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AREA PENALE
LEZIONE I
RISERVA DI LEGGE E FONTI DEL DIRITTO PENALE (PARTE I)
Sommario. A) Natura della riserva di legge e norme penali in bianco (Rinvio). A1) Doping: il dibattito e l‟intervento di
Cass. Sez. un., n. 3078/2006. A.2) I rapporti tra riserva di legge e nuova disciplina degli stupefacenti. La ricostruzione
della disciplina penale degli stupefacenti. L‟intervento di Tar Lazio, 21 marzo 2007, n. 2487. A.3.) I tormentati rapporti della
disciplina penale degli stupefacenti con il principio di offensività.
A.4. I diversi profili rilevanti in materia di disciplina penale degli stupefacenti. 1. Tassatività e aggravante dell'ingente
quantità: Cass., Sez. un., 20 settembre 2012, n. 36258. 2. La previsione di cui all'art. 74, D.P.R. n. 309/1990: autonoma
fattispecie o circostanza? 3. La previsione di cui all‟art. 73 co. 5 D.P.R. 309/90: da circostanza attenuante a reato
autonomo: le modifiche normative apportate dal D.L. 23.12.2013 n. 146 (Cass. Sez. III, 25 febbraio 2014, n.
11110; Cass.Sez. IV, 24 aprile 2014, n. 20225). 4. Trattamento sanzionatorio relativo ad ipotesi di reato
concernenti “droghe pesanti” e “droghe leggere”: Corte Cost. 25.02.2014 n. 32 ed effetti della pronuncia sul
giudicato. 5. Cessione plurima di stupefacenti e responsabilità del primo cedente: i criteri di addebito della
responsabilità ai sensi dell'art. 586 c.p. 6. Mancata rivelazione dell'identità dello spacciatore e responsabilità del
cessionario per favoreggiamento omissivo. 7. Uso di gruppo di sostanze stupefacenti penalmente non rilevante: il
contrasto giurisprudenziale successivo alla riforma del 2005: Cass., Sez. un., 10 giugno 2013, 25401 (rinvio).
B) Diritto penale e Cedu, con particolare riguardo al regime, anche successorio, della confisca. B.1) Regime
intertemporale applicabile alle misure di sicurezza e alla confisca, tenendo conto della esigenza di assicurare il
rispetto dell‟art. 7, CEDU.
Premessa.
L’esame del diritto penale non può non iniziare dall’analisi del principio di legalità, come noto avente
quale referente costituzionale la previsione di cui all’art. 25, co. 2, Cost.
Il principio si articola nei tre noti corollari costituiti dal principio di riserva di legge (cui è dedicata la
presente Lezione), da quello di tassatività (da taluni definito di determinatezza o precisione), nonché
da quello di irretroattività delle norme di sfavore (si verificherà se anche il principio di retroazione delle
norme favorevoli è presidiato sul piano costituzionale; tema quest’ultimo di grandissima attualità tanto
più dopo la sentenza della Corte EDU resa nel 2009 nel caso Scoppola c. Italia, quella n. 236 del 2011
della Corte costituzionale nonché Cass. Sez. Un. Sent. 24.10.13 n. 18821 (dep. 07.05.2014).
Si segnalano, di seguito, le questioni che meritano attento esame: per alcune si rinvia alla specifica
trattazione, per altre direttamente al Manuale.
SINTESI (v. MANUALE per la trattazione completa)
1. Base normativa: (Art. 25, co. 2 Cost., art. 1 c.p..) Il principio della riserva di legge in materia penale
determina l‟impossibilità nel nostro ordinamento di introdurre fattispecie incriminatrici attraverso fonti
del diritto diverse dalla legge, o dagli atti ad essa equiparati.
2. Ratio: Il principio de quo realizza una fondamentale finalità di garanzia della libertà individuale,
impedendo che gli organi di governo o il potere giudiziario possano arbitrariamente incidere sulla
libertà dei cittadini. Solamente l‟iter parlamentare previsto dalla Costituzione per la formazione delle
leggi – e degli atti ad esse equiparati (sia pure per questi ultimi vi siano riserve in dottrina) –
garantiscono la partecipazione delle minoranze parlamentari alle scelte di criminalizzazione.
3. Oggetto della riserva: La riserva di legge opera sulle norme incriminatrici. Ne restano escluse le cause
di giustificazione che in forza del principio di non contraddizione sono da ricercare all‟interno
dell‟intero ordinamento, e possono fondarsi anche su norme secondarie o consuetudinarie (c.d.
consuetudine scriminante).
4. Natura della riserva: La riserva di legge può essere assoluta, non ammettendo l‟intervento delle norme
secondarie, ovvero relativa, che consente un‟integrazione da parte del potere governativo dei principi
sanciti dalla norma primaria. Sulla natura assoluta, relativa o tendenzialmente assoluta della riserva di
legge in materia penale si rinvia allo studio del Manuale.
Le questioni che meritano attento esame nell‟ambito del capitolo della riserva di legge sono le seguenti:
a)
Natura della riserva di legge e norme penali in bianco. Tra le problematiche applicative, da un lato, quella
che ha riguardato la definizione dell‟ambito temporale degli artt. 2 e 9, L. n. 376/2000, in tema di doping,
dall‟altro quella riguardante i rapporti tra riserva di legge e nuova disciplina degli stupefacenti (segue
trattazione).
b)
Diritto penale e Cedu, con particolare riguardo al regime, anche successorio, della confisca (segue
trattazione)
c)
“Disapplicazione” da parte del giudice penale dell‟atto amministrativo a vario titolo incidente sulla
fattispecie penale (Manuale);
c) Rapporto tra diritto penale e normativa regionale (Lezione successiva);
d) Rapporto tra diritto penale e disciplina comunitaria (Lezione successiva)
f) Ammissibilità di sentenze in malam partem della Corte costituzionale con particolare riguardo alla recente Corte
Cost. n. 5/2014 in tema di illegittimità di norma abrogatrice e conseguente reviviscenza di norma incriminatrice
(Lezione successiva)
A) Natura della riserva di legge e norme penali in bianco (Rinvio)
Si rinvia al manuale per l‟esame della tradizionale tematica relativa alla natura (assoluta o relativa) della riserva di
legge in ambito penale e alla individuazione dei modelli di integrazione tra norma primaria e secondaria
costituzionalmente compatibili.
Discussa è la compatibilità delle c.d. norme penali in bianco con il principio della la riserva di legge in materia
penale. Si tratta delle disposizioni per le quali la legge statale prevede la sanzione, rinviando in tutto o in parte per
l‟individuazione del precetto a una fonte normativa secondaria, o ad un provvedimento amministrativo. La Corte
Costituzionale, in una risalente pronuncia1, ha sostenuto che le norme penali in bianco non violano il principio di
legalità quando sia una legge dello Stato ad indicare i caratteri, i presupposti, il contenuto e i limiti delle norme
secondarie che specificano il precetto penale. In dottrina si dubita invece sul rispetto della riserva di legge da
parte delle norme penali in bianco, poiché esse determinano quale sia la regola di comportamento da osservare
nel caso concreto, definendo pertanto il contenuto stesso del precetto penale.
Ciò premesso, ci si sofferma sulle due principali questioni in questi anni esaminate dalla giurisprudenza di
legittimità, relative all‟interpretazione della legge n. 376/2000, recante la disciplina anche penale del doping, e ai
rapporti tra riserva di legge e nuova disciplina degli stupefacenti.
Occorre chiarire che la questione su cui è sorto il contrasto giurisprudenziale, successivamente risolto dalla
sezioni unite, si inquadra nel più generale quesito sulla natura della riserva di legge nel nostro ordinamento e,
quindi, sul ruolo che può essere assegnato nella disciplina delle fattispecie penali alle fonti normative diverse dalla
legge e dagli atti ad essa equiparati.
A1) Doping: il dibattito e l’intervento di Cass. Sez. un., n. 3087/2006.
Al centro di un articolato dibattito la questione della compatibilità con il principio di riserva di legge della
definizione normativa del reato di doping contenuta agli artt 9 e 2 della legge 14 dicembre 2000, n. 376, recante la
nuova Disciplina della tutela sanitaria delle attività sportive e della lotta contro il doping.
L‟art. 9 della stessa legge sanziona chi “procura ad altri, somministra, assume o favorisce comunque l‟utilizzo di
farmaci o di sostanze biologicamente o farmacologicamente attive, ricompresi nelle classi previste dall‟art. 2,
primo comma, che non siano giustificati da condizioni patologiche e siano idonei a modificare le condizioni
psicofisiche o biologiche dell‟organismo, al fine di alterare le prestazioni agonistiche degli atleti, ovvero siano
diretti a modificare i risultati dei controllo sull‟uso di tali farmaci o sostanze”.
L‟art. 2, a sua volta, prevede che “i farmaci, le sostanze biologicamente o farmacologicamente attive e le pratiche
mediche, il cui impiego è considerato doping a norma dell‟art. l, sono ripartiti, anche nel rispetto delle
disposizioni della Convenzione di Strasburgo, ratificata ai sensi della legge 29 ottobre 1995 n. 522 e delle
indicazioni del Comitato internazionale Olimpico (CIO) e degli organismi internazionali preposti al settore
sportivo, in classi di farmaci, di. sostanze o di pratiche mediche approvate con decreto del Ministro della Sanità
1
Corte Cost. n. 168/1971, con cui la Corte ha dichiarato costituzionalmente legittimo l‟art. 650 del codice penale.
[ora Ministro della salute] d‟intesa con il Ministro per i beni e le attività culturali, su proposta della Commissione
per la vigilanza ed il controllo sul doping e per la tutela della salute nelle attività sportive di cui all‟articolo 3”. Per
completezza, è utile considerare ancora che ai sensi dell‟art. 1 della stessa legge “costituiscono doping la
somministrazione o l‟assunzione di farmaci o di sostanze biologicamente o farmacologicamente attive e
l‟adozione o la sottoposizione a pratiche mediche non giustificate da condizioni patologiche ed idonee a
modificare le condizioni psicofisiche o biologiche dell‟organismo al fine di alterare le prestazioni agonistiche degli
atleti (comma 2); sono equiparate al doping la somministrazione di farmaci o di sostanze biologicamente o
farmacologicamente attive e l‟adozione di pratiche mediche non giustificate da condizioni patologiche, finalizzate
e comunque idonee a modificare i risultati dei controlli sull‟uso dei farmaci, delle sostanze e delle pratiche indicati
nel comma 2 (comma 3). Non manca, pertanto, nella disposizione primaria l‟indicazione dei criteri tecnici in
applicazione dei quali i decreti ministeriali evocati dall‟art. 2 devono indicare le sostanze dopanti.
In attuazione della previsione di cui al riportato art. 2 , con D.M. 15 ottobre 2002 è stata approvata la prima lista
di farmaci, sostanze biologicamente o farmacologicamente attive e pratiche mediche, “il cui impiego è
considerato doping ai sensi della legge 14 dicembre 2000, n. 376”. Successive modifiche sono state introdotte
con i DD.MM. 30 dicembre 2002; 10 luglio 2003; 16 gennaio 2004; 13 aprile 2005.
Ci si é chiesti, allora, se la fattispecie delineata dal citato art. 9 della legge n. 376/2000 sia applicabile anche a
fattispecie verificatesi prima dell‟adozione del D.M. 15 ottobre 2002 e aventi ad oggetto sostanze indicate
nell‟elenco di classi dopanti contenute nell‟allegato alla legge di ratifica della Convenzione di Strasburgo: ci si è
interrogati, cioè, sulla natura costitutiva o meramente ricognitiva delle indicazioni contenute nei decreti
ministeriali cui gli artt. 2 e 9 rinviano.
Prima che intervenissero le Sezioni unite si sono registrati in seno alla giurisprudenza di legittimità due distinti
orientamenti.
Per un primo indirizzo, seguito in particolare da Cass. pen., Sez. III, 2 dicembre 2004, n. 46764, i reati di doping
introdotti dalla legge n. 376 del 2000 sono configurabili anche se i relativi fatti sono stati commessi prima della
emanazione del previsto decreto ministeriale di ripartizione in classi delle sostanze “dopanti”; si è così
riconosciuta la immediata portata precettiva della norma di cui all‟art. 9 della stessa legge – indipendentemente
dall‟emanazione del menzionato decreto ministeriale – purché riferita a sostanze già individuate ed espressamente
indicate nell‟elenco delle classi farmacologiche di sostanze e metodi dopanti allegato in appendice alla legge di
ratifica della Convenzione di Strasburgo il 16 novembre 1989.
Il decreto ministeriale non sarebbe pertanto necessario per integrare, quale fonte tecnica secondaria, il precetto
penale e l‟attività di ripartizione in classi, “sulla base delle caratteristiche chimico farmacologiche”, delle sostanze
dopanti, preventivamente individuate alla stregua della più volte richiamata legge di ratifica della Convenzione;
avrebbe, in questa ottica, un carattere meramente ricognitivo e classificatorio. Ad avviso dei Giudici della terza
Sezione, tali conclusioni non intaccherebbero il principio della riserva di legge, poiché sussisterebbe comunque
un ancoraggio a parametri normativi espressamente richiamati dalla legge n. 376/2000 (sicché al giudice non
sarebbe attribuito alcun margine di discrezionalità per l‟individuazione delle sostanze dopanti), né il principio di
tassatività, perché il novum non potrebbe estendersi alla somministrazione o all‟assunzione di sostanze diverse da
quelle legalmente predeterminate.
Diverso avviso ha espresso Cass. pen., Sez. II, ordinanza 29 dicembre 2004, n. 49949, considerando che l‟oggetto della
legge n. 376 del 2000 e quello della Convenzione di Strasburgo non possono dirsi coincidenti e sovrapponibili
con riferimento alle specifiche finalità perseguite dalla stessa legge n. 376/2000, alla relativa “struttura”
normativa, ai “modelli” cui essa si è ispirata ed all‟oggetto giuridico delle fattispecie penali. Si è sostenuto, in
particolare, che qualora il legislatore del 2000 avesse inteso “recepire” immediatamente, agli effetti penali, l‟elenco
dei farmaci, delle sostanze e delle pratiche mediche considerate dopanti dalla Convenzione, lo avrebbe fatto con
enunciazione espressa, affermando che sino alla emanazione dei decreti ministeriali, dovevano considerarsi
iscritte nelle classi di cui all‟art. 2, comma 1, della legge n. 376/2000 i farmaci, le sostanze e le pratiche mediche di
cui all‟appendice alla già citata Convenzione. Nel dettaglio, tale secondo orientamento è stato sostenuto
valorizzando le seguenti considerazioni:
a) L‟integrazione dei precetti posti dall‟art. 9 della legge n. 376/2000 con l‟elenco recepito dalla legge n. 522/1995
non è possibile, in quanto si tratterebbe di fonti con diverse finalità e con diversi beni giuridici tutelati. Gli
obiettivi perseguiti dalla Convenzione di Strasburgo, pur non essendo estranei alla logica di prevenire rischi per la
salute degli atleti, consisterebbero infatti, prevalentemente, nella tutela del principio del “fair play” delle
manifestazioni sportive e, perciò, nella predisposizione di divieti finalizzati ad assicurare la regolarità delle
prestazioni. Del tutto diversa si presenterebbe, invece, la ratio della legge n. 376/2000, ove (come si ricava anche
dai lavori parlamentari) le esigenze di tutela del bene della salute, presidiato dall‟art. 32 Cost., costituiscono la
ragion d‟essere dell‟intervento penale ed il nucleo essenziale dell‟intero impianto normativo.
b) Le fattispecie penali incriminatrici di cui ai commi 1 e 7 dell‟art. 9 della legge n. 376/2000 costituirebbero
tipiche ipotesi di norme penali in bianco, nelle quali il legislatore ha rinviato alla fonte dell‟esecutivo (decreto
ministeriale su proposta della Commissione per la vigilanza e il controllo sul doping) la individuazione delle
sostanze e delle pratiche mediche destinate a integrare, entro il quadro di tipicità legale, gli oggetti materiali delle
fattispecie. L‟operazione di “ripartizione in classi”, che l‟art. 2 della legge n. 376/2000 demanda ad un decreto
ministeriale, non costituisce un mero riordino delle sostanze già contemplate dalla legge n. 552 del 1995, ma
un‟operazione del tutto nuova per la quale è prevista pure la costituzione di un‟apposita Commissione. La norma
prevede che tale ripartizione debba avvenire “anche” nel rispetto delle disposizioni della Convenzione di
Strasburgo e della legge statale di ratifica, mentre, se il legislatore avesse voluto prevedere esclusivamente
un‟attività di semplice riordino, con valore meramente ricognitivo dell‟esistente, avrebbe espressamente affidato
alla Commissione ed al decreto ministeriale il compito di effettuare una ripartizione in classi delle sostanze già
indicate dalla legge n. 552/1995. Fra l‟altro una delle finalità della legge n. 376/2000 – come si evince dalla
Relazione di accompagnamento – è stata proprio quella di “adeguare le disposizioni sanzionatorie penali ai
principi costituzionali di tassatività e determinatezza”.
Al primo dei due esposti orientamenti ha di recente aderito Cass. Sez. un., 25 gennaio 2006, n. 3087
In primo luogo, le Sezioni unite mostrano di non condividere l‟assunto secondo cui la Convenzione di
Strasburgo e la legge n. 376 del 2000 perseguirebbero diverse finalità di tutela, in quanto la prima sarebbe rivolta
a salvaguardare principalmente il principio del “fair play” nelle manifestazioni sportive. Viceversa, la
Convenzione si pone la finalità “della riduzione e della successiva eliminazione del doping nello sport” (art. 1) e,
nel suo preambolo, fa espresso richiamo alla consapevolezza che “lo sport deve svolgere un ruolo importante per
la protezione della salute” ed alla preoccupazione indotta “dall‟impiego sempre più diffuso di prodotti e di
metodi di doping tra gli sportivi nell‟ambiente dello sport e dalle sue conseguenze per la salute di coloro che li
praticano”. Essa, più avanti nel preambolo, contiene un esplicito riferimento anche al “principio del “fair play”
delle manifestazioni sportive ma si preoccupa di ribadire, nello stesso contesto, l‟esigenza (già più volte
enunciata) di “tutela della salute di coloro che partecipano a dette manifestazioni”. L‟argomento decisivo
utilizzato dalle Sezioni unite è però quello con cui osservano che l‟art. 2, comma 1, della legge n. 376/2000
demanda al decreto ministeriale da esso previsto non già l‟individuazione, bensì la ripartizione in classi di
“farmaci, sostanze biologicamente o farmacologicamente attive e pratiche mediche, il cui impiego è considerato
doping a norma dell‟articolo 1”, anche nel rispetto delle disposizioni della Convenzione di Strasburgo e delle
indicazioni del Comitato internazionale olimpico (CIO) e degli organismi internazionali preposti al settore
sportivo. Ne consegue che la ripartizione in classi non può escludere farmaci, sostanze e pratiche mediche vietate
dalla Convenzione di Strasburgo e dalle Organizzazioni sportive internazionali competenti.
Alla stregua delle esposte considerazioni, si afferma quindi che “le ipotesi di reato previste dall‟art. 9 della legge
14 dicembre 2000, n. 376 sono configurabili anche per i fatti commessi prima della emanazione del decreto
Ministro della salute, in data 15 ottobre 2002, con il quale, in applicazione dell‟art. 2 della stessa legge, sono stati
ripartiti in classi i farmaci, le sostanze biologicamente o farmacologicamente attive e le pratiche mediche il cui
impiego è considerato doping.
Giova riportare i passaggi salienti della motivazione.
3. Il terzo motivo di ricorso introduce la questione controversa sottoposta all’esame delle Sezioni Unite, che consiste nello stabilire “se
le ipotesi di reato previste dall’art. 9 della legge 14 dicembre 2000, n. 376, recante la disciplina della tutela sanitaria delle attività
sportive e della lotta contro il doping, siano configurabili anche per i fatti commessi prima della emanazione del decreto Ministro della
salute, in data 15 ottobre 2002 (in Gazz. Uff. 27/11/2002), con il quale, in applicazione dell’art. 2 della stessa legge, è stata
“approvata” la lista dei farmaci, delle sostanze biologicamente attive e delle pratiche mediche il cui impiego è considerato doping”.
3.1 Per un corretto inquadramento di tale questione, appare opportuno ricordare che, in ambito europeo, il Comitato dei Ministri del
Consiglio d’Europa ebbe a configurare – già con la risoluzione n. 12 del 29 giugno 1967 – la necessità di una riduzione e successiva
eliminazione del “doping” nello sport ed altre risoluzioni erano seguite, in tale prospettiva, tra il 1970 ed il 1979.
Venne emanata, poi, la Carta europea contro il doping nello Sport (risoluzione n. 19/1984) ed approvata (a Reykiavik il 26
settembre 1989) la Convenzione Europea contro il doping nello sport, svoltasi ad Atene nel 1988.
Successivamente l’Assemblea del Consiglio d’Europa approvò, il 30 settembre 1992, la raccomandazione n. 1190, che tracciava
quattro direttrici attraverso le quali regolamentare le devianze del mondo sportivo: violenza ed intemperanze, lotta al doping, Carta
europea dello sport e codice di etica sportiva.
In sede internazionale, a fronte delle anzidette iniziative europee, va ricordata la Conferenza mondiale permanente sul doping nello
sport, tenutasi ad Ottawa nel giugno 1988 su iniziativa del CIO (Comitato Olimpico Internazionale), da cui è derivata la Carta
Olimpica Internazionale contro il doping nello sport, periodicamente aggiornata dallo stesso Comitato olimpico.
Deve ricordarsi, inoltre, il Codice Medico del CIO, contenente le classi di sostanze proibite ed i metodi proibiti, aggiornato
annualmente, che viene recepito dal Comitato Olimpico Nazionale e trasfuso nei Regolamenti delle singole federazioni.
Si è giunti così alla Convenzione contro il doping, stipulata a Strasburgo il 16 novembre del 1989 dai rappresentanti degli Stati
membri del Consiglio d’Europa.
Il 10 novembre 1999 è stata istituita a Losanna l’Agenzia mondiale antidoping (WADA – World Antidoping Agency), che ha
elaborato un Codice unico antidoping, in vigore dal 1° gennaio 2004, che, con la firma della Dichiarazione di Copenaghen del 5
marzo 2003, gli Stati dell’Unione Europea si sono impegnati a recepire nelle loro legislazioni.
Il Codice prevede un nuovo ed unico elenco delle sostanze e dei metodi vietati, da aggiornare periodicamente mediante l’introduzione di
nuove sostanze che rispondano ad almeno due delle seguenti caratteristiche: a) migliorino la prestazione; b) rappresentino un rischio
anche potenziale per la salute; c) il loro uso sia contrario allo spirito sportivo descritto nel Codice; d) mascherino altre sostanze
proibite.
Detta elencazione assume valenza anche per l’ordinamento statuale italiano, in quanto la Commissione per la vigilanza e il controllo
sul do¬ping, ai sensi dell’art. 3, comma 1 – lett. b), della legge n. 376/2000, deve tenerne conto nel predisporre le classi delle
sostanze vietate.
3.2 Nel nostro Paese, già la legge 16 febbraio 1942, n. 426 (relativa alla costituzione del C.O.N.I. - Comitato olimpico nazionale
italiano) stabilì – con principio fissato all’interno dell’ordinamento sportivo e privo, comunque, di correlate sanzioni – che
l’assunzione di sostanze farmacologiche e chimiche, per migliorare le potenzialità fisiche dell’atleta, era contraria alle regole di lealtà,
correttezza e probità sportiva correlate alla necessità di intendere il perfezionamento atletico come connesso al miglioramento fisico e
morale.
Seguì, a distanza di molti anni, la legge 26 ottobre 1971, n. 1099 (sulla tutela sanitaria delle attività sportive), i cui artt. 3 e 4
prevedevano una serie di ipotesi configuranti illecito penale e sanzionate con la sola pena dell’ammenda. Veniva prevista, in
particolare, la punibilità sia degli atleti che impiegassero sostanze che potessero risultare nocive per lo loro salute sia di coloro che
queste sostanze somministrassero, considerando quali aggravanti la qualità di dirigenti o tecnici.
Tale legge prevedeva che, entro sei mesi, si sarebbe dovuto emanare un decreto contenente l’elenco delle sostanze proibite, le modalità
tecniche per il prelievo dei campioni e i metodi di analisi, ma detto decreto venne pubblicato soltanto nel Supplemento alla Gazzetta
Ufficiale n. 259 del 29 settembre 1975.
La normativa così fissata, in ogni caso, non produsse risultati soddisfacenti per la carente predisposizione delle necessarie strutture e
per un’oggettiva inadeguatezza della disciplina medesima a fronte del progressivo affermarsi di nuove metodologie di doping, sempre
più complesse e sofisticate ed idonee ad eludere i previsti controlli.
A seguito del processo di depenalizzazione, realizzatosi con la legge 24 novembre 1981, n. 689, le ipotesi contravvenzionali già
previste
dalla
legge
n.
1099/1971
divennero,
inoltre,
semplici
illeciti
amministrativi.
La legge 29 novembre 1995, n. 522 ha ratificato la Convenzione contro il doping, stipulata a Strasburgo il 16 novembre del 1989.
3.3 La legge 14 dicembre 2000, n. 376 ha apprestato, infine, la nuova Disciplina della tutela sanitaria delle attività sportive e della
lotta contro il doping.
L’art. 1 di tale legge stabilisce:
-- al secondo comma, che “costituiscono doping la somministrazione o l’assunzione di farmaci o di sostanze biologicamente o
farmacologicamente attive e l’adozione o la sottoposizione a pratiche mediche non giustificate da condizioni patologiche ed idonee a
modificare le condizioni psicofisiche o biologiche dell’organismo al fine di alterare le prestazioni agonistiche degli atleti”;
-- al terzo comma, che "sono equiparate al doping la somministrazione di farmaci o di sostanze biologicamente o farmacologicamente
attive e l’adozione di pratiche mediche non giustificate da condizioni patologiche, finalizzate e comunque idonee a modificare i risultati
dei controlli sull’uso dei farmaci, delle sostanze e delle pratiche indicati nel comma 2".
L’art. 9 della stessa legge sanziona:
-- al primo comma, “chiunque procura ad altri, somministra, assume o favorisce comunque l’utilizzo di farmaci o di sostanze
biologicamente o farmacologicamente attive, ricompresi nelle classi previste dall’art. 2, primo comma, che non siano giustificati da
condizioni patologiche e siano idonei a modificare le condizioni psicofisiche o biologiche dell’organismo, al fine di alterare le prestazioni
agonistiche degli atleti, ovvero siano diretti a modificare i risultati dei controllo sull’uso di tali farmaci o sostanze”;
-- al secondo comma, “chi adotta o si sottopone alle pratiche mediche ricomprese nelle classi previste dall’art. 2, primo comma, non
giustificate da condizioni patologiche ed idonee a modificare le condizioni psicofisiche o biologiche dell’organismo, al fine di alterare le
prestazioni agonistiche degli atleti, ovvero dirette a modificare i risultati dei controllo sul ricorso a tali pratiche”;
-- al settimo comma, “chiunque commercia i farmaci o le sostanze farmacologicamente o biologicamente attive ricompresi nelle classi di
cui all’art. 2, comma 1, attraverso canali diversi dalle farmacie aperte al pubblico, dalle farmacie ospedaliere, dai dispensari aperti al
pubblico e dalle altre strutture che detengono farmaci direttamente destinati all’utilizzazione sul paziente”.
Per quanto attiene alla delimitazione temporale della applicabilità della disciplina penale anzidetta, si rende pertanto necessaria
l’analisi del citato art. 2, 1° comma, ove si prevede che «i farmaci, le sostanze biologicamente o farmacologicamente attive e le pratiche
mediche, il cui impiego è considerato doping a norma dell’art. l, sono ripartiti, anche nel rispetto delle disposizioni della Convenzione
di Strasburgo, ratificata ai sensi della legge 29 ottobre 1995 n. 522 e delle indicazioni del Comitato internazionale Olimpico (CIO)
e degli organismi internazionali preposti al settore sportivo, in classi di farmaci, di. sostanze o di pratiche mediche approvate con
decreto del Ministro della Sanità [ora Ministro della salute] d’intesa con il Ministro per i beni e le attività culturali, su proposta
della Commissione per la vigilanza ed il controllo sul doping e per la tutela della salute nelle attività sportive di cui all’articolo 3».
L’organizzazione ed il funzionamento della prevista “Commissione per la vigilanza e il controllo sul doping e per la tutela della
salute nelle attività sportive” sono stati disciplinati con il D.M. 31 ottobre 2001, n. 440 (in G.U. n. 295 del 20 dicembre 2001).
Con il D.M. 15 ottobre 2002 (in G.U., suppl. ord. n. 217 del 27 novembre 2002) è stata approvata la prima lista di farmaci,
sostanze biologicamente o farmacologicamente attive e pratiche mediche, “il cui impiego è considerato doping ai sensi della legge 14
dicembre 2000, n. 376”. Successive modifiche sono state introdotte con i DD.MM. 30 dicembre 2002 (in G.U. n. 64 del 18
marzo 2003); 10 luglio 2003 (in G.U., suppl. ord. n. 154 del 24 settembre 2003); 16 gennaio 2004 (in G.U. n. 42 del 20
febbraio 2004); 13 aprile 2005 (in G.U., suppl. ord. n. 104 del 3 giugno 2005).
4. Nella giurisprudenza di questa Corte Suprema, la Sezione III, con la sentenza 2 dicembre 2004, n. 46764, P.M. in proc.
Gillet, ha affermato che i reati di doping introdotti dalla legge n. 376 del 2000 sono configurabili anche se i relativi fatti sono stati
commessi prima della emanazione del previsto decreto ministeriale di ripartizione in classi delle sostanze “dopanti”, riconoscendo la
immediata portata precettiva della norma di cui all’art. 9 della stessa legge – indipendentemente dall’emanazione del menzionato
decreto ministeriale – purché riferita a sostanze già individuate ed espressamente indicate nell’elenco delle classi farmacologiche di
sostanze e metodi dopanti allegato in appendice alla legge 29-11-1995 n. 522, di ratifica della Convenzione contro il doping
adottata a Strasburgo il 16 novembre 1989: elenco che comprende “le classi di agenti di doping e di metodi di doping vietati dalle
organizzazioni sportive internazionali” e che riproduce “le classi di sostanze di doping e dei metodi di doping adottati dal CIO
nell’aprile del 1989”.
Il decreto ministeriale non sarebbe pertanto necessario per integrare, quale fonte tecnica secondaria, il precetto penale e l’attività di
ripartizione in classi, “sulla base delle caratteristiche chimico farmacologiche”, delle sostanze dopanti, preventivamente individuate
alla stregua della più volte richiamata legge di ratifica della Convenzione, avrebbe, in questa ottica, un carattere meramente
ricognitivo e classificatorio.
Lo stesso D.M. 15 ottobre 2002, del resto, nell’enunciare i criteri di predisposizione e di aggiornamento della lista delle classi delle
sostanze dopanti, ha espressamente richiamato ed applicato le disposizioni della ratificata Convenzione di Strasburgo, l’emendamento
14 agosto 200l all’allegato della Convenzione e le indicazioni del CIO.
Secondo la sentenza Gillet, le conclusioni alle quali essa è pervenuta non intaccherebbero il principio della riserva di legge, poiché
sussisterebbe comunque un ancoraggio a parametri normativi espressamente richiamati dalla legge n. 376/2000 (sicché al giudice non
sarebbe attribuito alcun margine di discrezionalità per l’individuazione delle sostanze dopanti), né il principio di tassatività, perché il
novum non potrebbe estendersi alla somministrazione o all’assunzione di sostanze diverse da quelle legalmente predeterminate.
Tale interpretazione è stata considerata, altresì, in linea con precedenti decisioni di questa Corte (Cass.: Sez. III, 20 marzo 2002, n.
11277, P.M. in proc. Gariazzo; Sez. VI, 20 febbraio 2003, Frisighelli), che, pur non trattando specificamente la questione,
avrebbero dato per scontata la sussistenza dei reati di doping in assenza del decreto di ripartizione in classi delle sostanze dopanti.
4.1 La II Sezione – con ordinanza 29 dicembre 2004, n. 49949, Petrarca ed altri – ha ritenuto, con diffuse argomentazioni, di
non poter condividere le affermazioni poste a base della decisione Gillet, considerando che l’oggetto della legge n. 376 del 2000 e
quello della Convenzione di Strasburgo non possono dirsi coincidenti e sovrapponibili con riferimento alle specifiche finalità perseguite
dalla stessa legge n. 376/2000, alla relativa “struttura” normativa, ai “modelli” cui essa si è ispirata ed all’oggetto giuridico delle
fattispecie penali.
Qualora il legislatore del 2000 avesse inteso “recepire” immediatamente, agli effetti penali, l’elenco dei farmaci, delle sostanze e delle
pratiche mediche considerate dopanti dalla Convenzione, lo avrebbe fatto con enunciazione espressa, affermando che sino alla
emanazione dei decreti ministeriali, dovevano considerarsi iscritte nelle classi di cui all’art. 2, comma 1, della legge n. 376/2000 i
farmaci, le sostanze e le pratiche mediche di cui all’appendice alla già citata Convenzione.
L’orientamento secondo il quale la configurabilità delle ipotesi di reato previste dall’art. 9 della legge n. 376/2000 andrebbe esclusa
per i fatti commessi prima della emanazione del D.M. 15 ottobre 2002 – tenuto anche conto dei contributi della dottrina – si fonda
sulle
seguenti
essenziali
considerazioni:
a) L’integrazione dei precetti posti dall’art. 9 della legge n. 376/2000 con l’elenco recepito dalla legge n. 522/1995 non è possibile,
in quanto si tratterebbe di fonti con diverse finalità e con diversi beni giuridici tutelati.
Gli obiettivi perseguiti dalla Convenzione di Strasburgo, pur non essendo estranei alla logica di prevenire rischi per la salute degli
atleti, consisterebbero infatti, prevalentemente, nella tutela del principio del “fair play” delle manifestazioni sportive e, perciò, nella
predisposizione di divieti finalizzati ad assicurare la regolarità delle prestazioni.
Del tutto diversa si presenterebbe, invece, la ratio della legge n. 376/2000, ove (come si ricava anche dai lavori parlamentari) le
esigenze di tutela del bene della salute, presidiato dall’art. 32 Cost., costituiscono la ragion d’essere dell’intervento penale ed il nucleo
essenziale dell’intero impianto normativo.
b) Le fattispecie penali incriminatrici di cui ai commi 1 e 7 dell’art. 9 della legge n. 376/2000 costituirebbero tipiche ipotesi di
norme penali in bianco, nelle quali il legislatore ha rinviato alla fonte dell’esecutivo (decreto ministeriale su proposta della
Commissione per la vigilanza e il controllo sul doping) la individuazione delle sostanze e delle pratiche mediche destinate a integrare,
entro il quadro di tipicità legale, gli oggetti materiali delle fattispecie.
L’operazione di “ripartizione in classi”, che l’art. 2 della legge n. 376/2000 demanda ad un decreto ministeriale, non costituisce un
mero riordino delle sostanze già contemplate dalla legge n. 552 del 1995, ma un’operazione del tutto nuova per la quale è prevista
pure la costituzione di un’apposita Commissione. La norma prevede che tale ripartizione debba avvenire “anche” nel rispetto delle
disposizioni della Convenzione di Strasburgo e della legge statale di ratifica, mentre, se il legislatore avesse voluto prevedere
esclusivamente un’attività di semplice riordino, con valore meramente ricognitivo dell’esistente, avrebbe espressamente affidato alla
Commissione ed al decreto ministeriale il compito di effettuare una ripartizione in classi delle sostanze già indicate dalla legge n.
552/1995.
Fra l’altro una delle finalità della legge n. 376/2000 – come si evince dalla Relazione di accompagnamento – è stata proprio quella
di “adeguare le disposizioni sanzionatorie penali ai principi costituzionali di tassatività e determinatezza”.
c) L’art. 3 della legge n. 376/2000, che disciplina il funzionamento e l’attività della Commissione per la vigilanza e il controllo sul
doping, nel prescrivere che tale organo “predispone le classi di cui all’art. 2, comma 1, e procede alla revisione delle stesse, secondo le
modalità di cui all’art. 2, comma 3”, configurerebbe, in capo alla Commissione medesima, compiti caratterizzati da una peculiare
complessità procedurale, razionalmente incompatibile con la pretesa natura soltanto classificatoria e ricognitiva dell’attività di sua
competenza.
d) L’art. 6 della legge n. 376/2000 prevede che le Federazioni sportive nazionali, nell’ambito dell’autonomia riconosciuta loro dalla
legge, possono stabilire sanzioni disciplinari per la somministrazione o l’assunzione di farmaci o di sostanze o per il ricorso a pratiche
mediche rispondenti ai requisiti di cui alla definizione di doping “anche nel caso in cui questi non siano ripartiti nelle classi di cui
all’art. 2, comma 1, a condizione che tali farmaci, sostanze o pratiche siano considerati dopanti nell’ambito dell’ordinamento
internazionale vigente”.
Tale previsione legislativa costituirebbe l’ulteriore riprova che l’individuazione ministeriale delle “classi” ha la funzione di porre un
discrimine tra ciò che è penalmente rilevante e ciò che, invece, può rilevare unicamente in ambito disciplinare.
4.2 Tra i due opposti orientamenti giurisprudenziali di cui si è dato conto dianzi il primo va considerato più aderente al dato
normativo.
Alla interpretazione temporalmente restrittiva si contrappongono, infatti, le seguenti obiezioni:
aa) Non può condividersi – ad evidenza – l’affermazione secondo la quale tra la Convenzione di Strasburgo e la legge n. 376 del
2000 perseguirebbero diverse finalità di tutela, in quanto la prima sarebbe rivolta a salvaguardare principalmente il principio del
“fair
play”
nelle
manifestazioni
sportive.
La Convenzione si pone la finalità “della riduzione e della successiva eliminazione del doping nello sport” (art. 1) e, nel suo
preambolo, fa espresso richiamo alla consapevolezza che “lo sport deve svolgere un ruolo importante per la protezione della salute” ed
alla preoccupazione indotta “dall’impiego sempre più diffuso di prodotti e di metodi di doping tra gli sportivi nell’ambiente dello sport
e dalle sue conseguenze per la salute di coloro che li praticano”. Essa, più avanti nel preambolo, contiene un esplicito riferimento
anche al “principio del “fair play” delle manifestazioni sportive ma si preoccupa di ribadire, nello stesso contesto, l’esigenza (già più
volte enunciata) di “tutela della salute di coloro che partecipano a dette manifestazioni”.
bb) L’individuazione di farmaci, sostanze e pratiche mediche “il cui impiego è considerato doping” è operata dall’art. 1, 2° comma,
della legge n. 376/2000 (dianzi trascritto).
L’art. 2 della Convenzione europea di Strasburgo, ratificata dalla legge n. 522/1995, dispone:
-- alla lettera b) del paragrafo 1, che “Per classi farmacologiche di agenti di doping o di metodi di doping si intendono, sotto riserva
del paragrafo 2 in appresso, le classi di agenti di doping e di metodi di doping vietati dalle Organizzazioni sportive internazionali
competenti e che figurano su liste approvate dal Gruppo di vigilanza in virtù dell’articolo 11.1b”;
-- al paragrafo 2, che “Fin quando una lista di classi farmacologiche vietate di agenti di doping e di metodi di doping non è stata
approvata dal Gruppo di vigilanza in virtù dell’articolo 11.1b sarà applicabile la lista di riferimento contenuta nell’Annesso alla
presente Convenzione”.
L’art. 2, comma 1, della legge n. 376/2000 demanda al decreto ministeriale da esso previsto non già l’individuazione, bensì la
ripartizione in classi di “farmaci, sostanze biologicamente o farmacologicamente attive e pratiche mediche, il cui impiego è considerato
doping a norma dell’articolo 1”, anche nel rispetto delle disposizioni della Convenzione di Strasburgo e delle indicazioni del Comitato
internazionale olimpico (CIO) e degli organismi internazionali preposti al settore sportivo.
Trattasi di disposizioni ed indicazioni che devono essere comunque rispettate e da ciò consegue che la ripartizione in classi non può
escludere farmaci, sostanze e pratiche mediche vietate dalla Convenzione di Strasburgo e dalle Organizzazioni sportive internazionali
competenti.
Appare utile rilevare, al riguardo, che già il D.M. 31 ottobre 2001, n. 440 (concernente l’organizzazione ed il funzionamento della
Commissione per la vigilanza ed il controllo sul doping e per la tutela della salute nelle attività sportive), all’art. 8, lett. a), conferisce
alla Commissione il compito di predisporre “le classi delle sostanze dopanti e delle pratiche mediche il cui impiego è considerato doping
ai sensi dell’art. 1, 2° e 3° comma, legge 14 dicembre 2000, n. 376, in conformità alla regolamentazione della Convenzione di
Strasburgo del 16 novembre 1989, del Comitato internazionale olimpico (CIO) e dell’Agenzia mondiale contro il doping o di altri
organismi internazionali preposti al settore sportivo”.
La lista di riferimento delle classi farmacologiche di sostanze dopanti e di metodi doping vietati, recepita dalla legge n. 522/1995,
indica, per ciascuna classe, alcune sostanze ad essa appartenenti, specificando però che si tratta di una mera esemplificazione e
ponendo un riferimento di chiusura con l’espressione “e sostanze affini” (con formulazione che riproduce quella già contenuta nella
lista adottata dal CIO nell’aprile del 1989).
L’affinità delle sostanze è determinata dalla struttura chimica e/o dagli effetti farmacologici delle stesse e produce la conseguenza di
rendere le “sostanze affini” vietate anche se non espressamente incluse nella ripartizione in classi.
Ne consegue che la ripartizione in classi operata dal decreto ministeriale previsto dall’art. 2 della legge n. 376/2000 non è e non può
essere tassativa, perché un “elenco chiuso” di farmaci, sostanze biologicamente o farmacologicamente attive e pratiche mediche, il cui
impiego è considerato doping non rispetterebbe le disposizioni della Convenzione di Strasburgo e le indicazioni del Comitato
internazionale olimpico – che consentono un’estensione in virtù della mera coincidenza degli effetti farmacologici e/o della
composizione chimica – ed esorbiterebbe i limiti della delega conferita dal 1° comma dello stesso art. 2.
A riprova di ciò va rilevato che il riferimento alle “sostanze affini” è contenuto in tutti i decreti ministeriali di ripartizione in classi
succedutisi nel tempo.
Né la situazione è cambiata con l’emanazione del D.M. 13 aprile 2005.
Esso, pur non utilizzando le medesime parole, evidenzia, nella premessa, “la necessità di armonizzare, entro il termine del 1°
gennaio 2005, la lista dei farmaci, delle sostanze biologicamente o farmacologicamente attive e delle pratiche mediche, il cui impiego è
considerato doping, alla lista internazionale di riferimento, ai sensi dell’art. 2, comma 3, della legge 14 dicembre 2000, n. 376” e, a
questo fine, inserisce nell’allegato I proprio la “lista adottata con l’emendamento all’appendice della Convenzione contro il doping
nello sport ratificata con la legge 29 novembre 1995, n. 522, in vigore dal 1° gennaio 2005”.
Nell’allegato II stabilisce, poi, che “ove previsto dalla lista internazionale di riferimento, devono intendersi comprese nelle varie classi
tutte le sostanze con struttura chimica simile a quelle espressamente indicate e/o capaci di espletare attività farmacologica vietata per
doping”.
La lista internazionale di riferimento contiene appunto previsioni siffatte attraverso plurimi richiami ad “altre sostanze con una
struttura chimica simile o simili effetti biologici” [other substances with a similar chemical structure or similar biological effect(s)].
Analoghe testuali espressioni si rinvengono nella più recente lista predisposta dall’Agenzia mondiale contro il doping (The 2006
prohibited list international standard).
cc) Nella prospettiva dianzi enunciata possono trarsi elementi di conferma dallo svolgimento dei lavori preparatori relativi alla legge n.
376/00.
Nel testo approvato dal Senato il 21 luglio 1992, infatti, l’art. 2, l° comma, prevedeva che “i farmaci, le sostanze
farmacologicamente attive e le pratiche terapeutiche, il cui impiego è considerato doping a norma dell’art. l, sono individuati in
conformità alle disposizioni della Convenzione di Strasburgo, ratificata ai sensi della citata legge 29 novembre 1995, n. 522, ed alle
indicazioni del Comitato internazionale olimpico (CIO) e degli organismi internazionali preposti al settore sportivo, in tabelle
approvate con decreto del Ministro della sanità, d’intesa con il Ministro per i beni e le attività culturali, su proposta della
Commissione per la vigilanza ed il controllo sul doping di cui all’art. 3”.
Successivamente, però, in data 19 luglio 2000, la Camera dei deputati modificò questo testo nei termini dettati dalla legge oggi in
vigore, ove alla formula “sono individuati” è sostituita quella “sono ripartiti”.
Il confronto tra il testo approvato dal Senato il 21 luglio 1999 e il testo modificato dalla Camera dei deputati il 19 luglio 2000
corrobora l’interpretazione secondo la quale l’intento del legislatore è stato quello di delegare al decreto ministeriale non
l’individuazione dei farmaci, sostanze, pratiche mediche costituenti doping, bensì soltanto l’approvazione delle classi in cui siffatti
farmaci, sostanze e pratiche mediche sono destinati a ripartirsi, il che costituisce un minus rispetto al precedente.
dd) Sotto questo profilo va riguardata la questione della integrazione della legge penale attraverso una normativa di carattere
secondario e della sua compatibilità con i principi costituzionali della riserva di legge in materia penale e della determinatezza della
fattispecie penale, poiché – alla stregua dell’esegesi dianzi prospettata – ben può affermarsi che la legge n. 376/2000, tra i diversi
modelli di integrazione possibili, appare avere scelto quello maggiormente in linea con i citati canoni costituzionali, in quanto
demanda ad una fonte normativa secondaria la mera specificazione, sul piano tecnico, di elementi di fattispecie già essenzialmente
delineati
dalla
legge.
Giova ricordare, in proposito, che la Corte Costituzionale – con la sentenza n. 282 del 1990 – ha affermato la illegittimità di una
norma penale che demandi all’Amministrazione la determinazione di tutti i termini normativi rilevanti per la individuazione del
fatto tipico, contraddicendo l’esigenza che sia la legge, e solo la legge dello Stato, a stabilire, con sufficiente precisione, gli estremi del
fatto cui è riferita la sanzione penale.
ee) L’interpretazione alla quale si aderisce non viene smentita dalla previsione dell’art. 6 della legge n. 376/2000, secondo la quale
le Federazioni sportive nazionali, nell’ambito dell’autonomia riconosciuta loro dalla legge, possono stabilire sanzioni disciplinari per
la somministrazione o l’assunzione di farmaci o di sostanze o per il ricorso a pratiche mediche rispondenti ai requisiti di cui alla
definizione di doping “anche nel caso in cui questi non siano ripartiti nelle classi di cui all’art. 2, comma 1, a condizione che tali
farmaci, sostanze o pratiche siano considerati dopanti nell’ambito dell’ordinamento internazionale vigente”.
Tale previsione legislativa, infatti, va evidentemente riferita a quelle c.d. “sostanze specifiche”, che – pur considerate dopanti
nell’ambito dell’ordinamento internazionale vigente, ove vengono definite “specified substances” – possono essere o meno incluse nei
regolamenti nazionali. Trattasi, per lo più, di sostanze “che sono particolarmente suscettibili di violazioni non intenzionali delle
norme antidoping, a causa della loro larga diffusione nei prodotti medicinali, o che sono meno suscettibili di essere utilizzate con
successo come agenti dopanti (“substances which are particularly susceptible to unintentional anti-doping rule violations because of
their general availability in medicinal products or which are less likely to be successfully abused as doping agents”).
ff) Erronea appare la prospettazione secondo la quale la Convenzione di Strasburgo non si riferirebbe ad ogni tipo di attività
sportiva, atteso che l’art. 2 della stessa stabilisce, alla lettera a), che per “doping nello sport” “si intende la somministrazione agli
sportivi o l’uso da parte di questi ultimi di classi farmacologiche di agenti di doping o di metodi di doping”, precisando poi, alla lettera
b), che per “sportivi” si intendono “le persone di entrambi i sessi che partecipano abitualmente ad attività sportive organizzate”.
Arbitrariamente da tali formulazioni testuali viene dedotto che obiettivo della Convenzione (e della seguente legge di ratifica) sarebbe
stato quello di combattere il fenomeno doping esclusivamente nello sport praticato a livello professionale o quanto meno da parte di
sportivi aderenti ad associazioni sportive ufficiali.
gg) Elementi determinati di segno contrario non possono trarsi, infine, dalla ritenuta “parziale indeterminatezza” della lista di
riferimento contenuta nell’annesso alla Convenzione di Strasburgo, considerata compatibile solo in quanto funzionale al campo di
operatività delle violazioni disciplinari, che non sono soggette al principio “nullum crimen, nulla poena sine lege”.
La lista recepita dalla legge n. 522/1995 suddivideva le “sostanze doping” nelle seguenti classi: a) stimolanti, b) narcotici, c) agenti
anabolizzanti, d) betabloccanti, e) diuretici, f)ormoni peptidici e affini. A tali sostanze (tutt’altro che indeterminate e sempre indicate
come tali nella successive determinazioni ministeriali) ed ai relativi principi attivi va riferita la possibilità di applicazione –
anteriormente alla vigenza del D.M. 15.10.2002 – della disciplina penale introdotta dall’art. 9 della legge n. 376/2000
anteriormente
all’emanazione
del
D.M.
15.10.2002.
5. Va affermato, conseguentemente, il principio secondo il quale “le ipotesi di reato previste dall’art. 9 della legge 14 dicembre 2000,
n. 376 (recante la disciplina della tutela sanitaria delle attività sportive e della lotta contro il doping) sono configurabili anche per i
fatti commessi prima della emanazione del decreto Ministro della salute, in data 15 ottobre 2002, con il quale, in applicazione
dell’art. 2 della stessa legge, sono stati ripartiti in classi i farmaci, le sostanze biologicamente o farmacologicamente attive e le pratiche
mediche il cui impiego è considerato doping.
A.2) I rapporti tra riserva di legge e nuova disciplina degli stupefacenti. L’intervento di Tar Lazio, 21
marzo 2007, n. 2487.
Ha costituito oggetto di un attento esame giurisprudenziale la questione relativa alla compatibilità con il principio
di riserva di legge in ambito penale della fattispecie disciplinata dall‟art. 73, D.P.R. 309/1990, come riscritto dalla
legge 21 febbraio 2006, n. 49, e come integrata dal c.d. Decreto Turco (decreto del Ministro della salute 4 agosto
2006).
Oggetto di dibattito è l‟intervento della fonte secondaria – decreto del Ministro della salute, di concerto con il
Ministro della giustizia – cui il D.P.R. 309/1990 rinvia per l‟individuazione delle sostanze stupefacenti. Al
riguardo, la tesi prevalente ritiene l‟intervento della norma secondaria compatibile con il principio della riserva di
legge, svolgendo il decreto un ruolo di “specificazione tecnica” della fattispecie incriminatrice.
Giova ricostruire il quadro normativo di riferimento.
La ricostruzione della disciplina penale in tema di stupefacenti.
La disciplina penale in tema di stupefacenti è principalmente quella oggi dettata dagli artt. 73, co. 1 bis, lett. a), e
75 del D.P.R. 9 ottobre 1990 n. 309, come modificati dall‟art. 4-bis, comma 1 lett. c), e dall‟art. 4 ter del D.L. 30
dicembre 2005 n. 272, convertito con modificazioni in legge 21 febbraio 2006 n. 49.
Per le condotte di ricezione, acquisto e detenzione, l‟odierna disciplina adotta, quale indice di rilevanza penale,
quello finalistico della destinazione della sostanza stupefacente.
Come è noto, prima del referendum abrogativo del 1993, la L. 26.6.1990 n. 162, pressoché immediatamente
trasfusa nel testo unico tuttora in vigore, seppure rimaneggiato (D.P.R. 9.10.1990 n. 309), utilizzava un criterio
oggettivo-quantitavivo per discernere tra condotte di ricezione, acquisto e detenzione penalmente o solo
amministrativamente rilevanti: costituivano, infatti, illecito solo amministrativo l‟acquisto, l‟importazione e la
detenzione per uso personale, nel limite del quantitativo corrispondente alla “dose media giornaliera” (art. 75 del
T.U.), sanzionati con il divieto temporaneo di ottenere la patente, il porto d‟armi, il passaporto e abilitazioni
equipollenti, o con la loro sospensione, se già conseguiti; era inoltre previsto un articolato sistema per assicurare
l‟osservanza delle misure terapeutiche e socio-riabilitative individuate dall‟autorità competente (Prefetto). Il limite
della dose media giornaliera operava pertanto come elemento negativo della fattispecie, questa identificandosi
nella detenzione di sostanze contenenti un quantitativo di principio superiore al massimo consentito.
L’esito del referendum abrogativo del 18-19 aprile 1993, cui è stata data formale applicazione con il D.P.R.
5.6.1993 n. 171, ha comportato l‟abrogazione delle norme, contenute nel D.P.R. n. 309/1990, che sanzionavano
penalmente il procacciamento e la detenzione per uso personale di sostanze stupefacenti ed in particolare
dell‟inciso, contenuto nel primo comma dell‟art. 75, che escludeva la rilevanza penale della sola ricezione e
detenzione di sostanza stupefacente in dose non superiore a quella media giornaliera.
Ne consegue che oggi l’acquisizione per uso personale di stupefacente è comportamento illegale (perché
vietato dal ricordato art. 75, che lo sanziona in via amministrativa) ma in ogni caso penalmente irrilevante;
correlativamente, la norma incriminatrice contenuta nell‟art. 73 del T.U. va interpretata nel senso che le condotte
ivi descritte (limitatamente alla importazione, acquisto o illecita detenzione) sono riferite in via esclusiva
all‟ipotesi della destinazione di sostanze stupefacenti ad uso di terzi, e non personale.
L’eliminazione di un limite quantitativo fisso e il riferimento all’elemento teleologico del consumo
personale, esclusivamente attinente alla sfera psichica del detentore, ha reso di non immediata evidenza la
distinzione tra l‟ipotesi sanzionata soltanto in via amministrativa e le fattispecie di rilevanza penale.
Nella giurisprudenza di legittimità, sono stati allora elaborati taluni criteri cui deve ispirarsi la valutazione
prognostica della destinazione della sostanza: vanno a tal fine considerate tutte le circostanze soggettive ed
oggettive del fatto, con particolare riferimento agli indici sintomatici rappresentati dalla quantità, qualità e
composizione della sostanza, anche in relazione alle condizioni di reddito del detentore e del suo nucleo
familiare, nonché dalla eventuale disponibilità da parte dell‟agente di attrezzature per la pesatura o di mezzi per il
confezionamento delle dosi; non si può comunque prescindere dalla quantità di sostanza detenuta, in
considerazione del rischio di cessione a terzi correlato all‟accumulo di essa.
Tali criteri – fermo restando il loro carattere meramente indicativo e non esaustivo – sono stati poi
sostanzialmente recepiti dal legislatore che, con il D.L. n. 272/2005, convertito con modifiche nella L. n.
49/2006, ha fatto riferimento, ai fini dell‟incriminazione, alla quantità, alle modalità di presentazione, al peso
lordo complessivo, al confezionamento frazionato, introducendo inoltre di nuovo un limite quantitativo
preordinato, determinato per ciascuna sostanza con decreto interministeriale; tale limite (che ha ora valore
orientativo e non decisivo) fornisce un più preciso discrimine tra le condotte soggette a sanzione penale e quelle
costituenti illecito amministrativo (e, quindi, fra autori che rivestono la qualità di indagato e detentori al corrente
dei fatti), ma non sembra alterare nella sostanza i termini della problematica qualificazione delle condotte aventi
ad oggetto quantitativi di per sé modici di stupefacente di cui non è immediatamente evidente la destinazione.
Nel dettaglio, il riscritto art. 73, dopo aver previsto al primo comma che "chiunque, senza l'autorizzazione di cui
all'articolo 17, coltiva, produce, fabbrica, estrae, raffina, vende, offre o mette in vendita, cede, distribuisce,
commercia, trasporta, procura ad altri, invia, passa o spedisce in transito, consegna per qualunque scopo sostanze
stupefacenti o psicotrope di cui alla tabella I prevista dall'articolo 14, è punito con la reclusione da sei a venti anni
e con la multa da euro 26.000 a euro 260.000, stabilisce, al comma 1-bis, introdotto dalla legge n. 49/2006, che
“con le medesime pene di cui al comma 1 è punito chiunque, senza l'autorizzazione di cui all'articolo 17, importa,
esporta, acquista, riceve a qualsiasi titolo o comunque illecitamente detiene:
a) sostanze stupefacenti o psicotrope che per quantità, in particolare se superiore ai limiti massimi indicati con
decreto del Ministro della salute emanato di concerto con il Ministro della giustizia sentita la Presidenza del
Consiglio dei Ministri - Dipartimento nazionale per le politiche antidroga, ovvero per modalità di presentazione,
avuto riguardo al peso lordo complessivo o al confezionamento frazionato, ovvero per altre circostanze
dell'azione, appaiono destinate ad un uso non esclusivamente personale;
b) medicinali contenenti sostanze stupefacenti o psicotrope elencate nella tabella II, sezione A, che eccedono il
quantitativo prescritto. In questa ultima ipotesi, le pene suddette sono diminuite da un terzo alla metà".
L‟art. 73, co. 1-bis, lett. a) -laddove rinvia al Decreto interministeriale per la fissazione dei limiti superati i quali le
condotte indicate nella stessa disposizione assumono rilievo penale in quanto da ritenere non destinate ad uso
esclusivamente personale- integra una tipica ipotesi di norma penale in bianco.
I rapporti con il principio di riserva di legge
Ciò posto, tre associazioni hanno impugnato il decreto adottato dal Ministro della salute, di concerto con il
Ministro di giustizia, sentito il Ministro della solidarietà sociale, di modifica dei limiti quantitativi massimi,
riferibili ad uso esclusivamente personale, delle sostanze stupefacenti o psicotrope: in particolare delle sostanze
“delta-8-tetraidrocannabinolo” e “delta-9-tetraidrocannabinolo”, il cui parametro moltiplicatore è stato portato
da 20 a 40.
Con sentenza 21 marzo 2007, n. 2487, il Tar Lazio ha accolto il ricorso, nella parte in cui contesta il
provvedimento per difetto di motivazione e mancata valutazione degli effetti nocivi della cannabis. Precisa il
Collegio laziale che l‟atto amministrativo che individua i limiti massimi di quantità di principio attivo di sostanza
stupefacente detenibile ad uso esclusivamente personale costituisce esercizio di discrezionalità tecnica, e quindi è
basato su elementi scientifici in certo senso vincolanti. Ove al contrario si ritenesse che tale atto implichi
l‟esercizio di un potere “politico” altamente discrezionale, la norma penale richiamata sarebbe incostituzionale, in
quanto sottrarrebbe al Parlamento quel potere “politico” di individuare precise fattispecie di reato e relative
sanzioni previsto dalla Costituzione.
Facendo applicazione delle sopra esposte coordinate alla questione relativa ai rapporti tra norma primaria di cui
al citato art. 73, co. 1-bis, lett. a), D.P.R. 309/90, e natura delle opzioni rimesse al Decreto interministeriale cui la
stessa disposizione rinvia per l‟individuazione dei limiti massimi delle sostanze stupefacenti o psicotrope che
possono essere detenute senza incorrere nelle sanzioni penali di cui al comma 1, pare non per vero agevole
discostarsi dalle conclusioni cui è pervenuto il Tar Lazio, almeno laddove sostiene che le scelte di cui il decreto
può essere espressione non possono che assumere valenza squisitamente tecnica.
Altrimenti opinando, infatti, il modello di integrazione tra norma primaria e atto regolamentare sarebbe
difficilmente armonizzabile con il principio di riserva “tendenzialmente assoluta” posto dall‟art. 25, co. 2, Cost.
Diversa, ancorché connessa, questione è quella relativa alla costituzionalità dello stesso art. 73, co. 1-bis, lett. a),
D.P.R. 309/90, come riscritto dal legislatore del 2006, nella parte in cui rimette al decreto interministeriale la
specificazione in chiave tecnica di un elemento costitutivo della fattispecie perseguita senza tuttavia che, dalla
stessa disposizione di rango primario, sia agevolmente ricostruibile il ``criterio tecnico'' di cui la disciplina
regolamentare è chiamata a fare applicazione.
Si riportano i passaggi essenziali della sentenza pronunciata da TAR Lazio, 21 marzo 2007, n. 2487.
1. Con il ricorso in epigrafe tre associazioni aventi scopo statutario di tutela della salute dei cittadini (per la legittimazione
processuale delle quali cfr. i principi affermati dal CdS: ad es Sezione quinta, 4207/05) hanno impugnato il decreto adottato dal
Ministro della salute, di concerto con il Ministro di giustizia, sentito il Ministro della solidarietà sociale, di modifica dei limiti
quantitativi massimi, riferibili ad uso esclusivamente personale, delle sostanze stupefacenti o psicotrope: in particolare delle sostanze
“delta-8-tetraidrocannabinolo” e “delta-9-tetraidrocannabinolo”, il cui parametro moltiplicatore è stato portato da 20 a 40.
Il ricorso, nella parte in cui contesta il provvedimento per difetto di motivazione e mancata valutazione degli effetti nocivi della
cannabis, è fondato e deve essere accolto, con conseguente assorbimento degli altri profili di gravame.
1.1. L’articolo 73 del Dpr 309/90, recante Testo Unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti e delle sostanze
psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza, nel suo comma 1-bis introdotto dall’articolo 4-bis
del Dl 272/05, convertito in legge dalla legge 49/2006, prevede che è punito con la reclusione da sei a venti anni e con la multa da
euro 26.000 ad euro 260.000, chiunque, senza l’autorizzazione di cui all’articolo 17, tra l’atro, “comunque illecitamente detiene:
sostanze stupefacenti o psicotrope che per quantità, in particolare se superiore ai limiti massimi indicati con decreto del Ministro della
salute emanato di concerto con il Ministro della giustizia, sentita la Presidenza del Consiglio dei Ministri – dipartimento nazionale
per le politiche antidroga (ora Ministro per la solidarietà sociale cui sono state trasferite le competenza in materia di politica
antidroga), ovvero per modalità di presentazione, avuto riguardo al peso lordo complessivo o al confezionamento frazionato, ovvero per
altre circostanze dell’azione, appaiono destinate ad un uso non esclusivamente personale”.
Quindi i limiti quantitativi massimi di sostanze stupefacenti che possono essere detenuti da un soggetto per un uso esclusivamente
personale, costituiscono uno degli elementi di valutazione del giudice penale per accertare, unitamente alle modalità di presentazione e
ad altre circostanze dell’azione, se quel quantitativo di sostanze sia presumibilmente detenuto a fini di spaccio.
La norma, per quanto qui interessa, modifica il combinato disposto degli articoli 73, 75 e 78 del Dpr 309/90, nell’originario testo
della legge 162/90, articoli 14, 15 e 16, confluito poi nel Testo Unico sugli stupefacenti approvato appunto con il suddetto Dpr
309/90, che prevedeva pure il rinvio ad un decreto del Ministro della sanità, previo parere dell’Istituto superiore di sanità, per
l’individuazione dei limiti quantitativi massimi di principio attivo per le dosi medie giornaliere, utilizzabile come discrimine tra uso
personale ed uso a fini di spaccio.
Il vecchio testo faceva riferimento ad un parametro temporale (dose giornaliera) che più non si rintraccia nella nuova formulazione
della norma.
1.2. In attuazione della nuova normativa introdotta a fine 2005, il Ministero della salute emanò un primo decreto, datato 11 aprile
2006, per l’adozione del quale ritenne di dover istituire una apposita comissione di esperti, che venne nominata con atto dell’ 11
febbraio 2006.
La Commissione elaborò un prospetto che indicava, per ognuna delle sostanze stupefacenti o psicotrope contemplate nella tabella I
allegata alla legge, i seguenti dati: nella colonna 1 la dose media singola efficace, intesa come la quantità di principio attivo per singola
assunzione idonea a produrre in un soggetto tollerante e dipendente un effetto stupefacente o psicotropo; nella colonna 2 la frequenza
di assunzione giornaliera media, valutata secondo stime dei tossicologi in base alle diverse conoscenze sulla cinetica di ciascuna
sostanza; nella colonna 2 bis la quantità di principio attivo assunta giornalmente (col 1 x col. 2); nella colonna 2 ter la probabilità
(alta, media, bassa o nulla) di superare in una unica assunzione i livelli indicati nella colonna 2 bis, cioè la dose giornaliera; nella
colonna 3 l’assunzione media settimanale: l’indicazione cioè di un valore numerico che esprime la stima della ripetibilità delle
assunzioni nell’arco di una settimana in virtù delle caratteristiche delle varie sostanze stupefacenti. “Tiene conto – si legge nella
relazione – del setting, della compulsività d’uso, del diverso tipo e grado di dipendenza e delle abitudini degli assuntori. Es. prevalente
uso occasionale ovvero compulsivo”; nella colonna 3 bis la quantità di principio attivo assunta nell’arco di una settimana (col. 1 x
col. 3); nella colonna 3 ter la probabilità di superamento in unica soluzione dei valori della colonna 3; nella colonna 4 il grado di
alterazione comportamentale che può essere indotta dalla sostanza; nella colonna 5 il grado di disabilità che può essere provocato
dalla sostanza, intesa come grave scadimento della performance psico motoria nell’esecuzione di compiti complessi di interazione uomo
macchina.
Per quanto riguarda in particolare le sostanze oggetto di modifica nel decreto impugnato, e cioè la delta -8 – tetraidrocannabinolo e
la delta-9-tetraidrocannabinolo (numeri d’ordine 40 e 41 del prospetto), vengono indicati gli stessi valori: 25 mg. dose media singola,
4 assunzioni giornaliere, 100 mg quantità di principio attivo assunta giornalmente, bassa probabilità di superamento in una unica
assunzione di 100 mg., 15 assunzioni settimanali, 375 mg di principio attivo assumibile nell’arco di una settimana; probabilità di
superamento in unica assunzione di 375 mg: nulla, grado di alterazione comportamentale:basso, grado di effetti disabilitanti: alto.
Nel presentare al Ministro tali dati la commissione dichiarava che soprattutto alcuni di essi presentavano gradi di incertezza “che
potrebbe essere ridotta solo se alla commissione fosse accordata una dilazione dei termini concessi. Un ulteriore tempo adeguato
consentirebbe alla commissione di elaborare un sistema di quantificazione dotato di maggiore oggettività ovvero di totale valenza
scientifica” (p.1 all.3 dei lavori della commissione).
Il decreto dell’11 aprile utilizzava i valori relativi alla dose media singola efficace, incrementandoli con un parametro moltiplicatore
variabile in relazione alle caratteristiche di ciascuna sostanza, con particolare riferimento ad altri due dati forniti dalla commissione:
il potere della sostanza di indurre alterazioni comportamentali (colonna 4) e quello di causare effetti disabilitanti (colonna 5). Per le
due sostanze in questione moltiplicava 25 mg per il parametro moltiplicatore 20, pervenendo alla soglia di 500 mg. di principio
attivo come limite massimo di sostanza detenibile ad uso esclusivamente personale, con ciò già disattendendo l’indicazione della
commissione che aveva individuato una soglia di 375 mg.
1.3. Il decreto del 4 agosto 2006 interviene a modificare solo il parametro moltiplicatore delle suddette due sostanze, portandolo da
20 a 40, senza ulteriori approfondimenti tecnico-scientifici e motivando in considerazione delle caratteristiche differenziali dei principi
attivi delle due sostanze rispetto alle altre sostanze stupefacenti “anche per quanto attiene al minor potere di indurre alterazioni
comportamentali e scadimento delle capacità psicomotorie” e ritenendo “pertanto congruo stabilire, per le due citate sostanze un fattore
moltiplicativo pari a 40 anzicchè a 20 come previsto nel decreto ministeriale 11 aprile 2006”.
2.Così ricostruita la vicenda in base alle norme ed agli atti depositati in giudizio, al fine di valutare la fondatezza delle censure di
difetto di motivazione e di mancata valutazione della nocività delle sostanze in esame, appare necessario risolvere preliminarmente
una questione posta dalla difesa delle amministrazioni intimate e ribadita nel rapporto istruttorio del Ministero della salute, a
giustificazione della dichiarata assenza di ulteriori approfondimenti tecnico-scientifici: se cioè la scelta effettuata rientri o meno tra
quelle
essenzialmente
politiche,
non
sindacabili
dal
giudice
amministrativo.
2.1. Come noto la sanzione penale è coperta da riserva di legge, ai sensi dell’articolo 25 comma 2 della Costituzione, che ricollega la
punibilità ad una legge entrata in vigore prima del fatto commesso.
Nel caso in esame venne posta, agli inizi degli anni ’90, specifica questione di legittimità costituzionale del combinato disposto degli
articoli 73, 75 e 78 del Dpr 309/90 per violazione dell’articolo 25 comma 2; i giudici remittenti dubitavano della conformità al
principio di riserva di legge della normativa suddetta “atteso che la determinazione della dose media giornaliera (e perciò del
discrimine tra illecito amministrativo e reato) è rimessa alla totale discrezionalità della P.A. In particolare fissare il limite massimo
di principio attivo per le dosi medie giornaliere in maniera tassativamente tabulata, ricollegandovi la linea di demarcazione fra illecito
penale e non, significa far discendere la responsabilità penale del soggetto da un fattore (la misurazione) che per definizione presenta
margini imprescindibili di errore” (Tribunale di Torino ordinanza 23 aprile 1991); inoltre “nessun criterio predeterminato è
previsto quale limite della discrezionalità amministrativa nella determinazione della dose media giornaliera delle singole sostanze
stupefacenti” (Gip del Tribunale di Camerino ordinanza 11 febbraio 1991); “non sono stati determinati dalla legge i criteri che
dovrebbero essere seguiti dalla autorità amministrativa sanitaria per la determinazione dei limiti quantitativi di principio attivo delle
sostenze stupefacenti e conseguentemente è stata attribuita alla autorità amministrativa la facoltà di creare gli elementi normativi della
fattispecie penale, che invece devono essere previsti solo ed esclusivamente dalla legge” (Tribunale di Sassari, ordinanza 31 maggio
1991). Di analogo tenore numerose altre ordinanze di rimessione alla Corte Costituzionale della medesima questione.
Con due sentenze (333/91 e 133/92) la Corte Costituzionale ha ritenuto infondata la questione e compatibile con la riserva di
legge la normativa censurata, in quanto “è demandato al Ministro della sanità l’esercizio di una discrezionalità meramente tecnica,
tenendo conto dello stato attuale delle conoscenze scientifiche, senza che sia consentita alcuna valutazione in chiave di prevenzione o
repressione”….”..l’eventuale illegittimità in concreto dell’integrazione amministrativa della norma incriminatrice non pone un
problema di compatibilità con il precetto costituzionale della riserva di legge, ma radicherebbe il potere-dovere del giudice ordinario di
disapplicare caso per caso il decreto ministeriale suddetto”.
Tale principio affermato dalla Corte vale anche, ed a maggior ragione, per la formulazione dell’attuale normativa, che reca
addirittura un criterio di riferimento in meno rispetto al vecchio testo, in quanto, come detto, non indica alcun parametro temporale,
laddove la normativa a suo tempo sospettata di illegittimità costituzionale faceva comunque riferimento ad una dose giornaliera.
Solo quindi ritenendo che l’atto amministrativo che individua i limiti massimi di quantità di principio attivo di sostanza stupefacente
detenibile ad uso esclusivamente personale costituisce esercizio di discrezionalità tecnica, e quindi è basato su elementi scientifici in
certo senso vincolanti, potrà ritenersi conforme al principio di riserva di legge di cui all’articolo 25 comma 2 Costituzione l’articolo
73 comma 1.bis del Dpr 309/90 .
Ove al contrario si ritenesse che tale atto implichi l’esercizio di un potere “politico” altamente discrezionale, la norma penale che
conferisse all’amministrazione tale potere sarebbe incostituzionale, in quanto sottrarrebbe al Parlamento quel potere “politico” di
individuare precise fattispecie di reato e relative sanzioni previsto dalla Costituzione, a vantaggio di una scelta della stessa natura
rimessa a singoli soggetti certamente politici, ma deputati istituzionalmente ad indirizzare l’attività amministrativa nell’ambito del
potere esecutivo.
2.2. Una tale discrezionalità tecnica risulta nella fattispecie malamente esercitata.
Ed invero, se appare obbligata l’interpretazione del citato articolo 73 comma 1.bis, nel senso sopra detto, ciò non toglie che l’esercizio
della discrezionalità tecnica possa apparire assai difficoltoso, sia per motivi scientifici sia perché attraverso di essa devono colmarsi i
vuoti normativi: primo tra tutti quello riguardante un parametro temporale di riferimento per calcolare il quantitativo massimo
detenibile, superato il quale si assume che la sostanza non sia più detenuta per esclusivo consumo personale, ma verosimilmente sia
destinata allo spaccio.
E’ infatti chiara la ratio della norma come lucidamente lette dalla stessa Corte Costituzionale nella successiva sentenza 308/92:
“quella di combattere attraverso il divieto di accumulo (pur se finalizzato a proprio consumo differito) il mercato della droga in
entrambi i momenti in cui esso si articola: per un verso contrastando il pericolo che una parte della sostanza detenuta possa essere
ceduta a terzi; per altro verso costringendo l’offerta a modellarsi sulla domanda indotta alla parcellizzazione, e così rendendo più
difficile lo spaccio”.
Orbene la commissione istitutia nel febbraio 2006, pur avvertendo sui limiti di valenza scientifica di alcuni dei dati forniti, ha
operato un tentativo propositivo, individuando come parametro temporale sia il giorno che la settimana; escluso il primo in quanto
verosimilmente espunto dall’indicazione normativa, ha individuato il secondo “in virtù delle caratteristiche delle varie sostanze
stupefacenti” fornendo parametri numerici tenendo conto “del setting, della compulsività d’uso, del diverso tipo e grado di dipendenza e
delle abitudini degli assuntori”. Ha quindi fornito una indicazione sulla dose massima detenibile moltiplicando la dose media singola
(assistita da adeguata valenza scientifica) per il numero di assunzioni statisticamente e sanitariamente riscontrabili in una settimana,
in relazione ad ogni tipologia di valore attivo di sostanza stupefacente o psicotropa.
Sia il decreto dell’aprile 2006 che quello dell’agosto 2006 hanno utilizzato il dato relativo alla dose media singola, ma hanno poi
disatteso l’indicazione della commissione in ordine al parametro moltiplicatore, senza peraltro chiarire se intendevano modificare
l’indicazione del numero di assunzioni settimanali, ovvero se ritenevano di contestare anche il parametro temporale settimanale fornito
dalla commissione. Al riguardo è appena il caso di richiamare la pronuncia da ultimo riferita della Corte Costituzionale che ha
individuato nella ratio della norma anche il fine di parcellizzare l’offerta delle sostanze stupefacenti, modellandola quindi su una dose
detenibile a fini di uso personale tendenzialmente ridotta, e quindi con un parametro temporale breve.
In particolare il provvedimento qui impugnato, dopo aver genericamente constatato che il principio attivo delle due sostanze in
questione è diverso da quello di altre sostanze stupefacenti, àncora la scelta al minor potere di indurre alterazioni comportamentali e
scadimento delle capacità psicomotorie, senza considerare che per il secondo dei suddetti parametri, indicato nella colonna 5 del
prospetto fornito dalla Commissione tecnica, è prevista per entrambe le sostanze un’alta incidenza ed intensità di effetti disabilitanti,
intesi proprio come grave scadimento della performance psico motoria nell’esecuzione di compiti complessi.
In relazione a tale parametro, come individuato dall’unico documento scientifico in possesso dell’amministrazione, il raddoppio del
fattore moltiplicatore, da 20 a 40, non appare certo congruo.
In ogni caso la motivazione di mera congruità appare assai generica, soprattutto se rapportata agli elementi, anche se non
scientificamente tutti apprezzabili nella stessa misura, forniti dalla commissione, per discostarsi dai quali andava quanto meno
fornita una spiegazione; e ciò con particolare riguardo ai criteri di scelta e di individuazione del c.d. “fattore moltiplicativo”.
Senza peraltro considerare che la commissione aveva comunque affermato che “un ulteriore tempo adeguato consentirebbe alla
commissione di elaborare un sistema di quantificazione dotato di maggiore oggettività, ovvero di totale evidenza e valenza scientifica”.
Peraltro, e conclusivamente, si evidenzia come, pur valutando la scelta operata nell’ambito del diverso profilo della politica criminale,
non risultano prodotti in giudizio adeguati elementi istruttori che confortano l’orientamento e la misura della determinazione assunta
in ordine al fattore moltiplicativo.
Per quanto precedentemente osservato il decreto del Ministro della salute 4 agosto 2006 deve essere annullato in quanto la
motivazione dell’atto, peraltro esclusivamente orientata nell’ambito delle ragioni sanitarie, non spiega le ragioni delle scelte operate, né
esse vengono adeguatamente giustificate sulla base di approfondimenti specifici sugli effetti dannosi delle sostanze stupefacenti in
questione.
A. 3. I tormentati rapporti della disciplina penale degli stupefacenti con il principio di offensività.
Giova cogliere l‟occasione per esaminare i profili problematici che la disciplina penale delle sostanze stupefacenti
anche nei suoi rapporti con il principio di offensività.
1. I rapporti con il principio di offensività.
Giova, al riguardo, considerare che quest‟ultimo, oltre a costituire (in quanto principio di rango costituzionale)
parametro alla cui stregua dover valutare la legittimità costituzionale delle disposizioni incriminatrici (c.d.
principio di offensività “in astratto”), viene in considerazione anche quale criterio interpretativo delle norme
penali. (c.d. principio di offensività “in concreto”)
Più nel dettaglio, alla stregua della concezione c.d. realistica del reato, il principio di offensività imporrebbe
all‟interprete di optare, tra le diverse ricostruzioni ermeneutiche possibili della norma incriminatrice, per quella
che ne assicuri la necessaria lesività o pericolosità, così da sottrarla al rischio di incostituzionalità.
Ciò posto, vanno esaminate le questioni che, quanto ai rapporti con il principio di offensività, si sono poste
rispettivamente per il reato di coltivazione di stupefacenti e per quelli di ricezione, acquisito e detenzione.
1.1. Coltivazione di stupefacenti e principio di offensività.
Con riferimento alla fattispecie di coltivazione si sono delineate due distinte, ancorché tra loro connesse,
questioni.
Sul primo versante ci si è chiesti se l‟odierna disciplina penale della coltivazione, nella parte in cui riconosce alla
condotta in questione illiceità penale indipendentemente dalla quantità di principio attivo contenuto nel prodotto
della coltivazione anche se non finalizzata allo spaccio possa ritenersi coerente con il principio costituzionale di
offensività.
Sul secondo versante, ci si interroga sui criteri di interpretazione della disciplina penale della condotta di
coltivazione; ci si chiede, in particolare, se il principio di offensività possa fungere da criterio di interpretazione
della disposizione incriminatrice.
1.1. La legittimità costituzionale della norma che incrimina la coltivazione.
Sulla illustrata questione di costituzionalità è intervenuta Corte cost. n. 360/1995 dichiarandola infondata,
sull‟assunto secondo cui l‟accertamento circa l‟assoluta inidoneità della coltivazione a mettere a repentaglio il
bene protetto spetta al giudice di merito.
La Corte distingue, al riguardo, tra l‟accezione astratta del principio di offensività che, rivolta al legislatore, gli
impone di incriminare condotte lesive o pericolose di beni giuridici meritevoli di tutela, ed offensività in concreto
che, rivolta al giudice, gli impone di optare per interpretazioni della norma incriminatrici coerenti, per quanto
possibile, con l‟esigenza a che sia assicurate la lesività o pericolosità del fatto concreto.
Quanto all‟offensività astratta, la Corte non dubita che l‟incriminazione della condotta di coltivazione risponda
all‟esigenza di presidiare beni meritevoli di tutela, in specie quello della salute, esposto a pericolo per effetto di
condotte implicanti la produzione di nuove sostanze stupefacenti. Evidenziano, al riguardo i giudici costituzionali
che la astratta pericolosità della condotta di coltivazione riviene anche dall‟impossibilità di determinare a priori il
prodotto stupefacente ricavabile e la sua potenzialità diffusiva.
La stessa Corte, peraltro, in questo ormai lontano precedente, che non poco ha tuttavia condizionato la
successiva elaborazione giurisprudenziale, ha sostenuto che spetta al giudice di merito valutare, in concreto,
che la quantità di stupefacente coltivato “sia assolutamente inidonea a porre a repentaglio il bene
giuridico tutelato’’, dovendo in tal caso escludere l‟offensività in concreto e ritenere la condotta non punibile.
È bene precisare che, in questi casi, il discrimine con l‟illiceità penale non è costituito dalla destinazione ad uso di
terzi ma, sempre che venga esclusa questa destinazione, dall‟inesistenza della ripetuta offensività in concreto: la
Corte costituzionale, nella sentenza ricordata, fa l‟esempio della coltivazione di una sola pianta da cui possa
estrarsi un esiguo quantitativo di sostanza insufficiente a provocare un apprezzabile stato stupefacente.
1.1.2. L’interpretazione della norma che incrimina la coltivazione: reato di pericolo presunto o in
concreto?
Così superata la questione di costituzionalità, ci si è interrogati sui criteri di interpretazione della disciplina penale
della condotta di coltivazione; ci si chiede, in particolare, se il principio di offensività possa fungere da criterio di
interpretazione della disposizione incriminatrice.
Sono emerse, sul punto, le opposte tesi secondo cui quello in esame è un reato di pericolo concreto ovvero
presunto.
Giova ricostruire nel dettaglio le tre posizioni in campo.
1.1.2.1. Fattispecie di pericolo astratto.
Per un primo più rigoroso orientamento, la lettera del decreto 309 del 1990 non distingue, come avviene in fatto
di detenzione, a seconda della destinazione della coltivazione; anche in presenza di un esiguo numero di piantine,
deve pertanto ritenersi integrato il reato di cui all‟art. 73.
A sostegno dell‟assunto si valorizza, come rilevato, la natura del reato in questione, inteso come fattispecie di
pericolo astratto. Ne discenderebbe l‟irrilevanza sia di fattori qualitativi (il grado di tossicità) che quantitativi (il
numero di piante), utili solamente in chiave sanzionatoria, potendo rilevare ai fini dell‟applicazione della
circostanza aggravante speciale della “ingente quantità” di cui all‟art. 80 d.P.R. 309/1990.
Anche il grado di maturazione raggiunto dalla pianta non sarebbe determinante, dovendo intendersi per
coltivazione proibita quell‟attività che, partendo dalla semina, giunge sino alla raccolta.
In tal senso, Cass. pen., sez. VI, 16 luglio 2004, n. 31472, nonché, più di recente, Cass. pen., sez. IV, 15
novembre 2005, n. 150, che giungono a qualificare in termini di reato di pericolo astratto la condotta consistente
nella coltivazione non autorizzata di piante dalle quali sono estraibili sostanze stupefacenti o psicotrope,
sostenendo che la coltivazione non autorizzata di piante dalle quali sono estraibili sostanze stupefacenti o
psicotrope, attività distinta dalla produzione, costituisce un reato di pericolo astratto, per la cui configurabilità
non rilevano la quantità e qualità delle piante, la loro effettiva tossicità, la quantità di sostanza drogante da esse
estraibile. Tali elementi assumono, invece, rilievo ai fini della gravità del reato ed in particolare della
configurabilità dell‟aggravante prevista dall‟art. 80, comma 2, D.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309.
Da ultimo, aderisce a tale impostazione Cass. pen., sez. IV, 28 novembre 2007, n. 871, secondo cui la
coltivazione non autorizzata di piante, dalle quali sono estraibili sostanze stupefacenti o psicotrope costituisce un
reato di pericolo, essendo punito “ex se” il fatto della coltivazione senza che per l‟integrazione del reato sia
necessario individuare l‟effettivo grado di tossicità della pianta e senza che occorra fare riferimento alcuno alla
sostanza stupefacente che da essa si può trarre e che può dipendere da circostanze contingenti, connesse alla sua
crescita, al suo sviluppo ed alla sua maturazione.
Agevole dubitare della coerenza di tale impostazione con le indicazioni fornite dalla Corte
costituzionale nella citata sentenza n. 360/1995, laddove rimise al giudice di merito il compito di valutare, in
concreto, che la quantità di stupefacente coltivato “sia assolutamente inidonea a porre a repentaglio il bene
giuridico tutelato‟‟, dovendo in tal caso escludere l‟offensività in concreto e ritenere la condotta non punibile.
1.1.2.2. Fattispecie di pericolo concreto.
Per una seconda, e meno rigida, posizione, che valorizza quanto sostenuto dalla Corte costituzionale nella citata
sentenza 24 luglio 1995, n. 360, va esclusa la realizzazione del delitto solamente in presenza di un dato
quantitativo estremamente ridotto (la Corte costituzionale, nel caso sottoposto al suo vaglio, ha analizzato
l‟ipotesi di una sola piantina coltivata). Sebbene il legislatore abbia nelle sue previsioni presunto una oggettiva
pericolosità in fatto di coltivazioni di stupefacenti, la coltivazione di un solo esemplare di pianta proibita verrebbe
a privare dei crismi della tipicità la condotta concreta. In questo senso una pronuncia della Corte di Cassazione,
Cass. pen., sez. IV, 19 novembre 2008, n. 6207, ha affermato che il reato di detenzione a fine di cessione di sostanze
stupefacenti può dirsi integrato a condizione che sia dimostrato con assoluta certezza che il principio attivo
contenuto nella dose destinata allo spaccio sia di entità tale da poter produrre un concreto effetto drogante.
1.1.2.3. La distinzione tra coltivazione in senso tecnico-agrario e coltivazione domestica.
Per un terzo orientamento, è necessario distinguere tra varie forme di coltivazione.
Una prima tipologia (certo punibile), detta anche tecnico-agraria, si caratterizzerebbe per un elevato coefficiente
organizzativo desumibile dal tipo di coltivazione posta in essere (se in terreno o in vaso), dal tipo di semina e di
governo della coltivazione, dalla disponibilità di attrezzi, strutture e sostanze da cui desumere un approccio
chiaramente imprenditoriale nella coltivazione.
Diversa, invece, la coltura cd. domestica, effettuata in via approssimativa e rudimentale e i cui frutti sarebbero
funzionali ad un utilizzo meramente personale: la stessa sarebbe equiparabile, sul piano del trattamento penale,
alla mera detenzione e, come tale, non assumerebbe rilievo penale, attesa la destinazione ad uso personale della
sostanza estraibile dalla pianta coltivata2.
In tal modo, l‟orientamento che si espone aveva, di fatto, finito per escludere la rilevanza penale della
coltivazione c.d. domestica finalizzata all‟uso personale dello stupefacente: ciò sulla scorta di una equiparazione,
operata in via interpretativa, di siffatta tipologia di coltivazione con la condotta di detenzione.
1.1.2. 4. Intervengono le Sezioni unite.
Sulla questione sono intervenute le Sezioni unite con sentenze 10 luglio 2008, nn. 28605 e 28606.
Alle stesse era stata rimessa la questione relativa alla rilevanza penale della condotta di coltivazione di piante,
dalle quali sono estraibili sostanze stupefacenti, anche quando la stessa sia realizzata per destinazione del
prodotto ad uso personale.
Le Sezioni unite, richiamata Corte cost. n. 360/1995 ed evidenziato che la condotta di “coltivazione”, anche
dopo l‟intervento normativo del 2006, non è stata richiamata nell‟art. 73, co. 1 bis, né nell‟art. 75, co. 1, ma solo
nel co. l dell‟art. 73 del novellato D.P.R. n. 309/1990, sicché la stessa ha comunque e sempre una rilevanza
penale, indipendentemente dalle caratteristiche della coltivazione e dal quantitativo di principio attivo ricavabile
dalle piante da stupefacenti.- reputano arbitraria la distinzione tra “coltivazione in senso tecnico-agrario” ovvero
“imprenditoriale” e “coltivazione domestica”, non legittimata dal dato letterale della norma, che non prevede
alcuna specificazione del termine lessicale.
Puntualizzano, al riguardo, che l‟art. 26 del D.P.R. n. 309/1990 pone il divieto generale ed assoluto di coltivare le
piante comprese nella tabella I di cui all‟art. 14 (fra le quali è annoverata anche la cannabis indica), salvo il potere del
Ministro della salute di autorizzare “istituti universitari e laboratori pubblici aventi fini istituzionali e di ricerca alla
2
Cass. pen., sez. VI, 21 settembre 2007, n. 40712.
coltivazione delle piante ... per scopi scientifici, sperimentali e didattici”. Deve ritenersi vietata, pertanto, qualunque
forma di coltivazione delle piante stupefacenti indicate nella tabella I - non necessariamente connotata (poiché la
legge non lo prevede) da aspetti di imprenditorialità ovvero dalle caratteristiche proprie della coltivazione “tecnicoagraria” - fatta eccezione soltanto per quella “per scopi scientifici, sperimentali e didattici” assentibile con
autorizzazione in favore di “istituti universitari e laboratori pubblici aventi fini istituzionali e di ricerca”.
Il fatto che nei successivi artt. 27-29 e 30 d.P.R. n. 309 del 1990 siano previste norme particolari per la
concessione delle autorizzazioni alla coltivazione (quali la disponibilità del terreno, la sua preparazione, la semina,
il governo dello sviluppo delle piante, la disponibilità di locali per la raccolta dei prodotti) non può essere
interpretato nel senso che le attività di coltivazione che non abbiano requisiti siffatti non siano soggette ad
autorizzazione, e quindi siano lecite, ma solo che l‟autorizzazione, per usi di ricerca o didattici, può essere
concessa esclusivamente in presenza di questi elementi, sicché mai potrebbe essere autorizzata una coltivazione
domestica per uso personale.
Le Sezioni unite concludono quindi per la rilevanza penale della coltivazione, ancorché ad uso personale.
Il che del resto si spiega se si considera che qualsiasi tipologia di coltivazione è caratterizzata da un dato
essenziale e distintivo rispetto alle fattispecie di detenzione, che è quello di contribuire ad accrescere (in
qualunque entità), pure se mirata a soddisfare esigenze di natura personale, la quantità di sostanza stupefacente
esistente, sì da meritare un trattamento sanzionatorio diverso e più grave.
Ciò chiarito, le stesse Sezioni unite, passando al problema del rapporto tra la fattispecie di coltivazione e il
principio di offensività, precisano che “quest‟ultimo - in forza del quale non è concepibile un reato senza offesa
(“nullum crimen sine iniuria”) opera su due piani, “rispettivamente, della previsione normativa, sotto forma di
precetto rivolto al legislatore di prevedere fattispecie che esprimano in astratto un contenuto lesivo, precetto
comunque la messa in pericolo, di un bene o interesse oggetto della tutela penale (offensività in astratto), e
dell‟applicazione giurisprudenziale (offensività in concreto), quale criterio interpretativo-applicativo affidato al
giudice, tenuto ad accertare che il fatto di reato abbia effettivamente leso o messo in pericolo il bene o l‟interesse
tutelato”.
In ossequio al principio di offensività inteso nella sua accezione concreta, le Sezioni unite concludono
sostenendo che spetta al giudice verificare se la condotta, di volta in volta contestata all‟agente ed accertata, sia
assolutamente inidonea a porre a repentaglio il bene giuridico protetto risultando in concreto inoffensiva.
La condotta è “inoffensiva” soltanto se il bene tutelato non è stato leso o messo in pericolo anche in grado
minimo (irrilevante, infatti, è a tal fine il grado dell‟offesa), sicché la “offensività” non ricorre soltanto se la
sostanza ricavabile dalla coltivazione non è idonea a produrre un effetto stupefacente in concreto rilevabile.
Sul tema è recentemente intervenuta Cass. Pen., Sez. VI, Sent. 30 luglio 2014, n. 33835 che, richiamandosi al
principio di offensività nella sua duplice accezione di offensività in astratto ed in concreto, ha ribadito che, pur
sussistendo l‟offensività in astratto della coltivazione di sostanze stupefacenti quale che sia il quantum di sostanza
drogante coltivata, il giudice dovrà pervenire ad una pronuncia di assoluzione perché il fatto non sussiste
ogniqualvolta la condotta di coltivazione risulti in concreto inoffensiva.
Al riguardo, la Suprema Corte ha altresì precisato che l‟inoffensività in concreto è da ritenersi integrata nei casi in
cui l‟entità minima della coltivazione sia tale da escludere qualsivoglia efficace drogante degli stupefacenti
coltivati o comunque la possibile diffusione della sostanza stupefacente prodotta.
1.2. Acquisto, detenzione e cessione e principio di offensività.
Si consideri che, più in generale, è stata posta la questione della coerenza con il principio di offensività dell‟intera
disciplina penale dettata dall‟art. 73, D.P.R. n. 309/1990, nella parte in cui incrimina una serie di condotte a
prescindere dalla circostanza che le stesse abbiano ad oggetto quantitativo di stupefacente al di sopra della cd.
“soglia drogante”.
Per un indirizzo talvolta emerso in giurisprudenza riteneva che la cessione di sostanze stupefacenti contenenti un
quantitativo di principio attivo tale da escludere del tutto l‟efficacia drogante non configurasse alcun reato per
l‟inidoneità dell‟azione ad offendere l‟interesse protetto, ossia la salute psico-fisica di chi assume tali sostanze
(Cass., sez. IV, 1 ottobre 1993).
L‟orientamento è stato ribaltato dalle Sezioni Unite in primo luogo sul rilievo per cui, ferma la mancanza di
certezza scientifica nell‟individuare le soglie droganti di una sostanza, l‟ordinamento giuridico accoglie una
nozione legale e non farmacologica di sostanza stupefacente, sicché l‟interprete deve semplicemente verificare
che la sostanza ceduta coincida con quella indicata nelle tabelle ministeriali; si è inoltre rimarcato che il bene
protetto dalla norma non è solo la salute individuale, ma anche la salute pubblica, la sicurezza e l‟ordine pubblico,
la salvaguardia delle giovani generazioni, tutti lesi anche per effetto della cessione di sostanze pure prive di
efficacia drogante (Cass., sez. un., 24 giugno 1998).
La questione è stata di recente rimessa alle Sezioni unite di Cassazione da Cass. pen., sez. VI, 18 luglio 2007, n.
28661.
Il ricorso per cassazione riguardava, in particolare, sentenza con cui la Corte territoriale di appello aveva
confermato la penale responsabilità dell‟imputato per il delitto di cui all‟art. 73, D.P.R. n. 309, per avere ceduto
grammi 0,300 di eroina.
La Corte di merito ha ritenuto irrilevante, ai fini dell‟esclusione del reato, la dedotta circostanza del mancato
raggiungimento della cd. “soglia drogante” del quantitativo di droga di grammi 0,300 ceduto, recante principio
attivo nella percentuale del 13,3%, rifacendosi al principio affermato dalle Sezioni Unite (sent. n. 9973 del
24.06.1998), secondo cui nel nostro ordinamento, in mancanza di una definizione farmacologica, la nozione di
stupefacente non può che avere natura legale, essendo soggette alla normativa che ne vieta la circolazione tutte e
soltanto le sostanze specificamente indicate negli elenchi appositamente predisposti, onde il fatto che il principio
attivo contenuto nella singola sostanza oggetto di spaccio possa non superare la cosiddetta “soglia drogante”, in
mancanza di ogni riferimento parametrico previsto per legge o per decreto, non ha rilevanza ai fini della
punibilità del fatto.
Ad avviso della sesta Sezione di Cassazione, viceversa, gli interventi normativi nel frattempo intervenuti e, in
particolare, l‟introduzione del D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73, comma 1 bis, che conferisce un rilievo specifico, ai
fini del presuntivo superamento della destinazione della droga ad esclusivo uso personale, alla quantità dello
stupefacente, e, soprattutto, l‟approfondimento dei principi già affermati dalla Corte costituzionale in tema di
offensività riguardo alla coltivazione della droga (sent. n. 360 del 1995), inducono a dubitare della condivisibilità
del citato indirizzo delle Sezioni Unite.
“Se, infatti - come puntualizzato dal Giudice delle leggi (che, del resto, aveva già espresso analoghe affermazioni
nelle sentenze nn. 333 del 1991 e 62 del 1986) - è innegabile che l‟assoluta inidoneità dell‟offensività specifica
della singola condotta, in concreto accertata, a porre a repentaglio il bene giuridico tutelato, fa venir meno la
riconducibilità della fattispecie concreta a quella astratta, in quanto la indispensabile connotazione di offensività
in generale di quest‟ultima implica di riflesso la necessità che anche in concreto la offensività sia ravvisabile
almeno in grado minimo, nella singola condotta dell‟agente (in difetto di ciò venendo la fattispecie a rifluire nella
figura del reato impossibile), non si vede come nel caso - quale quello di specie - in cui oggetto di cessione sia un
definito e isolato quantitativo di droga recante principio attivo in misura talmente esigua da essere sicuramente
insufficiente, ove assunto, a determinare un apprezzabile stato stupefacente, possa riconoscersi sussistente la
detta offensività concreta e considerare, quindi, penalmente rilevante la condotta dell‟agente. Né può validamente
invocarsi in contrario (come in definitiva hanno fatto le Sezioni Unite nella cit. sent. n. 9973 del 1998) il sistema
tabellare, cui è ispirata la nostra disciplina in materia di stupefacenti, in quanto il suo presupposto di fondo
(desumibile dalla previsione di cui al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 14, comma 1, lett. a), n. 4) è sempre la capacità
di quanto inserito in tabella di determinare gli effetti tipici delle sostanze stupefacenti o psicotrope (incidenza sul
sistema nervoso centrale con induzione di stati di dipendenza fisica e/o psichica); e una lettura del sistema in
termini tali da derivarne applicazioni repressive di tipo automatico e prescindente dalla detta capacità appare
inevitabilmente destinata a scontrarsi con i principi di cui agli artt. 3 e 25 Cost.”.
Sulla questione è intervenuta Cass. pen., Sez. un., 20 dicembre 2007, n. 47472, secondo cui, in tema di spaccio di
stupefacenti, non rileva il mancato superamento della dose media giornaliera, ma la circostanza che l‟eroina
spacciata abbia sicuro effetto drogante per la singola assunzione dello stupefacente. L‟accertamento che la quantità
di eroina spacciata supera la “soglia drogante” e cioè ha effetto stupefacente anche su persona costantemente dedita
al consumo di eroina, consente di affermare la responsabilità penale, non avendo rilievo il mancato superamento
della dose media giornalierna.
A.4. I diversi profili rilevanti in materia di disciplina penale degli stupefacenti.
Si rinvia al prosieguo del corso per la trattazione dei seguenti profili problematici che, in tema di disciplina penale
di stupefacenti, sono venuti in rilievo negli ultimi anni.
1. Tassatività e aggravante dell'ingente quantità: Cass., Sez. un., 20 settembre 2012, n. 36258.
2. La previsione di cui all'art. 74, D.P.R. n. 309/1990: autonoma fattispecie o circostanza?
3. La previsione di cui all‟art. 73 co. 5 D.P.R. 309/90: da circostanza attenuante a reato autonomo: le modifiche
normative apportate dal D.L. 23.12.2013 n. 146 (Cass. Sez. III, 25 febbraio 2014, n. 11110; Cass.Sez. IV, 24
aprile 2014, n. 20225).
4. Trattamento sanzionatorio relativo ad ipotesi di reato concernenti “droghe pesanti” e “droghe leggere”: Corte
Cost. 25.02.2014 n. 32 ed effetti della pronuncia sul giudicato.
5. Cessione plurima di stupefacenti e responsabilità del primo cedente: i criteri di addebito della responsabilità ai
sensi dell'art. 586 c.p.
6. Mancata rivelazione dell'identità dello spacciatore e responsabilità del cessionario per favoreggiamento
omissivo.
7. Uso di gruppo di sostanze stupefacenti penalmente non rilevante: il contrasto giurisprudenziale successivo alla
riforma del 2005: Cass., Sez. un., 10 giugno 2013, 25401.
B)
Diritto penale e Cedu, con particolare riguardo al regime, anche successorio, della confisca
1. Il rango della CEDU nelle recenti sentenze della Corte costituzionale.
Particolare importanza anche applicativa assume ormai la ricognizione del rilievo ascritto al principio di legalità in
materia penale dalla Convenzione europea; ricognizione volta a scorgere le implicazioni di diritto interno di quel
principio.
Secondo l‟orientamento prevalente, seguito ripetutamente dalla Corte costituzionale italiana, alla Convenzione
dei Diritti dell‟Uomo di Roma va riconosciuta natura di „parametro costituzionale interposto‟, atteso che “… il
nuovo testo dell’art. 117 Cost. se, da una parte, rende inconfutabile la maggior forza di resistenza delle norme CEDU rispetto a
leggi ordinarie successive, dall’altra attrae le stesse nella sfera di competenza di questa Corte, poiché gli eventuali contrasti non
generano problemi di successione delle leggi nel tempo o valutazioni sulla rispettiva collocazione gerarchica delle norme in contrasto, ma
questioni di legittimità costituzionale…”3.
Nel dettaglio, ad avviso della Corte, le norme CEDU, in quanto norme pattizie, non rientrano nell‟ambito di
operatività dell‟art. 10, comma 1, Cost.
Invero, posto che con l‟espressione “norme del diritto internazionale generalmente riconosciute” la citata previsione
costituzionale si riferisce soltanto alle norme consuetudinarie e dispone l‟adattamento automatico, rispetto alle
stesse, dell‟ordinamento giuridico italiano, le norme pattizie, ancorché generali, contenute in trattati internazionali
bilaterali o multilaterali (come la CEDU), esulano dalla portata normativa del suddetto art. 10 e non possono
essere assunte quali parametri del giudizio di legittimità costituzionale, di per sé sole, ovvero come norme
interposte ex art. 10 Cost.
Neppure si può, secondo la Corte, ricondurre l‟operatività della Convenzione EDU sotto l‟egida dell‟articolo 11
della Costituzione, il quale fa riferimento alle organizzazioni internazionali rivolte allo scopo di „assicurare la pace
e la giustizia fra le Nazioni‟, sancendo che l‟Italia acconsente alle limitazioni di sovranità a tal uopo necessarie e
solo in condizioni di parità con gli altri Stati. Non è invero, questo, il caso della CEDU, essendo l‟articolo 11
Cost. originariamente pensato e costantemente interpretato con esclusivo riferimento all‟Organizzazione delle
Nazioni Unite e poi all‟attuale Unione europea prima che la legge costituzionale 3 del 2001 modificasse l‟art. 117
Cost. inserendo il riferimento ai „vincoli derivanti dall‟ordinamento comunitario‟.
Unico parametro, dunque, sulla base del quale conferire alle norme della CEDU un rango sovraordinato rispetto
alla legge ordinaria con essa in contrasto, è stato ravvisato nell‟art. 117 Cost., nella parte in cui afferma che la
potestà legislativa è esercitata dallo Stato e dalle Regioni nel rispetto degli obblighi internazionali. In particolare,
l‟art. 117 Cost. eleverebbe a parametro interposto la legge di autorizzazione alla ratifica della Convenzione stessa,
vale a dire la l. 4 agosto 1955, n. 848, e attraverso quest‟ultima, le singole norme della CEDU, purchè non
contrastanti con i principi fondamentali della Costituzione italiana.
Sulla base di quest‟ultimo rilievo, si deve osservare che la Corte non ha rinunciato a riproporre la teoria dei c.d.
„controlimiti‟: essa ha chiarito, infatti, che l‟art. 117, comma 1, Cost., il quale, nel testo introdotto dalla l. cost. 18
ottobre 2001, n. 3, condiziona l‟esercizio della potestà legislativa dello Stato e delle regioni al rispetto degli
obblighi internazionali, tra i quali rientrano quelli derivanti dalla Convenzione per la salvaguardia dei Diritti
dell‟uomo e delle libertà fondamentali, se da una parte rende inconfutabile la maggior forza di resistenza delle
norme CEDU rispetto a leggi ordinarie successive, dall‟altra attrae le stesse nella sfera di competenza della Corte
costituzionale, gli eventuali contrasti con le stesse non generando problemi di successione delle leggi nel tempo o
valutazioni sulla rispettiva collocazione gerarchica delle norme in contrasto, ma questioni di legittimità
costituzionale.
Sarà il Giudice delle Leggi, dunque, a dover bilanciare le norme della CEDU di volta in volta invocate con
eventuali norme della Costituzione con esse in contrasto.
In esito alle considerazioni svolte, la Corte ha concluso che il giudice comune non ha il potere di disapplicare la
norma legislativa ordinaria ritenuta in contrasto con una norma CEDU, presentandosi l‟asserita incompatibilità
tra le due come una questione di costituzionalità, per eventuale violazione dell‟art. 117, comma 1, Cost., di
esclusiva competenza della Corte Costituzionale.
Sussiste, peraltro, l‟obbligo del giudice di procedere ad un‟interpretazione “convenzionalmente” orientata o,
3
Corte cost. 24 ottobre 2007, nn. 347 e 348.
comunque, ad un‟interpretazione “bilanciata” tra conformità a Costituzione e conformità a Convenzione,
tentando di armonizzare le rispettive normative.
Quest‟ultimo passaggio merita un approfondimento.
La indicata collocazione ascritta dalla Corte costituzionale alle previsioni della Convenzione comporta che il
giudice nazionale, ancor prima di sollevare questione di legittimità costituzionale per asserito contrasto della
norma nazionale con l‟art. 117, comma 1, Cost. e indirettamente con il principio CEDU, è tenuto a valutare se
non sia consentita un‟interpretazione della disposizione interna coerente con quel principio sovranazionale: si
tratta di un‟applicazione ai rapporti tra CEDU e norme nazionali del canone ermeneutico dell‟interpretazione
costituzionalmente orientata che impone di optare, tra due possibili soluzioni esegetiche, per quella in grado di
non esporre la disposizione al rischio di illegittimità costituzionale.
Ecco, quindi, che i principi della Convenzione, oltre che atteggiarsi a canoni alla stregua dei quali verificare la
tenuta costituzionale delle disposizioni nazionali, divengono parametri di interpretazione delle stesse.
Invece, qualora il contrasto non sia risolvibile in via interpretativa, il Giudice italiano, chiamato ad applicare la
norma, deve rimettere gli atti al Giudice delle leggi.
Alla stregua di questa prima opzione, pertanto, a differenza di quanto accade in caso di riscontrato contrasto del
diritto nazionale con il diritto comunitario, il giudice italiano, allorché il conflitto emerga in relazione alla normativa
CEDU, non può disapplicare la previsione normativa italiana.
Per differente ricostruzione, di recente accolta in taluni arresti della giurisprudenza amministrativa, il tema dei
rapporti tra ordinamento interno e CEDU è destinato ad un profondo ripensamento in conseguenza dell‟entrata
in vigore, in data 1° dicembre 2009, del Trattato di Lisbona firmato nella capitale portoghese il 13 dicembre 2007
dai rappresentanti dei 27 Stati membri, che modifica il Trattato sull‟Unione Europea e il Trattato che istituisce la
Comunità europea.
Tra le più rilevanti novità correlate all‟entrata in vigore del Trattato, viene invero in rilievo l‟adesione dell‟Unione
alla CEDU, con la modifica dell‟art. 6 del Trattato che nella vecchia formulazione conteneva un riferimento
“mediato” alla Carta dei diritti fondamentali, affermando che l‟Unione rispetta i diritti fondamentali quali sono
garantiti dalla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell‟uomo e delle libertà fondamentali, firmata a
Roma il 4 novembre 1950, e quali risultano dalle tradizioni costituzionali comuni degli Stati membri, in quanto
principi del diritto comunitario.
Nella nuova formulazione dell‟art. 6, viceversa, secondo il comma 2 “l’Unione aderisce alla Convenzione europea per la
salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali” e, secondo il comma 3, “i diritti fondamentali, garantiti dalla
Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell”uomo e delle libertà fondamentali e risultanti dalle tradizioni costituzionali
comuni agli Stati membri, fanno parte del diritto dell’Unione in quanto principi generali”.
Come sostenuto da Tar Lazio, Roma, 18 maggio 2010, n. 119844, il riconoscimento dei diritti fondamentali sanciti
dalla CEDU come principi interni al diritto dell‟Unione è suscettibile di produrre immediate conseguenze nel
nostro ordinamento rendendo le norme della Convenzione immediatamente operanti negli ordinamenti nazionali
degli Stati membri dell‟Unione, alla stregua del diritto comunitario. Pertanto, il giudice nazionale sarebbe tenuto a
disapplicare anche la norma interna confliggente con i diritti fondamentali garantiti dalla Convenzione europea
per la salvaguardia dei diritti dell‟uomo e delle libertà fondamentali.
La tesi non ha per vero persuaso chi, in dottrina, ha osservato che il Trattato di Lisbona ha introdotto due
importanti modifiche all‟art. 6 del Trattato Unione europea relativamente alla tutela dei diritti fondamentali.
Il primo paragrafo riguarda la Carta dei diritti fondamentali dell‟Unione europea (c.d. Carta di Nizza), che viene
“comunitarizzata”. Il secondo e terzo paragrafo attengono, invece, alla CEDU, a cui si consente che l‟Unione
europea aderisca.
Invero, al par. 1 si statuisce che “L’Unione riconosce i diritti, le libertà e i principi sanciti nella Carta dei diritti fondamentali
dell’Unione europea del 7 dicembre 2000, adattata il 12 dicembre 2007 a Strasburgo, che ha lo stesso valore giuridico dei trattati.
Le disposizioni della Carta non estendono in alcun modo le competenze dell’Unione definite nei trattati.
4
E ancor prima da Cons. St., sez. IV, 2 marzo 2010, n. 1220, che, nell’affrontare una intricata ipotesi di accessione invertita, con interessanti
risvolti relativi alla giurisdizione in tema di azione di restituzione dell’indebito, fa “applicazione dei principi sulla effettività della tutela
giurisdizionale, desumibili dall’articolo 24 della Costituzione e dagli articoli 6 e 13 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo
(divenuti direttamente applicabili nel sistema nazionale, a seguito della modifica dell’art. 6 del Trattato, disposta dal Trattato di Lisbona,
entrato in vigore il 1° dicembre 2009). Per la pacifica giurisprudenza della Corte di Strasburgo (CEDU, Sez. III, 28-9-2006, Prisyazhnikova
c. Russia, § 23; CEDU, 15-2-2006, Androsov-Russia, § 51; CEDU, 27-12-2005, Iza c. Georgia, § 42; CEDU, Sez. II, 30-11-2005,
Mykhaylenky c. Ucraina, § 51; CEDU, Sez. IV, 15-9-2004, Luntre c. Moldova, § 32), gli artt. 6 e 13 impongono agli Stati di prevedere una
giustizia effettiva e non illusoria in base al principio ‘the domestic remedies must be effective’.
In base ad un principio applicabile già prima dell’entrata in vigore del Trattato di Lisbona, il giudice nazionale deve prevenire la violazione
della Convenzione del 1950 (CEDU, 29-2-2006, Cherginets c. Ucraina, § 25) con la scelta della soluzione che la rispetti (CEDU, 20-122005, Trykhlib c. Ucraina, §§ 38 e 50)”.
I diritti, le libertà e i principi della Carta sono interpretati in conformità delle disposizioni generali del titolo VII della Carta che
disciplinano la sua interpretazione e applicazione e tenendo in debito conto le spiegazioni cui si fa riferimento nella Carta, che
indicano le fonti di tali disposizioni”.
I par. 2 e 3 dispongono che “L’Unione aderisce alla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle
libertà fondamentali. Tale adesione non modifica le competenze dell’Unione definite nei trattati.
I diritti fondamentali, garantiti dalla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali e
risultanti dalle tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri, fanno parte del diritto dell’Unione in quanto principi generali”.
Ebbene, ad avviso di tale dottrina, diverso è il valore giuridico che assumono la Carta di Nizza e la CEDU.
La prima acquisisce “lo stesso valore giuridico dei trattati”, così divenendo diritto comunitario: consegue che una
legge interna che contrasta con una norma della Carta di Nizza ben potrà essere disapplicata dal giudice
nazionale.
Diverso sarebbe, invece, il rilievo della CEDU, avendo il Trattato sull‟Unione Europea, per come modificato dal
Trattato di Lisbona solo consentito l‟adesione dell‟Unione alla CEDU.
Sicché, in disparte la circostanza per cui tale adesione deve ancora avvenire secondo le procedure del protocollo
n. 8 annesso al Trattato, non sarebbe da condividere la tesi dell‟intervenuta equiparazione della CEDU al diritto
comunitario, avendo il Trattato di Lisbona solo riconosciuto che “i diritti fondamentali, garantiti dalla Convenzione
europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali e risultanti dalle tradizioni costituzionali comuni agli
Stati membri, fanno parte del diritto dell’Unione in quanto principi generali”.
Si tratta di una formula non dissimile da quella originaria del Trattato sull‟Unione europea (approvata nel 1992):
“L’Unione rispetta i diritti fondamentali quali sono garantiti dalla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e
delle libertà fondamentali, firmata a Roma il 4 novembre 1950, e quali risultano dalle tradizioni costituzionali comuni degli Stati
membri, in quanto principi generali del diritto comunitario”.
Alla stregua della riportata impostazione, pertanto, il Trattato di Lisbona nulla avrebbe modificato circa la (non)
diretta applicabilità nell‟ordinamento italiano della CEDU, con tutte le conseguenze in termini di interpretazione
conforme e di prevalenza mediante questione di legittimità costituzionale, secondo quanto già riconosciuto dalla
Corte costituzionale5.
Pur suggestiva, la tesi dell‟intervenuta comunitarizzazione della Convenzione EDU non ha avuto modo di
affermarsi nella giurisprudenza della Corte costituzionale, che sembra aver condiviso le esposte osservazioni della
dottrina.
Di recente, infatti, Corte cost., 11 marzo 2011, n. 80, ha preso una posizione netta rispetto agli effetti della
sopravvenuta entrata in vigore del Trattato di Lisbona sulla collocazione della CEDU nel sistema delle fonti.
La Corte ha distinto, in proposito, gli effetti sortiti dal paragrafo 2 dell‟art. 6 da quelli derivanti dal paragrafo 3 del
Trattato sull‟Unione. Rispetto al primo, ha affermato che la relativa statuizione resta, allo stato, ancora
improduttiva di effetti per l‟assorbente ragione che l‟adesione alla CEDU da parte dell‟UE non è ancora
avvenuta, e che l‟identificazione degli effetti stessi dipenderà dalle specifiche modalità con cui l‟adesione stessa
verrà realizzata.
Quanto, invece, al richiamo alla CEDU contenuto nel paragrafo 3 del medesimo art. 6 – secondo cui i diritti
fondamentali garantiti dalla Convenzione «e risultanti dalle tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri fanno parte del
diritto dell’Unione in quanto principi generali» la Corte ha ribadito che si tratta di una forma di protezione preesistente
al Trattato di Lisbona, peraltro espressamente circoscritta alle materie già rientranti nella competenza dell‟Unione
europea.
Così interpretate le novità introdotte dal trattato di Lisbona, la Corte ha confermato il proprio consolidato
orientamento in forza del quale non è consentito nelle materie cui non sia applicabile il diritto dell‟Unione, far
derivare la riferibilità alla CEDU dell‟art. 11 Cost. dalla qualificazione dei diritti fondamentali in essa riconosciuti
come «principi generali» del diritto dell‟Unione. Secondo la Corte, invero, le variazioni apportate al dettato
normativo – e, in particolare, la sostituzione della locuzione «rispetta» (presente nel vecchio testo dell‟art. 6 del
Trattato) con l‟espressione «fanno parte» – non sono tali da intaccare la validità di tale conclusione.
2. L’art. 7 CEDU.
Chiarita la collocazione delle norme Cedu, giova prendere in considerazione l‟art. 7 della Convenzione (“nessuna
pena senza legge”), il cui primo comma, nell‟esaminare il profilo dell‟efficacia nel tempo della legge penale,
sancisce che i cittadini dei Paesi membri della Convenzione non possono essere condannati per un fatto non
previamente previsto come reato dal diritto vigente, ovvero non possono essere assoggettati a pene più gravi di
quelle applicabili al momento della commissione del fatto.
5
CELOTTO, Il Trattato di Lisbona ha reso la CEDU direttamente applicabile nell’ordinamento italiano? (in margine alla sentenza n.
1220/2010 del Consiglio di Stato), in www.neldiritto.it
Come osservato dalla stessa Corte europea, l‟art. 7, co. 1, “non si limita a proibire l‟applicazione retroattiva del
diritto penale a detrimento dell‟imputato. Consacra altresì, in modo più generale, il principio di legalità in ordine
ai delitti e alle pene nonché il principio che impone la non applicazione estensiva o analogica della legge penale a
detrimento dell‟imputato: ne deriva che un illecito deve essere definito dalla legge in modo chiaro” (25 maggio
1993, Kokkinakis c. Grecia, Serie A, n. 260-A, par. 52).
Si tratta di principio che, sulla scorta di una prima lettura, non pare presentare profili di peculiare innovatività,
sembrando piuttosto confermare un dato comune ai patrimoni giuridici degli Stati membri.
Per vero, il principio di legalità-irretroattività delle norme penali, se da un lato era ben ancorato nei sistemi
giuridici degli Stati firmatari già al momento della formulazione della Convenzione, oltre ad essere recepito nelle
più importanti Carte internazionali dei diritti (art. 11 n. 2 della Dichiarazione universale dei diritti dell‟uomo; art.
15 del Patto internazionale sui diritti civili e politici), dall‟altro, si atteggiava e si atteggia tuttora con modalità e
varianti di intensità non prive di rilievo all‟interno dei sistemi di civil e di common law espressi dai Paesi membri del
Consiglio d‟Europa.
Si è pertanto ritenuto che la sua inclusione nella Convenzione europea sia stata dettata dall‟esigenza di assicurare
la positivizzazione di una sorta di minimo comune denominatore di legalità atto ad evitare talune delle più vistose
deviazioni dello Stato di diritto, senza tuttavia offrire un modello legale capace di incidere in positivo sulle
tradizioni penali dei Paesi membri.
In realtà, il principio convenzionale di legalità penale non solo non racchiude in sé il corollario della riserva di
legge, ma nemmeno implica l‟esigenza di una norma scritta: esigenza configgente con l‟essenza stessa del common
law (BERNARDI).
3. Le implicazioni applicative ed innovative della consacrazione del principio di legalità nella
Convenzione europea dei diritti dell’uomo.
Ciò nonostante, non può dirsi che il citato art. 7, co. 1, sia norma di basso profilo e di scarsa incidenza
applicativa.
Le relative implicazioni emergono se si considerano i significativi contenuti che la giurisprudenza CEDU ha
assegnato al principio di legalità enunciato nella richiamata disposizione; contenuti che hanno indotto non pochi
a ritenere smentita nei fatti la tesi secondo cui le norme della Convenzione Europea, in quanto volte
semplicemente a garantire un minimo comune denominatore di tutela, non sarebbero idonee ad offrire ai diritti
dell‟uomo una protezione più avanzata e completa di quella assicurata dalle leggi interne dei singoli Stati
(PALAZZO, BERNARDI).
Nel dettaglio, nella giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell‟uomo, è consentito registrare diverse
tendenze idonee a sortire un effetto di rafforzamento ed “innovazione” della portata garantistica dei principi di
legalità e di irretroattività pure positivizzati nei sistemi nazionali.
La prima attiene all‟estensione dell‟ambito applicativo dei richiamati principi al di là degli illeciti e delle sanzioni
qualificati come “penali” in base al diritto interno; la seconda alla valorizzazione degli aspetti qualitativi della
legalità, non più circoscritti alla determinatezza della norma, ma concernenti anche la accessibilità e prevedibilità
delle fonti legali e della relativa giurisprudenza (BERNARDI).
4. La concezione autonomista di illecito penale e sanzione penale.
Quanto alla prima, giova considerare che la portata applicativa dei principi di legalità e di irretroattività
sfavorevole di cui al citato art. 7, co., 1, CEDU si estende al di là dei reati e delle pene formalmente intesi in base
al diritto interno, estendendosi a tutte le norme e tutte le misure considerate “intrinsecamente penali” in base alla
concezione “autonomista” accolta dalla giurisprudenza CEDU.
Secondo la Corte Europea, infatti, il diritto interno costituisce un punto di partenza, non di arrivo, mentre le
nozioni di pena e di accusa penale ai fini del concreto rispetto della Convenzione derivano dall‟interpretazione
autonomamente fornita dalla stessa Corte, libera di andare oltre le apparenze e valutare se una misura particolare
costituisce in sostanza una pena ai sensi della Convenzione (fra le tante, Escoubet c. Belgio 28.11.1999: “in ogni
caso la nozione di pena contenuta nell‟art. 7 della Convenzione come quella di accusa in materia penale che
figura nell‟art. 6 hanno portata autonoma … la Corte non è vincolata dalle qualificazioni del diritto interno, che
hanno valore relativo”).
Per la Corte, “ricadono in generale nel diritto penale le infrazioni i cui autori si espongono a pene destinate ad esercitare un effetto
dissuasivo e che consistono generalmente in misure privative della libertà e ammende”.
Più in generale, i criteri progressivamente elaborati dalla giurisprudenza della Corte Europea dei Diritti
dell‟Uomo ai fini della individuazione del carattere sostanzialmente penale di una sanzione prevista dal diritto
interno sono riconducibili a quattro grandi categorie:
1) qualificazione prevalente negli Stati contraenti;
2) natura generale della infrazione;
3) natura punitiva e gravità della sanzione diretta a fini preventivi e punitivi;
4) collegamento con una violazione penale (LA FORGIA).
a1) In specie, alla qualificazione “autonoma” dell’illecito penale si perviene facendo applicazione di due parametri:
la natura dell’illecito, ricavabile a sua volta da tutta una serie di sottocriteri, quali: il tipo di
comportamento sanzionato dalla norma, la struttura della norma medesima, la proiezione comparatistica della
violazione (Corte europea, 21 febbraio 1984, Öztürk c. Germania, Serie A n. 73, par. 53; in dottrina, PALIERO), le
eventuali regole procedurali cui l‟illecito risulta assoggettato, attestanti la natura sostanzialmente penale
dell‟illecito in oggetto (Corte europea, 2 settembre 1998, Lauko c. Slovenia, in Raccolta, 1998, par. 53), la particolare
qualifica dei relativi soggetti attivi;
la gravità della sanzione, valutabile teoricamente in relazione alla pena edittale, ma in pratica calcolata
tenendo conto della pena concretamente irrogata. Più precisamente, dall‟analisi della giurisprudenza CEDU
emerge che il coefficiente di gravità della sanzione - dunque la sua eventuale “natura penale” – è dedotta dalle
caratteristiche tipologiche della sanzione stessa, dal suo quantum (Corte europea, 8 giugno 1976, Engel c. Olanda,
cit., par. 82, comma 4), dai suoi scopi preventivi e repressivi (Corte europea, 8 giugno 1976, Engel c. Olanda, cit.,
par. 79, comma 2), dalle relative modalità d‟esecuzione.
Si tratta di criteri (natura dell‟illecito e gravità della sanzione) che possono essere utilizzati solo per estendere le
garanzie previste dall‟art. 7 (e dall‟art. 6) CEDU ad illeciti non qualificati come penali nell‟ordinamento interno,
ma non invece per precludere l‟applicabilità delle suddette garanzie convenzionali a taluni illeciti considerati
penali secondo il diritto interno, ancorché eventualmente a carattere bagatellare e sanzionati con pene poco
afflittive (BERNARDI).
a2) Quanto ai criteri seguiti per attribuire alle sanzioni un “autonomo” carattere penale, viene in primo luogo in
considerazione quello della riconducibilità della sanzione ad una condanna per un “illecito penale” nell‟accezione
risultante dal combinato funzionamento dei due parametri indicati sub a1).
Senonché, la stessa Corte europea valorizza, nel qualificare in via “autonoma” la sanzione come penale “altri
elementi tra cui la natura e lo scopo della misura in questione; la sua qualificazione nel diritto interno; le
procedure correlate alla sua adozione ed esecuzione; la sua gravità.
In tal modo, i giudici di Strasburgo, peraltro in linea con quanto sostenuto da una parte della dottrina anche
italiana (CADOPPI), pervengono talora ad attribuire un autonomo carattere di sanzione penale a talune sanzioni
e misure nazionali sottoposte al loro controllo e non considerabili “pene” in senso stretto.
Sono state così talvolta equiparate ad una pena criminale (e dunque assoggettate al principio di legalitàirretroattività CEDU) talune modalità di esecuzione della pena stessa, così come talune misure di sicurezza, in specie
quando le misure in questione, per i loro contenuti, finalità, livelli di afflittività, nonché per il fatto di essere
irrogate a soggetti imputabili che abbiano commesso uno o più reati, si configurino come vere e proprie “pene
camuffate”.
4.1. Il problema della confisca ex . 44, co. 2, DPR 380/2001: Corte europea, 30 settembre 2007 (il caso
Punta Perotti) e Cass. pen., Sez. III, 17 novembre 2008, n. 42741.
Ciò posto, un delicato problema di compatibilità con la CEDU si è posto con riguardo all‟istituto della c.d.
confisca urbanistica, disciplinato dall‟art. 19, legge n. 47 del 1985 (ora riprodotto dall‟art. 44, co. 2, D.P.R. n. 380
del 2001), secondo cui "la sentenza definitiva del giudice penale che accerta che vi è stata lottizzazione abusiva, dispone la
confisca dei terreni abusivamente lottizzati e delle opere abusivamente costruite. Per effetto della confisca i terreni sono acquisiti di
diritto e gratuitamente al patrimonio del comune nel cui territorio è avvenuta la lottizzazione. La sentenza definitiva è titolo per la
immediata trascrizione nei registri immobiliari".
Per un consolidato orientamento della giurisprudenza nazionale di legittimità la confisca in questione costituisce
sanzione amministrativa, che il giudice penale deve quindi disporre allorché accerti la sussistenza di una lottizzazione
abusiva, in funzione di supplenza rispetto alla pubblica amministrazione.
Prima dell‟evoluzione intervenuta a seguito dell‟intervento dei giudici di Strasburgo, pertanto, la confisca era
irrogata, oltre che con la pronuncia di condanna, anche con la sentenza di proscioglimento, a condizione che
fosse emersa la materialità del reato (ossia la lottizzazione abusiva), con esclusione quindi della sola ipotesi
dell'assoluzione perché il fatto non sussiste (ANGELILLIS, Lottizzazione abusiva: la natura giuridica della confisca
all'esame di Cedu e Corte costituzionale, in Cass. pen., 2008, 11, 4333).
Indirizzo interpretativo, quest‟ultimo, non modificato a seguito dell'entrata in vigore del d.P.R. 6 giugno 2001, n.
380 (recante approvazione del Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia edilizia),
nonostante lo stesso disciplini la confisca per lottizzazione abusiva nell'ambito di una disposizione, come l'art. 44,
la cui rubrica contiene un esplicito riferimento alle “sanzioni penali”. Invero, dopo l'entrata in vigore del d.P.R. 6
giugno 2001, n. 380, l'orientamento volto a qualificare la confisca in questione come sanzione amministrativa è
stato a più riprese ribadito dai giudici di legittimità (Cass. pen., Sez. III, 7 luglio 2004, Lazzara, in C.E.D. Cass., n.
229609; 27 gennaio 2005, Vitone, ivi, n. 230979; 3 marzo 2005, Visconti, ivi, n. 230984; 7 novembre 2006, Cieri,
ivi, n. 236076; 21 novembre 2007, Quattrone, ivi, n. 236076. In dottrina, con toni non poco critici,
ALBAMONTE, Demolizione dell’opera abusiva e poteri del giudice penale, in Cass. pen., 1988, 428, il quale qualifica tale
ipotesi di confisca quale misura di sicurezza patrimoniale ex art. 240 c.p.; LECCESE, Sulla natura giuridica della
confisca disposta in caso di lottizzazione abusiva, in Diritto e Formazione, 2004, n. 2, 220-234, secondo cui l‟analisi dell‟art.
44 t.u.e. potrebbe mettere in crisi l‟orientamento dominante relativo alla natura amministrativa della confisca
prevista in caso di lottizzazione abusiva; tale qualificazione, peraltro, presenterebbe significative incongruenze
rispetto al sistema delle sanzioni amministrative ripristinatorie; MAUGERI, Le moderne sanzioni patrimoniali tra
funzionalità e garantismo, Milano, 2001, 142-143, secondo cui la confisca in esame, al di là delle varie teorie sulla sua
natura giuridica, assume un indubbio carattere afflittivo nei confronti del proprietario del terreno e persegue
finalità di prevenzione generale e speciale, con la conseguente necessità del rispetto del principio di
colpevolezza).
Ebbene, con due distinte decisioni del 30 agosto 2007 e del 20 gennaio 2009, entrambe relative al caso Punta
Perotti, la Corte di Strasburgo ha preso posizione sulla compatibilità con la Convenzione della descritta disciplina
italiana della confisca c.d. urbanistica.
La concreta fattispecie attiene alla vicenda della lottizzazione abusiva di Punta Perotti, che ha formato oggetto di
un lungo procedimento penale, conclusosi con il proscioglimento di tutti gli imputati, per mancanza del
prescritto elemento soggettivo, dalle contravvenzioni in materia urbanistica, edilizia e ambientale, loro contestate.
All'esclusione della responsabilità penale si è accompagnata la confisca di tutti i terreni abusivamente lottizzati e
del complesso immobiliare edificato su alcuni di essi, in applicazione del richiamato disposto dell'art. 19 della
legge n. 47 del 1985.
La Corte europea dei diritti dell'uomo, con pronuncia del 30 agosto 2007 (Intervenuta sulla preliminare fondatezza
del ricorso proposto con riferimento a Cass. pen., 26 marzo 2001, n. 29 (in vicenda “Punta Perotti”), ha ritenuto
che la confisca di c.d. “diritto amministrativo”, irrogata dal Giudice penale ex art. 44, co. 2, DPR 380/2001, sia
una pena, sicché, la giurisdizione italiana, prevedendone l‟irrogabilità al di fuori di ipotesi di affermazione di
responsabilità penale, incorre in infrazione del diritto tutelato dall‟art. 7 (Nulla poena sine lege) della Convenzione il
cui primo comma, nell'esaminare il profilo dell‟efficacia nel tempo della legge penale, sancisce che i cittadini dei
Paesi membri della Convenzione non possono essere condannati per un fatto non previamente previsto come
reato dal diritto vigente, ovvero non possono essere assoggettati a pene più gravi di quelle applicabili al momento
della commissione del fatto.
La granitica giurisprudenza nazionale di legittimità è così entrata nel mirino dalla Corte di Strasburgo che, con la
«décision sur la recevabilité de la requête n. 75909» del 30 agosto 2007, ritenendo la natura penale della confisca di cui
all'art. 44 d.P.R. n. 380 del 2001, di fatto ha posto tale norma in rotta di collisione con l'art. 7 della Convenzione
EDU.
Come osservato, invero, la portata applicativa dei principi di legalità e di irretroattività sfavorevole di cui al citato
art. 7, co., 1, CEDU si estende al di là dei reati e delle pene come formalmente intesi in base al diritto interno,
finendo per riguardare tutte le norme e tutte le misure considerate "intrinsecamente penali" in base alla
concezione "autonomista" accolta dalla giurisprudenza CEDU.
Secondo la Corte Europea, infatti, il diritto interno costituisce un punto di partenza, non di arrivo, mentre le
nozioni di pena e di accusa penale ai fini del concreto rispetto della Convenzione derivano dall‟interpretazione
autonomamente fornita dalla stessa Corte, libera di andare oltre le apparenze e valutare se una misura particolare
costituisce in sostanza una pena ai sensi della Convenzione (Fra le tante, Escoubet c. Belgio 28.11.1999: “in ogni
caso la nozione di pena contenuta nell‟art. 7 della Convenzione come quella di accusa in materia penale che
figura nell‟art. 6 hanno portata autonoma … la Corte non è vincolata dalle qualificazioni del diritto interno, che
hanno valore relativo”).
Nel caso di specie, gli elementi valorizzati dalla Corte al fine di riconoscere la natura penale della confisca
disposta nel caso di lottizzazione abusiva sono stati il suo collegamento con un reato accertato dal giudice penale;
lo scopo della misura, avente finalità repressive e preventive (invece che riparatorie); la sua gravità (insita
nell‟ampia estensione del suo oggetto); la qualificazione giuridica derivante dal d.P.R. 6 giugno 2001, n. 380.
Nel dettaglio, la Corte ha escluso che il criterio del collegamento della misura con il reato (come sopra osservato
destinato a condizionare la verifica circa la natura penale della sanzione) presupponga inevitabilmente la
pronuncia di una sentenza di condanna.
Dirimente invece –sostiene la Corte- la sede e l'oggetto dell'accertamento richiesto per la confisca, compiuto nel
corso di un processo penale e riguardante l'esistenza di un illecito penale; irrilevante, invece, perché la misura
possa e debba qualificarsi “penale” nella prospettiva della CEDU, che il giudizio si debba o meno concludere con
una decisione di condanna (BALSAMO, La speciale confisca contro la lottizzazione abusiva davanti alla corte europea, in
Cass. pen., 2008, 9, 3504).
Così argomentando, la Corte, mossa dall‟intento di evitare ogni elusione delle garanzie previste dall'art. 7 della
Convenzione, ha interpretato in modo estensivo il parametro della riconducibilità della sanzione ad un illecito
penale, destinato ad orientare, in uno ad altri, la verifica relativa alla qualificabilità di una misura come penale
nella prospettiva CEDU.
In conclusione, la mancanza di una pronuncia di condanna non può da sé sola indurre ad escludere che una
sanzione possa e debba qualificarsi come penale tanto più quando, come nel caso di specie, ricorrano ulteriori
elementi sintomatici attinenti allo scopo, alla gravità e alla sopraggiunta qualificazione legislativa della misura.
Sullo sfondo del percorso argomentativo seguito dai giudici di Strasburgo nella pronuncia del 20 gennaio 2009
l‟assunto secondo cui la logica della pena e della punizione, così come la nozione di "guilty" (nella versione
inglese) e la corrispondente nozione di "personne coupable" (nella versione francese), vanno nel senso di una
interpretazione dell'art. 7 della Convenzione dei Diritti dell'Uomo secondo cui "nessuno può essere condannato
per una azione o una omissione che, al momento in cui è stata commessa, non costituiva reato secondo il diritto
interno o internazionale. Parimenti non può essere inflitta una pena più grave di quella applicabile al momento in
cui il reato è stato commesso, (nulla poena sine lege)" e quindi esigono, per punire, un legame di natura
intellettuale (coscienza e volontà), che permetta di rilevare un elemento di responsabilità nella condotta
dell'autore materiale del reato.
Richiamandosi a tale pronuncia della Corte Europea dei Diritti dell‟Uomo ed all‟orientamento ormai consolidato
della nostra Corte Costituzionale, la Corte d‟Appello di Bari, Sez. pen. I, con ordinanza del 9 aprile 2008, ha
ritenuto non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell‟art. 44, co. 2, DPR 6 giugno
2001, n. 380, nella parte in cui, secondo l‟interpretazione costante – almeno sino al 17 novembre 2008 – della
Suprema Corte di legittimità, impone al Giudice penale, in presenza di accertata lottizzazione abusiva, di disporre
la confisca dei terreni e delle opere abusive costruite, anche a prescindere dal giudizio di responsabilità e nei
confronti di persone estranee ai fatti; e ciò per asserito contrasto con gli artt. 3, 25, co. 2, 27, co. 1, Cost.
In tema, di recente, Cass. pen., Sez. III, 17 novembre 2008, n. 42741, che, pure confermando l‟indirizzo propenso a
riconoscere natura amministrativa alla confisca ex art. 44, co. 2, del DPR n. 380/2001, ne riconosce tuttavia il
carattere sanzionatorio, inferendone la necessità che si tenga conto dei principi generali che regolano
l‟applicazione anche delle sanzioni amministrative; principi dettati dalla L. 24 novembre 1981, n. 689.
È indubbio – sostengono quindi i giudici di legittimità- che anche con riferimento alle sanzioni amministrative
esulano dalla materia criteri di responsabilità collettiva, essendo richiesta, quale requisito essenziale di legalità per
la loro applicazione, l‟esistenza di una condotta che risponda ai necessari requisiti soggettivi della coscienza e
volontà dell‟agente e sia caratterizzata quanto meno dall‟elemento psicologico della colpa (art. 2 e 3 della legge
citata). Né la confisca può essere ricondotta ad alcuna delle ipotesi di responsabilità solidale previste dall‟art. 6
della legge.
Anche la sanzione amministrativa, pertanto, non può essere applicata nei confronti di soggetti in buona fede,
che non abbiano commesso alcuna violazione. L‟interpretazione costituzionalmente compatibile dell‟art. 44,
co. 2, DPR n. 380/2001, induce, pertanto, necessariamente ad escludere dall‟ambito di operatività della norma
la possibilità di confiscare beni appartenenti a soggetti estranei alla commissione del reato e dei quali sia stata
accertata la buona fede.
Diversa – soggiungono i giudici di legittimità - è l‟ipotesi in cui non si sia pervenuti ad una pronuncia di
condanna nei confronti degli autori della violazione per l‟intervenuta prescrizione dei reati, in quanto l‟estinzione
del reato non è affatto ostativa alla applicazione della confisca quale sanzione amministrativa, regolata da
disposizioni diverse da quelle proprie del diritto penale.
La giurisprudenza di legittimità pare così optare, almeno per ciò che riguarda i terzi estranei al reato e in buona
fede, per un‟interpretazione conforme alla Convenzione di Strasburgo.
4.1.1. Confisca e prescrizione (Cass. pen., sez. III, 14 maggio 2009, n. 20243).
Sulla stessa linea, più di recente, Cass. pen., sez. III, 14 maggio 2009, n. 20243.
La terza sezione di Cassazione ritorna sul tema della compatibilità con la Convenzione EDU (e, ex art. 117, co. 1,
Cost., con la nostra Carta fondamentale) della disciplina nazionale dettata per la confisca c.d. urbanistica
conseguente all‟accertamento del reato di lottizzazione abusiva, in specie nella parte in cui la stessa consente che
la misura afflittiva sia disposta dal giudice penale nonostante il proscioglimento dell‟imputato per intervenuta
prescrizione del reato suddetto.
Lo fa dichiarando manifestamente infondata la dedotta questione di legittimità costituzionale dell'art. 19, L. 28
febbraio 1985, n. 47 (oggi sostituito dall'art. 44, comma secondo, d.P.R. 6 giugno 2001, n. 380), laddove consente
al giudice di disporre la confisca dei terreni abusivamente lottizzati e delle opere abusivamente costruite in caso
di declaratoria di estinzione del reato per prescrizione: la succitata previsione normativa –sostengono i giudici di
legittimità- non viola il combinato disposto degli artt. 117 Cost. e 7 Convenzione EDU, dal momento che la
confisca, anche se disposta dopo l'estinzione del reato, conserva la sua natura sanzionatoria, sia perché legata al
presupposto di un reato estinto ma storicamente esistente, sia perchè la stessa è applicata da un organo che
esercita la giurisdizione penale.
Evidente pertanto –chiarisce la suprema Corte- la diversità rispetto al caso Sud Fondi s.r.l. e Italia esaminato dalla
Corte Europea dei Diritti dell'Uomo nelle surrichiamate pronunce 30 luglio 2007 e 20 gennaio 2009, nel quale la
sentenza nazionale che aveva disposto la confisca aveva ritenuto che non sussisteva l'elemento soggettivo del
reato, onde l‟illegittimità della sanzione della confisca in base ai principi di diritto illustrati6.
B.1. Regime intertemporale applicabile alle misure di sicurezza e alla confisca, tenendo conto della
esigenza di assicurare il rispetto dell’art. 7 CEDU.
Il problema dei rapporti con la Cedu della disciplina nazionale involgente la confisca si sta ponendo, negli ultimi
arresti pretori, anche con riguardo al regime successorio cui le misure di sicurezza, e la confisca in particolare,
soggiacciono. Giova, pertanto, esaminare, in modo compiuto, il delicato profilo.
1. Misure di sicurezza e principio di irretroattività.
Il principio di irretroattività, pur non espressamente sancito dalla Costituzione per le misure di sicurezza, è
tuttavia implicito nel disposto dell‟art. 25 Cost. La ratio di garanzia sottesa all‟art. 25 Cost. induce, infatti, ad
escludere la possibilità che sia applicata una misura di sicurezza per un fatto che, al momento della commissione,
non costituiva reato.
Il principio di irretroattività incontra, tuttavia, un limite in materia di misure di sicurezza, essendo valido nei soli
termini appena indicati.
E‟ invero possibile applicare una misura di sicurezza ad un reato o a un quasi reato per il quale non era
originariamente prevista alcuna misura o era contemplata una misura diversa.
E‟ quanto previsto dall‟art. 200 c.p., per il quale “le misure di sicurezza sono regolate dalla legge in vigore al tempo della loro
esecuzione...Se la legge del tempo in cui deve eseguirsi la misura di sicurezza è diversa, si applica la legge in vigore al tempo della sua
esecuzione‟‟.
L‟applicazione retroattiva delle misure di sicurezza è giustificata dalla connessione delle stesse con la pericolosità
sociale: esse non puniscono un reato commesso, ma incidono su uno stato di pericolosità attuale.
Questa interpretazione (MANTOVANI; ROMANO-GRASSO-PADOVANI; NUVOLONE), condivisa dalla
giurisprudenza di legittimità e di merito (Cass. pen., n. 39173, 39172 e 21566 del 2008), è contestata da chi in
dottrina sostiene la validità “a tutto campo‟‟ del principio di irretroattività in materia di misure di sicurezza.
Rileggendo in senso ampliativo l‟art. 2 c.p., alcuni autori ritengono che i principi enucleati con riguardo al
fenomeno della successione di leggi penali coprirebbero non solo la previsione di reati, ma anche il tipo e la
quantità di sanzioni da applicare in sede giurisdizionale, ivi comprese le misura di sicurezza, sicché ne sarebbe
preclusa ogni applicazione retroattiva (PAGLIARO; FIANDACA-MUSCO).
2. Confisca e disciplina successoria.
Particolarmente problematica si presenta la ricostruzione del regime intertemporale delle disposizioni riguardanti
la confisca.
Le difficoltà derivano, tra l‟altro, dalla eterogeneità delle “confische”, non riconducibili ad una unitaria nozione,
ma al contrario integranti, come è stato osservato, un sistema multiforme o “proteiforme”7:a a seconda della
Giova considerare che il legislatore nazionale ha provato di recente ad occuparsi delle implicazioni conseguenti alla
declaratoria di incompatibilità con la CEDU delle confische disposte dai giudici penali italiani. Lo ha fatto con l‟art. 4, co. 4ter, d.l. 1 luglio 2009, convertito in legge 3 agosto 2009, n. 102, a tenore del quale “Fermi restando gli effetti della revoca da parte del
giudice dell'esecuzione della confisca dei terreni abusivamente lottizzati e delle opere abusivamente costruite ai sensi dell'articolo 44, comma 2, del
testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia edilizia, di cui al decreto del Presidente della Repubblica 6 giugno 2001, n.
380, ai fini della restituzione all'avente diritto e della liquidazione delle somme reciprocamente dovute in conseguenza della decisione della Corte
europea dei diritti dell'uomo che abbia accertato il contrasto della misura della confisca con la Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo
e delle libertà fondamentali, firmata a Roma il 4 novembre 1950, resa esecutiva dalla legge 4 agosto 1955, n. 848, e dei relativi Protocolli
addizionali, la stima degli immobili avviene comunque in base alla destinazione urbanistica attuale e senza tenere conto del valore delle opere
abusivamente costruite. Ove sugli immobili confiscati siano stati realizzati interventi di riparazione straordinaria, miglioramenti o addizioni, se ne
tiene conto al valore in essere all'atto della restituzione all'avente diritto. Ai medesimi fini si tiene conto delle spese compiute per la demolizione
delle opere abusivamente realizzate e per il ripristino dello stato dei luoghi”.
6
7
Cass., s.u., 27 marzo 2008, n. 26654.
natura e della qualificazione giuridica assegnate alle differenti ipotesi di confisca (di volta in volta riconducibili tra
le misure di sicurezza piuttosto che alla pena in senso stretto, ovvero tra le misure di carattere general-preventivo
o tra i meccanismi di carattere compensativo o retributivo), differente potrebbe essere il regime successorio
applicabile.
2.1. Confisca c.d. allargata ex art. 12-sexies della legge n. 356/92 e disciplina successoria (Cass., sez. VI,
16 giugno 2009, n. 25096).
La questione è stata di recente esaminata da Cass., sez. VI, 16 giugno 2009, n. 25096, con specifico riferimento
alla c.d. confisca allargata prevista dall‟art. 12-sexies della legge n. 356/92, il cui ambito di operatività è stato
esteso, per effetto delle modifiche operate dalla legge n. 296/06 (legge finanziaria 2007), ai reati contro la
Pubblica Amministrazione, a far data dall‟1 gennaio 2007.
Giova considerare che la confisca c.d. “allargata” prevista dall‟art. 12-sexies della l. n. 356/92 è una fattispecie a
carattere obbligatorio originariamente prevista quale misura conseguente ad una condanna per determinati delitti
di stampo mafioso o legati al traffico illecito di sostanze stupefacenti.
La misura ablatoria è stata successivamente estesa ad ulteriori ipotesi delittuose (art. 24 L. n. 45/2001) connotate
da finalità di terrorismo o di eversione dell‟ordine costituzionale e poi, ulteriormente, con le modifiche operate
dalla legge n. 296/06 (legge finanziaria 2007), anche ai reati contro la Pubblica Amministrazione.
I presupposti per l‟applicazione della confisca in esame sono: la condanna per uno dei reati indicati nella norma;
l‟individuazione di tutti i beni rientranti nella disponibilità del soggetto, anche per interposta persona; la
sproporzione tra l‟entità del patrimonio individuato in capo al soggetto ed i redditi dichiarati o comunque
derivanti da attività lecite, sempre che il soggetto-condannato non riesca a giustificare la provenienza di tali entità
patrimoniali.
I caratteri della confisca c.d. “allargata” sono stati ulteriormente tratteggiati da Cass., s.u., 19 gennaio 2004, n.
920, secondo cui il legislatore non ha collegato la provenienza dei beni o delle utilità al singolo e specifico
episodio criminoso per cui è intervenuta condanna, ma ha correlato la confisca alla pronuncia di condanna di un
soggetto che “comunque” dispone di entità patrimoniali sproporzionate rispetto ai suoi redditi e di cui non riesce
a giustificarne la provenienza. Si è così sostenuto che la confisca in esame costituisce una “misura di sicurezza
atipica” con funzione preventiva e dissuasiva, e cioè una misura che aggredisce entità patrimoniali, nella ricorrenza
di predeterminati presupposti, sulla base di una “presunzione relativa d’ingiustificata locupletazione”.
Da tale funzione special-preventiva discende che non è necessario stabilire e dimostrare positivamente un nesso
di derivazione tra i beni confiscabili e il reato per il quale si è proceduto o si procede, né tra tali beni e l‟attività
criminosa (in genere) condotta dal soggetto interessato.
La stessa misura di sicurezza non è esclusa dal fatto che i beni siano stati acquisiti in epoca anteriore o successiva
al reato per cui si è proceduto o che il loro valore superi il provento del delitto.
Infatti, in armonia con i principi che regolano le misure di sicurezza, rileva la pericolosità della detenzione
“attuale” di quei beni, indipendentemente dalla loro provenienza o derivazione, qualora siano posti stabilmente
in relazione con la figura del soggetto condannato per determinati delitti.
La giurisprudenza successiva, confermando la qualificazione giuridica in termini di misura di sicurezza, ha posto
delle ulteriori puntualizzazioni circa i presupposti della misura e gli oneri probatori e di allegazione gravanti
sull‟accusa. Si è così ritenuto che grava sull‟accusa l‟onere della prova circa la sproporzione del valore economico
dei beni da confiscare rispetto alla capacità reddituale lecita del soggetto, ma una volta fornita tale prova sussiste
una presunzione relativa di illecita accumulazione patrimoniale che può essere superata solo da specifiche e
verificate allegazioni dell‟interessato (Cass., 5 giugno 2008, n. 25728 Cicala); grava sull‟accusa anche l‟onere della
ricostruzione storica dei redditi e delle attività economiche del condannato al momento delle singola acquisizioni
(Cass., 13 maggio 2008, n. 21357, Esposito); altresì, incombe sull‟accusa l‟onere di dimostrare l‟effettiva
appartenenza al responsabile di beni formalmente intestati a terzi (Cass., 10 gennaio 2008, n. 3990); la parte
privata è gravata di un più blando onere di c.d. “prima allegazione” circa lo svolgimento di attività lecite, nel qual
caso, introdotta tale allegazione, sarà la parte pubblica a dover controdedurre e provare l‟infondatezza delle
allegazioni della difesa (Cass., 10 febbraio 2006, n. 9520).
Una recente pronuncia della Corte di Cassazione (Cass. pen., sez. II, 6 luglio 2012, n. 30950) ha interpretato
estensivamente la norma de qua, ritenendo compreso nell'obbligo della confisca previsto dall'art. 12 sexies della
legge n. 356/92 il bene che, pur essendo nella disponibilità dell'imputato, risulti formalmente di proprietà di
persona a lui legata da rapporti personali, la cui incapacità di giustificare la provenienza del denaro impiegato
nell'acquisto ne rivela l'intestazione fittizia; I giudici di legittimità hanno precisato che la presunzione di illecita
accumulazione patrimoniale, prevista dalla speciale ipotesi di confisca in commento, opera anche in riferimento
ai beni intestati al coniuge ove non risulti la riconducibilità dell'acquisto ai redditi derivanti dall'attività di lavoro
svolta da quest'ultimo.
L‟inquadramento della confisca “allargata” tra le misure di sicurezza patrimoniali, così tratteggiato, sembra allora
presupporre, più che una valutazione di pericolosità “del bene”, una valutazione e una presunzione (relativa) di
pericolosità della “relazione tra il bene ed il soggetto”. Vale a dire, la disponibilità di un‟entità patrimoniale
sproporzionata rispetto alla capacità reddituale lecita da parte di quel soggetto condannato per quei delitti
costituisce un binomio che fa presumere una capacità criminale e una pericolosità sociale, di natura mista
oggettiva e soggettiva, legittimante l‟ablazione del surplus reddituale non giustificabile.
Ciò posto, nel caso di specie il Tribunale aveva ritenuto che tale misura, avendo natura sostanzialmente
sanzionatoria, non potesse essere applicata ad una fattispecie di corruzione commessa prima dell‟1 gennaio 2007,
in ossequio al principio di irretroattività della legge penale di cui all‟art. 2 c.p.
La Suprema Corte, annullando il provvedimento del Tribunale, ha viceversa ritenuto che lo strumento ablatorio
de quo svolge essenzialmente una funzione special-preventiva ed ha preminente carattere di misura di sicurezza;
pertanto, ai sensi degli art. 199 e 200 c.p., nonchè dell‟art. 25, co. 3 Cost., ha concluso per l‟applicazione della
misura anche ai reati commessi prima della sua introduzione legislativa.
3. Applicazione retroattiva delle misure di sicurezza e CEDU.
Per concludere occorre esaminare il tema della compatibilità costituzionale dell‟applicazione retroattiva delle
misure di sicurezza di cui all‟art. 200 c.p. alla luce delle fonti di origine internazionale e, in particolare, delle
disposizioni della Convenzione Europea dei Diritti dell‟Uomo.
Il problema che si pone è che, se è vero che l‟art. 25, comma 3 Cost. permette l‟applicazione retroattiva delle
misure di sicurezza, tacendo invero sul punto, occorre tuttavia considerare che l‟art. 117 Cost., come interpretato
dalla recente giurisprudenza costituzionale (le notissime sentenze della Corte Costituzionale nn. 348 e 349/2007),
impone il rispetto della compatibilità delle disposizioni interne, e della loro interpretazione, con i vincoli che
derivano dagli obblighi internazionali, tra cui le norme “interposte” dettate dalla Convenzione EDU, e ciò a pena
di illegittimità della norma interna per violazione dell‟art. 117 Cost.
3.1. L’estensione della confisca per equivalente ai reati tributari opera retroattivamente? (Corte cost., 1
aprile 2009, n. 97)
La questione è stata di recente esaminata da Corte Cost., 1 aprile 2009, n. 97, intervenuta a definire il giudizio di
legittimità costituzionale degli artt. 200, 322-ter c.p. e 1, co. 143, legge 24 dicembre 2007, n. 244, sospettate di
illegittimità costituzionale nella parte in cui prevedono “la confisca obbligatoria […] di beni di cui il reo abbia la
disponibilità per un valore corrispondente a quello del profitto, per i reati tributari commessi precedentemente
alla loro entrata in vigore”.
Nel dettaglio, per effetto del richiamato art. 1, co. 143, legge 24 dicembre 2007, n. 244, la confisca per
equivalente è divenuta applicabile ai reati tributari.
Nell‟impostazione del giudice rimettente, la stessa confisca, in quanto misura di sicurezza di natura patrimoniale,
si applica anche ai reati commessi anteriormente all‟entrata in vigore della citata previsione; tanto in
considerazione del fatto che il principio dell'irretroattività della legge penale opera esclusivamente nei riguardi
delle norme penali incriminatrici e non anche rispetto alle misure di sicurezza, come la confisca per equivalente.
Orbene, ad avviso dello stesso giudice a quo, l'applicazione retroattiva ai reati tributari della suddetta confisca per
equivalente si pone in contrasto con l'art. 7 della Convenzione europea dei diritti dell'uomo e, quindi, con l'art.
117, co. 1, Cost., che esige il rispetto, da parte del legislatore, dei vincoli derivanti dagli obblighi internazionali;
invero, detta confisca – quale forma di prelievo pubblico a compensazione di prelievi illeciti – costituisce, alla
stregua della giurisprudenza della Corte di Cassazione, una misura di sicurezza di carattere “eminentemente
sanzionatorio” e, pertanto, sostanzialmente, una “pena”, anche “secondo la nozione che ne fornisce la Corte
europea dei diritti dell'uomo”.
Detto altrimenti, il giudice a quo, muovendo dal presupposto interpretativo che la confisca in questione,
dovendosi formalmente qualificare come misura di sicurezza e non come pena, deve essere retroattivamente
applicata anche a reati commessi nel tempo in cui non era legislativamente prevista ovvero risultava diversamente
disciplinata quanto a tipo, qualità e durata, assume il contrasto dell‟art. 1, comma 143, legge 24 dicembre 2007, n.
244, con l'art. 7 della Convenzione europea dei diritti dell'uomo, assunto quale parametro interposto, il quale, nel
prevedere che non possa essere inflitta una pena più grave di quella applicabile al momento in cui il reato è
commesso, vieta, secondo l'interpretazione della Corte europea dei diritti dell'uomo, l'applicazione retroattiva
anche della confisca “per equivalente”, che, quale misura di sicurezza di carattere eminentemente sanzionatorio,
deve invece essere sostanzialmente assimilata a una pena.
La questione è dichiarata manifestamente infondata dalla Corte che reputa erronea l‟interpretazione fornita dal
rimettente dell'art. 1, co. 143, della legge n. 244 del 2007: ad avviso della Consulta, invero, la richiamata
previsione estende la disciplina della confisca “per equivalente” di cui all'art. 322-ter c. p. ai reati tributari di cui
agli artt. 2, 3, 4, 5, 8, 10-bis, 10-ter e 11 del d.lgs. n. 74 del 2000, ma non retroattivamente.
Invero, puntualizza la Corte, la mancanza di pericolosità dei beni che sono oggetto della confisca per equivalente,
unitamente all'assenza di un “rapporto di pertinenzialità” (inteso come nesso diretto, attuale e strumentale) tra il
reato e detti beni, conferiscono all'indicata confisca una connotazione prevalentemente afflittiva, attribuendole,
così, una natura «eminentemente sanzionatoria», che impedisce l'applicabilità a tale misura patrimoniale del
principio generale dell'art. 200 c.p., secondo cui le misure di sicurezza sono regolate dalla legge in vigore al tempo
della loro applicazione, e possono essere, quindi, retroattive.
Nel dettaglio, a tale conclusione la Consulta perviene sulla base della duplice considerazione che il secondo
comma dell'art. 25 Cost. vieta l'applicazione retroattiva di una sanzione penale, come deve qualificarsi la confisca
per equivalente, e che la giurisprudenza della Corte Europea dei diritti dell'uomo ha ritenuto in contrasto con i
principi sanciti dall'art. 7 della Convenzione l'applicazione retroattiva di una confisca di beni riconducibile
proprio ad un'ipotesi di confisca per equivalente
Si rinvia alle successive Lezioni per l’esame del delicato tema relativo alla desumibilità dall’art. 7 CEDU
del principio di c.d. retroattività favorevole. Problema su cui è intervenuta l’importante sentenza della
Corte EDU resa nel 2009 nel caso Scoppola c. Italia nonché la recente pronuncia della Sezioni Unite
24.10.13 n. 18821 (dep. 07.05.2014). Se ne darà atto, anche passando in rassegna le numerose
implicazioni di diritto interno derivanti dal riconoscimento ad opera dei giudici di Strasburgo del
principio di retroattività favorevole quale principio desumibile dalla Convenzione EDU.