigliceridemia più elevata, a dimostrazione che l’insulino-resistenza di per sé è un clustering di fattori di rischio CV e rischio CV essa stessa (14). GIDM Forum 20, 143-170, 2000 In conclusione, si può affermare che esiste evidenza che, anche in assenza di iperglicemia o a livelli di glicemia ancora in un range considerato “normale”, l’iperinsulinemia conseguente a insulino-resistenza rappresenta un fattore di rischio indipendente di malattia CV e che con il passare del tempo il manifestarsi dell’iperglicemia aumenta il rischio CV sia direttamente sia per l’associazione di altri fattori di rischio (obesità, ipertrigliceridemia, ipertensione) a essa correlati. È da notare tuttavia che il gruppo in trattamento con ACE-inibitori presentava sia a 1 mese sia a 2 anni una riduzione maggiore dei valori di PA sia sistolica che diastolica rispetto al gruppo di controllo e che è noto come anche piccole riduzioni della PA siano in grado di produrre significative riduzioni del rischio CV. Vi sono alcune dimostrazioni che il trattamento ipotensivo debba essere iniziato anche in soggetti diabetici microalbuminurici non ipertesi o in diabetici tipo 1, ancor prima della comparsa di MA. Studi di intervento sono in corso per valutare i vantaggi di tale approccio. Microalbuminuria La microalbuminuria (MA) è un forte predittore di nefropatia diabetica ma anche di malattia CV sia nei diabetici tipo 1 che tipo 2. Però solo circa il 3% dei diabetici tipo 2 va incontro a uremia mentre l’80% muore per malattia CV. La microalbuminuria ha una prevalenza almeno tripla nei soggetti diabetici rispetto ai non diabetici (30% vs 5-10%) e in questi ultimi è soprattutto in relazione all’ipertensione. Nei diabetici è correlata all’ipertensione arteriosa ma anche ad altri fattori quali l’obesità addominale, l’iperuricemia, la glicemia a digiuno e la HbA1c. Sia il DCCT sia l’UKPDS hanno dimostrato che il buon controllo metabolico rallenta la comparsa della microalbuminuria (MA) e la progressione verso la macroalbuminuria nei soggetti diabetici, confermando la relazione tra MA e controllo metabolico. Diversi studi hanno confermato che anche nei diabetici la macroalbuminuria è un fattore fortemente predittivo di mortalità CV, con un rischio doppio rispetto ai diabetici senza microalbuminuria (15). Il Risk Factor Intervention Study ha dimostrato che in un gruppo di diabetici ipertesi la mortalità è maggiore nei soggetti microalbuminurici rispetto ai non microalbuminurici (p=0,035) e che la MA rappresenta un fattore di rischio indipendente (16). Anche se la multifattorialità della patogenesi della MA pone qualche problema di interpretazione dei dati sull’effetto protettivo della riduzione della MA nei confronti della malattia CV nei diabetici tipo 2, l’opinione prevalente è che sia il controllo metabolico sia il controllo della PA debbano essere iniziati precocemente, che l’obiettivo pragmatico debba essere una PA di 130/80 mmHg e che sia più importante la riduzione dei valori pressori che il mezzo utilizzato. Lo studio micro-HOPE ha recentemente dimostrato tuttavia una significativa riduzione del rischio CV (infarto del miocardio, ictus, mortalità CV e mortalità totale) in diabetici trattati con ACE-inibitori oltre alla terapia ipotensiva usuale (17). Lipidi L’alterazione dei lipidi plasmatici tipica del diabetico tipo 2 è caratterizzata da un aumento dei trigliceridi plasmatici e da bassi livelli di colesterolo HDL, mentre la prevalenza di ipercolesterolemia totale non è nei diabetici sostanzialmente diversa da quella della popolazione generale. Come nella popolazione generale fattori genetici possono essere causa nei diabetici di ipertrigliceridemia o di iperlipemia combinata, così anche fattori acquisiti (alcool, estrogeni, farmaci ecc.) possono amplificare il disordine lipidico tipico del diabetico. La fisiopatologia della iperlipemia del diabetico è caratterizzata da un’aumentata produzione di VLDL, prevalente nelle fasi iniziali della malattia, e da un rallentato catabolismo delle stesse. Nelle forme più severe l’attività lipoproteinlipasica è diminuita e il controllo dell’iperglicemia con insulina o ipoglicemizzanti orali può riportarla a valori normali nell’arco di settimane o mesi. Sia la resistenza all’insulina che un deficit di insulina possono essere causa di diminuzione dell’attività lipoproteinlipasica. Nei diabetici, inoltre, sono presenti alterazioni della composizione delle VLDL, più ricche di trigliceridi, e un aumento delle IDL, con maggiore effetto aterogenetico per aumentata captazione delle particelle da parte delle cellule della parete arteriosa. I bassi livelli di colesterolo HDL possono essere dovuti sia a ridotta produzione sia ad aumentato catabolismo. La diminuita produzione sarebbe dovuta a un diminuito catabolismo delle VLDL e alla diminuita attività della lipasi lipoproteica. L’aumentato catabolismo è conseguente a un’aumentata attività della lipasi epatica. Inoltre nei diabetici tipo 2 le particelle HDL sono più ricche di trigliceridi e più povere di colesterolo, con aumento del rapporto apo-A1/ apoA2. La glicazione delle HDL, a differenza di quanto avviene per le LDL, ne aumenta il catabolismo. 152 GIDM Forum 20, 143-170, 2000 La concentrazione assoluta di LDL nei diabetici è simile a quella dei non diabetici, ma sono state descritte modificazioni metaboliche e di composizione delle particelle che le rendono più piccole, più dense, glicate e ossidate, tutte modificazioni in senso aterogenetico. La glicazione delle LDL, ma anche l’associata ipertrigliceridemia e l’insulinopenia, possono ridurre il catabolismo delle stesse e causare un aumento anche dei loro valori assoluti. È evidente che tutte queste modificazioni metaboliche e strutturali espongono il diabetico a un rischio CV aggiuntivo rispetto sia all’iperglicemia sia all’ipertensione; tuttavia non sempre è possibile valutare quale sia il peso reale di fattori di rischio “indipendenti” e quello di fattori fortemente associati al rischio di base. Questi fattori associati, come l’ipertrigliceridemia del diabetico, potrebbero rappresentare più marker di rischio maggiore che fattori di rischio aggiuntivi. Per queste ragioni è importante considerare i risultati degli studi di intervento disponibili, oltre agli studi prospettici; infatti un fattore di rischio potrebbe essere un marker di malattia CV più forte in quanto espressione di un clustering di fattori di rischio associati (ad esempio ipertrigliceridemia associata a resistenza all’insulina, obesità, ipertensione). Gli studi di intervento ci permettono spesso di determinare il “peso” del fattore di rischio indipendente e quello dei fattori di rischio associati. Va tenuto presente tuttavia che molti dei dati di intervento su soggetti diabetici derivano da analisi post-hoc, cioè da dati raccolti in una popolazione generale, dai quali solo successivamente sono stati isolati quelli riguardanti i soggetti diabetici, e questo potrebbe creare problemi nella omogeneità della selezione iniziale dei soggetti in studio e quindi nella confrontabilità dei gruppi. Studi di prevenzione primaria nel diabetico Non vi sono ancora sufficienti dati da studi di intervento di prevenzione primaria della malattia CV in soggetti diabetici con terapia ipolipemizzante. L’Helsinki Heart Study ha dimostrato una riduzione di eventi coronarici in soggetti senza pregressa malattia coronarica con gemfibrozil, in particolare in soggetti con ipertrigliceridemia e basso colesterolo HDL. Nello studio fu arruolato un piccolo numero di diabetici (n=135) e l’analisi post hoc ha dimostrato una riduzione del 60% del rischio relativo di eventi coronarici, ma il valore non risultò significativo per la scarsa numerosità del campione (18). Lo studio WOSCOP ha dimostrato che la riduzione delle LDL con pravastatina riduce gli eventi coronarici nella popolazione generale, ma il sottogruppo dei diabetici era troppo esiguo (1% del campione) per permettere un’analisi dei dati (19). In attesa della conclusione degli studi in corso di prevenzione primaria nei diabetici rimangono valide le indicazioni del National Cholesterol Education Program (NCEP), che consiglia una riduzione dei livelli di colesterolo LDL < 100 mg/dL nei soggetti con pregressa coronaropatia, < 130 mg/dL per i soggetti a rischio, < 160 mg/dL per i soggetti a basso rischio. L’alto rischio è definito come presenza di due o più fattori di rischio CV: il diabete conta per un fattore di rischio e il sesso maschile rappresenta un altro fattore di rischio. Il panel tuttavia considera le donne diabetiche a uguale rischio degli uomini, per cui tutti i diabetici, maschi e femmine, dovrebbero avere un target di LDL < 130 mg/dL. Non solo, ma in base ai dati di Haffner già citati, cioè della uguale incidenza di eventi cardiovascolari nei diabetici senza pregresso infarto e nei non diabetici con pregresso infarto, alcuni autori ritengono giustificato spostare il target di prevenzione primaria per il soggetto diabetico a valori di LDL ≤ a 100 mg/dL. Studi di prevenzione secondaria nel diabetico Lo studio 4S (Scandinavian Survival Simvastatin Study) ha dimostrato che in soggetti con pregresso infarto del miocardio e con trigliceridi “relativamente” normali (<220 mg/dL) la riduzione del colesterolo totale con simvastatina a livelli inferiori a 200 mg/dL porta a una riduzione di un terzo degli eventi CV. In un sottogruppo di diabetici (n=202) la riduzione risultò ancora maggiore (-55%) e anche la mortalità fu minore nei diabetici trattati, anche se non a livelli di significatività statistica. Nel gruppo in trattamento con placebo l’incidenza di eventi cardiovascolari fu di 2,5 volte maggiore nei diabetici, a dimostrazione che il diabete aumenta ulteriormente il rischio CV, già elevato nei soggetti infartuati (20). Lo studio CARE ha rilevato che la riduzione del colesterolo LDL in soggetti con precedente coronaropatia riduce gli eventi cardiovascolari anche in soggetti con valori di colesterolo LDL “normali” (139 mg/dL alla base-line) e che la riduzione è simile nei diabetici e nei non diabetici (25% vs 23%) (21). Recentemente sono stati pubblicati i risultati dell’effetto del trattamento con gemfibrozil in prevenzione secondaria in soggetti con bassi livelli di colesterolo 153 GIDM Forum 20, 143-170, 2000 HDL e colesterolo LDL “normale” (HDL < 40 mg/dL, LDL < 140 mg/dL). L’aumento del colesterolo HDL del 6% e la diminuzione dei trigliceridi del 31% riduceva in 5 anni il RR del 22% nei non diabetici e del 24% nei diabetici (22). Dai dati disponibili si può concludere che la dislipidemia, sia primitiva (ipercolesterolemia isolata) sia secondaria (ipertrigliceridemia e basso HDL), rappresenta un ulteriore fattore di rischio CV nel soggetto diabetico, non riducibile con il solo buon controllo metabolico. La dimostrazione che la correzione delle anomalie lipidiche nel diabetico ha un effetto ancora superiore a quello che si ottiene nei soggetti non diabetici conferma la particolare aterogenicità delle particelle lipoproteiche alterate qualitativamente, oltre che quantitativamente, nel diabetico. Ipertrigliceridemia Per quanto riguarda l’ipertrigliceridemia isolata nel diabetico non vi sono prove certe che rappresenti un fattore di rischio indipendente, come invece è dimostrato per il colesterolo LDL. Il Paris Prospective Study ha dimostrato una correlazione tra ipertrigliceridemia e mortalità CV in un sottogruppo di soggetti con diabete mellito tipo 2 o intolleranza ai carboidrati; inoltre è stata dimostrata una correlazione positiva tra malattia coronarica e VLDL e una correlazione negativa con i livelli di colesterolo HDL. Tuttavia all’analisi multivariata solo un basso valore di colesterolo HDL era correlato alla malattia coronarica. Se vi sono sufficienti evidenze per considerare l’ipertrigliceridemia come un fattore di rischio CV indipendente nel soggetto non diabetico (23), è più difficile stabilire quanto nel diabetico essa sia più l’espressione di un difetto metabolico di base (insulino-resistenza) che un fattore aggiunto. Sembrerebbe che l’ipertrigliceridemia, e il basso valore di HDL, siano dei potenti marker di rischio cardiovascolare nel diabetico, ma facciano parte di un clustering di elementi metabolici (insulina, glucosio, lipidi, indice ponderale, obesità addominale) che rappresentano un unico fattore di rischio principale. Questa ipotesi ha la sua importanza concettuale e pratica nel fatto che, se essa dovesse essere confermata, darebbe una giustificazione al fatto che non è sufficiente la correzione di un unico fattore di rischio (o di un marker di malattia cardiovascolare) per una efficace prevenzione primaria e secondaria della malattia cardiovascolare nel diabetico. Conclusioni Negli ultimi anni si sono accumulate evidenze che altri fattori di rischio CV presenti nel soggetto diabetico contribuiscono in varia misura all’aumentata incidenza di malattia, eventi e mortalità CV in questi pazienti. L’iperfibrinogenemia, lo stato trombofilico da aumentata adesività piastrinica, gli alti livelli di PAI 1, lo stress ossidativo e la disfunzione endoteliale sono alcuni degli elementi specifici della malattia diabetica. La riduzione dei livelli di glucosio plasmatico è sicuramente efficace nel ridurre le complicanze microvascolari del diabete, ma la relazione non è così lineare per le complicanze macroangiopatiche, anche se i risultati degli studi prospettici di intervento possono sottovalutare la responsabilità dell’iperglicemia in quanto la riduzione dei livelli di glucosio ottenuti sono ben lungi da rappresentare una normalizzazione della glicemia. Nei diabetici sono presenti quindi fattori di rischio aggiuntivi non solo rispetto al rischio rappresentato dall’ipertensione nella popolazione generale, ma anche al rischio rappresentato dall’iperglicemia di per sé. Allo stato attuale dell’arte vi sono evidenze che solo l’azione su tutti i fattori di rischio, e non solo sui marker di malattia, può ridurre l’incidenza di malattia e mortalità CV nei diabetici, sfida questa che si apre con il nuovo millennio. Bibliografia 1. Kannel WB: Risk stratification in hypertension: new insight from the Framingham Study. Am J Hypertens 13, 3S-10S, 2000 2. Stamler J, Vaccaro O, Neaton JD, Wentworth D et al: Diabetes, other risk factors, and 12-yr cardiovascular mortality for men screened in the Multiple Risk Factor Intervention Trial. Diabetes Care 16, 434-444, 1993 3. Yudkin JS, Chaturvedi N: Developing risk stratification charts for diabetic and non diabetic patients. Diabetic Med 16 (3), 219-227, 1999 4. UK Prospective Diabetes Study (UKPDS) Group: Intensive blood-glucose control with sulphonilureas or insulin compared with conventional treatement and risk of complications in patients with type 2 diabetes (UKPDS 33). Lancet 352, 837-853, 1998 5. 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D’altra parte i più recenti risultati di numerosi studi prospettici sulla relazione tra livelli di pressione arteriosa e rischio di eventi vascolari hanno indotto la comunità scientifica a fare il punto su tale problema e a formulare nuovi e più attuali criteri di classificazione. Le nuove linee guida hanno impostato le nuove classificazioni, partendo dal presupposto che l’ipertensione arteriosa non deve essere considerata isolatamente ma nell’ambito del rischio globale aterogeno a cui è sottoposto il singolo paziente. Altro presupposto della nuova classificazione dell’ipertensione è il rilievo che i livelli di pressione arteriosa sono correlati al rischio di patologia cardiovascolare in modo continuo senza una evidente soglia patologica e ogni definizione di ipertensione sarebbe perciò arbitraria. In pazienti con ipertensione lieve il rischio di malattia cardiovascolare è infatti determinato non solo dai livelli di pressione arteriosa ma anche dalla presenza e dall’entità di altri fattori di rischio. Le differenze di rischio cardiovascolare assoluto tra pazienti con ipertensione sono determinate più dalla coesistenza di GIDM Forum 20, 143-170, 2000 altri fattori di rischio che dal livello di pressione arteriosa. L’ipertensione è comunque definita secondo le più recenti classificazioni in differenti stadi o categorie. Il “Joint National Committee” (JNC) negli Stati Uniti (1) e il “WHO-ISH Guidelines Committee” (2) sono stati concordi nel definire ipertensione arteriosa valori superiori a 140 mmHg per la pressione sistolica e 90 mmHg per la pressione diastolica nei soggetti non sottoposti a terapia antipertensiva. La classificazione dei livelli pressori nei soggetti adulti sopra i 18 anni è descritta nella tabella 1. Tale classificazione si basa su quanto proposto dalla JNC (1), anche se si è preferito parlare di gradi di ipertensione piuttosto che di stadi che presupponevano una necessaria progressione dei valori pressori. Gli estensori della classificazione sottolineano che i gradi di ipertensione si riferiscono semplicemente ai valori attuali di PA e non alla prognosi che può essere non sempre correlata ai valori iniziali pressori. L’attuale classificazione non tiene conto dell’età del paziente e quindi non definisce alcuna ipertensione dell’anziano, ma si limita a considerare l’ipertensione sistolica isolata. Dall’epidemiologia si è infatti chiarito che l’ipertensione nell’anziano deve essere considerata alla stregua dell’ipertensione ritrovata nella media- TAB. I. Classificazione dei valori di ipertensione arteriosa Categoria Sistolica (mmHg) Diastolica (mmHg) Ottimale < 120 < 80 Normale < 130 < 85 Normale - alta 130-139 85-89 Ipertensione di grado 1 (“lieve”) 140-159 90-99 Sottogruppo “borderline” 140-149 90-94 Ipertensione di grado 2 (“moderata”) 160-179 100-109 Ipertensione di grado 3 (“grave”) ≥ 180 ≥ 110 Ipertensione sistolica isolata ≥ 140 < 90 140-149 < 90 Sottogruppo “borderline” Nel caso la pressione sistolica e quella diastolica di un paziente rientrino in categorie differenti, la classificazione va fatta in base alla categoria maggiore. età, dal momento che il trattamento riduce comunque il rischio cardiovascolare a prescindere dall’età del paziente. Non si fa inoltre cenno alla ”ipertensione clinica isolata”, definita anche “da camice bianco”, situazione che presuppone un aumento ripetuto dei valori pressori in ambulatorio con valori pressori normali in registrazioni eseguite al di fuori di ambienti medico-sanitari. Non è ancora noto d’altra parte se l’ipertensione clinica isolatasia un fenomeno “benigno-innocente” oppure se si associ a un aumento del rischio cardiovascolare. Essa andrà eventualmente considerata e valorizzata alla luce della presenza di altri fattori di rischio vascolare come il diabete. La diagnosi di ipertensione arteriosa deve essere fatta dopo molteplici misurazioni ottenute in differenti visite. Come ben definito dalle linee guida internazionali, la pressione deve essere misurata con il paziente seduto usando uno sfigmomanometro a mercurio. Se vengono usati altri strumenti non a mercurio, i valori pressori ottenuti dovranno essere confrontati con quelli ottenuti mediante sfigmomanometro. Nei pazienti diabetici è importante misurare la pressione arteriosa anche in posizione ortostatica per evidenziare eventuali cadute pressorie (ipotensione ortostatica) dovute alla frequente coesistenza di neuropatia autonomica. La misurazione della pressione a domicilio con apparecchi non invasivi semiautomatici e automatici offre vantaggi ma anche alcuni svantaggi. Pur offrendo la possibilità di valutare i valori pressori nell’ambiente di lavoro in diversi momenti della giornata, tali misurazioni vanno considerate con prudenza e non devono sostituire le misurazioni ambulatoriali. I valori registrati sono peraltro di alcuni mmHg inferiori a quelli ottenuti in ambulatorio. Non esistono ancora in letteratura risultati probanti sul valore prognostico di queste misurazioni domiciliari. Il monitoraggio continuo della pressione arteriosa non può essere considerato una modalità routinaria per la diagnosi di ipertensione. Tale modalità di misurazione, che ottiene valori pressori inferiori rispetto alle misurazioni estemporanee, va presa in considerazione soprattutto in presenza di casi con estrema instabilità dei valori pressori, con sintomatologia di episodi ipotensivi specie notturni e per una valutazione più approfondita dell’effetto dei singoli farmaci utilizzati. È stato dimostrato che il danno d’organo associato all’ipertensione correla più strettamente con la pressione arteriosa media delle 24 ore che con la pressione misurata in ambiente clinico. Le definizioni di lieve, moderata e grave, usate nelle versioni precedenti delle linee guida OMS-ISH, corri- 156 GIDM Forum 20, 143-170, 2000 spondono rispettivamente al grado 1, 2 e 3 e la precedente definizione di ipertensione “borderline” diviene un sottogruppo dell’ipertensione di grado 1. Valori soglia di pressione arteriosa per il trattamento La decisione di trattare i pazienti con ipertensione arteriosa non dovrebbe basarsi solo sul livello della pressione arteriosa ma anche sulla presenza di altri fattori di rischio o di malattie concomitanti come in particolare il diabete, di danno d’organo, di malattie cardiovascolari o renali nonché di valutazioni specifiche riguardanti la personalità e le caratteristiche del paziente. Ecco allora che la valutazione della soglia di valori pressori per l’intervento terapeutico potrà variare a seconda della stratificazione del rischio assoluto futuro di patologia cardiovascolare attribuibile al paziente. La stima del rischio è basata su età, sesso, fumo, presenza di diabete o di ipercolesterolemia, storia di malattia cardiovascolare precoce, presenza di danno d’organo e storia di malattia cardiovascolare o renale (tab. II). Il calcolo è stato fatto in base ai dati del rischio medio di morte cardiovascolare, di ictus non mortale o di infarto miocardico non mortale che potrebbero comparire nell’arco di 10 anni, basandosi sui dati dello studio di Framingham. Sono state definite quattro categorie di rischio assoluto cardiovascolare: basso, medio, alto e molto alto. Ogni categoria è rappresentata da un intervallo di rischio. All’interno di ciascun intervallo il rischio di ciascun individuo sarà calcolato in funzione della gravità e del numero dei fattori di rischio presenti. La stratificazione dei pazienti in base al loro rischio cardiovascolare globale è utile non solo per determinare la soglia a cui iniziare il trattamento farmacologico antipertensivo ma anche per stabilire il valore di pressione arteriosa che dovrebbe essere raggiunto (tab. III). Come si può osservare nella tabella II, tra i fattori che condizionano la prognosi del paziente iperteso gioca un ruolo estremamente negativo la presenza di diabete e di ipercolesterolemia, mentre altri fattori metabolici come la ridotta tolleranza al glucosio, l’aumento di colesterolo LDL, la riduzione di colesterolo HDL, la presenza di microalbuminuria in corso di diabete, TAB. II. Fattori che influenzano la prognosi del paziente iperteso (Guidelines WHO for Management of Hypertension 1999) Fattori di rischio cardiovascolare Danno d’organo Patologie associate 1. Fattori utilizzati per la quantificazione del rischio - Valori di pressione arteriosa sistolica o diastolica (gradi 1-3) - Età >55 anni: sesso maschile - Età >65 anni: sesso femminile - Fumo di sigaretta - Colesterolo totale >250 mg/dL (6,5 mmol/L) - Diabete - Storia familiare di precoce cardiovasculopatia - Ipertrofia ventricolare sinistra - Proteinuria e/o modesto aumento della creatinina (1,2-2,0 mg/dL) - Presenza di placche aterosclerotiche alle arterie carotidi, iliache, femorali e aorta - Restringimenti generalizzati o focali delle arterie retiniche - Malattie cerebrovascolari • ictus ischemico • emorragia cerebrale • attacchi ischemici transitori - Cardiopatie • infarto del miocardio • angina • rivascolarizzazione coronarica • scompenso cardiaco congestizio - Nefropatia - Colesterolo HDL ridotto 2. Altri fattori che influenzano negativamente la prognosi • nefropatia diabetica - Colesterolo LDL aumentato - Microalbuminuria in corso di diabete - Ridotta tolleranza al glucosio - Obesità - Stile di vita sedentario - Fibrinogeno aumentato - Gruppo ad alto rischio socioeconomico - Gruppo ad alto rischio etnico - Abitanti di regioni geografiche ad alto rischio • insufficienza renale (creatinina >2,0 mg/dL) - Vasculopatie • aneurisma dissecante • arteriopatia sintomatica - Retinopatia ipertensiva avanzata • emorragia o essudati • papilledema 157 GIDM Forum 20, 143-170, 2000 l’obesità, sono comunque sfavorevoli sulla storia naturale dell’ipertensione arteriosa. Il diabete è considerato alla stregua della coesistenza di 3 o più fattori di rischio nel condizionare il rischio cardiovascolare indotto dai diversi gradi di ipertensione arteriosa. In altri termini, come risulta dalla tabella III, la presenza di diabete determina sempre e comunque un rischio elevato o molto elevato secondario ai diversi gradi di ipertensione arteriosa. In presenza di ipertensione arteriosa lieve, che in assenza di altri fattori di rischio, si accompagna a un basso rischio aterogeno, il diabete è in grado di moltiplicare tale rischio rendendolo di grado elevato o molto elevato. D’altra parte è stato dimostrato che, in presenza di valori pressori anche solo modestamente elevati, la coesistenza di diabete moltiplica di 3-4 volte il rischio cardiovascolare (3). È possibile che valori pressori ritenuti normali per la popolazione non diabetica siano già in grado nella popolazione diabetica di svolgere un ruolo favorente, a lungo termine, la compromissione cardiovascolare. Il rischio cardiovascolare lieve secondo lo studio di Framingham corrisponde a un’incidenza di eventi cardiovascolari in 10 anni inferiore al 15%, il rischio medio a un’incidenza tra il 15 e il 20%, il rischio elevato a un’incidenza del 20-30% e, infine, quello molto elevato a più del 30% di eventi cardiovascolari nel corso del successivo decennio. L’entità del rischio attribuito alla popolazione diabetica-ipertesa ha modificato i valori pressori soglia per l’intervento terapeutico. Nella popolazione generale i numerosi studi epidemiologici randomizzati hanno indicato la soglia di valori tensivi sistolici di 160 mmHg per l’assoluta indicazione all’intervento terapeutico. Tra 140 e 160 mmHg, che corrisponde alla cosiddetta ipertensione lieve o “borderline”, non esiste una chiara evidenza per rendere d’obbligo il trattamento farmacologico. Solo nella popolazione diabetica si giustifica una soglia sistolica di intervento di 140 mmHg sulla base della maggiore suscettibilità dimostrata nel diabetico al “rischio ipertensivo”. Ciò risulta nelle raccomandazioni del “US Joint National Committee VI Guidelines” e più recentemente nel “World Health Organization/International Society of Hypertension Guidelines”. Questa soglia di intervento più bassa, applicabile alla popolazione diabetica, è dovuta alla più elevata vulnerabilità al fattore ipertensivo quando coesiste il diabete (4). Ciò è valido non solo in relazione all’incidenza di infarto del miocardio o di ictus cerebrale, ma anche alla storia naturale della microangiopatia diabetica. Per la prevenzione primaria e secondaria della TAB. III. Stratificazione del rischio per quantificare la prognosi (Guidelines WHO for Management of Hypertension 1999) Pressione arteriosa (mmHg) Altri fattori di rischio e storia clinica Grado 1 (ipertensione lieve) PAS 140-159 o PAD 90-99 Grado 2 (ipertensione moderata) PAS 160-179 o PAD 100-109 Grado 3 (ipertensione grave) PAS ≥ 180 o PAD ≥ 110 I Nessun altro fattore di rischio Rischio basso Rischio medio Rischio elevato II 1-2 fattori di rischio Rischio medio Rischio medio Rischio molto elevato III 3 o più fattori di rischio o danno d’organo o diabete Rischio elevato Rischio elevato Rischio molto elevato IV Patologie associate Rischio molto elevao Rischio molto elevato Rischio molto elevato PAS = pressione arteriosa sistolica; PAD = pressione arteriosa diastolica retinopatia e della nefropatia diabetica sono state proposte soglie di intervento inferiori a 140 mmHg che si possono identificare in 130 mmHg specie nei pazienti con diabete di tipo 1. La soglia diastolica per l’intervento è meno dibattuta, anche se vi è un generale consenso favorevole a valori di 90 mmHg. Adottando questo criterio di soglia di 140/90 mmHg, ben pochi diabetici potranno essere considerati normotesi e il 70% dei diabetici di tipo 2 dovrebbero essere sottoposti a terapia antipertensiva. La scelta di questa soglia più bassa per l’intervento farmacologico nel diabetico è supportata dai recenti risultati di studi fondamentali di trattamento farmacologico: l’HOT Study, il CAPP Study, il Systeur Study, l’UKPDS Study e il Micro-Hope Study, che hanno dimostrato che, se nella popolazione diabetica si raggiungono valori di pressione sistolica inferiori a 140 mmHg e valori di pressione diastolica inferiori a 90-85 mmHg, è possibile ridurre ulteriormente il rischio cardiovascolare, risultato che non era possibile ottenere nella popolazione non diabetica. Un’analoga osservazione era stata fatta per i valori di colesterolo totale e LDL, la cui soglia di intervento terapeutico nei diabetici è stata ipotizzata più bassa rispetto alla popolazione non diabetica. Tale atteggiamento più aggressivo nei confronti del 158 GIDM Forum 20, 143-170, 2000 diabetico-iperteso è oggi ampiamente convalidato e deve divenire una regola per il diabetologo e per il medico generale; proprio l’intervento terapeutico antipertensivo più precoce e più rigido ha permesso una significativa riduzione delle complicanze micro e macrovascolari (5). Bibliografia 1. Joint National Committee on Prevention, Detection, Evaluation and Treatment of high blood pressure and the National High Blood Pressure Education Program Coordinating Committee (Sixth Report). Arch Intern Med 157, 2413-2446, 1997 2. 1999 World Health Organization/International Society of Hypertension. Guidelines for the management of hypertension. J Hypertens 17, 151-183, 199 3. Mac Mahon S, Peto R, Cutler S, Collins R, Sorlie P, Neaton J: Blood pressure, stroke and coronary heart disease. Part 1. Prolonged differences in blood pressure: prospective observational studies corrected for the regression dilution bias. Lancet 335, 765-774, 1990 4. Williams B: Treating hypertension in type 2 diabetes: an evidence base at last. Acta Diabetol 36, 504-510, 1999 5. American Diabetes Association: Clinical Practices Recommendations 2000. Diabetes Care 23 (suppl 1), 539, 2000 QUALI VALORI DI PRESSIONE DEVONO ESSERE RAGGIUNTI E MANTENUTI CON LA TERAPIA ANTIPERTENSIVA? D. GIUGLIANO Dipartimento di Geriatria e Malattie del Metabolismo, II Università di Napoli È opinione comune e ben consolidata che il rischio cardiovascolare nel soggetto diabetico sia molto più elevato di quello presente nella popolazione generale. Il fatto che tre diabetici di tipo 2 su quattro soccombano per morte cardiovascolare contribuisce alla diffusione sempre più larga di quest’evidenza. Il declino della mortalità cardiovascolare ottenuto in anni recenti nelle civiltà occidentali sembra non aver interessato il soggetto diabetico, o averlo coinvolto solo in minima parte (1). La donna diabetica rimane ancora l’attore di questo dramma, poiché nel sesso femminile si è avuto addirittura un aumento della morte cardiovascolare. Le ragioni di questa discrepanza non sono state ancora chiarite, ma c’è il 159 sospetto che possa essere dipeso da un diverso approccio nella gestione del rischio globale del paziente diabetico. La trama che sottende queste considerazioni, per quanto razionale e condivisibile, non appartiene alla nostra area geografica, essendo i dati importati da altri Paesi di cultura occidentale, principalmente dagli Stati Uniti d’America. Ci sono fondati motivi di ritenere che l’impatto dei vari fattori di rischio, ipertensione compresa, possa risentire delle coordinate geografiche di appartenenza della popolazione in esame. I dati recenti dello studio dei sette Paesi dimostrano che i popoli che gravitano nel bacino del Mediterraneo meridionale risentono meno dei danni cardiovascolari imputabili all’ipertensione, rispetto alle popolazioni dell’Europa continentale o degli Stati Uniti (2). Un altro convincimento che si sta facendo strada prepotentemente nel bagaglio culturale del medico attento ai problemi di prevenzione cardiovascolare è quello che il rischio di morte cardiovascolare nei pazienti con diabete tipo 2 è molto simile a quello espresso da pazienti non diabetici che abbiano già manifestato un infarto del miocardio (20% di incidenza in 7 anni) (3). Per quanto condivisibile sul piano concettuale, perché permetterebbe di considerare il soggetto diabetico sempre in stato di prevenzione secondaria, un simile convincimento eluderebbe a priori la stratificazione del rischio globale nel paziente diabetico. Nello studio HOPE (4), per esempio, l’incidenza di eventi cardiovascolari nei 3577 diabetici studiati era del 4,4% per anno, superiore al rischio del 3,7% per anno dimostrato dai 5720 soggetti non diabetici che già avevano sperimentato un evento. L’analisi dei dati ha fatto però emergere che il rischio più elevato nei diabetici era appannaggio di quelli con malattia cardiovascolare già nota (rischio del 5,3%) oppure di quelli con microalbuminuria (rischio del 6,4%), riducendosi il rischio al 2,2% per anno nei diabetici senza eventi noti. Questi dati, ottenuti in un’ampia popolazione di soggetti diabetici, dimostrano che può essere fuorviante operare delle estrapolazioni basandosi sui dati di un singolo studio. La validità della stratificazione del rischio sembra opportuna anche nel paziente diabetico. In tale ottica, la presenza di microalbuminuria in un paziente diabetico di tipo 2 consentirà di considerarlo come un soggetto particolarmente degno di attenzione terapeutica. Scopo della terapia Lo scopo di abbassare la pressione arteriosa in ogni paziente con ipertensione è di ridurre la mortalità e la GIDM Forum 20, 143-170, 2000 morbilità cardiovascolare. Nei pazienti con diabete vi è anche il potenziale beneficio aggiuntivo di ridurre l’incidenza di complicanze microvascolari (retinopatia e nefropatia). Non esiste uno studio clinico randomizzato, controllato con placebo, sull’effetto del trattamento dell’ipertensione nel paziente diabetico. Le informazioni in nostro possesso sui benefici del trattamento antipertensivo nel paziente diabetico derivano dall’analisi di sottogruppi di pazienti inseriti in studi più ampi di popolazione, oppure da studi di confronto tra farmaci. La tabella I elenca una serie di studi recentemente conclusi. Alcuni hanno comportato il confronto con placebo (SHEP, Syst-EUR), altri hanno confrontato farmaci o categorie di farmaci (UKPDS, CAPPP, STOP2, ALLHAT), altri infine hanno confrontato differenti livelli di pressione diastolica (HOT). La maggior parte di questi studi ha comportato un’analisi cosiddetta “post-hoc” (di sottogruppi); solo l’UKPDS prevedeva un’analisi che concordava con lo scopo dello studio. Lo studio HOPE non è stato uno studio d’intervento, bensì di prevenzione farmacologica in soggetti non ipertesi. Sia pur con le limitazioni sopraindicate, l’insieme dell’evidenza scaturita da questi studi sembra aver convinto molti medici e società scientifiche che il controllo più attento e, per usare un aggettivo di moda, aggressivo della pressione arteriosa nell’iperteso diabetico dia molti più frutti in termini di prevenzione delle complicanze cardiovascolari. In concreto, ciò significa che dobbiamo trattare la pressione arteriosa con più vigore e forza nel paziente diabeti- TAB. I. Sommario di alcuni importanti studi di intervento sulla pressione arteriosa in soggetti diabetici Follow-up (anni) Numerosità Analisi • SHEP (1996) 4,5 4732 (583) post-hoc • HOT (1998) 4,0 18.790 (1501) post-hoc • UKPDS (1998) 8,4 1148 primaria • Syst-EUR (1999) 2,0 4695 (492) post-hoc • CAPPP (1999) 6,1 10.985 (572) post-hoc • STOP-2 (1999) 5 6614 (719) post-hoc • HOPE (2000) 4,5 3577 primaria • ALLHAT (2000) 3,3 24.335 (8662) post-hoc Studio co, in modo da ottenere livelli più bassi di quelli che sono attualmente indicati come desiderabili per la popolazione non diabetica. Obiettivo pressorio Sulla base delle evidenze emerse dagli studi clinici, gli obiettivi che devono essere raggiunti con la terapia antipertensiva nel paziente diabetico e iperteso sono stati già indicati da alcune importanti società scientifiche nel corso dello scorso anno (1999). In particolare, l’American Diabetes Association, l’American Heart Association e l’OMS concordano su un obiettivo pressorio di 130/85 mmHg. È molto verosimile che questi obiettivi saranno sponsorizzati da altre società scientifiche, in un’ottica di messaggi coerenti e semplici da suggerire al medico per migliorare il destino cardiovascolare del paziente diabetico. È interessante la concordanza sull’obiettivo 130 mmHg per la pressione sistolica: nello studio UKPDS, la riduzione di 10 mmHg della pressione sistolica si associa con la riduzione del 12% di tutti gli eventi considerati, del 13% del rischio d’infarto e di ictus. Poiché il rischio di eventi cardiovascolari si correla in modo lineare con la pressione arteriosa, senza una soglia, rimane ancora senza risposta la domanda: quanto in basso possiamo spingerci? Realisticamente dovrebbe esserci un livello di pressione oltre il quale non sarebbe opportuno spingersi, soprattutto nelle persone anziane, ma l’evidenza dice che questo livello non è stato ancora trovato. I dati dello studio HOT hanno avuto una pesante influenza sull’obiettivo espresso per la pressione diastolica: con una pressione di 144/81 mm Hg ottenuta, l’incidenza di complicanze cardiovascolari nei pazienti diabetici è risultata minore rispetto al gruppo in cui il livello pressorio raggiunto era un poco più alto (148/85 mmHg), con una chiara e sostanziale differenza per valori di diastolica inferiori o uguali a 80 mmHg. Esiste una stretta concordanza con i valori pressori ottenuti nel braccio intensivo dell’UKPDS, dove questo gruppo aveva un livello di pressione di 144/82 mmHg, rispetto ai 154/87 mmHg del gruppo trattato meno intensivamente. Poiché in nessuno studio è stato possibile ottenere un livello stabile di pressione sistolica uguale o inferiore a 130 mmHg, è lecito supporre che l’obiettivo indicato per la sistolica rappresenti più un’estrapolazione a posteriori, oltre che un augurio di successo dell’intervento terapeutico, piuttosto che un valore adeguatamente sperimentato. Probabilmente ha giocato anche un ruolo l’evidenza che l’abbassamento della pressione di polso (sistolica meno diastolica) deve 160 GIDM Forum 20, 143-170, 2000 essere un obiettivo da non sottovalutare nella riduzione del rischio cardiovascolare nel paziente iperteso, in particolare l’anziano, sia esso diabetico o meno (5). nel paziente diabetico sono più bassi di quelli desiderabili nel soggetto non diabetico: un obiettivo di 130140 mmHg per la sistolica e di 80 mmHg per la diastolica sembra realistico e deve essere perseguito”. Controllo dell’ipertensione vs controllo dell’iperglicemia In tema di messaggi che circolano, è stato fatto notare peraltro che la riduzione intensiva della pressione arteriosa nel paziente diabetico iperteso è più efficace, in termini di salute guadagnata, rispetto al trattamento intensivo della glicemia. Questa affermazione è apparentemente razionale, trovando conferma nei dati dello studio UKPDS; tuttavia è probabilmente erroneo incentrare il problema in questi termini, come a voler cercare un’eguaglianza, in termini di beneficio per la salute cardiovascolare, tra la riduzione di una data quantità di millimetri di mercurio della pressione e di emoglobina glicata. Rimane la constatazione che la terapia ipoglicemizzante è gravata da molti fallimenti, superiori a quelli che si riscontrano nell’ipertensione arteriosa, e che la soglia glicemica, superata la quale comincia a emergere il rischio, è probabilmente più bassa per la malattia cardiovascolare (110 mg/dL). Appare giustificata la preoccupazione che questa dicotomia di priorità d’intervento possa far passare in secondo piano l’approccio globale al paziente diabetico che prevede un intervento sul rischio cardiovascolare totale. Sempre nello studio UKPDS è stato dimostrato che il rischio di ogni evento aumenta di 5-6 volte per valori di emoglobina glicata >8% e per valori di pressione sistolica >150 mmHg presenti contemporaneamente. Questo verosimilmente significa la necessità di due o tre farmaci antipertensivi, una terapia ipolipidemizzante, e l’uso di aspirina, aggiunti alla migliore terapia possibile per il controllo della glicemia. Sono caldamente attesi i commenti degli economisti sanitari circa l’efficacia, in termini di investimenti di risorse, di questi interventi. Allo stato attuale, abbiamo già la consapevolezza del numero dei pazienti da trattare per evitare una complicanza in un periodo di cinque anni (tabella II). TAB. II. Numero di pazienti da trattare negli studi presi in esame per evitare una complicanza in 5 anni UKPDS Eventi correlati al diabete 12,2 HOT Eventi cardiovascolari maggiori 16,0 HOPE Eventi cardiovascolari maggiori 13,5 Syst-EUR Eventi cardiovascolari maggiori 5,6 Bibliografia 1. Gu K, Cowie CC, Harris ML. Diabetes and decline in heart disease mortality in US adults. JAMA 281, 12911297, 1999 2. Haffner SM, Letho S, Roumlnnema A et al: Mortality from coronary heart disease in subjects with type 2 diabetes and in nondiabetic subjects with and without prior myocardial infarction. N Engl J Med 339, 229-234, 1998 3. Van den Hoogen PGW, Feskens EJM, Nagelkerke NJD et al, for the Seven Countries Study Research Group: The relation between blood pressure and mortality due to coronary heart disease among men in different part of the world. N Engl J Med 342, 1-8, 2000 4. The Heart Outcomes Prevention Evaluation (HOPE) Study Investigators: Effects of ramipril on cardiovascular and microvascular outcomes in people with diabetes mellitus: results of the HOPE study and micro-HOPE substudy. Lancet 355, 253-259, 2000 5. Blacher J, Staessen JA, Girerd X et al: Pulse pressure not mean pressure determines cardiovascular risk in older hypertensive patients. Arch Intern Med 160, 10851089, 2000 QUALI SONO I FARMACI Ridurre la pressione è efficace La riduzione della pressione arteriosa nel paziente diabetico è efficace nel diminuire la morbilità e la mortalità cardiovascolare. Per quanto concerne la domanda che ha costituito l’oggetto di questo intervento, l’autore conclude con quanto segue. “I livelli di pressione arteriosa cui bisogna tendere 161 ANTIPERTENSIVI PREFERIBILI NEL PAZIENTE DIABETICO? G. MANCIA, G. GRASSI Clinica Medica, Dipartimento di Medicina Clinica - Prevenzione e Biotecnologie Sanitarie, Università di Milano Bicocca, Ospedale San Gerardo di Monza, Milano GIDM Forum 20, 143-170, 2000 Per affrontare adeguatamente il quesito di quali farmaci devono essere usati nel paziente iperteso è necessario trattare i seguenti aspetti del problema. È utile ridurre la pressione arteriosa del diabetico con pressione elevata, qualunque sia la terapia farmacologica adottata? Quali sono i valori di pressione che si deve cercare di raggiungere? Vi sono in tal senso farmaci e strategie terapeutiche preferibili rispetto ad altre? E infine, possono eventuali differenze o somiglianze di efficacia antipertensiva e protezione cardiovascolare tra i diversi farmaci essere stabilite con certezza sulla base degli studi correnti, che per ovvie ragioni tecniche sono limitati a pochi anni della vita del paziente? Utilità della riduzione della pressione arteriosa nel diabetico iperteso Non vi è alcun dubbio che nel paziente diabetico e iperteso una riduzione della pressione arteriosa abbia un effetto protettivo, qualunque sia il farmaco o i farmaci impiegati per ottenerla. Ciò si può evincere dai risultati dello studio SHEP (1), nel quale pazienti diabetici e non con ipertensione sistolica isolata mostravano una chiara riduzione di mortalità cardiovascolare quando la pressione veniva ridotta con l’impiego di un diuretico tiazidico, eventualmente associato a un β-bloccante. Si può inoltre evincere dai risultati di altri studi che hanno dimostrato come una altrettanto chiara riduzione di patologia cardiovascolare si ottenesse in pazienti ipertesi sistolici o sisto-diastolici con terapie basate sull’impiego di calcio-antagonisti (2) o di ACE-inibitori (3). Ottenere una riduzione di pressione arteriosa nel paziente nel quale l’ipertensione si accompagna a diabete è pertanto necessario, perché il beneficio è in prima istanza verosimilmente legato alla riduzione della pressione in sé. Ciò viene perseguito con misure antipertensive di carattere non farmacologico, che nel diabetico possono avere importanza particolare anche ai fini di contribuire all’attenuazione dell’elevato profilo di rischio cardiovascolare. Va però di solito anche perseguito con l’impiego di farmaci antipertensivi, inclusi, se necessario, diuretici e β-bloccanti. Il raggiungimento di tale obiettivo riveste una grande importanza anche perché l’entità del beneficio nei pochi anni successivi all’inizio della terapia è in genere correlata al rischio iniziale del paziente ed è quindi maggiore nel paziente diabetico che nel non diabetico. Ciò è stato messo in luce in modo assai evidente dallo studio Syst-EUR su pazienti anziani con ipertensione sistolica che mostravano, quando diabetici, una riduzione del rischio a seguito della riduzione della pressione più che doppia rispetto ai non diabetici (2). Pressione arteriosa da raggiungere con la terapia Poiché la pressione da raggiungere con la terapia non può essere determinata all’inizio, i valori di sistolica e diastolica che definiscono la massima protezione del paziente ottenibile con i farmaci antipertensivi non è stata stabilita con precisione. È invece ormai acquisito che nel diabetico iperteso una drastica riduzione della pressione arteriosa sotto i 90 mmHg di diastolica si accompagna non solo a una maggiore protezione renale (nel caso di concomitante nefropatia), ma anche a un netto ulteriore beneficio in termini di patologia macro e micro-vascolare (4, 5). In questo senso è preferibile raccomandare come obiettivo valori diastolici il più vicino possibile a 80 mmHg e valori sistolici inferiori a 140 o anche 130 mmHg (6). Anche una ulteriore riduzione di 3-4 mmHg di pressione diastolica andrà perseguita con tenacia, perché nei pazienti diabetici ipertesi, e forse negli ipertesi ad alto rischio, tale piccola differenza di valori pressori può accompagnarsi a una cospicua differenza di morbilità e mortalità. Ciò è particolarmente desumibile dai risultati dello studio HOT, nel quale il raggiungimento di pressione diastolica di 81 mmHg si accompagnava, nel diabetico iperteso, a una riduzione di eventi patologici cardiovascolari del 50% rispetto al raggiungimento di pressioni diastoliche di 85 mmHg. È anche desumibile dallo studio HOPE (7), nel quale i pazienti diabetici mostravano una netta riduzione di patologia cardiovascolare per piccolissime riduzioni, di pressione diastolica o sistolica, e ciò anche quando i valori pressori di partenza erano nettamente inferiori a 140/90 mmHg. Diversità tra farmaci antipertensivi Come ricordato din precedenza, tutti i farmaci con dimostrata efficacia antipertensiva possono essere impiegati nel paziente diabetico, considerato che l’obiettivo primario è una cospicua riduzione della pressione arteriosa. I “trial” con disegno sperimentale controllato fino ad ora disponibili non hanno chiarito se, rispetto ai farmaci più tradizionali come diuretici e β-bloccanti, classi di farmaci più nuovi, se pur da anni di largo impiego, sono più protettivi. Da un lato infatti lo studio CAPPP (3) ha mostrato una riduzione di 162 GIDM Forum 20, 143-170, 2000 mortalità cardiovascolare nei pazienti diabetici trattati con ACE-inibitore rispetto a quelli trattati con terapia tradizionale. Ciò non è risultato essere vero nello studio UKPDS (8) e nel recente studio INSIGHT (9) nel quale il numero di eventi patologici cardiovascolari risultò non significativamente diverso in terapia con un ace-inibitore o con un calcio-antagonista, rispetto alla terapia β-bloccante o diuretica, rispettivamente. Dati conclusivi non sono neppure disponibili a riguardo di una eventuale differenza tra le capacità protettive di calcio-antagonisti e ACE-inibitori. Lo studio FACET, che ha concluso a favore dei secondi, può essere infatti criticato sotto vari aspetti (10). Inoltre l’analoga conclusione raggiunta per i diabetici ipertesi reclutati nello studio ABCD si è rivelata essere influenzata in modo decisivo da una frequenza di complicanze notevolmente ridotta nel gruppo in terapia con ACE-inibitori (11) e non è stata di recente confermata dai dati calcolati per i pazienti diabetici normotesi (12). Si deve pertanto concludere che la protezione cardiovascolare ottenibile nel diabetico iperteso nei primi anni successivi all’inizio della terapia antipertensiva non è sostanzialmente diversa per i diversi farmaci. Protezione a lungo termine Il fatto che i trial sino ad ora eseguiti non abbiano mostrato differenze di incidenza di eventi patologici cardiovascolari con l’impiego di diverse classi di farmaci non consente di affermare in modo conclusivo che tali differenze non esistano. Bisogna in primo luogo considerare che in alcuni casi gli studi non avevano la potenza necessaria per dimostrare statisticamente eventuali differenze (8), problema verosimilmente destinato a soluzione con l’uso meta-analitico dei dati ottenuti dai trial in corso, per un totale di oltre 30.000 pazienti diabetici (13). Vi è inoltre anche da considerare che i trial disponibili attualmente o nel prossimo futuro non saranno in grado di rispondere al quesito delle eventuali differenze di protezione cardiovascolare sul lungo termine, protezione che riflette più completamente di quella misurabile nell’arco di pochi anni l’efficacia preventiva dei diversi interventi terapeutici. Tale efficacia si manifesta soprattutto attraverso la prevenzione dell’insorgenza o dell’aggravamento di altri fattori di rischio cardiovascolare associati a ipertensione e diabete nonché, e in misura forse ancora più importante, alla prevenzione del danno d’organo che progredisce silenziosamente per anni prima di emergere con complicanze cliniche. Sarà importante per la ricerca futura in questo campo otte- nere informazioni sempre più complete sulla analoga o diversa capacità dei diversi farmaci antipertensivi di prevenire lesioni strutturali cardiache e rimodellamento e aterosclerosi vascolari, nonché di ottenere dati conclusivi sul loro effetto favorevole sul profilo glicemico, onde estendere i dati sulla prevenzione nel diabetico iperteso a una finestra temporale più adeguata. In questo contesto i risultati di alcuni trial (4, 9) che dimostrano come la terapia con calcioantagonisti e ACE-inibitori si accompagni a una minor incidenza di nuovi casi di diabete rispetto alla terapia convenzionale, possono essere clinicamente importanti. Bibliografia 1. SHEP Cooperative Research Group: Prevention of stroke by hypertensive drug treatment in older persons with isolated systolic hypertension. JAMA 265, 3255324, 1991 2. Toumilehto J, Rastenyte D, Birkenhager WH et al: Effects of calcium-channel blockade in older patients with diabetes and systolic hypertension: Systolic Hypertension in Europe Trial Investigators. N Engl J Med 340, 677-684, 1999 3. Hansson L, Lindholm LH, Niskanen L et al, for the CAPPP Study Group. Principal results of the Captopril Prevention Project (CAPPP). Lancet 353, 611-616, 1999 4. Hansson L., Zanchetti A, Carruthers SG, et al, for the HOT Study Group: Effects of intensive blood pressure lowering and low-dose aspririn in patients with hypertension: principal results of the Hypertension Optimal Treatment (HOT) randomised trial. Lancet 351, 17551762, 1998 5. UK Prospective Diabetes Study Group: Tight blood pressure control and risk of macrovascular and microvascular complications in type 2 diabetes: UKPDS 38. Br Med J 317, 703-713, 1998 6. Guidelines Subcommittee. 1999 World Health Organization/International Society of Hypertension Guidelines of the management of hypertension. J Hypertens 17, 151-83, 1999 7. The HOPE Study investigators: Effects of ramipril on cardiovascular and microvascular outcomes in people with diabetes mellitus: results of the Hope study and MICRO-HOPE substudy. Lancet 355, 253-59, 2000 8. UK Prospective Diabetes Study Group: Efficacy of atenolol and captopril in reducing risk of macrovascular and microvascular complications in type 2 diabetes: UKPDS 39. Br Med J 317, 713-20, 1998 9. Brown MJ, Palmer CR, Castaigne A et al: Morbidity and mortality in 6321 patients randomized to double blind treatment with once-a-daily calcium channel blocker or diuretic in the International Nifedipine GITS Study. Lancet 2000; in pubblicazione 163 GIDM Forum 20, 143-170, 2000 10. Tatti P, Pahor M, Byington RP: Outcome results of the fosinopril versus amlodipine cardiovascular events randomised trial (FACET) in patients with hypertension and NIDDM. Diab Care 21, 597-603, 1998 11. Estacio RO, Jeffers BW, Hiatt WR et al. The effects of nisoldipine as compared with enalapril on cardiovascular outcomes in patients with non-insulin-dependent diabetes and hypertension. N Engl J Med 338, 645-52, 1998 12. Gress TW, Nieto FJ, Shahar E, Wofford MR, Brancati FL: Hypertension and Antihypertensive Therapy as Risk Factors for Type 2 Diabetes Mellitus. N Engl J Med 342, 905-912, 2000 13. World Health Organization-International Society of Hypertension Blood Pressure Lowering Treatment Trialists’ Collaboration: Protocol for prospective collaborative overviews of major randomized trials of blood pressure lowering treatments. J Hypertens 16, 127-137, 1998 L’ASSOCIAZIONE DEI FARMACI È NECESSARIA IN MOLTI CASI? VI SONO ALCUNE ASSOCIAZIONI PIÙ INDICATE? B. TRIMARCO Dipartimento di Medicina Clinica e Scienze Cardiovascolari e Immunologiche, Università “Federico II”, Napoli Le linee guida per il trattamento dell’ipertensione arteriosa emanate nel 1993 dalla Società Internazionale dell’Ipertensione e dall’Organizzazione Mondiale della Sanità a proposito del trattamento farmacologico dell’ipertensione arteriosa indicano due possibili strategie: la somministrazione di un’unica sostanza a dosaggio pieno o, in alternativa, l’impiego di due sostanze a dosaggio ridotto. Questo secondo approccio trova verosimilmente la sua principale giustificazione nel tentativo di ridurre la probabilità d’insorgenza di effetti collaterali; tuttavia esistono alcune considerazioni che possono costituire ulteriori elementi di supporto alla terapia di associazione, anche nel caso fossero necessari dosaggi completi dei due farmaci. È stato infatti descritto in studi comprendenti popolazioni diverse che non più del 20% dei pazienti ipertesi sottoposti a terapia antipertensiva mostra un controllo soddisfacente della pressione arteriosa, vale a dire esibisce valori di pressione arteriosa inferiori a quelli ritenuti patologici (1). Un’analisi più approfondita di questi dati consente di rilevare che in una percentuale non secondaria di questi pazienti il cattivo controllo dei valori pressori sembra ascrivibile a una scarsa compliance del paziente alla terapia, mentre in molti altri casi esso è dovuto alla solo parziale efficacia del trattamento instaurato. D’altra parte, per quel che riguarda la compliance, è ben noto che l’aderenza del paziente alla terapia si riduce progressivamente aumentando in numero giornaliero delle compresse da assumere (2). È evidente che, se la questione viene posta in questi termini, essa sembra irrisolvibile in quanto la soluzione di uno dei problemi posti porterebbe inevitabilmente a peggiorare l’altro. Tuttavia la possibilità di avere più principi attivi in un’unica compressa può rappresentare in questo contesto il caratteristico uovo di Colombo. Peraltro questa scelta terapeutica non è completamente scevra di rischi, se non vengono utilizzate determinate cautele. Infatti, è evidente che la somministrazione contemporanea di due farmaci, con meccanismo d’azione simile comporterà un minor vantaggio per l’effetto antipertensivo e maggiori rischi per gli effetti collaterali. Al contrario, l’impiego simultaneo di farmaci il cui effetto antipertensivo si realizza mediante differenti meccanismi di azione, risulta particolarmente utile perché consente un completo sinergismo dei due composti. Anche in questo caso però non va considerato soltanto l’effetto di riduzione della pressione arteriosa, ma anche quelli di prevenzione o regressione del danno d’organo. Efficacia antipertensiva I risultati degli studi epidemiologici e dei trial clinici hanno evidenziato una stretta correlazione tra ipertensione arteriosa ed eventi cardio- e cerebrovascolari. A tal proposito una metanalisi (3) condotta sui risultati di nove dei maggiori studi prospettici osservazionali comprendenti 420.000 soggetti con anamnesi negativa per patologie cardiovascolari maggiori al momento dell’arruolamento e seguiti per un periodo medio di 10 anni mostra un’associazione continua e indipendente tra i valori di pressione arteriosa e il rischio di accidenti cerebrali o di cardiopatia ischemica. In particolare un aumento della pressione arteriosa diastolica di 5 o 10 mmHg è associata a un incremento del rischio cardiovascolare del 21 o del 37% rispettivamente. Dal momento che l’obiettivo del trattamento antipertensivo è quello di ridurre l’eccedenza di eventi cardio- e cerebrovascolari associati alla presenza di valori pressori al di sopra della norma, è evidente che, per raggiungere un tale obiettivo, è necessaria una completa normalizzazione della pressione arteriosa. A questo proposito è opportuno ricordare l’osservazione pubblicata da Menard (4) su 11.613 pazienti in 164 GIDM Forum 20, 143-170, 2000 trattamento antipertensivo reclutati in Italia, Spagna, Inghilterra e Germania. Soltanto il 37% dei pazienti mostrava valori di pressione diastolica contenuti entro il limite fissato dal medico curante. D’altra parte questo risultato sorprende solo parzialmente quando si considera che in studi clinici controllati il trattamento antipertensivo con un solo farmaco è risultato efficace in una percentuale di pazienti compreso tra il 60% dei calcio-antagonisti e il 45% dei diuretici, bloccanti del recettore α-adrenergico e inibitori dell’enzima di conversione. Né questo risultato sembra migliorabile con la disponibilità attuale dei farmaci antagonisti recettoriali dell’angiotensina II. È evidente tuttavia la necessità di potenziare la terapia antipertensiva così da ottenere una reale normalizzazione dei livelli pressori. Questo obiettivo sembra raggiungibile con l’impiego di associazioni farmacologiche. Infatti, da una parte, gli studi che hanno raffrontato l’effetto antipertensivo dei singoli componenti con quello della terapia di combinazione hanno concordemente dimostrato che quest’ultima è in grado di indurre una caduta della pressione superiore a quella ottenibile con la monoterapia (5); dall’altra, è noto che la percentuale dei pazienti che non mostra una riduzione della pressione diastolica al di sotto dei 90 mmHg durante terapia antipertensiva di combinazione oscilla intorno all’80%. Prevenzione e regressione del danno d’organo La riduzione della mortalità e della morbilità collegata all’ipertensione arteriosa richiede anche un programma terapeutico volto prevalentemente a contrastare i meccanismi biologici, non dipendenti dalla pressione arteriosa, coinvolti nella insorgenza e nella progressione delle alterazioni strutturali cardiovascolari nei pazienti ipertesi. Ad esempio, va considerato che gli effetti metabolici e neuro-ormonali indesiderati (iperglicemia, ipercolesterolemia, ipopotassiemia, iperuricemia, attivazione del sistema reninaangiotensina-aldosterone) indotti dai β-bloccanti e dai diuretici possono spiegare la solo parziale efficacia di questi farmaci di prevenire lo sviluppo della cardiopatia ischemica negli ipertesi, nonostante la loro provata efficacia antipertensiva. Attualmente l’associazione dei diuretici con i β-bloccanti può essere accettata dal momento che i β-bloccanti riducono l’attivazione del sistema renina-angiotensina indotta dalla deplezione di sale causata dai diuretici. L’associazione dei diuretici con gli ACE-inibitori è comunque preferibile, poiché gli ACE-inibitori non solo annullano l’effetto negativo dei diuretici sul sistema renina-angiotensina, ma esercitano anche un’azione favorevole sul metabolismo glicidico e soprattutto sul bilancio elettrolitico, contrastando così gli effetti metabolici negativi dei diuretici. Un’altra associazione da considerare è quella tra calcio-antagonisti e ACE-inibitori. Questa associazione farmacologica ha il vantaggio di possedere un effetto antipertensivo sinergico mediato da una vasodilatazione periferica indotta attraverso differenti vie, e di non interferire negativamente con il metabolismo glicidico e lipidico. In particolare la terapia antipertensiva di combinazione mediante l’effetto sinergico di farmaci appartenenti a queste due diverse classi sembra offrire grandi vantaggi, rispetto alla monoterapia, nei pazienti ipertesi con cardiopatia ischemica, in cui la somministrazione contemporanea di ACE-inibitori e di calcio-antagonisti appare particolarmente efficace. L’effetto antiproliferativo degli ACE-inibitori sulla parete miocardica e vascolare, i loro effetti emodinamici, l’azione antiaterogena, la modulazione neuroormonale possono spiegare la capacità di questa classe di farmaci di ridurre il rischio di eventi correlati alla cardiopatia ischemica. Tuttavia, sebbene ci si possa attendere dagli ACE-inibitori, oltre a una riduzione della pressione arteriosa, un incremento del flusso coronarico, una riduzione della pressione di riempimento ventricolare e dell’attività simpatica, non è stato ancora ben dimostrato un effetto antischemico di tali farmaci. Al contrario i calcio-antagonisti si sono dimostrati in grado di esercitare un’attività vasodilatatrice a livello sistemico e soprattutto coronarico. Questo effetto, insieme a quello negativo sul consumo di ossigeno miocardico, li pone in primo piano come farmaci per il trattamento sintomatico della cardiopatia ischemica. ACE-inibitori e calcio-antagonisti esplicano effetti complementari anche a livello della parete vascolare (6): i primi, inibendo l’attività dell’ACE, bloccano la formazione di angiotensina II e prevengono la degradazione della bradichinina, la cui azione vasodilatante si esprime stimolando la formazione di ossido nitrico e di prostaciclina. In particolare essi sembrano in grado di correggere la disfunzione endoteliale tipica del paziente iperteso, ristabilendo una correlazione fisiologica tra variazioni del consumo d’ossigeno e del flusso coronarico durante attivazione simpatica (7). I calcio-antagonisti neutralizzano l’azione vasocostrittrice di ormoni quali l’endotelina a livello della muscolatura liscia vascolare, bloccando l’ingresso del calcio e facilitando l’azione vasodila- 165 GIDM Forum 20, 143-170, 2000 tante dell’ossido nitrico (8). Riducendo la proliferazione delle cellule muscolari lisce parietali, i calcioantagonisti esercitano inoltre un’azione vascolare protettiva prevenendo la formazione e lo sviluppo di placche aterosclerotiche (6). La complementarietà di azione di ACE-inibitori e calcio-antagonisti si esplica anche in termini di effetti nefroprotettivi. A livello renale ACE-inibitori e calcio-antagonisti contribuiscono alla riduzione della escrezione urinaria di albumina e alla diminuzione della pressione intraglomerulare, il cui incremento è responsabile del danno renale secondario a ipertensione arteriosa, diabete e aterosclerosi. Ancora una volta l’effetto dei due farmaci si esplica in maniera complementare: gli ACEinibitori riducono le resistenze a livello dell’arteriola efferente, mentre i calcio-antagonisti esercitano la loro azione vasodilatante sia a livello dell’arteriola afferente che di quella efferente (6). Una considerazione a parte merita l’associazione di ACE-inibitori e antagonisti AT1 dell'angiotensina II. L'uso combinato di queste due classi di farmaci potrebbe essere infatti particolarmente utile per la prevenzione della nefropatia, ma non ha un razionale tanto forte da poter essere considerato in prima istanza. Infatti, innanzitutto i lavori che hanno dimostrato che l’aggiunta di una di queste classi di farmaci alla terapia di pazienti già in trattamento con l’altra determina un’ulteriore riduzione della pressione arteriosa, non consentendo di escludere che un effetto analogo si sarebbe potuto ottenere anche con un aumento del farmaco già in corso. In secondo luogo esiste oggi una documentata possibilità che l’angiotensina II, che non può più legarsi ai recettori AT1 occupati dall’antagonista, possa indurre un aumento dell’espressione dei recettori AT2, ordinariamente poco espressi. Questi ultimi hanno effetti emodinamici e biochimici opposti a quelli dei recettori AT1, per cui è verosimile che l’aumento della loro presenza possa contribuire a potenziare gli effetti del blocco del recettore AT1, spiegando così la ragione della latenza necessaria per ottenere una risposta completa con gli AT1 antagonisti. La somministrazione contemporanea degli ACE-inibitori, riducendo la sintesi di angiotensina II, potrebbe determinare gli effetti mediati dalla stimolazione del recettore AT2. Infine, anche l’assunto che l’aggiunta degli ACE-inibitori alla terapia con AT1 bloccanti potrebbe assicurare il coinvolgimento della bradichinina nella risposta antipertensiva, non sembra del tutto corretto. È stato infatti dimostrato che la stimolazione del recettore AT2 dell’angiotensina è in grado di stimolare l’attività dell’enzima che controlla la sintesi di chinine e quindi anche durante il trattamento con anta- gonisti recettoriali dell’angiotensina si ha un aumento della concentrazione di bradichinina, per un aumento della sintesi invece che per un rallentamento del catabolismo, come accade con gli ACE-inibitori. Al contrario, la somministrazione combinata di queste due classi di farmaci potrebbe risultare utile nel trattamento dei pazienti con insufficienza cardiaca che, a differenza dei pazienti ipertesi, sono caratterizzati da un elevato tono del sistema reninaangiotensina-aldosterone e presentano il tipico “escape” del blocco dell’aldosterone da parte degli ACE-inibitori. Bibliografia 1. Materson BJ, Reda DJ, Cushman WC, Masie BM, Freis ED, Kochar MS: Single-drug therapy for hypertension in men. NEJM 328, 914-921, 1993 2. Frishman WH, Venkata S. Ram C, MacMahon FG, Chrysant SG, Graff A, Kupiec JW, Hsu H, for the Benazepril/Amlodipine Study Group: Comparison of amlodipine and benazepril monotherapy to amlodipine plus benazepril in patients with systemic hypertension: a randomized, double-blind, placebo-controlled, parallel group study. J Clin Pharmacol 35, 1060-1066, 1995 3. MacMahon S, Peto R, Cutler J et al: Blood pressure, stroke, and coronary heart disease. Part I. Effects of prolonged differences in blood pressure. Evidence from nine prospective observational studies corrected for the regression dilution bias. Lancet 335, 765-774, 1990 4. Menard J, Chatellier G: Integration of trial, meta-analysis and cohort results with treatment guidelines. J Hypertens 14 (2), S129-S133, 1996 5. Kannel WB, Dauenberg AL, Levy D: Population implications of electrocardiographic left ventricular hypertrophy. Am J Cardiol 60, 851-931, 1987 6. Lüscher TF, Wenzel RR, Moreau P, Takase H: Vascular protective effects of ACE inhibitors and calcium antagonists: theoretical basis for a combination therapy in hypertension and other cardiovascular disease. Cardiovascular Drugs Ther 9, 509-523, 1995 7. Antony I, Lerebours G, Nitenberg A: Angiotensin-converting enzyme inhibition restores flow-dependent and cold pressor test-induced dilations in coronary arteries of hypertensive patients. Circulation 94: 3115-3122, 1996 8. Kiowski W, Luscher TF, Linder L, Buhler FR: Endothelin1 induced vasoconstriction in man: reversal by calcium channel blockade but not by nitrovasodilators or ERDF. Circulation 83, 469-475, 1991 166 GIDM Forum 20, 143-170, 2000 LA PRESENZA DI NEFROPATIA DIABETICA PONE PROBLEMI PARTICOLARI PER LA TERAPIA ANTIPERTENSIVA? G. DEFERRARI, C. CALVI Nefrologia e Dialisi, Di.M.I, Università di Genova, Genova La nefropatia diabetica rappresenta una delle principali cause di insufficienza renale terminale (ESRD) nei Paesi occidentali e la sua incidenza è destinata ad aumentare cospicuamente. Durante gli ultimi anni più di un terzo di tutti i nuovi casi di ESRD in terapia sostitutiva negli Stati Uniti e il 17% in Europa sono rappresentati da pazienti diabetici (1); in Italia il 1219% dei nuovi pazienti in terapia sostitutiva è rappresentato da pazienti diabetici (2, 3). Circa la metà dei nuovi pazienti sono affetti da diabete di tipo 2 (4). La nefropatia diabetica non è solo causa di ESRD, ma è frequentemente associata ad aumentata incidenza di morbilità e mortalità cardiovascolare (5). È stato Mogensen a definire dettagliatamente la storia naturale della nefropatia diabetica nei pazienti con diabete tipo 1, evidenziando che circa il 30-35% dei pazienti progrediscono verso l’ESRD (6). Inizialmente si sviluppano ipertrofia renale e iperfiltrazione; dopo circa 7-13 anni nel cosiddetto stadio della “nefropatia incipiente” compare microalbuminuria e quindi dopo circa 10-20 anni insorge la nefropatia clinica, caratterizzata da proteinuria clinica persistente. A questo stadio il declino del filtrato è pari a 8-10 mlL/min per anno. Nel diabete tipo 2 l’incidenza cumulativa e il decorso nella nefropatia clinica sono simili, con un declino del filtrato lievemente più lento e un’incidenza cumulativa di ESRD di circa il 10% (7). L’ipertensione è un importante fattore di rischio nella progressione del danno renale nel diabete. I dati emersi da numerosi studi dimostrano che l’ipertensione arteriosa si associa frequentemente al danno renale sia nel diabete di tipo 1 che nel tipo 2 (5, 7, 8). Una volta comparsa la microalbuminuria, la correzione dello stato ipertensivo è, in associazione al controllo glicemico, lo strumento più efficace per rallentare la progressione verso la nefropatia conclamata sia nei pazienti con diabete tipo 1 che tipo 2 (7). Nei pazienti con nefropatia clinica il controllo glicemico sembra non influenzare significativamente l’andamento della nefropatia, benché esso comunque influenzi le altre sequele micro- e macroangiopatiche della malattia diabetica; l’ipertensione diventa il fattore determinante nell’accelerare il declino del filtrato e nella progressione verso l’ESRD. Dati emersi da 167 studi longitudinali su pazienti con diabete tipo 1 e tipo 2 dimostrano una stretta correlazione tra caduta del filtrato e valori pressori (9, 10). Studi condotti su pazienti con diabete tipo 1 mostrano come livelli pressori di circa 135/85 mmHg riescano a rallentare il declino del filtrato. Tutti i farmaci antipertensivi utilizzati, a parità di livelli pressori ottenuti, si dimostrano efficaci. Una metanalisi di 9 studi longitudinali eseguiti su pazienti con diabete tipo 1, in trattamento con farmaci antipertensivi appartenenti a diverse classi, mostra il ruolo determinante della riduzione della pressione arteriosa nel ridurre il declino del filtrato glomerulare (7) (fig. 1). Sfortunatamente esistono pochi dati in letteratura riguardanti pazienti con diabete tipo 2 con nefropatia clinica; studi della durata di almeno 18 mesi suggeriscono che la riduzione dei valori pressori sia, indipendentemente dal farmaco utilizzato, determinante nel ridurre il declino del filtrato. Una metanalisi di 5 studi longitudinali disponibili conferma questa affermazione (fig. 2). I dati recentemente pubblicati dall’UK Perspective Study Group non dimostrano differenze significative tra ACE-nibitore e beta-bloccante (11). Si delinea, quindi, nei pazienti microalbuminurici e proteinurici, la necessità di raggiungere un controllo pressorio ottimale. Indipendentemente dalla definizione di pressione arteriosa nella popolazione generale (PA ≥ 140/90 mmHg), il paziente diabetico deve essere trattato con terapia antipertensiva in presenza di valori di diastolica ≥ 85 mmHg e di sistolica ≥ 130 mmHg (12, 13). Valori pressori al di sotto di questi appena citati sono purtroppo molto difficili da ottenere e spesso in presenza di nefropatia clinica è necessaria l’associazione di più farmaci. A questo pro- Fig. 1. Relazione tra la pressione arteriosa media e la riduzione del filtrato glomerulare in pazienti con diabete di tipo 1 e nefropatia clinica [da Deferrari et al., Diabetes/Metab. Rev., 1997 (7)] n nessuna terapia antipertensiva; lterapia convenzionale; s ACE-I ± diuretici; tACE-I + terapia convenzionale; u β-bloccanti ± diuretici. FG: filtrato glomerulare; PAM: pressione arteriosa media GIDM Forum 20, 143-170, 2000 Fig. 2. Relazione tra la pressione arteriosa media e la riduzione del filtrato glomerulare in pazienti con diabete di tipo 2 e nefropatia clinica. lTerapia convenzionale; s ACE-I ± diuretici; u b-bloccanti ± diuretici; 6 Ca-antagonisti FG: filtrato glomerulare; PAM: pressione arteriosa media posito è da sottolineare l’importanza di utilizzare tutti i farmaci a disposizione, in varie combinazioni, ma di non accontentarsi di un controllo pressorio subottimale. I valori ottimali di pressione arteriosa sono nei pazienti di età inferiore ai 50 anni di circa 120/70-75 mmHg e di 125-130/80-85 mmHg nei pazienti di età superiore ai 50 anni (13, 14). Al di là della riduzione pressoria, esiste evidenza, ancorché dibattuta, che la terapia con alcuni farmaci antipertensivi sia particolarmente efficace dal punto di vista renoprotettivo; sono comunemente considerati da questo punto di vista ACE-inibitori, antagonisti dei recettori dell’angiotensina e anche calcio-antagonisti. Sempre più numerose evidenze indicano che il sistema renina-angiotensina-aldosterone (SRAA) giochi un ruolo importante nello sviluppo della nefropatia diabetica, non solo a livello sistemico ma anche a livello tissutale. Mentre il SRAA plasmatico è importante per i meccanismi acuti di regolazione, il sistema tissutale potrebbe essere coinvolto soprattutto nei meccanismi cronici di regolazione vascolare renale. L’angiotensina II, i cui livelli sono circa mille volte più alti nel rene che nel plasma, potrebbe legarsi ai recettori glomerulari e causare contrazione delle cellule mesangiali e costrizione delle arteriole, afferente e soprattutto efferente, determinando un’alterazione del coefficiente di ultrafiltrazione glomerulare e della pressione capillare glomerulare (15). Questi meccanismi potrebbero provocare proteinuria, iperplasia delle cellule mesangiali e tubulari, aumentata produzione di matrice mesangiale e, in ultimo, glomerulosclerosi e fibrosi interstiziale (15). L’angiotensina II, infine, influenza la crescita cellulare sia direttamente sia attraverso l’azione di numerosi fattori di crescita e citochine, contribuendo alla proliferazione/ipertrofia delle cellule mesangiali, aumentata produzione di matrice extracellulare e riduzione dell’apoptosi e in questo modo ulteriormente allo sviluppo di glomerulosclerosi e fibrosi interstiziale (15). Tutti questi effetti sono stati dimostrati sull’animale, ed è interessante notare come la maggior parte di questi siano attenuati dagli ACE-inibitori o dagli antagonisti del recettore dell’angiotensina II. I dati emersi rendono verosimile quindi che l’inibizione farmacologica del SRAA possa giocare un ruolo importante nel prevenire lo sviluppo e rallentare la progressione della nefropatia diabetica (prevenzione primaria, secondaria e terziaria) (16). Il ruolo degli ACE-inibitori nella prevenzione primaria è ancora peraltro incerto; un recente studio (17) dimostra su un buon numero di pazienti seguiti per un lungo periodo che la terapia con ACE-nibitori è in grado di ridurre cospicuamente l’incidenza di microalbuminuria in pazienti normoalbuminurici normotesi con diabete tipo 2. Uno studio simile (EUCLID) su pazienti con diabete tipo 1 normoalbuminurici ha dato risultati inconclusivi (18). Lo studio POND è in fase ormai avanzata (comunicazione personale). Nei pazienti microalbuminurici normotesi, gli ACEinibitori riducono significativamente l’incidenza di nefropatia clinica. È interessante notare come questo venga ottenuto indipendentemente dai valori pressori, anche se bisogna sottolineare che in quattro studi su sei i valori pressori erano lievemente, ma significativamente, più bassi nel gruppo trattato con ACE-inibitore (7, 19). Una recente metanalisi mostra che gli ACE-inibitori riducono circa dell’80% la progressione da micro- a macroalbuminuria in pazienti con diabete tipo 1 (13). Tutti questi dati sembrano quindi dimostrare uno specifico effetto degli ACE-inibitori nel prevenire lo sviluppo di nefropatia clinica sia nei pazienti con diabete tipo 1 che tipo 2. Pertanto questi farmaci sono da considerare la prima scelta in questo stadio del danno renale. Nei pazienti con nefropatia clinica, come riportato in precedenza, la riduzione della pressione arteriosa a valori di circa 135/85 sembra avere un ruolo predominante nel rallentare il declino del filtrato glomerulare (figg. 1 e 2), anche se gli studi disponibili sono ancora pochi, specie nel diabete di tipo 2. Nonostante le controversie sul ruolo specifico degli ACE inibitori a questo stadio, lo studio di Lewis et al. ha portato un contributo rilevante, dimostrando che nei pazienti con diabete di tipo 1 gli ACE-inibitori riducono significativamente la necessità di terapia sostitutiva e anche la mortalità (20). Anche se nei diabetici 168 GIDM Forum 20, 143-170, 2000 con nefropatia clinica gli ACE-inibitori non sembrano essere chiaramente più efficaci di altri farmaci, sono da considerare tuttavia farmaci di prima scelta, almeno nei pazienti con creatinina inferiore a 3 mg/dL, non solo per la loro azione renoprotettiva, ma anche per la loro buona tollerabilità e l’assenza di effetti negativi sul metabolismo glico-lipidico (7, 13). Negli ultimi anni l’introduzione degli antagonisti del recettore dell’angiotensina II, capaci di contrastare l’effetto periferico dell’angiotensina II sfruttando l’inibizione del SRAA a un livello diverso della cascata, ha riscosso grande interesse. I risultati del lavoro di Gansevoort (21), che pone a confronto ACE-inibitori e antagonisti del recettore, sembrano suggerire un sovrapponibile effetto antiproteinurico a parità di valori pressori. Sono necessari quindi ulteriori lavori clinici che valutino un possibile effetto renoprotettivo di una più completa inibizione del SRAA; due studi, IDNT e RENAAL, sono in fase conclusiva. Recentemente si è sviluppato notevole interesse per il possibile effetto renoprotettivo dei calcio-antagonisti. Questi farmaci, dilatando preferibilmente l’arteriola afferente, dovrebbero causare un aumento della pressione intraglomerulare, a lungo termine nociva alla funzione renale. Tuttavia la riduzione dell’ipertrofia renale, una possibile modulazione degli effetti vasocostrittivi e proliferativi dell’angiotensina, nonché la riduzione degli effetti mitogeni dei fattori di crescita, potrebbero giocare un ruolo importante nel ritardare il declino del filtrato (22). Un recente trial dell’Italian Microalbuminuric Study Group (19) dimostra che la nifedipina ha un’efficacia sovrapponibile a un ACE-inibitore, Lisinopril, nel ridurre l’incidenza di nefropatia clinica in 137 pazienti con diabete tipo 1 microalbuminurici. Anche nei pazienti con diabete tipo 2 e microalbuminuria questi farmaci esercitano un effetto renoprotettivo simile agli ACE-inibitori (23-24). Analogo risultato è stato ottenuto in uno studio nei diabetici tipo 2 protenurici (25). Deve peraltro essere sottolineato che alcuni studi suggeriscono una più elevata incidenza di eventi cardiovascolari nei pazienti con diabete tipo 2 ipertesi trattati con calcio-antagonisti; tali dati non sono stati tuttavia confermati da vasti trial quali lo studio HOT e lo studio ALLHAT (13). È infine da ricordare che un trattamento antipertensivo efficace nei pazienti con diabete tipo 1 e tipo 2 non solo sembra ridurre la progressione della nefropatia, ma anche il rischio di mortalità; tale effetto è stato in particolare dimostrato per gli ACE-inibitori (20, 26, 27). La Società italiana di Nefrologia e La Società Italiana di Diabetologia hanno recentemente formulato, in un documento congiunto, le raccomandazioni per la prevenzione e il trattamento della nefropatia diabetica, che sono in sintonia con quanto sopra riportato (13). L’approccio terapeutico comunque deve essere intensivo e multifattoriale: devono essere raggiunti i livelli ottimali di pressione arteriosa utilizzando più farmaci antipertensivi (tra questi gli ACE-inibitori se non controindicati) deve essere anche ottenuto un buon controllo glicemico e la correzione della dislipidemia; non va trascurata infine l’assunzione di antiaggreganti piastrinici (28). Infine è interessante notare come un buon controllo dei valori pressori e forse l’uso di ACE-inibitori riescano a prevenire e/o a rallentare l’evoluzione della retinopatia diabetica. Dallo studio EUCLID (18) nel diabete tipo 1 e dai risultati di Ravid et al. nel diabete tipo 2 (17) emergono risultati confortanti. Bibliografia 1. D’Amico G: Comparability of the different registries on renal replacement therapy. Am J Kidney Dis 25, 113118, 1995 2. Marcelli D, Spotti D, Conte F et al: Prognosis in diabetic patients on dialysis: analysis of Lombardy Registry data. Nephrol Dial Transplant 10, 1895-1900, 1995 3. Triolo G, Salomone M, Piccoli GB, Torazza ML, Marciello A: Diabetes mellitus is currently one of the most frequent causes or associated causes of uremia. Data from Piedmont Registry of dialysis and transplantation. Minerva Urol Nefrol 48, 31-36, 1996 4. Perneger TV, Brancati FL, Whelton PK, Klag MJ: Endstage renal disease attributable to diabetes mellitus. 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CAVALLO PERIN La pressione arteriosa è uno degli indici della qualità della cura del diabete e la correzione dell’ipertensione deve essere inquadrata in un programma generale finalizzato alla riduzione del rischio macro- e microvascolare. Il paziente diabetico con ipertensione possiede, per definizione, almeno due fattori di rischio, appunto il diabete e l’ipertensione. Nella maggior parte dei casi presenta però altri fattori di rischio associati: dislipidemia, obesità, fumo ecc. La valutazione del rischio globale nel singolo soggetto influenza la decisione di iniziare il trattamento antipertensivo e la scelta degli strumenti più appropriati, consentendo di collocare la correzione della pressione arteriosa in un intervento integrato sugli altri fattori di rischio modificabili. I criteri per la diagnosi di ipertensione nel diabetico (pressione sistolica o diastolica > 140/90 mmHg) non differiscono da quelli del soggetto non diabetico e, nell’ambito della popolazione adulta, non differiscono nel giovane dall’anziano. I valori di pressione utilizzati come criterio diagnostico per ipertensione non si identificano con i valori di pressione desiderabili e il paziente diabetico costituisce un tipico esempio in cui l’intervento sulla pressione risulta talora necessario anche in assenza di ipertensione, come nel caso della microalbuminuria. In generale, valori ≥130/85 mmHg richiedono un intervento terapeutico non farmacologico e/o farmacologico. I valori entro i quali la pressione arteriosa deve essere corretta con la terapia devono essere stabiliti in funzione dell’età, delle complicanze del diabete, delle lesioni cardiovascola- 170 GIDM Forum 20, 143-170, 2000 ri e del danno agli organi bersaglio dell’ipertensione. Lo sforzo del medico deve essere rivolto a modificare lo stile di vita del paziente diabetico iperteso e alla scelta oculata dei farmaci meno svantaggiosi. La continua informazione del paziente e il monitoraggio a lungo termine delle complicanze del diabete e delle condizioni degli organi bersaglio dell’ipertensione costituiscono l’elemento indispensabile per garantire l’efficacia e ridurre i rischi dell’intervento 171 terapeutico. La prevenzione o la ritardata evoluzione delle lesioni vascolari macro- e microangiopatiche si traduce in un aumento della sopravvivenza e, fatto ancora più rilevante, in un miglioramento della qualità di vita del paziente diabetico. Ringrazio vivamente gli amici che hanno partecipato al Forum per il tempo e l’impegno che hanno voluto dedicare per mettere a disposizione di tutti la loro preparazione ed esperienza.