Vestimi bene e poi uccidimi. Uno studio su Ofelia

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Vincenzo
Carboni
aprile 29, 2016
Due giovani autrici si misurano con un classico in Vestimi bene e poi
uccidimi. Uno studio su Ofelia, interrogando la compagna di Amleto tra
la scrittura di Shakespeare e le sensazioni dell’oggi.
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A quattrocento anni dalla morte, il Bardo torna (continua) a farsi sentire
stasera, all’interno di Shakespeare Re-loaded Festival, tramite il lavoro
drammaturgico di Federica D’Angelo e Ksenija Martinovic. Entrambe sono
in piedi, in una scena spoglia, guarnita di fiori e vestiti; entrambe sono
Ofelia, ovvero – nell’etimo greco – colei che assiste l’altro.
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Fanno il verso come in una cantilena alle raccomandazioni dei genitori
(non toccarti, siediti composta, non guardare un ragazzo fisso negli occhi),
facendo parodia degli avvertimenti del fratello Laerte nell’opera
shakespeariana («Attenta, Ofelia! Tieniti sempre nella retroguardia della
passione»), poi di suo padre Polonio («Pensa di te che sei una
bamboccia»). In scena si spogliano e si rivestono, per indossare abiti
diversi, uno per ogni ricordo che lega Ofelia ad Amleto o alla di lei madre;
sembrano allo stesso tempo far prove di donna, pur essendo in parte
ancora adolescenti, con il pubblico a fare da specchio, oppure a spiare
lente trasformazioni: seni che finalmente sono inequivocabili, fianchi che si
arrotondano.
La scrittura intesse con abilità – quasi fosse un lavoro da arcolaio –
frammenti del testo classico, con una scrittura che fa eco all’oggi. Ofelia è
una donna assediata dagli obblighi verso il padre, ma anche dalla
trasformazione del proprio corpo sotto il ritmo incalzante del desiderio.
«Sappiamo ciò che siamo, ma non quello che potremmo essere» esclama
lei nella pazzia, stretta tra l’edipo paterno (ciò che si è, ossia una
bamboccia), e la possibilità di esplorare la propria femminilità, offerta da
Amleto. La brillantezza del fallo di lui è ammirata; lei risponde con gli
umori vaginali che invitano alla deflorazione, in cui dolore e piacere si
fanno una sola cosa.
Ofelia scopre che amare non esclude farsi del male. L’unione è
simbolizzata sulla scena da pistole ad acqua: una delle attrici si fa Amleto
e bagna il corpo di Ofelia, alludendo agli umori dell’amplesso, all’acqua
che più tardi la sommergerà, ma anche a una sproporzione in lui tra
l’organo su cui si poggia il desiderio maschile (il pene eretto è una pistola
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giocattolo) e la ancora acerba fallicità di uomo, a sua volta edipicamente
prigioniero del materno, e sempre sospesa tra «essere e non essere», tra
l’affrontare l’assassino del padre,o indulgere ancora un po’ all’onirismo
sognante di un adolescente. La verità è che non c’è mai un momento
giusto per diventare uomini o donne, ma giusto dei momenti, che passano,
si afferrano, godendo di un’ebbrezza, come quella data dal profumo di
certi fiori.
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La diffusa sensualità di Ofelia apprezza la lavanda, il muschio, il narciso,
alludendo al proprio destino di fiore che non si trasformerà in frutto, ma
piuttosto si farà ornamento luttuoso della tomba paterna, e della propria:
«C’è sul ruscello, un salice…». Ofelia è colei che assiste, ma non esiste.
Quale sarà l’abito della morte? La messa in scena è carnale, il testo è
carnale, i corpi dei personaggi – velati dal simbolismo drammaturgico –
teneramente balbettanti in una dolcissima preghiera d’amore. Il
sentimento con cui si esce da sorprendenti operazioni come questa è una
sorta di immemore straniamento, che lascia confusi e allo stesso tempo
catturati dai significanti shakespeariani (e di chissà chi altro) che le autrici
liberano nella sala. Certo, il critico troppo avvisato metterebbe il segno su
una recitazione acerba, sullo sfruttamento caotico dello spazio, sul
simbolismo troppo scoperto di alcuni oggetti di scena, ma la pièce di
queste giovani autrici ha un respiro di verità che salta al cuore, o alle
spalle degli adolescenti smarriti che siamo stati. Il resto – come dice
Amleto – è silenzio.
Lo spettacolo è andato in scena
Teatro Argot Studio
Via Natale del Grande, 27 Roma
26 – 27 aprile 2016, ore 21
Vestimi bene e poi uccidimi. Uno studio su Ofelia
di e con Federica D’Angelo e Ksenija Martinovic
drammaturgia Federica D’Angelo
regia Federica D’Angelo e Ksenija Martinovic
supervisione artistica Marcela Serli
progetto vincitore del Premio Lidia Petroni Residenza Idra
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