La giurisprudenza del lavoro, in Italia, conosce la “questione amianto” soprattutto con riferimento a due “filoni”: - il riconoscimento dei benefici previdenziali accordati dalla legge, a partire dal 1992, ai lavoratori esposti all’amianto; - il risarcimento del danno per i lavoratori colpiti da patologie asbesto-correlate, e per i loro familiari. Non si stanno a ripetere concetti e orientamenti che è facile reperire nelle pagine di questa stessa rivista. Per il primo filone è sufficiente richiamare le potenti sintesi rinvenibili nelle sentenze della Corte D’Appello di Firenze (cfr. ad esempio Corte d’Appello di Firenze n. 1478/2010 reperibile digitando “amianto” nel campo “cerca”) Per il secondo, la notevole sentenza del Giudice del lavoro di Pisa (Tribunale di Pisa 27 novembre 2012 anch’essa reperibile nella stessa maniera della precedente). Altrove non è così. Storicamente, è stato nei tribunali inglesi che si è fatto strada un filone giurisprudenziale volto a valorizzare la “paura di ammalarsi” per effetto dell’esposizione all’amianto. Una paura ritenuta “risarcibile” a fronte della comparsa di “pleural plaques”, sintomo di esposizione prolungata all’amianto seppur non definibili “patologia”. Una serie di sentenze di merito favorevoli ai lavoratori avevano innescato una prassi transattiva estesa e consolidata che solo nel 2005 è stata contestata da datori di lavoro e assicurazioni e ha dato luogo ad un contenzioso portato sino alla “House of Lords”. Quest’ultima, nel 2007, si è espressa ritenendo la sussistenza di un “danno” concreto solo in presenza di patologia depressiva grave; ma, ugualmente, non lo ha ritenuto risarcibile perché non “prevedibile” e “prevenibile” dal datore di lavoro. Sentenza criticata da più parti e spesso disapplicata, anche successivamente, dai Giudici di merito mediante “dissenting opinions”. E che persino a livello politico ha suscitato reazioni: al punto che il Parlamento scozzese, nel 2009, ha emanato una specifica legge per il risarcimento del danno da “paura di ammalarsi” in presenza di placche pleuriche da esposizione all’amianto. In Francia, dopo alcune sentenze negative, la Cour D’Appel di Bordeaux ha riconosciuto la sussistenza di un “préjudice d’anxiété” in un lavoratore esposto all’amianto; la pronunzia ha, sul punto, ricevuto il “pesante” avallo della Cour de Cassation in una “storica” sentenza dell’11 maggio 2010. In Italia le cose sono andata diversamente. La decisione “capostipite” del filone del danno da “turbamento psichico (sofferenza e patemi d’animo)” connesso all’esposizione a sostanze tossiche non ha avuto origine, come altrove, dalla situazione dei lavoratori esposti all’amianto, ma da una vicenda che ha colpito ben più profondamente e diffusamente l’opinione pubblica dell’intera nazione: il disastro ambientale dell’ICMESA di Seveso. Con la sentenza Cass. SS.UU Civili n. 2515 del 2002 la Suprema Corte ha riconosciuto, sotto forma di “danno morale soggettivo”, la sussistenza di un pregiudizio da turbamento psichico del tutto “autonomo” rispetto al danno alla salute (biologico), ed anche in mancanza di qualsivoglia patologia, in chi fosse rimasto vittima di un disastro ambientale (inquinamento esteso da diossina) ed in conseguenza dello stesso avesse sviluppato uno stato di ansia ed un notevole condizionamento dell’ordinario svolgimento della propria vita. La Suprema Corte è arrivata a criticare duramente persino la dicotomia tra “danno evento” e “danno conseguenza”, benchè solo al fine di poter affermare l’autonomia tra “danno morale” e “danno alla salute”, e riconducendo comunque il “danno morale” riconosciuto (e rappresentato dallo stato d’ansia) alla sussistenza del reato di disastro colposo. Il tentativo di trasporre i principi della sentenza del “Caso Seveso” alla situazione dei lavoratori esposti all’amianto ha avuto, tuttavia, esito generalmente negativo. Le successive sentenze in materia di danno “non patrimoniale” (ivi compreso il c.d. “danno esistenziale”) - prima ancora delle “rivoluzionarie” sentenze cosiddette “di San Martino” del 2008 che ne hanno negato l’articolazione in differenti categorie tra loro “autonome” – pur riconoscendo la sussistenza e risarcibilità di un pregiudizio da “paura di ammalarsi” e connesso stato d’ansia, hanno sempre rivalutato la differenza tra “danno evento” e “danno conseguenza”, stabilendo che tale danno da turbamento psichico “se non può formare oggetto di prova diretta, alla pari di qualsiasi altro stato psichico interiore del soggetto, può essere tuttavia desunto da altre circostanze di fatto esterne, quali ad esempio la presenza di malattie psico-somatiche, insonnia, inappetenza, disturbi del comportamento o altro. Pertanto il lavoratore che chiede il risarcimento dei danni per l’esposizione ad agenti patogeni, pur non avendo contratto alcuna malattia, non è liberato dalla prova di aver subito un effettivo turbamento psichico e questa prospettata situazione di sofferenza e disagio non può essere desunta dalla mera prestazione lavorativa in ambiente inquinato” (Cass. Sez. lav. 6 novembre 2006 n. 23642). Allo stesso modo, altre sentenze di pari oggetto hanno posto l’accento ancora sulla mancata prova dell’effettiva sussistenza di “conseguenze” dell’esposizione all’amianto – sotto il profilo psichico constatabili e accertabili. Tali da aver comportato un osservabile e misurabile mutamento dello stile di vita, del modo di condurre l’esistenza, del lavoratore interessato. E’ proprio sotto questo profilo che le sentenze (sono due differenti ma se ne pubblica una soltanto perché “gemelle”) del Tribunale di Massa si segnalano per importanza e portata. Senza giri di parole, il Giudice del Lavoro rinunzia in partenza a ricercare, nell’esposizione dei fatti dedotti dai lavoratori e nell’istruttoria da essi richiesta, la presenza o meno di “prove” circa “conseguenze” visibili ed accertabili del turbamento psichico dagli stessi sofferto; turbamento ravvisabile nel constatare di essere stati colpevolmente e negligentemente assoggettati ad esposizione a polveri di amianto in misura largamente superiore ai “valori soglia” definiti dalla legge; nel vedere i colleghi di lavoro ammalarsi e morire in pochi mesi, magari dopo anni ed anni di latenza del morbo e di apparente salute. Nel condurre un’esistenza continuamente sottoposta ad una sorta di “spada di Damocle”, senza poter far nulla per sottrarvisi. Ma proprio prendendo spunto dalle “Sentenze di San Martino” della Suprema Corte, il Giudice sottolinea come queste ultime abbiano ricondotto la riconoscibilità del “danno non patrimoniale” (non frazionabile in autonome “categorie”) non esclusivamente all’art. 185 del codice penale (danno morale), ma anche alla violazione di diritti di rilievo costituzionale, con la precisazione che la rilevanza costituzionale attiene all’interesse leso, e non al pregiudizio sofferto, e con la necessità che la lesione sia grave ed il danno non “futile”. Con buona pace del falso-problema del “danno conseguenza”, il Tribunale ravvisa pertanto la palese violazione del diritto costituzionale alla salute nei confronti di chi sia stato assoggettato - pur in presenza di adeguate tecniche di prevenzione e nella piena coscienza della pericolosità dell’esposizione da parte datoriale - all’azione dell’amianto, sostanza altamente cancerogena, e giudica il pregiudizio grave e di certo non futile, attesi i gravissimi rischi cui questi lavoratori vanno incontro e la condizione di incertezza e totale impotenza preventiva in cui si trovano ormai a vivere. La sentenza è stata impugnata e l’appello verrà discusso il prossimo 17 luglio alla Corte D’Appello di Genova. Sarà cura della rivista dar conto dell’esito del giudizio, trattandosi comunque di una controversia di particolare importanza rispetto ad un filone in cui l’esperienza italiana sconta notevoli ritardi rispetto a quella degli altri paesi europei. Si ringrazia l’Avv. Nicoletta Cervia per la collaborazione. Avv. Lorenzo Calvani