all. 1 - relazione storica - Fondazione Diritti Genetici

La strada, l’osteria e la fortezza. Vicende storico­architettoniche del cosiddetto “Castellaccio” di Monteroni. Arch. Stefano Borghini 1.La strada Descrizione e localizzazione del monumento. Alcune indicazioni di metodo. Se, ancora durante i primi anni dell’800, attraversando i territori a volte acquitrinosi della Ma‐
remma laziale, avessimo percorso la via consolare che, muovendo da Roma, si dirigeva verso Civitavec‐
chia, la via Aurelia, giunti all’altezza del trentacinquesimo chilometro dell’antica strada, o poco dopo, ci saremmo inevitabilmente imbattuti in un edificio dalle forme del tutto originali. L’aspetto esteriore imponente e massivo, sottolineato da quattro torrioni angolari merlati, dava al complesso le sembianze di una fortezza o di un rude casale fortificato. L’immagine non era poi molto distante da quella che oggi possiamo ancora osservare. Si trattava di un casale, con un corpo centrale su due livelli, trattato ad intonaco e coperto da tetto a doppia falda. I fronti verso l’esterno si aprivano con semplici finestre rettangolari appoggiate su di un marcapiano in pietra che cerchiava l’intero edificio; un unico portale monumentale trattato a bugnato si apriva sulla strada, caratterizzando il fronte principale. Sul fronte lungo opposto a quello della facciata, un edificio annesso, ad unico piano, e coperto a falda, chiaramente aggiunto in una fase storica recente, mostrava tutta la sua estraneità rispetto al corpo cen‐
trale, mentre accanto alla facciata principale, un ulteriore edificio ad un solo piano affiancava la struttu‐
ra principale lungo la via Aurelia. Ma sarebbero stati i quattro torrioni, uno per ogni angolo dell'edificio principale che avrebbero attirato la nostra attenzione, simili in tutto a quelli che oggi possiamo ancora vedere (con la sola eccezione della presenza dell'intonaco) e che avrebbero attribuito all'insieme l'appa‐
renza di un piccolo castello. Un’apparenza che sarebbe poi stata smentita dalle funzioni che, al suo in‐
terno, si svolgevano ancora all’epoca, e a cui in realtà l’edificio provvedeva da diversi secoli: quelle di stazione di posta e di osteria. La presenza di un gran numero di edifici che si affacciavano sull'Aurelia con questo scopo è fa‐
cilmente documentabile, dato che la via costituiva uno dei principali assi di comunicazione tra gli abitati del litorale laziale a nord‐ovest di Roma già nel mondo antico. Nell'area di nostro interesse, l'Aurelia metteva in comunicazione centri di un certo rilievo già ampiamente documentati in età romana, alcuni portuali, come Alsium , Pyrgi e Centumcellae, altri dell'immediato entroterra quali Caere e Ad Turres. L'agglomerato più importante era costituito da Caere, antica città etrusca, di cui Pyrgi costituiva il natu‐
rale porto sul mare. D'altra parte il tratto meridionale dell' Aurelia, che metteva in comunicazione Roma e Ad Turres (riconosciuta oggi nei resti di Statua) mostrava, nella sua accidentalità e nel suo adattarsi alla morfologia del territorio, caratteristiche pre‐romane e dunque etrusche, testimoniando la presenza di una preesistente dorsale dell'Etruria marittima1. Scrive Flavio Enei: «Le origini etrusche di tale percorso, 1
Non può essere questa la sede idonea per ripercorrere una storia, anche soltanto indicativa, della via Aurelia e del territorio cerite. A seguire saranno solamente tratteggiati alcuni aspetti, che più direttamente entrano in 1 intuite dal Castagnoli per il tratto Roma‐Statua, sono probabilmente da supporre, anche per quanto ri‐
guarda il restante tragitto tirrenico, almeno fino a Vulci e all'ager cosanus. Risulta fin troppo evidente che la fascia costiera dell'Etruria meridionale, senza soluzione di continuità con quella del Latium Vetus, abbia potuto costituire fin dalla preistoria un'unica via di collegamento di primaria importanza, sede di un percorso in qualche modo già codificatosi a partire dall'epoca arcaica, al di là delle divisioni territoriali tra i diversi populi»2. La presenza di una importante identità etrusca è oltremodo confermata dalla pre‐
senza, poco dopo il nostro edificio continuando verso Civitavecchia, di alcune tombe a tumulo scavate nel tufo relative ad una necropoli di VII secolo a. C. scavata nel 1839 dalla duchessa di Sermoneta3: il lo‐
ro aspetto esteriore di piccole colline gli ha valso il nome di "monteroni", da cui deriva il toponimo della nostra osteria. Se consideriamo che, nonostante il depauperamento del territorio avvenuto tra il medio‐
evo e l'età moderna e il sensibile spopolamento dei centri abitati, questo tratto della via Aurelia non venne mai dismesso e continuò ad essere percorso durante tutti i secoli della sua storia senza soluzione di continuità, possiamo facilmente comprendere come attorno al percorso della strada sorgessero, in antico, stazioni, ville e fattorie (spesso dotate di peschiere), poi, in età moderna, stazioni e osterie. Erano dunque edifici destinati al riposo dei viandanti e al cambio dei cavalli (non a caso si trovavano tra loro a distanze regolari) e vennero usati fino a quando il principale mezzo di locomozione e di spostamento ri‐
mase quello a trazione animale. Così ancora oggi riconosciamo nei casali di Palidoro, di Statua, di Osteria Nuova e di Osteria di Vaccina, nelle osterie di Malagrotta, di Castel di Guido e di Bottaccia, una tipologia di edifici destinati a funzioni di accoglienza. Tuttavia nelle descrizioni e nelle testimonianze anche mate‐
riali che sopravvivono di questi edifici, non sembra di poter mai riscontrare tipologie magniloquenti dal punto di vista architettonico4, anche solo confrontabili a quella dell'osteria di Monteroni. Il "Castellac‐
cio" rappresenta, a tutti gli effetti, un unicum. Perché dunque un semplice luogo di ristoro posto lungo il cammino dell’Aurelia, per quanto im‐
portante (Civitavecchia era pur sempre il porto della Roma pontificia), avrebbe dovuto mostrare forme così peculiari, che lo rendono così smaccatamente diverso da strutture considerate analoghe per desti‐
nazione funzionale? Qual è la storia di questo edificio che lo porta, indipendentemente dalle attività che vi si sono svolte per almeno tre secoli, ad avere un aspetto a tal punto nobile e imponente? Posto a 22 rapporto con l'edificio del "Castellaccio". Tuttavia è necessario tenere a mente che le vicende del manufatto sono legate a doppio filo con quelle dell'antica via consolare e ancora di più con il territorio che la circonda. Una conoscenza di base della storia di questo territorio è dunque fondamentale per comprendere i contesti so‐
cio‐economici e geografici che accompagnarono la vicenda del monumento. A tal proposito si segnalano, per la via Aurelia e la regione di Caere in antico: G. M. DE ROSSI, P. G. DI DOMENICO, L. QUILICI (a cura di), La via Aurelia da Roma a Civitavecchia, in AA. VV., La via Au‐
relia da Roma a Forum Aureli, Quaderni dell'Istituto di topografia antica della Università di Roma, 4, Roma 1968; M. CRISTOFANI, G. NARDI, M. A. RIZZO, Caere 1: il parco archeologico, CNR ‐ Centro di studio per l'archeologia etrusco‐
italica, Min.BB.CC.AA. ‐ Sopr. archeologica per l'Etruria meridionale, Roma 1988; F. ENEI, Progetto ager caeretanus: il litorale di Alsium. Ricognizioni archeologiche nel territorio dei comuni di Ladi‐
spoli, Cerveteri e Fiumicino (Alsium ‐ Caere ‐ Ad Turres ‐ Ceri), Regione Lazio, Comune di Ladispoli, 2001; per la via e il territorio nel medioevo ed in età moderna: M. BALDONI, Cerveteri (Roma), Atlante storico delle città italiane, Lazio 4, Roma 1989; E. CARNABUCI, La via Aurelia, Antiche strade del Lazio, Istituto poligrafico e Zecca dello Stato, Roma 1992; S. PASSIGLI, Una strada, il suo ambiente, il suo uso. La Via Aurelia fra XII e XVIII secolo, in I. FOSI, A. P. RECCHIA (a cura di), Strade paesaggio territorio e missioni negli anni santi fra Medioevo e età moderna, Ministero per i beni e le attività culturali, Roma 2001 2
F. ENEI, op. cit., 2001 (vedi Supra nota 1), pag. 89 3
G. M. DE ROSSI, P. G. DI DOMENICO, L. QUILICI (a cura di), op. cit., 1968 (vedi Supra nota 1), pag. 34 4
Cfr. S. PASSIGLI, op. cit., 2001 (vedi Supra nota 1), pagg. 152‐153 2 miglia dall'Urbe, l’edificio non si trovava vicino a centri abitati di una qualche rilevanza, almeno dal me‐
dioevo in poi, e tuttavia sembra avere avuto un ruolo egemone sul territorio circostante, un ruolo che per la sua posizione pare garantire il controllo di questo territorio pianeggiante fino al mare, facendo supporre vicende più articolate di quelle di una semplice stazione di posta. Possiamo dunque immagi‐
nare che da sempre le strutture di questo edificio siano state destinate semplicemente a rifocillare i pel‐
legrini e i viandanti che da Roma salivano verso nord, costeggiando il mar Tirreno, oppure possiamo ipo‐
tizzare che le stesse abbiano avuto nei secoli diverse vicende storiche e costruttive e che le funzioni di stazione siano solo le ultime che l’edificio abbia ospitato? Nel 1835 una delegazione di Civitavecchia presentò alla Prefettura Generale Acque e Strade un progetto per la deviazione della via Aurelia verso Palo, poco prima dell’Osteria di Monteroni. Lo scopo era proprio quello di tagliare dal percorso l’antica stazione di posta considerata inidonea e priva delle necessarie “comodità”, a favore della esistente Osteria Vecchia di Palo, un edificio seicentesco voluto dagli Odescalchi, considerato in buono stato e maggiormente servibile5. La strada venne portata a ter‐
mine nel 1857, e da questo momento in poi, l’osteria di Monteroni, perdute le sue funzioni principali, entra in un lento e progressivo stato di oblio, fino ad assumere nelle cartografie del novecento il topo‐
nimo generico e sprezzante di “Castellaccio”. Oggi l’edificio può essere raggiunto, percorrendo la piccola via Monteroni, che sia apre sulla destra della Statale n.1 Aurelia venendo da Roma, e proseguendo fino a prendere sulla sinistra Via dell’Acquedotto di Statua, posta sull’antico tracciato della via consolare ro‐
mana. Dopo pochi metri, il "Castellaccio" si staglia in tutta la sua imponenza e nel suo imperturbabile senso di isolamento, apparentemente privo di un senso architettonico e topografico. Nonostante il suo progressivo abbandono, le domande che legittimamente avrebbe potuto porsi quel viandante del XIX secolo, sono ancore le stesse che ci poniamo noi di fronte ad un’architettura tanto originale e stimolan‐
te; sono le stesse che ci spingono ad indagare la storia profonda del “Castellaccio” di Monteroni. Sfortu‐
natamente, come spesso succede alle ricerche che tentano di studiare edifici con radici molto lontane, la storia a ritroso del “Castellaccio” si interrompe bruscamente alla data del 1588, momento in cui l’edificio fa la sua prima comparsa ufficiale nella documentazione archivistica, spuntando apparentemente dal nulla. Così come avverrà realmente alla metà dell’800, la “strada” della ricerca che porta all’edificio sembra essere irrimediabilmente tagliata. Ciò nonostante questo breve studio cercherà di indagare non solo la storia documentabile del monumento, ma anche quella che affonda il campo nelle ipotesi, supe‐
rando il limite imposto dalla datazione del documento cinquecentesco e cercando strumenti alternativi all’indagine indiretta delle fonti che citano esplicitamente il manufatto. Tuttavia, per sottolineare la di‐
versità sostanziale di approccio metodologico fra queste diverse fasi della ricerca, e rimarcare la diversi‐
tà delle strade percorse, questo lavoro si dividerà in due parti: una prima si riferirà direttamente alla storia più recente dell’edificio, ovvero agli ultimi quattro secoli che muovono dalla data fatidica del 1588 fino ai primi anni del 2000, basandosi prevalentemente sulla ricerca archivistica; una seconda pro‐
verà ad ipotizzare una storia del manufatto e del suo territorio circostante prima del 1588, cercando di collegare e riconnettere, con un percorso a ritroso, i pochi e sfrangiati indizi che il “Castellaccio” lascia ancora intravedere tra le maglie delle sue mura. 5
P. CASTELLANO, A.M. CONFORTI, Palo Laziale, Tesi di laurea in Storia delle Arti industriali a.a. 1992‐1993; P. CASTELLA‐
NO, A.M. CONFORTI, Da Alsium a Ladispoli, Ladispoli 2001 3 Figura 1 ‐ Il "Castellaccio" di Monteroni oggi Figura 2 ‐ Il "Castellaccio" e via dell'Acquedotto di Statua
4 2.L'osteria. Dopo il 1588: dai Cesi agli Odescalchi all'Ente Maremma. Tre secoli destinati all'accoglienza e uno all'oblio. Il primo documento in cui è citato con certezza il complesso del "Castellaccio" risale al 1588. Si tratta di un inventario di Casali di Roma, contenuto nella lista camerale compilata da Vincenzo Renzi e aggiornata nel 15966. Nell'elenco dei Casali fuor di Porta S. Pancratio, al n.101, viene riportato: «Monterone, del marchese di Riano, r. 450». È il punto di partenza per la nostra indagine, che da questo documento procederà nel tempo in avanti e indietro, come abbiamo detto, seguendo modalità di ricerca differenti. Sembrerebbe dunque, una testimonianza apparentemente muta, ma in realtà ci fornisce alcune importanti notizie sul nostro edificio. Tanto per cominciare, alla fine del XVI secolo, l'edificio di Monteroni è già costruito, è conosciu‐
to con l'antico toponimo derivante dalle tombe etrusche, e soprattutto è connotato come casale. Nel Cinquecento il termine di “casale” poteva essere applicato abbastanza liberamente a tipologie differenti di edifici che esplicavano anche diverse funzioni. In questa semplice lista tali possibili funzioni non ven‐
gono enumerate, ma è interessante notare che in questo caso il fondo mostra una consistenza di 450 Rubbia romane, vale a dire poco più di 800 ettari. Forse dimensioni non vastissime, ma tali da giustifica‐
re un controllo agricolo dei terreni immediatamente circostanti il casale. La terza informazione è proba‐
bilmente la più importante per la comprensione delle vicende dell'edificio: ci viene detto che il Casale di Monteroni risulta essere di proprietà del Marchese di Riano. Nel 1588 il Marchese di Riano era Paolo Emilio Cesi. La vicenda del casato dei Cesi è una storia di una famiglia assurta in pochi anni agli onori della nobiltà romana, cresciuta e arricchitasi in relativamente poco tempo, ma anche rapidamente estintasi. Purtroppo l’archivio della famiglia è andato disperso: i documenti inerenti ai loro possedimenti e alle lo‐
ro tenute sono scomparsi o sono stati riversati negli archivi delle famiglie che più tardi acquisirono le lo‐
ro proprietà7. Il casato derivava le sue fortune da Pietro, figlio di Antonio degli Equitani o Chitani della terra di Cesi, che sarà per questo detto Cesio. La famiglia era dunque originaria dell’Umbria, delle terre tra Terni ed Acquasparta, e si era trasferita a Roma solo nel XV secolo. Pietro fu giureconsulto di grido, avvocato concistoriale e senatore a Roma nel 1468; dai suoi quattro figli, Bartolomeo, Pier Donato, An‐
gelo e Cesare originano i quattro rami della famiglia, di cui i principali sono quello dei marchesi di Olive‐
to(da Pier Donato) e quello dei Duchi di Acquasparta (da Angelo). Una famiglia di ricchezza recente, ot‐
tenuta in breve tempo grazie ad uffici curiali e prelatizi e ad una oculata politica matrimoniale. Paolo E‐
milio Cesi è dunque, marchese di Riano, in quanto donatario e nipote del cardinale Pier Donato Cesi (che aveva a suo tempo acquistato il feudo di Riano); risulta essere il proprietario del casale nel 1588, e tut‐
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ASR, Camerale II, Agro Romano, b. 1, «Copia di tutti li casali posti fuori delle porte di Roma»; Cfr. J. COSTE, I casali della Campagna di Roma nella seconda metà del Cinquecento, in “Archivio della Società romana di Storia pa‐
tria”, 94 (1973), pp. 31‐143, n. 101 7
Per la famiglia Cesi, vedi: T. AMAYDEN, La storia delle famiglie romane, con note ed aggiunte di Carlo Augusto Bestini, ristampa fotomeccani‐
ca, Bologna 1967, pp. 304‐309 E. MARTINORI, Genealogia e cronistoria di una grande famiglia umbro‐romana: Cesi illustrata nei loro monumenti artistici ed epigrafici e nelle memorie archivistiche, con introduzione note ed appendice di Giuseppe Gabrieli, Roma 1931 voci «Cesi, Federico» e «Cesi, Paolo Emilio» in DBI, vol. 24, Roma 1980, pp. 238‐267 5 tavia sembra difficile che possa essere stato coinvolto in qualche vicenda edilizia dello stesso, nonostan‐
te un altro documento sembrerebbe far pensare l'esatto contrario. Si tratta delle liste delle Taxae Via‐
rum del fondo della Presidenza delle Strade conservato all'Archivio di Stato di Roma (n. 445), risalente al 15668. Nell’elenco dei Casali che “adoperano” la via di S. Maria del Riposo, a cui afferiscono senza ordine preciso casali della vie Aurelia e Cornelia, non compare alcun casale tassato rispondente al toponimo di Monteroni. Un’interpretazione superficiale del documento potrebbe spingere a pensare che tra il 1566 e il 1588 potrebbe collocarsi una probabile fase edilizia del complesso di Monteroni, importante a tal pun‐
to da portare a riconoscerlo, alla fine di questo ventennio, come “casale” di proprietà Cesi. Ma c’è un’altra spiegazione. In nostro aiuto accorre un documento più tardo, risalente alla metà del secolo suc‐
cessivo, redatto però con il supporto di documenti precedenti che ad oggi, purtroppo, non è stato possi‐
bile rintracciare e consultare. Si tratta delle informationes redatte dal Commissario Generale della Reve‐
renda Camera Apostolica De Rubeis (De Rossi) nel 16599. La Camera Apostolica era l'insieme di uffici e organi cui era affidata l’amministrazione dei beni che insistevano all'interno dello Stato Pontificio, e il Commissario Generale aveva un ruolo di supervisore sulle attività della Camera, redigendo spesso rela‐
zioni su affari specifici. Nel caso in questione il Commissario De Rubeis traccia una breve storia del terri‐
torio di Cerveteri e di Ceri, riferendo diversi passaggi di proprietà utili a definire o a suggerire una storia delle proprietà dello stesso "Castellaccio" . Il quale, da sempre, sembra essere strettamente legato al feudo di Ceri, il piccolo castrum posto su un acrocoro montuoso affianco al fiume Sanguinara, dove nell'alto medioevo ripararono gli abitanti di Caere in fuga dalla città antica, fondando Caere Novum10. Il documento risulta dunque di fondamentale importanza, anche perché, a parte (e anteposto al testo), riporta un albero genealogico della famiglia Cesi, utilissimo a districare le complesse vicende testamen‐
tarie dei passaggi di proprietà che si rifletteranno nelle coeve piante tracciate dagli agrimensori. Secondo quanto ci riporta il De Rubeis, dal 1427 il borgo di Ceri e quello di Magliano Pecorarec‐
cio, insieme ad altri, fanno parte del patrimonio dei Conti dell’Anguillara. Alla metà del XVI secolo i due borghi pervennero in eredità a Porzia dell’Anguillara di Ceri, sposata in prime nozze con Giovanni Orsini del ramo di Mentana, da cui ebbe un’unica figlia, Olimpia Orsini. Rimasta vedova attorno al 1580, Porzia sposa, in seconde nozze, Paolo Emilio Cesi, che già era marchese di Riano e Gavignano per donazione dello zio cardinale e diventa per nozze Signore di Ceri e poi, nel 1596, dopo la morte di Porzia, Duca di Selci (per acquisto del feudo omonimo dagli Orsini). Inoltre, per rinsaldare l'unione fra i due casati, la fi‐
glia di primo letto di Porzia, Olimpia Orsini, viene maritata a Federico Cesi, esponente del ramo della fa‐
miglia dei Signori di Acquasparta e primo Duca di Acquasparta. Le cronache del tempo riportano una re‐
altà fatta di vicende matrimoniali non certo felici per le due donne. Porzia, che è descritta come donna caritatevole e devolta, subisce maltrattamenti da parte del marito, che a sua volta sfrutta le ricchezze e i possedimenti della moglie per accrescere il suo prestigio presso gli ambienti della corte e della nobiltà romana. Anche Olimpia, donna di raffinata sensibilità, scoprirà presto nel marito Federico un'indole i‐
gnorante e violenta, votata peraltro allo sperpero delle sostanze familiari11. Entrambe, quindi, finiranno per concentrare le loro attenzioni sui figli. E se Olimpia trasmetterà al figlio Federico quella mitezza d'a‐
nimo e quello spirito introspettivo che ne faranno uomo di studi di primo livello e fondatore dell'Acca‐
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ASR, Presidenza delle strade, n.445, «Taxae Viarum, 1514‐1583»; Cfr. J. COSTE, op. cit., 1973 (vedi Supra nota 6), pp. 31‐143 9
ASR, Commissariato generale RCA, busta 33 De Rubeis. Commissario Generale della Camera Apostolica (Advocati Fisci et R.C.A). Informationes 1659 parte II, ff. 925 recto ‐ 928 verso 10
M. BALDONI, op. cit., 1989 (vedi Supra nota 1), pag. 25 11
A. DE FERRARI, voce «Cesi, Federico» in DBI, vol. 24, Roma 1980, p. 238 6 demia dei Lincei, Porzia si preoccuperà di garantire alla sua prole e in particolare all'insperato figlio ma‐
schio Andrea, avuto da Paolo Emilio, adeguate risorse economiche. Le vicende testamentarie di Porzia dell’Anguillara chiariscono quella strana parcellizzazione del territorio, altrimenti inspiegabile, che si riscontra alla metà del XVII secolo,e che poi potremo apprezzare nelle piante dell'epoca, che più tardi andremo ad analizzare. Ad un primo testamento del 1572, prece‐
dente alla morte del primo marito Giovanni Orsini, segue un atto di concordia tra Olimpia Orsini e un Angelo Cesi (probabilmente uno zio del marito della madre, presidente della Camera Apostolica) risalen‐
te al 1576, al momento cioè dell'atto di fidanzamento con Federico, ed infine un secondo testamento di Porzia nel 158512. Tali documenti furono letti e riportati dal De Rubeis. Anche se finora, purtroppo, non è stato possibile recuperarli e consultarli direttamente, dell’ultimo testamento possediamo una descrizio‐
ne accurata nella relazione del Commissario Generale. Porzia rese erede universale dei suoi beni il figlio Andrea, avuto dal secondo matrimonio, ed in assenza di eredi di questi, in seconda linea di successione, nomina eredi i discendenti di Olimpia Orsini e di Federico Cesi. Tuttavia mantiene comunque per la figlia diritti particolari sulle tenute di Monterone, di Selva della Rocca e di Quarticciolo, «e non bastando di S. Maria»13. Nel testamento acconsente persino alla cessione del feudo di Bassano a favore di Flaminio Anguillara, che rivendicava il diritto di proprietà sui beni dell'eredità (per un "fidecommesso" di un ante‐
nato testatore legato alla discendenza maschile) , a fronte però di un ingente versamento di denaro da effettuare nelle casse del figlio Andrea. Nel 1595, Flaminio, pressato dai forti debiti contratti, non sarà in grado di saldare quanto dovuto e si vedrà costretto a vendere, per 55.000 scudi, il feudo di Bassano a Giuseppe Giustiniani al fine di poter liquidare Andrea e rispettare le volontà testamentarie di Porzia. La vicenda mostra, alfine, quanto sia poco probabile immaginare un intervento edilizio diretto di Paolo Emilio nelle vicende costruttive del "Castellaccio". Porzia dell'Anguillara tratta la tenuta di Monte‐
rone come un terreno derivante dalla propria dote, al punto da disporne a proprio piacimento anche a favore della figlia di primo letto. Sembra dunque più plausibile immaginare che, al momento in cui Por‐
zia convola a seconde nozze con Paolo Emilio Cesi, e questo avvenne almeno dopo il 1580, il "Castellac‐
cio" e la relativa tenuta di Monterone esistessero già sotto qualche forma, e che non comparissero nell'elenco dei casali delle Taxae Viarum, semplicemente perché il loro ruolo non era quello pertinente ad un casale. Proveremo ad affrontare in seguito questa lettura. Per il momento, come ulteriore contro‐
prova della estraneità di Paolo Emilio alla gestione del monumento, è possibile citare altri due elenchi di casali funzionanti tra la fine del '500 e i primi anni del '600. Se il primo, un indice onomastico di casali contenuto in un documento conservato presso l'archivio capitolare di Santa Maria Maggiore14, cita sem‐
plicemente al numero 274 la tenuta di Monteroni, senza dare ulteriori indicazioni, ma testimoniandone la continuità dal 1590 al 1625, il secondo è certamente più interessante. Si tratta della lista di casali re‐
datta da Giovanni Bardi, per la stesura della sua Relazione distintissima di Roma15: «Monterone, del marchese di Riano, hoggi del figlio, r. 357». 12
ASR, Collegio notai capitolini, Curtius Saccoccius 1572(?) e 1576(?); ASR, Trenta notai capitolini – ufficio 9, Gar‐
ganus Quintilianus 1585; Cfr. ASR, Commissariato generale RCA, busta 33 , De Rubeis. Commissario Generale della Camera Apostolica (Advocati Fisci et R.C.A). Informationes 1659 parte II, ff. 925 recto ‐ 928 verso. De Ru‐
beis afferma che gli atti dell'ultimo testamento rogato a Roma il 26 ottobre 1585 si trovano oggi presso «gli Atti hoggi dell’Abbinante», notaio capitolino dell'ufficio 9 che rogava nel 1659. Una breve ricerca archivistica ha consentito di ricostruire in Gargano Quintiliano il notaio che autenticò il secondo testamento di Porzia. 13
ASR, Commissariato generale RCA, busta 33 (vedi Supra nota 9) 14
J. COSTE, I casali della Campagna di Roma all’inizio del Seicento, in “Archivio della Società romana di Storia pa‐
tria”, 92 (1969) 15
J. COSTE, op. cit., 1973 (vedi Supra nota 6), pp. 31‐143 7 Figura 3 ‐ 1610. Andrea Cesi affitta l'hosteria di Monteroni. Instromento d'affitto 8 Figura 4 ‐ 1624. Anonimo. Rappresentazione della Spiaggia Romana. Dettaglio Figura 5 ‐ 1660. Pianta della Tenuta di Monterone. Agrimensore Carlo Antonio Paolini 9 Figura 6 ‐ 1660. Pianta della Tenuta di Monterone. Agrimensore Carlo Antonio Paolini. Dettaglio 10 Figura 7 ‐ Catasto Alessandrino. Pianta di Francesco Contini
11 Figura 8 ‐ Catasto Alessandrino. Pianta di Francesco Contini. Dettaglio 12 Al di là delle diversità nei toponimi riportati nei tre manoscritti che abbiamo a disposizione16 ("Monterone", "Monterono", "Monterano"), l'indicazione sulla proprietà del marchese di Riano fuga ogni dubbio sull'identificazione del casale. E l'elemento più significativo deriva dalla postilla aggiunta subito dopo: «hoggi del figlio», seguita dall'estensione in rubbia romane di 357. Il documento riporta la data del 1595; Porzia dell'Anguillara è morta da cinque anni ed evidentemente sono state eseguite le sue vo‐
lontà testamentarie: la tenuta di Monterone è passata al figlio Andrea, anche se il padre Paolo Emilio è ancora vivente e morirà solo nel 1611, e la proprietà che solo sette anni prima era ancora di 450 rubbia, è stata probabilmente decurtata di alcuni terreni ceduti alla figlia Olimpia. Porzia aveva gestito il casale di Monteroni come una cosa sua, non del marito, e questo conferma che il "Castellaccio", in una forma che risulta difficile da identificare, era preesistente al documento del 1588 e faceva parte della dote personale derivante dai possedimenti dei Conti dell'Anguillara. Ma quali sono le funzioni e qual è la forma che l'edificio assumeva tra la fine del XVI e l'inizio del XVII secolo? Qual era il ruolo di questo casale posto lungo la via Aurelia? Il primo documento che riporta informazioni a questo proposito è contenuto in un libro di apoche originali (ovvero di scritture private datate al 1609) e di note e di istromenti rogati nell’interesse di Andrea Cesi, primo duca di Ceri, dai notai Marco Antonio Cioci (1610), Damiano Paluzzi (1610‐1614), Giovanni Sforza (1616), Francesco Cianfana (1617‐1618) e Alessandro Ciaglia (1618‐1619) concernenti l’amministrazione del Ducato stesso. La rac‐
colta di atti faceva evidentemente parte dell'archivio Cesi e fu più tardi riversata nell'archivio Odescalchi dove ancora è conservata17. In particolare, si tratta di un atto stipulato tra Andrea Cesi e un tal Gasparo Birenda per l' affitto a scadenza quinquennale dell'hosteria di Monteroni. In data 17 dicembre 1610 «si dechiara per la presente come Gasparo Birenda pigli in affitto e locatione per anni cinque dal Duca di Ce‐
re absente e per lui da Ottavio Ranucci suo agente presente l’hosteria de Monteroni da cominciarsi al primo di Novembre 1611 e da finirsi come segue con l’infrascritti patti e condizioni...»18. Non sappiamo se questo costituisca l'atto di nascita di una funzione, che di lì a seguire il monumento avrebbe esercita‐
to con continuità almeno fino alla metà del 1800, o se già negli anni precedenti l'edificio avesse costitui‐
to nei fatti una stazione di posta. Gli elementi contenuti nell'atto non sono sufficienti a chiarire questo aspetto. Ciò che possiamo affermare con assoluta certezza è che già ai primi anni del Seicento l'edificio aveva assunto su di se il ruolo di una struttura di accoglienza che lo caratterizzerà almeno per i tre secoli successivi, costituendo, per dirla con le parole di Enei, «un sicuro punto di riferimento per i corrieri della posta, i viaggiatori e i pellegrini che percorrendo la via Aurelia potevano fermarvisi per rifocillarsi, riposa‐
re e cambiare i cavalli»19. Al 1624 risale invece il primo documento grafico che ci fornisce una descrizione per immagini del casale di Monteroni. Si tratta di una carta di autore anonimo che rappresenta la «Spiaggia romana» ov‐
vero la linea della costa laziale nel primo tratto a nord di Roma e che evidenzia, con delle schematiche rappresentazioni prospettiche, gli edifici più significativi, i borghi, le torri, i corsi d'acqua che si susse‐
guono senza interruzioni lungo il litorale20. La pianta, che fa risaltare l'articolato sistema difensivo delle torri costiere disseminate lungo la riva, rappresenta, tra i fiumi Arrone e Sanguinara, il nostro casale con 16
Ms. Bardi delle Carte Strozziane; Ms. Bardi dell'Archivio Borghese; Ms. Bardi dell'Archivio Doria Pamphili. ASR, Archivio Odescalchi, 1 F 3, n. 11 18
Ivi, p. 18 19
F. ENEI, op. cit., 2001 (vedi Supra nota 1), pag. 86 20
Biblioteca Ap. Vaticana, cod. Barb. lat. 9898, n. 10; Cfr. A. P. FRUTAZ, Le carte del Lazio, II, Roma 1972, tav. XXIII. 3 a, n. 57 17
13 la dicitura "Monterone Host.", circondato dai grandi boschi («le tre caccie bellissime») di Sanguinara, dei Montaroni e di San Nicola21. L'edificio sembra raffigurato in forme molto simili alle attuali, costituito da un corpo centrale e quattro annessi ben evidenti agli angoli, per la verità un po' bassi, che fanno pensare alle quattro torri angolari. Mentre le proprietà di Cerveteri, Torre Flavia e Palo vengono attribuite al Du‐
ca di Bracciano e quindi agli Orsini, Monteroni presenta la didascalia "del Duca de Ceri". La tenuta gravi‐
ta quindi, ma questo lo sapevamo già, nell'area di pertinenza del feudo di Ceri, piuttosto che in quello di Palo o di Cerveteri. Un ultima osservazione viene dal confronto con le rappresentazioni degli altri casali, in particolare i due limitrofi di Maccarese e di Palidoro. I rapporti dimensionali dei disegni e le stesse immagini lasciano intuire come già all'epoca l'osteria di Monteroni fosse percepita, dal punto di vista ar‐
chitettonico, come qualcosa di diverso che non poteva essere raffigurata da un'iconografia sintetica e stereotipata, ma necessitava di una descrizione più puntuale. Del 1660 è invece un rilievo tecnico della Tenuta di Monterone, contenuto nel Catasto Alessan‐
drino, un insieme di disegni e carte raccolto dalla Presidenza delle Strade per la contribuzione alla manu‐
tenzione delle strade consolari. La pianta misurata con dovizia di dettagli dall'agrimensore Carlo Antonio Paolini da Leonessa mostra l'intera tenuta, attraversata dalla strada diretta che portava da Palidoro a Cerveteri, e calcolata nei suoi diversi quarti22. L'intera proprietà è riconosciuta al Duca di Selci, ma nel disegno si riconoscono alcune porzioni caratterizzate da una campitura di colore verde più intenso. Si tratta da un lato delle proprietà della chiesa di Santa Maria di Ceri (probabilmente, già assegnata ad O‐
limpia Orsini nel testamento di Porzia), dall'altro della piccola porzione di terreno (circa 3 rubbia corri‐
spondenti ad appena 5,5 ha) che circonda l'«Hostaria di Monterone», attribuita alla duchessa di Ceri. La tenuta, decurtata di questi possedimenti, misura 357,42 rubbia. Cosa è successo? Per capirlo ci soccorre ancora una volta il testo pressoché coevo del De Rubeis, oltre alle vicende genealogiche e testamentarie della famiglia Cesi. Andrea, primo duca di Ceri e terzo duca di Selci, unico figlio di Porzia e Paolo Emilio, sposa Cornelia Orsini, da cui ha Francesco Maria, che muore senza figli nel 1657, dopo aver sposato prima Giulia Pico della Mirandola e poi Anna Caterina Al‐
dobrandini. Con lui si estingue il ramo maschile della famiglia Cesi dei marchesi di Riano il cui capostipite era stato alla fine del Quattrocento Pietro Donato. Alla sua morte scattano le clausole del testamento di Porzia. I possedimenti e i feudi di Francesco Maria passano, forse anche per volontà di un suo lascito, a sua sorella Giovanna (che dal 1614 aveva sposato il Conte d’Arona Giulio Cesare Borromeo), ma la pro‐
prietà della tenuta di Monteroni ed altri feudi spettano ai nipoti di Olimpia e Federico Cesi, del ramo dei duchi di Acquasparta: in particolare a Giuseppe Angelo, che eredita dunque il ducato di Selci e il marche‐
sato di Riano dai cugini Cesi. La tenuta di Monterone si divide dunque in più parti: la gran parte dei ter‐
reni rimane ai Cesi di Acquasparta (nella figura del duca di Selci Giuseppe Angelo), alcune porzioni sono ormai possedimenti della chiesa di Santa Maria di Ceri, mentre l'Hosteria di Montaroni e le sue immedia‐
te adiacenze seguono le vicende del ducato di Ceri, passando dunque dai Cesi al casato milanese dei Borromeo23. Quando Francesco Maria Cesi muore lasciando in eredità il ducato di Ceri alla sorella Gio‐
vanna, questa è già vedova di Giulio Cesare Borromeo, e il titolo nobiliare passa al loro primogenito Gio‐
vanni, che dopo aver sposato in seconde nozze Livia Lante Montefeltro della Rovere, muore anch'egli proprio nel 1660, anno della redazione della tavola del Catasto Alessandrino. Non saprei dire se la du‐
chessa di Ceri riportata nella tavola sia Donna Livia della Rovere o Donna Giovanna Cesi, che, a tale data, 21
S. PASSIGLI, op. cit., 2001 (vedi Supra nota 1), pagg. 126‐127 ASR, Presidenza delle Strade, Catasto Alessandrino, mappa 428/14, "Monterone" 23
ASR, Commissariato generale RCA, busta 33 (vedi Supra nota 9) 22
14 è ancora vivente (ma potrebbe persino trattarsi della vedova di Francesco Maria Cesi, Anna Caterina Al‐
dobrandini). Queste complesse vicende genealogiche e testamentarie sembrano influenzare poco la vita dell'edificio. Nel disegno di Carlo Antonio Paolini, l'osteria appare chiaramente strutturata nel corpo centrale e nei quattro torrioni angolari, anche se la rappresentazione non pare essere fedele alla reale consistenza del complesso. Le torri sono circolari e sembrano collegate tra di loro da un camminamento di ronda, mentre il corpo centrale sembra essere sopraelevato da una torretta. Come se il disegnatore non avesse veduto realmente le strutture ma le avesse fantasiosamente reinterpretate in base ad una descrizione verbale. Solo di un anno più tardi è infatti un'altra carta dell'architetto Francesco Contini, ancora contenuta nel Catasto Alessandrino24, che rappresenta più correttamente l'edificio, anche se ad una scala notevolmente più piccola, con i torrioni quadrati svettanti sul corpo centrale. Le torri sembra‐
no essere coperte da tetti a quattro falde, ma ancora una volta non è possibile confidare troppo nell'at‐
tendibilità di disegni mirati più all'identificazione geomorfologica e stradale di un territorio, piuttosto che alle forme architettoniche dei singoli monumenti che vi insistevano. Da questo punto di vista è inte‐
ressante notare il sistema di strade a tridente che si distacca dal corso principale dell'Aurelia e, conver‐
gendo sul Castello di Palo, punta verso Monteroni e l'osteria, da una parte, verso il ponte del Sanguinara e la via per Civitavecchia, dall'altra, e verso la strada per Ceri, nel mezzo (anche se questo si noterà solo nelle carte del territorio più recenti25). Si tratta di vie alberate, come sottolinea anche il cartiglio della tavola («Stradoni che vanno a Palo con arbori»), la cui memoria si può ancora riscontare in alcuni pini at‐
tuali «in alcuni punti unica spia che consenta di individuare gli stessi antichi percorsi»26. Un impianto stradale piuttosto frequente in questo momento, che compare qui per la prima volta e caratterizzerà tutta la cartografia della zona fino alla metà dell'800. Due grossi pini si trovano, a tutt'oggi, in asse con l'ingresso del "Castellaccio", sull'altro lato di via dell'acquedotto di Statua, e dovevano costituire la testa‐
ta della strada che terminava sul fronte dell'osteria. Per quanto riguarda le proprietà, mentre Palo e Sel‐
va della Rocca, vengono assegnate rispettivamente al duca di Bracciano (Orsini) e alla duchessa di Ceri (Borromeo), l'osteria di Monteroni (n.50 nella pianta) sembra essere attribuita alla tenuta identificata con la lettera R del duca di Selci (Giuseppe Angelo Cesi), ma con ogni probabilità in questo caso la scala è troppo grande per poter distinguere una proprietà così piccola. Dal 1672 fino al 1678, l'osteria di Monteroni è proprietà del quarto duca di Ceri, Antonio Renato Borromeo, erede di Giulio Cesare Borromeo e di Giovanna Cesi, il cui titolo è ottenuto dopo la rinuncia fatta dal fratello cardinale Federico e per conferimento diretto del Papa. Il 1672 è l'anno della morte di Giovanna Cesi, per cui possiamo ipotizzare, che fino a questo momento sia lei la duchessa di Ceri che compare nei documenti. Non conosciamo molto di questo periodo, ma dobbiamo immaginare che An‐
tonio Renato o la duchessa di Ceri abbiano acquistato, in un momento imprecisato, le proprietà che il duca di Selci vantava sui terreni di Monteroni, riunificando la tenuta, se, come attestano i documenti, il 29 marzo del 1678 Livio Odescalchi acquisterà il ducato di Ceri da Renato Antonio Borromeo27 (com‐
prendendo per intero, come si vedrà, la tenuta di Monteroni). In un contesto che non è mai stato «così povero di abitanti come in questo periodo a cavallo tra il Seicento e il Settecento [...], nella desolazione tipica della Campagna Romana, infestata dalla malaria e da bande di briganti, soltanto alcuni casali a‐
24
ASR, Presidenza delle Strade, Catasto Alessandrino, mappa 428/14 Vedi Infra. 26
S. PASSIGLI, op. cit., 2001 (vedi Supra nota 1), p. 134 27
ASR, Archivio Odescalchi, 4 C 5 “Libro d’istromenti dello Stato di Ceri”: registro degli istrumenti rogati dal 29 marzo 1678 al 23 luglio 1691 per gli atti del notaio Paluzzi. 25
15 gricoli, vecchi e nuovi e le osterie lungo la via Aurelia costituiscono gli insediamenti fissi del territorio»28. E l'osteria di Monteroni sembra essere fra i più importanti di questi casali. Nella Tavola Topografica ad ampia scala del Territorio o Distretto di Roma di Innocenzo Mattei29, il toponimo Monteroni è accompa‐
gnato dalla dizione "Posta". L'acquisto degli Odescalchi del ducato di Ceri merita una appropriata contestualizzazione storica. Gli Odescalchi erano una antica famiglia di commercianti e banchieri originari di Como, iscritta alla nobil‐
tà di questa città già dal XIII secolo. Nel 1676, l'ascesa al soglio pontificio di un loro esponente, Benedet‐
to Odescalchi, con il nome di Innocenzo XI, modifica gli orizzonti della storia familiare, imponendo una politica di espansione delle proprietà del casato all'interno della Campagna Romana. Le tre tenute re‐
centemente acquistate, vengono così progressivamente incrementate, in particolare da Livio, il nipote del pontefice, sfruttando anche la profonda crisi economica in cui ormai da anni versavano alcune delle più importanti ed antiche famiglie della nobiltà romana, come gli Orsini di Bracciano e i Frangipane. «Gli Odescalchi comprarono così in pochi anni» scrive Grassi «gran parte di quel patrimonio, che fu messo in vendita dalla Congregazione dei Baroni con lo specifico benestare pontificio, come era previsto dalle pro‐
cedure. Delle varie compravendite restarono, comunque, annosi strascichi che videro passare, davanti al Tribunale della Sacra Rota, eredi, creditori, testimoni e periti delle varie parti»30. Così, al prezzo di 437.000 scudi, Don Livio Odescalchi acquista dai Borromeo, nel 1678, il ducato di Ceri e dopo solo un anno una "Breve" di Innocenzo XI conferma l'acquisto effettuato ed esorta il nipote a farne altri, dispo‐
nendone liberamente. Da lì a pochi anni, entro la fine del secolo, Livio Odescalchi acquisterà anche la tenuta ed il castello di Palo e, a seguire, il ducato di Bracciano. Dal punto di vista della storia del "Castellaccio" vanno segnalati due importanti documenti, con‐
servati presso l'archivio Odescalchi e, a quanto mi risulta, fino ad oggi inediti31, che per la prima volta permettono di fare una fotografia del monumento, della sua architettura e della sua consistenza, sulla soglia dell'ultimo quarto del XVII secolo. Il primo è il grande e bellissimo album, datato 1682, con pro‐
spetti e piante a colori, di 70 fogli in pergamena numerati, contenenti le misurazioni e le rappresenta‐
zioni cartografiche di campi e terreni, le descrizioni, le piante e i prospetti di alcuni fra i più rappresenta‐
tivi edifici interni allo "stato di Ceri"32. É una sorta di inventario generale dei beni e delle terre contenute all'interno del piccolo ducato, che l'Odescalchi commissiona all'agrimensore Simone Rotondi e al carto‐
grafo Giovan Battista Cingolani, all'indomani dell'acquisto effettuato. Il secondo è un instrumento che data 14 marzo 1683 e che consiste in un contratto di affitto dell'Albergo e Ostaria di Montarone, posto fuori di Porta Fabrica, nel territorio di Ceri, assieme a vari appezzamenti di terreno, per la risposta annua di 200 scudi a Giovanni Pizzalio e Carlo Antonio de Angelis, più tardi confermato a Gervaso Cipollino33. Insieme ci forniscono una rappresentazione grafica e descrittiva dell'osteria di eccezionale ricchezza. In particolare l'album delle «Misure e piante», conserva di fatto quello che potremmo definire il primo ri‐
28
F. ENEI, op. cit., 2001 (vedi Supra nota 1), pag. 87 A. P. FRUTAZ, op.cit., II, 1972 (vedi Supra nota 20), tav. XXX. 2 a, n. 155 30
P. GRASSI, Rilievo architettonico del "Castellaccio" di Monteroni. Relazione storico bibliografica, Comune di Ladi‐
spoli, 1999, pp. 14‐15 31
L'archivio della famiglia Odescalchi è stato solo recentemente riversato presso l'Archivio di Stato di Roma 32
ASR, Archivio Odescalchi, 43 A 2 (in preziosi/piante. Stanza 4) «Misure e piante del general territorio e quarti di Ceri, ducato e principato dell’Ill.mo et Ecc.mo Sig. Principe D. Livio Odescalco, misurata da Simeone Rotondi, delineate e colorite da Gio. Batt. Cingolani l’anno MDCLXXXII, 1682». 33
ASR, Archivio Odescalchi, 4 C 5 «Libro d’istromenti dello Stato di Ceri»: registro degli istrumenti rogati dal 29 marzo 1678 al 23 luglio 1691 per gli atti del notaio Paluzzi. 29
16 lievo scientifico del monumento. L'osteria viene rappresentata con la pianta del piano terra e con un al‐
zato prospettico. L'edificio esternamente mostra un aspetto generale piuttosto simile allo stato attuale, ma alcune sostanziali differenze che andremo a sottolineare. Il fronte attuale presenta già un portale bugnato a conci ammorsati, che potrebbe somigliare all'attuale, ma non ha al di sopra la specchiatura per lo stemma nobiliare. Inoltre le aperture finestrate sono molte di meno: solo tre al piano superiore e due, più piccole e quadrate, a livello del mezzanino del piano terra. Le finestre originali si possono anco‐
ra oggi riconoscere rispetto a quelle posticce, perché hanno la mostra realizzata in pietra contro le altre trattate ad intonaco. Le torri sono del tutto rivestite ad intonaco, coerentemente all'aspetto unitario che l'edificio voleva manifestare, come sottolinea ulteriormente il marcapiano in pietra che cerchia per inte‐
ro l'architettura dell'osteria, senza escludere le emergenze angolari. La pianta del piano terra mostra una articolazione vicina a quella attuale, ma lo spazio è unitario, con un unico ingresso, quello centrale, che funziona da elemento di distribuzione per le due grandi ali del corpo centrale (organizzate secondo l'articolazione attuale) e per il corpo scala frontale che accede al secondo piano. Il grande annesso posteriore ancora non esisteva e tutti gli stanzini delle torri erano accessibili dagli ambienti interni. Riporto per intero la descrizione sintetica del complesso, che ci forni‐
sce anche alcune indicazioni sull'uso degli ambienti: «Montarone. Osteria di posta, situato nel Quarto detto Montarone di sotto, sù la strada Romana che conduce da Roma à Citta vecchia, è questo di primo e secondo piano con quattro torrette de quattro angoli di esso ad uso d'antica fortezza, il di cui primo piano serve per cocina, stalla, stanza da tener legne et habitatione dell'Oste, et il secondo piano per alloggi de forastieri. E non molto lontano da quest'Oste‐
ria una casa parte di primo piano, e parte di primo e secondo quale suol servire per stalla e fenile dell'O‐
steria, et altro per uso e consumo dell'Oste»34. Anche di questo edificio abbiamo pianta ed alzato, dai quali deduciamo facilmente che la strut‐
tura esterna che attualmente affianca il "Castellaccio", sostituisce in un secondo momento l'originario corpo di servizio descritto e rappresentato nel volume. Grazie al documento di affitto dell'osteria com‐
prendiamo per quale motivo tale annesso sia stato costruito esterno al grande complesso dell'osteria: una clausola si raccomanda infatti che gli affittuari «non possino rimettere ne far rimettere il fieno den‐
tro all’Hostaria sud.ta ma quello e paglia debbano rimetter dentro la cascina acciò non si incendij l’Hostaria per qualche accidente»35. E mentre, in quello stesso anno, il nuovo duca di Ceri, don Livio, di‐
stinguendosi nell'assedio di Vienna e nella guerra contro i turchi si guadagnava, dall'imperatore Leopol‐
do I, il titolo di principe del Sacro Romano Impero, l'osteria di Monterone, continuava la sua secolare at‐
tività di accoglienza, in omaggio ad una vocazione ormai consolidata. Nel 1687, l'agrimensore Simeone Rotondi viene nominato perito di parte dal Collegio Germanico e Ungarico di Roma, per una controversia tra lo stesso e il duca di Bracciano e principe di Vicovaro, Don Flavio Orsini, per il territorio detto di Quarticciolo. L'"Ostaria de' Monteroni" viene schematicamente rappresentata ancora una volta, con le sue quattro torri e il corpo centrale ed è assegnata naturalmente al territorio del principato di Ceri36. Il tridente di strade che parte da Palo, è ora rappresentato con la via centrale che punta verso Ceri, mentre l'altro ramo laterale che si riconnette all'Aurelia verso Civitavec‐
chia, si segnala per la presenza all'incrocio con l'antica via consolare di una Osteria di Palo (la futura O‐
steria Nuova). In questi anni si segnalano dei lavori edilizi importanti sull'edificio. Una «Nota de' paga‐
34
ASR, Archivio Odescalchi, 43 A 2, (vedi Supra nota 32), p. 68 ASR, Archivio Odescalchi, 4 C 5, (vedi Supra nota 33), p. 56 36
Archivio di San Saba. Collegio Germanico e Ungarico. Palo ,faldone Palidoro 1687 35
17 menti fatti a muratori, ferrari, falegnami, ... dall'Anno 1681, fino all'Anno 1689» riporta dei pagamenti effettuati in questi anni ai muratori Giacomo Chiesa e Mariano Vita, oltre che al falegname Belardino Ponzini, per la realizzazione di un «fontanile novo» e un «casone novo fatto per servitù de' monelli al quarto Monteroni di sotto»37. Il fontanile potrebbe essere quello che ancora si apre al disotto del tor‐
rione di sud‐ovest, mentre il casone novo si dovrebbe identificare con l'annesso del lato lungo posteriore ad unico spiovente, diviso da due setti ad arco ogivale, almeno da quanto parrebbe confermare una car‐
ta del 22 novembre 169138. Tale pianta, volta prevalentemente a raffigurare il territorio del "Quarticcio‐
lo di Palo" guarda il mare dall'entroterra, ed è una rappresentazione che mostra il "Castellaccio" secon‐
do un punto di vista inconsueto; il casale turrito è accompagnato da un volume esterno assolutamente inedito (nella raccolta di misure e piante del Rotondi e del Cingolani del 1682 ancora non compariva39) e del tutto somigliante a quello attuale. Nella pianta dell'Agro Romano del 1704 di Giovan Battista Cingo‐
lani dalla Pergola, l'edificio compare ancora come Osteria di Montarone ed è sempre più schematizzato al punto che scompaiono le torri, ma rimane una sorta di annesso aggregato al corpo centrale40. I primi anni del '700 sarebbero stati, per l'osteria di Monteroni, tempi di profondo rinnovamen‐
to. La visita annunciata di papa Albani Clemente XI a Palo e nei territori degli Odescalchi, avvenuta nel 1708, dovette essere l'occasione per un'operazione di ristrutturazione del casale. A questo momento dovrebbero essere ascritti vari interventi, di cui vediamo gli esiti nel monumento che è giunto a noi: la creazione sopra il portale bugnato dello stemma di famiglia, la creazione di nuove false finestre con cor‐
nici ad intonaco, l'apertura di nuovi camini "di comodo", la ritinteggiatura degli interni con la creazione di un apparato decorativo di affreschi e modanature di gusto tipicamente settecentesco. Infine, la crea‐
zione di una piccolissima cappella, un oratorio dedicato alla "Madonna SS.ma della Consolazione", nell'ambiente interno del piano terra della torre di sud‐ovest41. Tale intervento dovette prevedere l'a‐
pertura di una porta esterna della cappella e la sua, potremmo dire monumentalizzazione, con l'inseri‐
mento di un frontone, di una piccola tettoia di accesso e di un campanile a vela. A questi interventi po‐
trebbe aver partecipato direttamente, secondo Paolo Grassi, l'architetto di fiducia degli Odescalchi, il lombardo Ludovico Rusconi Sassi, chiamato a Roma dal Principe Livio proprio nel 170242. A parte il breve periodo (1716‐1720) relativo al tentativo di Baldassarre I Odescalchi di vendere il ducato di Ceri a Giu‐
seppe Maria Serra duca di Cassano43, per estinguere i debiti contratti da Livio I, cugino e padre adottivo (tentativo poi conclusosi con la rescissione del contratto di compravendita44), l'osteria di Monteroni ri‐
marrà per tutto il secolo funzionante sotto il controllo degli Odescalchi. Fra i frequentatori della locanda si segnala in particolare, probabilmente intorno alla metà del '700, la visita di San Paolo della Croce, il fondatore dei Padri Passionisti. Il 14 aprile 1795, Livio II Odescalchi, figlio di Baldassarre, è costretto ad ingiungere un mandato esecutivo per la evacuazione e restituzione dell’osteria di Monterone e dell’Osteria Nuova di Palo contro l'affittuario moroso Onofrio Ventura45. 37
ASR, Archivio Odescalchi, 9 E 3, n. 10, n. 1 Cfr. P. GRASSI, op. cit., 1999 (vedi Supra nota 30), pp. 15‐16 39
ASR, Archivio Odescalchi, 43 A 2, (vedi Supra nota 32), p. 51 verso 40
Biblioteca Nazionale Centrale Vitt. Em.: 18 P. B. 10; Cfr. A. P. FRUTAZ, op.cit., II, 1972 (vedi Supra nota 20), tav. XXXII. 1 d, n. 163 41
P. GRASSI, op. cit., 1999 (vedi Supra nota 30), pp. 17‐18 42
Ivi, p. 16 43
ASR, Archivio Odescalchi, 3 G 9 44
ASR, Archivio Odescalchi, 5 E 1, n. 3 45
ASR, Archivio Odescalchi, 4 E 3 n. 17 38
18 Figura 9 ‐ Misure e piante del general territorio e quarti di Ceri. Quarto di Monterone di sotto 19 Figura 9 ‐ Misure e piante del general territorio e quarti di Ceri. Quarto di Monterone di sotto 4 Figura 10‐ Misure e piante del general territorio e quarti di Ceri. Quarto di Monterone di sotto. Dettaglio 20 Figura 11 ‐ Misure e piante del general territorio e quarti di Ceri. Pianta e Alzato dell'Osteria di Monteroni 21 Figura 12 ‐ 1683. Livio Odescalchi affitta l'Albergo e l'Ostaria di Montarone 22 Figura 13 ‐ 1687. Collegio Germanico e Ungarico. La tenuta di Palo e Monteroni 23 Probabilmente l'Ottocento si apre su un processo di lento e progressivo decadimento delle strutture architettoniche dell'edificio, iniziato nel secolo precedente e a cui non si è riusciti, o non si è provato, a dare risposta. Almeno questo a giudicare dalla richiesta di una delegazione di Civitavecchia per deviare la viabilità principale verso Palo, di cui si è già parlato nell'introduzione46, proprio per carica‐
re sulla più accogliente e confortevole Osteria Vecchia di Palo, il numero di viaggiatori e viandanti che l'osteria di Monteroni non sembra più in grado di gestire. Eppure intorno al 1820 il Catasto Gregoriano registra ancora per Monteroni, non solo l'osteria, ma anche l'edificio di posta e l'oratorio, segno eviden‐
te che tutte queste funzioni sono ancora in uso47. Oltre a questo, si istituisce qui una sorta di gendarme‐
ria, di posto di frontiera tra gli "stati" di Roma e Civitavecchia. In questo orizzonte si inserisce l'episodio del noto sonetto di Giuseppe Gioacchino Belli, Er Passaporto, scritto nel 1833, in cui il protagonista, par‐
tito da Roma, per recarsi a trovare alcuni parenti a Civitavecchia, viene fermato e arrestato proprio a Mmonterone... Gli ultimi documenti realmente importanti per una comprensione storica dell'edificio, sono due accurati rilievi descrittivi dell'edificio, nei quali sono elencati tutti gli ambienti, con lo stato delle struttu‐
re, degli infissi e degli arredi, in una sorta di inventario propedeutico alla consegna del casale a nuovi af‐
fittuari e alla quantificazione metrica dei lavori eventualmente da effettuare. Il primo è eseguito dall'ar‐
chitetto Secondo Concioli nel 1837 per la consegna dell'osteria a Domenico Brancaccia e Giuseppe An‐
tonini Tofanelli48; l'altro è un rilievo dell'architetto Luigi Agostini per la consegna a Pietro Alibrandi e ri‐
sale al 185149. I testi ci restituiscono l'uso e le funzioni di ogni singolo ambiente, oltreché il loro aspetto generale e le percezione che gli ambienti dovevano avere all'epoca. Scopriamo così che alcuni degli am‐
bienti interni del piano terra erano soppalcati con solai lignei («palchettoni con tre legni maestri sotto solaro rustico e tavolato con regoli che lo chiude») e scale alla fratesca, mentre tutto il secondo piano sembra controsoffittato dai solai per i granai e il soffittone. La percezione degli spazi dunque è oggi completamente alterata, rispetto a vani che dovevano essere più bassi in quanto più facili da riscaldare, e che difficilmente avrebbero lasciato a vista le strutture del sottotetto. Il primo documento ci mette i‐
noltre di fronte ad un edificio pesantemente danneggiato da un recente incendio, soprattutto nelle strutture di copertura, e probabilmente rimasto inservibile per alcuni anni. L'altro testo ci presenta per la prima volta la descrizione di una «cascina prossima al CasaIe [che] è un fabbricato rettangolare, nei due lati minori sono due separati ingressi ciascuno de' quali chiuso da fusto a cancello foderato di due partite; il pavimento della medesima è a terreno, le mura ... presentano rutta la solidità possibile; i muri sono contrastati all'esterno da n° 8 piloni per parte». Una rappresentazione quasi interamente coinci‐
dente con l'annesso attuale, a parte piccole, veniali discordanze. Ma inesorabilmente i lavori per la realizzazione della nuova via Aurelia, con la deviazione per Pa‐
lo, arrivano a compimento. Nel 1857 la strada è ormai compiuta, ed anche la via ferrata, la via a binari per le nuove moderne macchine a vapore è in via di completamento. Varie pendenze in questo senso erano intercorse tra Livio III Odescalchi e la Società Generale delle Strade Ferrate Romane, per l'acquisto dei terreni e per le servitù, che si risolveranno in una transazione datata 186050. Non altrettanto bene si può dire per il casale di Monteroni. Se l'Aurelia per Palo, escludeva il "Castellaccio" dalla viabilità princi‐
pale, la ferrovia taglia addirittura il sistema a tridente, che faceva capo al Castello di Palo e di cui, l'oste‐
46
Vedi Supra, p. 3 Catasto Gregoriano. Agro Romano ‐ 84 II ‐ Mappa 48
ASR, Archivio Odescalchi, 12 A 1, n. 4 49
ASR, Archivio Odescalchi, 9 A 4, n. 12 50
ASR, Archivio Odescalchi, 9 A 10, n. 3 (10‐ 11‐16) 47
24 ria costituiva uno dei terminali. La sua funzione di stazione di posta, che ha conservato per almeno due secoli e mezzo, indipendentemente dai tanti cambi di proprietà e dalle complicate vicende ereditarie dei casati romani, ora non ha più alcun senso. Nel giro di pochi anni l'edificio viene relegato ad ospitare e‐
sclusivamente funzioni agricole: viene utilizzato da mezzadri e affittuari, che ne fanno residenze e locali di servizio per la coltivazione. Le dimensioni del casale diventano allora troppo grandi e si decide per questo di parcellizzarlo. L'ala alla destra di chi accede attraverso l'ingresso principale viene chiusa inter‐
namente, mentre sulla facciata due porte con arco a tutto sesto e mostre ad intonaco si aprono simme‐
tricamente rispetto al portone principale, per rendere indipendenti le varie parti. La data in numeri ro‐
mani riportata sulla soglia in marmo dell'ingresso sud‐ovest non è perfettamente leggibile. Si riesce chia‐
ramente a vedere MDIIILI... ma, a causa del telaio della porta, non è possibile capire se ci siano altre ci‐
fre a seguire. Che sia 1851 o un altra data, è senz'altro quella relativa ad uno degli ultimi interventi sul Castellaccio e probabilmente quello che segna il suo irreversibile cambio di destinazione d'uso. Il seguito della storia ha il sapore di un lento e progressivo abbandono. Al di là di una gloriosa comparsata cinema‐
tografica (nel "Castellaccio", come viene sempre più spesso chiamato nel cartografia novecentesca, sono state girate le ultime scene del film «La Grande Guerra» di Mario Monicelli del 1959) il monumento vie‐
ne relegato, durante il secolo scorso, ad usi via via più miserevoli: sfruttato come rifugio per gli sfollati di Ladispoli durante la Seconda Guerra Mondiale, dopo la riforma agraria e l'esproprio del monumento, la sua proprietà passa alla società Ente Maremma, che lo occupa con i suoi mezzadri e con le attività agri‐
cole. L'eredità dell'Ente Maremma è raccolta dall'ERSAL, attuale ARSIAL, di fatto l'agenzia regionale per lo sviluppo agricolo, ma il monumento continua versare sempre più in condizioni di abbandono fino alla fine degli anni '90, quando è utilizzato come residenza da famiglie indigenti e da immigrati clandestini. Solo il giubileo del 2000, è stato in grado di risvegliare l'attenzione attorno al monumento. Il casale viene interamente restaurato, sia per quanto riguarda i paramenti esterni, sia per quanto riguarda interventi strutturali (cerchiaggio delle quattro torri con cuciture armate; consolidamento dei solai e delle volte; revisione e rifacimento degli intonaci e di alcune pavimentazioni; sostituzione di tutti gli infissi; rifaci‐
mento e revisione dei manti di copertura e dei piani di calpestio delle torri)51. Il progetto di restauro, condotto dall'arch. Giancarlo Seno, sotto la supervisione della Provincia di Roma e della Soprintendenza ai Beni Architettonici del Lazio, ha condotto anche alla riscoperta delle tracce dell'antico basolato roma‐
no «in tangenza alla facciata principale del "castellaccio", sotto le due torri anteriori e dentro la stalla per tutta la lunghezza del suo asse longitudinale»52, e al di la di alcune scelte discutibili (come quella di decorticare completamente i quattro torrioni angolari) l'intervento aveva restituito al monumento una sua dignità architettonica. Inspiegabilmente, dalla fine dei restauri ad oggi, l'edificio è stato nuovamente abbandonato, facendolo ripiombare in poco tempo in una situazione di consistente degrado. 51
G. SENO, Il castello di Monterone, in R. CIPOLLONE, S. CANCELLIERI (a cura di), Il giubileo 2000 alle porte di Roma : monumenti ritrovati nel Lazio, Ministero per i beni e le attività culturali, Soprintendenza per i beni ambientali e architettonici del Lazio, Roma, Fratelli Palombi editori, 1999, pp. 25‐26 52
Ibidem 25 Figura 14‐ 1835. La pianta per la deviazione dell'Aurelia prima di arrivare a Monteroni 26 Figura 15 ‐ 1837. Consegna delle fabbriche dell'Osteria di Monteroni e dell'Osteria Nuova affittate a Brancaccia e Antonini 27 3.La fortezza. Prima del 1588. Renzo di Ceri, i Normanni e le ipotesi sui motivi di una scelta ar‐
chitettonica. Abbiamo indagato a fondo la storia dell'osteria dei Monteroni, dalla fine del XVI secolo in avanti. Ma cosa era successo prima? Come si era arrivati a quella data che abbiamo utilizzato come fosse uno spartiacque della nostra ricerca? Possiamo ancora parlare di un'osteria e di una stazione di posta? L'edi‐
ficio già esisteva? E, qualora esistesse, che forme aveva? Quali sono le sue vicende architettoniche prima del 1588? La realtà scientifica della ricerca ci dice che fino a questo momento le fonti dirette riguardanti il monumento tacciono. Il casale di Monteroni non compare mai in nessuna delle carte databile a prima del 1588, tra quelle che finora ho avuto la possibilità di consultare. Ma alcuni dei documenti a cui la ri‐
cerca ha condotto sono stati, fino ad oggi, di difficile reperibilità, spesso per problemi di restauro e di chiusura degli archivi, e non è escluso che, portando avanti le indagini, si possano fare nuove acquisizio‐
ni. Potremmo dire quindi che questa parte dello studio deve essere considerata a tutt'oggi, piuttosto che simile ad un percorso esperito, come una vera e propria ipotesi di lavoro, che necessita ancora di es‐
sere vagliata attraverso il filtro severo della verifica. Tuttavia alcuni sentieri di indagine appaiono un po' più che semplici ipotesi, e credo sia opportuno almeno accennarne la via. Per riprendere questo filo è necessario nuovamente addentrarsi negli intricati meandri delle genealogie e dei testamenti ereditari delle famiglie romane. Come ho già dimostrato53, il casale di Monteroni entra nei possedimenti dei Cesi solo attraverso il matrimonio con Porzia dell'Anguillara. L'edificio è evidentemente parte di una tenuta che riguarda la dote di Porzia, e fino a quel momento non aveva niente a che vedere con la famiglia umbra. Ma chi era Porzia dell'Anguillara? Abbiamo visto come prima del matrimonio in casa Cesi, avesse sposato preceden‐
temente un Orsini, rimanendo presto vedova con un'unica figlia femmina, Olimpia Orsini. Il nuovo ma‐
trimonio con il Cesi, puntava senz'altro alla possibilità di poter generare un figlio maschio. Perché? Di fatto Porzia era l'ultima discendente di un ramo laterale della grande e nobilissima famiglia romana dei conti di Anguillara54, di antica stirpe, che già nel XII secolo compaiono in prima fila fra i nobili del Patri‐
monio che dovevano accogliere gli imperatori che scendevano a Roma55. Il ramo di Porzia è quello degli Anguillara di Ceri56, il cui rappresentante più noto fu Lorenzo Anguillara, detto Renzo di Ceri, come era solito firmarsi, famosissimo condottiero e uomo d'arme, vissuto tra il 1475 e il 1536, che prestò servigi per Venezia, per il Papa e per il re di Francia, ma soprattutto strenuo difensore di Roma come capo dell'esercito pontificio durante il Sacco dei lanzichenecchi del 1527. Renzo ebbe tre figli: due dalla prima 53
Vedi Supra p.4 e ss. Purtroppo la documentazione familiare più antica è andata dispersa. Per una storia dei conti degli Anguillara: V. SORA, I conti di Anguillara dalla loro origine al 1465, in “Archivio della Società romana di Storia patria”, [1] 29 (1906), pp. 397‐442; [2] 30 (1907), pp. 53‐118; G. COLETTI, Regesto delle pergamene della famiglia Anguillara, in “Archivio della R. Società romana di storia patria”, 10 (1887); S. CAROCCI, Baroni di Roma. Dominazioni signorili e lignaggi aristocratici nel Duecento e nel primo Trecento, "Collec‐
tion de l'Ecole française de Rome", 23, Roma 1993, pp.299‐309 55
Ivi, p. 299 56
Per gli Anguillara di Ceri vedi: D. MANTOVANI, Gli Anguillara di Ceri, ultimi signori di Bieda (Blera), in " Biblioteca e società. Rivista del Consorzio per la gestione delle biblioteche comunale degli Ardenti e provinciale Anselmo Anselmi di Viterbo", a. V (1983), n. 3‐4, Viterbo 1983, pp. 11‐14 54
28 moglie Lucrezia Orsini, Giampaolo detto Titta e Gerolama (che sarà monaca clarissa); uno dal secondo matrimonio con Francesca Orsini, dopo la morte di Lucrezia nel 1508, Lelio. Giampaolo, anch'esso uomo d'armi, muore presto nel 1550, lasciando una sola figlia femmina, Porzia appunto, e i suoi beni passano quindi al fratellastro Lelio. Il quale, abbracciata la carriera ecclesiastica, muore nel 1572, senza eredi. Con lui di fatto si estingue il ramo maschile degli Anguillara di Ceri, mentre il feudo e gli altri possedi‐
menti e beni di Lelio sono ereditati dalla nipote Porzia, di cui conosciamo le complesse vicende. Le cro‐
nache del tempo ci ricordano che Renzo di Ceri, non fu solo valente uomo d'arme, ma anche esperto nell'arte della fortificazione, e secondo alcuni più abile nella guerra di difesa che in campo aperto. Sap‐
piamo che, da giovanissimo, nel 1503, dovette subire un assedio a Ceri insieme al padre Giovanni, da parte delle truppe pontificie guidate da Ludovico della Mirandola, ma ne esce vincitore. Nel 1510, come conseguenza dell'assedio, è proprio Renzo a riattare le mura del castrum di Ceri57. Le caratteristiche architettoniche dei torrioni del nostro "Castellaccio" mostrano degli aspetti le‐
gati alla fortificazione, per così dire, "alla moderna", che, pur se mescolate con caratteristiche certamen‐
te più arcaizzanti, non permettono di retrodatare troppo la costruzione degli stessi. È vero, abbiamo la presenza delle merlature, ma le feritoie originali che si aprono nella struttura muraria delle torri sem‐
brano pensate per la difesa con bocche da fuoco, le cui ubicazioni e forme valutano attentamente le po‐
sizioni di tiro in relazione al "fiancheggiamento"; le mura sembrano tendere al verticalismo e alla difesa piombante, e tuttavia sono inclinate, con lo sguincio dello spigolo più esterno sensibilmente acuto; la struttura è realizzata in pietra e non nella più resistente cortina laterizia, ma gli spessori sono sensibili e il rapporto tra altezza e larghezza delle torri, gli attribuisce un aspetto massivo che una struttura medie‐
vale non avrebbe certamente avuto. Una datazione quindi che verosimilmente non può scostarsi troppo dalla forbice che va dall'ultimo quarto del XV secolo al primo quarto del XVI. E non si deve nemmeno dimenticare che il progettista della costruzione con ogni probabilità non è digiuno di tecniche militari di difesa e di fortificazioni. Ma l'arco temporale è proprio quello che vede l'apprendistato militare e le prime vittorie del giovane signore di Ceri, Lorenzo degli Anguillara, esperto a tal punto di fortezze e mu‐
ra, da progettare la ristrutturazione della cinta di Ceri. Non saprei immaginare personaggio migliore, che tutta la vita ha dedicato al mestiere delle armi, per ipotizzare il committente o il realizzatore di un così curioso progetto, come quello del "Castellaccio". Non sappiamo per quale ruolo fosse stato pensato l'e‐
dificio, ma credo si possa ipotizzare che fu proprio Renzo di Ceri, nei primi anni del '500, a decidere di realizzare questa architettura lungo l'antico percorso della via Aurelia, utilizzando i quattro torrioni, e‐
lementi desunti dall'architettura delle nuove tecniche delle fortificazioni, come elemento compositivo di unificazione di un organismo altrimenti semplice, o come più verosimilmente sono propenso a pensare, di strutture preesistenti sul territorio, ereditate da lasciti passati. Quali sono le motivazioni che ci spingono a pensare a delle preesistenze, regolarizzate dall'inter‐
vento di Renzo? Innanzi tutto, motivazioni derivanti dal rilievo e dalle strutture murarie. Le due ali del corpo centrale, non hanno una simmetrica disposizione degli ambienti. La parte alla destra di chi entra, è caratterizzata dalla presenza di un ambiente interrato collegato ad un pozzo, o ad una cisterna, ele‐
menti che, considerazioni archeologiche alla mano, sembrano affondare radici lontane. Secondo quanto scrive Enei, al di sotto del casale dovrebbe essere collocata una vera cisterna collegata ad un sistema di cunicoli antichi, oggi non accessibili58. Sul fianco dell'ambiente interrato voltato a botte, le cui spallette murarie utilizzano una tecnica mista con listature di laterizi, che non mi pare di riscontare in nessuna al‐
tra struttura dell'organismo, si apre una sorta di stretto corridoio inclinato, scavato nel banco di roccia e 57
58
M. BALDONI, op. cit., 1989 (vedi Supra nota 1), pag. 25 F. ENEI, op. cit., 2001 (vedi Supra nota 1), pag. 281, s. 804 29 non indagabile, che testimonia una diversa assialità appartenente ad un sistema evidentemente prece‐
dente. Anche l'altra ala, alla sinistra di chi accede dall'ingresso, mostra dei caratteri di non perfetta cor‐
rispondenza tra le parti. Il muro che separa gli ambienti e che sostiene le due volte a botte, con genera‐
trici ortogonali rispetto alle altre, non sembra essere pienamente perpendicolare al muro di fondo, de‐
terminando dei lievi disassamenti tra la muratura del piano terra e quella del primo piano. Tutti elemen‐
ti che farebbero pensare ad adattamenti intervenuti su delle strutture esistenti, in sede di una loro suc‐
cessiva trasformazione. Ora ci chiediamo: è veramente impossibile trovare le tracce di queste probabili strutture, nei documenti che ci sono pervenuti? Per rispondere, ancora una volta dobbiamo andare a capire come, e con quale logica, la proprietà del terreno dei Monteroni (e quindi quella del castrum di Ceri) si trasferi‐
sce nel tempo nei diversi passaggi di proprietà. Per ora siamo risaliti fino a Lorenzo dell'Anguillara (e a suo padre Giovanni). Dobbiamo compiere un ulteriore sforzo, per fare ancora un passo più indietro nel tempo. A tal proposito, mi paiono fondamentali due documenti di segno apparentemente opposto. Si tratta, da un lato, di un atto di concordia tra alcuni esponenti dei Conti di Anguillara, rogato dal notaio romano Leonardo De Buccanatis nel 142759. La questione nasce tra il conte di Anguillara Capranica Gio‐
vanni (nato da Francesco) con suo figlio Felice e i conti di Anguillara Capranica Pandolfo (figlio di Angelo) e Giacomo (figlio di Nicola). Il motivo del contendere riguarda beni dell’eredità paterna e materna. La cosa che ci interessa è che in particolare il territorio di Ceri, fa parte dei beni derivanti dall’eredità ma‐
terna. Cosa era successo? Che agli inizi del '400 uno dei due rami rimanenti della famiglia Normanni di Castiglione, quello di Giovanni di Stefano Normanno si stava estinguendo nelle tre figlie di questi Tancia, Ludovica e Maria, andate rispettivamente in sposa ai tre Anguillara Capranica citati nell'atto di concordia in questione come i "padri", ovvero a Nicola, a Giovanni e ad Angelo. Facciamo ancora un passo indietro e cerchiamo di capire il ruolo della famiglia Normanni in queste non semplici vicende60. I Normanni costituivano una famiglia di spicco del XII secolo, che erano riusciti a conservare un sostanziale peso politico per tutto il secolo successivo mostrando i primi segni politici di decadenza sol‐
tanto in pieno Trecento. Il loro interesse nelle nostra storia consiste nel fatto che tutti i loro feudi e i loro castelli erano disseminati lungo la via Aurelia, e concentrati nell'area della Maremma laziale compresa proprio tra Cerveteri e Castel di Guido. Il fatto non può destare meraviglia. Molto probabilmente i Nor‐
manni erano discendenti di quei cavalieri normanni stabilitisi a Roma al tempo di Niccolò II, tra il 1059 e il 1061, per contrastare e proteggere la città dalle sempre più frequenti incursioni saracene sulle coste laziali. Niente di strano quindi se i feudi dei Normanni si trovano proprio in quest'area, che nell'alto me‐
dioevo è una delle più vulnerabili e difficile da difendere, perche acquitrinosa, insalubre e sempre meno popolata. Nell'anno mille nell'area si contano solo tre insediamenti di una certa rilevanza urbana: Ceri, Castel Campanile, e Cerveteri (Caere). Il resto è un paesaggio desolante. Alla metà del 1200, la famiglia Normanni si divide in due rami principale, spartendosi i territori secondo una divisione prettamente ge‐
ografica: il ramo dei Normanni di Ceri, a cui vanno i castra più a nord come Ceri, Palo, Castel Campani‐
le, Castel Lombardi e Loterno, e i Normanni di Castiglione a cui spettano, oltre naturalmente a Castiglio‐
ne, Castel di Guido, Leprignano, Testadilepre e villa San Giorgio. La stessa toponomastica dei possedi‐
menti sottolinea la presenza di una rete di castelli e centri fortificati attorno a cui si esercita il controllo del territorio da parte della famiglia. Il ramo di Ceri giunge ad estinzione tra il 1334 e il 1348 e i loro beni 59
ASR, Collegio notai capitolini, De Buccamatiis Leonardus, busta 269, 38 verso‐39recto (atto di concordia); 39 rec‐
to‐42 recto (atto di divisione) 60
Per la famiglia Normanni (Alberteschi) vedi: S. CAROCCI, op. cit., 1993 (vedi Supra nota 54), pp.381‐385 30 passano in parte ad enti ecclesiastici in parte vanno in eredità agli esponenti maschili del ramo supersti‐
te. Ceri, Castel Nuovo ed altri vengono venduti da Costanza di Stefano (esponente del ramo dei Casti‐
glione, che aveva sposato il cugino Pandolfo di Andrea del ramo dei Ceri) ai cugini del ramo paterno. Nell'arco di un trentennio, comunque, anche il ramo dei Castiglione va ad estinguersi con la morte dell'unico maschio Alberto di Pietro del 1379 e con il matrimonio parallelo delle tre sorelle figlie di Gio‐
vanni di Stefano, con gli esponenti degli Anguillara. A questi passano dunque la maggior parte dei castra dei Normanni, con l'esclusione di alcuni terreni che vengono attratti alle proprietà degli enti ecclesiasti‐
ci. É dunque certo che Ceri (e quindi presumibilmente anche Monteroni) pervenga agli Anguillara per eredità derivante da esponenti femminili della famiglia Normanni, i più antichi feudatari del castrum di Ceri. Un passo ulteriore che la ricerca potrà dunque fare sarà quello di rileggere con un'attenzione specifica i testamenti dei membri della famiglia Normanni, per cercare di individuare, qualora ve ne sia‐
no, riferimenti a consistenze edilizie poste nell'area dei Monteroni61. Tuttavia vi è un ulteriore documen‐
to che sembra scompaginare le carte in tavola. Si tratta di un atto della Basilica di San Pietro in Vaticano dell'8 marzo 1456 in cui risulterebbe che i Monteroni appartenevano al Territorio di San Pietro insieme con uno «jonchetum» presso un «tumoletum in plaga maris»62. Ad oggi ancora non mi è stato ancora possibile consultare questo documento. La sua lettura potrebbe rivelarsi dirimente per alcuni dei pro‐
blemi affrontati63. Un'ultima osservazione è riservata alla tipologia edilizia. Quand'anche accettassimo l'ipotesi che la facies architettonica dell'impianto turrito derivi dall'intervento di Renzo di Ceri, dovremmo comunque chiederci da dove scaturisca un impianto plani‐volumetrico di questo tipo. Tra il XII e il XIII secolo, il Ca‐
stra Statua venne costruito sui resti della vecchia città romana e tardo‐antica di Ad Turres, posta sull' Aurelia, in posizione strategica di controllo del fosso Cupino. Non sappiamo chi edificò e commissionò il castello; nel 1385 ne è proprietario il Monastero di Sant’Anastasio ad Aquam Salviam (cioè alle Tre Fon‐
tane), ma non stupirebbe se fosse stata una iniziativa di qualche esponente della famiglia dei Normanni. Il castello era già in rovina alla fine del '300 e un documento relativo al pontificato di Bonifacio IX soste‐
neva che restaurare Statua sarebbe stato difficile a causa del grande degrado in cui versava a causa delle tante battaglie che aveva dovuto subire. Oggi l'edificio è crollato, ma ancora agli inizi del secolo scorso Tomassetti aveva potuto vedere e fotografare i resti dell'alzato del complesso. Questa è la descrizione che ne dà De Rossi: «Il castello, che sorgeva su ruderi romani, doveva essere circondato da un antemura‐
le fornito di torrette quadrate: sino a qualche decennio fa erano conservate due di queste torrette ancora coronate da merlatura; attualmente purtroppo non rimangono che le basi delle torri, in blocchetti di sel‐
ce e calcare, nonché alcune murature semi interrate»64. Il complesso, ricostruibile sulla base dei resti ar‐
61
Documenti presso BAV, Archivio Capitolare di Santa Maria Maggiore, cass. 69, n. 120, a. 1334, e Necrologi, I, pp. 264‐265 (testamento e lasciti di Giovanni Stefano di Stefano con parziale passaggio alla basilica vaticana di Lo‐
terno); cap. 73, fasc. 164, a. 1347; cass. 69, n. 122, a. 1348, (testamenti di Francesco e Tommasa di Giovanni); Necrologi, I, pp. 178‐179 e altri ASC, Pergamene Anguillara, XIV, 63,perg. 18 (Costanza di Stefano –ramo dei Castiglione – sposa il cugino Pandolfo di Andrea – ramo dei Ceri – e vende Ceri ed altri possedimenti ai membri del ramo paterno). 62
ABV (Archivio Basilica Vaticana), c. 73, 138, DC. Il documento è mal citato in G. Tomassetti, La campagna romana antica, medioevale e moderna, vol. II, Via Appia, Ardeatina ed Aurelia, Roma 1979 (1910), p. 622 63
L'arch. Seno nella sua breve relazione scrive «Il corpo di fabbrica più antico è quello di sinistra [...] mentre quello di destra rispetto all'ingresso era esistente dal 1456, quando un atto ne documenta l'appartenenza al patrimo‐
nio di San Pietro». Sembra dunque che abbia visto il documento e che la sua interpretazione sia stata utile ad una datazione relativa delle compagini murarie. In 64
G. M. DE ROSSI, Torri e castelli medievali della campagna romana, Roma 1969, p. 84 31 n cementizio
o cheologiici, doveva essere piuttosto piccolo (circa 20x25 m), con torreette angolari quadrate in
aggettan
nti di circa 3 m di lato e 8
8 m di altezzza, con ferito
oie e merli. SSi appoggiavaa su preesisttenti struttu‐‐
re roman
ne. L'edifico si trovava a circa 2, 5 km
m dall'area del "Castellacccio" e mi sembra del tuttto improba‐‐
bile che i costruttori del primo non avessero
o visto il caste
ello di Statuaa. Sovrappon
nendo le due
e piante del‐‐
ortate nella sstessa scala, le coincidenze sono lampanti. le due sttrutture, ripo
Da qui le ipo
D
otesi possono essere mo
olteplici: il caastello di Stattua e Monteeroni potevano far partee di un sisttema coordinato di difessa del territo
orio ed in parrticolare della via Aureliaa, che implicaava la realiz‐‐
zazione d
di piccoli orgganismi fortifficati di difessa, per soppo
ortare i frequ
uenti attacch
hi dall'estern
no. In questo
o caso dob
bbiamo supp
porre che sul luogo del "Castellaccio"" dovesse essistere, in etàà medievale,, qualcosa dii somigliante al castello di Statuaa, poi successsivamente ristrutturato
r
, aggiornato
o e magari ampliato, se‐‐
ole ed il nuovvo linguaggio
o tra Quattro
o e Cinquecen
nto. condo lee nuove rego
Altrimenti po
A
ossiamo imm
maginare chee, quando i p
progettisti deecisero di reaalizzare il Cassale di Mon‐‐
terone ee decisero dii dargli quessto aspetto m
militaresco, per ragioni cche ci sfuggo
ono, il castello di Statuaa era anco
ora lì, in pied
di, con il suo
o fascino di ffortezza abb
bandonata e potrebbe avver ispirato, nelle formee semplificcate, la strutttura architetttonica dell'eedificio. SSoltanto il prosieguo dello studio po
otrà provare
e a fornirci qualche ulterriore rispostaa. Per il mo‐‐
mento èè opportuno fermare qui le nostre rifflessioni. Il "Castellaccio" per ora rim
mane sospeso
o intorno ad
d una dataa,in una sortta di lotta fraa gli opposti:: in bilico fra certezze ed ipotesi; fra una lunga sttoria fatta dii accoglienza e forse u
una di armi ee battaglie; ffra l'acqua prrofonda dellaa sua cistern
na e il cielo d
delle sue tor‐‐
ri; tra la speranza di futuro nuovo e lo sguard
do affascinatto rivolto al p
passato. Arch.. Stefano Borrghini 32
2 Figura 16 ‐ Uno dei torrioni del "Castellaccio, con le sue feritoie. 33 Figura 17 ‐ Il castello di Statua in una foto di inizio '900 prima del crollo. Pubblicata dal Tomassetti nel 1913
34 Figura 18 ‐ Confronto e sovrapposizione tra la pianta del Castello di Statua (in rosso) e la pianta del "Castellaccio"
35 Bibliografia GIUSEPPE TOMASSETTI, La campagna romana antica, medioevale e moderna, vol. II, Via Appia, Ar‐
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