Edoardo Buroni Parallelismi letterari e musicali nel canone di Arrigo

Edoardo Buroni
Parallelismi letterari e musicali nel canone di Arrigo Boito
1. Poesia e musica nella concezione di Arrigo Boito
Fin da giovane Arrigo Boito aveva manifestato un forte interesse per le tradizioni e le
novità artistico-culturali europee, favorito in questo dalle origini della madre, polacca,
dall’apertura che aveva contraddistinto gli insegnamenti di Alberto Mazzucato, suo maestro
di composizione al conservatorio1, dal viaggio a Parigi vinto con una borsa ministeriale
appena conclusi gli studi. Ma i più vasti interessi di Boito si radicavano anche nella sua
passione per la letteratura e nell’ambiente artistico con cui era in contatto: il padre era
pittore, e il fratello maggiore divenne un noto architetto, cimentandosi con successo anche
in esperienze letterarie.
Tutto ciò rende ragione dell’ampiezza degli orizzonti culturali boitiani, i quali spinsero l’autore a inserirsi attivamente, almeno in un primo momento, nella temperie di
rinnovamento artistico promosso dalla Scapigliatura milanese. Uno degli obiettivi di questo movimento, per lo più guidato da letterati, era appunto quello di aprirsi a quanto
avveniva oltralpe e di superare la concezione classica della separazione tra le arti; naturale
che il genere su cui più si concentrarono le attenzioni scapigliate fosse quello sincretico
del melodramma. In questo fervore intellettuale e critico fiorirono numerosi periodici,
promotori di idee, dibattiti e polemiche2.
1
Boito dovette assorbire ben presto gli interessi del suo didatta: cfr. Piero Nardi, Vita di Arrigo Boito,
Milano, Mondadori, 1942, p. 43; e ancora nel 1878 Boito scrisse a Giulio Ricordi: «Alberto Mazzucato, filosofo
dell’arte, fu, co’ suoi lavori di estetica, il più grande, il più completo teorico dei nostri tempi. [...] Fra i più sacri
beni che mi concesse il destino pongo la sovrana fortuna d’aver avuto per maestro nell’arte mia Alberto Mazzucato. [...] Fin da quel tempo egli andava ripetendo a noi tutti quella grande verità che poscia nella prefazione
all’Atlante della musica antica espresse con queste parole: “Io credo fermamente che l’arte nostra divina non possa
continuare il suo cammino per quella via che percorse gloriosa sino a oggi qualora la giovine generazione non si
ritempri nella coltura generale e in particolare nello studio della storia dell’arte. Solo conoscendo ciò che l’arte
fu, i nuovi ingegni riusciranno a conoscere ciò che l’arte avvenire può e dev’essere”» (Arrigo Boito [B], Lettere
raccolte e annotate da Raffaello De Rensis, Milano, Lampi di stampa, 2004, pp. 29-31).
2
Si vedano ad esempio Giuseppe Farinelli [a c. di], La pubblicistica nel periodo della Scapigliatura. Regesto
per soggetti dei giornali e delle riviste esistenti a Milano e relativi al primo ventennio dello Stato unitario, 1860-1880,
Milano, Istituto Propaganda Libraria, 1984; Marina Loffi Randolin, La fase “eroica” della Scapigliatura. Lettura
del “Figaro” all’interno della pubblicistica milanese coeva, in AA.VV., Novità e tradizione nel secondo Ottocento italiano, a c. di Francesco Mattesini, Milano, Vita e Pensiero, 1974, pp. 338-69; Giulio Carnazzi, Da Rovani
ai perduti. Giornalismo e critica nella Scapigliatura, Milano, LED, 1992.
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Proprio Arrigo Boito ebbe in tutto questo un ruolo di primo piano, palesando in più
di un’occasione la sua concezione artistica e i suoi ideali culturali3; ma ciò non avvenne
in modo sistematico: la maggior parte delle testimonianze sono infatti rintracciabili nella
prima fase della sua carriera, quando l’autore collaborò con una certa continuità a diversi
periodici; in un secondo tempo è invece più agevole basarsi su documenti privati. Né si
possono tralasciare le composizioni, ricche, soprattutto agli inizi, di riferimenti e di proposizioni esplicite di poetica e di estetica.
Com’è naturale, non tutte le idee boitiane restarono immutate col trascorrere degli anni: col tempo il giovanile ed esuberante “scapigliato romantico in ira”4 si spostò sempre più
su posizioni conservatrici tanto sotto il profilo artistico quanto sotto quello politico5. Ma
d’altro canto emergono alcune costanti che hanno accompagnato l’intera attività boitiana.
In Italia non sono stati molti gli esempi del connubio in un’unica persona tanto di
un poeta quanto di un musicista, in particolare per quanto riguarda il melodramma, e
Arrigo Boito ne rappresenta il caso più noto ed emblematico6; ma non bisogna dimenticare
che se la sua formazione scolastica è stata di stampo musicale, l’attività artistica si è invece
sviluppata molto di più sul versante poetico-letterario. All’interno di un simile contesto è
significativo come non sussistessero dubbi nella mente dell’autore rispetto alla supremazia
della musica su ogni altra arte, poesia compresa:
la musica è regina su tutte le arti; più che regina, Dea. Essa disdegna le forme visibili, disdegna i palpabili contorni, disdegna ogni materia, ogni spazio, ogni peso; essa si affranca dalla parola
umana, dal pensiero incatenato alla logica, alla grammatica, all’idioma; rifiuta ogni convenzione,
ogni formula vana; può passarsene della creazione e della storia, i suoi tipi non sono nel reale, essa
piglia sua essenza dalla più pura idea del Bello e del Sublime, dalle più eteree, dalle più astratte, dalle
più ideali affezioni dell’anima7.
3
Sull’argomento e su ciò che segue cfr. almeno il ricco e dettagliato Emanuele D’Angelo, Arrigo Boito
drammaturgo per musica. Idee, visioni, forma e battaglie, Venezia, Marsilio, 2010, pp. 3-89, e Riccardo Viagrande,
Arrigo Boito. “Un caduto chèrubo”, poeta e musicista, Palermo, L’Epos, 2008, pp. 47-73. Sempre a proposito della
concezione sincretica boitiana rispetto al melodramma mi permetto di rimandare a Edoardo Buroni, La “parola
scenica” di Arrigo Boito. Note sulle didascalie di “Nerone”, in Ilaria Bonomi e Luca Clerici [a c. di], Parole &
immagini: tra arte e comunicazione, Torino, aAccademia University Press, 2012, pp. 213-76.
4
Cfr. B, Opere letterarie, a c. di Angela Ida Villa, Milano, Edizioni di Otto/Novecento, 2001, p. 463.
Sulla poetica boitiana in particolare di questi anni si vedano almeno Luigi Derla, Estetica e poesia di Arrigo
Boito, “Otto/Novecento”, 3-4, 1994, pp. 5-38; Tommaso Pomilio, Le asimmetrie della sfera, in AA.VV., Arrigo
Boito. Atti del Convegno internazionale di studi dedicato al centocinquantesimo della nascita di Arrigo Boito, a c. di
Giovanni Morelli, Firenze, Olschki, 1994, pp. 61-78; A.I. Villa, Arrigo Boito teorico e poeta scapigliato, “Otto/
Novecento”, 2, 1994, pp. 135-95.
5
Meno di un quarto di secolo dopo, i bollenti spiriti del giovanile ardore svaporeranno, e anzi subentrerà
una certa diffidenza nei confronti delle nuove generazioni: «[bisogna] obbligare i giovani studenti, che appena nati
balbettano astruserie, obbligarli a lavarsi in quell’onda [di Palestrina] a lavarsi in quella purezza. I compositori
muterebbero animo i cantanti se ne gioverebbero anche. – Compositori e cantanti, ecco il marcio degli studj
odierni ed è a questo che convien porre rimedio. [...] I giovani studenti di Composizione sono pieni di presunzione
e d’ignoranza. Bisogna istruirli colle grandi musiche dei gran secoli italiani. Quando saranno istruiti saranno
meno boriosi e vedranno l’arte più nettamente» (Mario Medici e Marcello Conati [a c. di], Carteggio VerdiBoito, Parma, Istituto di Studi Verdiani, 1978, p. 127 s). E a proposito dei tragici moti milanesi del 1898 Boito
scrisse a Camille Bellaigue di essere dalla parte della forza pubblica: cfr. Giampiero Tintori, Il carteggio completo
Boito-Bellaigue del Museo Teatrale alla Scala, in Arrigo Boito musicista e letterato, Milano, Nuove Edizioni, 1986,
pp. 151-79, alla p. 157 s; forse Boito era amico di Bava Beccaris, come si intuisce dalla terza lettera riportata in
B, Opere letterarie, cit., p. 384.
6
Per un quadro critico complessivo sulla figura e sulla produzione di Boito mi permetto di rimandare a
Edoardo Buroni, La critica su Arrigo Boito, letterato e musicista. Proposta per una rassegna bibliografica, “Studi
sul Settecento e l’Ottocento”, 2011, pp. 113-55.
7
B, Tutti gli scritti, a c. di Piero Nardi, Milano, Mondadori, 1942, p. 1170; né Boito cambiò idea in
età matura, dato che nei primi anni del ’900 scrisse ancora, parlando di Ferdinand-Vincent Bruntière: «si è
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L’arte dei suoni era quindi preferita alle altre perché più libera, capace di stimolare e
coinvolgere sia il lato razionale dell’essere umano sia quello immaginativo, fino a spingersi
a toccare la dimensione metafisica e spirituale. È dunque con tutta probabilità nella musica
che Boito intravvedeva la realizzazione del suo sogno di «un’Arte eterea / Che forse in cielo
ha norma, / Franca dai rudi vincoli / Del metro e della forma, / Piena dell’Ideale / Che mi
fa batter l’ale / e che seguir non so»8: si trattava del lato positivo e più elevato cantato nel
carme-manifesto Dualismo9. La conferma è rintracciabile in un’altra riflessione dell’autore,
in cui si esprimeva l’ineffabilità della musica:
Non si ponno, e meno nell’arte nostra quasi eterea, discutere le misteriose impressioni del Bello
cogli estremi argomenti di logica. Niuna parola di bocca o di penna è equipollente alla suprema idea
che emana dai suoni: il vero centro e il vero vertice dei nostri entusiasmi in arte è quell’incognito
indistinto, che niun può definire e che tien sua sede nella più spirituale parte dell’anima10.
Malgrado questi passi siano stati scritti da un Boito ancora giovane, nel 1865, tale
convinzione della preminenza della musica non mutò nemmeno negli anni successivi;
una conferma su tutte sono le parole scritte in una lettera a Verdi nel 1884: «ho sentito
scrivendo quei versi ciò ch’ella avrebbe sentito illustrandoli con quell’altro linguaggio mille
volte più intimo e più possente, il suono»11.
Date tali premesse si comprende perché per Boito la perfezione della poesia si raggiungesse solo quando questa si fosse sublimata al punto da divenire essa stessa musica, o
quando i versi avrebbero potuto essere paragonati a una melodia. Anche in questo caso la
costanza del pensiero boitiano è testimoniata da due documenti tra loro diversi in quanto
a occasione di stesura e diffusione, e distanziati nel tempo; non stupisce che per esprimere
un credo così sentito venissero chiamati in causa gli autori prediletti dal poeta-musicista,
i quali ben introducono alla presentazione del suo canone:
Le chant de qui peut rugir est ineffable; c’est la Bible qui soupire le Cantique des Cantiques,
c’est Dante qui murmure la Vita nuova, c’est Shakespeare qui raconte le Songe d’une nuit d’été. Telles
son aussi Les Chansons des rues et des bois [di Victor Hugo]. Ce livre, au point de vue prosodique ou
musical, est le triomphe de la mélodie; au point de vue psychique ou poétique, c’est le triomphe de
l’amour; au point de vue tropologique ou pittoresque, c’est le triomphe de l’image. Analysons ces
trois triomphes. La mélodie du poète sort du mot, c’est-à-dire du rythme, c’est-à-dire de la forme;
la syllabe est sa note, le vers est sa mesure. Ce livre tout composé de petits vers à quatre mots et de
petites stances à quatre vers est éminemment musical12.
[Dante nella Divina Commedia] a créé la polyphonie de l’idée; ou, pour mieux dire, le sentiment, la pensée, la parole s’incarnent chez lui si miraculeusement, que cette trinité ne fait plus
qu’une Unité, qu’un accord de trois sons parfait, où le sentiment (qui est l’élément musical) domine.
La divination par laquelle il choisit la parole, la place que cette parole occupe, les liens mystérieux
avec les vocables, les rythmes, les assonances, les rimes qui précèdent et qui suivent, tout ceci, et
quelque chose de plus arcane encore, donnent au tercet de Dante la valeur d’une véritable musique
de musicien. Il opère avec les mots le même prodige que votre divin Mozart et mon divin J. S. Bach
ostinato a parlar sempre di musica e musica e musica e null’altro che musica e la più divina delle arti non basta
a conquistare un trono» (Tintori, cit., p. 168).
8
B, Opere letterarie, cit., p. 54 s.
9
Questo anelito alla libertà è ribadito in altri contesti, quale ad esempio l’introduzione ai due aneddoti
de La musica in piazza, in cui si faceva cenno anche ai «menestrelli», tanto poeti quanto musicisti al pari di
Boito: cfr. ivi, pp. 199-201.
10
B, Tutti gli scritti, cit., p. 1165 s; vale la pena di sottolineare come queste affermazioni siano precedute
da una citazione dei vv. 73-81 del canto VII del Purgatorio di Dante, di cui si parlerà tra poco.
11
Medici-Conati, cit., p. 72.
12
B, Opere letterarie, cit., p. 351.
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opéraient avec les notes, et de le même manière. Mais Lui est le plus divin: Mozart et Bach n’ont pas
dépassé la région de leur art; Lui, il est monté plus haut que la sienne. Il est plus divin qu’Homère,
qu’Eschyle, même plus divin que Shakespeare! Il a touché, il a franchi les limites de la connaissance.
[...] À partir de ce point [scil. il canto XXXI del Paradiso] tout devient musique; je veux dire, que la
nature des sensation que l’ont reçoit de cette transcendentalité surhumaine est si prodigieusement
émouvante, qu’elle n’appartient plus à la Poésie mais à la Musique c’est-à-dire à un art plus divin13.
Il primo passo è tolto da una recensione pubblicata su L’Italie del 19 e 20 novembre
1865, mentre il secondo è contenuto in una lettera inviata nel 1902 all’amico musicologo
Camille Bellaigue. Letterati e compositori, poesia e musica venivano quindi accostati tra
loro attraverso paragoni e valutazioni creative, sottolineando come la perfezione fosse raggiungibile solo grazie alla fusione e al superamento della distinzione netta fra le due arti14.
2. Dante e Beethoven
L’«arte dell’avvenire» promossa da Boito e da altri scapigliati non era da lui vista come un
rinnegamento o un azzeramento della tradizione, bensì come un’arte che avrebbe potuto
svilupparsi solo a partire dai migliori esempi passati o presenti, alcuni dei quali quasi
ineguagliabili.
Se si dovesse individuare una sorta di empireo ristretto, non ci sarebbero dubbi nello
scegliere Dante e Beethoven: sono infatti due nomi, in particolare il primo, in cui ci si
imbatte con insistenza negli scritti pubblici e privati di Boito; sovente queste due figure
venivano accostate tra loro, anche con dichiarazioni come la seguente: «Beethoven è Dio
in musica come Dante in poesia, e se per la folla dei genii mortali s’ardono incensi, e si
cantano salmi, e s’ammira, e s’applaude, per questi due è pur forza e bisogno sgozzar vittime
davanti all’altare, ed arder pire, e offerir sacrifici»15.
Si è già avuto occasione di capire perché Boito tributasse a Dante tanta ammirazione,
un’ammirazione ribadita anche nel passaggio che precede quello testé riportato, in cui si
sosteneva come sarebbe improprio accostare il nome del Sommo Poeta a quello dei pur
grandi Petrarca, Ariosto e Tasso: questi ultimi, per quanto degni di stima e giustamente considerati «classici», resterebbero tuttavia «uomini», mentre a Dante veniva appunto concesso
il titolo di «Dio»16. Sono poi importanti in particolare due passaggi dei carteggi boitiani in
Tintori, cit., pp. 159 e 162.
A ulteriore dimostrazione di tale convinzione e per insistere su considerazioni legate al canone dell’autore,
si ponga attenzione a quanto scritto sul Figaro nel 1864: «L’Aleardi ama chiamarsi dipintore più che poeta, e per
questo egli scrive in capo a questo volume: se qualcosa c’è di non cattivissimo nella roba mia, è tutto pittura; noi lo
crediamo più musicista che pittore, e crediamo in molta parte essere tutto musica quel bello che caramente emana
dalle sue poesie. La melodia del verso (dell’endecasillabo in ispecial modo) egli cerca a ogni tratto con dilicata
cura e la trova, tanto che qualcosa di soavemente cantante hanno i suoi carmi. Ed a volte ci par quasi che più lo
innamori del suo verso l’armoniosissimo ritmo o il discordante, a seconda; la dissonanza della parola violenta,
o la mite consonanza, che il pensiero stesso. Foscolo, gran trovatore di cadenze e d’artificii mirabili di verso, fu
esempio in questo all’Aleardi, potente. E certo Aleardi trasse dal Foscolo molta sapienza a ordir poi le sue cose,
solo che dove nel maestro v’è armonia, nel discepolo v’è cantilena, dove nel maestro cantilena, nel discepolo nenia»
(B, Opere letterarie, cit., p. 331). Già nel mese precedente Boito aveva espresso apprezzamento per questo poeta:
cfr. B, Tutti gli scritti, cit., pp. 1125-6. Trovo quindi in parte fuorviante l’interpretazione proposta da Gaetano
Mariani, Storia della Scapigliatura, Caltanissetta-Roma, Sciascia, 19712, pp. 295-305.
15
B, Tutti gli scritti, cit., p. 1110.
16
Su questo cfr. anche Carlo Paolazzi, Cultura e “paradiso perduto”: note di fortuna dantesca tra gli scapigliati, in Novità e tradizione, cit., pp. 262-337, alle pp. 290-309. Non per nulla la Commedia era definita anche
«Libro Santo», come ad esempio Boito scrisse alla Duse nel marzo del 1888: Raul Radice [a c. di], Eleonora
Duse Arrigo Boito. Lettere d’amore, Milano, il Saggiatore, 1979, p. 207 (e «volume santissimo» si legge a p. 320).
13
14
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cui, in età matura, l’autore affrontò in modo abbastanza sistematico alcuni aspetti salienti
della Divina Commedia: il primo scambio epistolare fu intrattenuto con Corrado Ricci17,
mentre la seconda occasione si ebbe quando Boito, su sollecitazione di Bellaigue, analizzò
la presenza di riferimenti musicali all’interno del poema dantesco e da qui sviluppò alcune
considerazioni di carattere poetico e linguistico quali quella precedentemente riportata18.
Beethoven veniva invece esaltato soprattutto per aver sviluppato e portato a perfezione
la Sinfonia classica19: quest’ultima era particolarmente gradita all’autore perché, oltre a
essere la realizzazione più compiuta della musica «indipendente», ovvero solo strumentale,
si era poi ulteriormente evoluta in una forma dall’impronta fortemente descrittiva che costituiva l’anello di congiunzione con la musica «dipendente»: il melodramma20. A Beethoven
inoltre Boito riconosceva la paternità di alcune conquiste musicali, o quantomeno il merito
di aver aperto la strada a tutti i principali compositori successivi21.
Fin da giovane Boito ribadì il primato beethoveniano su altri musicisti pur degni
di ammirazione: «Beethoven, Mozart, Mendelssohn, Schumann, Boccherini, Hummel,
Chopin! una intera pleiade di geni, una costellazione di glorie! [...] Nei sette nomi che
abbiamo ora pronunziato, appare splendidamente visibile un cono sidereo che ha per base
Mozart, Boccherini, Hummel; che ha per raggi Mendelssohn, Schumann, Chopin; che
ha per punto focale Beethoven»22. Infine questo compositore affascinava Boito per la sua
capacità di esprimere attraverso i suoni tutto ciò che voleva, quasi con una potenza iconica,
spaziando tra sentimenti e sensazioni contrapposti, mescolando perizia tecnica e libertà
dell’ispirazione, e raggiungendo così quella coincidentia o, forse meglio, compraesentia
oppositorum che stava alla base del “dualismo” boitiano23.
3. Shakespeare, Hugo e gli altri letterati
Ai primi posti del canone di Boito va collocato Shakespeare, a cui il poeta-musicista riconosceva la caratteristica appena vista a proposito di Beethoven: quella di aver composto
17
Cfr. B, Lettere, cit., pp. 209-15; anche in questo caso si hanno riferimenti intrecciati di aspetti poeticolinguistici e aspetti musicali, come avviene ad esempio a proposito di una riflessione sui versi 37-42 del canto
X del Paradiso: «La lezione col punto dopo la parola lucente non mi contenta perché spezza in due parti l’unità
della dimostrazione e la spezza malamente come farebbe un cantante che piglia fiato a metà della frase. Dante
ha il fiato lungo».
18
Cfr. Tintori, cit., pp. 159-62.
19
Interessante individuare, ancora una volta, la stretta connessione attuata da Boito tra forme musicali
e forme poetico-letterarie: «La sinfonia classica è una delle più perfette creazioni dell’arte umana, e per la sua
mirabile unità e formosità sta a pari con la creazione dell’ode e del sonetto» (B, Tutti gli scritti, cit., p. 1111).
20
Cfr. ivi, pp. 1222 s, 1173.
21
È quanto avvenne ad esempio a proposito del Settimino di cui il poeta-musicista parlò dopo l’esecuzione
del primo esperimento della Società del Quartetto: cfr. ivi, p. 1160.
22
Ivi, p. 1161.
23
«Beethoven, intelligenza solare, natura quasi divina, anfibio del cielo e della terra, è Mendelssohn e
Schumann in uno; or domina l’ispirazione, ed or la soffre; per esso l’idea è incubo e succubo; ora è il genio che
rapisce l’uomo, ed or l’uomo che conquista il genio: epica lotta che ha fine sempre in un fulgido abbracciamento.
Questa binata essenza che si riscontra nell’arte beethoveniana, dà origine alla più meravigliosa varietà che sia dato
d’incontrare in opera d’uomo. In essa sonvi i ritmi vastissimi, sterminati, immensi; le forme minute, snellette,
quasi microscopiche; la prospettiva di Van der Meulen e la miniatura di Meissonier; tutto in una pagina di suoni.
In essa l’allegria più sfrenata, e la più sfrenata disperazione; la tragedia e il ditirambo; l’egloga del fauno e l’enigma
della sfinge; in essa l’ubiquità shakespeariana e l’unità eschiliana; vero prodigio! L’opera di Beethoven è misteriosa
in ciò: ch’essa par quasi il miracolo d’una collaborazione umana e divina; divina per l’unità, umana per la varietà.
Una mente sola e non umana non avrebbe potuto concepire tanta moltitudine d’episodi, una mente non divina
non avrebbe sola ideato una così armonica forma» (ivi, p. 1168).
32
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delle opere teatrali contraddistinte da un dualismo addirittura duplice. In prima istanza
esso sarebbe individuabile nell’elaborazione drammaturgica, che presenta spesso l’intrecciarsi di due vicende; secondariamente, e legato col primo punto, il dualismo sarebbe
dato dall’accostamento di personaggi e situazioni talora fortemente tragici e talaltra buffi:
la duplice azione non è un difetto. Per convincerci che lo sia, si dovrebbe incominciare a distruggerci davanti agli occhi tutto Shakespeare dalla sua prima commedia all’ultima tragedia. In quasi
tutte le più mirabili e possenti opere dello Shakespeare appare la duplice azione. La duplice azione è
uno dei segni di quel gigante. Tutte le sue tragedie sono biforcute e poderosamente ramificate come
le corna d’un antilope immenso. Nell’Arrigo IV dramma c’è la commedia che si chiama Falstaff;
nell’Antonio e Cleopatra c’è una tragedia a Roma e l’altra in Egitto; nel Re Lear c’è un altro dramma
che si chiama Glocester, nell’Amleto c’è un altro Amleto che si chiama Laerte24.
Queste parole sono del 1867, ma già citano diversi soggetti da cui Boito trasse alcuni
suoi libretti o che tradusse in italiano25; ed essendo il nostro autore un fine ed erudito creatore di giochi poetici e linguistici anche a fini drammaturgici, era naturale che ammirasse
la stessa capacità nel suo modello inglese: «Quando Shakespeare giuoca colle parole, lo fa
così potentemente come quando sgomenta colle idee»26.
È importante inoltre sottolineare come Boito associasse la grandezza di Shakespeare al
futuro del melodramma, ovvero alla forma più promettente e perfetta dell’«arte dell’avvenire»:
Il melodramma è la grande attualità della musica; Shakespeare è la grande attualità del melodramma. Sintomo imponente! L’arte tocca a Shakespeare? Sta bene, l’arte s’innalza. Le grandi
fatiche non si addicono che alle grandi forze; il toccar la cima dell’alpe è avidità dell’aquila. Se oggi
il melodramma s’attenta a toccar Shakespeare, è indizio sicuro che oggi il melodramma è degno di
Shakespeare. Le cose dell’uomo, come quelle di Dio, lavorano e faticano là dove presentono prossimo
l’avvento dell’avvenire. Ora, in musica quest’avvento sta nel melodramma più che altrove27.
E poco importa che queste considerazioni fossero espresse poco tempo prima che
Franco Faccio rappresentasse il suo Amleto, appunto su libretto di Boito (il primo), in cui
è significativamente presente anche un passo in terzine dantesche28. Infatti questa ammirazione per il drammaturgo inglese restò immutata per tutta la vita, come è di nuovo
verificabile dagli espistolari29, e troverà piena realizzazione ancora una volta nel melodramma, sposandosi con il genio verdiano per dare alla luce i due capolavori Otello e Falstaff30.
Ivi, p. 1208; con una citazione di A Winter’s tale si apre inoltre la “Fiaba” Re Orso: cfr. B, Opere letterarie, cit., p. 87.
Per l’ultimo punto mi riferisco in particolare all’Antonio e Cleopatra trasposto nella nostra lingua per
la Duse, all’epoca amante di Boito: cfr. Marzio Pieri, Le faville dell’opera. Boito traduce Shakespeare, in Arrigo
Boito. Atti del Convegno, cit., pp. 145-211 e Radice, cit., passim; proprio nello scambio epistolare con la Duse si
trovano espressioni divinizzanti nei confronti dell’autore inglese simili a quelle viste in precedenza a proposito di
Dante e Beethoven come «Non permettere che si aggiunga il nome di battesimo a Shakespeare, non Guglielmo,
non William. È proprio degli dei essere chiamati con un nome solo» (ivi, p. 288).
26
B, Tutti gli scritti, cit., p. 1182. Sull’argomento mi permetto di rimandare anche a Edoardo Buroni, Una
lingua per la musica, tra poesia ed estro bizzarro. Considerazioni sulle idee e sulla prassi linguistica di Arrigo Boito,
“Rendiconti dell'Istituto Lombardo. Accademia di Scienze e Lettere”, in stampa.
27
Ivi, p. 1172 s.
28
Si vedano almeno Raffaello De Rensis, L’“Amleto” di A. Boito. Con lettere inedite di B. Mariani e Verdi, Ancona, La Lucerna, 1927, e Guido Salvetti, La Scapigliatura milanese e il teatro d’opera, in AA.VV., Il melodramma italiano dell’Ottocento. Studi e ricerche per Massimo Mila, a c. di Giorgio Pestelli, Torino, Einaudi, 1977, pp. 567-604.
29
Andrà rilevato almeno l’entusiasmo con cui Boito apprese la notizia di un futuro studio che Bellaigue
avrebbe voluto approntare sul tema della musica in Shakespeare; anche in questo caso, come per Dante, non
mancavano interessanti spunti di riflessione e suggerimenti: cfr. B, Lettere, cit., p. 336.
30
Significativo quanto Boito scrisse, ormai anziano, ancora a Bellaigue nel 1911: «Gioisco del tuo trionfo
il quale rinnova quelli del mio gran Padrone [Verdi]. Esser servo di Lui e di quell’Altro ch’è nato sull’Avon
[Shakespeare]; non bramo di più» (Tintori, cit., p. 174).
24
25
Buroni, Parallelismi letterari e musicali nel canone di Arrigo Boito
33
L’altro poeta e drammaturgo particolarmente apprezzato da Boito era Victor Hugo,
autore a cui guardavano con interesse altri letterati italiani, in particolare proprio alcuni
scapigliati, e, non ultimi, diversi librettisti e compositori. La venerazione era tale che quando nel 1866 si diffuse la notizia, infondata, della morte di un altro loro idolo, Baudelaire,
Boito scrisse all’amico Emilio Praga: «Il realismo muore, fratello, muore nella doppia
morte dell’anima e del corpo. I realisti agonizzano senza prete al capezzale e vanno senza
gloria. Praga, come stai? Tastiamoci il polso scambievolmente e, se batte ancora, Dio e
Victor Hugo ci aiutino!»31.
Oltre alla già rilevata musicalità della poesia victorhughiana32, Boito trovava delineati
nei lavori del drammaturgo francese personaggi conformi al realismo artistico a cui lui
stesso mirava: i tipi psicologicamente complessi e talvolta a tinte forti tratteggiati dalla
penna di Hugo erano uno specchio della realtà efficacemente rappresentabile sulle scene,
con le sue situazioni teatrali, la sua umanità, i suoi contrasti, le sue debolezze, le diverse
sfaccettature dei caratteri umani. Negli anni della giovinezza, inoltre, Hugo rappresentava
per Boito anche un modello umano e d’impegno politico: non si dimentichi infatti che
nel 1866 Boito, e con lui l’inseparabile Faccio, partecipò come volontario alla Seconda
Guerra d’Indipendenza. Ancora, alcuni scapigliati, tra cui il nostro, entrarono in contatto
diretto con Hugo, che li appoggiò e li incitò apertamente nella loro battaglia artistica; in
alcune lettere a lui inviate verso la metà degli anni ’60, Boito lo definì «Maître», e, contemporaneamente, designò se stesso come «Votre fidèle disciple»33.
Fu in quegli stessi anni che il poeta-musicista accostò in più di un’occasione Hugo ai
suoi due autori prediletti, dichiarandone persino la filiazione diretta:
Victor Hugo est comme le mythe païen fils d’un géant, Shakespeare, et d’un nuage, la
Révolution. Le nuage lui a donné l’âme, le géant a donné le mot. Victor Hugo fils de Shakespeare
représente l’art moderne, Victor Hugo fils de la Révolution représente la pensée moderne. Il appartient corps et âme, par droit de naissance, au siècle, au moment, toute sa prose et toute sa poésie est
consacrée aux suprêmes alarmes des contemporains34.
Un perfetto amalgama, dunque, di insegnamenti del passato e di elementi legati alla
contemporaneità e all’avvenire, di raffinata elaborazione linguistico-poetica e di stretto
legame con la realtà. Similmente, vi sono testimonianze in cui viene dichiarata una comunanza con Dante (e con Cristo!), come si legge in una lettera inviata a Hugo stesso:
Mon immense adoration pour Alighieri, pour vous, me rendent presque digne de l’illustre faveur
que Vous m’avez faite en m’anvoyant une copie de Votre prose éblouissante. [...] Votre idée se réverbère
sur les blancheurs de l’âme et y fait jaillir des rayons; elle a cela de commun avec l’idée du Christ et avec
l’idée du Dante. Il suffrait un seul de ces trois livres: L’Evangile, la Divine comédie, les Contemplations,
pour que l’homme devînt juste. Je n’admire pas seulement Votre poésie, je crois en elle35.
Nel corso della maturità una simile ammirazione, nonostante l’adattamento dell’Angelo Tyran de Padoue per la stesura de La Gioconda, sembra essere svaporata leggermente,
come è avvenuto più in generale negli ambienti intellettuali e culturali italiani, ma certo
31
Nardi, cit., p. 349. Come Shakespeare, anche Hugo era per Boito autore da citare in apertura dei propri
componimenti: così avvenne con Le foglie: cfr. B, Opere letterarie, cit., p. 69.
32
Ribadita dall’analogia che Boito, sempre a proposito delle Chansons des rues et des bois, instaurò con
Beethoven e Haydn: «Tout ce pêle-mêle épouvantable murmure à l’âme une musique divine, une symphonie de
Beethoven, un menuet de Haydin [sic]» (ivi, p. 352).
33
Cfr. Remo Giazotto, Hugo, Boito e gli “scapigliati”, in AA.VV., L’opera italiana in musica, Milano,
Rizzoli, 1965, pp. 149-64.
34
B, Opere letterarie, cit., p. 348 s.
35
Giazotto, cit., p. 161.
34
Otto/Novecento, 3/2012
non si spense mai. Varrà poi la pena di rilevare un ultimo legame tra i due poeti: il quarto
figlio di Hugo, François-Victor, fu un traduttore francese delle opere teatrali shakespeariane;
diversi intellettuali italiani che non erano in grado di leggere gli originali in inglese o che
comunque trovavano più agevole affrontare una traduzione francese si giovarono del suo
lavoro: tra questi vi furono lo stesso Boito e Verdi36.
Facevano parte del canone boitiano altri autori francesi; nessuno di questi, però, eguagliava quelli sin qui visti. Un posto particolare spettava ad Alexandre Dumas, o meglio,
agli Alexandre Dumas padre e figlio; in loro Boito individuava una complementarità che
incarnava, seppur in due persone distinte, il suo ideale dualistico: il primo era l’espressione
dell’arte razionale e ideale, mentre il secondo era l’espressione opposta di quel realismo in
grado di tratteggiare personaggi concreti e verosimili37.
E almeno per completezza si ricorderanno anche altri due scrittori europei, rispetto ai quali Boito aveva un’opposta considerazione: se infatti Tolstoij veniva definito un
«grande osservatore russo» e di lui veniva specificato «il nome dell’autore è già una nobile
garanzia»38, il più innovativo (e forse proprio per questo poco compreso e apprezzato da
un Boito sempre più proteso verso l’età anziana e il conservatorismo che essa determinò
in lui) Ibsen era spregiativamente identificato con «un vecchio farmacista norvegiano che
s’è messo a distillare del rabarbaro per il teatro, una gofferia»39.
Non sono invece particolarmente numerosi gli accenni a poeti italiani contemporanei
o di poco precedenti; oltre al già visto Aleardi, emerge solamente Leopardi, ancora una
volta per le risorse musicali contenute nella sua lingua poetica40. Per il resto sembra che il
canone boitiano di origini italiane si concentrasse di più su altri grandi classici del passato,
qua e là citati: Petrarca41, Boccaccio, Tasso, Machiavelli42. In particolare, rispetto agli omologhi francesi, Boito rimproverava ai letterati italiani l’incapacità di coniugare prolificità
e qualità artistica43; non si accorgeva, forse, che così facendo accusava di fatto anche se
36
Né Boito mancò di esprimere gratitudine direttamente a Hugo padre anche per questo, citando ancora
una volta Dante: «aujourd’hui en lisant l’annonce de votre prochain Carme à Dante, et la traduction de Shakespeare par François-Victor Hugo, je me suis senti poussé à Vous parler encore une fois. Merci au père pour
Dante; merci au fils pour Shakespeare» (Frank Walker [a c. di], Arrigo Boito. Lettere inedite e poesie giovanili,
“Quaderni dell’Accademia Chigiana”, Siena, 1959, p. 14 s).
37
«Il cader così spesso di questo nome [Dumas fils] sotto l’osservazione del critico non è caso, né capriccio,
ma necessità. Questo nome è lo stemma della commedia moderna; essa nacque sedici anni fa con tale nome in
fronte per volontà del secolo e per gloria dell’arte. [...] Mentre il padre volava col pensiero fra la nebbia dell’ideale,
il figlio camminava sul macadam di Parigi attratto e sedotto da tutte le forme della realtà. Mentre il padre dormiva
e sognava, il figliuolo vegliava e viveva. Vivere è la prima scuola e la prima sapienza d’uno scrittor di commedie.
[...] Dumas padre, convinto della verità di questo fatto naturale, aiutò la reazione educando il figlio a una vita
opposta all’indole paterna. Egli idealista volle un figlio realista, egli improvvisatore volle un figlio pensatore, egli
poeta volle un figlio filosofo, e lo ebbe. Così il romanzo generò la commedia. E per produrre un’arte così vera,
così efficace com’è quella di Dumas fils, ci voleva una siffatta educazione. La commedia di Dumas fils divenne, per
questi fatti specialmente, la commedia sociale dei tempi odierni» (B, Tutti gli scritti, cit., p. 1200 s); si noti come
il requisito indispensabile proposto da Boito per scrivere buone commedie fosse analogo all’ideale già goldoniano.
38
Radice, cit., p. 378.
39
Ivi, p. 706. E ancora una volta, tenendo presente quanto si dirà tra poco a proposito di Strauss, è possibile
instaurare un legame tra la letteratura e la musica.
40
Cfr. B, Lettere, cit., p. 230.
41
Interessante una dichiarazione degli anni della vecchiaia contenuta in una lettera inviata al musicologo
Romualdo Giani: «lei, caro Giani, mi trae ad amare il Petrarca che prima ammiravo senza amarlo» (ivi, p. 259).
42
Cfr. anche Paolo Paolini, Appunti sulla cultura letteraria di Arrigo Boito: la letteratura italiana, “Otto/
Novecento”, 5-6, 1983, pp. 75-94, alle pp. 80-93.
43
«La benedetta fecondità del genio è raro miracolo in Italia, gli Scribe dai cinquanta capolavori, i Victor
Hugo dalle miriadi meravigliose di versi, i Guizot, i Thiers dalle gigantesche istorie, non sono fra noi» (B, Tutti gli
scritti, cit., p. 1125). E in una circostanza sottolineò il legame tra la genialità e la prolificità artistica: «Génie vient
Buroni, Parallelismi letterari e musicali nel canone di Arrigo Boito
35
stesso, considerato che proprio la scarsa produttività fu una delle critiche principali che gli
vennero mosse e che lui medesimo ammise.
4. Johann Sebastian Bach, Benedetto Marcello e gli altri compositori
La già riportata citazione della lettera a Bellaigue in cui si accostavano i nomi di Dante,
Shakespeare, Mozart e Bach induce a considerare anche il canone dei compositori apprezzati
da Boito. Per Mozart il poeta-musicista nutriva una sincera stima, ma non quell’ammirazione dimostrata invece nei confronti di Bach; negli scritti dell’autore non ricorre infatti
molto spesso il nome del compositore salisburghese, forse perché in lui Boito vedeva un
autore che pur avendo portato a perfezione la musica del periodo in cui visse, rappresentava
una concezione troppo legata al classicismo settecentesco44.
Al contrario, agli occhi di Boito Bach rappresentava il padre di tutta la musica contemporanea, specie strumentale, proprio come Dante lo era di tutta la poesia. Questa ammirazione si esplicitò e si rafforzò soprattutto negli anni della maturità, come dimostrano
in particolare gli scambi epistolari intrattenuti con l’amico Bellaigue45 o con altri46, ma
era già evidente in gioventù:
Haydn procede da Bach come il citiso fiorito procede dalla roccia terribile; l’essenza della loro
natura è diversa; eppure una è madre dell’altra; eppure spirano la stessa atmosfera, abitano le stesse
regioni. Bach è il sovrano creatore della “musica indipendente”, di cui Haydn è il gentile continuatore.
Bach immagina il preludio e glorifica la fuga; Haydn, più tardi, consacra il quartetto figliazione delle
due forme anteriori. Beethoven, pochi anni dopo, trarrà la suprema conseguenza dall’idea di Bach e
dalla forma di Haydn, creando la “Sinfonia” nella sua più epica manifestazione47.
Bach sarebbe dunque il modello della musica ideale, ovvero di quella musica pura non
ancora appesantita dalla sua concretizzazione. Haydn era invece colui che aveva fornito un
modello di realizzazione di tali idee, senza però cadere nell’errore di costruire elementi e
strutture facili e stereotipati, e ampliando le possibilità dei compositori che gli sarebbero
succeduti. Non importava quindi, agli occhi di Boito, se il nome di questo musicista non
sarebbe stato ricordato in futuro al pari di altri48.
In questa duplice ottica, quella cioè che da un lato vedeva gli ideatori dei concetti e
delle strutture musicali e dall’altro quanti li avevano saputi realizzare morfemicamente,
vanno collocati e valutati gli altri compositori del canone boitiano. Si tratta per lo più di
autori italiani, che anche in questo caso possono essersi distinti tanto nella musica strumentale quanto, soprattutto, in quella vocale nei suoi diversi generi; va infatti tenuto presente
che l’arte del canto era riconosciuta da Boito come tipicamente italiana, di contro a quella
sinfonica in cui si volevano maggiormente distinti i compositori mitteleuropei. Il nome
de gennaò: je produis. C’est surtout par cette étymologie superbe que l’on constate les véritables génies. [...] Le
génie doit être féconde comme la nature exubérante. Il doit multiplier les idées» (B, Opere letterarie, cit., p. 359).
44
Cfr. ad esempio i giudizi espressi in B, Tutti gli scritti, cit., pp. 1159 e 1171.
45
Si citerà almeno questo passo: «Vous n’aimez pas assez le Dieu que j’aime, Bach! [...] Ne me croyez-pas
injuste, je sens bien que vous reconnaissez la grandeur de J.S. Bach, vous le mettez le premier parmi les prophètes
de la Musique, il a tout révélé; la musique moderne est son oeuvre» (Tintori, cit., p. 154).
46
Interessante anche l’analogia instaurata in una lettera inviata nel 1910 a Giuseppe De Panis: «La MattheusPassion è la Divina Commedia della Musica. Essa ha bisogno anzitutto di una mente direttiva d’artista grande,
profondo, che la conosca in ogni sua piega, che la intenda, che la adori, che sappia trasfondere il significato e il
commento» (B, Lettere, cit., p. 131).
47
B, Tutti gli scritti, cit., p. 1162. Si notino anche le parole «idea» e «forma» che compaiono spesso nella
concezione estetico-artistica boitiana.
48
Cfr. ibidem.
36
Otto/Novecento, 3/2012
principale di questo gruppo è Benedetto Marcello: Boito aveva imparato ad apprezzarlo già
ai tempi del conservatorio, grazie agli insegnamenti del Mazzucato, come lui stesso confessò
a Giulio Ricordi49. La rilevanza nella storia della musica ricoperta da questo autore venne
espressa, ancora una volta, ricorrendo a un confronto con la poesia dantesca:
Da troppi anni s’era dimenticato fra noi il nome di questo Principe della musica, e bene fece chi
religiosamente ce lo ricondusse a memoria. Non è mai senza danno per l’arte l’oblio dei grandi esempi
passati; non sappiamo cosa diventerebbe la poesia il giorno che non si studiasse più Dante, e il giorno
che da’ musicisti non s’amassero più i salmi del gran veneziano non sappiamo lo scandalo che diverrebbe la musica. È notabile lo studio assiduo e l’amore che posero i posteri alla divina opera di Marcello50.
A questo compositore venivano attribuite una funzione e un’importanza simili a quelle
di Bach, per un verso, e, soprattutto, per l’altro, di Haydn: le composizioni sacre erano
per Boito il frutto di un’idea talmente pura che, realizzata, poteva essere definita «divina»
(appunto come la Commedia); contemporaneamente questa realizzazione serviva come
esempio di «forma» musicale per i posteri. Infatti gli autori, per lo più successivi, degni
di nota erano quanti, soprattutto nel melodramma, avevano contribuito ulteriormente
all’ampliamento del ritmo, della tonalità, delle strutture musicali. È interessante in particolare rinvenire le non molte considerazioni che Boito fece a proposito di compositori a
lui cronologicamente più vicini: di Bellini apprezzava soprattutto le melodie «limpide», a
Rossini riconosceva di aver perfezionato la musica tardosettecentesca per poi spingersi nelle
ultime opere a ricerche timbriche e musicali innovative (Boito sottolineò più volte il suo
amore per il Guglielmo Tell), di Donizetti ammetteva la composizione di qualche bell’opera,
nonostante ne criticasse la prolificità troppo spesso nemica della qualità51.
È in questo contesto che bisogna inserire anche l’elogio che Boito fece di Meyerbeer,
altro estensore della «formula» melodrammatica e innovatore (anche di se stesso), che causò
il declino di diverse opere nostrane perfino di autori famosi e stimati52. Può dunque stupire
che quando l’arte musicale raggiunse un affrancamento ancor più netto e definitivo dai
«rudi vincoli» della tonalità e del ritmo, Boito non seppe accogliere positivamente quanto
era avvenuto; nei confronti di Richard Strauss, infatti, espresse giudizi severissimi:
Quel ciarlatano che ha nome Strauss merita tutto il male che ne dici, ma merita ancor peggio: è
un assassino della musica, è un asino, è un porco, un imbecille (Dio ci liberi da questi Michelangioli
da strapazzo!). Quando scriveva con le regole dell’arte era un impotente. Quando, disperato della
sua nullità, s’è messo a fare, per speculazione, la parte di ribelle non è riuscito a essere che un impertinente volgarissimo e null’altro. Amen53.
49
Cfr. B, Lettere, cit., p. 30. L’amore per questo compositore è poi confermato dal fatto che il suo nome
compare anche nella produzione poetico-letteraria boitiana; basterà ricordare l’analogia instaurata con l’arte del
bizzarro Barbapedàna: cfr. B, Opere letterarie, cit., p. 207.
50
B, Tutti gli scritti, cit., p. 1143.
51
Interessante la seguente ricostruzione storiografico-musicale che chiama in causa diversi nomi sin qui
visti: «si può dire apertamente che dall’ultimo volume dei salmi di Marcello, venendo fino alla prima opera di
Spontini, gli elementi dell’arte non toccassero quasi menomamente sviluppo. Con Marcello crebbe la tonalità,
con Spontini il ritmo [...]. Dopo Marcello l’arte s’impicciolì in Italia, per ingrandirsi in Germania e in Francia
[...]. A dare una grande idea delle grandi conquiste musicali d’Italia, bisognava risalire [...] al gran padre Palestrina,
alle sue messe, alle sue lamentazioni, al suo Stabat, poi venire sui madrigali di Marenzio, e ai primi melodrammi,
splendide attuazioni della grande utopia del Vicentino; poscia passare al grandissimo Peri, creatore del recitativo,
e a Scarlatti e a Cesti perfezionatori di Monteverde, e a Marcello perfezionatore di Palestrina, e fermarsi a questo
supremo progresso, oppure continuare con Spontini, Bellini e Mercadante, giacché la è pur innegabile evidenza
che codesto ultimo compié nell’arte la più vasta manifestazione odierna dello sviluppo ritmico» (ivi, p. 1148 s).
52
Cfr. ivi, p. 1122.
53
Tintori, cit., p. 172; cfr. anche ivi, p. 168.
Buroni, Parallelismi letterari e musicali nel canone di Arrigo Boito
37
Eppure è innegabile che proprio Strauss sia stato, nella storia del melodramma,
un tassello fondamentale nella direzione di rinnovamento caldeggiata dal giovane
Boito54. Del resto, già nei due decenni di fine ’800 Boito aveva dimostrato di non
aver compreso fino in fondo ciò che l’opera di Wagner, tanto dal punto di vista teorico quanto dal punto di vista pratico, aveva e avrebbe significato per il presente e il
futuro del melodramma.
5. Mendelssohn
Ma non potendo qui analizzare compiutamente le idee di Boito su Wagner e Verdi, che
per altro erano ancora troppo attivi all’epoca della sua giovinezza per potersi già inserire
in un canone55, è però opportuno concludere questa panoramica con Felix MendelssohnBartholdy, il quale fu considerato dal nostro autore soprattutto a proposito del melodramma
chiamando appunto in causa anche Wagner (esplicitamente), Verdi (indirettamente) e se
stesso (allusivamente).
Nel 1864 Boito pubblicò il saggio Mendelssohn in Italia, stimolato dalla traduzione in
francese delle lettere che il musicista amburghese scrisse tra il 1839 e il 1847. Il ritratto che
viene abbozzato sembra spesso più che altro un autoritratto, o almeno un ideale personale
cui tendere e rispetto al quale si riscontrano diverse analogie: Mendelssohn è presentato
come un cultore non solo di musica ma delle diverse arti e di filosofia, fine conoscitore
delle lingue tanto classiche quanto contemporanee, studioso già da giovane dei grandi
della tradizione o a lui contemporanei quali Bach e Beethoven, lettore di Goethe56 e di
Shakespeare; per questa vastità d’orizzonti, il compositore «più che musicista è pensatore,
contemplatore, poeta: traspare dai suoi canti quasi un raggio d’idee, come dalla fissa pupilla di chi medita»57, e in quanto tale meritava di essere annoverato insieme ai maggiori
compositori di musica strumentale.
Né, date queste premesse, la perfezione dei lavori di Mendelssohn poteva limitarsi ad
abbracciare il solo ambito musicale:
Mendelssohn, colla sua coltura nelle scienze e nelle arti, non poteva racchiudere la vastità delle
sue vedute nel circoscritto campo della musica, arte de’ suoni, e penetrò sempre più oltre. N’è prova
i suoi Lieder ohne Worte, e le sue Sinfonie; l’arte de’ suoni era per esso, più quasi che per il poeta,
l’arte delle libere idee, dei sublimi concetti. Al posto dello scherzo o del minuetto, forme tutte e due
strettamente foniche, mette l’Intermezzo e rapisce forse l’idea di Heine e la veste di suoni58.
Mendelssohn inoltre aveva avuto il grande merito di rivelare l’«avvenire» a Goethe,
il quale, benché ormai anziano, da vero artista non indietreggiava e non rimaneva indifferente di fronte al continuo procedere dell’arte; è nello sviluppare questo ragionamento
54
Analogo disappunto fu espresso nei confronti di Offenbach: cfr. ivi, pp. 165 e 171 s, e B, Tutti gli
scritti, cit., p. 1110.
55
Un discorso per alcuni versi analogo, sul fronte letterario, può farsi per Manzoni, rispetto al quale Boito
nutrì una grande stima, pur non condividendone l’ideologia e criticandone gli imitatori: cfr. B, Opere letterarie,
cit., p. 328. Sull’argomento si rimanda almeno a Paolo Paolini, Arrigo Boito e Manzoni: un’ammirazione travagliata, in AA. VV., Il vegliardo e gli antecristi. Studi sul Manzoni e la Scapigliatura, a c. di Renzo Negri, Milano,
Vita e Pensiero, 1978, pp. 104-27; Vittorio Spinazzola, Gli scapigliati tra Manzoni e Verga, in La modernità
letteraria, Milano, Il Saggiatore, pp. 183-204.
56
Altro autore letterario importantissimo per il canone boitiano e assai ammirato, soprattutto in gioventù:
dal più grande capolavoro del drammaturgo tedesco il poeta-musicista trasse infatti la sua prima opera, Mefistofele;
cfr. almeno B, Opere letterarie, cit., pp. 361-70.
57
B, Tutti gli scritti, cit., p. 1228.
58
Ivi, p. 1160. Per un paragone instaurato da Boito anche con l’arte della pittura cfr. ivi, p. 1244 s.
38
Otto/Novecento, 3/2012
che si trovano ancora una volta accostati i nomi di Dante, Shakespeare, Beethoven, Bach,
Marcello59.
Il nazionalismo boitiano riuscì a giustificare almeno in parte i nostri compositori e
il severissimo giudizio che di essi aveva dato Mendelssohn, non avendo trovato nella loro
musica «la elevata idea, la severa forma, la possente ispirazione del cuore e della testa, la
profonda scienza dell’arte, la rigida coscienza dell’artista che fu sempre in Germania»60
(Boito impiegava dunque le proprie categorie per ricostruire il ragionamento altrui). Un
ultimo elemento che Boito rilevava, apprezzandolo, nella musica di Mendelssohn era quello
religioso, considerato caratteristico dello stile tedesco; ma ancora una volta, seppur con le
diversità del caso, l’autore in realtà accomunava la ricerca artistica ed espressiva di entrambi.
Il punto più interessante è però forse un altro: il rapporto tra Mendelssohn e il
melodramma. Leggendone le lettere, Boito aveva scoperto in lui un anelito profondo alla
composizione di un’opera lirica; neanche a farlo apposta, il merito di questo stimolo a
raggiungere il «melodramma ideale» andava attribuito a Shakespeare e alla natura musicale della sua Tempesta, da cui Mendelssohn sperava di trarre il proprio capolavoro. Ciò
che però fallava al musicista e di cui andava ansiosamente in cerca era la collaborazione
di un librettista in grado di fornirgli un testo commisurato alle sue aspirazioni artistiche:
sperò a un certo punto di aver individuato in Karl Lebercht Immermann il poeta adatto,
ma il sogno s’infranse presto quando Mendelssohn scoprì che Immermann non ne aveva
compreso l’entusiasmo e lo slancio artistico e ideale; a quel punto il progetto si arenò e
non trovò mai realizzazione.
Questo perché «La Germania a que’ giorni non aveva alti poeti drammatici. Schiller,
quell’anima eolia, lirica, sonora, che avrebbe tanto penetrato nell’anima di Mendelssohn,
non era più. Goethe moriva. L’amaro Heine, troppo esclusivamente rapsodico, non era
nato pel dramma. [...] Restavano i versificatores, i poetucoli, i librettisti, i Michel Carré della
lingua tedesca»61. Consapevole di questo limite, piuttosto che tradire le ragioni dell’arte
Mendelssohn decise di non scendere a compromessi e relegò il suo sogno nell’utopia.
A detta di Boito quel poeta così agognato non si era ancora rivelato in Germania,
nonostante una previsione di buon auspicio pronunciata da Victor Hugo. A maggior
ragione, però, Boito esprimeva questo desiderio a proposito dell’Italia; ma se il contesto
generale lo spingeva verso un sostanziale pessimismo, non mancava la consapevolezza che
il sogno avrebbe potuto realizzarsi in un futuro prossimo: «Quando i nostri artisti saranno
più ispirati, più culti, più altamente liberi, quando il nostro pubblico tornerà a ricordarsi
dell’arte, forse il gran poeta sorgerà anche fra noi»62.
Quando Boito scrisse queste parole sapeva che a breve sarebbe stato rappresentato
il suo Amleto, rispetto al quale gli sembrava di rinvenire «l’idea di quel tale melodramma
cosiffatto, presentito, sognato, invocato da l’arte e un pochino anche dal pubblico»63: come
non scorgere allora in queste parole, ancora una volta, un’allusione a se stesso?
Cfr. ivi, p. 1250 s.
Ibidem.
61
Ivi, p. 1256.
62
Ivi, p. 1257.
63
B, Lettere, cit., p. 56.
59
60