Alla ricerca del senso e del significato della musica

annuncio pubblicitario
Pagina 21
Alla ricerca del senso
e del significato della musica
Filippo Rutto *
Lucy in the Sky with Diamonds non è solo il titolo di una famosa canzone dei
Beatles, ma è anche l’origine del nome, Lucy appunto, dato all’esemplare meglio conservato di Australopithecus Afarensis, quello rinvenuto il 30 novembre 1974 ad Afar, in Etiopia, da Yves Coppens, Donald Johanson, Maurice
Taïeb e Tom Gray. La storia racconta che quella sera i ricercatori festeggiarono
al campo ascoltando la radio che trasmetteva l’inconfondibile brano dei Beatles. E così per loro fu un gioco ribattezzare quella creatura “Lucy”. Un ritrovamento incredibile, perché per la prima volta si era riusciti a recuperare uno
scheletro ottimamente conservato che comprendeva, tra gli altri, l’osso pelvico,
il femore e la tibia, fondamentali per poter dimostrare che già 3,2 milioni di anni fa quell’ominide era bipede. Tale posizione aveva permesso a quell’essere, e
agli altri componenti della sua specie, di adattarsi meglio all’ambiente dove viveva, di vedere da lontano i predatori e di trasportare, nelle mani ormai libere,
più cibo per nutrirsi. Charles Darwin, infatti, nel suo libro L’origine delle specie
sosteneva che non la forza, ma la capacità di adattarsi meglio all’ambiente aveva permesso alle diverse specie, nella storia dell’evoluzione, di sopravvivere.
Tuttavia circa 2,5 milioni di anni fa accadde qualcosa che avrebbe sconvolto
per sempre la storia del mondo animale: un ominide incominciò a costruirsi
degli strumenti per svolgere più comodamente le normali attività quotidiane.
Questo significò non più adattarsi semplicemente all’ambiente, ma incominciare a modificarlo. Questo ominide fu il primo a portare il prefisso che caratterizza ancora oggi la nostra specie: venne infatti chiamato dagli antropologi Homo Habilis. Era dotato di una capacità cranica di circa 600-750 cm3 e utilizzava i suoi strumenti per difendersi e per cacciare. Nonostante questi manufatti
fossero ancora “primitivi”, gli antropologi e i paleontologi sostengono che questo ominide prefigurasse la necessità futura degli oggetti che produceva; era in
* Laureato in Scienze e Tecniche psicologiche per l’individuo, i servizi e la comunità.
CONTRIBUTI
9:54
anno 4 - n. 1 - aprile 2010
12-04-2010
Psicologi a confronto
03 Rutto [21-31]
03 Rutto [21-31]
anno 4 - n. 1 - aprile 2010
9:54
Pagina 22
Filippo Rutto
22
Psicologi a confronto
12-04-2010
grado di scegliere i materiali più adatti per costruirli ed era in possesso dell’abilità manuale, e soprattutto cognitiva, per realizzarli secondo necessità.
Queste nuove capacità gli permisero di sopravvivere e prosperare in ambienti ostili e pericolosi.
Che cosa era cambiato dunque rispetto ai suoi antenati australopitechi? Dallo studio dei dati forniti dai crani giunti fino a noi, sembra che i cervelli degli
Habilis fossero più grandi di quelli degli australopitechi. Questo però non è
sufficiente, in quanto la sola dimensione cerebrale non fornisce informazioni
utili sull’organizzazione cerebrale. L’unica fonte ritenuta attendibile, sebbene
scientificamente debole, resta quindi l’impronta sull’interno del cranio, che potrebbe riflettere la forma specifica del cervello. Dagli studi condotti da Philip
Tobias (1987) si evidenzia che nei crani di Homo Habilis sono presenti le impronte dei solchi che demarcano l’area di Broca nel cervello moderno. Fino a
non molto tempo fa, come sottolinea Mithen (2007), si pensava che l’area di
Broca fosse deputata esclusivamente all’elaborazione linguistica; successivamente ci si rese conto che la stessa area era fondamentale anche per diversi
aspetti dell’attività motoria. Negli ultimi anni si è sviluppato un rinnovato interesse per questa zona grazie alla scoperta di Rizzolatti e Arbib (1998) dei “neuroni specchio”. Questi neuroni non solo sono alla base del comportamento imitativo degli esseri umani, ma rivestono un ruolo importante anche nell’acquisizione del linguaggio e nella percezione delle emozioni altrui. “Rappresentazione dell’azione: imitare le azioni per comprenderle”, così i due studiosi descrivono l’attività dei neuroni specchio. Pertanto, la testimonianza di un’area di
Broca evolutasi nel tempo suggerisce un aumento dei neuroni specchio e, quindi, del loro impiego. Al di là dello sviluppo della tecnologia olduvaiana,1 si può
ipotizzare che gli Habilis abbiano sviluppato le prime forme di comunicazione
orale e che nel corso dei secoli le abbiano trasmesse geneticamente ai figli.
Un’altra affascinante teoria riguardante la nascita delle prime forme di comunicazione è stata proposta nel 1993 da Leslie Aiello e Robin Dunbar. Proprio
come si osserva oggi nelle comunità di scimmie antropomorfe, anche la vita sociale degli antichi ominidi doveva essere caratterizzata da una rete complessa e
mutevole di amicizie e alleanze tra i singoli individui e i piccoli gruppi. I due antropologi partirono dall’osservazione che oggigiorno i primati non umani esprimono i loro legami reciproci attraverso il rituale del grooming: maggiore è la
quantità di tempo impiegata nella cerimonia della mutua pulizia, più forte risulta essere la relazione. Con l’ampliarsi dei gruppi, ogni soggetto dovrà investire
1
L’olduvaiano è una definizione antropologica che indica un complesso industriale di produzione di strumenti di pietra risalente al Paleolitico inferiore.
Pagina 23
Alla ricerca del senso e del significato della musica
molto più tempo nel grooming, per gestire, mantenere o consolidare l’accresciuto numero di relazioni sociali. Il grooming sembra avere questo potere anche se,
ancora oggi, non è chiaro come questo avvenga e quali siano i meccanismi che lo
rendono una pratica così fondamentale. Alcune recenti ipotesi sostengono che
questa pratica stimoli nel cervello il rilascio di endorfine (sostanze chimiche di
natura organica, dotate di proprietà analgesiche e fisiologiche simili a quelle della morfina e dell’oppio), le quali apportano una sensazione di benessere. Il ruolo sociale del grooming è alla base dell’ipotesi che i due antropologi andranno
successivamente a sviluppare: il grooming vocale. Dalle loro ricerche emerse infatti che all’epoca degli Habilis e dell’Homo Rudolfensis (2,8 milioni di anni fa)
le dimensioni delle comunità ominidi erano cresciute a tal punto che il grooming
non poteva più essere l’unico mezzo di espressione dei legami sociali tra i membri del gruppo. Il tempo che si sarebbe dovuto dedicare a questa pratica sociale
avrebbe lasciato troppo poco spazio alle altre attività vitali, come ad esempio la
ricerca del cibo. Aiello e Dunbar avanzano quindi l’ipotesi che il “linguaggio” si
sia evoluto come una nuova forma di grooming, questa volta vocale, definito dagli stessi autori “una dimostrazione di mutuo interesse e di vincolo reciproco simultaneamente condivisibile con più di un individuo” (Aiello e Dunbar, 1993).
Se questa ipotesi fosse vera, dimostrerebbe un duplice vantaggio del linguaggio:
un individuo, immaginiamo il capobranco, avrebbe potuto dedicare attenzioni a
più di un compagno nello stesso momento in cui si occupava di altre attività, come ad esempio la raccolta del cibo.
Dall’osservazione dei babbuini gelada, Aiello e Dunbar individuano una
forma rudimentale di grooming vocale, la produzione di versi che hanno uno
specifico ritmo e una specifica melodia. La loro ipotesi è che tra i nostri antenati ominidi vi sia stata una graduale transizione da un sistema di legami basati appunto sul grooming, quindi sul contatto fisico, a uno basato sulle vocalizzazioni. Il linguaggio, sostengono, si è evoluto quasi come una “chiacchiera”:
“Un modo per esprimere relazioni sociali e per parlarne con gli altri.” In fondo, è la stessa funzione che il linguaggio svolge ancora oggi.
Secondo l’antropologo Mithen (2007), l’ipotesi della chiacchiera, per quanto
“affascinante”, presenta però alcuni problemi: il primo riguarda la difficoltà dei
primi ominidi a esprimere i legami sociali, o addirittura a parlare di relazione
con altri, utilizzando unicamente richiami simili a quelli delle scimmie antropomorfe. Anche se questi ultimi fossero aumentati, gradualmente, in numero e varietà acustica, come avrebbe potuto, il destinatario del nuovo grooming, comprendere che si stava trattando di un nuovo segno di deferenza sociale? Secondo l’antropologo Chris Knight (2000) “le parole non costano nulla e sono inaffidabili, e lo stesso si potrebbe ipotizzare per i primi richiami olistici e manipo-
23
CONTRIBUTI
9:54
anno 4 - n. 1 - aprile 2010
12-04-2010
Psicologi a confronto
03 Rutto [21-31]
03 Rutto [21-31]
Psicologi a confronto
anno 4 - n. 1 - aprile 2010
24
12-04-2010
9:54
Pagina 24
Filippo Rutto
latori prodotti dai primi ominidi”. Di conseguenza, conclude Mithen, il grooming vocale non avrebbe potuto costituire da solo un valido sostituto delle lunghe
e piacevoli “sedute” di grooming. L’ipotesi di un grooming vocale si potrebbe
tuttavia porre per la nascita delle prime forme di produzione sonora, quella che
oggi noi Sapiens chiamiamo musica. Anche Mithen concorda sul fatto che le argomentazioni di Aiello e Dunbar, rilette in questa prospettiva, sono decisamente più “persuasive”. È ormai risaputo che il canto favorisce la creazione di legami sociali: pensiamo alle persone che si abbracciano e si commuovono ascoltando certe canzoni che ormai sono entrate a far parte della nostra cultura e probabilmente generano le stesse sensazioni di piacere indotte dal grooming fisico. Gli
stadi iniziali del grooming vocale, studiati da Aiello e Dunbar, infatti, si avvicinano molto di più a una forma di canto che non alla lingua parlata, in quando si
concentrano più sugli aspetti tonali e melodici, emozionali, che non, come già
accennato, sugli aspetti informativi che il linguaggio parlato comporta.
La questione della nascita del linguaggio e della musica resta complessa. Sebbene i primi esemplari di ominidi chiamati Homo possedessero già un certo grado di bipedismo e il loro cervello fosse diventato decisamente più grande, rendendoli capaci di costruire le prime forme rudimentali di strumenti, essi restavano tuttavia, come conclude Mithen (2007), “molto più simili alle scimmie antropomorfe nella loro anatomia e nel loro comportamento”. Mithen sostiene che le
loro espressioni vocali e gestuali erano ancora di natura olistica, nel senso che
erano concepite come messaggi completi e non come parole da combinare per
costruire frasi dotate di significato, ma nello stesso tempo venivano usate per
condizionare il comportamento degli individui o per comunicare informazioni
sull’ambiente circostante. Una probabile differenza tra i sistemi di comunicazione che ancora oggi possiamo osservare nelle scimmie e quelli dei primi Homo potrebbe essere l’ampliamento della gamma di gesti e di vocalizzazioni di carattere
musicale. Mithen propone di fare riferimento al sistema di comunicazione dei
primi ominidi con il termine hmmmm: esso era olistico, multimodale, manipolativo e musicale. Il suo utilizzo avrebbe portato alla costruzione di un sistema di
comunicazione molto più complesso di quello che si osserva oggi nei primati, ma
ancora molto lontano da quello che noi siamo abituati a chiamare linguaggio.
Come abbiamo detto, l’attività musicale collettiva modella i legami sociali e
l’identità di un gruppo. Tuttavia potremmo chiederci da un lato perché abbiamo questa sensazione, dettata esclusivamente dal “senso comune” che siamo
soliti attribuire alla musica, e dall’altro perché è stato così importante per i nostri antenati.
Secondo Mithen, man mano che il genere Homo andava evolvendosi si venivano a costituire gruppi sociali sempre più ampi e complessi, all’interno dei
Pagina 25
Alla ricerca del senso e del significato della musica
quali doveva esserci una forte competizione per le risorse alimentari e per l’accoppiamento. Per poter prosperare, la cooperazione con gli altri era tanto essenziale quanto lo era il successo nella competizione. I nostri antenati ominidi
si trovarono spesso di fronte a problemi simili al dilemma del prigioniero:2 la
vita sociale doveva essere dura e gravosa e le possibilità di essere raggirati dovevano rappresentare una costante. Oltre a questi aspetti dobbiamo ricordare
che gli ominidi non avevano a disposizione né linguaggio né simboli materiali
che li potessero aiutare a comprendere chi fosse degno di fiducia e chi no. È
probabile quindi che “gli ominidi esaminassero attentamente e scrupolosamente le possibili intenzioni, credenze e sentimenti degli altri membri del gruppo prima di decidere se cooperare con loro. Ma in situazioni diverse la semplice scelta di fidarsi sarebbe stata più efficace, specialmente nel caso in cui fosse
stata necessaria una decisione rapida” (ibid., pp. 255 sg.). L’ipotesi è che la conseguenza di questo atteggiamento sia stata che prosperavano gli individui che
mettevano da parte la propria identità individuale per modellarne una di gruppo attraverso l’uso di vocalizzazioni e movenze hmmmm collettive, ad alto contenuto emozionale e quindi musicale.
Potremmo quindi sostenere che fare musica in gruppo sarebbe servito a favorire il comportamento cooperativo rendendo nota la personale disponibilità
a collaborare con gli altri, con il gruppo. Questa disponibilità avrebbe permesso la collaborazione e la condivisione di quelli che Mithen chiama “stati emozionali comuni”, che conducevano allo “sgretolamento dei confini fino ad arrivare ad una ‘noità’, un collegamento” (ibid., p. 256).
Con l’evoluzione dell’Homo Erectus e della sua locomozione bipede permanente, le espressioni hmmmm probabilmente acquisirono ulteriori proprietà
musicali, mentre nel contempo furono spinte a evolvere dalle pressioni selettive emergenti dalla necessità di trasmettere informazioni sul mondo naturale.
2
Il dilemma del prigioniero è un gioco a informazione completa proposto negli anni cinquanta da Albert Tucker come problema di teoria dei giochi. Il dilemma può essere descritto come segue. Due criminali vengono accusati con prove indiziarie di aver compiuto una rapina. Gli
investigatori li arrestano entrambi per il reato di favoreggiamento e li chiudono in due celle diverse impedendo loro di comunicare. A ognuno di loro vengono date due scelte: confessare l’accaduto, oppure non confessare. Viene inoltre spiegato loro che: se solo uno dei due confessa, chi
ha confessato evita la pena; l’altro viene però condannato a sette anni di carcere; se entrambi confessano, vengono entrambi condannati a sei anni; se nessuno dei due confessa, entrambi vengono condannati a un anno. Il dilemma del prigioniero ha causato interesse come esempio di gioco
in cui l’assioma di razionalità sembra apparentemente fallire, prescrivendo un’azione che procura più danno a entrambi i contendenti della scelta alternativa (non confessa, non confessa). Gli
studiosi di teoria dei giochi fanno notare che chi la pensa in questo modo probabilmente immagina un gioco diverso, in cui la vittoria viene valutata sulla somma degli anni di carcere.
25
CONTRIBUTI
9:54
anno 4 - n. 1 - aprile 2010
12-04-2010
Psicologi a confronto
03 Rutto [21-31]
03 Rutto [21-31]
Psicologi a confronto
anno 4 - n. 1 - aprile 2010
26
12-04-2010
9:54
Pagina 26
Filippo Rutto
Quando i primi umani cominciarono a raggiungere le zone settentrionali dell’Europa, a praticare la caccia grossa e ad avere a che fare con i drastici cambiamenti climatici del Pleistocene, il bisogno di cooperazione divenne sempre
più fondamentale per la sopravvivenza. Di conseguenza, è ipotizzabile che le
pratiche musicali collettive tipo hmmmm abbiano cominciato a permeare le società umane primitive. Un luogo dove è possibile pensare che tutto ciò sia accaduto è Atapuerca, nel Nord della Spagna. Su una collina calcarea, punteggiata di caverne, crepacci e tunnel, è stato scoperto, infatti, un sito archeologico che ha permesso grandi passi avanti negli studi antropologici. In quella che
è stata battezzata “Sima de los Huesos”, la grotta delle ossa, sono stati ritrovati oltre 2000 reperti umani risalenti circa a 350.000 anni fa. Tale zona era stata
colonizzata da quello che gli studiosi chiameranno l’Homo Heidelbergensis, antenato prossimo di quelle che saranno le due ultime specie di esseri umani comparse sulla faccia della terra: gli uomini di Neanderthal e gli uomini Sapiens.
Alcuni antropologi sostengono che il grande cervello dell’Homo Neanderthalensis consentisse l’utilizzo del linguaggio. Mithen invita a essere cauti
con affermazioni di questo genere. Egli ritiene infatti che i Neanderthal che
abitarono l’Europa e le regioni del Sud-est asiatico avessero cervelli grandi come quelli degli uomini moderni, ma si comportavano in maniera differente.
Possedevano un cervello così voluminoso per usufruire di un sofisticato sistema di comunicazione che aveva nello stesso tempo un carattere olistico, manipolativo, multimodale, musicale e mimetico: l’hmmmm. Probabilmente si trattava dello stesso sistema impiegato dai loro antenati; per usare l’espressione antropologica, “parenti evolutivi” come l’Homo Ergaster e l’Homo Heidelbergensis, che però i Neanderthal riuscirono a portare all’estremo per la necessità di
cacciare prede pericolose in ambienti ostili. “Essi fecero uso di un sistema
avanzato di hmmmm che si dimostrò di notevole successo: consentì loro di sopravvivere 250.000 anni attraverso i drastici cambiamenti ambientali che si verificarono in Europa nel corso dell’era glaciale e di raggiungere uno sviluppo
culturale senza precedenti. Erano Neanderthal ‘canori’” (ibid., p. 259). Sebbene le loro canzoni fossero, con tutta probabilità, prive di parole, costituivano
dei veicoli per trasmettere anche emozioni.
L’uomo di Neanderthal si è evoluto in Europa circa 300.000 anni fa ed è sopravvissuto fino a poco meno di 30.000 anni fa. Prove genetiche indicano che
la nostra specie, l’Homo Sapiens, condivise un antenato comune con i Neanderthal circa 500.000 anni fa, per poi evolversi in Africa in maniera indipendente (i Sapiens si diffusero in Europa circa 40.000 anni fa e potrebbero aver
avuto un ruolo fondamentale nell’estinzione dei Neanderthal). Il “candidato”
più probabile è l’Homo Heidelbergensis, anche se due antropologi di Cambrid-
Pagina 27
Alla ricerca del senso e del significato della musica
ge, Robert Foley e Martha Lahr (1997), offrono un’alternativa all’evoluzione
del Neanderthal. Suggeriscono che, probabilmente, l’antenato comune è una
specie evolutasi in Africa dall’Homo Heidelbergensis, da loro chiamata Homo
Helmei. Questo perché la tecnologia litica3 dei Neanderthal e dei primi Sapiens
è sorprendentemente simile; probabilmente era stata ideata da un antenato comune, in quanto è assai improbabile una invenzione indipendente. Dato che
questo tipo di tecnologia non appare prima di 300.000 anni fa, questa può essere considerata la data più antica possibile per la separazione delle due linee di
discendenza. Secondo l’ipotesi di questi due antropologi una popolazione di
Homo Helmei migrò in Europa per poi evolversi in Neanderthal, una seconda
restò in Africa evolvendosi negli esseri umani moderni.
In realtà il motivo della scomparsa dei Neanderthal non lo sapremo mai. Le
prove sono “indiziarie”. La difficoltà è dovuta soprattutto al fatto che la scomparsa della popolazione non è spiegabile sulla base delle sole caratteristiche fisiche degli individui. Si trattava di una specie lungamente adattata all’ambiente colonizzato, con un volume cranico pari o superiore ai Sapiens attuali, e di
cultura tecnica almeno inizialmente sovrapponibile nelle due popolazioni. Certamente la lunga coesistenza di uomo di Neanderthal e uomo moderno mette
in luce problemi irrisolti che hanno acceso un dibattito molto vivace e stimolante. Nel 2005 Jason Shogren, economista dell’Università del Wyoming, pubblica un articolo in cui avanza un’ipotesi legata a una teoria sulla scomparsa
dell’uomo di Neanderthal. Lo studioso sostiene che l’Homo Neanderthalensis si sia dovuto scontrare con la particolare cultura dell’Homo Sapiens: questa
cultura, infatti, si basava su tecniche avanzate di commercio, che consentivano
di avere più tempo libero rispetto a una cultura basata sulla caccia. Il tempo libero ottenuto avrebbe permesso lo sviluppo di specializzazioni non strettamente legate alla sussistenza, come costruire utensili sempre più complessi o
dedicarsi all’arte. La complessità e la versatilità di una tale cultura avrebbero
avuto esito fatale per la più “tradizionale” cultura dei Neanderthal.
Stephen Kuhn e Mary Stimer (2006), dell’Università dell’Arizona, propongono, documentandola, la tesi secondo cui la principale causa di estinzione fu la
mancata suddivisione del lavoro tra i sessi. I più organizzati Sapiens poterono, più
efficientemente, competere affidando alle donne compiti stanziali e meno gravosi, e ai maschi i ruoli di cacciatori e approvvigionatori di materiali. La prole, pro3
In archeologia preistorica, l’espressione “industria litica” (dal greco antico lithos, “pietra”)
indica l’insieme degli oggetti di pietra realizzati dall’uomo, a partire da ciottoli intenzionalmente modificati. Nella pratica questa espressione indica gli utensili finiti, le armi e il complesso dei
sottoprodotti legati alla loro fabbricazione.
27
CONTRIBUTI
9:54
anno 4 - n. 1 - aprile 2010
12-04-2010
Psicologi a confronto
03 Rutto [21-31]
03 Rutto [21-31]
Psicologi a confronto
anno 4 - n. 1 - aprile 2010
28
12-04-2010
9:54
Pagina 28
Filippo Rutto
tetta e anch’essa stanziale, avrebbe avuto più possibilità di sopravvivenza. I
Neanderthal invece, come scrive Mithen, “non mostrano segni di differenziazione sociale, di ruoli economici specializzati, di luoghi dove si riunivano grandi
quantità di persone, di relazioni commerciali o di scambio di beni a lunga distanza. È probabile che i Neanderthal avessero una perfetta conoscenza delle storie
di vita, delle relazioni sociali e delle attività quotidiane di tutti i membri del loro
gruppo e che raramente venissero in contatto con estranei”. Questa chiusura verso gli estranei avvalora la tesi che i Neanderthal utilizzassero un sistema avanzato
di hmmmm, piuttosto che un linguaggio. Con una forma evoluta di questo sistema di comunicazione, infatti, ci sarebbe stato un “bisogno molto limitato, se non
nessuno, di nuove espressioni, che solo un linguaggio composizionale avrebbe
potuto produrre. In altre parole, non avevano da dire nulla che non fosse stato
già detto molte volte in precedenza o che non potesse essere comunicato modificando l’intonazione, il ritmo, la melodia e i gesti di accompagnamento di
un’espressione hmmmm universalmente compresa” (Mithen, 2007, p. 267).
Altre due prove a sostegno di questa forma espressiva potenziata, in alternativa a un linguaggio strutturato, sono l’assenza di manufatti simbolici, ovvero oggetti plasmati in modo da avere un significato arbitrario rispetto alla loro
forma, e la considerevole stabilità culturale. Dai resti che sono giunti fino a noi
si può ben constatare che gli strumenti che costruivano e lo stile di vita che conducevano 250.000 anni fa non erano sostanzialmente differenti da quelli diffusi alla loro estinzione, circa 30.000 anni fa. Secondo Mithen, il linguaggio è una
spinta al cambiamento: con esso possiamo scambiare idee in modo tale che le
nostre tecnologie migliorino e vengano introdotti nuovi stili di vita (tesi sostenuta anche da Stephen Kuhn e Mary Stimer, sopra citati). In realtà molti psicologi, filosofi e linguisti sostengono che “il linguaggio non è solo un mezzo per
lo scambio di idee, ma anche per lo stesso pensiero complesso” (ibid., p. 270).
Va sottolineato che affermare che la cultura dei Neanderthal fosse stabile non
significa minimizzare il notevole grado di diversità culturale esistente, né negare la complessità del loro comportamento.
Il simbolismo invece sembra essere ben presente nella cultura dei Sapiens
già dalla loro comparsa in Europa circa 40.000 anni fa. Questa popolazione era
di alta statura, aveva la carnagione più chiara, era dedita alla caccia grossa, utilizzava una sofisticata tecnologia della pietra e usava pellicce per coprirsi. Anche i Neanderthal utilizzavano lo stesso materiale per ripararsi dal freddo; la
differenza è che i Sapiens svilupparono metodi, come ad esempio il cucito, per
produrre manufatti più efficaci. Si potrebbe avanzare l’ipotesi che i Sapiens
possedessero una capacità di far fronte al cambiamento e di rinnovarsi che i
Neanderthal invece non riuscirono a raggiungere. A differenza delle altre spe-
Pagina 29
Alla ricerca del senso e del significato della musica
cie di Homo, inoltre, l’uomo moderno si caratterizzerà per i suoi modelli culturali connessi strettamente alla società a cui appartiene.
Grazie al pensiero simbolico nacquero le prime forme di arte rupestre. Immagini di animali, scene di caccia o di vita quotidiana venivano dipinte su pareti all’interno di grotte, spesso divenute luoghi di culto e non più rifugi. I Sapiens, a differenza dei Neanderthal, infatti, incominciarono a costruire le prime
forme di tende e capanne. Essendo nomadi, ciò permetteva loro di non dover
più cercare un riparo nella natura, ma di poterselo costruire da soli. Cominciava così l’ultimo capitolo di quella che si potrebbe chiamare l’emancipazione
dell’uomo dall’ambiente.
Oltre all’arte, l’uomo incomincia a sviluppare quella che oggi noi chiamiamo
musica. Compaiono i primi strumenti a percussione e a fiato. Un interessantissimo ritrovamento (1995) è stato il flauto di Divje Babe, in Slovenia: un frammento di femore di orso delle caverne perforato regolarmente. Altri reperti simili sono stati trovati nella zona di Ulm in Germania. Il suono di questo flauto
è stato riprodotto ed è ascoltabile da tutti sul sito internet http://oggiscienza.wordpress.com/2009/06/25/la-musica-alleta-della-pietra/.
Nel corso di più di 35.000 anni la musica si è evoluta, gli strumenti sono
cambiati, sono nati numerosissimi generi musicali. Ogni popolo ha sviluppato
una propria sensibilità alla musica; lasciandosi ispirare da ciò che lo circonda,
ha creato un numero incredibile di melodie e suoni che vanno ad arricchire
ogni giorno quello che è il bagaglio culturale dell’uomo: suoni e melodie anche
molto diverse, che ancora oggi vengono chiamate musiche etniche. Se ascoltassimo dei canti africani e della musica proveniente dal Nord Europa, a un primo
ascolto ci sembrerebbero sicuramente molto diversi. Ma cosa accomuna tutte
queste musiche? Qual è il minimo comune denominatore che da quel hmmmm
ha portato a scrivere sinfonie e concerti che ancora oggi noi ascoltiamo e dai
quali ci lasciamo emozionare? Una risposta possibile potrebbe essere che, alla
base di tutto il processo creativo musicale, ci sia un senso innato: il senso del ritmo. Studi recenti condotti da Istwan Winkler (Dell’Aglio, 2009), illustre esponente dell’Accademia delle Scienze Ungherese, in collaborazione con l’Università di Amsterdam, sembrano avvalorare questa tesi. Prima ancora della nascita il bambino è in grado di percepire un suono: il battito del cuore della madre
o, più scientificamente “la pulsazione dell’aorta addominale della mamma”. Secondo Cristina Cano, docente di Semiotica della musica all’Università di Bologna, “la percezione del ritmo è un aspetto fondamentale, non solo per la comunicazione, ma per la stessa vita umana” (ibid., p. 6)
Se, come scrisse l’etnomusicologo John Blacking (1973), “il fondamento di
molti, se non tutti, i processi essenziali della musica va ricercato nel corpo umano e nei sistemi di interazione sociale dei corpi umani”, è possibile che gli ef-
29
CONTRIBUTI
9:54
anno 4 - n. 1 - aprile 2010
12-04-2010
Psicologi a confronto
03 Rutto [21-31]
03 Rutto [21-31]
anno 4 - n. 1 - aprile 2010
9:54
Pagina 30
Filippo Rutto
30
Psicologi a confronto
12-04-2010
fetti del bipedismo, sostiene Mithen, sul modo in cui ci muoviamo e utilizziamo i nostri corpi, unitamente al suo impatto sul cervello e sull’apparato vocale
umano, abbiano dato origine alla più grande rivoluzione musicale mai verificatasi nel corso della storia. È quindi ipotizzabile che già Homo Ergaster e i membri del suo gruppo potessero saltare, correre e camminare, in maniera molto simile a come facciamo noi oggi. A queste nuove capacità vanno però aggiunti il
linguaggio del corpo e la danza. Entrambi, secondo me, più riconducibili al
senso del ritmo che a quello musicale.
Una domanda che forse resta ancora irrisolta è: come mai la musica continua
a permeare la nostra società e quindi la nostra vita e la nostra cultura? Come mai
milioni di persone nel mondo, mentre si spostano a piedi, in macchina, in bicicletta, continuano ad ascoltare musica piuttosto che ascoltare i suoni dell’ambiente? Un’ipotesi che provo ad avanzare è che la musica possa offrire una forma simbolica del concetto di presenza. Mi spiego: negli umani Sapiens sopravvivono, come costrutti procedurali, alcune disposizioni inconsapevoli che si attiverebbero nei contesti relazionali. È quella che Soro (2005, p. 21) definisce presenza che si sviluppa nel context. La musica può assolvere in questo senso tutte
le fasi del processo di costruzione della nostra presenza relazionale all’interno
del membership\leadership context.4 Come già scritto precedentemente, alla musica si possono infatti attribuire funzioni di holding (contenimento, accoglienza),
per il suo legame con le emozioni che proviamo; di involvement (coinvolgimento), per la sua natura plurale che ha origine nei primi canti hmmm; di groupship,
per il potere che ha di unire le persone, e infine di sense-making, per il potere di
lasciare dentro di noi un significato, sia legato al testo, sia legato a eventi che
quella particolare canzone ha accompagnato, di suscitare in noi emozioni.
La musica, quindi, ci accompagna, ci tiene compagnia quando siamo soli, ci
offre, se siamo in grado di suonare, la possibilità di crearla. Oggi la musica esce
da piccole apparecchiature elettroniche che si perdono nelle nostre tasche. La
musica c’è, ma non la vediamo, la sentiamo solamente, ma è in grado di suscitare in noi grandi emozioni. Allora forse aveva ragione Bertolucci quando affermava “assenza più acuta presenza”.
Questa ipotesi mi appare affascinante e ritengo che sarebbe importante poterla verificare con una ricerca più approfondita sulla radice dei suoni come
possibile, arcaica, fonte di aggregazione; una ricerca che mi porterebbe a cercare, come direbbe Blandino, “un futuro nel passato” (2006).
4
È in corso di costruzione, con una convenzione tra la Facoltà di Psicologia e alcuni Enti lirici e musicali, un laboratorio dell’Intonazione e dell’Ascolto, che intende sviluppare nelle istituzioni queste potenzialità umane insite nel ritmo e nell’intonazione musicale comune.
03 Rutto [21-31]
12-04-2010
9:54
Pagina 31
Alla ricerca del senso e del significato della musica
31
Non era in grado di spiegare questa cosa
Semplicemente, erano sempre andati lì.
Mmmm Mmmm Mmmm Mmmm
Mmmm Mmmm Mmmm Mmmm
CONTRIBUTI
In conclusione, sicuramente influenzato dai suoni complessi dei Neanderthal canori, come sosterrebbe Levitin, cito l’ultima parte della canzone dei
Crash Test Dummies, MMMM MMMM MMMM MMMM:
Sitografia
http://oggiscienza.wordpress.com/2009/06/25/la-musica-alleta-della-pietra/.
Psicologi a confronto
Aiello L. e Dunbar R., Neocortex Size, Group Size and the Evolution of Language, “Current Anthropology”, vol. 34 (1993).
Blacking J., Come è musicale l’uomo?, Ricordi-Unicopli, Milano 1973.
Blandino G., Un futuro nel passato, Antigone Edizioni, Torino 2006.
Dell’Aglio L., Il senso del ritmo? È innato, “Avvenire”, p. 6 (26 aprile 2009).
Foley R. e Lahr M. M., Mode 3 Technologies and the Evolution of Modern Humans, “Cambridge Archaeological Journal” (1997).
Gehlen A., L’uomo: la sua natura e il suo posto nel mondo, Feltrinelli, Milano 1983.
– Prospettive antropologiche, Il Mulino, Bologna 1987.
Knight C., The Evolutionary Human Symbolic Revolution: a Darwinian Account, Cambridge University Press, New York 2000.
Kuhn S. e Stimer M., What’s a Mother to Do? The Division of Labor among Neanderthals and Modern
Humans in Eurasia, “Current Antropology”, vol. 47, N. 6 (2006).
Leroi-Gourhan A., Il gesto e la parola, Einaudi, Torino 1977
Levitin D. J., Il mondo in sei canzoni, Codice, Genova 2008.
Mercier P., Storia dell’antropologia, Il Mulino, Bologna 1996.
Mithen S., Il canto degli antenati, Codice, Genova 2007.
Perconti P., L’autocoscienza: cosa è, come funziona, a cosa serve, Laterza, Bari 2008.
Pizzo Russo L., So quel che senti: neuroni specchio, arte ed empatia, ETS, Pisa 2009.
Ramachandran V. S., Che cosa sappiamo della mente, Mondadori, Milano 2004.
Rizzolatti G. e Arbib M., Language within Our Grasp, “Trends in Neurosciences”, vol. 21, pp. 18899 (1998).
– e Sinigaglia C., So quel che fai, Cortina, Milano 2006.
Shogren J., How Trade Saved Humanity from Biological Exclusion: an Economic Theory of Neanderthal Extinction, “Journal of Economic Behaviour and Organization” (2005).
Soro G., Accendere gli animi, Guerini & Associati, Milano 2005.
– e Acquadro Maran D., Competenze relazionali nelle organizzazioni, Cortina, Milano 2008.
Tobias P., The Brain of Homo Habilis: a New Level of Organization in Cerebral Evolution, “Journal
of Human Evolution”, vol. 16, pp. 741-61 (1987).
anno 4 - n. 1 - aprile 2010
Riferimenti bibliografici
Scarica