PRINCIPALI PROBLEMI IN MATERIA DI PROCEDIMENTO

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PRINCIPALI PROBLEMI IN MATERIA
DI PROCEDIMENTO PRETORILE
CON RIFERIMENTO AI SEGUENTI PROFILI:
– Rappresentanza ed assistenza del difensore; – Poteri istruttori del giudice; – Connessione
Relatore:
dott. Antonio COSENTINO
pretore della Pretura circondariale di Prato
Introduzione.
Prima di entrare nel merito dei temi che formeranno oggetto di questa conversazione vorrei fare
alcune precisazioni di ordine metodologico; precisazioni che mi sembrano tanto più opportune in
quanto nella programmazione dello svolgimento di questo incontro di studio è toccata a me
l’apertura dei lavori.
Il mio obiettivo non consiste nella trattazione sistematica della disciplina del processo civile
davanti al pretore, ma, ben più modestamente, nella introduzione di un dibattito volto a favorire un
confronto tra colleghi su alcune questioni di rilevante frequenza pratica; questioni sulle quali, a
prescindere dal loro maggiore o minore interesse teorico, mi sembra necessario sforzarci di
pervenire, attraverso lo scambio delle diverse possibili opinioni, a scelte interpretative che
incontrino la condivisione più larga possibile nei nostri uffici.
Ciò perché io credo che, specialmente in questo tempo di obbiettiva crisi della giustizia civile,
uno dei contributi più importanti – e anche forse più semplici – che ciascuno di noi può dare al
miglioramento dell’amministrazione della giustizia sia quello di assegnare un grado elevato, nella
scala di valori che sempre è sottesa a qualunque operazione di ermeneutica giuridica, al valore della
uniformità della interpetrazione giurisprudenziale e quindi della prevedibilità delle decisioni
giudiziarie; e che l’esigenza di uniformità interpretrativa può essere perseguita – senza negare né, da
un lato, l’indipendenza di ogni giudice, né, dall’altro, la funzione nomofilattica della Cassazione –
proprio attraverso il confronto tra colleghi sulle diverse tesi.
Questa opzione metodologica di fondo spiega la scelta degli argomenti della nostra
conversazione; argomenti che, se indubbiamente sono marcatamente disomogenei tra loro dal punto
di vista della sistematica giusprocessualistica, è tuttavia sembrato opportuno inserire in questa
sessione di lavoro, proprio per la sua caratterizzazione eminentemente pratica e per la volontà di
svolgere insieme una panoramica su alcune delle questioni che per prime si sono presentate
all’attenzione degli operatori del processo pretorile dopo la riforma.
Ciò premesso, mi sembra tuttavia opportuno offrire, prima di passare all’esame delle singole
questioni indicate nel programma, un quadro d’insieme delle innovazioni introdotte nella disciplina
del processo civile davanti al pretore dalle riforme del 1990 e del 1991.
L’intervento riformatore ha inciso in duplice direzione sul processo pretorile: da un lato si è
modificato il regime di competenza per materia e per valore, dall’altro si è rimodellata la struttura
del Titolo secondo del Libro secondo del codice di procedura civile, con un intervento il cui
risultato complessivo pare quello di una più marcata omogeneizzazione del giudizio pretorile al
giudizio davanti al tribunale.
Quanto alla competenza per valore, questa è stata innalzata assegnando al pretore la competenza
a conoscere delle cause, anche relative a beni immobili, di valore non superiore, prima a venti e poi,
col d.l. 238/95, a cinquanta milioni. Opportunamente il primo comma dell’art. 8 precisa che dette
cause rientrano nella competenza pretorile in quanto non siano di competenza del giudice di pace
(la mancanza di tale precisazione nel testo dell’art. 8 introdotto dalla legge 399/84 aveva fatto
sorgere il dubbio che per le cause di valore inferiore ad un milione sussistesse una competenza
concorrente, di diritto del pretore e di equità del conciliatore).
Escono quindi dalla competenza pretorile grandi aree di contenzioso, cioè le cause mobiliari di
valore fino a cinque milioni e le cause di risarcimento del danno da circolazione di veicoli e natanti
fino a trenta milioni, nonché le cause rientranti nella competenza per materia del giudice di pace ai
sensi del quarto comma dell’art. 7 c.p.c.; al pretore è peraltro stata recuperata, col d.l. 238/95, la
competenza sulle opposizioni alle ordinanze ingiunzione e sulle opposizioni alle sanzioni
amministrative ex art. 75 d.p.r. 309/90; competenza che nel disegno iniziale della riforma era stata
assegnata al giudice di pace.
Quanto alla competenza per materia del pretore, il nuovo testo dell’art. 8 c.p.c., risultante dalle
modifiche apportate dall’art. 3 della legge 353/90 e poi dall’art. 18 della legge 374/91, prevede
quanto segue:
a) È stata mantenuta la competenza per le azioni possessorie e nunciatorie, purché non penda
il giudizio petitorio (resta infatti salvo il disposto degli artt. 704 e 688, secondo comma, c.p.c.),
mentre è stata abolita la generale competenza ante causam sulle domande di provvedimenti
d’urgenza ex art. 700, in relazione alle quali il pretore sarà competente solo se abbia competenza
anche nel merito; ciò in base al principio dettato dall’art. 669 ter c.p.c., per il quale la competenza
all’adozione dei provvedimenti cautelari appartiene, appunto, al giudice competente per il merito (si
noti che un’eccezione a tale principio è posta proprio dalla norma in commento, che attribuisce al
pretore la competenza ante causam per le nunciatorie, in via generale e quindi anche quando la
denuncia sia correlata ad una causa di merito di carattere petitorio eccedente il valore di cinquanta
milioni).
b) È stata attribuita al pretore la competenza per materia sulle cause relative a rapporti di
locazione e comodato di immobili urbani e su quelle di affitto di azienda, in quanto non siano di
competenza delle sezioni specializzate agrarie; la innovazione è stata salutata con unanime favore
perché – in correlazione all’art. 447 bis c.p.c., che configura un rito speciale locatizio
sostanzialmente esemplato sul rito del lavoro – elimina i numerosi e complessi problemi posti fino
ad oggi dagli intricati rapporti tra competenza rito e connessione in materia di locazioni. Il meritorio
intento di semplificazione ha poi giustamente condotto a far rientrare in tale competenza non solo i
rapporti di locazione ma anche quelli, contigui, di comodato e affitto, onde ridurre l’area delle
possibili questioni preliminari di competenza; restano invece escluse dalla competenza per materia
in discorso le cause concernenti l’occupazione senza titolo.
Oltre alle due forme di competenza per materia previste dal nuovo testo dell’art. 8 c.p.c. vanno
poi aggiunte – a parte le preesistenti, e non modificate, competenze del pretore in funzione di
giudice del lavoro – la già menzionata competenza a conoscere delle opposizioni ad ordinanza
ingiunzione (artt. 22 l. 689/81) e la competenza su domande di provvedimenti cautelari inerenti a
rapporti rientranti nella competenza di merito del giudice di pace (artt. 669 ter e 669 quater c.p.c.).
Sono invece state sottratte alla competenza per materia del pretore, e attribuite al giudice di
pace, le competenze in materia di apposizione di termini e osservanza delle distanze riguardo al
piantamento di alberi e siepi, nonché in materia di misura dei servizi condominiali.
L’unica innovazione concernente la competenza per territorio è, infine, quella introdotta dal
secondo comma del citato art. 447 bis, ove si prevede, per le controversie relative ai rapporti di
locazione e comodato di immobili urbani e di affitto di azienda, la competenza del giudice del luogo
dove si trova la cosa.
Così riassunte le novità introdotte in materia di competenza pretorile dalle riforme del '90/'91,
conviene dare ora uno sguardo di insieme alle modifiche introdotte nel rito ordinario davanti al
pretore.
In primo luogo è da osservare che la riforma ha sostituito la precedente bipartizione del Titolo
secondo del Libro secondo del codice – che conteneva un capo dedicato alle disposizioni comuni al
procedimento davanti al pretore ed al conciliatore e un capo dedicato al solo procedimento davanti
al conciliatore – introducendo tre capi, il primo dedicato alle disposizioni comuni al procedimento
davanti al pretore e al giudice di pace e il secondo e terzo dedicati alle disposizioni speciali
rispettivamente pertinenti al giudizio davanti al pretore e a quello davanti al giudice di pace.
Il capo concernente le disposizioni comuni contiene tre articoli (artt. 311/313). L’art. 311,
riprendendo quasi letteralmente il testo previgente (con la sostituzione dell’espressione “giudice di
pace” a quella “conciliatore”), contiene il richiamo generale, per quanto non espressamente
regolato, alla disciplina del procedimento davanti al tribunale; l’art. 312, riproducendo il vecchio
testo dell’art. 317, disciplina il potere di iniziativa istruttoria del pretore e del giudice di pace; l’art.
313, riproducendo il vecchio testo dell’art. 318, concerne la proposizione della querela di falso.
Il capo relativo alle disposizioni speciali per il procedimento davanti al pretore contiene solo
due articoli (314 e 315) interamente dedicati alla fase decisoria. L’art. 314 disciplina la decisione a
seguito di trattazione scritta, dettando una procedura analoga a quella prevista nel giudizio davanti
al tribunale; l’art. 315 prevede invece un modello, fortemente innovativo, di discussione
integralmente orale e di decisione contestuale.
Più esteso (artt. 316/322), è infine il capo dedicato esclusivamente al procedimento davanti al
giudice di pace.
A seguito dell’intervento riformatore – e in particolare alla eliminazione delle disposizioni
contenute nel vecchio testo degli artt. 312/315 – il giudizio pretorile risulta ora, come già accennato,
assai più vicino di prima al giudizio davanti al tribunale.
Non vi sono infatti più differenze in ordine alla costituzione delle parti e alla fase introduttiva
del processo.
A mente del nuovo testo dell’art. 82 c.p.c. non è più prevista la possibilità, contemplata dal
vecchio testo di tale articolo, che il pretore autorizzi le parti a stare in giudizio personalmente; né è
più possibile, per la abrogazione della disposizione contenuta nel secondo comma del vecchio testo
dell’art. 312, la proposizione verbale della domanda per le cause di valore inferiore a L. 600.000.
Inoltre scompare qualunque disposizione speciale relativa al contenuto della citazione e ai termini
per comparire (art. 313 vecchio testo), cosicché ora anche nel procedimento davanti al pretore la
citazione deve contenere tutti gli elementi di cui all’art. 163 c.p.c. e il termine per comparire è
quello di cui all’art. 163 bis c.p.c. (60/120 giorni a seconda che il luogo della notifica sia in Italia o
all’estero); inoltre non è più possibile la costituzione in udienza prevista dal vecchio testo dell’art.
314: costituzione delle parti, designazione del giudice ed eventuale differimento della prima udienza
sono ora integralmente regolati dalle norme dettate per il procedimento davanti al tribunale (artt.
165, 166, 167, 171 e 168 bis) mentre troveranno integrale applicazione le preclusioni di cui agli artt.
167, 183 e 184 c.p.c..
Le modifiche normative ora illustrate si riverberano anche sulla interpretazione degli artt. 56 e
57 delle disposizioni di attuazione, non toccati dalla riforma, che concernono, rispettivamente, la
designazione del giudice per ciascuna causa e il rinvio dell’udienza di comparizione. Sembra
doversi ritenere che tali articoli siano stati implicitamente abrogati nella parte in cui si riferiscono al
pretore, mantenendo efficacia solo con riferimento al procedimento davanti al giudice di pace (così
PROTO PISANI).
In definitiva quindi, all’esito della novellazione del 1990/91, le uniche varianti che residuano
nel rito pretorile rispetto al procedimento davanti al tribunale consistono nel blando potere
inquisitorio di disposizione d’ufficio della prova testimoniale e nella particolare disciplina della fase
decisoria.
Il
patrocinio
in
dell’art. 82 c.p.c.
pretura
dei
praticanti
procuratori
dopo
la
modifica
Nell’ambito della nuova disciplina del rito pretorile uno dei primi problemi che si sono posti
all’attenzione degli operatori è quello della possibilità per i praticanti procuratori di esercitare il
patrocinio in pretura.
Tale possibilità è espressamente prevista dall’art. 8 del R.D.L. 27-11-33 n. 1578 (Ordinamento
della professione di avvocato e procuratore), nel testo modificato dalla legge 27-6-88 n. 242, in
forza del quale i laureati in giurisprudenza che svolgano la pratica forense sono iscritti in un registro
speciale tenuto dal consiglio dell’ordine e, dopo un anno di iscrizione in tale registro, sono
ammessi, per un periodo di sei anni, “ad esercitare il patrocinio davanti alle preture del distretto nel
quale è compreso l’ordine circondariale che ha la tenuta del registro suddetto”.
A tale disposizione faceva riscontro, nel codice di rito, l’art. 82, che, nel testo anteriore alla
riforma, prevedeva che le parti non potessero stare in giudizio davanti ai pretori “se non col
ministero o con l’assistenza di un difensore”; a meno che non fossero autorizzate dal pretore a stare
in giudizio di persona, in considerazione della natura ed entità della causa.
Tale disciplina differiva da quella del giudizio davanti ai tribunali e alle corti d’appello,
giudizio nel quale invece, per il terzo comma dello stesso articolo, le parti dovevano stare “col
ministero di un procuratore legalmente esercente”. È peraltro pacifico che il “ministero”, o difesa
attiva, si identifica nella rappresentanza processuale, che si conferisce con procura (art. 83 c.p.c.) e
che consiste nel potere di compiere e ricevere nell’interesse della parte tutti gli atti del processo a
questa non espressamente riservati (art. 84 c.p.c.); mentre l’“assistenza”, o difesa consultiva,
consiste nell’ausilio che l’avvocato fornisce alla parte senza rappresentarla.
Come già accennato nell’Introduzione, il testo dell’art. 82 c.p.c. è stato modificato dall’art. 20
della legge 374/91; nella nuova disciplina il giudizio davanti ai pretori viene totalmente uniformato,
quanto al regime del patrocinio, al giudizio davanti ai tribunali e alle corti, prevedendosi che davanti
a tutti tali uffici giudiziari le parti debbano stare in giudizio col ministero di un procuratore
legalmente esercente. Nei giudizi davanti ai pretori è quindi venuta meno la possibilità per la parte
di stare in giudizio con la semplice assistenza di difensore, nonché la possibilità di essere
autorizzata a stare in giudizio di persona (ferme restando le deroghe all’onere di patrocinio previste
in materia lavoro dal primo comma dell’art. 417 c.p.c. e in materia di opposizione alle ordinanze
ingiunzione dall’art. 20 l. 689/81).
In relazione al nuovo testo dell’art. 82 c.p.c. è allora sorto il dubbio, presso numerosi ordini
forensi e uffici di pretura, che i praticanti procuratori non possano più esercitare il patrocinio in
pretura, per avere l’art. 20 l. 374/91 implicitamente abrogato la norma di cui alla prima parte del
secondo comma dell’art. 8, testo aggiornato, della legge forense.
Tale dubbio si fonda su tre ordini di considerazioni:
a) il primo è di ordine letterale: l’art. 82 nuovo testo dispone che le parti stiano in giudizio
davanti ai pretori col ministero di procuratore e tale non è, per definizione, un praticante
procuratore;
b) il secondo è di ordine sistematico: il totale parallelismo esistente tra il regime del patrocinio
davanti ai pretori e il regime del patrocinio davanti ai tribunali ed alle corti non appare compatibile
con la previsione della possibiltà che il patrocinio davanti ai pretori possa essere esercitato dai
praticanti;
c) il terzo e di ordine teleologico-evolutivo: se la possibilità del patrocinio in pretura per i
praticanti era stata introdotta per consentire ai giovani di avere una palestra professionale in cui
formare le proprie prime esperienze nell’ambito di un contenzioso di ridotto valore, tale ultimo
presupposto è venuto meno con l’innalzamento della competenza per valore del pretore fino alla
soglia di cinquanta milioni.
Dico subito che dei tre argomenti ora indicati mi sembra di effettiva consistenza è il primo: il
secondo e il terzo potrebbero a mio giudizio valere come ragione di critica della mancata
abrogazione espressa dell’art. 8 della legge forense, ma non valgono come dimostrazione della
mancata abrogazione implicita di detta norma.
Anche il primo argomento, sebbene non privo di suggestione, mi sembra tuttavia insufficiente
per fondare un giudizio di abrogazione implicita di tale disposizione.
Ritengo infatti che l’art. 8 R.D.L. 1578/33, nel testo introdotto dalla legge 242/88, non sia
incompatibile col nuovo testo dell’art. 82 c.p.c. e quindi non possa ritenersi da tale norma
implicitamente abrogato (art. 15 disp. prel. cc; l’abrogazione delle norme incompatibili con quelle
recate dalla legge 374/91 è peraltro stata espressamente prevista dall’art. 47 di tale medesima legge).
A mio giudizio infatti la relazione tra l’art. 8 della legge forense e l’art. 82 c.p.c. è una relazione
non di antinomia ma di integrazione; e la riforma dell’art. 82 c.p.c. introdotta con legge 374/91 non
ha inciso in alcun modo su tale relazione.
Infatti il vecchio testo dell’art. 82 c.p.c., come si è visto consentiva alla parte di stare in giudizio
davanti al pretore:
a) col ministero di difensore;
b) con l’assistenza di difensore;
c) di persona, se autorizzata dal pretore.
Secondo l’interpretazione di tale norma offerta dalla Cassazione, se la parte decideva di
avvalersi del ministero di difensore, essa era tenuta a conferire procura ad litem ad un procuratore
iscritto in un albo del distretto, mentre se decideva di avvalersi dell’assistenza (non rappresentanza)
di un difensore, era tenuta a rivolgersi ad un avvocato. (cosi SS UU 26-6-86 n. 4252, in sede di
composizione di un ampio contrasto giurisprudenziale sulla possibilità per l’avvocato esercente
extra districtum di rappresentare la parte nei giudizi davanti al pretore; conf. Cass. 11880/91).
Se allora, anche prima della modifica introdotta dalla legge 374/91, il ministero di difensore
doveva essere esercitato, a mente dell’art. 82 c.p.c., da un procuratore iscritto ad un albo del
distretto; se tale disciplina codicistica non era di ostacolo alla piena operatività dell’art. 8, nel testo
aggiornato, del R.D.L. 1578/33 (il quale, ammettendo i praticanti all’esercizio del patrocinio, cioè
della difesa tecnica in senso generico, li facoltizza non solo a svolgere l’assistenza ma anche a
prestare il ministero); se quindi, anche prima della legge 374/91, la legge forense prevedeva
un’integrazione a quanto previsto dal codice di rito, perché per i procedimenti davanti ai pretori
ammetteva i praticanti (intra districtum) ad esercitare (anche) il ministero, il quale, per il codice,
doveva essere esercitato da procuratori (intra districtum); mi pare si possa attendibilmente sostenere
che la disposizione della legge forense sia integrativa e non contrastante con la disciplina codicistica
del patrocinio davanti ai pretori e che, conseguentemente, la modifica della disciplina codicistica del
patrocinio davanti ai pretori non abbia inciso sulla operatività della norma della legge forense. Tanto
più che tale modifica non ha in alcun modo inciso sulla nozione normativa di ministero di difensore,
inteso come rappresentanza della parte ad opera di un procuratore legalmente esercente, ma si è
limitata ad eliminare la possibilità per la parte di stare in giudizio davanti ai pretori con la sola
assistenza di difensore, ovvero di persona.
Credo quindi si possa continuare a ritenere operante la possibilità per i praticanti procuratori di
esercitare il patrocinio in pretura. Tale conclusione in definitiva si risolve nel ritenere che l’art. 8
della legge forense equipari i praticanti iscritti nel registro ai procuratori iscritti nell’albo, quanto
alla possibilità di esercitare il patrocinio davanti ai pretori del distretto in cui è compreso l’ordine
circondariale presso cui il registro e l’albo sono tenuti; legittimando quindi i praticanti procuratori,
alle condizioni e nei limiti indicati dalla stessa norma, come procuratori legalmente esercenti
davanti ai pretori del distretto.
Questa conclusione peraltro ha il pregio di uniformare il regime del patrocinio davanti ai pretori
in sede civile e in sede penale; nella quale ultima i praticanti possono sicuramente esercitare il
patrocinio come difensori di fiducia delle parti private, compresa la parte civile, nonché (nonostante
l’isolato precedente di Cass. 12-7-94 n. 7909, poi superato da Cass. 16-3-95 n. 2722) come
difensori di ufficio dell’imputato.
Sul potere del difensore di rappresentare la parte in sede di interrogatorio libero ex art. 183 c.p.c.
Sempre con riguardo alle problematiche connesse alla difesa tecnica, un secondo tema sul quale
sono state espresse opinioni discordanti, in dottrina e tra gli operatori, è quello della possibilità che
il difensore rappresenti la parte nel compimento dell’interrogatorio di cui al secondo comma
dell’art. 183 c.p.c..
Tale norma, introducendo anche nel rito ordinario quel momento di contatto personale tra le
parti ed il giudice che costituisce una delle caratteristiche salienti del rito del lavoro, ha previsto che
le parti compaiano personalmente all’udienza di trattazione (qualificando la mancata comparizione
come comportamento valutabile ai sensi dell’art. 116 c.p.c.) per rendere l’interrogatorio libero e per
consentire lo svolgimento del tentativo di conciliazione. Alle parti è peraltro stata riconosciuta,
analogamente a quanto previsto nell’art. 420, secondo comma, c.p.c., la possibilità di farsi
rappresentare da un procuratore generale o speciale, il quale deve essere a conoscenza dei fatti di
causa; la procura, precisa la norma, deve essere conferita con atto pubblico o scrittura privata
autenticata e deve comprendere la facoltà di transigere e conciliare. Rilevo incidentalmente che la
trasposizione nel rito ordinario della disciplina contenuta nel secondo comma dell’art. 420 c.p.c.
rende ormai inattuale il dubbio che era sorto in giurisprudenza in ordine alla interpretazione dell’art.
117 c.p.c., dubbio vertente proprio sulla possibilità per la parte chiamata a rendere l’interrogatorio
non formale di farsi rappresentare da un procuratore (detta possibilità veniva negata da Cass.
2422/60, in Rep. Foro It. 1960, voce Prova Civile, n. 72; ammessa invece da Cass. 9316/91, Id.,
1991, voce Prova Civile, n. 16).
I problemi posti dall’art. 183, secondo comma, c.p.c., in relazione al tema dei rapporti tra la
parte ed il suo difensore, sono i seguenti:
a) se il difensore possa ricevere tale procura;
b) se tale procura possa essere contenuta nella procura ad litem rilasciata nelle forme di cui al
terzo comma dell’art. 83 c.p.c.;
c) se tale procura sia implicita nella procura a transigere e conciliare.
a) La prima questione è stata discussa già a proposito della previsione contenuta nell’art. 420
c.p.c..
In alcuni commenti alla legge 533/73 si sostenne che il difensore della parte non potesse essere
nominato procuratore della stessa, ai sensi e per gli effetti di cui al secondo comma dell’art. 420 c.p.c.,
perché ciò sarebbe stato incompatibile con la ratio a cui era ispirata la necessaria comparizione delle parti
nel sistema del processo del lavoro.
In particolare, si sottolineava, da un lato, che il difensore non sarebbe stato adatto, per la sua
forma mentis ed attitudine professionale, alla effettiva ricerca della conciliazione; dall’altro, che il
difensore non poteva avere la conoscenza dei fatti di causa richiesta dalla norma.
A questi argomenti (avanzati da F. FOGLIA), è stato aggiunto in giurisprudenza che la nomina
del difensore come procuratore speciale sarebbe inammissibile per contrasto con l’obbligo del
difensore al segreto professionale (Pret. Milano 30-5-77, in Riv. dir. lav. 1977 II 278).
Largamente prevalente peraltro appare l’orientamento, cui aderisco, che, basandosi sulla
assenza di impedimenti normativi espressi, ritiene ammissibile il conferimento al difensore della
procura a rispondere all’interrogatorio libero (PEZZANO, PAPALEONI, LUISO); essendosi
peraltro sottolineato, a mio avviso condivisibilmente, che la conoscenza dei fatti di causa richiesta
dall’art. 420 c.p.c. non necessariamente deve essere conoscenza diretta. Semmai, è stato rilevato
(FABBRINI) come sia sconsigliabile per l’avvocato assumere l’incarico di rendere l’interrogatorio
libero in nome del proprio assistito, poiché dallo svolgimento di tale incarico possono discendere
obbiettivi rischi professionali, connessi alla confusione tra il piano della difesa tecnica e quello della
cura sostanziale degli interessi della parte.
In giurisprudenza, la tesi negativa è stata sostenuta, a quanto mi consta, solo nella sentenza del
Pretore di Milano citata sopra; mentre la tesi affermativa è stata sostenuta, oltre che in un ormai
remoto precedente del Pretore di Firenze (Pret. Firenze 26-5-75, in Mass. giur. lav. 1976, 83), da
Cass. 25-3-83 n. 2096).
Ritengo che le conclusioni interpretrative elaborate in relazione all’art. 420 secondo comma
siano tranquillamente estensibili al corrispondente disposto dell’art. 183 secondo comma; in
dottrina la possibilità per la parte di farsi rappresentare dal difensore nell’interrogatorio libero è
stata espressamente sostenuta da CHIARLONI.
b) Sulla premessa che la parte possa farsi rappresentare, per rendere l’interrogatorio libero, dal
proprio difensore, si deve poi verificare se sia valida una procura a tal fine conferita nel contesto di
una procura ad litem rilasciata nelle forme dell’art. 83 terzo comma c.p.c..
Al riguardo è da rilevare che l’art. 183, secondo comma, c.p.c. impone, perché l’interrogatorio
libero possa essere reso da un procuratore nominato dalla parte, che la procura da questa rilasciata
presenti un requisito di forma ed uno di contenuto: il requisito di forma consiste nel conferimento
con atto pubblico o scrittura privata autenticata, il requisito di contenuto consiste nella inclusione,
tra i poteri del procuratore, del potere di transigere o conciliare la controversia; iniziando l’esame
del nostro problema dall’analisi del requisito di forma, si tratta di vedere se questo possa ritenersi
soddisfatto dalle modalità previste nel terzo comma dell’art. 83 c.p.c..
Secondo tale disposizione la procura speciale ad litem può essere conferita, oltre che con atto
pubblico o scrittura privata atenticata, con scrittura in calce o a margine ad uno degli atti in essa
indicati (citazione, ricorso, controricorso, comparsa di risposta o d’intervento, precetto e domanda
d’intervento nella esecuzione) e in tale ipotesi l’autografia della sottoscrizione della parte deve
essere certificata dal difensore.
È chiaro che la soluzione – e, prima ancora, la stessa impostazione – del problema che stiamo
esaminando è strettamente connessa al valore che si attribuisca alla certificazione del difensore
prevista dal terzo comma dell’art. 83 c.p.c..
Se infatti si ritenga che la certificazione del difensore prevista dall’art. 83, terzo comma, c.p.c.,
non costituisca una vera e propria autenticazione, ma rientri tra le ipotesi di c.d. autentica minore, o
vera di firma, in quanto l’accertamento in essa contenuto copra solo l’identità – e non la
legittimazione, i poteri e la capacità – del sottoscrittore (in tal senso Cass. SS UU 5-2-94 n. 1167);
ovvero che detta certificazione sia atto assolutamente estraneo al modello della autenticazione
(potendo il potere certificatorio del difensore esercitarsi solo sulla sottoscrizione delle procure in
suo favore, cosicché la certificazione costituirebbe in realtà nient’altro che l’accettazione
dell’incarico da parte del professionista: in tal senso CIPRIANI); allora si dovrebbe escludere che la
procura a rendere l’interrogatorio libero possa essere validamente rilasciata nel contesto di una
procura ad litem data nelle forme di cui all’art. 83 terzo comma c.p.c., proprio per il motivo che tali
forme non integrerebbero gli estremi della scrittura privata autenticata.
Se invece si ritenga che la certificazione del difensore rappresenti una vera e propria
autenticazione della firma della parte (in questo senso MANDRIOLI, nonché Cass. SS UU 22-11-94
n. 9869), allora si dovrebbe verificare quale sia il limite del potere certificatorio del difensore; se
cioè il difensore possa attestare la provenienza dalla parte della sola dichiarazione di conferimento
della procura ad litem, oppure possa attestare la provenienza dalla parte di qualunque altra
dichiarazione resa contestualmente al rilascio della procura ad litem ed avente un contenuto
connesso al conferimento dello ius postulandi.
Solo accogliendo la seconda delle due alternative sopra prospettate potrebbe ritenersi che le
forme di cui al terzo comma dell’art. 83 c.p.c. soddisfino il requisito della scrittura privata
autenticata previsto dall’art. 183 c.p.c..
Ritengo peraltro che questa prospettiva interpretativa susciti rilevanti perplessità, posto che
dalle risposte all’interrogatorio libero potrebbero conseguire effetti indirettamente dispositivi del
diritto in contesa; perplessità che si accrescono se si considera il secondo requisito – quello di
sostanza – che l’art. 183 c.p.c. prescrive per la procura speciale a rendere l’interrogatorio libero, e
cioè che al procuratore sia stato conferito anche il potere di transigere o conciliare la lite (il che mi
pare confermi che dalla risposta all’interrogatorio libero può derivare la disposizione del diritto in
contesa).
Al riguardo va infatti rilevato che il secondo comma dell’art. 84 c.p.c., nello stabilire che il
difensore non può compiere atti di disposizione del diritto in contesa se non ne ha ricevuto
espressamente il potere, differenzia nettamente la rappresentanza processuale (che si conferisce con
la procura ad litem e si fonda su un rapporto di prestazione d’opera professionale) dalla
rappresentanza sostanziale (che si conferisce con un atto distinto rispetto alla procura ad litem e si
fonda su un rapporto di mandato). Da tale rilievo mi sembra doversi desumere che il potere
certificatorio del difensore – riconosciuto dall’art. 83, terzo comma, c.p.c. con espresso riguardo alla
procura speciale ad litem – non comprenda il potere di certificare la autografia della sottoscrizione
di una procura a conciliare.
Pertanto se la procura a rendere l’interrogatorio libero non può essere disgiunta, a mente
dell’art. 183 c.p.c., dalla procura a conciliare e se la procura a conciliare non può essere rilasciata
nelle forme dell’art. 83, terzo comma, c.p.c., mi sembra inevitabile concludere per la
inammissibilità di una procura a rendere l’interrogatorio libero e a conciliare che sia stata rilasciata
al difensore nel contesto di una procura speciale alla lite data nelle forme di cui all’art. 83 terzo
comma c.p.c..
Del resto tale opzione interpretativa non mi pare sacrifichi al rigorismo formale alcun interesse
sostanziale; infatti verosimilmente i casi in cui la parte riterrà conveniente delegare al difensore lo
svolgimento dell’interrogatorio libero e del tentativo di conciliazione riguarderanno per lo più le
imprese di dimensioni medio/grandi, con un contenzioso tendenzialmente standardidazzato, le quali
agevolmente potranno munire il proprio difensore di procura generale per atto pubblico o scrittura
privata autenticata.
c) Quanto all’ultima delle questioni sopra individuate, concernente la possibilità di
considerare la procura a rendere l’interrogatorio libero implicitamente contenuta nella procura a
transigere e conciliare (che, alla luce di quanto precisato al punto precedente, sia stata rilasciata
nelle forme di cui al secondo comma dell’art. 83 c.p.c.), riterrei che si tratta di una questione di
interpretrazione della procura.
In linea generale osservo che l’attività di conclusione di un accordo conciliativo è diversa
rispetto all’attività di risposta all’interrogatorio libero e che, se la procura a rendere l’interrogatorio
libero deve, per poter spiegare il proprio effetto legittimante in capo al procuratore, conferire anche
il potere di conciliare, il conferimento del potere di conciliare non implica di per se stesso il
conferimento del potere di rendere l’interrogatorio; con la conseguenza che in linea di massima
escluderei la possibilità di ammettere il difensore munito di procura a conciliare, ma non di espressa
procura a rendere l’interrogatorio libero, a rappresentare la parte nel compimento dell’interrogatorio
medesimo. Salva tuttavia la possibilità che il conferimento al difensore del potere di rappresentare
la parte nel compimento dell’interrogatorio libero sia desumibile, univocamente pur se
implicitamente, dalle particolari espressioni utilizzate nella procura stessa.
Preclusioni istruttorie e poteri istruttori d’ufficio del pretore.
1) Le preclusioni istruttorie e il loro regime di rilevabilità.
È osservazione comune che una delle innovazioni di maggior rilievo introdotte dall’intervento
riformatore sul rito civile è rappresentata dalla introduzione di una netta distinzione tra la fase di
trattazione – volta alla definizione del thema decidendum e quindi alla individuazione dei fatti
controversi – e la fase istruttoria; nonché dalla introduzione di un sistema di preclusioni concernente
tanto la allegazione dei fatti quanto la deduzione delle istanze istruttorie tendenti a fornire la prova
dei fatti allegati.
Per quanto specificamente concerne le istanze istruttorie, va in primo luogo sottolineato che –
sebbene il legislatore preveda che tanto l’attore quanto il convenuto indichino fin dai rispettivi atti
introduttivi i mezzi di prova dei quali intendono avvalersi e i documenti che offrono in
comunicazione (artt. 163 n. 5 e 167, primo comma) – nessuna sanzione processuale è tuttavia
comminata per il caso che in citazione o in comparsa sia omessa tale indicazione. Il che peraltro è
coerente con la netta scansione tra fase di trattazione e fase istruttoria, cui sopra si è fatto cenno:
consentire alle parti di formulare le proprie richieste istruttorie anche in una fase successiva alla
chiusura della trattazione – dopo quindi che dagli atti introduttivi e dalla trattazione svolta
nell’udienza di cui all’art. 183 c.p.c. siano stati evidenziati i fatti realmente controversi, cioè
realmente bisognosi di prova – risponde infatti ad una evidente scelta di razionalità ed economia
processuale.
Le parti quindi, abbiano o meno svolto deduzioni istruttorie negli atti introduttivi, possono
svolgere tali deduzioni nell’udienza di trattazione, ovvero possono chiedere al giudice un termine
(che il giudice è tenuto a concedere, salvo determinarne l’ampiezza discrezionalmente), per
produrre documenti e indicare mezzi di prova, nonché altro termine per l’eventuale indicazione di
prova contraria. È peraltro evidente che le deduzioni istruttorie sono comunque condizionate
all’assolvimento da parte di attore e convenuto dell’onere di allegazione dei fatti pricipali rilevanti
in causa (per tali intendendosi i fatti costituitivi impeditivi modificativi ed estintivi del diritto
azionato) e quindi sono limitate dalle preclusioni verificatesi per tali allegazioni ai sensi del ripetuto
art. 183 c.p.c..
All’udienza successiva alla scadenza dei termini di cui al primo comma dell’art. 184 c.p.c., il
giudice provvederà alla pronuncia sulle istanze istruttorie, aprendo così la fase dell’istruttoria
probatoria in senso stretto.
In ordine all’affermazione della esistenza di una preclusione istruttoria va peraltro sottolineato
che la lettera della legge, come non prevede espresse sanzioni processuali alla mancata proposizione
di richieste istruttorie negli atti introduttivi del processo, così non prevede espresse sanzioni al
mancato svolgimento delle richieste istruttorie nella udienza di trattazione o nella udienza fissata a
seguito della concessione del termine di cui al quinto comma dell’art. 183.
L’unico riferimento alla perentorietà dei termini per lo svolgimento di richieste istruttorie
concerne i termini assegnati dal giudice a richiesta delle parti ai sensi del primo comma dell’art.
184; cosicché potrebbe astrattamente sostenersi che, qualora le parti non si autolimitino chiedendo
un termine (perentorio ex lege) per deduzioni istruttorie, potrebbero, anche in prosieguo di causa,
svolgere le istanze istruttorie non svolte negli atti introduttivi o nell’udienza di trattazione.
Tale ipotesi interpretativa è però stata decisamente respinta dalla totalità dei commentatori della
riforma, i quali hanno unanimemente evidenziato che tutto il sistema introdotto dalla l. 353/90 si
fonda sulla articolazione del processo per fasi, sulla separazione tra fase preparatoria e fase
istruttoria e sulla esistenza di una cerniera tra le due fasi costituita dalla preclusione in tema di
richieste istruttorie collegata al momento immediatamente successiva alla chiusura della fase
preparatoria: cerniera dettata dai primi due commi dell’art. 184, a tenore dei quali, all’esito della
definizione del thema decidendum e del thema probandum, le parti o chiedono il termine per
deduzioni istruttorie di cui all’art. 184 primo comma o perdono il potere di chiedere acquisizioni
istruttorie ulteriori rispetto a quelle già chieste negli atti introduttivi o nel corso della udienza di
trattazione o nel corso dell’udienza fissata ai sensi dell’art. 183 ultimo comma c.p.c. (in questi
termini, PROTO PISANI).
Si deve quindi conclusivamente affermare che la preclusione istruttoria matura “o quando, non
essendovi una richiesta per la fissazione di un termine per avanzare nuove richieste istruttorie, il
giudice abbia provveduto sulle richieste avanzate o allorché scadano i termini perentori che il
giudice abbia fissato” (ATTARDI); preclusione che, è bene aggiungere, il primo comma dell’art.
184 ha chiaramente previsto, sciogliendo i dubbi che al riguardo erano sorti nel rito del lavoro, non
solo per le prove costituende ma anche per le produzioni documentali.
Sfuggono a tale preclusione:
a) Le deduzioni istruttorie volte a fornire la prova di fatti di cui sia ammessa la allegazione
tardiva o di cui la necessità di prova derivi da una contestazione tardiva che sia stata ammessa;
senza soffermarmi sul tema delle preclusioni alle allegazioni o alle contestazioni, mi limito a
segnalare che nei casi in cui sia ammessa una tardiva allegazione (generalmente ritenuta possibile in
ordine ai fatti sopravvenuti o in ordine ai fatti la cui rilevanza dipenda da sopravvenute modifiche
normative), o in cui la parte sia rimessa in termini per effettuare una allegazione o una
contestazione, non può non essere ammessa una tardiva deduzione istruttoria volta a dimostrare
l’esistenza del fatto tardivamente allegato o contestato;
b) l’istanza di verificazione della scrittura privata (mentre il disconoscimento della scrittura
prodotta dall’avversario resta soggetto al regime dell’art. 215), la querela di falso, il
disconoscimento delle riproduzioni meccaniche, il giuramento decisorio (in tal senso, TARZIA,
RAMPAZZI).
c) le deduzioni istruttorie di cui al terzo comma dell’art. 184 c.p.c., cioè quelle rese necessarie
dai mezzi di prova disposti d’ufficio; sul punto tornerà a proposito dell’art. 312 c.p.c..
Così delineato il sistema delle preclusioni istruttorie, resta da chiedersi se la decadenza della
parte dalla deduzione istruttoria debba essere rilevata d’ufficio o su istanza della controparte. Il tema
confluisce nel più generale tema della rilevabilità delle preclusioni processuali nel sistema
introdotto dalla l. 353/90, non sussistendo ragioni per differenziare il regime di rilevabilità delle
preclusioni istruttorie da quello delle preclusioni concernenti le allegazioni di fatti e la proposizione
di domande ed eccezioni.
È noto che nel regime anteriore alla novella si riteneva che nel rito ordinario le preclusioni in
cui fosse incorsa una parte (ad esempio con riguardo alla proposizione della domanda
riconvenzionale, o con riguardo alla proposizione di una domanda nuova) non potessero essere
rilevate d’ufficio, trattandosi di divieti posti nell’esclusivo interesse delle parti; a proposito del rito
del lavoro era invece prevalso un orientamento più rigoroso, che dalla considerazione dell’esistenza
di un interesse pubblicistico al funzionamento del rito aveva tratto la conseguenza della rilevabilità
di ufficio delle preclusioni maturate a carico delle parti.
È opinione comune che con la riforma del 1990 è stato introdotto un modello processuale
in cui l’esistenza di un sistema rigido di preclusioni costituisce elemento costitutivo, funzionale
alla esigenza, squisitamente pubblicistica, di uno svolgimento celere ed ordinato del processo;
con la conseguenza che il rispetto delle preclusioni non può essere lasciato alla disponibilità
delle parti ma deve essere assicurato in ogni caso dal controllo del giudice, il quale quindi ha il
potere-dovere di rilevare la tardività delle deduzioni di parte anche d’ufficio.
2) Il potere del pretore di disporre d’ufficio la prova testimoniale.
La novella del 1990 non ha introdotto alcuna modifica in materia di mezzi di prova disponibili
d’ufficio, i quali continuano ad essere i medesimi previsti nel sistema anteriore.
In ordine a tali mezzi di prova si pone però, in seguito alla riforma, un problema non sussistente
– nell’ambito del rito ordinario – nel sistema precedente, cioè quello del raccordo tra la possibilità
della disposizione ufficiosa di tali mezzi di prova e la esistenza di un sistema di preclusioni
istruttorie per le parti; problema che può così sintetizzarsi: i poteri istruttori del giudice sono
soggetti alle stesse preclusioni a cui sono soggetti i poteri istruttori delle parti? se no, quali sono i
poteri di risposta delle parti all’esercizio dell’iniziativa istruttoria ufficiosa?
La prima questione è generalmente risolta in senso negativo, ritenendosi che l’uso dei poteri
istruttori d’ufficio non è subordinato alle decadenze previste per le deduzioni istruttorie delle parti
(PROTO PISANI, TARZIA, RAMPAZZI); è stato anzi sottolineato come l’esigenza del ricorso
d’ufficio a mezzi istruttori può sorgere in ogni momento del processo e talora sorge necessariamente
dopo l’assunzione delle prove proposte dalle parti (si pensi alla prova testimoniale di riferimento, o
al giuramento suppletorio, deferibile soltanto ad istruzione chiusa).
Potrebbe peraltro sostenersi che, in mancanza di una disciplina generale dei poteri istruttori
d’ufficio nel rito ordinario, la questione dell’esistenza di un termine per il relativo esercizio da parte
del giudice dovrebbe essere affrontata distintamente per ciascuno dei mezzi istruttori disponibili
d’ufficio.
In tale prospettiva è necessario considerare più da vicino i limiti del potere assegnato al pretore
(e al giudice di pace) dall’art. 312, nuovo testo, c.p.c., il quale riproduce senza modifiche il testo del
primo comma del previgente art. 317 c.p.c..
Al riguardo va innanzi tutto osservato che tale potere – che certamente è soggetto, a differenza
che nel rito del lavoro, ai limiti dettati dal codice civile in materia di prova testimoniale – può essere
esercitato solo in relazione a fatti esposti dalle parti e solo chiamando a deporre persone a cui le
parti abbiano fatto riferimento. È quindi da escludere qualunque iniziativa ufficiosa ad explorandum
e qualunque utilizzazione di scienza privata del giudice (DITTRICH), in quanto il potere ufficioso
in parola patisce il duplice limite della allegazione dei fatti ad opera delle parti e del riferimento,
pure ad opera delle parti, alle persone da chiamare a deporre (disponibilità del “mezzo” ma non
della “fonte” di prova).
Il limite della allegazione esclude quindi, tra l’altro, che il potere in parola sia esercitabile per
fornire la prova di fatti non allegati e la cui esistenza appaia dal materiale legittimamante acquisito
in causa. Al riguardo è stato rilevato che, nel sistema anteriore alla novella, l’art. 317 si correlava
strettamente all’art. 316, il quale prevedeva il potere del pretore di indicare “in ogni tempo” alle
parti le lacune che ravvisava nell’istruzione; tale disposizione è stata abrogata e non sostituita nel
sistema novellato, nel quale quindi è venuto meno quel potere di “suggerimento istruttorio
permanente” che il previgente sistema attribuiva al pretore; potere ora rifluito nel generale potere di
richiesta di chiarimenti e di indicazione delle questioni rilevabili d’ufficio, di cui al terzo comma
dell’art. 183, esercitabile da parte di ogni giudice (non solo dal pretore) nel limite temporale della
prima udienza di trattazione.
Così chiariti i limiti del potere di disposizione ufficiosa della prova testimoniale da parte del
pretore, posso tornare al tema del termine entro cui tale potere è esercitabile: parte della dottrina –
facendo leva sul rilievo che nell’art. 312 manca l’inciso “in qualsiasi momento”, contenuto invece
nell’art. 421 secondo comma c.p.c. – ha sostenuto che il pretore non può disporre d’ufficio la prova
testimoniale, ex art. 312 c.p.c., oltre la udienza fissata per la formulazione definitiva delle richieste
istruttorie delle parti (VACCARELLA-CAPPONI-CECCHELLA, CONSOLO-LUISO-SASSANI).
Tale tesi presenta l’indubbio vantaggio di evitare in radice il rischio che l’esercizio del potere
istruttorio ufficioso del pretore alteri l’equilibrio delle parti, provocando gli effetti di una illecita
rimessione in termini della parte negligente; essa tuttavia pare difficile da sostenere, sia per la
mancanza di una previsione espressa in tal senso nell’art. 312 c.p.c. (e più in generale nell’art. 184
c.p.c.), sia perché la ratio della norma sembra chiaramente volta a conferire al pretore (e al giudice
di pace) una funzione di assistenza delle parti (così DITTRICH, che pone il limite all’esercizio del
potere di cui all’art. 312 nel passaggio in decisione della causa).
Quanto alla reazione delle parti all’esercizio dei poteri ufficiosi del giudice in materia
istruttoria, viene in rilievo la disposizione dettata dal terzo comma dell’art. 184, a mente del quale
“Nel caso in cui vengano disposti d’ufficio mezzi di prova, ciascuna parte può dedurre, entro un
termine perentorio assegnato dal giudice, i mezzi di prova che si rendono necessari in relazione ai
primi”.
È stato osservato che la norma in questione, formulata in termini tali da evitare i dubbi che
sorsero nel rito del lavoro in ordine all’art. 421 secondo comma, garantisce il diritto di difesa di
fronte all’esercizio dei poteri ufficiosi (TARZIA).
Dei diversi profili interpretativi su cui si sono maggiormente soffermati i primi commentatori
della novella il più interessante, ai fini della nostra riflessione sull’art. 312 c.p.c., mi sembra quello
relativo ad uno specifico profilo di ammissibilità a cui sono soggetti i mezzi di prova di cui
all’ultimo comma dell’art. 184 c.p.c., cioè il profilo della loro necessarietà in relazione ai mezzi di
prova disposti dal giudice. Tale nesso di necessarietà credo vada inteso in senso rigoroso,
affermando cioè che le parti sono facoltizzate a chiedere solo i mezzi di prova tendenti a fornire la
prova contraria, diretta o indiretta, dei fatti ammessi a prova dal giudice (conformi TARZIA e
PROTO PISANI); è peraltro prospettabile una diversa e più larga interpretrazione del nesso di
necessarietà, secondo cui le parti potrebbero, a mente dell’ultimo comma dell’art. 184, chiedere
tardivamente di provare fatti – diversi da quelli ammessi a prova dal giudice e non con questi
incompatibili – la cui rilevanza emerga dalla dimostrazione in giudizio dei fatti costituenti oggetto
della prova d’ufficio. Per quanto specificamente concerne la disposizione di cui all’art. 312, è da
rilevare che – pur quando si accogliesse la nozione di necessarietà più ampia tra le due ora
tratteggiate – il potere della parte di dedurre mezzi di prova a seguito della disposizione d’ufficio
della prova testimoniale da parte del pretore dovrebbe comunque ritenersi soggetto al limite della
allegazione; nel senso che, anche ammettendo che le parti possano essere ammesse a provare
tardivamente fatti diversi da quelli formanti oggetto della prova d’ufficio, con questi non
incompatibili, dovrebbe però escludersi che tali fatti possano non rientrare tra i fatti allegati; non
foss’altro che per la considerazione che anche la prova testimoniale disposta dal giudice può vertere,
come sopra precisato, solo su fatti ritualmente allegati.
Resta infine da chiedersi se il potere di disposizione d’ufficio della prova testimoniale sia o
meno esercitabile in relazione a fatti che la parte sia stata ammessa a provare e dalla assunzione
della cui prova sia poi decaduta.
Al riguardo, faccio in primo luogo presente che il regime della decadenza dal diritto di far
assumere le prove è stato ampiamente rimaneggiato dalla riforma del '90. Infatti il nuovo testo
dell’art. 208 si differenzia dal precedente perché, da un lato, non detta alcuna espressa disciplina per
l’ipotesi della diserzione bilaterale dell’udienza istruttoria, e, dall’altro, prevede che, se non
compare la parte ad istanza della quale doveva essere iniziata o proseguita la prova, il giudice la
dichiara decaduta dal diritto di farla assumere, salvo che l’altra parte presente non ne richieda
l’assunzione.
Per la prima ipotesi deve quindi trovare applicazione l’art. 309 che, richiamando l’art. 181,
prevede il rinvio ad altra udienza e, in caso di diserzione anche della nuova udienza, la
cancellazione della causa dal ruolo (riterrei peraltro che nella ordinanza di cancellazione della causa
dal ruolo sia implicita la declaratoria di decadenza delle parti dal diritto di far assumere la prova,
con la conseguenza che tale diritto non risorga nel caso di riassunzione della causa). Per la seconda
ipotesi, viene introdotto un regime – opposto a quello anteriore – di rilevabilità d’ufficio della
decadenza della parte non comparsa, salva la possibilità (derivante dal principio di acquisizione
processuale) che l’altra parte non chieda l’assunzione della prova stessa.
Aggiungo, per quanto particolarmente concerne la prova testimoniale, che la modifica del
regime di rilevabilità della decadenza ex art. 208 c.p.c. non può non riflettersi sull’interpretrazione
dell’art. 104 disp. att. c.p.c. (non toccato dalla riforma), che prevede che il giudice dichiari decaduta
dalla prova per testi la parte che non abbia fatto chiamare testimoni davanti al giudice stesso. Tale
disposizione nel sistema previgente veniva generalmente interpretata, in mancanza di una
indicazione normativa espressa, nel senso che la declaratoria di decadenza ivi contemplata potesse
essere pronunciata dal giudice solo su istanza della controparte, per identità di ratio con l’art. 208
c.p.c.; nel nuovo regime mi pare che proprio tale identità di ratio imporrà la soluzione contraria.
Alla luce delle innovazioni introdotte dalla novella sul regime di rilevabilità della decadenza
della parte dal diritto di far assumere la prova, mi pare si debba allora rispondere al quesito sopra
prospettato in ordine all’estensione del potere istruttorio del pretore ex art. 312 nuovo testo c.p.c.
escludendo che tale potere possa essere esercitato disponendo d’ufficio la prova testimoniale su
circostanze formanti oggetto di una prova già dedotta e ammessa su istanza di una parte che sia
successivamente decaduta dal diritto di farla assumere; così peraltro confermando, a fortiori, la
giurisprudenza già formatasi in relazione al vecchio art. 317 c.p.c. (Cass. 26-3-64 n.678); conforme
la dottrina che si è pronunciata sul punto (VACCARELLA-CAPPONI-CECCHELLA, CONSOLOLUISO-SASSANI).
Sul rito applicabile quando si debbano riunire due cause introdotte l’una prima e l’altra dopo il
30-4-95.
La problematicità della riunione di cause alcune delle quali già pendenti alla data del 30-4-95 ed
altre introdotte successivamente a tale data sorge dalla scelta compiuta dal d.l. 121 del 21-4-95
(successivamente reiterato fino al d.l. 432/95, convertito con la legge 534/95) di mantenere le cause
già pendenti alla data del 30-4-95 soggette alla disciplina procedurale previgente; scelta –
esattamente opposta rispetto a quella originaria della legge 353/93 – in conseguenza della quale per
molti anni nel nostro ordinamento continueranno a convivere due riti civili ordinari.
La questione che si pone è quindi quella di stabilire quale rito sia applicabile quando si debbano
riunire una causa “vecchia” ed una “nuova”.
Al riguardo va sottolineato che il problema della scelta del rito da applicare, in ragione dei
differenti tempi di instaurazione dei procedimenti, si può porre in tutti i casi di cumulo successivo,
cioè sia nell’ipotesi, disciplinata dai primi due commi dell’art. 40 c.p.c. di cause connesse proposte
davanti a giudici diversi, sia nell’ipotesi, disciplinata dall’art. 274 c.p.c., di cause connesse proposte
dinanzi allo stesso giudice; mentre non si pone nel caso di cumulo originario, quando cioè le cause
vengano proposte fin dall’inizio in un unico procedimento, perché in tal caso il momento della
pendenza della lite, e quindi il rito applicabile all’intero procedimento, è comunque unico.
Venendo allora al tema del cumulo successivo, si osserva che il problema della scelta del rito
sorge solo dopo il superamento del problema della competenza, cioè solo quando in concreto risulti
possibile il cumulo di diverse cause in un unico procedimento perché tutte tali cause rientrino nella
competenza di un ufficio giudiziario, si tratti di competenza originaria oppure di competenza
prorogata in forza delle disposizioni di cui agli artt. 31/36 c.p.c.
Prima che l’art. 5 della legge 353/90 aggiungesse al testo originario dell’art. 40 c.p.c. i commi
terzo, quarto e quinto, non esisteva un criterio normativo di individuazione del rito applicabile ad un
procedimento in cui fossero cumulate cause soggette a riti diversi; e per tale ragione si riteneva
generalmente che la difformità di rito costituisse ostacolo insormontabile alla realizzazione del
processo simultaneo.
L’art. 5 della 353/90 ha quindi opportunamente disciplinato la materia, dettando un meccanismo
di coordinamento tra riti diversi espressamente destinato a regolare il cumulo di cause, originario o
successivo, nelle ipotesi di cui agli artt. 31 (accessorietà), 32 (garanzia), 34 (pregiudizialità), 35
(compensazione) e 36 (riconvenzione) del codice di rito.
Conviene allora soffermarsi, in primo luogo, sulla esatta identificazione del campo di
applicazione di questa disciplina.
Come risulta con chiarezza dal richiamo normativo contenuto all’inizio del terzo comma
dell’art. 40 c.p.c., la nuova disciplina di coordinamento del rito si applica non a qualunque ipotesi di
connessione in senso generico, ma alle sole ipotesi di connessione qualificata prevista dagli artt.
31/36 c.p.c., peraltro con l’esclusione della connessione ex art. 33 c.p.c..
Il legislatore ha quindi limitato la derogabilità del rito alle sole ipotesi in cui il legame di
connessione tra cause sia tale da implicare, in caso di decisioni separate, il rischio di un conflitto, e
non di una mera disarmonia, tra giudicati (connessione forte, o per subordinazione, o per
pregiudizialità dipendenza, secondo le diverse terminologie e classificazioni proposte dalla dottrina;
mentre ha lasciato che nei casi di connessione per mera coordinazione (tipicamente quelli previsti
dagli artt. 33 c.p.c., proposizione in un unico giudizio di domande contro più persone connesse per
l’oggetto o per il titolo, e 104 c.p.c., cumulo di domande non connesse oggettivamente nei confronti
della stessa persona), l’eventuale soggezione a riti diversi delle cause connesse impedisca il
processo simultaneo.
Peraltro è discusso se il richiamo ad un elenco di singole figure di connessione, contenuto
all’inizio del nuovo terzo comma dell’art. 40 c.p.c., vada inteso tassativamente o secondo criteri di
interpretrazione sistematica.
Si è infatti rilevato che non tutte le figure di connessione elencate nel suddetto richiamo
costituiscono ipotesi di connessione “forte”, posto che il riferimento indiscriminato all’art. 36 c.p.c.
copre anche ipotesi di connessione per coordinazione; la domanda riconvenzionale può infatti essere
legata a quella principale sia da un rapporto di connessione per pregiudizialità dipendenza, sia da un
rapporto di connessione per mera coordinazione.
Per contro sembra indubbio che la disciplina introdotta dai commi terzo quarto e quinto dell’art.
40 c.p.c. sia applicabile anche all’ipotesi della continenza (della quale la giurisprudenza fornisce
una nozione assai ampia, ricomprendente anche le ipotesi di domande contrapposte nascenti da un
unico rapporto sostanziale), pur se l’art. 39 non è tra quelli richiamati dal terzo comma dell’art. 40
c.p.c..
Le opinioni espresse al riguardo dalla dottrina sono molto diversificate, andandosi da
orientamenti restrittivi, che escludono l’operatività delle norme sul coordinamento del rito nel caso
di riconvenzionale fondata sul titolo dedotto quale mezzo di eccezione e nel caso di garanzia
impropria (GIUSSANI), ad orientamenti estensivi, che affermano l’applicabilità delle nuove norme
ogniqualvolta sussista una obbiettiva esigenza di coordinamento dei rapporti sul piano sostanziale, e
quindi ad esempio, sebbene l’art. 33 c.p.c. non venga richiamato dal terzo comma dell’art. 40, anche
in alcune ipotesi di cumulo soggettivo (garanzia impropria, litisconsorzio unitario; tra gli altri,
MERLIN).
Così sommariamente tratteggiato l’ambito di applicazione della disciplina dettata dai nuovi
commi terzo, quarto e quinto dell’art. 40 c.p.c., con le alternative ermeneutiche che sussistono in
ordine all’estensione di tale ambito, si deve ora innanzitutto valutare se detta disciplina sia
utilizzabile per la soluzione del problema del coordinamento tra cause soggette al vecchio rito e
cause soggette al nuovo rito.
Potrebbe infatti dubitarsi della utilizzabilità della disciplina contenuta nel nuovo articolo 40
c.p.c. per risolvere il problema del coordinamento tra vecchio e nuovo rito, per il rilievo che tanto il
vecchio quanto il nuovo rito devono essere considerati riti ordinari, cosicché il tema del loro
coordinamento esula dalla previsione dei commi terzo/quinto dell’art. 40 c.p.c., i quali si occupano
dei rapporti tra rito ordinario e rito speciale o tra riti speciali fra di loro. Necessaria conseguenza di
tale impostazione sarebbe allora la pura e semplice esclusione della possibilità della riunione di
cause che, per essere state proposte alcune prima ed altre dopo il 30-4-95, siano soggette a riti
(ordinari) diversi; infatti, come sopra accennato, non esistono fuori dell’art. 40 c.p.c. norme che
prevedano la deroga del rito per ragioni di connessione e, d’altra parte, le stesse norme di cui ai
commi terzo/quinto dell’art. 40 c.p.c. dovrebbero essere ritenute insuscettibili di interpretazione
analogica, data la natura eccezionale delle previsioni di modificazione del rito.
A mio avviso peraltro una così radicale conclusione non potrebbe condividersi.
Se infatti è vero che la natura eccezionale delle previsioni di deroga al rito impone grande
cautela nelle interpretazioni estensive delle stesse, non va tuttavia sottovalutata la portata
sistematica della modifica dell’art. 40 c.p.c. recata dalla legge 353/90; se per talune ipotesi di
connessione l’ordinamento consente la realizzazione del simultaneus processus pur in deroga (non
solo alla competenza ma anche) al rito, quando la diversità di riti discenda da diversità di materia, e
quindi si connetta a differenziate esigenze di tutela, mi sembrerebbe contrastante con la ratio del
nuovo testo dell’art. 40 escludere, per le medesime ipotesi di connessione, la possibilità del
simultaneus processus quando la diversità di riti applicabili alle diverse cause connesse discenda
semplicemente dalla differente epoca di introduzione delle stesse.
Riterrei quindi che la riunione di cause che siano soggette, ratione temporis, a riti diversi sia
preclusa al di fuori delle ipotesi di connessione richiamate dal terzo comma dell’art. 40 c.p.c., per
mancanza di una norma che autorizzi la deroga al rito, ma debba invece ammettersi per le ipotesi di
connessione contemplate da tali casi.
In concreto peraltro mi pare preferibile fissare il discrimine tra i casi di possibilità e quelli di
impossibilità di riunione di cause vecchie con cause nuove riferendosi non all’elenco degli articoli
del codice richiamati dal terzo comma dell’art. 40 c.p.c. ma alla idoneità/inidoneità del legame di
connessione esistente tra le cause a determinare il rischio conflitto di giudicati.
Tale opzione – favorevole, ai fini della individuazione dei casi di possibilità di realizzazione del
processo simultaneo su cause vecchie e nuove, ad una interpretazione di tipo sistematico, piuttosto
che letterale, del nuovo terzo comma dell’articolo 40 c.p.c. – discende non tanto da considerazioni
inserite nel generale dibattito, cui sopra ho fatto cenno, relativo all’ambito di operatività dei nuovi
commi terzo/quinto dell’art. 40 c.p.c., quanto proprio dalla specificità della questione del rapporto
tra rito vecchio e rito nuovo rispetto al tema del rapporto tra rito ordinario e riti speciali.
Specificità che appare con evidenza se ad esempio si considera la irrilevanza, ai fini del
rapporto tra cause soggette al rito vecchio e cause soggette al rito nuovo, del richiamo all’art. 36
c.p.c. (la domanda riconvenzionale si inserisce direttamente nel processo instaurato con la
proposizione della domanda principale, cosicché il momento della pendenza della lite, a cui
ancorare il rito da applicare al processo, resta solo quello della proposizione della domanda
principale); e per contro, sempre per esempio, alla rilevanza del nesso di connessione (o continenza)
esistente tra due domande contrapposte e incompatibili (annullamento del contratto contro
adempimento delle obbligazioni derivanti dallo stesso) che, qualora vengano proposte ciascuna in
un autonomo processo e non in un unico processo, una come principale e l’altra come
riconvenzionale, esulerebbero dalla previsione dell’art. 36 c.p.c..
In definitiva riterrei quindi di escludere la possibilità di riunione tra cause vecchie e nuove
quando il nesso di connessione tra le stesse non implichi il rischio di un conflitto di giudicati (si
pensi all’ipotesi, tipicamente riconducibile allo schema della connessione per coordinazione, della
identità di fatto costitutivo da cui sorgano più rapporti intercorrenti tra soggetti diversi, come nel
caso di più danneggiati in un sinistro stradale che agiscano contro il medesimo danneggiante);
ammettendo invece tale possibilità nei casi di connessione per pregiudizialità dipendenza, si tratti di
pregiudizialità logica (la quale descrive la relazione sussistente tra un singolo effetto giuridico e il
rapporto obbligatorio complesso o il diritto reale su cui l’effetto si fonda) o pregiudizialità tecnica
(la quale comprende le ipotesi in cui un diritto o un rapporto giuridico costituisce parte della
fattispecie costituitiva, o impeditiva o modificativa o estintiva, di un altro diritto o rapporto).
Così definito l’ambito di realizzabilità del simultaneus processus tra cause introdotte prima del
30-4-95 e cause introdotte dopo tale data, resta da stabilire quale debba essere il rito da applicare,
essendo da escludere che riti diversi possano convivere nello stesso processo.
Al riguardo si osserva che – nell’assenza di indicazioni normative – le opzioni interpretative
possibili sono quelle di ritenere applicabile il quarto oppure il quinto comma dell’art. 40 c.p.c..
A mio avviso la scelta dell’applicazione del quarto comma è difficilmente sostenibile, giacché
mi sembra che non esista alcun criterio per affermare che uno dei due riti, quello vecchio o quello
nuovo, possa considerarsi ordinario rispetto all’altro.
Mi pare quindi in definitiva inevitabile fondarsi sull’applicazione analogica del quinto comma e
quindi applicare al processo il rito previsto per la causa in ragione della quale viene determinata la
competenza o, in subordine, quello previsto per la causa di maggior valore.
Sul punto è però necessaria qualche precisazione.
In relazione all’interpretazione del quarto comma dell’art. 40 c.p.c. ci si è infatti chiesti se la
prevalenza del rito della causa in ragione della quale è stata determinata la competenza valga solo
nei casi in cui in concreto una delle due cause sia stata trasferita in applicazione delle norme dettata
dagli artt. 31/36 c.p.c., dal giudice originariamente competente al giudice dell’altra; o viceversa
operi anche come criterio astratto, idoneo a determinare il rito applicabile al processo anche nel caso
in cui non vi sia stata alcuna translatio iudicii, rientrando le due cause nella competenza originaria
dello stesso giudice.
Al riguardo sono state prospettate sia la tesi che si deve aver riguardo alla vis attractiva astratta
e potenziale di una causa sull’altra (TARZIA), sia la opposta tesi secondo cui nell’ipotesi di cause
originariamente rientranti nella competenza dello stesso giudice opera sempre il criterio del maggior
valore (VERDE, COSTANTINO e altri); sia la tesi intermedia secondo cui nella suddetta ipotesi si
deve applicare il rito della causa principale nei casi di connessione per accessorietà e garanzia (casi
nei quali, a mente degli artt. 31 e 32 c.p.c., opera una vis attractiva unidirezionale a favore della
causa principale, suscettibile quindi di applicazione anche in astratto) e il rito della causa di maggior
valore nelle ipotesi di cui agli artt. 34, 35 e 36 c.p.c..
La recezione di quest’ultima tesi condurrebbe, in relazione allo specifico tema del rapporto tra
vecchio e nuovo rito, ad applicare al processo in cui vengano riunite una causa proposta prima del
30-4-95 ed una proposta dopo tale data, connesse per pregiudizialità dipendenza, logica o tecnica, il
rito della causa di maggior valore, fuori che nelle ipotesi di accessorietà o garanzia propria, nelle
quali ultime il rito applicabile sarebbe invece quello della causa principale.
Sul trasferimento del giudizio di opposizione decreto ingiuntivo per ragioni di connessione.
1) Lo stato della questione.
La questione della possibilità per il pretore – investito, in sede di opposizione a d.i., di una
domanda riconvenzionale dell’opponente eccedente la sua competenza per valore – di trasferire
l’intera lite al tribunale, secondo il meccanismo di cui all’art. 36 c.p.c., rientra, costituendone uno
dei risvolti maggiormente ricorrenti nella pratica, nel più generale tema della
possibilità/impossibilità di realizzare la trattazione simultanea tra giudizio di opposizione a d.i. e
giudizio sulla domanda connessa o continente rientrante nella competenza di altro giudice.
Su tale tema si è acceso negli ultimi anni un forte contrasto giurisprudenziale che, nonostante
l’intervento delle Sezioni Unite, non ha tuttora trovato una sua definitiva composizione.
L’indirizzo tradizionalmente prevalente escludeva infatti per il giudice dell’opposizione a d.i. di
spogliarsi della causa di opposizione per ragioni di connessione (sia che questa si presentasse nei
termini ampi e generici di cui all’art. 40 c.p.c., sia che si trattasse delle speciali ipotesi di
connessione previste dagli artt. 34, 35 e 36 c.p.c.) o di continenza (fosse la situazione di continenza
preesistente o successiva all’emanazione del decreto); vedi, ex plurimis, Cass. 1958/86, Cass.
6139/86, Cass. 9582/87 Cass. 5554/89, Cass. 9624/90.
Secondo tale indirizzo, quindi, ove il debitore proponesse una domanda riconvenzionale (o
di accertamento incidentale, o un’eccezione di compensazione) eccedente la competenza per
valore del giudice dell’opposizione, quest’ultimo doveva rimettere al giudice competente la
domanda riconvenzionale (o quella di accertamento incidentale, o la controversia sul credito
opposto in compensazione) e decidere la causa di opposizione, salvo sospenderla ex art. 295
c.p.c. in attesa della definizione della causa pregiudiziale; analogamente, ove si rilevasse che la
causa introdotta in via monitoria era contenuta in altra rientrante nella competenza di un
giudice diverso da quello dell’opposizione, quest’ultimo doveva, se successivamente adito,
annullare il decreto e, se preventivamente adito, sospendere il giudizio di opposizione in attesa
della definizione della causa continente.
Tale impostazione peraltro implicava notevoli inconvenienti pratici, sia in ordine alla posizione
del debitore ingiunto, che era costretto a subire la sospensione ex art. 295 c.p.c. del processo di
opposizione – in attesa della definizione della causa pregiudiziale (o continente proposta dopo la
notifica del decreto) – patendo intanto la provvisoria esecuzione del decreto, eventualmente
concessa ex art. 642 o ex art. 648 c.p.c.; sia in ordine alla posizione del creditore, che era esposto
alla declaratoria di nullità di un decreto ingiuntivo, pur ritualmente ottenuto, qualora tale decreto
fosse stato notificato al debitore dopo la instaurazione, da parte del debitore stesso, di una causa
continente (c.d. azione in prevenzione del debitore).
Il rilievo di tali inconvenienti – dei quali si è anche sostenuto in dottrina (PROTO PISANI,
SBARAGLIO, DALMOTTO) l’incidenza sul diritto di difesa costituzionalmente garantito
(incidenza peraltro esclusa dalla Corte Costituzionale, che ha negato, con l’Ordinanza 26-6-91
n. 308, il contrasto della disciplina in esame con l’art. 24 Cost., affermando che il simultaneus
processus costituisce un mero “espediente processuale mirato ai fini di economia di giudizi e di
prevenzione del pericolo di eventuali giudicati contraddittori, onde la sua inattuabilità non
riguarda né il diritto di azione né il diritto di difesa”) – ha favorito un ripensamento
giurisprudenziale dell’indirizzo tradizionale; ripensamento che si è manifestato con Cass.
3653/91, Cass. 9427/91, Cass. 12633/91, Cass. 6298/92, le quali hanno affermato il principio,
antitetico rispetto a quello tradizionale, secondo cui la competenza del giudice dell’opposizione
a decreto ingiuntivo è modificabile per ragioni di connessione, cosicché il giudice
dell’opposizione che sia investito di una domanda riconvenzionale eccedente la sua
competenza deve rimettere al giudice superiore l’intera controversia.
Con le sentenze 10984 e 10985 dell’8-10-92 la Cassazione riaffermava però, a Sezioni Unite, il
più risalente orientamento, ribadendo che il giudice dell’opposizione a decreto ingiuntivo è dotato di
competenza funzionale, non derogabile (nemmeno) per ragioni di connessione. Tali pronunce – che
raccoglievano in dottrina netti dissensi (PROTO PISANI, DALMOTTO), ma anche aperti
apprezzamenti (CAVALLINI, GIUSSANI) – non chiudevano però la vicenda giurisprudenziale.
Ancor prima della entrata in vigore del testo novellato dell’art. 38 c.p.c., entrata in vigore a cui la
dottrina aveva affidato la residua prospettiva di un riesame della questione a livello di legittimità, la
Terza Sezione della Cassazione, con un ulteriore e approfondito riesame del problema, riaffermava
il principio secondo cui il giudice della opposizione a d.i., investito dal debitore di una domanda
riconvenzionale eccedente la sua competenza, deve trasferire l’intera controversia al giudice
superiore (Cass. 6531/93 dell’11-6-93).
Dopo tale pronuncia, peraltro, numerose sententenze delle sezioni semplici della Cassazione si
sono uniformate ai principi esposti dalle sezioni unite (tra le più recenti, Cass. 16-5-95 n. 5385,
Cass. 11-10-95 n. 10594).
All’esito della sintetica esposizione del contrasto giurisprudenziale ora illustrato, è necessario
svolgere qualche considerazione sui termini della questione che si dibatte, particolarmente allo
scopo di verificare se, come da più parti ipotizzato, detti termini debbano ritenersi modificati in
relazione al mutamento del regime della rilevabilità della incompetenza, introdotto dal nuovo testo
dell’art. 38 c.p.c..
Si deve innanzi tutto rilevare che l’indirizzo interpretrativo riaffermato dalle Sezioni Unite si
fonda sui seguenti passaggi: il giudizio di opposizione è un giudizio di impugnazione; la
competenza del giudice dell’impugnazione ha carattere funzionale; le competenze funzionali non
possono subire né deroghe convenzionali né modifiche per ragioni di connessione.
Il ragionamento delle Sezioni Unite si risolve quindi in definitiva nel seguente sillogismo: il
giudice dell’opposizione a d.i. è dotato di competenza funzionale; la competenza funzionale non è
modificabile per ragioni di connessione; la competenza del giudice dell’opposione a d.i. non è
modificabile per ragioni di connessione.
È allora evidente che la conclusione del sillogismo è destinata a cadere ove venga meno anche
una sola delle due premesse; la critica della tesi secondo cui la competenza del giudice
dell’opposizione a d.i. non è derogabile per ragioni di connessione può quindi svolgersi secondo due
alternativi percorsi argomentativi: A) negare che il giudice dell’opposizione a d.i. sia titolare di una
competenza funzionale, ovvero B) negare che la competenza funzionale sia non derogabile per
ragioni di connessione.
2) La negazione della competenza funzionale del giudice dell’opposizione a d.i..
Le sentenze con cui la Cassazione ha affermato la derogabilità della competenza del giudice
dell’opposizione hanno seguito la prima alternativa.
Infatti in Cass. 3653/91 e in Cass. 6298/92 si valorizza il carattere di giudizio di primo grado
del giudizio di opposizione, sottolineando:
a) da un lato (particolarmente in Cass. 6298/92), che l’opposizione a decreto ingiuntivo non
introduce una domanda (in ordine alla quale si possa quindi porre un problema di competenza) né
una impugnazione, ma introduce (al pari della comparsa di risposta nel giudizio ordinario) una
semplice contestazione; cosicché l’art. 645 primo comma non contiene una norma attributiva di
competenza, non essendo la competenza del giudice dell’opposizione in nulla diversa dalla
competenza del giudice dell’ingiunzione;
b) d’altro lato (in Cass. 3653/91) che non è utilizzabile la nozione di competenza funzionale a
proposito del giudice dell’opposizione a d.i., se non attribuendo a tale espressione il limitato
significato di “potere giurisdizionale di far proseguire il giudizio virtualmente instaurato col
ricorso”; si legge infatti in tale sentenza che “la funzione del giudice dell’opposizione è proprio
quella di definire il giudizio, rientrato nell’alveo del giudizio ordinario, nei consueti modi, senza che
debba obbligatoriamente pervenire ad una decisione definitiva di merito e potendo anche, come
ogni altro giudice, declinare la propria competenza, vuoi per ragioni preesistenti all’instaurazione
della lite (e che coinvolgano la competenza del giudice dell’ingiunzione), vuoi per ragioni
sopravvenute”.
Entrambi tali filoni argomentativi confluiscono poi in Cass. 6531/93 (redatta dallo stesso
estensore di Cass. 3653/91), che è successiva alle pronunce delle Sezioni Unite e si fa carico di
contraddirle, ribadendo i seguenti argomenti:
I) L’art. 645 c.p.c. non è norma attributiva di competenza; rileva infatti la sentenza che –
poiché ai sensi dell’art. 643, terzo comma, c.p.c., la notifica del ricorso e del decreto “determina la
pendenza della lite” – deve affermarsi che al momento di tale notifica c’è già una domanda (quella
proposta in via monitoria) su cui non si è ancora avuta una decisione (pende la lite); decisione che
dovrà essere emanata dallo stesso giudice (inteso come ufficio giudiziario) che ha emesso il decreto;
se allora il giudice dell’opposizione è lo stesso che ha emesso il decreto, è evidente che la sua
competenza è la stessa competenza del giudice che ha emesso il decreto: e quindi il giudice
dell’opposizione che dichiari l’incompetenza del giudice dell’ingiunzione non fa che dichiarare
l’incompetenza, ora per allora, dell’ufficio a cui appartiene.
II) Corentemente con la impostazione enunciata sub I) il giudizio di opposizione a d.i. non può
qualificarsi come giudizio di impugnazione (al riguardo la sentenza sottolinea la mancata menzione
di tale giudizio nell’art. 323 c.p.c. e il fatto che la relativa disciplina non è contenuta nel libro
secondo, titolo terzo, ma nel libro quarto del codice di rito).
III) Non è comunque utilizzabile, riguardo al giudizio di opposizione a d.i., la nozione di
competenza funzionale. Prendendo evidentemente atto delle critiche che la nozione di competenza
funzionale utilizzata in Cass. 3653/91 – sopra sintetizzata sub b) – aveva sollevato da parte delle
dalle Sezioni Unite (che avevano rilevato che tale nozione divergeva completamente da quella
elaborata dalla dottrina processualistica, aggiungendo che “l’attribuzione di una diversa accezione
ad una parola o ad una espressione comunemente intesa con altro significato non risolve in alcun
modo il problema che la parola o l’espressione ponevano”; analoga osservazione in MONTANARI)
Cass. 6531/93 abbandona la prudenza che aveva indotto Cass. 3653/91 a non rompere con la
terminologia tradizionale e sviluppa una critica radicale della stessa nozione di competenza
funzionale, affermando che tale nozione, mai usata dal codice, confonde il concetto di funzione con
quello, nettamente distinto, di competenza.
In Cass. 6531/93 si afferma che la nozione di funzione-intesa come sfera d’azione di un giudice
– è sottesa a tutte le norme di procedura ed è alla base del principio per cui una parte che voglia
dedurre una prova o chiedere la fissazione di una udienza di precisazione delle conclusioni deve
rivolgersi al giudice istruttore della causa e non al Giudice Istruttore di un’altra causa o al Presidente
del Tribunale, senza che ciò implichi questioni di competenza. Egualmente, poiché il procedimento
di ingiunzione è un procedimento speciale e l’opposizione non è un giudizio di impugnazione, il
rapporto tra i due giudici (appartenenti allo stesso ufficio) non è di competenza ma solo di diversità
di funzione (pacificamente inderogabile); consegue, ad avviso della sentenza in esame, che l’ufficio
giudiziario che ha emesso il decreto è l’unico legittimato a ricevere la citazione in opposizione, non
perché titolare di una competenza ma perché è l’ufficio dinanzi al quale è stata instaurata la lite
(come qualunque giudice di primo grado adito con citazione è l’unico legittimato a ricevere la
comparsa di risposta); con la conclusione che “non è la funzione esercitata dal giudice
dell’opposizione (quella che le Sezioni Unite chiamano “competenza funzionale”) a precludergli
una pronuncia dichiarativa della propria incompetenza, bensì è la sua incompetenza (per valore) a
precludergli l’esercizio della funzione di giudice (del merito) in quella causa di primo grado (a tale
sua incompetenza per il merito residua la sola ed unica competenza a dichiararla, secondo il
principio che ciascun giudice è giudice della propria competenza)”; essendo la competenza il
presupposto dell’esercizio della funzione e viceversa.
È opportuno sottolineare alcuni profili problematici che sono rilevabili nell’indirizzo
giurisprudenziale ora riportato.
In primo luogo è necessario spendere qualche parola – senza peraltro poter svolgere alcun
approfondimento – sulla nozione di competenza funzionale, nozione saldamente posta dalle Sezioni
Unite alla base delle proprie decisioni.
Nella categoria della competenza funzionale, elaborata per primo da CHIOVENDA, rientrano
ipotesi eterogenee, riconducibili sostanzialmente a due gruppi: di competenza funzionale si parla
infatti sia a proposito del riparto di funzioni necessarie nel medesimo processo, affidate a giudici
diversi o anche allo stesso giudice (competenza per gradi, competenza per le impugnazioni davanti
allo stesso giudice, competenza per le fasi – cautelare, di cognizione, di esecuzione – ulteriori del
procedimento), sia a proposito della attribuzione ad un ufficio giudiziario della competenza per
territorio in ragione della maggior efficacia con cui una certa funzione giurisdizionale può essere
svolta in un determinato luogo (attribuzione che conseguentemente deve ritenersi inderogabile
anche in mancanza di una previsione legale al riguardo).
Tale categoria dogmatica, tutta concettuale (il codice non parla mai di competenza funzionale),
fu elaborata in un’epoca in cui non esisteva alcuna previsione normativa espressa di competenze
territoriali inderogabili (previsione ora contenuta nell’art. 28 c.p.c., che ha recepito, così però
delimitandone la portata applicativa, l’intuizione chiovendiana della inderogabilità di taluni tipi di
competenza per territorio); cosicché dalla presenza nel sistema vigente dell’art. 28 c.p.c., peraltro
insuscettibile di interpretazione analogica, si è desunta la inattualità teorica di tale categoria, se non
limitatamente all’ambito delle competenze per grado (RASCIO); o comunque l’inutilità pratica
della stessa, se non con riguardo alla individuazione del giudice dell’impugnazione (PROTO
PISANI).
È quindi evidente come sia oggi altamente problematica la utilizzabilità della nozione di
competenza funzionale e come quindi appaia malcerta una costruzione giurisprudenziale che, come
quella delle sentenze in discorso delle Sezioni Unite, su tale nozione si basi.
Il secondo profilo problematico su cui vorrei soffermarmi concerne quello che a me sembra il
punto di maggior impegno teorico della motivazione di Cass. 6531/93, cioè la netta qualificazione
della citazione in opposizione come atto contenente una mera contestazione (e quindi né una
domanda, né una impugnazione), con la consequenziale ricostruzione del giudizio di opposizione
come mero giudizio di primo grado e la, altrettanto consequenziale, affermazione che la norma
contenuta nell’art. 645 c.p.c. non è norma attributiva di competenza.
Al riguardo – e senza alcuna pretesa di affrontare compiutamente i nodi teorici ora segnalati –
mi sembra però necessario sottolineare che la tesi secondo cui fase monitoria e fase di opposizione
costituiscono segmenti di un unico procedimento – cosicché l’opposizione sarebbe un mero atto di
impulso tendente all’attuazione del contraddittorio nell’ambito di un processo pendente fin dalla
notifica del decreto al debitore – è rifiutata dalla prevalente dottrina.
Tra le molteplici ricostruzioni dottrinarie del giudizio di opposizione a d.i. raccoglie infatti i
maggiori consensi quella che (sulla scorta del rilievo che la mancata proposizione dell’opposizione
non determina l’estinzione del giudizio ex art. 307 c.p.c., ma la definitività del decreto) configura
detto giudizio come giudizio di impugnazione (GARBAGNATI).
Devo peraltro aggiungere – per dare sintenticamente conto delle possibili opzioni dottrinarie
sull’argomento – che è teoricamente possibile negare all’art. 645 c.p.c. il contenuto di norma
attributiva di competenza, pur in un quadro ricostruttivo in cui sia riconosciuta la qualità tra fase
monitoria e fase di opposizione: in tale prospettiva, la necessaria proposizione dell’opposizione
davanti al giudice che ha emesso il decreto, prevista da detto articolo, si atteggerebbe come
condizione di ammissibilità dell’opposizione stessa (ANDRIOLI). A questa impostazione è stato
obbiettato (GARBAGNATI) che, così opinando, il giudice dell’opposizione, che fosse incompetente
per il merito, non potrebbe nemmeno dichiarare la nullità del decreto per incompetenza del giudice
che lo ha emesso, non potendosi scindere la pronuncia di nullità del decreto dalla pronuncia di
accoglimento dell’opposizione (con la conseguenza che, pur dopo la declaratoria di incompetenza
dell’ufficio che ha emesso il decreto, si dovrebbe attendere, per la caducazione del decreto stesso, la
conclusione del giudizio riassunto davanti al giudice competente). Sul punto è stato peraltro
replicato da PROTO PISANI che la tesi di GARBAGNATI non tiene conto della natura ibrida del
giudizio di opposizione, che non può qualificarsi unicamente come giudizio di impugnazione ma “è
ad un tempo e giudizio di impugnazione, avente ad oggetto il controllo circa l’esistenza dei
presupposti generali e speciali di ammissibilità del decreto ingiuntivo e giudizio di primo grado
avente ad oggetto il credito fatto valere col ricorso di cui all’art. 638”. Tesi a cui è stato però
ulteriormente opposto (MONTANARI), che, anche ammettendo che il giudizio di opposizione
abbia un contenuto duplice, non potrebbe negarsi che, nella sua parte concernente il controllo di
legittimità del decreto, esso abbia i caratteri del gravame rescindente, con la conseguenza che una
revoca del decreto per motivi di rito non potrebbe non essere intesa come una pronuncia
sull’opposizione (cioè sulla domanda di impugnazione in essa racchiusa); con la conseguenza che se
ad emanare tale pronuncia debba essere indefettibilmente il giudice indicato nell’art. 645 c.p.c., non
può disconoscersi a questo articolo il contenuto di norma attributiva di competenza, almeno con
riguardo alla parte impugnatoria dell’opposizione (tesi che tale ultimo Autore correda con l’ulteriore
affermazione della impossibilità di scindere, pena il rischio di insanabili contrasti tra giudicati, il
giudizio sulla legittimità del decreto dal giudizio sul rapporto sostanziale).
Chiudo sull’argomento limitandomi a rilevare che non mi pare vi siano difficoltà insormontabili
– né teoriche, né pratiche (la provvisoria esecuzione eventualmente concessa ex art. 642 c.p.c. può
comunque essere sospesa ex art. 649 c.p.c.) – ad ipotizzare che il decreto emesso da giudice
incompetente venga revocato, per tale suo vizio, dal giudice competente per il merito al quale la
causa sia stata rimessa dopo la proposizione dell’opposizione.
3) La negazione del carattere inderogabile della competenza funzionale.
L’altro percorso argomentativo che, come accennato alla fine del punto 1), può essere seguito
per affermare la possibilità per il giudice dell’opposizione di spogliarsi della lite per ragioni di
connessione o continenza prescinde dalla natura del giudizio di opposizione e, dando per scontato
che l’art. 645 c.p.c. attribuisca al giudice dell’opposizione a d.i. una competenza funzionale, si
fonda sulla affermazione che in seguito alla modifica del regime della rilevabilità dell’incompetenza
introdotta dal nuovo testo dell’art. 38 c.p.c. nessuna forma di competenza, nemmeno funzionale
(con la sola eccezione della competenza per grado), è sottratta alle modifiche per ragioni di
connessione.
I passaggi logici di tale impostazione sono questi: a) nel nuovo testo dell’art. 38 c.p.c.
l’incompetenza per materia e quella per territorio inderogabile, precedentemente rilevabili d’ufficio
in ogni stato e grado del procedimento, e l’incompetenza per valore, precedentemente rilevabile
d’ufficio entro il giudizio di primo grado, vengono assoggettate ad un medesimo regime di
rilevabilità, costituivo dalla rilevabilità d’ufficio entro la prima udienza di trattazione; cade quindi la
distinzione tra criteri forti (materia e territorio inderogabile) e criteri deboli (valore) di competenza
inderogabile; b) tale innovazione sistematica fa venir meno il sostegno normativo alla tradizionale
lettura degli artt. 34-36 c.p.c., secondo la quale le competenze per materia e territorio inderogabile
(competenze “forti”), non sono, a differenza della competenza per valore (competenza “debole”)
modificabili per ragioni di connessione; anche le competenze per territorio inderogabile e per
materia devono quindi ritenersi modificabili per ragioni di connessione; ciò impone di
riconsidereare il tradizionale assunto della inderogabilità assoluta della competenza funzionale; c) a
tal fine è necessario distinguere, nell’ambito di tale ultima categoria, le diverse ipotesi in essa
ricomprese: le competenze funzionali di cui all’art. 28 c.p.c. dovrebbero ora ritenersi certamente
modificabili per ragioni di connessione; la competenza per grado, a cagione della sua peculiarità,
dovrebbe ritenersi tuttora insensibile alla connessione; al di fuori della competenza per grado non
sarebbero più individuabili forme di competenza assolutamente inderogabile – tale non essendo, in
particolare, nemmeno la competenza per le impugnazioni davanti allo stesso giudice – perché, con
la modifica dell’art. 38 c.p.c., quest’ultimo non rappresenterebbe più un referente normativo alla cui
stregua sostenere che l’ordinamento accoglie e disciplina criteri di competenza assolutamente
insuscettibili di deroga (SBARAGLIO; sul tema anche VULLO e PROTO PISANI); d)
conseguentemente, mentre le esigenze di certezza presidiate dall’art. 645 c.p.c. impongono che la
opposizione a d.i. sia indefettibilmente proposta dinanzi al giudice che ha emesso il decreto, nulla
impedisce che tale giudice correttamente investito della causa di opposizione, se ne spogli (non
essendo titolare di una competenza per grado) nel successivo corso del giudizio, a favore del giudice
competente per ragioni di continenza o connessione.
Per introdurre una riflessione sulla prospettiva ricostruttiva ora esposta mi pare necessario
innanzi tutto sottolineare come questa – pur ponendosi su un piano completamente diverso rispetto
a quello su cui si è svolto l’indirizzo giurisprudenziale espresso da Cass. 3653/91, Cass. 6298/92 e
Cass. 6531/93 (sebbene la revisione svalutativa della categoria di competenza funzionale sia
presente anche, come si è visto, in Cass. 6531/93) – non può tuttavia ritenersi impregiudicata dalla
replica che a tale indirizzo è stata fornita dalle Sezioni Unite, posto che uno dei cardini della
sentenza 10984/92 è rappresentato proprio dall’affermazione che la competenza del giudice
dell’impugnazione è sempre (quindi anche quando non si tratti di competenza per grado)
inderogabile.
Le Sezioni Unite hanno quindi, nell’esercizio della loro funzione nomofilattica, sbarrato
preventivamente la strada a possibili tentativi giurisprudenziali di affermare la trasferibilità della
causa di opposizione al giudice della causa connessa o continente in base alla modifica dell’art. 38
c.p.c., sganciando (sia pure implicitamente) il regime della competenza funzionale del giudice
dell’impugnazione dal regime della competenza per materia e territorio e quindi rendendo
insensibile il primo alle possibili ricadute di detta modifica sul secondo.
Ne consegue che la riapertura in giurisprudenza del dibattito sulla possibilità di trasferire ad
altro giudice la causa di opposizione a d.i. dovrà comunque passare – pur quando a tale risultato si
pervenga non attraverso la negazione della qualificazione del giudizio di opposizione come giudizio
(almeno in parte) impugnatorio, ma attraverso l’affermazione della non assolutà immodificabilità
della competenza del giudice dell’impugnazione (che non sia per grado) – da una nuova pronuncia
delle Sezioni Unite.
Ciò premesso, dò conto di due critiche che sono state mosse (da MONTANARI) alla tesi in
esame.
Da un lato, si è giudicato arbitrario individuare il referente normativo del regime della
competenza per la impugnazione davanti allo stesso giudice nel regime della competenza per
materia o territorio ex art. 28 c.p.c., piuttosto che nel regime della competenza per grado.
D’altro lato, si è affermato che è contraddittorio ritenere applicabile al giudizio di opposizione
gli spostamenti di competenza ex art. 34-36 e 39, secondo comma, c.p.c. – sul presupposto che tale
giudizio sia governato da una regola di competenza funzionale non (più) assolutamente inderogabile
– e non ammettere che tale giudizio possa ab origine essere introdotto davanti ad un giudice diverso
da quello che ha emesso il decreto, che sia competente per attrazione. Secondo tale critica, infatti, o
si ritiene che l’art. 645 non contenga una norma attributiva di competenza, ma ponga una
condizione di ammissibilità della domanda, e allora la modifica dell’art. 38 c.p.c. risulta del tutto
ininfluente sulla questione; o si ritiene che l’art. 645 ponga una norma attributiva di competenza
funzionale (non più assolutamente inderogabile), e allora il riferimento alla modifica dell’art. 38
c.p.c. diviene rilevante ma non si può disconoscere la possibilità di esperire la opposizione a decreto
direttamente al giudice competente a conoscere della domanda continente o connessa; non
potendosi, insomma, attribuire all’art. 645 il duplice significato di norma attributiva della
competenza a statuire sul merito della domanda e di norma istitutiva di un requisito di ammissibilità
della domanda stessa.
Di tali rilievi ritengo debba tener conto una indagine interpretativa che cerchi nel nuovo testo
dell’art. 38 c.p.c. l’avvio per un ripensamento del regime degli spostamenti di competenza per
ragione di continenza e connessione.
PRINCIPALI PROBLEMI RELATIVI ALLA
PRIMA UDIENZA DI COMPARIZIONE (art. 180 c.p.c.)
Relatore:
dott. Luciano GERARDIS
presidente di sezione del Tribunale di Reggio Calabria
Premessa.
La presente relazione trae spunto da una serie di incontri tra magistrati addetti al settore civile
del distretto di Reggio Calabria.
Sono grato agli organizzatori per la straordinaria opportunità, che mi viene offerta, di
confrontare le soluzioni giurisprudenziali adottate in tale distretto con quelle di altre sedi
giudiziarie.
Mi atterrò scrupolosamente a quanto richiestomi, in relazione sia al “taglio”, concreto e tutt’
altro che teorico, sia alla durata del mio intervento (spero non superiore ai 15 minuti programmati),
sia ai quesiti formulatimi, che analizzerò partitamente, accorpando quelli per cui appare opportuna
una trattazione congiunta.
1) Residua un margine di applicazione per l’art. 168 bis c.p.c., relativo alla facoltà di differimento
della prima udienza?
L’art. 168-bis, quinto comma, c.p.c. consente al Giudice Istruttore di differire, con decreto da
emettere entro cinque giorni dalla presentazione del fascicolo, la data della prima udienza fino ad un
massimo di quarantacinque giorni.
Tale decreto non necessita di motivazione (art. 135, quarto comma, c.p.c.), ed ovviamente non è
impugnabile né reclamabile, attenendo soltanto alla migliore distribuzione del lavoro.
La norma in esame non è stata abrogata, pur dopo l’entrata in vigore del nuovo articolo 180
c.p.c., che ha determinato la separazione tra l’udienza di prima comparizione e la prima udienza di
trattazione della causa.
Non potrebbe neppure ravvisarsi alcuna abrogazione tacita, non sussistendo contrasto con altre
norme di rito (TRISORIO LIUZZI, La comparsa di risposta e la costituzione del convenuto, ritiene
invece incompatibile il differimento della prima udienza di comparizione da parte del Giudice
Istruttore con la nuova struttura iniziale del processo di cognizione).
Suscita perplessità, inoltre, la tesi secondo la quale l’art. 168 bis quinto comma c.p.c. sarebbe
inapplicabile al giudizio dinanzi al pretore od al giudice di pace, per l’espressa previsione dell’art.
57, secondo comma, disp. att. c.p.c., per la quale “se nell’udienza di comparizione non possono
essere sentite le parti il pretore o il giudice di pace dà atto nel processo verbale della loro
comparizione e rimanda la causa all’udienza successiva”: si è detto che il rinvio previsto da
quest’ultima norma “sembra assorbire ogni altra ipotesi di differimento dell’udienza” dinanzi a quei
magistrati (BARTOLINI, Nuovo codice di procedura civile, sub art. 168 bis c.p.c. n. 4, ultimo
capoverso); ma appare più convincente la tesi che la finalità delle due norme è assolutamente
diversa, attenendo la prima ad una migliore organizzazione preventiva dell’ufficio del giudicante e
la seconda soltanto alla necessità di non sopprimere l’interrogatorio libero delle parti, una volta che
esse, già comparse, non possano essere sentite. Non si vede, quindi, la ragione per ritenere
incompatibile con l’art. 57 disp. att. citato la nuova norma in esame.
È pur vero, però, che l’introduzione di un’udienza di prima comparizione, destinata esclusivamente
ad alcune verifiche preliminari in ordine alla regolare costituzione delle parti, all’integrità del
contraddittorio ed all’inesistenza di vizi dell’atto di citazione, riduce di molto la portata pratica
dell’articolo 168 bis nella parte che qui interessa, dal momento che consente al giudice, all’udienza di cui
all’art. 180 c.p.c., di distribuire al meglio le cause per l’effettiva trattazione, in relazione alla propria
agenda di lavoro. Non va tuttavia trascurato che, ove dovessero affermarsi interpretazioni (di cui meglio
si dirà nei successivi paragrafi) “elastiche” dell’art. 180 c.p.c., intese a consentire l’accorpamento in tale
udienza anche delle attività previste per altre fasi processuali, riemergerebbe, con ogni evidenza, tutta
l’utilità del differimento di cui all’art. 168 bis, cui già peraltro i magistrati del circondario di Palmi, tra
quelli del distretto di Reggio Calabria, fanno ampio, se non sistematico ricorso.
Residua il problema se, una volta differita l’udienza di prima comparizione, il termine per
comparire di cui all’art 163 bis c.p.c. debba essere computato con riferimento all’udienza fissata con
l’atto introduttivo del giudizio ovvero alla nuova udienza differita. Pur non mancando autorevoli
commentatori che opinano per quest’ultima soluzione (LAZZARO-GURRIERI-D’AVINO,
L’esordio del nuovo processo civile, p. 48), appare preferibile la prima tesi, consolidata sotto la
vigenza del “vecchio” codice. L’art. 70 bis disp. att. c.p.c. dispone espressamente, per il caso di
spostamento d’ufficio della prima udienza dovuto al fatto che il Giudice Istruttore designato non
tenga udienza nel giorno fissato per la comparizione delle parti con l’atto introduttivo del giudizio,
che “i termini di comparizione, stabiliti dall’art. 163 bis c.p.c., debbano essere osservati in
relazione all’udienza fissata nell’atto di citazione”. La norma ha una sua ratio che ricorre anche
nel caso in esame: facendo il convenuto esclusivo riferimento, per valutare la ritualità della
notificazione dell’atto introduttivo del giudizio, alla data di comparizione fissata in tale atto, ben
potrebbe egli non costituirsi confidando nel vizio d’instaurazione del processo, una volta verificato
il mancato rispetto dei termini di cui all’art. 163 bis c.p.c.. Sarebbe del tutto incongruo, pertanto,
che l’eventuale nullità dell’atto di citazione (art. 164 c.p.c.) fosse sanata col differimento della
prima udienza di comparizione ex art. 168 bis quinto comma c.p.c.; tanto più che un tale decreto del
Giudice Istruttore non va comunicato alla parte non costituita (e dunque al convenuto che abbia
fatto affidamento sulla nullità dell’atto introduttivo del giudizio).
Argomento in contrario non può trarsi, infine, dalla soppressione dell’ultimo inciso del ripetuto
art. 168 bis ultimo comma c.p.c. (“Restano salve le decadenze riferite alla data di udienza fissata
nella citazione”), che con ogni evidenza faceva riferimento a decadenze processuali che nulla hanno
a che vedere con la nullità dell’atto di citazione ex art. 164 c.p.c., per come è reso manifesto anche
dalla contestuale integrazione dell’art. 166 c.p.c., che prevede la possibilità per il convenuto di
costituirsi tempestivamente anche “almeno 20 giorni prima dell’udienza fissata a norma dell’art.
168 bis c.p.c.”.
2) Il termine perentorio per la proposizione delle eccezioni processuali e di merito deve darsi ex
art. 180 c.p.c., comma secondo, anche al convenuto contumace?
2.1) Si può rinunciare al termine perentorio per la proposizione delle eccezioni processuali e di
merito da parte del convenuto costituito?
2.2) Alla prima udienza di comparizione deve comunque fissarsi una data successiva per la
prima udienza di trattazione o le parti possono rinunciarvi?
3) Restano in vigore gli artt. 59, 62 e 80 bis disp. att. c.p.c.?
La c.d. “novella della novella” ha così riformulato il secondo comma dell’art. 180 c.p.c.: “La
trattazione della causa davanti al giudice istruttore è orale. Se richiesto, il Giudice Istruttore può
autorizzare comunicazioni di comparse a norma dell’ultimo comma dell’art. 170. In ogni caso fissa
a data successiva la prima udienza di trattazione, assegnando al convenuto un termine perentorio
non inferiore a venti giorni prima di tale udienza per proporre le eccezioni processuali e di merito
che non siano rilevabili d’ufficio”.
Le maggiori questioni interpretative sono state poste ovviamente dall’ultimo periodo, attesa la
perentorietà dell’espressione “in ogni caso”.
Vi è chi (tra questi, BALENA, Ancora interventi urgenti sulla riforma del processo civile)
ritiene necessario, una volta esauriti gli adempimenti di cui al primo comma del medesimo articolo
180, rinviare comunque la causa ad una udienza successiva: “Ove non si vogliano imboccare strade
interpretative contra legem, deve ritenersi esclusa la possibilità di intraprendere l’attività di
trattazione vera e propria della causa già nell’udienza di comparizione”; dunque, nell’udienza di
prima comparizione, “non potrà mai aver luogo la rimessione al collegio, neppure quando la causa
dovesse essere già matura per la decisione. Vero è infatti che l’art. 80 bis disp. att. c.p.c. non è stato
espressamente abrogato; ma è pur vero che esso, nella nuova realtà normativa, rimarrà praticamente
inapplicabile (al di fuori (..) della remota ipotesi in cui le parti, entrambe costituite, dovessero
chiedere concordemente l’immediata decisione) poiché (...) non è pensabile che la causa passi in
decisione prima che sia finanche iniziata la sua trattazione, tenuto conto che tale attività concorre a
determinare compiutamente l’oggetto stesso della causa, con possibili riflessi anche sulle questioni,
preliminari o pregiudiziali, sollevabili in limine iudicii” (conformemente, D’ASCOLA – La
“nuova” prima udienza, con particolare riferimento agli incombenti del Giudice Istruttore – trae
argomento, per escludere che possa essere omessa l’apposita udienza di trattazione, dall’art. 184
c.p.c., il quale “prevede l’applicazione dell’art. 187 solo prima dell’ammissione dei mezzi di
prova”).
E nella giurisprudenza esaminata del distretto di Reggio Calabria si segnalano alcune ordinanze
(ad esempio, Pretura di Palmi) che, proprio in considerazione del tenore letterale dell’art. 180
secondo comma c.p.c. (“In ogni caso..”), ritengono necessario disporre il rinvio ex art. 180 c.p.c.,
oltre che nell’ipotesi che il convenuto sia rimasto contumace, anche in quella in cui tutti gli
eventuali convenuti si siano costituiti ed abbiano concordemente rinunziato al termine di cui a tale
norma .
Vi è, all’opposto, chi (tra i più autorevoli, TARZIA, La prima udienza non ostacola il rito, in Il
Sole 24 Ore, 13 febbraio 1996, pag. 22), osserva che una lettura contestuale del secondo comma
dell’art. 180 c.p.c. impone di collegare l’espressione “in ogni caso” al precedente periodo “se
richiesto, il giudice può autorizzare comunicazioni di comparse”: “vi sia o non vi sia questa
richiesta, sia essa accolta o respinta, in ogni caso deve fissarsi la prima udienza di trattazione”.
Inoltre, “il differimento della prima udienza di trattazione è espressamente collegato
all’assegnazione al convenuto di un termine perentorio, anteriore alla nuova udienza, per proporre le
sue eccezioni processuali e di merito. Il rinvio è dunque finalizzato a questa attività difensiva del
convenuto, e non ha alcuna ragione di essere disposto se il convenuto rinunci al termine e chieda
che la causa sia immediatamente trattata o sia rimessa in decisione”. Poiché, dunque, questo termine
è funzionale “al completamento di un’attività difensiva già svolta”, “il convenuto contumace decade
(...) dal potere di chiedere il termine di cui si discorre”.
Analogamente, alcune decisioni dei giudici di merito affermano che, essendo ius receptum che
il convenuto che si costituisca tardivamente è tenuto ad accettare il processo nello stato in cui si
trova, salvo che sussistano i presupposti della sua rimessione in termini, “l’attenuazione del sistema
delle preclusioni (operata dal nuovo testo degli artt. 167 e 180 c.p.c.) non va confusa con una sorta
di indiscriminata licenza di costituzione tardiva che contrasterebbe in modo stridente con gli
obblighi imposti dagli artt. 166 e 167 e con l’esplicita previsione dell’art. 170 c.p.c.”; cosicché “non
appare ragionevole ritenere che la causa debba essere necessariamente rinviata, contro l’espressa
volontà dell’attore costituito per consentire al convenuto una costituzione che non potrebbe essere
che tardiva”, anche perché altrimenti “si premierebbe la tattica dilatoria del convenuto che sarebbe
indotto a costituirsi l’ultimo giorno utile traendo profitto dall’allungamento dei tempi processuali in
tal modo artatamente ottenuto in evidente contrasto con la stessa volontà del legislatore il quale ha
inteso attenuare il tanto temuto sistema delle preclusioni e non certo favorire astuzie processuali a
meri fini dilatori” (Tribunale di Bari, ordinanza 26 settembre 1995, Virgilio contro Racanelli).
Non mancano posizioni intermedie, che tendono a conciliare il rigido tenore letterale del
ripetuto art. 180 secondo comma c.p.c. ed i principi che ispirano il processo civile (primo tra tutti, il
principio dispositivo), distinguendo l’ipotesi del convenuto contumace da quella del convenuto
costituito rinunziante.
Nel primo caso, si sottolinea (CAPPONI, Prima udienza di comparizione e prima udienza di
trattazione: Preclusioni di merito ed istruttorie) come “il convenuto – che ha l’onere di conoscere il
codice di procedura civile ed il diritto di avvalersi di ogni spazio di difesa che gli sia riconosciuto
per legge – sa che nella comparsa di risposta deve proporre, a pena di decadenza, le eventuali
domande riconvenzionali e di chiamata del terzo (oltre che le specifiche eccezioni previste da
disposizioni diverse dall’art. 167 c.p.c.) e che la proposizione di eccezioni processuali e di merito
non rilevabili d’ufficio può tranquillamente essere riservata alla memoria da depositarsi venti giorni
prima dell’udienza ex art. 183 c.p.c. che in ogni caso il giudice deve fissare”. Egli quindi, se non
intende proporre domande riconvenzionali, ben può rimanere contumace all’udienza di prima
comparizione, riservandosi di scoprire le proprie difese in prosieguo, non potendo essere privato di
un potere che la legge espressamente gli attribuisce.
Militano, a sostegno di tale tesi, le seguenti considerazioni ulteriori: 1) il secondo comma
dell’art. 180 c.p.c. prevede l’assegnazione del termine “al convenuto”, non distinguendo tra
convenuto costituito e convenuto contumace; 2) da nulla si evince che le eccezioni di cui si discorre
debbano essere “integrative” di precedenti difese; 3) la norma in esame non attribuisce un potere
processuale che necessiti di un precostituito ius postulandi, ma concede a priori un termine per
l’espletamento di talune attività difensive; 4) la soluzione opposta comporterebbe un regime
differenziato, che non è nella legge, tra convenuto costituito e convenuto contumace: mentre il
primo potrebbe proporre tutte le eccezioni processuali e di merito non rilevabili d’ufficio nel
termine concesso ai sensi dell’art. 180 secondo comma c.p.c., il secondo decadrebbe da tale facoltà
sin dalla prima udienza di comparizione; e non è superfluo ricordare che invece il rinovellato art.
167 c.p.c. ha previsto, per la mancata costituzione tempestiva, soltanto la decadenza dalle domande
riconvenzionali (e al più, secondo la tesi maggioritaria, dalla chiamata del terzo).
In conclusione, non sembra che il Giudice Istruttore possa privare il convenuto contumace di un
termine sul quale questi abbia fatto preventivo e legittimo affidamento.
Nel caso di contumacia del convenuto (o anche di uno solo dei convenuti), va dunque
sempre fissata a data successiva la prima udienza di trattazione con la concessione del termine
di cui all’art. 180 c.p.c..
Diverso è il caso in cui tutti i convenuti siano costituiti e tutti rinunzino al termine per le
ulteriori eccezioni. Una volta assodato che tale rinunzia è meramente processuale, e può pertanto
essere validamente fatta dal difensore (arg. ex art. 84 c.p.c.), non sussistendo ragioni di ordine
pubblico che vi si oppongano, il principio dispositivo impone che di essa si prenda atto. Ove non
ostino, pertanto, altre ragioni processuali e l’attore aderisca, il giudice potrà senz’altro dare corso
alla trattazione della causa nella stessa udienza di comparizione. E, se nessun’altra attività sarà
necessaria, la causa potrà ben essere rimessa in decisione. Si pensi, ad esempio, a cause seriali,
come quelle, assai frequenti al momento al Tribunale di Reggio Calabria, aventi ad oggetto la
tenutezza di alcune società al pagamento di tasse per concessioni governative; ovvero, come pure è
capitato allo scrivente, ad una causa per risarcimento danni da sinistro stradale in cui sia ictu oculi
fondata l’eccezione, già tempestivamente proposta dal convenuto con la comparsa di risposta, di
incompetenza per valore. In tali ipotesi, in cui o non sia necessaria alcuna attività istruttoria
trattandosi di questioni di “puro diritto”, ovvero un’eccezione preliminare sia manifestamente
fondata, nulla impedisce al giudice, in presenza di una espressa rinunzia al termine di cui all’art.
180 da parte del convenuto costituito (o dei convenuti che siano tutti costituiti) e dell’adesione
dell’attore (o degli attori), di applicare la norma di cui all’art. 80 bis disp. att. c.p.c., definendo
rapidamente il giudizio.
Solo addivenendo a tale soluzione sembra conciliabile la rigorosa scansione codicistica delle
varie fasi processuali con la comune esigenza di tutte le parti di una pronta soluzione della vertenza,
specialmente ove questa appaia di facile definizione.
Conforta tale conclusione la considerazione che il sistema oggi vigente appare, per così dire,
intermedio tra il rito del lavoro ed il vecchio rito ordinario, nel senso che sono attenuati i principi di
carattere pubblico che ispirano il rito del lavoro e, nel contempo, sussistono preclusioni e decadenze
ben più incisive del vecchio rito ordinario. Si potrebbe forse dire, in una battuta e con tutta
l’approssimazione del caso, che il rito del lavoro è incentrato sul giudice, il vecchio rito ordinario
sulle parti private, mentre l’attuale sistema necessita di una costante collaborazione tra giudice e
parti, in un equilibrio tra poteri e doveri affidato al leale rispetto dei reciproci ruoli. In tale contesto,
non sembra che il potere dispositivo delle parti possa essere inibito, ove non ricorrano precise
esigenze d’ordine pubblico, non certo indiscriminatamente ravvisabili a priori nella disposizione
dell’art. 180 secondo comma c.p.c..
Conclusivamente: se il convenuto costituito (o i convenuti, che siano tutti costituiti)
rinunzia(no) al termine di cui al secondo comma dell’art. 180 c.p.c., l’attore aderisca e
null’altro osti alla immediata trattazione della causa, il giudice potrà persino all’udienza di
prima comparizione rimettere la causa in decisione, nel rispetto, ovviamente, dei necessari
adempimenti di rito.
L’art. 80 bis, dunque, mantiene il suo vigore, non essendo stato abrogato espressamente, e non
sussistendo un contrasto insanabile con il nuovo sistema processuale, che ne faccia ritenere
l’abrogazione tacita.
Alla stessa conclusione si deve pervenire per quanto attiene all’art. 59 disp. att. c.p.c., che
integra la norma di cui all’art. 171 terzo comma c.p.c. in ordine alla dichiarazione di contumacia
alla prima udienza. Va in proposito evidenziato che in tale udienza possono essere adottati
provvedimenti diversi da quelli elencati dall’art. 180 c.p.c., specialmente se, come nel caso, riferiti
alla prima udienza da specifiche disposizioni di legge. (Sulla adottabilità anche di altri
provvedimenti, cfr. Maria ACIERNO, I primi mesi di applicazione del nuovo rito civile).
In altri termini: mentre il giudice è tenuto a compiere tutte le verifiche previste dall’art. 180
c.p.c. (ovviamente allo stato degli atti, ben potendo, ad esempio, sorgere solo successivamente
l’esigenza di integrare il contraddittorio), nulla esclude che anche altri provvedimenti vengano
pronunciati, come la dichiarazione di contumacia espressamente prevista in prima udienza dall’art.
171 terzo comma, c.p.c.. Il legislatore ha voluto un accertamento preliminare sulla regolarità
dell’instaurazione del processo, non anche uno svuotamento della prima udienza di comparizione:
chè anzi del tutto opposte erano state le sollecitazioni rivoltegli (tra esse, la risoluzione del 18
maggio 1988 del C.S.M.: “Ciò che conta veramente (..) (è) che il processo (..) sia posto in
condizioni di non partire col “piede sbagliato” di una udienza di mero rinvio che è intrinsecamente
diseducativa”).
Deve dunque concludersi che in tale udienza va ancora dichiarata la contumacia, con le
modalità di cui all’art. 59 disp. att. c.p.c..
Quanto, infine, all’art. 62 disp. att. c.p.c., poiché il programma prevede per il pomeriggio una
relazione esclusivamente dedicata all’esame della fase decisoria del procedimento pretorile, ci si
limita in questa sede a ricordare soltanto, con autorevoli commentatori (CARRATO, Lineamenti
generali del processo civile pretorile novellato, BARTOLINI, op. cit.), che tale disposizione deve
essere ormai coordinata con le norme di cui agli artt. 314, 315 e 320 c.p.c.: solo in questi termini, e
nei limiti in cui è compatibile con i citati articoli, mantiene ancora un residuo vigore.
4) Alla prima udienza di comparizione ex art. 180 c.p.c. possono essere richiesti e concessi:
A) Provvedimento cautelare ex art. 669 quater;
B) Provvisoria esecuzione del decreto ingiuntivo ex art. 648 c.p.c.;
C) Sospensione della provvisoria esecuzione ex art. 649 c.p.c.?
I superiori quesiti nascono dalla nuova formulazione dell’art. 180 c.p.c. che, come si è visto,
non elenca i provvedimenti che precedono tra quelli adottabili alla prima udienza di comparizione.
Ci si è dunque chiesti se i citati provvedimenti, la cui disciplina non esclude affatto l’adottabilità in
tale udienza, possano essere subito pronunciati o debbano essere riservati ad un momento
successivo.
È evidente che chi ritiene che l’elencazione del citato art. 180 c.p.c. sia tassativa nega
l’adottabilità di tali provvedimenti, che dovrebbero sempre essere preceduti almeno dal
completamento di tutte le difese delle parti.
Così, in giurisprudenza, vi è chi (Tribunale di Bari, ordinanza 18-10-1995, Pastore contro
Leasing Levante), considerato che “sia le finalità, cui è preposta l’udienza di prima comparizione,
sia la tecnica legislativa prescelta, estrinsecantesi nella tassativa elencazione delle questioni da
verificare (N.B.: la frase in neretto non è del provvedimento in esame), ostano alla introduzione e
trattazione di una questione del tutto autonoma”, ritiene che la valutazione discrezionale del giudice,
nella delibazione dell’istanza ex art. 648 c.p.c., presuppone che “l’opposto abbia completato le sue
difese e che siano stati espletati il libero interrogatorio delle parti ed il tentativo di conciliazione”.
Altri si soffermano sulla natura dei provvedimenti richiesti. In particolare vi è chi (Pretura di
Reggio Calabria, ordinanza del 1° marzo 1996) distingue tra provvedimento cautelare (tra cui
rientra la sospensione dell’esecuzione provvisoria del decreto ingiuntivo) senz’altro adottabile, e
provvedimento ex art. 648 c.p.c., che, non avendo tale natura, non può essere emesso prima della
definitiva determinazione del thema decidendum, dal momento che: a) “nella composizione tra i
contrapposti interessi – ad una sollecita pronunzia, da un lato, e ad una pronunzia il più aderente
possibile a quello che sarà il risultato finale – si ritiene di dover attribuire prevalenza alla “stabilità”
del provvedimento, con sacrificio della sua tempestiva emissione”; b) “il pericolo di un lungo
differimento della disamina della richiesta di parte creditrice, per quanto non infondato, è pur
sempre rimesso all’uso discrezionale dei poteri di direzione ed organizzazione di cui il giudice
dispone; sarà così possibile “smascherare” poco commendevoli intenti dilatori con rinvii
temporalmente contenuti e con la concessione di termini anche assai brevi per lo scambio delle
memorie di precisazione del thema disputandum”.
Pur senza affrontare, in questa sede, la delicata questione della natura del provvedimento ex art.
648 c.p.c., che viene talvolta considerato cautelare (cfr. Corte Cost. ord. 25.5.1989 n. 295; Cass. 26
gennaio 1988 n. 675; Cass. 10 luglio 1990 n. 7200; Cass. 2 marzo 1990 n. 1645), non si può
condividere la soluzione giurisprudenziale appena prospettata.
Si comprendono le ragioni di giustizia sostanziale che possono suggerire di privilegiare,
sull’esigenza del creditore ad un più rapido soddisfacimento del proprio credito, la maggiore
aderenza possibile tra il provvedimento concessivo dell’esecuzione provvisoria e la sentenza di
merito.
Queste ragioni, però, non sono nella legge: nessuna norma, infatti, richiede tale probabile
aderenza, trattandosi piuttosto di una delibazione allo stato degli atti. Non diversa era l’esigenza
codicistica anteriormente alla novella: anche prima, infatti, l’esecuzione provvisoria del decreto
ingiuntivo restava svincolata dalla completezza del thema decidendum, che anzi veniva definito
soltanto dopo l’istruzione della causa, con la precisazione delle conclusioni.
Non sembra che su tale sistema abbia inciso né la novella del 1990 né la c.d. “novella della novella”
del 1995, che, sotto il profilo che qui occupa, si sono limitate soltanto ad anticipare la definizione del
thema decidendum rispetto all’attività istruttoria. Come nel passato, infatti, il debitore opponente – quale
che sia la soluzione che si intende dare al problema, che in seguito sarà affrontato, della sua qualità di
attore o di convenuto – potrà modificare le sue difese anche dopo la delibazione dell’istanza ex art. 648
c.p.c.. Ma egli avrà l’onere, se intende evitare la provvisoria esecuzione del decreto, di scoprire subito le
sue carte, offrendo fin dalla prima udienza di comparizione prova scritta a conforto dei propri assunti o
dimostrandone altrimenti la palese fondatezza.
Insomma, giudizio ordinario e sub-procedimento incidentale (termine con cui si vuol fare qui
riferimento al procedimento instaurato sia con la richiesta di provvisoria esecuzione del decreto
ingiuntivo sia con l’istanza cautelare ex art. 669 quater sia con la richiesta ex art. 649 c.p.c. sia
ancora con le istanza ex art. 186 bis e ter c.p.c.) sono del tutto distinti ed autonomi. Le facoltà
processuali che ciascuna parte ha nel primo non possono in alcun modo condizionare ne
l’instaurazione nè la definizione del sub-procedimento incidentale, che altrimenti risulterebbe,
spesso, privato della sua stessa funzione urgente e/o anticipatoria.
In altri termini, la proponibilità di ulteriori difese e di mezzi istruttori ben oltre la prima udienza
di comparizione non può ostare all’ammissibilità in tale udienza del sub-procedimento incidentale
la cui tempestiva definizione è spesso necessaria al raggiungimento del suo scopo.
Una volta esclusa, poi, la tassatività dell’elencazione di cui all’art. 180 c.p.c., non si vede
perché dovrebbe negarsi la proponibilità, alla stessa prima udienza di comparizione, delle istanze in
esame, la cui delibazione non richiede affatto la preventiva trattazione della causa di merito. Ciò è
pacifico per le richieste ex art. 648 e 649 c.p.c., che costituiscono piuttosto un’appendice della fase
monitoria che un “incidente” della fase di merito (in tal senso LAZZARO-GURRIERI-D’AVINO,
op. cit., pag. 243; cfr. anche Cass. 14-9-1993 n. 9512; Cass. 8-2-1992 n. 1410; Cass. 28-11-1989 n.
5185). Ma è altrettanto evidente per le domande cautelari od anticipatorie sopra richiamate che
richiedono soltanto una valutazione del materiale probatorio offerto fino al momento della loro
decisione (ferme restando le facoltà di ulteriori allegazioni, anche in contrasto con le precedenti,
delle parti).
Conclusivamente: vanno separati nettamente poteri delle parti nel giudizio ordinario da
oneri di allegazione derivanti dalla possibile instaurazione di sub-procedimenti incidentali. Le
parti, che potranno sempre fare affidamento sui primi non sono perciò solo esonerate
dall’adempimento dei secondi, nel senso che un difetto iniziale di allegazione – pur consentito
dal nuovo rito ordinario – potrà senz’altro risultare pregiudizievole nel sub-procedimento
incidentale.
5) Nei giudizi di opposizione a decreto ingiuntivo le parti, ai fini degli adempimenti indicati
nell’art. 180 c.p.c., vanno intese in senso formale o sostanziale?
Sono note le divergenze dottrinali e giurisprudenziali in ordine all’assunzione delle qualità di
attore e convenuto nel giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo.
Se è fin troppo evidente che in senso sostanziale attore è l’opposto, titolare del credito di cui si è
intimato il soddisfacimento, controverso è invece chi assuma tale qualità in senso formale, o meglio
a chi spettino i poteri e gli oneri processuali ad essa connessi.
Ai fini che qui occupano, senza alcuna pretesa di completezza ed al solo scopo di riassumere le
posizioni, è sufficiente rilevare che parte della dottrina (tra gli altri, SATTA, Diritto processuale
civile) ritiene che, intercorrendo un rapporto di reciproca autonomia tra decreto ingiuntivo ed il
successivo giudizio di opposizione, la qualità di attore ed i rispettivi poteri ed oneri, sia pure “con
ragionevoli temperamenti”, spettino all’opponente.
Altri invece (GARBAGNATI, I procedimenti d’ingiunzione e per convalida di sfratto), dopo
aver rilevato che “per effetto dell’opposizione le posizioni delle parti si trovano processualmente
invertite, rispetto a quanto accade in un ordinario processo di condanna, (…) poiché il debitore
opponente, pur essendo soggetto passivo del rapporto giuridico controverso, ha formalmente veste
di attore, mentre il creditore, di fronte alla notificazione della citazione in opposizione, viene
processualmente a profilarsi come una parte convenuta”, osserva che, poiché “l’opposizione dà
inizio non ad un autonomo processo, ma ad un procedimento di impugnazione del provvedimento
giurisdizionale dichiarativo che, in forma di decreto d’ingiunzione, ha accolto la domanda di
condanna del debitore inadempiente, proposta dal creditore col ricorso per ingiunzione, (..) è a
questa domanda, introduttiva dell’intero processo, che occorre far capo, sia agli effetti dell’onere
della prova sia in tema di nuove domande od eccezioni”.
Anche la giurisprudenza di legittimità appare contrastante, pur se sembra ampiamente recepito
il secondo dei citati orientamenti, secondo il quale i poteri e gli oneri connessi alla qualità di attore
spettano al creditore opposto (cfr., tra le altre, Cass. 14-7-1965 n. 1509; Cass. 8-10-1970 n. 1867;
Cass. 12-1-1972 n. 84; Cass. 12-5-1973 n. 1276; Cass. 22-10-1986 n. 6208; Cass. 22-10-1986 n.
6209; Cass. 30-7-1988 n. 4795; Cass. 6-4-1990 n. 2875; Cass. 3-3-1994 n. 2124).
Più di recente, ad una pronunzia in senso contrario delle SS. UU., secondo cui “tutti i poteri che
il codice di rito ricollega alla posizione del convenuto, compreso quello di proporre domanda
riconvenzionale, spettano all’opposto” (Cass. 18 maggio 1994 n. 4837), si è contrapposto che
‘’l’opposto, in quanto attore in senso sostanziale, può, a norma degli artt. 183 e 184 c.p.c. (vecchio
rito), solo precisare e modificare le domande spiegate con il ricorso ma non proporre domande
riconvenzionali” (Cass. 22-3-1995 n. 3254).
Come è facile intuire e come pure parzialmente si evince dalle citate massime giurisprudenziali,
l’adozione dell’una o dell’altra soluzione ha delle rilevanti conseguenze sul piano processuale, in
ordine alla proponibilità di domande riconvenzionali (spettanti al solo convenuto), ai limiti entro i
quali può essere mutata la domanda proposta con il ricorso per decreto ingiuntivo, infine all’onere
della prova.
Ed il rilievo che in difetto di ogni prova utile nell’ordinario giudizio di cognizione da parte sia
del debitore che del creditore, l’opposizione va accolta ed il decreto ingiuntivo deve essere revocato,
è senz’altro un forte argomento a favore della tesi secondo la quale attore è l’opposto, cui appunto
incombe l’onere di dimostrare l’esistenza del proprio credito. Parimenti, non è senza significato che
l’art. 643 terzo comma c.p.c. faccia coincidere la pendenza della lite con la notificazione del ricorso
e del decreto ingiuntivo, che dunque vanno considerati gli atti introduttivi dell’(eventuale)
procedimento di opposizione (con la conseguenza, tra l’altro, che l’applicazione del vecchio o del
nuovo rito a tale giudizio dipende proprio dalla data di notificazione degli atti suddetti).
Il problema posto in questa sede è però complicato dalla previsione di concessione del termine
di cui all’art. 180 secondo comma c.p.c. “al convenuto”. È sembrato ad alcuni interpreti anomalo
che tale termine dovesse essere concesso all’opponente, che pure ha proposto l’atto di citazione con
cui ha dovuto invitare il creditore opposto a costituirsi, nei termini di legge, prima dell’udienza di
comparizione. Stride, cioè, che il destinatario di tale invito sia diverso dalla parte alla quale va
concesso il termine di cui al ripetuto art. 180 c.p.c.. Ed alcune decisioni, invero senza affrontare ex
professo la questione, hanno senz’altro optato per la concessione di tale termine all’opposto (Trib.
Bari, ordinanze del 18 ottobre 1995, Pastore contro Leasing Levante, e del 25-11-1995, Medit s.a.s.
contro Azienda Agricola Valle d’oro).
Altri, invece, richiamandosi motivatamente al ricordato indirizzo prevalente del giudice di
legittimità, hanno identificato nell’opponente il destinatario del termine in esame (Pretura di Trani,
2 ottobre 1995, Società Manifatture Petruzzelli contro Società Golf; Pretura di Monza, 29 settembre
1995, Società Montedil contro Società A.B.C.).
Non sfugge l’anomalia che tale ultimo orientamento comporta rispetto all’ordinario giudizio di
cognizione, che si fonda ormai sul c.d. tiro incrociato, sull’alternanza, cioè, delle difese delle parti
secondo atti scritti predeterminati, di cui meglio si dirà al paragrafo seguente. Tale schema
comporterebbe certamente, per come si è detto, che il termine di cui all’art. 180 c.p.c. fosse
assegnato non a chi ha proposto l’atto di citazione, ma alla controparte.
Resta solo da valutare se tale anomalia, ricollegabile come le altre cui sopra si è fatto cenno
(domande riconvenzionali, modifica della domanda, onere probatorio) alla natura del procedimento
di opposizione, possa ritenersi superata dalla considerazione, non per tutti accoglibile, che
l’instaurazione di questo giudizio avviene con la notificazione del ricorso e del decreto ingiuntivo.
La giurisprudenza del distretto di Reggio Calabria è sul punto non uniforme, adottandosi ora
l’una ora l’altra soluzione, in conseguenza della costruzione teorica del procedimento di
opposizione.
6) Quando ed a quali parti concedere il temine per comparse ex artt. 170 e 180 c.p.c.?
Come sopra si è visto, l’art. 180 c.p.c., dopo aver ribadito il principio di oralità della trattazione
della causa (plaude al ripristino di tale principio, tra gli altri, CASTELLINI, Commento all’art. 180
c.p.c. in Guida al Diritto, 2, 13 gennaio 1996), prevede che, “se richiesto, il giudice può autorizzare
comunicazioni di comparse a norma dell’ultimo comma dell’art. 170”; ed aggiunge che con il rinvio
alla prima udienza di trattazione va assegnato al convenuto un termine perentorio non inferiore a
venti giorni prima di tale udienza per le eccezioni non rilevabili di ufficio.
Pertanto, mentre è il convenuto a potere usufruire dell’ulteriore termine per le proprie difese,
tutte le parti costituite, od anche una sola di esse, possono chiedere l’autorizzazione alla
comunicazione di comparse. Ed il giudice, se è tenuto, nei limiti sopra esposti, a concedere il
termine per le eccezioni del convenuto, può autorizzare la comunicazione delle comparse. In
proposito, si è osservato che, nell’esercizio del suo potere discrezionale, il giudice “dovrà farne un
uso parco, confinato alle sole cause più complesse e nelle quali il chiarimento scritto sia ritenuto
realmente utile sulla base di quanto sino a quel momento acquisito” (D’ASCOLA op. cit.).
Si è posto, poi, il problema se la scadenza del termine per tale comunicazione debba precedere o
seguire quella per la proposizione delle eccezioni del convenuto ex art. 180, secondo comma, c.p.c..
Quest’ultima soluzione è diffusamente adottata (optano per essa, tra gli altri, COSTANTINO,
Proposte di prassi applicative, e Maria ACIERNO, op. cit.), evidentemente sul presupposto che con
la comparsa in esame l’attore deve essere messo in condizione di poter replicare anche alle
eccezioni formulate dal convenuto nel termine concessogli ai sensi dell’art. 180 c.p.c..
Tale conclusione, però, non appare l’unica compatibile con il sistema, né quella che meglio
risponde sempre alle esigenze del contraddittorio. Non va dimenticato, in primo luogo, che, come
sopra si è accennato, il nuovo processo civile è improntato allo schema del c.d. tiro incrociato, che
prevede l’alternanza delle difese delle parti secondo atti rigidamente predeterminati. Così all’atto di
citazione il convenuto replicherà con la comparsa di risposta; così ancora all’udienza di trattazione
l’attore potrà proporre le domande e le eccezioni che siano conseguenza della domanda
riconvenzionale e delle eccezioni del convenuto (art. 183 quarto comma c.p.c.); così infine le parti
potranno chiedere un termine per il deposito di memorie contenenti precisazioni o modificazioni
delle domande, delle eccezioni e delle conclusioni già proposte, con diritto a replicare alle domande
ed eccezioni nuove o modificate dell’altra parte ed a proporre le eccezioni che sono conseguenza
delle domande e delle eccezioni medesime (art. 183 quinto comma c.p.c.).
Orbene, tale rigorosa alternanza di difese lascerebbe presupporre che con la comparsa di cui
all’art. 180 c.p.c. l’attore possa già replicare alle eccezioni formulate dal convenuto nella comparsa
di risposta; tanto più che rispetto alle nuove eccezioni proposte all’udienza di rinvio ex art. 180
secondo comma c.p.c. lo stesso attore potrà rispondere, ai sensi del citato quarto comma dell’art.
183 c.p.c., all’udienza di trattazione. Conforta tale soluzione qualche esperienza concretamente
maturata dallo scrivente. L’esigenza della comunicazione di memorie si è infatti evidenziata
allorché su una questione preliminare, proposta dal convenuto in comparsa di risposta, l’attore abbia
ritenuto di dover immediatamente replicare prima dell’adozione di qualsiasi provvedimento del
giudice. Così si è verificato che, eccepito dal convenuto il difetto di contraddittorio per mancata
citazione in giudizio di un presunto litisconsorte necessario, l’attore abbia chiesto di potersi
difendere sul punto con comparsa.
Non vi è ragione, in questi casi, di posticipare il termine per la comunicazione di tale comparsa
alla proposizione delle ulteriori eccezioni del convenuto, che, ripetesi, potranno ben essere
contraddette all’udienza di trattazione.
Sembra opportuno dunque che, nell’esercizio del suo potere discrezionale, a seconda delle
necessità del processo, sia il Giudice Istruttore a determinare, caso per caso, a) se concedere
l’autorizzazione alla comunicazione delle comparse; b) entro quale termine esse vadano comunicate
(e quindi anche se prima o dopo la proposizione delle eccezioni del convenuto ex art. 180 c.p.c.); c)
eventualmente, se e quale delle parti debba comunicare per prima la propria comparsa ed il termine
della risposta della controparte, ai sensi dell’art. 83 bis disp. att. c.p.c., che sul punto mantiene
inalterato il suo vigore.
GLI INCOMBENTI DELL’ISTRUTTORE
ALL’UDIENZA EX ART. 180 C.P.C.
Relatore:
dott.ssa Maria ACIERNO
pretore di Bologna
Introduzione
La soluzione definitivamente accolta (1) dal legislatore di codificare la distinzione tra udienza
di prima comparizione (art. 180 c.p.c.) e prima udienza di trattazione (art. 183 c.p.c.) ha quanto
meno il pregio di aver fornito materiale normativo da esaminare e valutare non più sottoponibile a
revisione (2).
Fino ad ora la vigenza meramente temporanea di numerose disposizioni (3) e la tecnica
“atomistica” di introduzione delle disposizioni novellate (4) aveva determinato un accanimento
interpretativo sproporzionato alla durata effettiva delle soluzioni faticosamente adottate (5).
Non riveste particolare utilità pratica valutare la adeguatezza del risultato finale rispetto alla
lunga e complessa genesi del processo di formazione del nuovo procedimento di cognizione mentre
occorre mettere a fuoco con esattezza quali sono i compiti dell’istruttore risultati rafforzati e
divenuti ineluttabili per effetto del modello processuale derivante dagli articoli 180 e 183 c.p.c..
Deve essere sottolineato preliminarmente che la centralità del ruolo di direzione dell’udienza e
di individuazione dell’oggetto della trattazione da parte del giudice è rimasto inalterato anche
all’esito della distribuzione in due udienze della attività volta ad introdurre in modo
tendenzialmente completo l’oggetto ed i soggetti della lite. Va aggiunto che se si vuole riconoscere
una funzione positiva alla diluizione (6) della attività preparatoria come delineata dalle disposizioni
citate, essa va ricercata nella inderogabilità dei controlli preliminari codificati nell’art. 180 c.p.c. e
desumibili dal codice (7) e nella obbligatorietà degli adempimenti previsti nell’art. 183 (8) con
preminente rilievo per l’interrogatorio libero, realizzabile in modo più confortevole in una udienza
depurata del carico delle verifiche preliminari già effettuate nella udienza di prima comparizione.
Deve essere, al contrario, fin dall’inizio abbandonata la tentazione di ritenere che la cd.
“controriforma” realizzata con lo spostamento in avanti di talune decadenze processuali incombenti
sul convenuto (9) e con la predisposizione di un’udienza da dedicare “in ogni caso» (10) alle
verifiche preliminari significhi un ritorno a prassi contrassegnate dalla tendenza a posticipare il più
possibile la conoscenza del fascicolo da parte del giudice ed a svalorizzare il rilevantissimo
contributo alla definizione dell’oggetto del giudizio e del “thema probandum” da attribuire
all’interrogatorio libero.
La rigidità impressa dal legislatore alle udienze ed agli adempimenti da eseguirsi prima della
istruzione probatoria non esclude (11) la concreta possibilità di adeguare elasticamente il modello
processuale alle caratteristiche delle singole controversie, eludendo, se effettivamente superfluo,
qualche passaggio procedimentale anche se codificato. Tali scelte non possono però essere rimesse
alla determinazione ancorché concorde delle parti ma rimangono estrinsecazione dell’esclusivo
potere di direzione dell’udienza conservato dalla legge in modo notevolmente rafforzato dalla
novella, al Giudice Istruttore.
Cap. I. Gli incombenti del giudice designato ex art. 168 bis anteriori alla 1a udienza di
comparizione.
L’esame delle disposizioni sulle quali è scandita la fase introduttiva del procedimento ordinario
viene condotta attraverso gli incombenti dell’istruttore nell’udienza di prima comparizione e nella
prima udienza di trattazione.
È necessario individuare con esattezza nelle singole controversie gli adempimenti ed i passaggi
procedimentali ineliminabili, senza affidarsi meccanicisticamente all’apparente inderogabilità del
sistema di sdoppiamento delle udienze e di separazione delle attività da eseguirsi in ciascuna di esse
che emerge dall’esame letterale dell’art. 180 e 183-184 c.p.c. (per i mezzi di prova).
L’obiettivo rimane fissato nell’effettività della trattazione e, conseguentemente, è indispensabile
avere la chiara definizione – per ciascuna scansione procedimentale – del potere dispositivo delle
parti e del contenuto della funzione di direzione del giudice senza omissione negli adempimenti
doverosi (12), anche in presenza dell’accordo delle parti, ma anche senza forzature procedimentali
quando l’appesantimento non solo temporale del processo è inversamente proporzionale alla
limitatezza dell’oggetto controverso.
1. Art. 168 bis u.c.: smistamento dei fascicoli da parte dell’istruttore: un passaggio organizzatorio
destinato a scomparire?
Gli adempimenti del giudice designato ex art. 168 bis secondo comma per il procedimento a
cognizione piena verificabili anteriormente alla udienza di prima comparizione riguardano la
integrazione del contraddittorio ad istanza di parte convenuta (art. 269 2° comma), la eventuale
introduzione di un sub-procedimento incidentale di natura cautelare od anticipatoria (art. 669
quater); la necessità di natura organizzatoria di distribuire le prime udienze secondo tempi diversi
da quelli risultanti dalla citazione a comparire indicata dalla parte.
Conviene partire da quest’ultimo incombente divenuto con lo sdoppiamento in due udienze
della fase introduttiva, meramente eventuale.
Una delle finalità della prima udienza di comparizione consiste proprio nella possibilità di
smistare le controversie da rinviare per la prima udienza di trattazione secondo le esigenze
dell’agenda di ciascun giudice in modo da poter dedicare all’interrogatorio libero ed alla trattazione
delle questioni rilevabili d’ufficio un segmento temporale dell’udienza da fissare adeguato alla
complessità delle singole controversie. Inoltre la preparazione delle cause per la prima udienza di
trattazione dovrebbe essere facilitata dalla conoscenza, ancorché superficiale degli atti introduttivi
del giudizio disponibili all’udienza ex art. 180 c.p.c.
Viene meno, di conseguenza, la concreta utilizzabilità dell’art. 168 bis ultimo comma, secondo
il quale il Giudice Istruttore può differire con decreto da emettere entro cinque giorni dalla
presentazione del fascicolo, la data della prima udienza fino ad un massimo di quarantacinque
giorni. È stata espunta dalla disposizione originaria la parte relativa all’ininfluenza dello
spostamento d’udienza sulle decadenze.
Prima della introduzione della udienza di prima comparizione nei numerosi incontri di studi e di
ricerca di prassi uniformi che hanno scandito la gestazione frazionata della novella era emersa la
concreta eventualità di non comprimere tutte le attività procedimentali relative alla fase introduttiva,
mediante un’udienza preliminare destinata alla distribuzione razionale delle cause al fine di
renderne effettiva la trattazione ancorché differita ad una udienza successiva.
Non vi era però una unanimità di orientamento sull’utilizzazione generalizzata o mirata di tale
separazione della fase introduttiva (salvo i casi in cui la estensione del contraddittorio o la
rinnovazione degli atti introduttivi non imponevano di fatto la moltiplicazione della prima udienza)
proprio perché si sottolineava l’esistenza di uno strumento avente analoghe finalità come il potere di
differimento della prima udienza ex art. 168 bis ultimo comma.
Si è voluto accennare all’intenso dibattito che ha preceduto l’introduzione dell’art. 180 c.p.c.
novellato non tanto per evidenziare la compatibilità del sistema preesistente con la concreta
possibilità di distribuire la fase introduttiva in più di un’udienza, ma piuttosto per suggerire un uso
veramente marginale dell’art. 168 bis ultimo comma, con l’attuale codificazione ed applicazione
generalizzata cogente della separazione tra udienza destinata alle verifiche preliminari e prima
udienza di trattazione.
La utilizzazione del potere discrezionale di differire la prima udienza ex art. 168 bis fino ai 45
giorni congiunta con il lungo termine a comparire stabilito all’art. 163 bis potrebbero consentire al
convenuto di costituirsi ex art. 167 c.p.c. e conseguentemente proporre tempestivamente domande
riconvenzionali e chiamata di terzo, con uno “spatium deliberandi” che può superare gli 80 giorni
(13).
La dilazione temporale sembra veramente eccessiva se comparata alla marginalità delle
decadenze connesse alla successiva al termine di cui all’art. 167 c.p.c. ma si tratta di uno “spatium
deliberandi” destinato ad incrementare fortemente se si assume come termine finale quello stabilito
all’art. 180 c.p.c. per la proposizione delle eccezioni processuali e di merito.
Scegliendo questa seconda modalità di costituzione il convenuto ha un tempo di allestimento
delle proprie difese che può divenire veramente lungo in quegli uffici ove non sia possibile fissare
in tempi ravvicinati alla udienza di prima comparizione la udienza ex art. 183 c.p.c. soprattutto se
prevarrà la prassi di concedere il termine massimo consentito dalla legge e consentire il deposito
della c.d. comparsa di risposta bis fino al ventesimo giorno prima dell’udienza ex art. 183 (non
computando ex art. 155 c.p.c. il giorno in cui è fissata la udienza) (14).
La disposizione contenuta all’ultimo comma dell’art. 168 bis è tutt’ora vigente. Lo spazio
applicativo deve essere veramente residuale.
Possono esservi controversie in cui per la pluralità delle parti, diventa opportuna la fissazione
separata e differita della udienza di prima comparizione, al fine di procedere a verifiche preliminari
accurate.
Alla stessa soluzione si potrebbe pervenire per controversie seriali, con identico oggetto in
modo da procedere alla riunione più speditamente soprattutto se il numero delle cause è veramente
elevato e viene distribuito in “blocchi’’ a diversi giudici.
Divenuta, in conclusione, rilevante stabilire se la Cancelleria deve provvedere sempre ed in via
generale alla trasmissione dei fascicoli relativi alle udienze di prima comparizione già fissate al fine
di mettere il giudice in condizione di esercitare il potere discrezionale di cui all’art. 168 bis o se
ormai tale passaggio organizzativo può essere omesso in via generale con la possibilità di
selezionare preventivamente le tipologie di controversie per le quali può essere applicabile l’art. 168
bis, utilizzando le esemplificazioni fornite o scegliendo parametri diversi.
Per i motivi ampiamente esposti questo ultimo mi sembra l’orientamento da adottare, con la
precisazione che l’esame dei fascicoli di ciascuna udienza di prima comparizione deve comunque
essere eseguito prima dello svolgimento dell’udienza e, pertanto, le esigenze di smistamento
possono trovare ampio spazio valutativo in corso di essa.
2. art. 269 c.p.c. c.p.v.: lo spostamento della prima udienza di comparizione dovuto alla chiamata
del terzo richiesta dal convenuto: permane la funzione acceleratoria della disposizione?
La chiamata in causa di un terzo, diverso dal litisconsorte necessario (15) ha subito significative
modificazioni con l’entrata in vigore della novella.
L’art. 269 c.p.c. è stato sostanzialmente riscritto con la finalità di scongiurare una decelerazione
eccessiva dell’avvio della trattazione dovuta alla partecipazione al giudizio di litisconsorti
facoltativi su richiesta delle parti.
L’analisi degli adempimenti dell’istruttore deve, pertanto, essere effettuata sulla base di questo
criterio guida, incisivamente fotografato nella nuova disciplinata della chiamata in causa su istanza
del convenuto.
Nel regime antevigente, lo sbarramento temporale comune ad entrambe le parti per richiedere
l’autorizzazione a chiamare un terzo era costituito dalla prima udienza (16). Il giudice vi
provvedeva solo all’esito di una valutazione discrezionale ed insindacabile (17) relativa alla
sussistenza di ragioni di connessione giustificative dell’istanza.
Se la parte (attrice o convenuta) voleva evitare tale giudizio citava il terzo nel rispetto dei
termini a comparire alla prima udienza (art. 269 1° comma previgente).
L’attuale disciplina normativa della chiamata del terzo si fonda su un regime decadenziale
diverso per ciascuna delle parti. Il primo comma dell’art. 269 c.p.c. stabilisce innovativamente per
entrambe le parti che alla chiamata in causa del terzo si provveda con citazione a comparire
all’udienza fissata dal giudice nel rispetto dei termini a comparire.
La disposizione sembrerebbe avere l’esclusiva funzione di vietare al convenuto, ove il rispetto
dei termini di comparizione lo potesse consentire, di chiamare in causa il terzo direttamente per la
prima udienza.
I commentatori più autorevoli della novella sono divisi al riguardo.
La maggioranza degli autori (18) non condivide l’interpretazione restrittiva risultante
dall’esame letterale dei primi due comma dell’art. 269 c.p.c. in quanto la citazione del terzo per la
prima udienza risponderebbe pienamente all’esigenza acceleratoria voluta dalla nuova disciplina
normativa e potrebbe per i litisconsorti necessari citati dal convenuto per la prima udienza
determinare una rilevante anticipazione delle attività c.d. preliminari (19).
La soluzione estensiva sembra preferibile anche se introduce una deroga alla regola
dell’attribuzione al giudice del potere esclusivo di fissare l’udienza per la citazione del terzo.
L’imperatività di quest’ultimo principio si esprime, però, pienamente nel 2° comma dell’art.
269 c.p.c., disciplinante specificamente la chiamata in causa del terzo da parte del convenuto.
Dalla disposizione risultano chiaramente predeterminati il contenuto minimo della richiesta ed
il termine entro cui formularla.
Gli adempimenti della parte non pongono pertanto problemi interpretativi. La chiamata in causa
del terzo deve avvenire a pena di decadenza nel termine di costituzione stabilito nell’art. 166 c.p.c. e
cioè “almeno venti giorni prima dell’udienza di comparizione”.
L’ultimo comma dell’art. 167 c.p.c. ed il capoverso dell’art. 269 c.p.c. determinano
inequivocamente lo sbarramento temporale per tale incombente.
Il convenuto deve, a pena di decadenza, fare dichiarazione nella comparsa di risposta della
volontà di chiamare in causa un terzo e contestualmente chiedere lo spostamento della prima
udienza per garantire il rispetto dei termini a comparire.
Il contenuto effettivo degli adempimenti cui è tenuto il giudice sono invece oggetto di ampia
revisione interpretativa.
La disposizione sembrerebbe imporre all’istruttore lo spostamento della prima udienza di
comparizione limitando il potere di controllo del giudice alla tempestività ed alla completezza
dell’istanza.
L’adozione di questo profilo interpretativo, più aderente all’esame letterale della disposizione
dovrebbe poggiare sulla non attribuibilità al convenuto della facoltà processuale di citare il terzo per
la prima udienza di comparizione nel rispetto dei termini a comparire.
Al convenuto sarebbe attribuito il potere non sindacabile nel merito, di chiamare in causa un
terzo ma solo con le modalità tipizzate nel capoverso dell’art. 269 c.p.c.
Tale potere sarebbe corrispondente a quello dell’attore libero di instaurare la lite contro chi
ritiene.
L’interpretazione indicata ha senz’altro il pregio di una perfetta coerenza testuale con le
disposizioni contenute nel 1° e 2° comma dell’art. 269 c.p.c. ma si pone in contrasto con
l’orientamento convalidato della giurisprudenza di legittimità formatasi nel regime antevigente
dell’art. 269 c.p.c., secondo la quale il provvedimento del giudice di autorizzazione alla chiamata in
causa costituisce il frutto di una deliberazione sull’esistenza di un requisito della connessione.
Anche l’apparente equiparazione tra le parti conseguente dalla lettura testuale delle disposizioni
esaminate viene posto in dubbio se raffrontato al terzo comma dell’art. 269 c.p.c., regolante la
chiamata in causa del terzo ad opera dell’attore.
Per tale parte è infatti espressamente stabilito che il giudice compia una valutazione sul
requisito della connessione.
La conoscenza degli atti difensivi del convenuto da parte dell’attore non sembra però idonea ad
eliminare i dubbi di una disparità di trattamento tra le parti.
Anche il convenuto, al momento della tempestiva formulazione dell’istanza ex 2° comma art.
269 c.p.c. conosce l’atto di citazione e si trova in condizioni difensive pressoché analoghe a quelle
dell’attore (20).
Al giudice che ha l’incombente di provvedere ex art. 269 2° comma c.p.c. si prospettano diverse
alternative pratiche:
a) spostamento doveroso dell’udienza di prima comparizione senza la preventiva valutazione
della “connessione”, comunque differibile e concretamente realizzabile con la separazione dei
giudizi;
b) esame preventivo non solo della ritualità della richiesta ma anche del requisito della
“connessione” ancorché in una fase processuale nella quale ancora non si è formato il
contraddittorio.
All’esito di un incontro finalizzato ad una prima valutazione delle modifiche introdotte con il
d.l. n. 238/95 avvenuto fra i magistrati dell’Emilia Romagna è stata da alcuni prospettata la
possibilità di differire la decisione sulla chiamata in causa del convenuto alla prima udienza di
comparizione già fissata, in modo da garantire sostanziale parità di trattamento fra le parti (21), sul
rilievo che la previsione dello spostamento d’udienza stabilito all’art. 269 c.p.c., capoverso, fosse
più coerente con il quadro normativo iniziale della fase introduttiva caratterizzato da una prima
udienza carica di adempimenti ed in particolare incentrata sulla partecipazione personale delle parti.
Con la previsione di una scansione processuale aggiuntiva dedicata esclusivamente alle
verifiche preliminari, l’esigenza di razionalizzazione sottesa allo spostamento necessitato della
udienza di prima comparizione verrebbe meno, tanto più che è stato codificato per tale udienza il
controllo sulla completezza del contraddittorio, ove questo adempimento sarà possibile prima della
completa formazione del thema decidendi (cfr. il richiamo espresso all’art. 102 c.p.c. contenuto
nell’elenco degli adempimenti da eseguire all’udienza di prima comparizione).
La soluzione è suggestiva ma incontra due obiezioni: la prima è testuale in quanto l’art. 269
c.p.v. verrebbe abrogato per tutta la parte non disciplinante la decadenza temporale per la
proposizione dell’istanza; la seconda è sistematica.
Con l’adozione della soluzione indicata alla possibile sufficienza di una sola udienza di prima
comparizione ancorché spostata in avanti nel tempo, si sostituirebbe la quasi certa duplicazione
dell’udienza ex art. 180 c.p.c. dovuta alla citazione del terzo.
Quale che sia la prima udienza di comparizione successiva alla richiesta di parte convenuta
formulata ex art. 269 c.p.c. c.p.v., deve ribadirsi che in questa udienza vanno svolti tutti gli
adempimenti previsti dalla legge in materia di verifiche preliminari.
Rimane da definire un ultimo profilo relativo agli incombenti del giudice quando il processo
acquista una pluralità di parti.
La udienza destinata alle verifiche preliminari secondo il novellato art. 180 c.p.c. può non
esaurirsi in una sola sessione temporale e snodarsi almeno in due udienze quando l’attore ex 3°
comma art. 269 c.p.c., richieda espressamente già all’udienza di prima comparizione di essere
autorizzato a chiamare un terzo.
Se si verifica tale evenienza occorre chiedersi se il giudice già alla prima delle udienze ex art.
180 c.p.c. deve concedere al convenuto originario il termine decadenziale per la proposizione delle
eccezioni processuali e di merito oppure se deve differire tale adempimento all’udienza di verifica
della costituzione del terzo.
Si deve chiarire se la fase introduttiva scandita normativamente in due sotto-fasi destinate
rispettivamente alle verifiche preliminari e all’effettiva trattazione può essere composta di udienze a
contenuto misto quanto meno sotto il profilo delle decadenze ad esse ricollegabili oppure se si deve
procedere unitariamente e destinare le udienze esclusivamente all’uno (le verifiche preliminari) od
all’altra (la trattazione o meglio l’interrogatorio libero) degli adempimenti indicati dal legislatore
(22).
Il problema non è privo di rilievo pratico perché incide sul regime delle decadenze posto a
carico del convenuto originario.
In una causa con una pluralità di parti il termine per la proposizione delle eccezioni processuali
e di merito non rilevabili d’ufficio può essere notevolmente spostato in avanti se lo si ancora per
tutti all’esito della verifica della completezza del contraddittorio.
Non può infatti escludersi che il terzo una volta costituitosi ex art. 271 c.p.c. 2° comma chieda
ritualmente di chiamare in causa un’altra parte con conseguente spostamento doveroso dell’udienza
di prima comparizione.
La soluzione “unitaria” oltre ad evitare situazioni processuali troppo sbilanciate in favore delle
parti ultime entrate nel processo (23) è coerente con il testo dell’art. 180, c.p.c. secondo il quale il
termine perentorio ha come “dies a quo” la prima udienza di trattazione.
Il problema non si pone per l’integrazione del contraddittorio dovuta a litisconsorzio necessario
non potendosi evitare ex lege la trattazione unitaria delle controversie e la posizione difensiva di
partenza paritaria delle parti.
Cap. II. Gli incombenti dell’istruttore nell’udienza di prima comparizione.
1. Le verifiche preliminari ex art. 180 c.p.c. - un elenco incompleto e ridondante.
La prima udienza di comparizione è destinata alle verifiche preliminari sulla regolarità e
completezza del contraddittorio.
Il suggerimento fornito dalla dottrina (24) e dalle prime riflessioni dei pratici (25) di prevedere
l’opportunita di suddividere la fase introduttiva quantomeno in due udienze per poter
adeguatamente procedere alla trattazione della causa, è stato accolto con una soluzione tecnica che
desta perplessità. Il primo comma dell’art. 180 c.p.c., contiene, infatti, un elenco di adempimenti
“doverosi” per l’istruttore non differibili ad udienze successive.
La indicazione delle verifiche preliminari da effettuarsi in I° udienza viene eseguita dal
legislatore con il riferimento diretto alle disposizioni che disciplinano i controlli da effettuare, come
generalmente avviene per le catalogazioni od esemplificazioni di carattere tassativo.
L’elenco contenuto nel 1° comma dell’art. 180 non può essere ritenuto tassativo perché talune
attività da svolgersi necessariamente alla udienza di prima comparizione quali l’accertamento della
tempestiva costituzione di almeno una delle parti ed i provvedimenti conseguenti alla mancata
comparizione delle stesse, non sono contenuti nella disposizione.
La classificazione non integra infine neanche il contenuto minimo dei controlli preliminari
esercitabili prima della piena definizione del “thema decidendum” cui è destinata la prima udienza di
trattazione (26).
L’accertamento relativo al litisconsorzio necessario può non essere realizzabile prima
dell’interrogatorio libero delle parti o comunque può emergere dopo la precisazione e la
modificazione delle domande e delle eccezioni o delle conclusioni effettuabili esclusivamente alla
prima udienza di trattazione.
Evidenziata la finalità meramente esortativa del catalogo di adempimenti preliminari posti a
carico del giudice deve sottolinearsi che le indicazioni provenienti dai commentatori sulla scissione
della fase introduttiva del giudizio non prevedeva un sistema di rigida separazione delle attività
classificabili come verifiche preliminari e quelle più propriamente attinenti alla definizione del
thema decidendum e degli effettivi contraddittori.
Doveva essere compito delle parti e del giudice provvedere a controlli ed alla rinnovazione
delle nullità esercitabili sulla sola base degli atti introduttivi della causa.
La maggior parte delle questioni, astrattamente classificabili come preliminari possono invece
sorgere con l’esame più approfondito del rapporto dedotto in giudizio.
La scelta di non predeterminare le attività ed i controlli processuali preliminari da effettuarsi
all’udienza cosiddetta di smistamento aveva il pregio di eliminare i dubbi interpretativi sulla
fissazione temporale di decadenze variamente ancorate alla prima udienza, coincidente nel regime
previgente nella prima udienza di trattazione.
La soluzione contraria presenta, invece, il grave inconveniente di lasciare all’interprete la
definizione temporale di termini decadenziali aggiungendo al problema, già affrontato per le
controversie di lavoro della non coincidenza tra l’unità temporale e l’unità giuridica processuale
dell’udienza, anche quello di stabilire, quando la “prima udienza” significhi udienza di prima
comparizione o prima udienza di trattazione.
In numerose disposizioni è riportato il termine “prima udienza».
L’art. 269, comma terzo relativo alla chiamata in causa da parte dell’attore indica come termine
finale la prima udienza.
La disposizione va coordinata con l’art. 183 4° comma nel quale è espressamente prevista la
facoltà dell’attore di chiamare un terzo in causa se l’esigenza è sorta dalle difese del convenuto.
Nulla vieta all’attore di proporre l’istanza all’udienza ex art. 180 c.p.c. ma il termine di
decadenza va spostato alla prima udienza di trattazione, quando le attività difensive introduttive del
convenuto sono complete.
Il rilievo officioso o di parte della connessione deve avvenire in “prima udienza”.
Anche per questa fattispecie di difettoso coordinamento normativo si propone la soluzione
sopra illustrata per il termine perentorio contenuto nell’art. 269 c.p.c. terzo comma.
Le ragioni della connessione possono, infatti, emergere per la prima volta all’esito
dell’interrogatorio libero delle parti.
Soluzioni diverse sono invece già state prospettate in ordine alla rilevabilità dell’incompetenza
territoriale derogabile.
L’art. 38 2° comma c.p.c. fissa a pena di decadenza il rilievo nella comparsa di risposta.
La disposizione va, però coordinata con l’art. 180 2° comma, secondo il quale le eccezioni
processuali non rilevabili d’ufficio possono essere proposte nel termine non inferiore a venti giorni
dalla prima udienza di trattazione, fissato dal giudice all’esito della udienza di prima comparizione.
Se l’art. 38 2° comma si pone in relazione di specialità con il nuovo secondo comma dell’art.
180 c.p.c., il rilievo dell’incompetenza territoriale derogabile va anticipato al termine di costituzione
tempestiva stabilito negli artt. 166-167 per la proposizione della domanda riconvenzionale e della
chiamata di terzo da parte del convenuto (27).
Se, invece, si ritiene che la disposizione successiva abbia abrogato le disposizioni con essa
incompatibili anche tale eccezione può ritenersi validamente proposta nella comparsa di risposta bis
prima della Iª udienza di trattazione nel termine assegnato dal giudice (28).
La soluzione da preferire sembra la seconda in primo luogo perché i numerosi difetti di
coordinamento normativo causati dalla caotica e frammentata introduzione di disposizioni nuove
portano ad escludere una volontà derogatoria del legislatore rispetto al principio generale della
modifica per effetto della legge successiva delle precedenti disposizioni contrarie.
In secondo luogo, rimane, anche con lo spostamento del termine di proponibilità dell’eccezione
di incompetenza territoriale derogabile, la diversa rilevabilità temporale di tale eccezione rispetto
alle altre fattispecie di incompetenza per le quali il termine decadenziale è (una volta tanto) indicato
chiaramente nella Iª udienza di trattazione.
In terzo luogo nelle fattispecie caratterizzate da una pluralità di fori concorrenti, quali i rapporti
obbligatori, la individuazione del giudice competente può essere condizionata dalla proposizione di
un’eccezione che modifichi la qualificazione del rapporto.
Per numerose altre disposizioni (es. art. 168 bis u.c., art. 163 3° comma n. 7) la indicazione è
meramente esemplificativa) non sussistono dubbi interpretativi: il riferimento alla prima udienza va
interpretato nel senso di udienza ex art. l80 c.p.c., in quanto si tratta incontestatamente del
riferimento temporale alla prima scansione temporale del procedimento.
Quando la individuazione della “prima udienza” costituisce uno sbarramento temporale
decadenziale per l’emersione processuale di questioni preliminari o pregiudiziali, il termine finale
va individuato nell’udienza ex art. 183 c.p.c. Le ragioni della scelta sono due.
L’art. 180 novellato costituisce la risposta ad un problema orgariizzativo di smistamento delle
cause ed ad un problema difensivo di garanzia per il convenuto: introduce una deroga espressa al
sistema delle preclusioni, spostando in avanti la proponibilità delle eccezioni non rilevabili d’ufficio
e si lascia inalterato l’impianto sistematico delle decadenze non collegate agli atti difensivi iniziali.
Non vi è pertanto motivo di identificare diversamente dal testo originario della novella,
l’udienza nella quale devono essere rilevate le questioni di competenza e connessione e le altre per
le quali il legislatore fissi come termine decadenziale la Iª udienza, tanto più che gli adempimenti
prescritti nell’udienza ex art. 180 c.p.c., non perdono di rilievo officioso se non esaminati in tale
udienza perché la loro emersione processuale non è assoggettata ad alcuna decadenza, attendendo
tutti alla completezza e regolarità del contraddittorio.
Vi è anche una ragione logica: le questioni esemplificate possono richiedere la preventiva
trattazione del thema decidendi e, pertanto non ne può essere anticipata la rilevabilità ad una fase
anteriore.
2. I controlli effettivamente realizzabili sulla base degli atti difensivi iniziali.
Le verifiche che attengono alla instaurazione del procedimento e del rapporto processuale hanno
effettivamente contenuto preliminare e, conseguentemente devono venir rilevate e superate con gli
strumenti variamente disposti dalla legge esclusivamente all’udienza ex art. 180 c.p.c.
La necessità organizzativa di non sovraccaricare una sola udienza anche delle verifiche estranee
alla determinazione del thema decidendum, ha indotto il legislatore a duplicare la fase introduttiva.
L’omissione dell’attivita di verifica e di sanatoria dei profili di invalidità riscontrabili sulla base
degli atti introduttivi è gravemente censurabile sul piano della responsabilita professionale del
giudice ma non esclude la rilevabilità successiva delle questioni non affrontate nella sede
processuale appropriata, ove la decadenza non risulti da disposizioni ad hoc (29) o dall’applicazione
del principio generale in materia di nullità relative contenuto nell’art. 155 2° comma con il rischio
di dilatazione della fase introduttiva veramente poco confortanti.
La rilevabilità oltre l’udienza di prima comparizione o la preclusione del rilievo oltre tale
udienza verranno evidenziate comunque nell’esame delle singole attività di verifica preliminare cui
si rinvia.
a) controllo sulla tempestiva costituzione di almeno una delle parti (artt. 171-307 c.p.c.)
La preventiva necessità di verificare se con la tempestiva costituzione di almeno una delle parti
si possa definire incardinato un procedimento giudiziale non è indicata speficamente tra le verifiche
preliminari da effettuarsi alla udienza di prima comparizione.
L’oggetto del controllo ne impone però il rilievo assolutamente preliminare perché
l’adempimento – da realizzarsi mediante la tempestiva iscrizione a ruolo – è la condizione
processuale per poter procedere ai controlli sul contraddittorio.
L’esegesi delle disposizioni che disciplinano le conseguenze della tardiva costituzione delle
parti non è agevole.
L’art. 171 1° comma dispone che se nessuna delle parti si costituisce si applicano le
disposizioni dell’art. 307 1° e 2° comma.
L’art. 307 c.p.c. che disciplina l’estinzione del processo per inattività delle parti, determina al 1°
comma il termine perentorio entro il quale riassumere i procedimenti cancellati dal ruolo e
stabilisce, ancorché indirettamente, che la sanzione della cancellazione della causa dal ruolo
consegue alla mancata costituzione di almeno una delle parti entro il termine di cui all’art. 166 c.p.c.
L’orientamento ormai consolidato della Suprema Corte interpreta le due disposizioni (art. 171
1° comma e 307 I° comma) nel senso che ciascuna delle parti ha l’onere di costituirsi nel tempo
rispettivamente prescritto dalla legge (30) con la conseguenza che il giudice deve disporre la
cancellazione della causa dal ruolo anche quando l’attore costituitosi oltre il termine di 10 giorni
dalla notificazione della citazione ad esso imposto dall’art. 165 c.p.c., sia però rientrato nel termine
di costituzione tempestiva stabilito dall’art. 166 c.p.c. (almeno venti giorni prima della udienza di
prima comparizione) per il convenuto. La mancata cancellazione della causa dal ruolo è rilevabile in
ogni grado del giudizio (31) ed il convenuto costituitosi ritualmente (nel termine di cui all’art. 166
c.p.c., può sollevare il difetto di costituzione tempestiva dell’attore e chiedere che venga disposta la
cancellazione della causa dal ruolo.
La assolutezza dell’orientamento peraltro non fondata sull’interpretazione letterale del rinvio
all’art. 307 c.p.c., contenuta nell’art. 171 c.p.c. 1° comma è stata aspramente criticata da
un’autorevole dottrina (32).
È stato rilevato che se il giudice concede un termine al convenuto costituito per integrare l’atto
difensivo rimasto incompleto per la tardiva costituzione dell’attore o dispone la rinnovazione della
citazione quando il convenuto non si sia costituito, nella stessa evenienza elimina ogni disparità di
trattamento per le parti rimettendo pienamente in termini la parte che aveva potuto confidare della
mancata costituzione tempestiva dell’avversario.
La sanatoria dovrebbe trovare applicazione per tutte le fattispecie di tardiva costituzione
dell’attore, secondo l’orientamento dottrinario citato, anche per quelle effettuate successivamente al
termine di cui all’art 166 c.p.c.
La conclusione consegue al riconoscimento di una finalità esclusivamente difensiva al rispetto
del termine di costituzione.
Solo la mancata costituzione dell’attore, quando il convenuto abbia a sua volta omesso di
costituirsi, determina la sanzione della cancellazione della causa dal ruolo.
La costituzione ancorché intempestiva del convenuto produrrebbe un effetto immediatamente
sanante la invalidità conseguente alla tardiva costituzione dell’attore anche se il convenuto si fosse
costituito per eccepire la intempestiva iscrizione a ruolo del giudizio da parte dell’attore.
La concessione di un termine per integrare l’atto difensivo e la restituzione in termini per le
decadenze già verificatesi producono infatti lo stesso effetto della cancellazione della causa dal
ruolo, ponendo la parte convenuta nella stessa condizione processuale conseguente alla notifica
della citazione.
Secondo la Suprema Corte, al contrario, i termini di costituzione hanno rilievo pubblicistico e
devono essere osservati, non potendosi, in mancanza, ritenere validamente instaurata la lite.
La soluzione della rinnovazione della citazione suggerita dalla dottrina, è ritenuta inapplicabile
in quanto non prevista dalla legge (33) dalla Suprema Corte.
La soluzione della sanabilità della tardiva costituzione sembra preferibile.
In effetti con la rinnovazione della citazione o con la rimessione in termini per le decadenze
maturate il convenuto non subisce alcun svantaggio difensivo dalla tardiva costituzione dell’attore.
Poiché l’art. 307 c.p.c. riconosce alla tardiva costituzione di una parte la dignità processuale di
atto esistente, facendo conseguire precisi ed opposti effetti alla iscrizione a ruolo entro od oltre il
termine di cui all’art. 166 c.p.c., potrebbe essere applicata la norma secondo la quale il giudice,
quando sia possibile deve disporre la rinnovazione degli atti, in considerazione anche del favore
legislativo per la instaurazione di procedimenti non viziati all’esito di un rigoroso vaglio giudiziale
anticipato alla fase introduttiva.
La cancellazione della causa dal ruolo o la rinnovazione della citazione devono, comunque,
essere inequivocamente disposte alla udienza di prima comparizione avendo ad oggetto
accertamenti del tutto estranei alla definizione dell’oggetto della lite.
Gli adempimenti stabiliti all’art. 181 1° comma (34) devono essere effettuati all’udienza ex art.
180 c.p.c.
Scarsa applicazione pratica ha l’art. 171 c.p.c. per la parte relativa alle decadenze in cui incorre
il convenuto che si costituisce tardivamente (oltre il termine di cui all’art. 166 c.p.c.) quando l’altra
parte si sia tempestivamente costituita.
In questo caso alla udienza di prima comparizione non si determina alcuna decadenza in quanto
le domande riconvenzionali e la chiamata in causa del terzo sono tardive e la proposizione delle
eccezioni processuali e di merito può essere formulata ben oltre tale udienza nel rispetto del termine
di cui all’art. 180 2° comma.
b) controllo della regolare costituzione delle parti (art. 182 c.p.c.).
L’art. 182 1° comma prescrive che il Giudice Istruttore verifichi d’ufficio la regolarità della
costituzione delle parti e le inviti, quando occorra, a completare o a mettere in regola gli atti e
documenti difettosi.
L’ultima parte della disposizione disciplina la sanatoria delle mere “irregolarità” degli atti e dei
documenti concernenti la costituzione delle parti.
Ne consegue l’ininfluenza sulla validità successiva del procedimento dell’omessa integrazione
anche se determinata dalla mancata sollecitazione del giudice.
Rimane, invece, ferma la regola stabilita all’art. 162 c.p.c. dell’obbligo di disporre la
rinnovazione degli stessi atti affetti da nullità.
Il secondo comma dell’art. 182 c.p.c. disciplina invece la sanatoria del difetto di assistenza,
rappresentanza ed autorizzazione disponendo che il giudice può assegnare alle parti un termine per
eliminare il vizio riscontrato nella esecuzione della verifica preliminare.
Dal coordinamento della disposizione in esame con il 1° comma dell’art. 180 c.p.c. che impone
al giudice – quando occorra – di adottare i provvedimenti di cui all’art. 182 c.p.c., può desumersi la
doverosità del controllo e dell’ordine di integrazione da parte del giudice ogni qual volta accerti il
difetto della capacità processuale della parte (35).
La rilevanza del controllo, che può essere eseguito per tutto il corso del procedimento non deve
sfuggire.
La giurisprudenza della Suprema Corte, ancorché anteriore all’innovazione normativa risultante
dal nuovo testo dell’art. 180 c.p.c., ha due orientamenti difformi sul difetto di capacità processuale
delle parti non sanato dal Giudice Istruttore ex art. l82 c.p.c. capoverso.
Il più recente orientamento consente al Collegio anche in secondo grado di esercitare tale
verifica e dispone l’acquisizione dell’atto autorizzativo o di conferimento del potere di
rappresentanza mancante (Cass. 20-4-94 n. 3775 in Foro It. 1995, I, 1296) anche dopo che la causa
è stata posta in deliberazione.
Nella pronuncia n. 7682 del 23-6-92 (36) invece si ritiene che il potere del giudice di disporre la
rinnovazione degli atti ex art. 182 2° comma è discrezionale e può essere esercitato solo nella fase
istruttoria con conseguente inammissibilità dell’appello proposto dal Sindaco in nome e per conto
del Comune privo al momento della decisione, dei documenti inerenti la prescritta autorizzazione.
Sembra preferibile l’orientamento più recente in quanto coerente con il disposto dell’art. 162
c.p.c. 1° comma e pienamente corrispondente all’intento del legislatore della novella di evitare
pronunce di rigetto in rito valorizzando in ogni fase del procedimento il potere di rinnovare gli atti
affetti da invalidità.
La natura meramente formale della verifica esaminata e la sua incidenza sulla qualità
esclusivamente processuale di parte possono far dubitare sulla necessità di fissare una volta disposta
la integrazione degli atti una nuova udienza ex art. 180 c.p.c. all’esito della quale fissare al
convenuto il termine per proporre le eccezioni processuali e di merito non rilevabili d’ufficio.
La verifica dell’integrazione potrebbe infatti validamente effettuarsi alla prima udienza di
trattazione in quanto necessariamente preceduta da un’attenta lettura del fascicolo.
Questa soluzione non sembra in contrasto con il sistema della fase introduttiva ed inoltre evita
una eccessiva dilatazione temporale delle sessioni dedicate ai controlli preliminari.
c) controllo della validità degli atti introduttivi (artt. 164-167 c.p.c.)
Il controllo del giudice riguarda in primo luogo la fattispecie di nullità dell’atto di citazione
contenute nell’art. 164 c.p.c. 1° comma consistenti nella mancanza dei requisiti essenziali della
vocatio in ius (indicazione del giudice e dell’attore) nella insufficienza del termine a comparire o
nella mancanza dell’avvertimento sulle “temperate” conseguenze della costituzione intempestiva.
Seguono quelle relative al contenuto espositivo dell’atto introduttivo (nn. 3-4 art. 164: la
determinazione della cosa oggetto della domanda e l’esposizione degli elementi di fatto e di diritto),
da estendersi alla domanda riconvenzionale, anch’essa rinnovabile se viziata da nullità, con
provvedimento da assumersi in sede di verifiche preliminari.
Ci si deve però chiedere se il giudice disponendo la rinnovazione degli atti nulli ex art. 164
c.p.c. deve sempre rifissare l’udienza di prima comparizione ex art. 180 c.p.c. devono essere distinte
le diverse evenienze processuali.
Le nullità rilevabili per la mancata costituzione del convenuto (art. 164 1° c.) impongono la
rifissazione di una udienza ex art. 180 c.p.c. perché la parte raggiunta dalla citazione non ha ricevuto
un atto idoneo a farle predisporre difese tempestive.
Alla stessa conclusione dovrebbe pervenirsi per l’inosservanza del termine a comparire e per il
mancato avvertimento delle conseguenze della costituzione intempestiva.
Anche per queste fattispecie il convenuto sia che non si costituisca sia che lo faccia al solo fine
di eccepire la nullità non è stato posto nelle condizioni reputate adeguate dalla legge, per potersi
validamente costituire.
La stessa soluzione andrebbe in conseguenza adottata per il difetto di determinatezza
dell’oggetto e degli elementi di fatto e di diritto fondanti la pretesa attorea.
Al termine per la rinnovazione della citazione o per la integrazione della domanda, qualora il
convenuto si sia costituito, consegue la rifissazione dell’udienza destinata alle verifiche preliminari,
non potendosi porre a carico del convenuto un termine di decadenza per la proposizione di
eccezioni processuali e di merito senza avere la preventiva conoscenza del rapporto dedotto in
giudizio.
Si pongono però due interrogativi: la concessione del termine per la rinnovazione degli atti non
può precedere quello relativo alla proposizione delle eccezioni processuali e di merito quando il
convenuto sia costituito e salva la rilevabilità del vizio non emendato all’udienza ex art. 183 c.p.c.
con riapertura per il convenuto del termine per la proposizione delle eccezioni processuali e di
merito.
La seconda domanda riguarda il caso in cui l’attore integri all’udienza le carenze espositive
contenute nei nn. 3-4 art. 163 c.p.c. ed il convenuto sia costituito.
In questo caso, valutata positivamente l’integrazione della domanda effettuata dall’attore il
giudice dovrebbe poter fissare la prima udienza di trattazione previa concessione al convenuto del
termine perentorio per la proposizione delle eccezioni processuali e di merito.
Un’ultima riflessione merita l’integrazione della domanda riconvenzionale disposta dal giudice ex
art. 164 penultimo comma e art. 167 c.p.c..
Per questa evenienza dovrebbe imporsi il passaggio alla effettiva trattazione della causa con la
fissazione del termine di decadenza al convenuto, non potendosi far discendere da un
comportamento deliberatamente non diligente la conseguenza dello spostamento in avanti di una
decadenza processuale.
d) controllo sulla esistenza e validità della notificazione della citazione (art. 291 c.p.c.).
L’udienza di prima comparizione è fisiologicamente destinata alla verifica della instaurazione
del contraddittorio.
Il giudice ex art. 291 1° comma deve provvedere alla rinnovazione della notificazione ex art.
160 c.p.c. se ne riscontra la invalidità.
È utile ricordare che la fattispecie di nullità della notificazione indicata nell’art. 160 c.p.c. non
sono tassative: il giudice può, pertanto, procedere alla rinnovazione della notificazione non solo se
non sono state osservate le disposizioni relative alla persona cui deve essere consegnata la copia o
se vi è incertezza assoluta sulla persona a cui la notificazione viene fatta o sulla data (ex art. 160
c.p.c.) ma si estendono anche alla mancata individuazione della persona che ha richiesto la
notificazione quando non sia in alcun modo possibile dall’atto processuale desumere le generalità
del richiedente ed, infine, all’incompetenza dell’ufficiale giudiziario che ha provveduto alla notifica.
Il potere di rinnovazione non si estende alla notificazione inesistente.
La definizione, di origine non normativa, deve essere intesa in senso restrittivo al fine di
consentire un largo uso del potere di rinnovazione attribuito al giudice dall’art. 291 c.p.c.
Secondo la più recente qualificazione giuridica, fornita dalla Suprema Corte, la inesistenza
giuridica della notificazione ricorre quando questa manchi del tutto o sia diretto a destinatario del
tutto diverso da quello risultante dalla citazione o sia effettuata in modo assolutamente non previsto
dal codice di rito (Cass. 11-4-91 n. 3819).
Devono, pertanto, essere ritenute inesistenti solo quelle notifiche cui non può in alcun modo
conseguire la costituzione del convenuto, non risultando fenomenicamente possibile che tale parte
sia venuta, per effetto della eseguita notifica a conoscenza dell’atto.
e) controllo sulle eventuali intervenute decadenze (art. 167 c.p.c.).
Ci si riferisce in particolare alla domanda riconvenzionale e alla chiamata di terzo tardiva da
parte del convenuto.
Il giudice deve far rilevare le decadenze fin dall’udienza ex art. 180 c.p.c. in modo che le parti
siano effettivamente messe nella condizione di incentrare le loro deduzioni difensive sulle domande
ed eccezioni formanti oggetto dell’accertamento giudiziale di merito.
Deve essere esclusa in particolare ogni efficacia sanante alla c.d. accettazione tacita della
controparte non essendo più ammissibile riconoscere effetti giuridicamente rilevanti al
comportamento meramente inerte della parte e far discendere, come era principio consolidato nel
sistema previgente, l’estensione del petitum dalla disattenzione del difensore.
Le decadenze, come per il processo del lavoro, sono prefissate a tutela dell’interesse di rilievo
pubblicistico della razionalità e rapidità del procedimento e sono conseguentemente del tutto
sottratte alla disponibilità delle parti (37).
La rilevabilità tempestiva delle decadenze costituisce una attività doverosa e particolarmente
utile del giudice anche nelle fasi processuali successive, in modo da non gravare l’oggetto della
deliberazione finale di questioni estranee alla res iudicanda.
f) l’art. 181 1° comma: la mancata comparizione delle parti in prima udienza.
Il testo dell’art. 181 c.p.c., risultante dalla l. 534/95 di conversione del d.l. 18-10-95 n. 432
dispone che se nessuna delle parti compare alla prima udienza, il giudice fissa un’udienza
successiva, di cui il cancelliere dà comunicazione alle parti costituite.
La “prima udienza” indicata nella disposizione non può che coincidere con quella disciplinata
dall’art. 180 c.p.c. in quanto destinato al primo (in senso temporale oltre che tecnico giuridico)
confronto tra le parti. Il rinvio va disposto senza la concessione del termine previsto dal secondo
comma dell’art. 180 c.p.c., perché l’oggetto del provvedimento del giudice è il differimento
integrale della udienza di prima comparizione, in quanto non effettuata per la mancata comparizione
delle parti.
3. Verifiche solo eventualmente realizzabili all’udienza ex art. 180.
a) controllo della completezza del contraddittorio (art. 102 c.p.c.).
È stato già osservato che la necessità di integrare il contraddittorio può più frequentemente
sorgere all’esito dell’interrogatorio libero delle parti od attraverso una più puntuale qualificazione
giuridica del rapporto dedotto in giudizio (38).
Non mancano però fattispecie di litisconsorzio necessario in cui è immediatamente
riconoscibile dalla natura stessa della controversia la pluralità di parti.
Si pensi ai giudizi di opposizione all’esecuzione, nei quali è parte necessaria il debitore
esecutato (ed in quelli avverso il piano di riparto tutti i creditori pignoranti od intervenuti), nelle
azioni costitutive tendenti al mutamento di uno stato o rapporto giuridico destinato ad operare nei
confronti di più soggetti.
L’anticipazione dell’ordine di rinnovazione del contraddittorio deve essere realizzata dal
giudice ogni qual volta sia possibile in modo da evitare che all’udienza ex art. 183 c.p.c. possa
verificarsi un regresso ad una fase processuale già esaurita con rimessione in termini ex art. 184 bis
per le decadenze già verificatesi e una eccessiva dilatazione temporale della fase introduttiva (39).
b) sospensione del procedimento ex art. 295 c.p.c..
Analoghe considerazioni valgono per la decisione relativa alla sospensione necessaria della
causa ex art. 295 c.p.c..
Le fattispecie più frequenti riguardano la proposizione di una domanda riconvenzionale
eccedente la competenza per valore del giudice della causa principale, nella opposizione a decreto
ingiuntivo.
L’orientamento della Corte di Cassazione a sezioni unite, (sent. n. 10984 del 1992 in Giust. civ.,
1992, I, 2333) sul rilievo che la competenza del giudice dell’opposizione è funzionale prescrive che
la domanda riconvenzionale sia separata da quella principale salva la possibilità di sospendere
quest’ultimo giudizio se l’oggetto della riconvenzionale è pregiudiziale rispetto alla cognizione
dell’opposizione a decreto ingiuntivo.
Il provvedimento di sospensione va assunto all’udienza ex art. 180 c.p.c., in quanto la
proposizione di domande riconvenzionali sia che provengano dall’opponente (convenuto in senso
sostanziale) sia che provengano dall’opposto (attore in senso sostanziale) devono essere fissate a
pena di decadenza negli atti introduttivi accompagnati da costituzione tempestiva.
Per l’opponente la decadenza discende dal divieto di proporre domande nuove nel corso del
giudizio (salva la “reconventio reconventionis”, ex art. 183 c.p.c. 4° comma), per l’opposto dall’art.
167 c.p.c.
Le parti ai fini dell’esercizio di facoltà processuali in senso stretto sono qualificate secondo la
veste che formalmente assumono nel giudizio.
Per le altre fattispecie di sospensione conseguenti alla pendenza di una controversia legata da
nesso di pregiudizialità, il provvedimento, di natura doveroso non è soggetto a limiti temporali, ma
la necessità di sospendere va accertata con particolare rigore salvi i casi in cui non sia prevista dalla
legge (art. 75 c.p.p.; questioni di stato; querela di falso).
c) riunione di procedimenti.
Occorre in primo luogo distinguere la riunione di procedimenti pendenti davanti lo stesso
giudice da quelli pendenti davanti a giudici diversi.
Per i primi la richiesta di parte non è assoggettata a limiti temporali di proposizione (arg. a
contrario art. 40 2° comma e 274 c.p.c.).
Quando i procedimenti pendono davanti a giudici diversi dovrebbe trovare applicazione il
termine di decadenza stabilito dall’art. 40 2° comma.
La perplessità interpretativa sorge dal dubbio che lo spostamento temporale sia limitato alla
fattispecie di connessione che determinano lo spostamento di competenza ex lege e l’accertamento
della connessione con sentenza di incompetenza (art. 40 comma 1).
Deve, pertanto, essere rilevata entro la prima udienza di trattazione, la connessione dovuta alla
necessità di procedere ad accertamenti incidentali (art. 34 c.p.c.) alla cognizione di domande
riconvenzionali (art. 35 c.p.c.) o di eccezioni di compensazione (art. 36 c.p.c.).
Danno invece luogo ad un mero provvedimento ordinatorio di riunione i motivi di connessione
specificati nell’art. 103 c.p.c..
La trasmissione ex lege del fascicolo al Dirigente dell’ufficio ex art. 274 c.p.c., deve però
precedere la fase di trattazione e i provvedimenti contenenti le deliberazioni di carattere
organizzatorio precedere ogni altra valutazione, salvo che l’esigenza sorga all’udienza ex art. 183
c.p.c. e sia ancora possibile procedere alla riunione perché le cause si trovano nella stessa fase
processuale.
La litispendenza e la continenza sono le fattispecie di incompetenza per le quali non e fissato
dall’art. 38 c.p.c. un termine di decadenza per la loro rilevabilità, né lo sbarramento temporale può
dedursi dal citato art. 40 c.p.c..
È comunque opportuno assumere nella fase preliminare od introduttiva dei procedimento i
provvedimenti ex art. 39 c.p.c. in quanto l’attività processuale svolta nella causa “contenuta” o in
quella successivamente instaurata per la litispendenza diventa “inutileter data” con la declaratoria di
incompetenza.
Cap. III. Gli incombenti dell’istruttore nell’udienza ex art. 180 c.p.c. diversi dalle verifiche
preliminari.
1. Provvedimenti doverosi: termine al convenuto e fissazione della prima udienza di trattazione:
sono atti del procedimento del tutto inevitabili?
L’esame si sposta sul secondo comma dell’art. 180 c.p.c. introduttivo delle più rilevanti
modifiche al sistema originario delle decadenze ed alla configurazione normativa della fase
introduttiva del giudizio.
La disposizione si apre con la concessione alle parti della facoltà di chiedere un termine per
memorie qualora l’esigenza sorga dalla lettura degli atti difensivi iniziali.
Il giudice ha il potere discrezionale di autorizzare o negare l’esercizio di tale facoltà.
La medesima previsione era contenuta nella prima parte del primo comma dell’art. 180 c.p.c.
previgente ed aveva la finalità di temperare il principio dell’oralità della trattazione solamente
enunciato già dal legislatore del 1940.
Il “temperamento’’ ha funzionato ben oltre le previsioni iniziali trasformando l’udienza di
prima comparizione in un’udienza destinata quasi esclusivamente a concedere un rinvio per esame
della costituzione del convenuto.
Nell’attuale contesto normativo la previsione di un termine per lo scambio di memorie all’inizio
del procedimento non può incidere sulla sequenza obbligata delle udienze destinate alla fase
introduttiva scandita degli art. 180 e 185 c.p.c..
Se il giudice non deve disporre la rinnovazione o l’integrazione di atti, l’udienza di prima
comparizione deve concludersi “in ogni caso” con la fissazione dell’udienza di trattazione e non con
un provvedimento avente ad oggetto il prolungamento degli scambi e dei controlli preliminari.
La obbligatorietà del passaggio all’udienza ex art. 183 c.p.c. o nei limitati casi in cui è possibile,
a fasi processuali successive, deriva sia dall’aggancio temporale con il termine di decadenza per le
eccezioni non rilevabili d’ufficio, sia dalla finalità pubblicistica di accelerazione dei tempi del
procedimento posta a base della novella.
Il provvedimento del giudice all’esito dell’udienza ex art. 180 c.p.c., qualora sia stata accolta la
richiesta di una o di entrambe le parti di depositare memorie deve essere formulato in modo da
indicare in primo luogo il termine per la proposizione delle eccezioni non rilevabili d’ufficio, ed a
scalare, tenendo conto del principio del contraddittorio, l’altro termine ex art. 170 c.p.c.
L’uso della facoltà processuale esaminata deve essere moderato perché alla prima udienza di
trattazione è largamente prevista la possibilità per le parti di dedurre e scambiarsi memorie senza
peraltro alcun potere limitativo del giudice.
La disposizione che crea maggiori difficoltà interpretative rimane però quella che stabilisce il
differimento temporale della decadenza riguardante la proposizione delle eccezioni non rilevabili
d’ufficio.
Il legislatore ha previsto che “in ogni caso (il giudice N.d.S.) fissa a data successiva la prima
udienza di trattazione, assegnando al convenuto un termine perentorio non inferiore a venti giorni
prima di tale udienza per proporre le eccezioni processuali e di merito non rilevabili d’ufficio”.
Il primo quesito riguarda l’applicabilità del termine al convenuto contumace.
Al riguardo sono state prospettate due soluzioni.
La risposta negativa riconosce al termine in oggetto una funzione esclusivamente difensiva e
pertanto ne assoggetta la concreta applicabilità all’istanza di parte, equiparandone il regime
giuridico alle altre fattispecie in cui una facoltà processuale viene sottoposta con provvedimento del
giudice ad una definitiva limitazione temporale (cfr. art. 244 c.p.c. ultimo comma per le deduzioni
istruttorie) (40).
La locuzione “in ogni caso” che apre la disposizione relativa alla concessione del termine in
oggetto andrebbe interpretata nel senso di “quando al convenuto non lo si può rifiutare”.
La risposta positiva poggia su più salde basi normative e sistematiche.
La disposizione in esame introduce, in via generale, un nuovo regime giuridico delle decadenze
cui è assoggettata la parte convenuta.
La conferma testuale proviene dall’art. 167 c.p.c. 2° comma, emendato della parte relativa alla
proposizione delle eccezioni processuali e di merito ed incontestatamente applicabile per le
decadenze rimaste ancorate alla costituzione “ante causam” anche al convenuto contumace
all’udienza di prima comparizione.
La soluzione opposta postula invece un regime di decadenze temporalmente diverso per il
convenuto tempestivamente costituito ex art. 167 c.p.c. e per quello che non versi in tale condizione
processuale.
Per il primo le decadenze relative alle eccezioni non rilevabili d’ufficio scatterebbero nel
termine di cui all’art. 180 c.p.c. 2° comma, per il secondo sarebbero tutte anticipate al termine di
venti giorni prima dell’udienza di prima comparizione.
La conclusione è però priva di sostegno normativo proprio perché l’art. 167 c.p.c. secondo
comma prescrive solo per le domande riconvenzionali la proponibilità a pena di decadenza nel
termine indicato nell’art. 166 c.p.c.
La fissazione del termine ex art. 180 2° comma c.p.c. vale, pertanto, anche per il convenuto non
costituito all’udienza di prima comparizione, anche se il provvedimento che lo determina non deve
venire comunicato a tale parte sia che venga reso in udienza sia che sia contenuto in un
provvedimento riservato.
L’art. 176 2° comma, coordinato con l’art. 292 1° comma (41) regola la prima ipotesi.
La seconda deriva dall’applicazione dell’art. 176 2° comma e 170 1° comma, ai sensi dei quali i
provvedimenti emessi fuori udienza vanno comunicati alle sole parti costituite salvo che abbiano ad
oggetto l’ammissione dell’interrogatorio formale ed il giuramento decisorio del contumace per cui
trova applicazione l’art. 292 1° comma c.p.c.
Rimane da esaminare il problema della rinunciabilità del termine da parte del convenuto
costituito e la possibilità di non fissare la prima udienza di trattazione quando la causa è già matura
per la decisione.
I due profili sono direttamente collegati perché la mancata indicazione temporale del termine
per proporre le eccezioni non rilevabili d’ufficio su richiesta della parte convenuta è logicamente
prodromica alla omissione dell’udienza ex art. 183 c.p.c.
L’esame testuale della disposizione sembra escludere la legittimità del “salto” dalle verifiche
preliminari alla precisazione delle conclusioni omettendo di dedicare un’udienza alla trattazione
della causa e di concedere il termine decadenziale ancorato a tale udienza.
Residua un limitato margine di elusione dell’imperativo normativo “in ogni caso”. Si tratta del
caso in cui la causa venga ritenuta dalle parti e dal giudice matura per la decisione.
È insufficiente il mero consenso comune delle prime o la sola valutazione discrezionale del
secondo perché da un lato al giudice non può venire sottratto il potere-dovere di rilievo
pubblicistico di direzione del procedimento; dall’altro, la disposizione esclude l’esistenza di un
potere discrezionale del giudice, imponendogli al contrario “in ogni caso” e non quando lo ritenga
necessario od opportuno, la prefissione del termine.
La corretta interpretazione della locuzione sembra pertanto “in ogni caso in cui le parti non sono
d’accordo sul contrario ed il giudice non consenta” (42).
Deve essere infatti sottolineato che l’art. 80 bis disp. att. non è stato abrogato e pertanto è
astrattamente possibile ritenere la causa matura per la decisione e rinviare esclusivamente per
quest’incombente (43).
Il potere discrezionale del giudice di direzione dell’udienza incontra il limite della rigida
demarcazione delle udienze fissata dal legislatore.
Il problema si può riproporre quando le parti, entrambe costituite (44) chiedono già all’udienza
ex art. 180 c.p.c. un provvedimento ammissivo di prove orali, ritenendo superflua non solo la
concessione del termine per la proposizione delle eccezioni non rilevabili d’ufficio ma anche
l’interrogatorio libero delle parti.
Questa evenienza è di più difficile soluzione rispetto a quella sopra esaminata della causa di
puro diritto.
Quando la soluzione richiede lo svolgimento di attività istruttoria non sembra consentita
l’omissione della prima udienza di trattazione.
Va osservato infatti che la esatta definizione del thema decidendi integrata delle questioni
(condizioni dell’azione ed eccezioni) rilevabili d’ufficio suggerite dal giudice sia obbligatoriamente
prodromica alla fase istruttoria vera e propria.
Il sistema normativo è incentrato sulla conseguenzialità delle due fasi al fine di pervenire ad un
completo accertamento del merito (45).
La obbligatorietà tendenziale dell’udienza ex art. 183 c.p.c. deriva anche dal maturarsi di talune
decadenze (artt. 38-40 c.p.c.) in tale udienza.
C’è da chiedersi come incide il mancato espletamento della prima udienza di trattazione sul
regime giuridico di tali decadenze.
Se la mancata fissazione dell’udienza ex art. 183 c.p.c. è dipesa esclusivamente dal giudice
dovrebbe essere consentito alle parti di sollevare le eccezioni di incompetenza alla prima sessione
temporale e processuale in cui ciò sia possibile, e cioè all’udienza successiva a quella di prima
comparizione preliminarmente allo svolgimento degli incombenti prescritti dal provvedimento di
rinvio.
Più difficile è applicare la stessa soluzione quando la udienza ex art. 183 c.p.c. sia stata omessa
con il consenso delle parti.
In questa evenienza il rilievo officioso e di parte delle questioni di competenza deve ritenersi
del tutto precluso.
Ad una soluzione analoga si può pervenire per la evenienza che il giudice fissi l’udienza ex art.
183 c.p.c. ma ometta di concedere al convenuto (che non vi ha rinunciato se costituito o quando sia
contumace) il termine perentorio per la proposizione delle eccezioni non rilevabili d’ufficio.
Può trovare applicazione in questo caso la regola generale in materia di termini perentori
secondo la quale l’omessa pronuncia del giudice fa scattare il termine di legge.
Conseguentemente entro il ventesimo giorno anteriore alla fissata prima udienza di trattazione
devono essere proposte le eccezioni di parte. Lo stesso principio è direttamente statuito dall’art. 669
octies in materia di riassunzione del giudizio di merito all’esito della fase cautelare. Il legislatore
indica espressamente che in caso di omessa indicazione del termine nel provvedimento del giudice
il processo va riassunto nei trenta giorni.
2. Provvedimenti condizionati dalle istanze delle parti.
a) provvisoria esecuzione e sospensione della esecutorietà del decreto ingiuntivo (art. 648-649
c.p.c.).
b) ordinanze anticipatorie ex art. 186 bis, ter, quater.
Poiché l’udienza di prima comparizione è destinata esclusivamente all’esecuzione dei controlli
formali sul contraddittorio e la costituzione delle parti rientranti nelle c.d. verifiche preliminari (46)
ci si è chiesti se fosse possibile alle parti formulare richieste di provvedimenti anticipatori
richiedenti, tendenzialmente, la delimitazione del thema decidendi ad un udienza non destinata
normativamente a tale incombente.
In particolare devono essere esaminati la richiesta di provvisoria esecuzione del decreto
ingiuntivo, la richiesta di sospensione della provvisoria esecuzione del decreto che ne sia munito, le
ordinanze di condanna anticipata disciplinate dagli artt. 186 bis, ter, quater.
La richiesta di provvisoria esecuzione del decreto ingiuntivo è disciplinata dall’art. 648 c.p.c.
senza alcuna previsione temporale relativa alla adottabilità da parte del Giudice Istruttore del
provvedimento di accoglimento o di rigetto.
Sul piano testuale nessun ostacolo normativo proveniente dall’art. 648 c.p.c. si frappone alla
decisione sull’istanza alla prima udienza di comparizione.
L’opponente, da considerarsi attore, al fine di applicare il regime di decadenze appropriato, (47)
se vuole evitare l’accoglimento della più probabile richiesta di provvisoria esecuzione deve
anticipare alla data di costituzione (e formazione del fascicolo) od al massimo alla udienza di prima
comparizione, la devoluzione in giudizio di prove documentali oppositive al diritto di credito
vantato dall’opposto.
La previsione di un termine di decadenza successivo per la indicazione dei mezzi di prova,
disciplinato nell’art. 184 ed articolabile in più di una sessione processuale è applicabile
esclusivamente al procedimento a cognizione piena, ed ha lo scopo di consentire alle parti di
procedere gradatamente ma non discrezionalmente alla definizione del thema decidendi e del thema
probandi, relativi al giudizio di merito.
Nulla però vieta alla parte di scoprire preventivamente le proprie carte ed anzi tale
comportamento processuale costituisce un vero e proprio onere quando nel giudizio ordinario si
innesta una richiesta di condanna anticipata quale quella contenuta nell’art. 648 c.p.c. Ne consegue
la necessità di porre l’opponente nella condizione di difendersi validamente sull’istanza ex art. 648
c.p.c. quando l’opposto – convenuto in senso formale – si costituisce direttamente alla udienza di
prima comparizione e chiede la provvisoria esecuzione del decreto.
La concessione di un termine a difesa non significa, però, differire l’esame dell’istanza all’esito
dell’interrogatorio libero delle parti, ma esclusivamente garantire il contraddittorio effettivo anche
nel sub-procedimento incidentale destinato agli incombenti di cui all’art. 648 c.p.c..
La conclusione è rafforzata dalla “specialità” del sub-procedimento in oggetto, ritenuto secondo
l’orientamento maggioritario in dottrina e nella giurisprudenza di legittimità (48) una prosecuzione
della fase monitoria (49) e non un “incidente” dell’ordinario giudizio di merito.
Senza prendere posizione sul delicato problema della qualificazione giuridica della provvisoria
esecuzione ex art. 648 c.p.c. deve rilevarsi che la reiterabilità dell’istanza (50) all’esito di un
provvedimento di rigetto, ormai divenuta “ius receptum” costituisce un ulteriore argomento a
sostegno della soluzione affermativa.
La risposta negativa si fonda in particolare sulla autonomia della deliberazione relativa alla
provvisoria esecuzione rispetto alla fase monitoria; sulla “piena cognizione” del Giudice Istruttore
fin dall’instaurazione del giudizio di merito, sulla natura anticipatoria ma non cautelare del
provvedimento
(analogamente allo stesso provvedimento monitorio) ed alla conseguente
ineludibile necessità di avere prima di decidere una tendenzialmente completa prospettazione del
thema decidendum, soprattutto con riferimento ai parametri di valutazione richiesti dall’art. 648
c.p.c., non sicuramente individuabili in forma completa alla prima udienza di comparizione.
Si tratta in verità di considerazioni pratiche di indubbio rilievo ma prive di sostegno normativo.
La tendenziale minore efficacia dell’interrogatorio libero all’esito di un provvedimento di
accoglimento della provvisoria esecuzione, non può costituire elemento discriminante
l’inammissibilità della richiesta.
La norma prevede che l’ingiungente la formuli senza limiti temporali dilatori e sulla base degli
elementi di fatto e di diritto a sostegno del credito desumibili dalla fase speciale, senza prevedere
condizioni diverse da quelle relative al sostegno probatorio dell’opposizione.
Il profilo qualificante della deliberazione è l’avvenuta instaurazione del contraddittorio, non
anche la trattazione della stessa.
La intervenuta trattazione costituisce una eventualità procedimentale seguente alla reiterazione
dell’istanza all’esito di rigetto o alla scelta dell’opposto di differirne l’adozione ad una fase del
procedimento più avanzata.
La soluzione indicata è senz’altro applicabile al provvedimento ex art. 649 c.p.c., dove le
ragioni di tutela cautelare sono incontroverse.
Per quanto riguarda i provvedimenti anticipatori ex art. 186 bis e ter la soluzione
dell’interrogativo è notevolmente più problematica perché non si tratta di provvedimenti legati ad
una fase di accertamento, ancorché sommario, del diritto già avvenuta ante causam.
Si tratta di sub-procedimenti incidentali inseriti nel giudizio di merito e tendenzialmente
generati dall’evoluziorie della cognizione piena in corso di procedimento.
La incidenza statistica di tali richieste in sede di udienza di prima comparizione dovrebbe essere
modesta.
Per l’art. 186 bis la sussistenza fin dagli atti introduttivi del giudizio dei requisiti di
ammissibilità della tutela monitoria dovrebbe spingere la parte ad azionare il procedimento speciale.
Per l’art. 184 ter il requisito della “non contestazione” è destinato ad emergere nella maggior
parte dei casi dopo l’interrogatorio libero od addirittura dopo la formazione delle prove costituite.
Deve però obiettarsi sul piano testuale la assenza di una preclusione temporale iniziale, essendo
ravvisabile in entrambe le disposizioni solo la fissazione del termine finale di esercizio del diritto
(la precisazione delle conclusioni) (51).
L’ostacolo normativo proviene in realtà dall’art. 180 2° comma che prevede per il convenuto la
possibilità di proporre le eccezioni processuali e di merito oltre la conclusione dell’udienza dedicata
ai preliminari.
A differenza dell’art. 648 c.p.c., nessun particolare onere di diligenza probatoria può essere
posta a carico della parte contro la quale è diretta l’istanza.
Il godimento del termine di differimento delle decadenze per le eccezioni di parte nonché delle
altre limitazioni temporali graduali relative alla definizione del “thema decidendi” e “probandi” non
incontra ostacoli dalla proposizione di istanze ex art. 186 bis e ter.
Tali istanze dovrebbero essere ritenute inammissibili all’udienza ex art. 180 c.p.c. quando la
parte contro cui sono dirette intende esercitare validamente il proprio diritto di distribuire il proprio
onere difensivo secondo la scansione di legge.
Un’applicazione residuale potrebbe essere ravvisata quando le parti chiedono entrambe di
passare direttamente alla fase deliberativa, ed una di esse formula istanza ex art. 186 bis o ter.
In tutte le altre controversie in cui le parti od il giudice nonostante il diverso iniziale avviso
delle parti, decidono di procedere secondo l’ordine temporale delle fasi processuali volute dalla
legge, non può farsi discendere alcuna conseguenza probatoria – quale la non contestazione o la
sussistenza dei requisiti per l’ingiunzione – dall’incompleta difesa di una parte dovuta alla facoltà
processuale di differirne la devoluzione in giudizio ex lege.
Nemmeno l’instaurazione del contraddittorio sull’istanza, realizzata con la concessione di un
termine per memorie, avente ad oggetto la contestazione della fondatezza delle richieste, può dirsi
legittimo perché costituirebbe la violazione del sistema di graduazione temporale dell’attività
processuale.
La conclusione negativa può essere applicata all’art. 186 quater, salva la applicazione residuale
sopra evidenziata.
(1) Con la legge di conversione 20-12-95 n. 534 (in G.U. - serie generale - n. 256 del 20-12-95.
Il testo coordinato del d.l. 18-1-95 n. 432 con la legge di conversione è in G.U. 28-12-95 n. 302,
serie generale, p. 40. L’art. 4 del d.l. riporta le modifiche all’art. 180 c.p.c. in esame. In appendice
alla relazione - sub A).
(2) Le critiche sulla inutilità e non opportunità normativa in oggetto sono state indicate in modo
accurato e completo nei numerosi commenti già apparsi nelle riviste. Per una disamina più
approfondita cfr. nota a margine - Pretura Monza ord. 29-9-95 in Foro It., 1995, p. 3298.
Si è in particolare criticato la inelasticità della dicotomia tra le due udienze e la difficoltà di far
rientrare talune attività processuali nelle verifiche preliminari (udienza ex art. 180 c.p.c.) o nelle
questioni attinenti alla definizione del thema decidendum.
(3) Cfr. da ultimo la abrogazione del novellato art. 181 c.p.c. per effetto della citata legge di
conversione (nota 1) e la reintroduzione del regime anteriore al 1-1-93 in ordine alla mancata
comparizione delle parti in prima udienza ed in quelle successive.
La sorte della disposizione contenuta nell’art. 181 esemplificativa delle divergenti pressioni
subite dal legislatore della novella ad una iniziale applicazione del regime di cancellazione della
causa dal ruolo alla prima udienza in cui non comparivano le parti alle sole cause pendenti dopo il
1-1-93 (ex l. 26-11-90 n. 353 così come modificata dalla l. 14-12-92 n. 477). Si è pervenuti ad una
estensione della nuova regola anche alle cause pendenti (ex d.l. 121/95) ed ora, invece è
definitivamente applicabile la disciplina vigente prima dell’entrata in vigore della legge n. 353/90.
(4) A parte il “corpus” omogeneo relativo al procedimento cautelare uniforme (art. 669 bis e ss.)
le altre disposizioni della l. 26-11-90 n. 353 sono entrate in vigore in tempi differenziati e con
estensione applicativa distinta nel tempo.
Per esempio: le controversie pendenti al 1-1-93 erano integralmente assoggettate al rito
antevigente. Con il d.l. n. 121 del 20-4-95 sono state ritenute applicabili a tali controversie le
disposizioni della novella in precedenza vigenti solo per le cause instaurate dopo il 1-1-93 (si tratta
in particolare delle disposizioni nuove in materia di rito nei procedimenti connessi - ordinanze
anticipatorie di condanna - cancellazione cause dal ruolo, provvisoria esecuzione sent. 1° grado).
Questo parziale “collage” normativo ha subito applicazioni caotiche e casuali proprio perché
estratto da un contesto coerente ed inserito in un insieme eterogeneo.
Ancora più bizzarra la sorte delle cause instaurate dopo il d.l. 20-4-95 n. 121 le quali dopo
l’entrata in vigore del d.l. 9-8-95 n. 347 sono state assoggettate ad un regime giuridico “virtuale” per
oltre tre mesi diverso sotto il profilo della individuazione del giudice competente e delle decadenze
processuali, diverso dall’attuale vigente.
(5) Per i procedimenti di convalida il tentativo di rendere organica e distinta la fase sommaria
da quella a cognizione piena ha trovato un riscontro normativo positivo nell’art. 660 così come
novellato dalla l. di conversione (in Appendice vedi sub B).
(ó) La felicissima scelta terminologica è di B. CAPPONI: “Prima udienza di comparizione e
prima udienza di trattazione. Preclusioni di merito e preclusioni istruttorie”. Relazione tenuta
all’incontro di studi sul tema, Frascati 27/29-11-95.
(7) Mi riferisco a quelli qui più diffusamente esposti nel cap. II sub. 1 - sub. 2.
(8) Per la individuazione degl’incombenti rinvio al cap. IV.
(9) Ovvero la proposizione delle eccezioni processuali e di merito per le quali il convenuto ha
un termine non inferiore a venti giorni prima della udienza ex art. 183 c.p.c. (cfr. ex 180 2° comma
c.p.c.).
(10) La locuzione viene usata con riferimento alla prima udienza di comparizione:
argomentando dall’art. 180 2° comma che riferisce l’espressione “in ogni caso” alla fissazione della
prima udienza di trattazione, richiedendo, pertanto, lo svolgimento di entrambe le udienze.
(11) cfr.: CAPPONI, in op. ult. cit. p. 16.
(12) Es: interrogatorio libero.
(13) Il rilievo con riferimento ad esperienze di ordinamenti diversi è di CAPPONI in op. ult.
cit., p. 16 e ss. ove è sottolineato che nel tempo in cui il convenuto nel ns. ordinamento può
validamente costituirsi, in altri ordinamenti viene decisa la causa.
(14) Per questo modo di computare il termine cfr.: BALENA op cit. pag. 138 contra Cass. 7-488 n. 2739 in Giust. Civ. 1988 I, 2752 nel senso che il dies a quo è quello della costituzione e non
quella dell’udienza.
(15) Originario o divenuto tale ex art. 107 c.p.c. “iussu iudicis”.
(16) Sulla perentorietà del termine anche nel regime antevigente cfr. fra le tante: (Cass. 19.10.76
n. 3617).
(17) La insindacabilità è sempre stata sottolineata dalla Suprema Corte cfr. fra le tante Cass. 219-79 n. 4867 e 23-1-78 n. 4292. Sulla necessità della preventiva delibazione sulla connessione cfr.
Cass. 13-4-87 n. 3667 e 9-5-90 n. 3806.
(18) BALENA in: “La Riforma del processo di cognizione”, Napoli, 1995 pag. 244; LUISO in:
“La riforma del processo civile”, Milano, 1991, p. 163 ss; TARZIA: “Lineamenti del nuovo
processo di cognizione”, Milano, 1991 p. 100; COSTANTINO in: “Provvedimenti urgenti per il
processo civile” (Commentario a cura di Cipriani e Tarzia), in Nuove leggi civili commentate, 1992,
p. 77; BUCCI, CRESCENZI, MALPICA: “Manuale pratico della riforma del processo civile”,
Padova, 1991, p. 115; DI NANNI: “Codice di procedura civile”, Legge 26-11-90 n. 353, Torino,
1991, p. 128 n. 3.2.
(19) L’osservazione finale è di BALENA, op, ult, cit. p. 244, il quale sottolinea che l’intervento
coatto a cura del convenuto per la prima udienza consente un più rapido superamento della fase c.d.
preliminare.
(20) Vedi per tutti: G. OBERTO in “La riforma del processo civile”, Roma, 1994, vol. I, pag.
260 ss..
(21) Per l’attore che intenda chiamare in causa un terzo la “prima udienza” è quella di
trattazione come risulta dall’art. 183 penultimo comma.
(22) La stessa riflessione con riferimento agli altri provvedimenti conseguenti alle verifiche
preliminari che hanno ad oggetto rinnovazione di atti, in B. CAPPONI loc. ult. cit., p. 25, il quale
conclude anche se “amaramente” per la soluzione unitaria.
(23) Si pensi al caso in cui si proceda all’interrogatorio libero delle parti originarie nell’udienza
destinata limitatamente al terzo chiamato alle verifiche preliminari.
(24) Così TARZIA in Lineamenti, cit. p. 81.
(25) Questa era la soluzione maggioritaria negli incontri tra Magistrati che si sono susseguiti
lungo la interminabile “vacatio legis” della novella, in particolare nell’ambito dell’“Osservatorio
della Giustizia Civile” finalizzati alla creazione di prassi comuni per i tribunali dell’Italia
settentrionale.
(26) La qualificazione giuridica del rapporto dedotto in giudizio, all’esito della prima udienza di
trattazione può ad esempio chiarificare la natura trilatera del contratto da esaminare (es.: da cessione
credito in cessione contratto). Un’altra esemplificazione può provenire dalle controversie aventi ad
oggetto responsabilità civile da circolazione stradale quando venga opposta dalla compagnia
assicurativa la esclusione della copertura assicurativa e sia necessario citare il Fondo di Garanzia
vittime della Strada, perché esistono danni alle persone, oppure quando risulti che il bene su cui si
vanta un diritto è di proprietà comune.
(27) Cfr. Pretura Monza ord. 23-9-95 in Foro it., 1995, I, 3296, nel corso della quale viene
accolta questa tesi.
(28) Così Tribunale Trani ord. 9-10-95 in Foro it., 1995, I, 3295.
(29) Es.: ex art. 164 5° comma la costituzione del convenuto sana i vizi della citazione incidenti
sulla validità dell’atto introduttivo ex art. 164 1° comma.
(30) Cfr. Cass.: 28-11-87 n. 8878.
(31) Sent. Cass. su rep. foro it. 9-3-90 n. 1928.
(32) PROTO PISANI in “La nuova disciplina del processo Civile”, Napoli, 1991, p. 123.
(33) Non risulta applicabile per analogia la disciplina normativa delle nullità stabilita all’art.
162 1° comma in quanto la fattispecie della tardiva costituzione è equiparata quanto agli effetti alla
mancata costituzione con conseguente inesistenza dell’atto da sanare.
(34) Vedi la nuova formulazione dell’art. 181 c.p.c. per effetto della legge di conversione 2012-95 n. 534 del d.l. 19-10-95 n. 432 che abroga la novella e reintroduce il previgente sistema della
necessaria mancata comparizione reiterata per due udienze per poter validamente disporre la
cancellazione.
(35) Le fattispecie più frequenti riguardano la mancanza della delibera contenente
l’autorizzazione a stare in giudizio per i legali rappresentanti degli enti pubblici. Analogo
provvedimento autorizzatorio deve essere emesso dal giudice delegato per la legittimazione
processuale del curatore o l’omesso deposito della procura generale alle liti.
(36) Conforme Cass. 8-6-88 n. 3884.
(37) Si porrà fine alle molteplici rimessioni sul ruolo dovute a domande principali o
riconvenzionali non istruite perché introdotte caoticamente in corso di causa, magari in una
memoria allegata a verbale e non conosciuta dalla controparte.
(38) A mero titolo esemplificativo si pensi ai giudizi di divisione ereditaria in cui solo con
l’interrogatorio libero possono emergere un numero di eredi superiori a quello formante oggetto del
rapporto originario oppure in una causa di rivendica o di accertamento negativo di un diritto altrui,
di cui emerge la contitolarità con terzi, non ancora partecipanti al processo, o quando l’oggetto di un
giudizio in materia immobiliare riguardi invece una parte comune di un edificio.
(39) Per le controversie in cui la pluralità di parti può desumersi da documenti può essere utile
disporre l’integrazione documentale necessaria e rinviare ancora per gli adempimenti ex art. 180
c.p.c. ad un’udienza ravvicinata.
(40) VERDE in: Il nuovo processo di cognizione: Lezioni su primo grado ed impugnazioni in
generale, Napoli, 1995, p. 22-23.
(41) L’art. 176 2° comma stabilisce che i provvedimenti resi in udienza si intendono conosciuti
dalle parti presenti e da quelle che dovevano comparire. L’art. 292 1° comma stabilisce che si
devono portare a conoscenza del contumace solo i provvedimenti ammissivi di interrogatorio
formale.
(42) Ad analoga conclusione pervengono BALENA in op. ult. cit. p 322 e CAPPONI op. ult.
cit. p. 13.
(43) L’art. 80 bis disp. att. prescrive che la rimessione al Collegio è possibile anche all’udienza
di prima comparizione. Per un’attenta disanima del problema vedi BALENA op. ult. cit. p. 326.
(44) Questa è la condizione di partenza per potere valutare l’ammissibilità di “salti” nel
procedimento.
(45) Rimane da obiettare che in numerose controversie relative alla responsabilità civile per
circolazione stradale o nelle clause volte alla mera determinazione di un compenso quando sia
incontestato l’“an debeatur” il thema decidendi si esaurisce nella attività istruttoria di
quantificazione del danno e, pertanto la prima udienza di trattazione risulta superflua.
(46) Sull’individuazione delle quali rinvio ai Cap. I e II della presente relazione.
(47) Contra ord. Pretore Monza in Foro It., 1995, I, 3296, però vedi in Cass. Sez. Un. 18-5-94
n. 4837, in Foro It. ’94, I, 1682, la chiara precisazione in motivazione che all’opposto spettano
poteri processuali del convenuto.
(48) Cfr. Cass. Sez. lavoro 8-2-92 n. 1410 ove è ribadito che il giudizio di opposizione apre una
valutazione sulla fondatezza della pretesa, mentre la decisione ex art. 648 c.p.c. si fonda sull’esame
dei presupposti del decreto.
(49) Con conseguente valutabilità degli elementi di prova per l’opposto esclusivamente della
fase sommaria.
(50) Cass. 8-12-93 n. 12138.
(51) Questo sembra l’orientamento del Tribunale di Milano secondo il resoconto di una
riunione tenutasi all’indomani dell’entrata in vigore dell’art. 180 novellato tra i colleghi.
I GIUDIZI DI COGNIZIONE ORDINARIA INTRODOTTI CON RICORSO DOPO L’ENTRATA IN
VIGORE DELLA NOVELLA, CON RIFERIMENTO AI PROCEDIMENTI DI OPPOSIZIONE
ALL’ESECUZIONE (artt. 615, co. 2, 619 c.p.c.) E DI OPPOSIZIONE AGLI ATTI ESECUTIVI: IL
RACCORDO TRA LA FASE SOMMARIA E LA FASE DI MERITO
Relatore:
dott. Raffaele FRASCA
pretore della Pretura circondariale di Monza
SOMMARIO: 1. Premesse. – 2. Un dato normativo da considerare. – 3. Le norme che disciplinano (o
dovrebbero) ancora oggi disciplinare il “raccordo” fra la fase iniziale e quella ordinaria delle
opposizioni esecutive. – 4. Le opposizioni esecutive nel sistema della stesura originaria del c.p.c.
del 1940. – 5. Il sistema del “raccordo” fra fase introduttiva e fase successiva delle opposizioni
esecutive in relazione alla disciplina della fase introduttiva ed iniziale del giudizio di cognizione
ordinaria nel codice del 1940. – 6. Le modalità del “raccordo”. – 7. La possibilità di fissazione di
un’apposita udienza, anticipata rispetto a quella ex art. 185, per la sola trattazione dell’istanza di
sospensione dell’esecuzione e dell’istanza di adozione dei provvedimenti ex art. 618 sul corso
dell’esecuzione. – 8. Le opposizioni esecutive dopo la Novella del 1950. – 9. Il problema del
“raccordo” fra il sistema dell’introduzione con ricorso delle opposizioni esecutive e la nuova
disciplina della fase introduttiva ed iniziale del processo di cognizione dopo le recenti riforme. – 10.
La perdurante vigenza degli articoli 184 e 185 disp. att. c.p.c.. – 11. Il “raccordo” nel nuovo rito. –
12. L’udienza che il giudice dell’esecuzione deve fissare nelle opposizioni esecutive. Cenni sul
ricorso orale e sull’opposizione ex art. 512 c.p.c. – 13. Il procedimento sull’istanza di sospensione
dell’esecuzione e quello sui provvedimenti ex art. 618 come procedimenti cautelari in corso di causa
di merito.
1. Premesse.
I. – Preliminarmente debbo avvertire che l’espressa limitazione del tema affidatomi alla
questione dei giudizi introdotti con ricorso relativi alle opposizioni ex artt. 615, 617 e 669 c.p.c.
esclude che io debba esaminare in generale la questione del raccordo fra la nuova disciplina del
processo civile (risultante dalla tormentata riforma, della quale si è – per il momento – avuto
l'epilogo con la l. n. 534/95, di conversione con modifiche del d.l. n. 432/95) e le altre numerose
fattispecie di procedimenti giurisdizionali civili a cognizione piena di primo grado, che si svolgono,
almeno a partire da un certo momento, secondo le norme del c.d. rito ordinario, dettate per il
procedimento avanti al tribunale e dei quali è, però, prevista l’introduzione con quella particolare
forma di proposizione della domanda giudiziale che è il ricorso e no con la citazione (1).
Basti qui dire che sembra più apparente che reale una contrapposizione che nella scarsa dottrina
che si è occupata della questione si coglie fra chi autorevolmente e radicalmente sostiene che la
citazione e non invece il ricorso sarebbe idonea a dar luogo all’introduzione di un giudizio ordinario
di cognizione e che nei procedimenti introdotti da ricorso si ponga un problema di cambiamento del
rito dopo una prima fase iniziale che sarebbe a cognizione sommaria, sovente non disciplinato
quanto a modi, tempo e forme (2) e chi, al contrario ha affermato che in numerosi casi il ricorso
sarebbe idoneo ad introdurre quella cognizione, salvo poi ammettere che un problema di passaggio
da una fase sommaria alla fase di cognizione ordinaria si pone e meriti di essere affrontato, con la
ricerca di soluzioni in termini di cambiamento di rito o similari (3).
Il contrasto appare più apparente che reale, perché ciò che l'autorevole dottrina che sostiene la
prima prospettazione vuole sottolineare, affermando che il ricorso è inidoneo a dar luogo alla
cognizione ordinaria, è, non tanto l’inidoneità del ricorso a costituire l’atto introduttivo di un
giudizio che ad un certo momento sfocia nella cognizione ordinaria, quanto che alla domanda con
esso proposta deve seguire, perché quella cognizione abbia luogo un qualche provvedimento di
adeguamento del rito processuale, della cui necessità non dubita neppure la dottrina che sostiene la
seconda delle prospettazioni riferite.
In defintiva, l’apparenza del contrasto di cui si è detto si rivela, laddove l'una e l'altra
prospettazione concordano nella necessità di individuare, in relazione al singolo procedimento
introducibile con ricorso, le modalità con le quali esso si adegua alle regole del processo introdotto
con citazione.
II. – Detto questo, basti qui ricordare che il problema di coordinamento di cui si discorre si pone
per una serie di procedimenti previsti dalla legge fallimentare (ad es. giudizi di opposizione allo
stato passivo ex art. 98 r.d. 16 marzo 1942, n. 267, giudizi di impugnazione dei crediti ammessi al
passivo fallimentare ex art. 100 r.d. citato, giudizi di insinuazione tardiva di crediti ex art. 101 r.d.
citato, giudizi ex artt. 102 e 103 r.d. citato), per il procedimento di separazione e di divorzio (art 706
c.p.c. e 4 comma secondo l. 1 dicembre 1970, n. 898), giudizi ex art. 3 del r.d. 14 aprile 1910, n.
639, giudizi ex art. 11 comma terzo del d.p.r. 30 dicembre 1972, n. 1035 (4).
Peraltro, la restrizione dell'indagine al problema del raccordo della fase iniziale delle
opposizioni esecutive alla fase che si deve svolgere secondo le ordinarie norme del processo di
cognizione non può apparire limitativa ed arbitraria, una volta che si tenga conto della circostanza
che il nostro Codice di Procedura Civile, anche dopo l’ultimo e per ora definitivo intervento di cui
alla l. n. 534/95, continua a dettare una serie di norme specifiche (pur se non esaustive) con riguardo
ad esso. E, se pure, alcune di esse contengono previsioni simili a quelle di altre norme che
disciplinano il problema del raccordo per altri tipi di procedimento introdotti con ricorso, tuttavia è
innegabile che nel loro complesso conservano una propria specificità, che giustifica una indagine ad
hoc.
III. – Nell'iniziare tale indagine debbo avvertire che, dopo una certa meditazione, mi è sembrato
opportuno accantonare completamente talune conclusioni alle quali, a livello operativo (cioè quale
giudice dell'esecuzione, in sede di trattazione di opposizioni all'esecuzione), mi era sembrato
possibile giungere. Conclusioni che avevo affermato in alcuni provvedimenti, assunti sia
immediatamente a ridosso dell'entrata in vigore (al 30 aprile 1995) della riforma nella stesura
originaria di cui alla l. n. 353/90, sia dopo gli interventi di controriforma espressisi nei dd.ll. n. 328,
347 e 432/95 ed ora sedimentatisi nella l. n. 534/95.
L'opportunità di prescindere totalmente da quelle conclusioni e di una rimeditazione della
questione ex novo mi è stata consigliata, da un lato dall'esigenza di un ulteriore approfondimento
imposto dalla natura stessa della funzione cui deve adempiere questa relazione, dall'altro e
soprattutto dalla constatazione che gli unici due studiosi che ex professo (almeno per quel che mi
consta) l'hanno approfondita ed i cui scritti all'epoca delle scelte interpretative compiute nei miei
provvedimenti non conoscevo (5) sono pervenuti (tra l'alto il primo scrivendo in un contesto
anteriore ai dd.ll. n. 238, 347 e 432/95) a riscostruzioni della disciplina del “raccordo” molto diverse
fra loro.
2. Un dato normativo da considerare.
Come punto di partenza dell'indagine mi è sembrato opportuno riflettere su un dato normativo.
Esso è rappresentato da una circostanza che emerge immediatamente dalle norme che nella
disciplina delle tre tipologie di opposizioni esecutive di cui agli artt. 615, 617 e 619 c.p.c.
disciplinano tuttora o dovrebbero disciplinare il problema del raccordo fra la fase di cognizione
introdotta dal ricorso e la fase di cognizione successiva da svolgersi secondo il rito previsto per il
normale processo di cognizione introdotto dalla citazione.
Si tratta della circostanza che tali norme continuano ancora oggi ad essere quelle stesse che il
legislatore aveva dettato nella stesura originaria del c.p.c. del 1940.
Infatti, queste norme non subirono alcuna modifica a seguito della famosa (o famigerata?)
Novella del 1950, di cui alla l. 14 luglio 1950, n. 581, ancorché quella Novella avesse – com'è noto
– apportato radicali modificazioni alla discipina introduttiva del processo di cognizione ed alla sua
fase iniziale.
Dopo la Novella del 1950 e fino alla riforma di cui alla l. n. 353/90 e, quindi, per ben
quarantacinque anni quelle norme hanno potuto disciplinare il problema del raccordo, pur
collocandosi in un contesto normativo complessivo del tutto diverso e lo hanno fatto senza creare
eccessivi problemi interpretativi, come dimostra la scarsa attenzione che dottrina e giurisprudenza
hanno mostrato rispetto a quel problema. Basta leggere uno qualsiasi dei classici manuali di diritto
processuale civile o dei più moderni commentari e scorrere le migliori rassegne di giurisprudenza,
per convincersene.
La riflessione in discorso mi ha subito spinto ad interrogarmi sul perché le dette norme abbiano
potuto rivelare questa capacità di regolare tutto sommato senza eccessivi problemi il “raccordo” con
riguardo a contesti normativi tanto diversi quali quelli esistenti prima e dopo la riforma della
Novella del 1950.
E, pertanto, mi è sembrato doveroso indagare anzitutto su come avrebbero dovuto funzionare (e
forse di fatto funzionarono negli anni dal 1942, in cui il c.p.c. del 1940 entrò in vigore, al 1950: dico
di fatto, poiché non v'è giurisprudenza edita sul punto, anche per il fatto che parte di quel periodo si
collocò negli anni della seconda Guerra Mondiale) le norme dettate per il raccordo nella logica della
stesura originaria del c.p.c. del 1940, per poi capire perché poterono restare insensibili alla Novella
del 1950 e, quindi, ricavare dalla loro vicenda ormai più che cinquantennale spunti ricostruttivi per
il presente.
Le considerazioni che seguono si dipaneranno appunto seguendo la falsariga di questo iter di
indagine.
3. Le norme che disciplinano (o dovrebbero) ancora oggi disciplinare il “raccordo” fra la fase
iniziale e quella ordinaria delle opposizioni esecutive.
L'inventario delle norme che ancora oggi il c.p.c. contiene, le quali hanno rilievo diretto od
indiretto, in funzione del “raccordo” fra la fase iniziale e quella successiva secondo le regole della
cognizione ordinaria delle opposizioni esecutive consta di alcune norme contenute direttamente nel
Codice e di altre contenute nelle sue disposizioni di attuazione.
Per tutti e tre i tipi di opposizione esecutiva relativi ad esecuzione già iniziata è previsto che
l’introduzione avvenga con ricorso al giudice dell'esecuzione, a seguito del quale si provvede con
decreto alla fissazione di un'udienza di comparizione, cui deve seguire la notificazione di entrambi
gli atti alla controparte entro un termine espressamente definito perentorio.
Per le opposizioni all'esecuzione ex secondo comma dell'art. 615 e per l'opposizione di terzo ex
art. 619 c.p.c. è previsto che successivamente il giudice dell'esecuzione proceda all'istruzione “a
norma degli articoli 175 e seguenti”, se sussiste la sua competenza, mentre, nel caso in cui tale
competenza non sussista e sia competente altro giudice (sia il secondo comma dell'art. 615 che il
secondo comma dell'art. 619 fanno riferimento alla sola competenza per valore, ma è pacifico che si
potrà trattare anche di competenza per materia) ha luogo la rimessione avanti a questo con la
fissazione di un termine sempre qualificato come perentorio per la riassunzione e, quindi, con
traslatio iudicii (6).
Per l'opposizione ex secondo comma dell'art. 615 c.p.c. e per l'opposizione di terzo è previsto
che prima della delibazione della questione di competenza e dei provvedimenti conseguenti,
nell'uno o nell'altro dei sensi appena indicati, il giudice dell'esecuzione possa provvedere sull'istanza
di sospensone dell'esecuzione, in ordine alla quale va segnalato fin d'ora che risulta dettato uno
specifico (e forse compiuto) complesso normativo procedimentale, quello degli artt. 624 e 625
c.p.c., che ha chiaramente (come si desume dall'inciso d'esordio dell'art. 624 “se è proposta
opposizione all'esecuzione a norma degli articoli 615 secondo comma e 619”) posizione
endoprocessuale rispetto allo svolgimento della fase delle opposizioni in discorso anteriore alla
delibazione della questione di competenza.
Per l’opposizione agli atti esecutivi, per la quale a stare alla lettera della legge non è ammessa la
sospensione dell'esecuzione (7), l'art. 618 c.p.c. prevede che nello stesso decreto o all'udienza di
comparizione il giudice dell'esecuzione possa dare i provvedimenti indilazionabili circa il corso
dell'esecuzione e che poi, essendo sempre competente anche sulla cognizione ordinaria, provveda
all'istruzione, anche qui a norma degli artt. 175 e ss.
L’art. 184 delle disp. di att. al c.p.c. continua a recitare che “i ricorsi previsti negli articoli 615
secondo comma e 619 del codice, oltre le indicazioni volute dall'articolo 125 del codice, debbono
contenere quelle di cui ai numeri 4 e 5 dell'articolo 163 del codice”, mentre l'art. 185 continua
formalmente a dire che “all’udienza di comparizione davanti al giudice dell'esecuzione fissata a
norma degli articoli 615, 618 e 619 del codice si applica l'art. 183 del codice”.
4. Le opposizioni esecutive nel sistema della stesura originaria del c.p.c. del 1940.
Come ho gia detto le norme indicate nel paragrafo precedente sono rimaste immutate rispetto a
com'erano state scritte nella stesura originaria del Codice del 1940. Pertanto, è opportuno
domandarsi come esse regolassero il problema del “raccordo” nel modello del processo civile quale
codificato da quella stesura. Ciò, anche per la ragione che quel modello era imperniato su
preclusioni anche più rigide di quelle introdotte con le recenti riforme.
Al riguardo, è opportuno considerare che la competenza sulle opposizioni esecutive è ancora
oggi regolata allo stesso modo in cui era regolata nella stesura originaria del Codice, posto che
nessuna delle novellazioni successive, ad eccezione di quella sul processo del lavoro, di cui alla l. n.
533/73 (che introdusse la norma speciale dell'art. 618-bis c.p.c., su cui non mi soffermerò, perché
estranea all'indagine), ha introdotto modifiche in ordine ad essa.
Così come attualmente, nella stesura originaria del Codice, dall'immutato combinato disposto
degli articoli 16, 615 secondo comma, 617 e 619 c.p.c. si evinceva che la competenza sulle
opposizioni all'esecuzione, quanto alla fase introdotta con il ricorso era per ragioni funzionali cosi
regolata:
a) sull'opposizione all'esecuzione ex secondo comma dell’art. 615 c.p.c. ed ex art. 619 c.p.c.
avverso l'esecuzione per consegna o rilascio di cose, avverso l’esecuzione degli obblighi di fare e di
non fare ed avverso l'espropriazione forzata di cose mobili e di crediti era competente il pretore,
tenuto conto che in ordine a detti tipi di esecuzione l'art. 16 attribuiva (come attribuisce) la
competenza per materia al pretore, che, dunque, si identificava (come si identifica) nel giudice
dell'esecuzione forzata, cui gli artt. 615 secondo comma e 619 attribuiscono la competenza sulle
opposizioni da essi regolate;
b) sull'opposizione all'esecuzione ex secondo comma dell'art. 615 c.p.c. ed ex art. 619 c.p.c.
avverso l'esecuzione per espropriazione di beni immobili o di cose mobili assoggettate
all'esecuzione insieme a beni immobili (art. 556 c.p.c.) era (ed è) competente il tribunale, posto che
l'art. 16 secondo e terzo comma per tali tipi di esecuzione attribuiva (ed attribuisce) la competanza
al tribunale;
c) sulle opposizioni agli atti esecutivi ex art. 617 secondo comma c.p.c. era (ed è) competente il
pretore in relazione alle esecuzioni di sua competenza ed il tribunale in relazione a quelle di sua
competenza, sempre ai sensi dell'art. 16 c.p.c.
È evidente che all'atto dell'entrata in vigore dal Codice del 1940 come ancora oggi la gran parte
delle opposizioni esecutive risultavano attribuite alla competenza del pretore, restando la
competenza del tribunale limitata alle sole opposizioni all'espropriazione forzata di immobili (e di
mobili insieme a immobili).
Ora, chi si interroghi su come si poneva il problema del “raccordo” al lume delle disposizioni
sopra riferite ancora oggi presenti nel Codice non può che prendere atto:
aa) che esso risultava regolato chiaramente e con un certo automatismo in modo piano per tutte
le opposizioni affidate al pretore;
bb) che esso risultava regolato in modo meno chiaro, ma altrettanto piano per le opposizioni
affidate al tribunale.
5. Il sistema del “raccordo” fra fase introduttiva e fase successiva delle opposizioni esecutive in
relazione alla disciplina della fase introduttiva ed iniziale del giudizio di cognizione ordinaria nel
codice del 1940.
I. Per convincersi di quanto affermato in chiusura del paragrafo precedente, basta riflettere un
momento sul modo di disciplina della fase introduttiva ed iniziale del giudizio avanti al pretore ed
avanti al tribunale nella stesura originaria del Codice.
Per il giudizio avanti al tribunale l'introduzione della lite per la cognizione ordinaria era – com'è noto
– incentrato non sul sistema della notificazione della citazione ad udienza fissa, ma su un sistema per cui
alla notificazione della citazione era previsto seguisse la costituzione dell'attore nei dieci giorni dalla
notificazione (art. 165 c.p.c.) e la costituzione del convenuto entro venti giorni se il luogo della
notificazione della citazione si fosse trovato nella circoscrizione del tribunale adito (entro trenta giorni, se
il luogo de quo si fosse trovato fuori di quella circoscrizione, ma entro quella della Corte d'appello, entro
quaranta giorni ove il luogo si fosse trovato nella circoscrizione di altra corte d'appello) (8), dopo di che
la fissazione dell'udienza di prima comparizione e la designazione del giudice istruttore avvenivano, su
istanza contenuta nella citazione o nella comparsa di risposta ovvero presentata separatamente con
ricorso, da parte del presidente del tribunale (o, nei tribunali divisi in sezione, da parte del presidente di
sezione designato dal presidente del tribunale), una volta scaduto il termine per la costituzione del
convenuto (o, nel caso di assenza dell'istanza di designazione del giudice istruttore nella citazione, a
seguito di istanza che doveva essere presentata, a pena di estinzione del processo, entro trenta giorni dalla
scadenza del termine per la costituzione del convenuto: art. 172, abrogato dalla Novella del 1950). Il
relativo decreto veniva comunicato almeno cinque giorni prima dell'udienza alle parti costituite. Tale
sistema emergeva dagli ora abrogati articoli 172 e 173 del c.p.c.
II. Ora, alla scadenza del termine di costituzione del convenuto ex art. 166 c.p.c. non era
ricollegata alcuna effettiva decadenza per il convenuto, ancorché l'art. 167 c.p.c. dicesse nella sua
stesura originaria nel primo comma che “nella comparsa di risposta il convenuto deve proporre tutte
le sue difese e le eventuali domande riconvenzionali, indicare specificamente i mezzi di prova dei
quali intende valersi e formulare le conclusioni” ed il secondo comma che “se intende chiamare un
terzo in causa per la prima udienza, deve farne dichiarazione nella stessa comparsa”.
L'assenza di preclusioni in relazione alla scadenza del termine per il convenuto si evinceva,
oltre che dall'assenza di una espressa previsione in tal senso: a1) dal fatto che, ove l’attore si fosse
costituito nel termine di cui all’art. 165 c.p.c., il convenuto si poteva costituire alla prima udienza
avanti al giudice istruttore, come prevedeva il secondo comma dell’art. 171, senza comminare
alcuna decadenza; a2) dal fatto che l’art. 269 secondo comma testo originario prevedeva che il
giudice istruttore potesse concedere in prima udienza un termine per la chiamata del terzo.
Solo nella prima udienza di comparizione avanti al giudice istruttore, che era definita dall'art.
183 come “prima udienza di trattazione” sostanzialmente scattavano per il convenuto (peraltro
eventualmento, come subito si dirà) preclusioni per le attività di allegazione di fatti e di deduzione
delle prove.
Stabiliva, infatti. l'art, 183 quanto segue: “Nella prima udienza di trattazione le partì possono
precisare e, quando occorre, modificare le domande, eccezioni e conclusioni formulate nell'atto di
citazione e nella comparsa di risposta, sulle quali intendono insistere. Le parti, in ogni caso, possono
proporre le domande e le eccezioni che sono conseguenza diretta di quelle già formulate; e, quando
il giudice istruttore riconosce che sono rispondenti ai fini di giustizia, possono proporre altre
eccezioni o chiedere nuovi mezzi di prova e produrre nuovi documenti. Il giudice richiede alle parti
gli schiarimenti necessari e indica loro le questioni rilevabili d'ufficio, delle quali ritiene opportuna
la trattazione. Quando è necessario, il giudice può fissare altra udienza per il compimento di quanto
è prescritto nel presente articolo, autorizzando le parti a presentare memorie”.
Il successivo articolo 184 evidenziava il ricollegarsi alla prima udienza di trattazione (peraltro,
data la possibilità del rinvio e dello scambio di memorie, da intendere non in senso cronologico,
potendo scindersi in due udienze) di rigide preclusioni alle allegazioni e alle deduzioni e produzioni
probatorie, poiché sanciva che “durante l'ulteriore corso del giudizio, soltanto quando concorrono
gravi motivi il giudice istruttore può autorizzare le parti a produrre nuovi documenti, chiedere nuovi
mezzi di prova e proporre nuove eccezioni che non siano precluse (dove il “precluse” si intendeva
riferito alla disciplina sostanziale dell'eccezione).
Il dato di fatto somministrato da tali norme per il processo avanti al tribunale era nel senso che
nessuna preclusione (salva l'impossibilità di una domanda nuova dell'attore rispetto all'originaria e
l'onere dell'attore di dedurre le prove e produrre i documenti a sostegno della domanda
opportunamente individuata: la necessità che l'attore indicasse le prove ed i documenti si evinceva
dal fatto che l'art. 183 condizionava ad un'autorizzazione del giudice l'ulteriore compimento di tali
attività) nasceva prima della prima udienza di trattazione. In particolare, il fatto che il primo comma
dell'art. 183 consentisse solo la precisazione o modificazione delle eccezioni, delle domande e delle
conclusioni formulate dal convenuto nella comparsa di risposta e che, poi, il secondo comma
subordinasse all'autorizzazione del giudice la proposizione di nuove eccezioni e di nuove deduzioni
probatorie, non toglieva che, potendo il convenuto costituirsi, come si è detto, anche all'udienza di
prima trattazione, egli potesse articolare la sua difesa con la comparsa depositata in quella stessa
udienza.
In questo senso, ciò che si vuol rimarcare è che nel sistema del processo civile di cognizione
avanti al tribunale, predisposto dalla stesura originaria del Codice del 1940, la prima udienza di
trattazione era il momento iniziale in cui il convenuto poteva incorrere in preclusioni, ove non si
fosse costituito con comparsa di risposta almeno in essa. Il convenuto, in particolare, in difetto di
deposito di comparsa di risposta almeno nella detta prima udienza vedeva precludersi la
formulazione della riconvenzionale, della chiamata in causa del terzo, delle eccezioni e la possibilità
di dedurre mezzi di prova e depositare documenti, conservando solo (salva la possibilità di una
rimessione in termini ex art. 294, a seguito di tardiva costituzione dopo essere stato dichiarato
contumace) la possibilità di introdurre mere difese.
III. Per il processo pretorile, viceversa, era previsto (salva la possibilità di formulazione orale
della domanda per le cause non eccedenti il valore di lire duemila) il sistema della introduzione
della domanda mediante citazione a comparire ad udienza fissa (art. 312 primo comma stesura
originaria) e l'art. 313 c.p.c., dopo aver stabilito nel primo comma che la domanda dovesse
contenere oltre l'indicazione del giudice e delle parti, l'esposizione dei fatti e l'indicazione
dell'oggetto, prevedeva un termine di comparizione di tre giorni (liberi) ove la notificazione fosse
avvenuta entro la circoscrizione territoriale del pretore, mentre prevedeva termini di comparizione
ridotti alla metà rispetto alle altre ipotesi contemplate dall’art. 166 a proposito del termine di
costituzione del convenuto, con possibilità di abbreviazione ulteriore alla metà su istanza di parte.
L'art. 314 prevedeva poi (a parte il caso della domanda orale) che la costituzione delle parti
potesse avvenire in cancelleria o direttamente all'udienza di comparizione mediante presentazione
della citazione con la procura da parte dell'attore e della copia notificata della citazione da parte del
convenuto con la procura, senza necessità di comparsa di risposta.
L’art. 315 primo comma disciplinava la prima udienza di comparizione in questi termini: “Nella
prima udienza la parte attrice, quando occorre, deve chiarire i fatti e l’oggetto della domanda,
proponendo i mezzi di prova e producendo i documenti; la parte convenuta deve proporre le sue
difese, eccezioni, mezzi di prova e produrre i documenti. A tal fine il giudice, se è necessario, può
fissare altra udienza”.
L'esame del complesso normativo appena riferito evidenzia che anche nel processo pretorile
nessuna preclusione maturava per il convenuto prima dell'udienza di prima comparizione, le attività
previste dalla quale, peraltro potevano compiersi anche in due udienze successive, Va anzi detto che
preclusioni non maturavano neanche per l'attore, salva l'impossibilità di introdurre una nuova
domanda. In forza del richiamo dell'art. 311 successivamente alla prima udienza (intesa in senso
sostanziale) nuove allegazioni e deduzioni e produzioni probatorie erano vietate, salva
l'applicazione del già riferito art. 184 c.p.c.
6. Le modalità del “raccordo”.
I. Ora, se ci si interroga su come le modalità di introduzione del giudizio avanti al tribunale ed
al pretore promosso con citazione si potessero raccordare nel Codice del 1940 con la modalità di
introduzione con ricorso delle opposizioni esecutive ex artt. 615 secondo comma, 617 secondo
comma e 619 c.p.c., ai fini dello svolgimento della cognizione ordinaria, mi sembra che la risposta,
una volta considerate le norme innanzi richiamate nel paragrafo precedente, debba essere nel senso
che il raccordo fosse assolutamente naturale e, soprattutto, dovesse operare nel presupposto che il
ricorso introduttivo di dette opposizioni fosse già di per sé introduttivo di una cognizione piena ed
ordinaria, non diversamente da quella introdotta con la citazione di un normale giudizio.
Questa conclusione si evinceva, in particolare, dalla considerazione delle norme degli articoli
184 e 185 delle disposizioni di attuazione.
L'art. 184, nel prevedere che il ricorso introduttivo dell'opposizione ex secondo comma dell'art.
615 e quello introduttivo dell'opposizione ex art. 619 c.p.c. dovessero contenere “oltre le indicazioni
volute dall'art. 125 del codice” quelle di cui al n. 4 ed al n. 5 dell'art. 163 del codice rivelava
l'intenzione del legislatore di parificare pienamente la domanda introdotta con ricorso alla domanda
introdotta con citazione. Infatti, posto che l'art. 125 individuava il contenuto necessario del ricorso
nell'indicazione dell'ufficio giudiziario adito, delle parti, dell'oggetto, delle ragioni della domanda e
delle conclusioni, l'imposizione della indicazione anche dei requisiti di cui ai numeri 4 e 5 dell'art.
163 (rispettivamente relativi, allora come ancora oggi, alla “esposizione dei fatti e degli elementi di
diritto costituenti le ragioni della domanda, con le relative conclusioni” ed alla “indicazione
specifica dei mezzi di prova dei quali l'attore intende valersi e in particolare dei documenti che offre
in comunicazione”) comportava una sostanziale coincidenza di contenuto fra la citazione ed i ricorsi
ex secondo comma dell'art. 615 e 619 c.p.c.
E ciò – mi pare – costituiva l'indice manifesto della volontà del legislatore di considerare con
detti ricorsi introdotta l'azione ordinaria di cognizione inerente detti tipi di opposizione. Con la
particolarità rappresentata dal fatto che sostanzialmente si verificava una piena parificazione della
forma dell'atto introduttivo nelle opposizioni da introdursi avanti al giudice dell'esecuzionetribunale e nelle opposizioni da introdursi avanti al giudice dell'esecuzione-pretore. Queste ultime,
una volta considerata la disciplina risultante dalle norme del primo comma dell'art. 313 e dalla
possibilità prevista dall'art. 315 della formulazione dei mezzi di prova e della produzione di
documenti in prima udienza, risultavano assoggettate alla disciplina di maggior rigore prevista per il
giudizio avanti al tribunale.
L'assenza nell'art. 184 di un riferimento all'opposizione ex art. 617 c.p.c. d’altro canto appariva
pressoché innocua, cioè tale da non escludere comunque la stessa valutazione appena espressa, al
lume della considerazione del successivo articolo 185, il quale per tutte le opposizioni esecutive in
discorso stabiliva espressamente che “all'udienza di comparizione fissata avanti al giudice
dell'esecuzione a norma degli articoli 615, 618 e 619, del codice si applica la disposizione
dell'articolo 183 del codice”.
L'espressa previsione che l'udienza di comparizione avanti al giudice dell'esecuzione fosse
assoggettata al regime dell'art. 183 (e, per le opposizioni esecutive di competenza pretorile non al
regime dell'art. 315 c.p.c.), oltre a suggerire che l'art. 184 dovesse estendersi anche all'opposizione
ex art. 617, corroborava pienamente l'impressione che la cognizione ordinaria fosse introdotta già
fin dal ricorso introduttivo dell'opposizione, poiché significava che con riferimento a quell'udienza
(se del caso scindibile in due udienze con l'intermezzo di memorie scritte, giusta la riferita
previsione dell'art. 183 ultimo comma) si verificavano le preclusioni previste per il normale
processo cognitivo con riguardo alla prima udienza di trattazione avanti al tribunale.
Né una controindicazione al riguardo si poteva trarre dalla circostanza che gli articoli 615
secondo comma, 618 secondo comma e 619 terzo comma prevedessero, il primo ed il terzo per il
caso di positiva valutazione sulla competenza, il secondo fisiologicamente (data la coincidenza fra
competenza iniziale e competenza sul merito) che il giudice dell'esecuzione adito, competente anche
per il merito, procedesse all'istruzione a norma degli articoli 175 e seguenti. Il richiamo a tali norme,
infatti, non poteva certo significare che si dovesse rifissare l'udienza ex art. 183, posto che già
l'udienza di comparizione era tale.
II. Ora, il fatto che il ricorso dovesse avere i requisiti contenutistici della citazione ed il fatto che
l'udienza di comparizione avanti al giudice dell'esecuzione fosse un'udienza ex art. 183, rendevano –
a mio avviso – pienamente compatibile la disciplina che gli articoli 615, secondo comma, 617
secondo comma e 619 davano all'introduzione delle opposizioni esecutive con quella normale
dell'introduzione del giudizio mediante citazione.
E ciò per la ragione che la modalità di introduzione tramite ricorso, seguito da decreto di
fissazione dell'udienza di comparizione da notificarsi entro un termine perentorio, risultava
pienamente idonea ad assicurare uno svolgimento della fase introduttiva assolutamente analogo a
quello del processo introdotto con citazione.
Infatti:
b1) la previsione dell'art. 184 delle disp. di att. del c.p.c., laddove stabiliva che il ricorso
dovesse avere un contenuto simile a quello della citazione garantiva che al ricorrente fossero
imposti oneri di allegazione e probatori fin dall'atto introduttivo identici a quelli imposti all'attore in
una citazione (avanti al tribunale);
b2) la previsione della fissazione dell'udienza da parte del giudice e di un termine perentorio da
lui stabilito per la notificazione del ricorso e del relativo decreto, si presentava come perfettamente
idonea ad assicurare che il contraddittorio si attivasse in un momento tale, rispetto alla fissata
udienza, da garantire alla parte opposta, cioè al convenuto in opposizione, almeno un termine a
difesa identico a quello stabilito dagli articoli 166 (rispettivamente per la costituzione) e 313 (per la
comparizione), tra il giorno della notificazione e quello dell'udienza, nel senso che il giudice nel
fissare l'udienza ed il termine poteva indicare quest'ultimo in modo tale che il termine a difesa fosse
rispettato;
b3) la possibilità, fisiologica nel sistema degli articoli 615, 617 e 619, che l'opposto si
costituisse in udienza, del resto, corrispondeva a quanto previsto come norma per il processo
pretorile introdotto con citazione, mentre, per quello avanti al tribunale, non rappresentava alcuna
alterazione al sistema delle preclusioni operante per l’ordinario processo avanti al tribunale, poiché
si è detto sopra che in quel processo, pur essendo previsto che il convenuto si dovesse costituire
prima dell'udienza ex art. 183, in definitiva il difetto di tale costituzione non determinava per lui
decadenze, essendogli riconosciuta la possibilità di costituirsi con la comparsa anche in detta
udienza e svolgere le stesse attività, da compiersi con la comparsa depositata entro il termine per la
costituzione ex art. 166.
III. Va notato a questo punto che il quasi totale affidamento al pretore della competenza sulle
opposizioni esecutive, una volta considerato che il termine a difesa per il processo pretorile era di
tre giorni nel caso di notificazione entro la circoscrizione del giudice adito, di dieci in caso di
notificazione entro quella del tribunale, di venti entro quella della corte d'appello (tralascio le ipotesi
della notifica nelle colonie ed all'estero) ed una volta tenuto conto che tali termini ridotti potevano
essere abbreviati alla metà, comportava di fatto la conseguenza che per provvedere sull'istanza di
sospensione dell'esecuzione ex art. 624 e su quella ex art. 618, per il caso che non si fosse ritenuto di
provvedere inaudita altera parte si presentava pienamente idonea la stessa udienza di comparizione,
senza che occorresse fissare un'udienza anticipata per la trattazione della sola questione di
sospensione o di quella ex art. 618 c.p.c..
Infatti, la prospettiva fisiologica della fissazione dell'udienza ex art. 183 in tempi relativamente
brevi garantiva la possibilità che si potesse provvedere sollecitamente su quelle istanze, aventi
natura cautelare.
E tutto sommato, una volta considerato che il termine per la costituzione avanti al tribunale di
cui all'art. 166 poteva essere analogamente dimezzate, anche in sede di fissazione dell'udienza di
comparizione nei processi di opposizione esecutiva di competenza del tribunale l'udienza di
comparizione ex art. 183 avrebbe potuto essere fissata (a seguito di istanza di abbreviazione) a
breve, in modo da consentire sollecita possibilità di decisione sulle suddette istanze cautelari. Basti
pensare che nei casi in cui il luogo di notificazione del ricorso in opposizione e del decreto di
fissazione dell'udienza si fosse trovato nella circoscrizione del tribunale, l’udienza avrebbe potuto
essere fissata entro dieci giorni dalla notificazione, mentre ove quel luogo si fosse trovato entro la
circoscrizione della corte d'appello entro quindici giorni e ove si fosse trovato nella circoscrizione di
altra corte d'appello entro venti giorni (tali termini risultavano dalla divisione alla metà di quelli
fissati dall'art. 166).
Dunque, nell’impianto originario del codice del 1940 ben si comprendeva il senso sia della
previsione che il ricorso oppositivo avesse gli stessi requisiti della citazione sia della previsione che
l'udienza di comparizione fosse una normale udienza ex art. 183: il processo di opposizione era
immaginato né più né meno che come un normale giudizio di cognizione, in cui cambiava solo la
modalità di introduzione, ma restava immutata l’organizzazione della fase iniziale, essenzialmente
in punto di preclusioni alle allegazioni ed alle deduzioni e produzioni probatorie. L'omologazione
del contenuto del ricorso a quello della citazione, in punto di oneri di allegazione e probatori
dell'attore opponente e la previsione che l'udienza di comparizione fosse un’udienza ex art. 183, cioè
l'udienza in cui si verificavano, in definitiva, anche nel rito introdotto con la citazione, le preclusioni
per il convenuto, si presentavano perfettamente funzionali a far considerare il processo oppositivo
un processo che (salvo la modalità introduttiva) ricalcava quello introdotto con citazione ed era
direttamente idoneo ad introdurre la cognizione ordinaria.
7. La possibilità di fissazione di un’apposita udienza, anticipata rispetto a quella ex art. 185, per la
sola trattazione dell’istanza di sospensione dell’esecuzione e dell’istanza di adozione dei
provvedimenti ex art. 618 sul corso dell’esecuzione.
I. In un tale contesto, d'altro canto, occorreva tenere conto che l'apposita regolamentazione
dettata dagli articoli 624 e 625 (rimasti ancora oggi immutati) per il procedimento sull'istanza di
sospensione dell'esecuzione in caso di ex art. 615 e 619 e l'ulteriore regolamentazione dettata
dall'art. 618 primo e secondo comma per i provvedimenti urgenti in ordine al corso dell’esecuzione,
si presentava assolutamente idonea a consentire l’adozione di tale provvedimento anche prima
dell'udienza ex art. 183, nei casi in cui la fissazione di tale udienza in modo da consentire
l'osservanza del termine a difesa si fosse collocata a tal distanza dal deposito del ricorso da collidere
con l'esigenza di un provvedimento immediato e sollecito in ordine all'adozione di tale
provvedimento.
Per quanto riguardava il procedimento sull'istanza di sospensione dell'esecuzione, di cui all'art.
695 c.p.c., la previsione del primo comma dell'art. 625 c.p.c., secondo cui sull'istanza “si provvede
con ordinanza, sentite le parti”, si presentava idonea a consentire:
c1) sia che si provvedesse nell'udienza di comparizione fissata ai sensi dell'art. 183 c.p.c.;
c2) sia che si potesse provvedere in un'apposita udienza, riservata alla sola cognizione
dell'istanza e collocantesi prima dell'udienza ex art. 183, da fissarsi congiuntamente ad essa nel
decreto pronunciato ex art. 615 secondo comma o ex art. 619 secondo comma c.p.c. oppure a
seguito di istanza presentata nelle more del sopraggiungere dell'udienza ex art. 183, anteriormente
ad essa. Viceversa, per il caso di provvedimento sull'istanza di sospensione fosse assunto inaudita
altera parte, la previsione dell'art. 625 secondo comma, secondo cui “nei casi urgenti, il giudice può
disporre la sospensione con decreto, nel quale fissa l’udienza di comparizione delle parti” e che
“all'udienza provvede con ordinanza”, si presentava idonea, sia a giustificare che tale udienza si
identificasse, nella stessa udienza ex art. 183, sia, per ragioni di sollecita definizione del
procedimento, in un'udienza apposita fissata anteriormente, sulla falsariga di quanto consentiva il
primo comma dell'art. 625 c.p.c..
Inducevano a questa ricostruzione:
d1) la circostanza che il legislatore avesse dettato un apposito procedimento per provvedere
sull'istanza di sospensione;
d2) il rilievo che, se il legislatore avesse voluto escludere in caso di provvedimento a seguito di
contraddittorio, la possibilità di fissazione di un'udienza apposita anteriore a quella ex art. 183,
avrebbe nel primo comma dell'art. 625 detto che sulla sospensione si provvede all'udienza fissata ai
sensi del secondo comma dell'art. 615 ed ai sensi del secondo comma dell'art. 619 e non avrebbe
usato, invece, l'espressione “sentite le parti”, la quale, in ossequio al principio di libertà delle forme
(art. 121 c.p.c.), ben si prestava alla possibilità della fissazione di un'udienza anticipata;
d3) la circostanza del generico riferimento del secondo comma dell'art. 625 c.p.c. ad un decreto
di fissazione dell'udienza di comparizione delle parti per il caso di provvedimento assunto senza
contraddittorio e non al decreto di fissazione dell'udienza di cui al secondo comma dell'art. 615 ed al
secondo comma dell'art. 619.
II. Quanto ai provvedimenti urgenti correlati all'opposizione agli atti esecutivi dall'art. 618
c.p.c., mi sembra che potesse sostenersi (e si possa ancora oggi sostenere) che il primo comma di
tale norma, laddove dice che il giudice dell'esecuzione “dà, nei casi urgenti, i provvedimenti
opportuni”, non escludesse la possibilità di provvedere in contraddittorio previa fissazione di
un'apposita udienza anticipata rispetto a quella ex art. 183 c.p.c., oltre che con il decreto inaudita
altera parte. Mi induce a tale conclusione il rilievo che il complemento di modo “con decreto”,
contenuto in precedenza nello stesso comma, è retto dal verbo “fissa” e sembra non correlarsi anche
al successivo verbo “dà”.
8. Le opposizioni esecutive dopo la Novella del 1950.
I. La Novella del 1950 a mio avviso non comportò alcun effetto sul sistema del “raccordo” fra la
fase introdotta con ricorso delle opposizioni in discorso e quella successiva .
In particolare:
aa) l'introduzione del sistema della citazione a comparire ad udienza fissa anche per il processo
avanti al tribunale e la previsione (art. 163-bis nel testo anteriore alla novella di cui alla l. 353/90,
introdotto, dalla Novella del 1950) di termini di comparizione rispettivamente di trenta giorni,
quaranta e sessanta giorni, a seconda che la notificazione della sitazione fosse avvenuta nella
circoscrizione del tribunale adito, nella circoscrizione della corte d'appello o in quella di altra corte
d'appello, unita alla possibilità di una riduzione alla metà di tali termini, consentiva a breve la
fissazione dell'udienza di comparizione ex art. 183, sempre in forza dell'immutato art. 185 disp. att.
c.p.c., nel rispetto di tali termini, cioè assicurandosi che fra la scadenza del termine perentorio per la
notificazione del ricorso e del decreto e l'udienza intercorressero i termini, eventualmente ridotti alla
metà, di cui all'art. 163-bis c.p.c.;
bb) per il processo pretorile, rimasto fermo il termine di comparizione in caso di notifica entro
la circoscrizione del pretore e sempre ridotti alla metà di quelli stabiliti ex novo dall'art, 163-bis e
comunque ulteriormente riducibili essi stessi alla metà (art. 313 nel testo anteriore alla l. n. 353/90) i
termini in caso di notifica fuori da quella circoscrizione, la fissazione a breve dell'udienza ex art.
183 c.p.c. era automaticamente garantita, pur dal rispetto dei termini di comparizione fra scadenza
del termine perentorio per la notifica e udienza, in tempi relativamente, brevi;
cc) la possibilità che sull'istanza di sospensione dell'esecuzione vi fosse una tale urgenza di
provvedere, sia pure nel contraddittorio delle parti, da imporre la fissazione di un'udienza ad hoc
prima dell'udienza di comparizione ai fini della cognizione ordinaria, ancorché fissata in modo da
dar luogo all'abbreviazione del termine a difesa, rimaneva implicitamente prevista per le ragioni
indicate nei paragrafi precedente con riferimento alla stesura originaria del Codice;
dd) analoga possibilità si poteva dare per i provvedimenti dell'art. 618 in ordine all'opposizione
agli atti esecutivi, sempre per le ragioni indicate con riguardo alla stesura originaria del Codice;
ee) l'eliminazione delle preclusioni ricollegate all'atto introduttivo per l'attore, la conservazione
delle preclusioni per la chiamata in causa e per la riconvenzionale del convenuto con riguardo al
deposito della comparsa di risposta almeno all'udienza ex art. 483 c.p.c. e l'eliminazione delle
ulteriori preclusioni previste dall'originario art. 183 con riguardo a tale udienza, risultanti dalla
modificazione dell'art. 183 e dell'art. 184 operata dalla Novella del 1950 rimasero, d'altro canto
ininfluenti sulla ricostruzione delle opposizioni esecutive nel senso proposto alla luce della stesura
originaria del Codice, poiché anche nel nuovo regime lassista di assenza di preclusioni (salvo per la
proposizione di domande nuove, la riconvenzionale e la chiamata in causa di un terzo) rimase
fermo, in forza del mantenimento delle norme degli articoli 184 e 185 delle disposizioni di
attuazione, che i ricorsi introduttivi delle opposizioni esecutive avverso esecuzione già iniziata
introducevano essi stessi l'ordinaria cognizione;
ff) l’udienza ex art. 183 fissata con i decreti di cui agli artt. 615 secondo comma, 617 e 619
secondo comma restò una normale udienza ex art. 183 c.p.c., assolutamente simile all'udienza di un
normale giudizio cognitivo introdotto con citazione e come tale udienza, in forza della eliminazione
delle preclusioni emergente dall'art. 184 novellato (9), divenne un'udienza in cui le uniche
preclusioni che si potevano verificare erano rappresentate: ff1) dalla mancata proposizione della
riconvenzionale da parte del convenuto opposto, che tale domanda non avesse svolto almeno
costituendosi in essa ai sensi dell'art. 171 secondo comma rimasto immutato; ff2) dalla mancata
formulazione almeno in detta udienza dell'istanza di chiamata in causa del terzo, possibilità
mantenuta dagli immutati secondo e terzo comma dell'art. 269 (ancorché l'immutato art. 167
prevedesse come nella stesura originaria del Codice che la chiamata dovesse essere formulata nella
comparsa);
gg) il mantenimento nell'art. 184 novellato della preclusione alla possibilità di una domanda
nuova dell'attore, cioè dell'opponente, confermava poi quanto già sancito nella stesura originaria del
Codice.
II. Anche dopo la Novella del 1950, dunque, il problema del “raccordo” fra la forma
processuale con cui le opposizioni esecutive venivano introdotte e lo svolgimento del processo di
primo grado a seguito della normale introduzione con citazione, siccome emergente dalle norme
degli articoli 184 e 185 delle disposizioni di attuazione e dalle norme degli articoli 615 secondo
comma, 618 e 619 secondo comma rimaneva entro i non disagevoli binari in cui aveva inteso
incardinarlo il Codice del 1940 e che sopra sono stati illustrati.
Che l'applicazione del sistema come sopra ricostruito non desse luogo a problemi mi sembra
emerga da un dato.
Nella ricerca di precedenti giurisprudenziali sulle questioni applicative delle norme degli
articoli più volte cennati sul “raccordo” mi sono imbattuto solo in un precedente (10) a proposito
della questione del termine di comparizione e in pochissimi precedenti per la questione dell'inizio
del giudizio di cognizione con lo stesso ricorso (11), mentre non ho rinvenuto nulla a proposito
della possibilità innanzi sostenuta della fissazione di un'udienza ad hoc per la sola trattazione della
questione di sospensione dell'esecuzione e dei provvedimenti a seguito dell'opposizione ex art. 617
c.p.c.
Evidentemente, la circostanza che la quasi totalità delle opposizioni esecutive competevano al
pretore, unita alla brevità dei termini a comparire avanti a tale giudice, nonché la sostanziale
inesistenza di ragioni di urgenza nelle opposizioni avverso gli atti esecutivi in materia di
espropriazione immobiliare (dato il suo meccanismo piuttosto lento) hanno fatto sì che non
sorgessero questioni in ordine alla inosservanza dei termini a comparire di cui all'art. 163-bis e 313
c.p.c. e neppure si palesasse l'opportunità di fissazione di un'udienza anticipata rispetto a quella ex
art. 185 disp. att. c.p.c..
La dottrina, d'altro canto, trovandosi ad operare in un sistema processuale che non prevedeva
sostanzialmente preclusioni anteriormente alla prima udienza di trattazione ex art. 183 ed in
relazione ad essa prevedeva solo la preclusione alla riconvenzionale del convenuto ed alla chiamata
in causa, non ha molto approfondito – a mio modesto avviso – il problema del “raccordo” e si è
limitata ad affermazioni del tutto fugaci circa il termine di comparizione a difesa da darsi in sede di
fissazione dell'udienza ex art. 183 (12) e tralasciando del tutto di considerare la possibilità che
l'udienza di comparizione per la trattazione delle questioni inerenti la sospensione ed i
provvedimenti ex art. 618 potesse essere fissata anticipatamente rispetto a quella ex art. 185 disp.
att. c.p.c. ai sensi dell'art. 183.
9. Il problema del “raccordo” fra il sistema dell’introduzione con ricorso delle opposizioni
esecutive e la nuova disciplina della fase introduttiva ed iniziale del processo di cognizione dopo le
recenti riforme.
I. Il lungo excursus su come era regolato il problema del “raccordo” nel sistema del Codice del
1940 e successivamente dopo la Novella del 1950 ed i risultati da esso somministrati mi sembra a
questo punto che permettano di affrontare e risolvere il problema nei termini nuovi in cui
certamente si pone dopo le recenti riforme, che hanno dettato una nuova disciplina della fase
introduttiva e della fase iniziale del processo civile di cognizione, introducendo (anche dopo la vera
e propria controriforma di cui ai dd.ll. n. 238, 347 e 432 (13) e alla legge n. 534/95) rilevanti novità.
Per non appesantire le trattazione esaminerò il problema del raccordo direttamente con riguardo
alla stesura definitiva della riforma, risultante dopo la legge n. 534/95, senza considerare, se non per
accenni, il problema con riferimento alla stesura originaria della legge 353/90.
Le novità che interessano ai fini del problema sono le seguenti:
1a) la previsione di un termine di venti giorni prima dell'udienza di comparizione (o di dieci, in
caso di riduzione del termine a comparire) indicata in citazione, per la costituzione del convenuto
(art. 166) con la comminatoria, in difetto, della decadenza dalla possibilità di proporre domanda
riconvenzionale e di chiamare in causa il terzo e, quindi, di una decadenza che matura prima
dell'udienza di comparizione; tale decadenza risulta per la riconvenzionale dall'espressa
comminatoria dell'art. 167, mentre per la chiamata in causa dall'art. 269 secondo comma novellato,
ove posti poi entrambi in relazione al secondo comma del pure novellato art. 171, che riconosce
ancora la possibilità di una costituzione del convenuto anche alla prima udienza, ma stabilisce che
restino ferme le decadenze di cui all'art. 167;
2a) la previsione di un termine di comparizione unitario di sessanta giorni (riducibili a trenta)
per il giudizio avanti al pretore e avanti al tribunale, stabilita dall'art, 163-bis novellato e risultante
dal fatto che ormai le uniche disposizioni speciali per il processo pretorile sono quelle degli artt. 314
e 315 riguardanti la fase decisoria, restando il processo pretorile interamente disapplicato ex art. 311
dalle norme sul proceso avanti al giudice monocratico del tribunale;
3a) la previsione conseguente di un ulteriore contenuto della citazione, rappresentato
dall'enunciazione di un avvertimento al convenuto in ordine alla circostanza che, non costituendosi
entro il termine di cui all'art. 166, incorrerà nelle decadenze di cui all'art. 167;
4a) la previsione di una scissione fra udienza di prima comparizione ed udienza di prima
trattazione, risultante dalla novellazione dell'art. 180 che appunto risulta ormai disciplinare con una
sorta di programma limitato ed obbligato la prima udienza di comparizione indicata nella citazione
e prevede indefettibilmente che si fissi altra udienza per la prima trattazione ai sensi dell'art. 183
novellato, per l'espletamento delle numerose attività in essa contemplate, con fissazione al
convenuto, anche contumace, di un termine per depositare memoria contenente le eventuali
eccezioni di merito e di rito in senso stretto, cioè rilevabili solo ad istanza di parte (14);
5a) la previsione del momento di preclusione della rilevazione, sia d'ufficio che ad istanza di
parte, della incompetenza per valore, territorio inderogabile e materia solo nella prima udienza di
trattazione ex art. 183 c.p.c. (15), stante il riferimento dell'art. 38 novellato appunto alla prima
udienza di trattazione.
10. La perdurante vigenza degli articoli 184 e 185 disp. att. c.p.c..
I. A tali profonde modifiche della fase introduttiva ed iniziale del processo di cognizione
introdotto con citazione non ha fatto riscontro alcuna modificazione delle norme che disciplinano il
problema del “raccordo” a proposito delle opposizioni esecutive.
Tuttavia a me sembra che, se si condividono i risultati dell'indagine sopra svolta su come
funzionava il “raccordo” prima della recente riforma e già nella stesura originaria del Codice,
l'assenza di quella modificazione non provochi alcun problema, a condizione che si leggano gli
articoli 184 e 185 delle disposizioni di attuazione con un'interpretazione adeguatrice, quanto alla
prima norma al mutamento del contenuto del suo referente nella disciplina del processo introdotto
con citazione e, quanto alla seconda al mutamento del suo stesso referente normativo.
La ragione per cui bisogna, a mio modesto avviso, procedere ad un'interpretazione adeguatrice
nel senso ora detto, risiede nel fatto che anche dopo la riforma deve reputarsi immutata l'idoneità dei
ricorsi ex art. 615 secondo comma, 617 secondo comma e 619 ad introdurre essi stessi la cognizione
ordinaria tramite una forma dall'atto introduttivo diversa dalla citazione. La conservazione
nell'ordinamento delle norme dell'art. 184 e 185 delle disposizioni di attuazione, le quali non sono
state abrogate espressamente e non possono reputarsi abrogate per tacita incompatibilità (art. 15
delle preleggi) da norme delle leggi di riforma di cui alla l. n. 353/90 e successive modifiche fino
alla l. n. 534/95, rende manifesto ancora oggi che il ricorso propositivo delle opposizioni in discorso
introduce esso stesso l’azione di cognizione ordinaria che costituisce l'oggetto delle stesse e
comporta che ancora oggi l'eventuale traslatio iudicii al giudice competente per il merito dopo la
prima fase determini la mera prosecuzione di un processo che deve reputarsi introdotto dalla
domanda formulata con il ricorso (16).
Che ancora oggi l'art. 184 delle disp. di att. dica, integrando la disciplina che scaturirebbe
dall'applicazione dell'art. 125 c.p.c. che il ricorso introduttivo dell'opposizione deve contenere
l'indicazione dei requisiti stabiliti per la citazione dai numeri 4 e 5 dell'art. 163, significa
chiaramente che continuiamo a trovarci in presenza di un atto che sostanzialmente si appiattisce
sulla normale citazione e suggerisce l'interrogativo sul se, a seguito dell'integrazione che la
disciplina della citazione ha subito con la previsione del nuovo requisito di cui al numero 7 dell'art.
163, afferente all'avvertimento al convenuto in ordine alle decadenze in cui incorrerà in difetto di
tempestiva costituzione venti giorni prima dell'udienza, non si debba reputare automaticamente
integrato anche lo stesso art. 185 o meglio si debbano reputare integrati gli artt. 615 secondo
comma, 618 primo comma e 619 secondo comma c.p.c. Nel contempo e comunque la permanenza
della norma conferma la caratterizzazione del ricorso de quo come introduttivo di una domanda di
cognizione ordinaria.
Che ancora oggi l'art. 185 delle disposizioni di attuazione dica che all'udienza di comparizione
fissata a seguito dei ricorsi all'esame si applica la disposizione dell'art. 183, se induce ad interrogarsi
su quale debba essere l'effettivo senso di tale richiamo normativo ed in particolare sul se, in
dipendenza della cessazione della connotazione dell'udienza ex art. 183 come prima udienza di
comparizione, detto richiamo non si debba intendere ora fatto all'art. 180 c.p.c., tuttavia continua a
rendere manifesto che la prima udienza di comparizione è udienza di un processo di cognizione
piena già instaurato dal ricorso, posto che ad essa trova applicazione una norma regolatrice di tale
processo e considerato quanto si deve sempre desumere e si è appena desunto dalla conservazione
dell'art. 184.
II. Ebbene, una volta considerato il significato della permanente vigenza delle due norme in
discorso, mi sembra che, non diversamente da quanto avveniva nella stesura originaria del Codice
del 1940 ed in quella risultante dalla Novella del 1950, oggi la linea interpretativa da seguire nella
soluzione del problema del raccordo debba essere nel senso che la fase introduttiva avanti al giudice
dell'esecuzione del processo oppositivo deve essere idonea ad assicurare lo svolgimento del
processo di cognizione introdotto fin dal ricorso, con quelle stesse modalità che lo caratterizzano
nell'ipotesi normale di introduzione mediante citazione.
In particolare, la regolamentazione che nel processo riformato (o controriformato?) ha il
formarsi delle preclusioni in ordine alle allegazioni dei fatti rilevanti per il decidere ed alle
deduzioni e produzioni probatorie deve operare anche nel processo introdotto dai ricorsi ex artt. 615,
617 e 619 c.p.c..
Una diversa soluzione potrebbe accettarsi, solo se si dimostrasse che detti ricorsi non
introducono direttamente l'azione di cognizione oggetto dei relativi giudizi e che essa si deve
reputare introdotta in un momento successivo e precisamente dopo l'esaurimento della fase cautelare
concernente l'istanza di sospensione dell’esecuzione o l'adozione de provvedimenti ex art. 618 e,
quindi, con l'ordinanza che dispone la trattazione avanti allo stesso giudice dell'esecuzione o la
rimessione avanti al giudice competente. Ma tale dimostrazione è preclusa dalla perdurante vigenza
degli articoli 184 e 185 delle disposizioni di attuazione (17).
III. La necessità che l'ordinaria disciplina in punto di preclusioni operi anche con riguardo ai
giudizi introdotti con ricorso di cui si discorre esclude qualsiasi possibilità sia di ricollegare il
verificarsi di preclusioni anteriormente alla prima udienza di comparizione fissata con il decreto ex
secondo comma dell'art. 615, 617 e 619 a modalità e garanzie diverse da quelle stabilite per la
cognizione ordinaria introdotta con citazione, sia di ricollegare all'udienza di comparizione
preclusioni stabilite con riguardo a momenti precedenti ad essa, sia di ricollegare a detta udienza
preclusioni che scattano normalmente dopo.
Una diversa soluzione, oltre a contrastare con gli articoli 184 e 185 delle disposizioni di
attuazione, sarebbe gravemente sospetta di illegittimità costituzionale, laddove stabilisse un modo di
operare delle preclusioni diverso o meglio più radicale di quello previsto per il processo introdotto
con citazione. In contrario, non potrebbe valere, del resto, la diversità e peculiarità della funzione
dei processi di opposizione ad esecuzione già iniziata, perché questa esigenza concerne a ben vedere
solo la fase di essi che si esprime nel procedimento sull'istanza di sospensione dell'esecuzione e
sull'adozione dei provvedimenti in merito allo svolgimento dell'esecuzione ex art. 618.
11. Il “raccordo” nel nuovo rito.
A questo punto si possono ricostruire le linee del “raccordo” alla luce delle ultime riforme.
Mi pare anzitutto che debba accettarsi l'idea che il giudice dell'esecuzione, nel fissare l'udienza
di comparizione ai sensi dell'art. 615 secondo comma, 618 primo comma e 619 secondo comma
debba fissare l'udienza rispettando il termine di comparizione di sessanta giorni od eventualmente
(su istanza di parte) quello ridotto alla metà, stabilito dal nuovo art. 163-bis c.p.c. (18). E ciò
esattamente come avveniva (o doveva avvenire) nel sistema risultante dall’originario impianto del
Codice del 1940 e poi nel sistema risultante dalla Novella del 1950.
In secondo luogo, il convenuto opposto ed eventualmente i convenuti litisconsorti necessari (per
esempio il debitore esecutato in caso di opposizione di terzo ex art. 619 c.p.c., ove voglia svolgere
domanda riconvenzionale o chiamare in causa un terzo deve costituirsi venti giorni prima di detta
udienza con comparsa depositata ai sensi dell'art 167. In difetto, incorrerà nella decadenza da tali
attività (19).
In linea preliminare a tale affermazione va, poi, ritenuto che nel decreto di fissazione
dell'udienza da parte del giudice dell'esecuzione deve essere contenuto ciò che è strettamente
funzionale all'operare delle preclusioni di cui all'art. 167, cioè l'avviso di cui al n. 7 dell'art. 163
c.p.c.
Invero, la mancata modificazione dell'art. 184 delle disposizioni di attuazione, nel senso di
prevedere che lo stesso ricorso introduttivo dell'opposizione debba contenere l'avvertimento, ben si
comprende, se si riflette che tale avvertimento è un requisito della vocatio in jus, la quale nella
forma della domanda giudiziale costituita al ricorso (salva qualche eccezione, che qui non stò a
richiamare) è elemento che si forma a livello statico, cioè sotto il profilo contenutistico, attraverso la
necessaria mediazione del giudice che fissa l'udienza di comparizione, cui segue poi la notificazione
di ricorso e relativo decreto. Il legislatore non poteva, dunque, integrare l'art. 184, stabilendo che il
ricorso debba contenere l'avvertimento in discorso. È il giudice dell'esecuzione che deve inserirlo
nel decreto di fissazione dell'udienza, una volta considerato che il ricorso introduce una domanda di
cognizione ordinaria, le cui forme di svolgimento vanno assicurate. L'inserimento nel ricorso da
parte dell'opponente, d'altro canto, sarebbe inidoneo a richiamare l'attenzione dell'opposto, in quanto
precederebbe la parte dell'atto formatasi con l'aggiunta del decreto di fissazione dell'udienza.
Né mi pare fondato sostenere (20) che ammettendo che il giudice dell'esecuzione debba
includere nel decreto l'avvertimento all'opposto che non costituendosi venti giorni prima
dell'udienza incorrerà nelle decadenze di cui all'art. 167, si finirerebbe per consentire al giudice di
fissare un termine perentorio, nonostante che l'art. 152, primo comma secondo inciso preveda che il
giudice possa fissarne solo “se la legge lo permette espressamente”.
È sufficiente replicare che non il giudice fisserebbe in tale modo il termine perentorio, ma la
stessa legge, del cui adattamento alla peculiarità dell'introduzione della cognizione ordinaria il
giudice deve doverosamente tener conto. Se la vocatio in jus sotto il profilo contenutistico si deve
esprimere attraverso il decreto di fissazione dell'udienza e non con l'indicazione dell'udienza come
nella citazione, da parte dell'attore, cui in quel caso compete farsi carico dell'avvertimento, risulta
fisiologico che il giudice, nel dar corpo ad essa inserisca quel suo elemento che è l'avvertimento. La
volontà del legislatore della riforma in tal senso non mi sembra discutibile e, quindi, è essa stessa
che attribuisce al giudice dell'esecuzione il potere di fissazione del termine perentorio.
Va poi ricordato che sul significato dell'avverbio “espressamente”, di cui al primo comma
dell'art. 152 la dottrina ha avvertito da tempo che esso va inteso nel senso che il termine deve essere
previsto “manifestamente”, cosa che implica che esso possa risultare non solo da un'espressa
manifestazione linguistica della legge, ma anche dalla stessa qualificazione dell’atto o dagli effetti
che la sua scadenza produce (21). Nella specie è appunto il requisito funzionale cui adempie il
decreto di fissazione dell'udienza, che è assolutamente analogo all'indicazione dell'udienza di
comparizione di cui al n. 7 dell'art. 163 che fa ritenere la sussistenza della volontà di legge
attributiva al giudice dell'esecuzione dell'implicito potere di concedere il termine, risultante
dall'inserzione dell'avvertimento di cui si discorre.
Né potrebbe, inoltre, pensarsi che l'avvertimento sia inutile, per la ragione che il ricorso ed il
decreto di fissazione dell'udienza debbano pervenire ad un soggetto “edotto delle prescrizioni
normative sulla costituzione in giudizio e sulle conseguenze della sua intempestività” (22).
Osservo, in proposito:
1b) che, secondo un consolidato orientamento della Suprema Corte (23), le opposizioni ad
esecuzione già iniziata non possono essere notificate nel domicilio eletto ex art. 480 terzo comma in
relazione all'art. 489, ma debbono notificarsi personalmente alla parte, cosa da cui consegue che la
notifica del ricorso e del decreto siano ricevute da soggetto che certamente non è edotto sulla
disciplina processuale dell'art. 167 c.p.c.;
2b) che la notificazione in discorso, anche se si rigettasse la tesi della Cassazione, talvolta può
essere diretta a soggetto che non ha ancora difensore, come il debitore esecutato nell'opposizione ex
art. 619 c.p.c.;
3b) che in generale, quando pure la notifica fosse ricevuta da legale, l'avvertimento, in quanto
esprime una certezza in ordine al verificarsi della preclusione, non cessa di essere opportuno od
esclude equivoci e fraintendimenti, tanto più in un sistema che viene ricostruito in via interpretativa.
Dunque, la necessità che nel decreto di fissazione dell'udienza sia contenuto l'avvertimento ai
sensi del n. 7 dell'art. 163 mi sembra difficilmente contestabile (24).
12. L’udienza che il giudice dell’esecuzione deve fissare nelle opposizioni esecutive. Cenni sul
ricorso orale e sull’opposizione ex art. 512 c.p.c.
I. Resta a questo punto da chiarire che tipo di udienza il giudice dall'esecuzione deve fissare ai
sensi del secondo comma dell'art. 615, del primo comma dell'art. 617 e del secondo comma dell'art.
619 c.p.c., posto che l'art. 185 continua a dire formalmente che all'udienza fissata ai sensi di tali
norme si applica l'art. 183 c.p.c.
Nella stesura originaria della riforma di cui alla l. n. 353/90 la coincidenza tra udienza di prima
comparizione e prima udienza di trattazione ai sensi dell'art. 183 c.p.c., alla luce della ricostruzione
qui proposta rendeva automatico il raccordo, non diversamente da quanto avveniva nell'impianto
originario del Codice del 1940 ed in quello risultante dopo la Novella del 1950.
L'udienza fissata dal giudice dell'esecuzione era (o avrebbe dovuto essere) proprio una vera
udienza ex art. 183, nella quale si dovevano svolgere le attività in essa previste e cui poteva seguire
l'appendice di trattazione scritta di cui al quinto comma del testo dell'art. 183 originariamente
novellato dalla legge 353/90. Solo dopo l'esaurimento delle attività previste dall'art. 183 c.p.c., non
diversamente da quanto prevede l'art. 184 con l’inciso “salva l'applicazione dell'art. 187”, per le
opposizioni ex secondo comma dell'art. 615 c.p.c. e per quelle ex art. 619 c.p.c. poteva avvenire la
delibazione della competenza e la rimessione al giudice competente, con sentenza in caso di
contrasto fra le parti e con ordinanza in caso di accordo.
Non mi sembra che fosse possibile un'altra soluzione nell'ottica, che ho accolto, della
introduzione da parte delle opposizioni esecutive della normale azione di cognizione ed in quella
conseguente della fissazione dell'udienza nel rispetto dei termini di comparizione e con onere del
convenuto di costituirsi a pena di decadenza venti giorni prima (o dieci giorni prima in caso di
abbreviazione del termine a comparire), a pena di decadenza dalle attività che si precludevano con
lo scadere del termine per la tempestiva costituzione, fra le quali nel sistema originario della l.
353/90 vi erano anche le eccezioni di merito e di rito in senso stretto (25).
II. Nella situazione determinatasi a seguito della l. 534/95 che ha scisso la prima udienza di
comparizione dalla prima udienza di trattazione, mi sembra che il coordinamento, per chi accetta
l'idea qui sostenuta della instaurazione con le opposizioni esecutive di azioni di cognizione
ordinaria fin dal ricorso, si debba e si possa realizzare agevolmente, ipotizzando che l'art. 185 delle
disp. di att. sia stato tacitamente modificato e che il riferimento in esso formalmente contenuto
all’udienza ex art. 183 si debba leggere come un riferimento all'udienza ex art. 180. Ciò, sulla base
del rilievo che la funzione primaria cui assolveva l'udienza ex art. 183 nell'impianto originario del
Codice, dopo la Novella del 1950 ed anche in modo effimero dal 30 aprile 1995 fino al d.l. n.
238/95 era quella di udienza di comparizione delle parti. Poiché ora l'udienza di comparizione delle
parti è regolata dall'art. 180 c.p.c. mi sembra che sia consentito immaginare che il frettoloso
legislatore dei dd.ll. n. 238, 347 e 432/95 e poi della l. n. 534/95 abbia semplicemente dimenticato
di modificare formalmente il riferimento normativo contenuto nell'art. 185.
L'udienza di comparizione fissata ai sensi dell'art. 615 secondo comma, 618 primo comma e
619 secondo comma è ora, dunque, una vera e propria udienza ex art. 180.
I corollari di questa ricostruzione sono i seguenti:
1c) in tale udienza possono essere compiute (ferme le attività inerenti la pronuncia sulle istanze
cautelari ex art. 624 e 618 c.p.c.) solo le attività specificamente previste dall'art. 180 primo comma;
2c) ai sensi del secondo comma dell'art. 180 il giudice dell’esecuzione deve fissare
necessariamente altra udienza ai sensi dell'art. 183, dando termine al convenuto (cioè all'opposto o
agli opposti, anche se contumaci) per dedurre le eccezioni di merito e di rito in senso stretto;
3c) all'udienza ex art. 183 il giudice dell'esecuzione dovrà, se del caso (cioè ove le parti
compaiano) procedere al loro libero interrogatorio ed al tentativo di conciliazione e dovranno essere
svolte le attività previste dal quarto comma dell'art. 183 e se del caso potrà essere chiesta la
trattazione scritta ai sensi dell'art. 183 quinto comma;
4c) solo dopo l'esaurimento delle attività di cui sub 3c) e quindi nella stessa udienza ex art. 183
in caso di mancata richiesta di trattazione scritta ovvero in una successiva udienza nel caso sia stata
richiesta tale trattazione, il giudice dell'esecuzione dovrà applicare l'art. 616 e l'art. 619 terzo
comma, provvedendo nel caso di sussistenza della sua competenza ai sensi dell'art. 184 ovvero, nel
caso di insussistenza di tale competenza alla rimessione del processo avanti al giudice competente
con ordinanza in caso di accordo delle parti, con sentenza secondo le normali regole in caso di
disaccordo;
5c) anche il secondo comma dell'art. 618 per la parte in cui dispone circa l'istruzione della causa
deve reputarsi tacitamente modificato nel senso suddetto.
Il sistema delineato nei numeri precedenti è l'unico che è coerente con la struttura che le
opposizioni esecutive hanno mantenuto anche dopo la recente riforma, cioè quella di ordinarie
azioni di cognizione introdotte da ricorso.
Il sistema così ricostruito comporta due effetti:
1d) assicura il formarsi delle preclusioni, ricollegate alla fase introduttiva, all'art. 180 ed all'art.
183, comunque nella fase avanti al giudice dell'esecuzione avanti, rendendo veramente meramente
propulsivo il provvedimento di eventuale rimessione al diverso giudice competente, laddove
contrasterebbe con la cennata idoneità del ricorso ad introdurre l'azione ordinaria che esse si
formino successivamente avanti a quel giudice;
2d) consente che le parti e lo stesso giudice discutano della competenza nella sede normale, che,
ex art. 38 c.p.c., è la prima udienza di trattazione, cioè quella ex art. 183 ed una volta avvenuta la
rimessione sull'accordo delle parti la questione di competenza, salvo che sussistano gli estremi per il
conflitto d'ufficio ex art. 45 c.p.c. (che considero con buona parte della dottrina ancora in vigore)
sollevabile ad istanza del giudice ad quem.
III. Circa la possibilità della proposizione del ricorso in forma orale in caso di opposizione
all'esecuzione ex art. 615 ed in caso di opposizione agli atti esecutivi, nel corso di un'udienza del
processo esecutivo (ammessa dalla giurisprudenza), mi sembra che non potranno sorgere particolari
problemi, nel senso che, ferma la possibilità di discutere immediatamente sulle istanze cautelari,
occorrerà fissare l’udienza ex art. 180, ma sarà necessario – mi sembra – concedere un previo
termine all'opponente per depositare memoria integrativa subordinatamente all'iscrizione a ruolo
della causa, per poi rispettare la normale disciplina nel senso sopra ritenuto.
IV. Non mi sono soffermato sull'opposizione ex art. 512 c.p.c., perché il tema non lo richiedeva,
ma rilevo comunque che quanto appena osservato circa il ricorso orale, andrà applicato senz'altro,
nel senso che occorrerà fissare un'udienza ex art. 180 c.p.c., dando termine all'attore in opposizione
per depositare memoria integrativa ed ai convenuti opposti per depositare comparsa entro un
termine fissato a venti giorni prima dell'udienza.
13. Il procedimento sull’istanza di sospensione dell’esecuzione e quello sui provvedimenti ex art.
618 come procedimenti cautelari in corso di causa di merito.
La proposta ricostruzione ha finora volutamente ignorato le problematiche relative al
procedimento ex art. 664-625 in ordine alla sospensione dell’esecuzione ed ai provvedimenti
inerenti il corso dell’esecuzione di cui all’art. 618 c.p.c..
Ebbene, mi sembra che il coordinamento con tali problematiche del sistema sopra delineato sia
agevole e facilmente intuibile.
Al riguardo va considerato che il nuovo termine di comparizione ex art. 163-bis che il giudice
dell’esecuzione deve rispettare nel fissare l’udienza di prima comparizione, se aggiunto al termine
concesso per la notificazione, mal si concilia con la normale esigenza di provvedere, sia pure in
contraddittorio, in tempi brevi, connaturata alle dette misure. E ciò neanche in caso di abbreviazione
dei termini, sulla falsariga dell'art. 163-bis comma secondo. Allo stesso modo, ove abbia luogo con
il decreto di fissazione dell'udienza di comparizione l'adozione del provvedimento di sospensione
dell'esecuzione inaudita altera parte o l'adozione dei provvedimenti opportuni ex primo comma
dell'art. 618 sempre inaudita altera parte, attendere l'udienza di comparizione per il riesame in
contraddittorio stride con il diritto di difesa e soprattutto con la disciplina generale del procedimento
cautelare uniforme di cui all'art. 669-sexies, che vuole che in tempi brevi sia fissata l'udienza per
l'attivazione del contraddittorio in caso di misura cautelare concessa inaudita altera parte (26).
Ma in proposito non possono che tornare utili le considerazioni che si sono ampiamente svolte
in precedenza, a proposito del regime anteriore alla Novella del l950 e successivo ad essa, circa la
possibilità, che per la trattazione dell'istanza di sospensione e dei provvedimenti in ordine al corso
dell'esecuzione ex art. 618 c.p.c., possa farsi luogo alla fissazione di un'udienza ad hoc, anteriore
all'udienza di comparizione in funzione della cognizione ordinaria, nella quale saranno trattate solo
quelle questioni.
La medesima cosa potrà accadere per il caso di adozione di provvedimenti urgenti ex art. 618.
In tal modo si verrà a realizzare una sorta di sostanziale parificazione fra le ipotesi di
cognizione cautelare in discorso e quanto può accadere in una normale ipotesi di domanda cautelare
presentata in corso di causa nello stesso atto di citazione (27).
E ciò in piena aderenza alla natura di domanda cautelare in corso di causa che hanno sia
l'istanza di sospensione dell'esecuzione, sia l'istanza per i provvedimenti ex art. 618 c.p.c.
In definiva, dunque, il giudice dell'esecuzione, adito ex secondo comma dell'art. 615 o ai sensi
del secondo comma dell'art. 618 o ai sensi dell'art. 619 c.p.c., ove gliene sia fatta istanza od anche
d'ufficio, potrà fissare oltre all'udienza di comparizione ex art. 180 nel rispetto del termine ex art.
163-bis c.p.c., altra udienza per la preventiva trattazione dell'istanza cautelare di sospensione o di
adozione dei provvedimenti ex art. 618 c.p.c., nella quale avrà luogo la sola trattazione di tali
istanze e la parte opposta non sarà tenuta a costituirsi ai fini dello svolgimento della cognizione
ordinaria, ma solo ai fini della cognizione dell'istanza cautelare.
A seguito della relativa trattazione, che potrà anche protrarsi ad altra udienza le parti saranno
rimesse all'udienza ex art. 180, nella quale il giudizio seguirà il corso che ho descritto sopra.
Analogamente, ove con il decreto di fissazione dell'udienza di comparizione ex art. 180 si sia
provveduto inaudita altera parte mi sembra che si potrà fissare (come avveniva anche nella stesura
originaria del Codice del 1940) un'udienza anticipata per la sola trattazione della questione della
conferma o modifica del provvedimento, con successiva rimessione delle parti all'udienza ex art.
180.
Ed eventualmente, per chi accolga l'idea che il procedimento cautelare uniforme possa
estendersi ove compatibile anche ai procedimenti cautelari previsti dal c.p.c. fuori del capo III del
titolo I del quarto libro del Codice, si potrebbe sostenere che nel fissare l'udienza di conferma il
giudice del'esecuzione debba osservare i termini del secondo comma dell'art. 669-sexies.
Da ultimo e per concludere, debbo rilevare che, se si accetta l'idea che l'ordinanza di
sospensione dell'esecuzione sia ormai senz'altro revocabile e modificabile ai sensi dell'art. 669decies (28) dal giudice del merito si dovrebbe immaginare che nel caso di fissazione dell'udienza
anticipata per la trattazione della misura cautelare e di sua concessione a seguito di essa, all'udienza
ex art. 180 e fino all'eventuale rimessione al diverso giudice competente, nonché anche
successivamente, qualora la rimessione non debba avvenire, un'eventuale istanza di revoca o
modifica possa essere rivolta al giudice dell'esecuzione non ancora spogliatosi della causa.
(1) Figura, peraltro, che, com’è noto, può assolvere nel processo civile anche a funzioni diverse
da quelle della proposizione della domanda giudiziale: per un’efficace dimostrazione di questo
assunto e per l’attribuzione al ricorso della connotazione più generica di atto processuale, rimando a
CORDOPATRI, Ricorso (dir. proc. civ. ), voce dell’Enciclopedia del diritto, vol. XV, MILANO,
1989, pp. 740 e ss.
(2) È questa l’impostazione del PROTO PISANI, Lezioni di diritto processuale civile, Napoli,
1994, 737.
(3) Si veda per questa seconda impostazione E. DE FRANCISCI, I giudizi di cognizione
ordinaria introdotti con ricorso, dopo l’entrata in vigore della riforma del processo civile di cui
alla legge n. 353/90 e successive modificazioni: il procedimento possessorio, l’opposizione
all’esecuzione ed agli atti esecutivi, i giudizi di separazione e divorzio, ecc., in Giur. It., 1995, IV,
342, testo e nota 3.
(4) Per una rassegna vedi DE FRANCISCI, op. cit., 343 e ss.
(5) Alludo a DE FRANCISCI, op. cit. ed a DI BENEDETTO, Giudizi civili introdotti con
ricorso nella disciplina della novella, in Documenti Giustizia, 1995, 1310 e ss.
(6) Per la verità nell’opposizione di terzo all’esecuzione il secondo comma dell’art. 619 c.p.c.
dice che il termine per la riassunzione deve essere fissato all’opponente, apparentemente
sottintendendo che solo costui può procedere alla riassunzione avanti al giudice competente: in
proposito si veda SALETTI, La riassunzione del processo civile, Milano, 1981, 217.
(7) Sulla questione dell’ammissibilità o meno della sospensione dell’esecuzione a seguito di
opposizione agli atti esecutivi, nonché sulla spiegazione del riferimento all’adozione dei
provvedimenti opportuni di cui si dice nell’art. 618 c.p.c., vedi per tutti LUISO, Sospensione
dell’esecuzione, voce dell’Enciclopedia del Diritto, vol. XVIII, Milano, 1990, 65 e ss.
(8) Vi erano, poi, maggiori termini per il caso che la notificazione fosse avvenuta nelle colonie,
all’estero o per pubblici proclami.
(9) L’art. 183 nel testo risultante dalla Novella del 1950 e rimasto in vigore fino al 29 aprile
1995, diceva: “Nella prima udienza di trattazione le parti possono precisare o, quando, occorre,
modificare le domande, eccezioni e conclusioni formulate nell’atto di citazione e nella comparsa di
risposta” esattamente come nel testo originario del Codice del 1940, ma, come subito notò la
dottrina l’abrogazione degli originari commi secondo e quarto (il terzo comma, divenuto il secondo,
era quello sulla richiesta di chiarimenti da parte del giudice), combinata al nuovo testo dell’art. 184,
sanciva l’eliminazione delle preclusioni alle allegazioni e probatorie (salvi i limiti indicati nel testo)
in prima udienza; si veda per tutti ANDRIOLI, Commento al codice di procedura civile, vol. II,
terza ed., Napoli, 1961, su artt. 183 e 184). L’art. 184 nel testo novellato dalla riforma del 1950
stabiliva, infatti che “durante l’ulteriore corso del giudizio davanti al giudice istruttore, e finché
questi non abbia rimesso la causa al collegio, le parti, salvo applicazione, se del caso, delle
disposizioni dell’articolo 92 in ordine alle spese, possono modificare le domande, eccezioni e
conclusioni precedentemente, formulate, produrre nuovi documenti, chiedere nuovi mezzi di prova
e proporre nuove eccezioni che non siano precluse da specifiche disposizioni di legge”.
(10) Si tratta di Trib. Roma, 23 gennaio 1967 (in Temi romana, 1967, 433 ed in Giust. civ., Rep.
1968, voce Esec. forzata, n. 75), secondo cui l’art. 615 u.p. c.p.c. non prevedeva che il pretore
giudice dell’esecuzione, adito con opposizione all’esecuzione già iniziata, dovesse osservare, nel
fissare l’udienza di comparizione il termine di comparizione ex art. 313 c.p.c., ma, in caso di
omissione di fissazione di un preciso termine, si dovesse notificare entro un termine utile per
osservare il termine di comparizione ex art. 313.
(11) Cass. 4 ottobre 1962, n. 2806, in Foro it., 1963, I, 409 e Trib. Firenze 20 marzo 1953, in
Giur. Toscana, 407 affermarono che il giudizio di cognizione, conseguente alla opposizione di
terzo, iniziava solo davanti al giudice competente per valore, cui fosse stata rimessa la causa, mentre
Cass. 18 maggio 1971, n. 1491, in Giust. civ., Mass. 1971, 810 affermò implicitamene il contrario,
pur sostenendo erroneamente che la costituzione avvenuta nella fase avanti al giudice
dell’esecuzione comportasse, a seguito della mancata sostituzione avanti al giudice del merito, una
mera assenza e non una contumacia nell’ambito di tale fase processuale. Sul fatto che la
riassunzione a seguito di c.d. traslatio iudicii comporti, in dipendenza del mutamento dell’organo
giudicante, la necessità di una nuova costituzione avanti ad esso, si veda per tutti esaurientemente,
anche per citazioni di dottrina e giurisprudenza, SALETTI, La riassunzione del processo, Milano,
1981, 193.
(12) per tutti si veda autorevolmente ORIANI, Opposizione all’esecuzione, in Digesto delle
discipline privatistiche, sez. Civile, vol. XIII, Torino, 1995, 603, il quale, dopo avere affermato che
la fissazione dell’udienza di comparizione non doveva rispettare i termini di comparizione di cui
agli articoli 163-bis e 313, giustifica tale affermazione
in modo che mi sembra del tutto insufficiente, sia in sé e per sé considerato, sia perché non tiene in
alcun conto il significato delle disposizioni degli articoli 184 e 185 disp. att. c.p.c. Sotto il primo
aspetto il rilievo che il processo esecutivo non tollerava quei termini trascura di considerare sia le
precisazioni svolte nel testo in ordine alla possibilità di una loro abbreviazione, sia la possibilità di
una fissazione anticipata di un’udienza per la sola trattazione della questione di sospensione
dell’esecuzione e dei provvedimenti ex art. 618 c.p.c., sia la circostanza della normale esiguità del
termine per 1a comparizione avanti al pretore anche al di là della riduzione. Sotto il secondo
aspetto, l’autorevole opinione non considera che l’art. 184 disp. att. c.p.c. – come si è cercato di
dimostrare nel testo, già con riguardo alla stesura originaria del Codice – vuole che la domanda
formulata nel ricorso introduttivo dell’opposizione abbia in buona sostanza gli stessi elementi della
domanda introdotta con citazione, cosa che non può che significare, una volta posta in relazione con
la previsione che l’udienza di comparizione è udienza ex art. 183, l’intenzione del legislatore di
ricollegare al ricorso la funzione di atto introduttivo della stessa cognizione ordinaria.
(13) Sui quali mi permetto di rinviare ai miei commenti in D’AIETTI-FRASCAMANZIMIELE, Processo Civile: la decretazione d’urgenza, Milano, Pirola, 1995.
(14) Rimando al mio commento in Processo civile, etc., cit., 51 e ss.
(15) Con più che probabile impedimento ad una rilevazione da parte del giudice nella prima
udienza di comparizione: per la dimostrazione di tale assunto si veda ancora quanto scrivo nell’op.
cit. nella nota precedente, 53 e ss.
(16) Pertanto resta pienamente attuale la costruzione della riassunzione come atto meramente
propulsivo di un giudizio iniziato con la formulazione della domanda fin dal ricorso: su di essa vedi
SALETTI, op. cit., 214 e ss.
(17) Non mi pare, invece, che possa essere d’ostacolo ad un’ipotesi ricostruttiva nel senso che la
domanda introduttiva della cognizione ordinaria non sia introdotta fin dal ricorso, il rilievo che, se
sorge contrasto sulla competenza, il giudice dell’esecuzione debba pronunciare con sentenza (sul
punto vedi SALETTI, op. cit., 215, anche per riferimenti di dottrina e giurisprudenza): invero, si
potrebbe pensare che ciò sia comunque compatible con la formulazione della domanda nella stessa
udienza dopo la pronuncia dei provvedimenti sulla sospensione o sul corso dell’esecuzione.
(18) In questo senso già DI BENEDETTO, op. cit., 1318.
(19) Non condivido, dunque, la contraria opinione del DE FRANCISCI, op. cit., 354-356, testo
e nota 79, secondo cui le dette attività potrebbero essere compiute all’udienza di comparizione.
(20) Come fa il DE FRANCISCI, op. cit., 345, nota 18.
(21) In termini per ragguagli si veda il Codice di procedura civile, a cura di N. Picardi, Milano,
1994, sub art. 152.
(22) Le parole virgolettate nel testo sono autorevoli, anche se dettate con riguardo ai
procedimeni cognitivi concorsuali introdotti con ricorso (su cui in generale vedi FABIANIPANZANI, La riforma del processo civile e le procedure concorsuali, Padova, 1994, i quali in
generale reputano incompatibile l’avviso ex n. 67 del’art. 163 con i processi introdotti su ricorso).
Sono, infatti, del TARZIA, Procedure concorsuali e riforma del processo civile, in Riv. dir. proc.,
1992, 737.
(23) Cass. 16 novembre 1989, n. 4876 per tutte. Contra la dottrina: per tutti ORIANI, op. cit.,
604.
(24) Le considerazioni svolte nel testo mi sembra che siano sufficienti a far reputare, attraverso
un intervento meramente interpretativo, che l’avvertimento debba essere formulato nel decreto di
fissazione dell’udienza e scongiurano l’eventale prospettazione di una questione di legittimità
costituzionale diretta a sollecitare una pronuncia additiva della Corte Costituzionale (ipotesi per chi,
invece, propendono VERDE-DI NANNI, Codice di procedura civile, Torino, 1993, 84-85).
(25) Solo abbandonando l’ottica di cui nel testo si poteva sostenere che l’udienza fissata con il
decreto non fosse una vera udienza ex art. 183: si veda DE FRANCISCI, op. cit., 354, nota 70, il
quale ipotizza che fossero applicabili solo i primi tre commi dell’art. 183, ma non il quarto ed il
quinto o che addirittura l’art. 185 c.p.c. si dovesse reputare abrogato tacitamente.
(26) E ciò al di là della possibilità di estendere quella disciplina in alcuni punti alle ipotesi in
discorso: su cui vedi per un primo approccio PROTO PISANI, La nuova disciplina del processo
civile, Napoli, 1991, 396 e ss.
(27) Sulla possibilità che possa essere fissata un’udienza anticipata rispetto a quella di
cognizione ordinaria per la sola trattazione della domanda cautelare in corso di causa, proposta nella
citazione mi permetto di rinviare a quanto scrivo in D’AIETTI-FRASCA-MANZI-MIELE, I
provvedimenti cautelari, sec. ed. 1993, Milano, 155-156, anche per ulteriori riferimenti di dottrina.
(28) In termini si veda l’ampia motivazione di Pret. di Torre Annunziata, Sez. dist. di Pompei,
25 marzo 1994, in Foro It., 1994, 1, 2269 (in senso contrario, invece, Pret. Napoli, ord. 14 gennaio
1994, ivi, 1622, non senza singolarità dello stesso estensore). In generale sulla questione della
revocabilità prima della normativa sul procedimento cautelare uniforme si veda il Codice di
procedura civile, a cura di PICARDI, cit., su art. 625.
QUESTIONI CONTROVERSIE IN MATERIA
DI PROVVEDIMENTI ANTICIPATORI
Relatore:
dott. Franco DE STEFANO
pretore della Pretura circondariale di Salerno
SOMMARIO: I cosiddetti provvedimenti anticipatori. – Il testo delle norme, con quelle di riferimento
e il testo coordinato. – Premessa. – Capitolo primo: sull’ordinanza ex art. 186 bis c.p.c. - 1. Quali
sono le “somme non contestate” per le quali può essere concessa? - 2. A partire da quando può
essere concessa? - 3. Vi sono limiti alla discrezionalità nella concessione? - 4. Può essere concessa
nei giudizi con più parti e, se sì, nei confronti di alcune solo di esse, anche quando vi è contumacia
di alcune? - 5. È ammissibile in un giudizio soggetto al c.d. rito locatizio? - 6. È ammissibile in un
giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo (e, in caso affermativo, a partire da quando?)? –
Capitolo secondo: sull’ordinanza ex art. 186 ter c.p.c. - 1. È ammissibile in un giudizio soggetto al
rito c.d. locatizio? - 2. È ammissibile in un giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo (e, in caso
affermativo, a partire da quando?)? - 3. Vi sono margini o limiti di discrezionalità nella
concessione? - 4. A partire da quando può essere concessa? - 5. Quali sono i presupposti della
provvisoria esecuzione dell’ordinanza nei confronti del convenuto costituito? - 6. Quali sono le
facoltà processuali consentite al convenuto contumace che si costituisca dopo la notifica
dell’ordinanza ingiuntiva? - 7. Qual è il valore dell’ordinanza una volta che sia estinto il processo?
I cosiddetti provvedimenti anticipatori (1) - Il testo delle norme
(1) Relazione dei senatori Acone e Lipari in Foro it., 1990, V, 406 ss. e spec. 420.
Premessa (2)
I riformatori del codice di rito del 1990/1995 devono avere avuto chiara almeno un’idea: che un
processo lento o un processo lungo fossero di per se stessi intollerabili. Ma deve essere apparso
inumano e quindi inutile lo sforzo di recuperare la funzionalità di un processo ordinario, che si
potesse concludere in tempi ragionevoli con una sentenza e quindi con una tutela piena e completa
delle ragioni di tutte le parti.
E, di fronte alla diagnosi di irrecuperabilità del processo ordinario, è parso preferibile introdurre
meccanismi che ne rendessero in qualunque modo più rapida la definizione, a prescindere dalla
pienezza della cognizione nel singolo caso: e molti sono stati gli interventi parziali, che hanno
innestato nel corpo del processo strumenti di sensibile sommarizzazione.
È stato studiato un sistema di preclusioni, dapprima rigido e poi un tantino attenuato, ma
soprattutto sono stati introdotti un procedimento cautelare uniforme – a riprova di una tendenza a
considerare la tutela cautelare come un surrogato generale di quella ordinaria – e poi una serie di
istituti alternativi alla sentenza, adottabili con la forma delle ordinanze e soprattutto idonei a
costituire titolo esecutivo a prescindere dall’emanazione della sentenza (3).
L’avvilente conclusione è che per ridare fiato al processo è bene consentire ai giudici di fare
sentenze il meno possibile: e che una pronunzia, quale che sia e non importa con quali effettive
garanzie per la tutela dei diritti, sul merito della questione è meglio di niente purché sia rapida e
tendenzialmente definitiva.
In questo quadro si inseriscono le ordinanze di cui agli articoli 186 bis, ter e quater del codice
di procedura.
Le prime due – oggetto della presente trattazione – hanno sicuramente tra loro in comune la
natura di titolo esecutivo e di anticipazione della sentenza di condanna (4). A dispetto della loro
comunque evidente interinalità (5), non si tratta di provvedimenti cautelari, in considerazione
essenzialmente:
a) della loro efficacia eteroprocessuale, quale si ricava dall’ultrattività prevista per i casi di
estinzione del processo in cui sono pronunziati;
b) della mancanza di una loro strumentalità rispetto ad una pronunzia di merito successiva (6),
visto che una statuizione di merito a cognizione piena potrebbe anche non esserci mai, senza che per
questo la loro efficacia venga meno;
c) della carenza della necessità di ogni valutazione del periculum in mora (7), per essere i
presupposti di concedibilità ancorati sostanzialmente ad una delibazione del buon diritto della parte
istante.
Non si tratta, d’altro canto, di provvedimenti decisori, attesa la loro persistente revocabilità e
modificabilità, che si traduce in una loro intrinseca inidoneità al giudicato; e, quanto all’ordinanza
ex art. 186 bis c.p.c., nemmeno può affermarsi la natura negoziale (8), visto che la non
contestazione pare operare più che altro, come si vedrà, sul piano della pacificità dei fatti e quindi
del superamento dell’onere della prova in favore della parte istante.
E si dubita della loro riconducibilità all’istituto della condanna con riserva, sia pure con
esclusivo riguardo alla natura provvisoria dell’ordinanza (9): nonostante che, sotto questo specifico
aspetto, più di uno spunto ricostruttivo potrebbe trarsi dalle contigue figure dell’ordinanza
provvisoria di rilascio nel procedimento di convalida di licenza o sfratto (10) e, soprattutto,
dell’ordinanza di concessione della provvisoria esecuzione nel corso dell’opposizione a decreto
ingiuntivo (11).
In buona sostanza, per quanto all’esito di cospicue elaborazioni dottrinali, i provvedimenti in
esame possono inquadrarsi nei cc.dd. accertamenti a prevalente funzione esecutiva di chiovendiana
memoria (12), ovvero nei cc.dd. provvedimenti sommari-semplificati-esecutivi (13), in quanto
caratterizzati da una cognizione sommaria, mediante la quale si accertano cioè solo alcuni dei fatti e
alcuni dei diritti in contesa.
Anche se notevoli conseguenze sul piano ricostruttivo potrà avere l’interpretazione della norma
che prevede la conservazione dell’efficacia in caso di estinzione, comunque, la funzione delle due
ordinanze in esame è certamente quella di anticipare gli effetti di una pronunzia favorevole a chi
chiede la condanna di controparte a specifiche prestazioni di dare (o di consegnare le cose
specificamente indicate dall’art. 186ter): con questa specificazione, quindi, essi possono essere
senz’altro ellitticamente definiti come procedimenti anticipatori (14).
E, nonostante gravi dubbi sull’utilità concreta delle misure come disegnate dalla legge di
riforma (15), si tratta di istituti di grosso rilievo teorico, la verifica del cui rilievo pratico potrà
operarsi solo sulla base dell’esame delle prassi applicative (16).
Capitolo primo: sull’ordinanza ex art. 186bis
1. Quali sono le “somme non contestate” per le quali può essere concessa?
La possibilità di pronunziare provvedimenti giudiziali sulla base della non contestazione (17)
di una delle parti non costituisce una novità nel nostro processo.
Anzi, oltre all’ordinanza di pagamento di somme non contestate di cui all’art. 423 co. 1 cod.
proc. civ. (18), si richiama correntemente anche l’esempio degli artt. 263 c.p.v. e 264, co. 1 e 2, in
tema di rendiconti (19) e loro approvazione, nonché dell’art. 666 cod. proc. civ.., in tema di
pagamento di canoni di locazione non contestati (20).
È vero che la non contestazione, d’altro canto, viene indicata come presupposto per
l’emanazione di altri titoli giudiziali, quali l’ordinanza di convalida di licenza o sfratto (ai sensi
dell’art. 663 cod. proc. civ.) o quella contigua di cui all’art. 30 c.p.v. L. 392/78; né si può
dimenticare che la non contestazione è persino il presupposto della definitività del decreto
ingiuntivo, ai sensi dell’art. 647 cod. proc. civ.; e, in generale, si tratta pur sempre di un
comportamento rilevante ai fini processuali, non solo come indizio o argomento di prova, ma
talvolta persino come ammissione implicita.
Tuttavia, la rilevanza della non contestazione non è riconducibile ad un unitario concetto.
Quanto ai procedimenti di convalida di licenza o sfratto e a quelli per decreto ingiuntivo, essa
opera, in virtù di un sistema rigido e ben delineato di preclusioni, nel senso della formazione di un
titolo esecutivo giudiziale definitivo e con forza ed efficacia in tutto equiparate al giudicato (21); ed
a diversi fini essa rileva, invece, nel procedimento di rendiconto.
In definitiva, nelle ordinanze di pagamento di somme non contestate bisogna stabilire cosa
abbia ad oggetto la non contestazione, al fine di stabilire il suo esatto ambito e, quindi, quello della
cognizione del giudice e dell’efficacia del risultato di tale cognizione: da un lato, invero, si sostiene
che a non essere contestati debbano essere i fatti costitutivi del diritto azionato dal creditore;
dall’altro, che la non contestazione attenga ai diritti in sé considerati.
Nel primo caso la non contestazione del convenuto costituito varrebbe come mera ammissione
dei fatti costitutivi stessi ed esonererebbe l’attore dall’onere di provarli ed il giudice soltanto dalla
verifica della sussistenza di prove a loro sostegno: ma non lo esimerebbe dalla verifica della
legittima conseguibilità degli effetti voluti dal creditore sulla base della non contestazione dei fatti
costitutivi (22).
Nel secondo caso, al contrario, pur non sussistendo una vera e propria base negoziale del
provvedimento, la non contestazione – fino ad un’eventuale revoca successiva, operata a seguito di
una diversa valutazione in fatto e in diritto delle circostanze – darebbe luogo ad un vero e proprio
riconoscimento della fondatezza della domanda (23); ed una prima conseguenza dovrebbe essere
una sorta di automatismo nell’emanazione dell’ordinanza, che dovrebbe limitarsi a dare atto
dell’avvenuto riconoscimento (24).
Altri ancora, negando validità alla figura del riconoscimento della fondatezza dell’avversa
pretesa, ammette che la non contestazione abbia valore di confessione o di ammissione dei fatti
posti a base della domanda (a seconda che provenga dalla parte di persona o dal suo procuratore),
poiché essa, pur riguardando il diritto, non potrebbe avere riguardo che ai fatti che lo costituiscono
(25): e quindi il giudice potrà respingere la domanda se si convince che ragioni di diritto escludano
l’idoneità dei fatti posti a base della domanda a dare vita al diritto azionato.
Il secondo criterio interpretativo non convince.
E ciò non certo per la critica secondo cui la sua adozione ridurrebbe ulteriormente l’ambito di
pratica esperibilità dell’istituto: la funzione deflattiva di quest’ultimo è piuttosto un postulato ed un
obiettivo, ma la sua compatibilità col dato normativo e con il sistema giuridico complessivo va pur
sempre valutata.
Neppure pare cogliere nel segno la critica secondo la quale il riconoscimento del diritto
dovrebbe essere incompatibile con la revoca e la modifica successive: visto che queste ultime pure
potrebbero aver luogo, per quanto all’esito di una nuova delibazione in iure ed in facto sulla base
della contestazione stessa e delle successive repliche o attività o deduzioni istruttorie (26).
Il motivo vero è che il secondo criterio interpretativo – e, in definitiva, l’identificazione
dell’oggetto della non contestazione nel diritto in sé anziché nei suoi fatti costitutivi –, anche se
fondato sulla letteralità dell’espressione della disposizione (che riferisce la non contestazione alle
“somme” e non ai fatti costitutivi) non può essere seguito, visto che il giudice ha sempre l’obbligo,
tranne le sole espresse eccezioni previste dalla legge (27), di condurre il giudizio di diritto alla
stregua di una verifica di legittimità delle pretese sottoposte al suo vaglio (28).
E non sarà allora il solo caso dell’obbligazione naturale, ma potrà attribuirsi rilevanza ad
un’interpretazione complessiva delle difese del convenuto, anche tra loro comparate, al fine di
valutare se sussista o meno la non contestazione del fatto costitutivo, la quale potrebbe essere
inficiata, ad esempio, dall’adduzione di un fatto storico sicuramente incompatibile, o, comunque,
dall’indicazione di circostanze che possano comportare un’incompetenza o altro impedimento in
rito. Significativamente, quindi, è stata denegata l’ordinanza nel caso in cui il convenuto aveva
addotto eccezioni tali da paralizzare l’efficacia fondante della causa petendi (29).
Ciò posto, la contestazione non può certamente essere equivoca: peraltro, a seconda del regime
processuale applicabile e, in particolare, della soggezione del singolo processo al c.d. nuovo rito,
ovvero al c.d. vecchio rito, occorre valutare se il convenuto avesse o meno, dinanzi alla complessiva
impostazione di controparte, un onere specifico di contestazione attiva, non assolto il quale il fatto
possa ritenersi pacifico.
Si è sostenuto che nelle cause soggette al c.d. vecchio rito non si potrebbe desumere una non
contestazione da condotte generiche o anche dal solo silenzio del convenuto, mentre, al contrario,
nelle cause soggette al c.d. nuovo rito il sistema disegnato dagli artt. 167, 183, 184 e 184 bis cod.
proc. civ.. dovrebbe comportare l’abbandono dell’equazione tra silenzio e comportamento non
significativo (30).
Per quanto sicuramente attenuato con la c.d. controriforma del 1995, nel c.d. nuovo rito il
sistema di preclusioni a carico del convenuto sussiste ancora. È ben vero che rimane ferma la
possibilità, per il convenuto, di addurre meri fatti storici ovvero circostanze integranti eccezioni
rilevabili di ufficio anche dopo il termine perentorio fissato ex art. 180 co. 2 ult. parte, ovvero ex art.
183 co. 5. Tuttavia, la carenza di idonea e specifica contestazione, soprattutto alla luce delle risposte
rese in sede di interrogatorio ai sensi dell’art. 183 co. 1 (e, vien fatto di specificare, anche alla luce,
ex art. 116 cod. proc. civ., delle risposte non rese, finanche per mancata comparizione all’udienza
per l’interrogatorio) deve potersi interpretare come carenza di contestazione specifica, idonea quindi
a fondare il presupposto per l’ordinanza.
E ciò tanto più se si accetta l’idea della previa instaurazione del contraddittorio sull’istanza ex
art. 186 bis, a qualunque rito sia soggetta la causa (31). Anzi, tale modus procedendi consentirebbe
di giungere a conclusioni sostanzialmente analoghe anche per le cause soggette al rito c.d. vecchio.
Infatti una volta esteso anche a tali cause il regime e lo strumento dell’art. 186 bis cod. proc. civ., se
si ammette che sulla relativa istanza debba provvedersi solo dopo aver sentito al riguardo
l’ingiungendo, si può bene ipotizzare un onere, in capo a colui contro cui essa è dispiegata, di
puntualizzare in modo specifico la sua posizione in merito ai fatti costitutivi coinvolti dall’istanza
ex art. 186 bis (32).
In definitiva, ampi spazi si aprono alla qualificazione del silenzio quale presupposto su cui
fondare l’ordinanza in parola. Peraltro, nonostante ciò possa sembrare un’interpretazione
particolarmente severa nei confronti del convenuto, sulla base degli stessi principi può pure
decisamente negarsi che possa rilevare una apparente non contestazione operata anteriormente al
giudizio (33): proprio perché egli ha sì l’onere, ma al tempo stesso la piena facoltà di contestare sino
ad un certo momento dello svolgimento del processo, a nulla rileverebbe – di per se stessa
considerata – una sua condotta anteriore a quest’ultimo, a meno che essa non sia confermata da
un’ammissione espressa o da un silenzio significativo in corso di causa e prima (ed ai fini) della
pronunzia sull’istanza di ordinanza ex art. 186bis cod. proc. civ.
La possibilità di una contestazione successiva all’emissione dell’ordinanza, che pure non viene
esclusa, dovrà naturalmente sottostare al diverso regime previsto per le cause soggette al vecchio e
al nuovo rito. Nel vecchio rito, almeno fino alla precisazione delle conclusioni, il convenuto ha
ancora ampi margini di manovra. Nel nuovo, il convenuto non può, se non con riguardo ai fatti
storici o a quelli integranti impedimenti processuali o eccezioni rilevabili di ufficio, modificare
l’impostazione difensiva come cristallizzata all’esito della definitiva contestatio litis ex art. 183 nss.
(34) cod. proc. civ., salvi i soli casi rilevanti ex art. 184 bis cod. proc. civ.
Brevemente, ci si chiede se le somme non contestate possano essere limitate agli interessi (35)
(o, verrebbe da dire, in generale agli accessori): ed influisce in senso negativo la risposta data dalla
giurisprudenza di legittimità ad analogo quesito in tema di art. 423 cod. proc. civ. (36).
Eppure, richiamata la soluzione della disputa in ordine all’ambito della non contestazione, non
si coglie alcuna valida ragione per escludere dall’oggetto dell’ordinanza ex art. 186 bis cod. proc.
civ. qualunque somma di denaro, a qualsiasi titolo spettante, ove non contestati ne siano i fatti
costitutivi (37).
Per concludere, deve accennarsi alla disputa in ordine alla necessaria parzialità della
contestazione: sostenendo alcuni (38) che, ove la non contestazione fosse totale, l’ordinanza non
sarebbe ammissibile per essere ormai la causa pronta per essere decisa con sentenza; e ribattendo
altri che, invece, tale conclusione non è sorretta da alcun dato normativo e che, anzi, potrebbe
sussistere un interesse del creditore a conseguire immediatamente, nelle agili e snelle forme
dell’ordinanza, un titolo esecutivo, anziché attendere i tempi di una sentenza (39).
La soluzione dipende dal ruolo che ai provvedimenti in esame si vuole attribuire. Se, come si
auspica, essi non debbono tendere a rimpiazzare, come una sorta di giustizia sommaria, la tutela
ordinaria che viene apprestata dall’ordinamento con la sentenza, effettivamente la discrezionalità
dell’emissione dell’ordinanza andrebbe – per così dire – autolimitata dal giudice, il quale, anziché
emanare subito un’ordinanza e poi una sentenza, entrambe aventi il medesimo contenuto (40),
dovrebbe garantire alla parte la maggiore tutela derivante dalla sentenza e provvedere ad emetterla
in tempi brevi, equivalenti a quelli dell’emissione dell’ordinanza e con un contenuto equivalente
anche quanto a diffusione. In altri termini, fermo restando che non può parlarsi di preclusione
dell’ordinanza, visto che la discrezionalità riconosciuta dalla norma non può essere conculcata in
via di interpretazione, si tratterebbe allora di argomentare per l’inopportunità dell’emissione
dell’ordinanza, in vista dell’interesse poziore della parte e dell’ordinamento a definire il processo
con una pronunzia a cognizione piena (41).
2. A partire da quando può essere concessa? (42)
Se il fondamento dell’ordinanza ex art. 186 bis è la non contestazione, per stabilire da qual
momento essa possa essere concessa è necessario e sufficiente ricostruire, in base a quanto fin qui
argomentato e a seconda della soggezione della singola causa al rito c.d. nuovo o al rito c.d.
vecchio, fino a quando il convenuto abbia l’onere, ma – simmetricamente parlando – anche la
possibilità, riconosciutagli dal codice di rito, di operare quelle contestazioni.
In primo luogo, visto che l’ordinanza non può essere concessa che contro la parte costituita,
essa sarebbe certamente inammissibile prima del termine concesso al convenuto per costituirsi (43):
il quale è quello di venti – o dieci, nei casi di urgenza – giorni prima dell’udienza di comparizione
indicata in citazione (ovvero da quella come differita ai sensi dell’ultimo comma dell’art. 168bis
cod. proc. civ., norma certamente rimasta in vigore, anche se oramai dall’applicazione di ben
difficile giustificabilità da parte del singolo giudice).
Più radicalmente, peraltro, non può dimenticarsi che, persino nel nuovo codice di rito, sono sì
imposte delle rigide preclusioni al convenuto, ma entro ben precisi termini: che, anzi, con la c.d.
controriforma del 1995 sono stati finanche attenuati. In altri termini, se è vero che al convenuto
incombe una serie di oneri processuali anche molto gravosi, è pur vero che sarebbe illegittimo
privarlo dei tempi e dei modi che il codice di rito ha previsto per il loro assolvimento.
Quindi, il termine di costituzione ex art. 167 cod. proc. civ. incide certamente sulla stessa
ammissibilità dell’ordinanza: posto che (ferma certamente la facoltà, per la parte istante, di avanzare
l’istanza sin dall’atto di citazione o persino con atto ad esso successivo ma anteriore alla prima
udienza di comparizione) sino alla scadenza dei termini per la costituzione del convenuto, non si
può ancora stabilire se questi sia contumace o meno e, quindi, se l’ordinanza, prevista dalla norma
solo contro le parti costituite, sia ammissibile oppur no.
Ma il convenuto ha la possibilità di contestare i fatti posti a base della domanda almeno sino al
momento in cui liberamente interrogato, egli potrebbe, conformemente allo spirito della riforma del
codice di rito, avere il contatto diretto con il suo giudice e finanche, sull’impulso e l’intervento di
quest’ultimo, conciliare la causa. Non si tratta solo di sottolineare come non avrebbe alcun senso un
libero interrogatorio volto a tentare di conciliare le parti una volta che sia stata emessa
un’ordinanza, avente valore di titolo esecutivo, idonea a sbilanciare – per quanto temporaneamente
– l’equilibrio delle parti in danno di una delle parti stesse (44).
Si tratta, invece, di valutare come la contestazione possa essere del tutto legittimamente operata
dal convenuto non solo fino al termine perentorio per la proposizione delle eccezioni processuali e
di merito non rilevabili di ufficio (di cui al nss. testo dell’art. 180, co. 2, ult. parte, cod. proc. civ.),
ma anche, con l’adduzione di meri fatti storici o altri – integranti mere difese, ma involgenti
impedimenti processuali o eccezioni rilevabili di ufficio –, fino al momento in cui egli sia
liberamente interrogato ai sensi del primo comma dell’art. 183, nss. t., cod. proc. civ. Anzi, a ben
guardare, egli potrebbe ancora contestare le avverse pretese entro il termine perentorio, che
eventualmente (con molta sagacia...) egli chiedesse ai sensi dell’ultimo comma dell’art. 183,
nuovissimo testo.
Ora, per quanto odiosa (e certamente deprecabile ex art. 88 cod. proc. civ., se non persino censurabile
in sede di liquidazione delle spese, e non solo ex art. 96 cod. proc. civ.) o dilatoria possa apparire tale
condotta, non si possono negare al convenuto le garanzie di difesa riconosciutegli dal codice: del resto,
all’uso distorto delle garanzie non si risponde amputandole, ma facendole funzionare il meglio possibile.
Sotto il profilo del non esaurimento della facoltà di operare validamente la contestazione della pretesa
attorea (ma sempre fatta salva la valutazione del caso concreto) (45), deve escludersi che l’ordinanza ex
art. 186 bis cod. proc. civ. sia concedibile prima del libero interrogatorio ex art. 183 co. 1 (46), ovvero, in
caso di espressa richiesta di termine ex art. 183 ult. co. anche ai fini dell’eventuale contestazione, fino alla
scadenza dei termini obbligatoriamente concessi ai sensi di tale ultima disposizione (47).
Non rientra nel tema da trattare l’individuazione del termine finale per la concessione – che si
individua nella precisazione delle conclusioni (48), anche in caso di intervenuta rimessione della
causa dalla fase di decisione in istruttoria (49) –, né la disamina della disputa sulla concedibilità
dell’ordinanza durante la sospensione o l’interruzione del processo (disputa innescata soprattutto
dalla carenza, per l’ordinanza ex art. 186 bis, dell’espressa dizione, adoperata invece per quella ex
art. 186 ter, della concedibilità in ogni stato e grado del processo) (50).
3. Vi sono limiti alla discrezionalità nella concessione?
La questione della sussistenza della discrezionalità del giudice nella concessione o meno
dell’ordinanza in esame prende generalmente le mosse dalla disamina del tenore lessicale della
disposizione ed anche dalla sua comparazione con quello dell’art. 423 co. 1 cod. proc. civ.: visto
che, nell’art. 186 bis, si specifica bene che il giudice può (51) disporre il pagamento, mentre il
Pretore del lavoro, dal canto suo, dispone – senz’altro – il pagamento delle somme non contestate.
Ora, quand’anche un’effettiva differenza vi sia tra le espressioni “può disporre” e “dispone” nei
testi degli articoli 186 bis e 423 co. 1, nel senso di una sorta di obbligatorietà della concessione nel
rito del lavoro, questa bene potrebbe giustificarsi per la peculiarità del rapporto dedotto in giudizio e
per la delicatezza e la rilevanza che, quasi per definizione, rivestono le obbligazioni pecuniarie per
un lavoratore subordinato (sia dal lato passivo che da quello attivo).
Naturalmente, in nessun caso potrebbe negarsi la possibilità di un controllo del giudice sulla
sussistenza dei presupposti per la concedibilità di questa ordinanza, come di qualunque altro
provvedimento; e ciò nemmeno nei casi in cui si volesse ritenere che, dinanzi alla non
contestazione, il giudice sia esentato dal giudizio di diritto. Ma tale controllo – o, se si vuole, tale
sillogismo di sussunzione della fattispecie concreta entro il paradigma legale – non attiene in senso
stretto alla discrezionalità, visto che esso non è nient’altro che la mera estrinsecazione dell’attività
di decidere, propria della giurisdizione. Né attiene alla discrezionalità la necessità di una previa
istanza di parte (espressamente affermata sia dall’art. 186 bis che dall’art. 423 co. 1), visto che la
qualità o la struttura dell’impulso non incide necessariamente sulla natura del potere del giudice.
Ora, si è più sopra visto (52) come il giudice, per poter concedere l’ordinanza in questione,
debba almeno:
1. verificare che vi sia la non contestazione, da parte del convenuto costituito, dei fatti
costitutivi;
2. verificare che il convenuto costituito non abbia dispiegato eccezioni di merito;
3. valutare in iure sia l’idoneità dei fatti dedotti dal creditore a produrre gli effetti da lui
affermati, sia l’assenza di fatti impeditivi, modificativi od estintivi risultanti dagli atti o rilevabili di
ufficio;
4. delibare l’infondatezza delle eccezioni di rito sollevate dal convenuto e l’inesistenza di
impedimento di rito rilevabili d’ufficio.
Ma, una volta che il giudice abbia rilevato la concedibilità della chiesta ordinanza per avere
riscontrato la sussistenza, nel caso concreto, dei relativi presupposti, la sua discrezionalità può
spingersi fino a negare il provvedimento (53)? La risposta, alla luce dei già svolti rilievi sulla
necessità di un’interpretazione restrittiva della disciplina dei provvedimenti anticipatori di
condanna, deve essere positiva: ma, naturalmente, accompagnata pure da un monito, al singolo
giudicante, ad un’attenta considerazione della peculiarità del caso concreto.
In definitiva, perché non valutare con attenzione se, nonostante il creditore abbia diritto a un
tale titolo esecutivo giudiziale, non si possa – in relazione comunque alle esigenze di ruolo e alle
condotte delle parti – puntare direttamente alla pronunzia di una sentenza, magari anche non
definitiva? O, quanto meno, perché non provvedere con la più piena e garantista forma della
sentenza – giova ripeterlo, anche non definitiva – nel nuovo rito pretorile, che vede l’agilissimo
strumento della sentenza con motivazione contestuale di cui all’art. 315 cod. proc. civ.?
Con ciò, naturalmente, non si vuol dire affatto che non debba esservi spazio per l’ordinanza ex
art. 186 bis cod. proc. civ.; ma, ad esempio, la discrezionalità in ordine all’emissione certamente
dovrebbe essere usata nel senso di negare il provvedimento se la non contestazione fosse totale
(come già detto più sopra), oppure nel caso in cui i tempi per una pronunzia idonea a definire il
giudizio di primo grado nella sua interezza siano comunque contenibili e non vi siano
particolarissime ragioni di urgenza (dettate, per avventura, dalla natura del credito azionato o da
altre circostanze relative alle condotte anteriori al processo).
E ad analoghe conclusioni deve giungersi anche per la discrezionalità in tema di revoca e di
modifica (54): l’ambito di operatività delle quali, come già detto, dipende prima di tutto
dall’estensione della nozione di “somme non contestate”, ma non può escludere nemmeno una
rimeditazione – anche in questo caso, sempre su istanza di parte – della sussistenza dei presupposti
più su identificati; anzi, si giunge a ipotizzare persino la revoca nel caso di gravi motivi correlati
alla concreta esecuzione del provvedimento (55), che finiscono per essere sostanzialmente analoghi
a quelli rilevanti per l’inibitoria delle sentenze appellate o gravate di ricorso per cassazione (56).
In definitiva, la discrezionalità può estrinsecarsi per adeguare la risposta giurisdizionale al caso
concreto secondo la finalità propria dell’istituto, che può identificarsi nel perseguimento
dell’economia dei giudizi, “allorché la pretesa, in base a criteri oggettivi, sia presumibilmente
fondata, ovvero manchi una seria contestazione” (57); dovendo preferirsi, in ogni altro caso, la
maggiore garanzia offerta dalle forme ordinarie di definizione del processo.
4. Può essere concessa nei giudizi con più parti e, se sì, nei confronti di alcune solo di esse, anche
quando vi è contumacia di alcune?
L’ordinanza ex art. 186 bis presuppone, come si è visto, la costituzione del convenuto; ma
occorre valutare cosa succede nei giudizi con più parti, nel corso dei quali solo alcuni si siano
costituiti: fattispecie, quest’ultima, che, a dispetto della sua grandissima rilevanza statistica (basti
pensare alle innumerevoli cause per risarcimento danni da sinistro stradale), non pare fatta oggetto
di adeguata attenzione da parte degli interpreti (58). Genericamente si sostiene che la contumacia di
una delle parti non dovrebbe impedire l’emanazione dell’ordinanza in danno della parte costituita
(59); ma, esclusa una – altrettanto generica – rilevanza impeditiva della contumacia, deve valutarsi
la struttura del giudizio e la rilevanza o la configurabilità della contestazione in casi del genere.
Omessa, per brevità, ogni previa ricostruzione delle problematiche in tema di processo
litisconsortile e di comunicazione dell’attività processuale alle parti (60), bene si osserva che, in
ragione dell’oggetto dell’ordinanza in questione (e cioè solo una somma di denaro), il processo
litisconsortile che potrebbe venire in considerazione utilmente si suddivide in quello caratterizzato
da litisconsorzio unitario e in quello caratterizzato da litisconsorzio facoltativo (61).
A sua volta, il primo comprende i casi:
a) del processo in cui sia unica o indivisibile la fonte del rapporto obbligatorio solidale dedotto
in giudizio;
b) del processo in cui vi sia colegittimazione congiunta, come in tema di assicurazione R.c.A.
Invece, il litisconsorzio facoltativo comprende le ipotesi:
c) dell’azione congiunta del creditore contro il debitore principale e contro il fideiussore;
d) della chiamata in causa di un terzo da parte del debitore che ne voglia essere garantito, come ad
esempio dell’assicuratore, ovvero dell’assicurato ex art. 18 L. 990/69, ovvero ancora del debitore
principale (62).
Ora, può convenirsi che il processo simultaneo ha per scopo la trattazione unificata in ordine ai
punti comuni, al fine di produrre una sentenza omogenea a questo riguardo; e che, quindi, deve
comunicarsi all’intero procedimento cumulativo l’effetto della contraddizione del fatto, qualora
provenga da uno solo dei litisconsorti. In una simile evenienza, il thema probandum e quindi
l’oggetto dell’accertamento da parte del giudice è il fatto unitariamente considerato ed unitariamente
rilevante in tutte le cause riunite (63).
Deve allora ritenersi (64) che:
a) quando sia unica la fonte dell’obbligazione solidale ovvero quando si tratti di obbligazione
indivisibile, si comunicano ai litisconsorti, con effetto preclusivo dell’ordinanza ex art. 186 bis, le
eccezioni cc.dd. comuni (relative cioè al rapporto e incidenti sulla sua fonte, quali quelle di nullità,
annullamento, pagamento, prescrizione, estinzione per impossibilità sopravvenuta) e quelle cc.dd.
semplicemente personali (ad es. novazione, resmissione, compensazione, confusione) (65);
b) nel caso di colegittimazione congiunta, le eccezioni comunicheranno integralmente i loro
effetti a tutti i convenuti, non avendo il danneggiato azione diretta contro l’assicuratore e non
potendo questi fare valere le eccezioni derivanti dal contratto di assicurazione nei confronti del
danneggiato (66);
c) nel caso di giudizio intentato contro debitore principale e fideiussore, si comunicano le
eccezioni dispiegate da quest’ultimo, che spetterebbero pure al debitore principale, ma non quelle
relative al rapporto fideiussorio;
d) nel caso di chiamata in causa in garanzia, la maggiore autonomia delle cause simultanee,
legate da un nesso di pregiudizialità-dipendenza, comporta l’incomunicabilità delle eccezioni e la
necessità di valutare in ciascuna la sussistenza dei presupposti della non contestazione (67).
5. È ammissibile in un giudizio soggetto al rito locatizio?
Non constano precedenti giurisprudenziali in termini, mentre la dottrina non pare attratta dal
problema: il quale forse non esiste, se è vero che l’art. 447 bis del codice di rito stabilisce che alle
cause soggette al c.d. rito locatizio si applicano numerosi articoli del codice relativi al rito del
lavoro, tra cui l’art. 423, ma limitatamente al primo e al terzo comma (68), cioè proprio
all’ordinanza per il pagamento di somme non contestate.
La prima, immediata conclusione dovrebbe essere che, nelle controversie di cui all’art. 8,
secondo comma, numero 3), del codice, il richiamo espresso alla norma dell’art. 423 co. 1 esclude
l’applicabilità dell’art. 186 bis. Infatti, il richiamo alla prima norma è coevo all’entrata in vigore
della seconda norma: sicché, in applicazione di elementari principi in tema di conflitto apparente di
norme, la prima, che è certamente norma speciale rispetto alla seconda, deve prevalere.
Nel caso in esame non può sussistere la preoccupazione di colmare le eventuali lacune del rito
del lavoro rispetto a quello ordinario, di cui si dirà per affrontare il problema dell’applicabilità
dell’art. 186ter al rito locatizio: né occorre ribadire che il processo del lavoro resta pur sempre un
processo civile ordinario con le sole peculiarità aggiunte dalla riforma del 1973, sicché ad esso si
applica, salva diversa od espressa disposizione, le norme generali del libro primo del codice di
procedura civile e quelle sul processo civile di cognizione, se ed in quanto compatibili con le
peculiarità strutturali del rito speciale (69).
Per quanto forse semplicistica, la soluzione potrebbe essere quella della esclusiva applicabilità,
al rito locatizio, dell’art. 423 co. 1 cod. proc. civ., intepretato peraltro alla stregua dell’evoluzione
dottrinale che ha consentito poi di trasfondere i risultati del dibattito proprio nel testo dell’art. 186
bis. In buona sostanza, ammesso oramai che anche l’ordinanza del rito lavoristico non possa essere
emanata contro la parte contumace e che vi sia comunque la possibilità di revocarla, i dubbi restano
in ordine al margine di discrezionalità nella concessione del provvedimento (che, come visto,
nell’ordinanza del rito lavoristico dovrebbe essere minore) e al regime di stabilità in caso di
estinzione, che tuttora affaticano la dottrina processual-lavoristica (70).
Ma, senza alcuna pretesa di completezza, non potrebbe escludersi che, a parte l’unica effettiva
differenza lessicalmente insormontabile (cioè quella connessa all’esclusione, nel testo dell’art. 423
co. 1, di un margine di discrezionalità in senso tecnico in ordine all’emanazione), le disposizioni ora
trasfuse nel testo dell’art. 186 bis cod. proc. civ. possano ritenersi criteri validi per
un’interpretazione evolutiva delle disposizioni dell’art. 423 co. 1, con una sostanziale
omogeneizzazione dei due istituti. E, quindi, al rito locatizio andrà sì applicata la norma del rito del
lavoro invece di quella del rito ordinario, anche se poi essa andrà interpretata in modo
sostanzialmente analogo, tranne il solo aspetto della discrezionalità nell’emanazione.
Né sorgono problemi di astratta incompatibilità in ordine alla coesistenza dell’ordinanza ex art.
423 co. 1 e di quella ex art. 666 cod. proc. civ.: esse possono essere emanate in due momenti e con
due finalità assolutamente distinti, essendo previsto invero che la seconda possa avere luogo nella
fase c.d. sommaria della convalida di sfratto ed al fine precipuo di impedire l’emissione dei
provvedimenti tipici conclusivi di questa, mentre la prima è possibile solo dopo che, esauritasi la
fase sommaria, si sia transitati in quella ordinaria a rito lavoro con il provvedimento di mutamento
del rito ex artt. 667 e 426 cod. proc. civ. e per di più a fini più generali di definizione della
controversia – o di quella sua parte – avente ad oggetto il solo pagamento dei canoni.
La perversa fantasia e l’impietosa multiformità della pratica potrebbe porre un astratto problema
di compatibilità dell’ordinanza ex art. 186 bis e di quella ex art. 666 nella fase sommaria, cioè
quando ancora non esiste, per non essere stato introdotto il rito locatizio, la preclusione
dell’ordinanza ex art. 186 bis; tuttavia, la specialità della fase sommaria – che già ha condotto alla
sensibile deroga, rispetto a quello ordinario, del sistema di introduzione della lite e di dispiegamento
delle attività difensive da parte dell’intimato – dovrebbe indurre a ritenere inammissibile
l’ordinanza ex art. 186 bis, essendo previsto che il pagamento, in costanza di opposizione, abbia
luogo se del caso ex art. 666 cod. proc. (71); del resto, se la non contestazione dell’intimato fosse
totale, si avrebbe la convalida e la possibilità, per l’intimante, di conseguire decreto ingiuntivo ex
art. 664 cod. proc. civ.
6. È ammissibile in un giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo (72) (e, in caso affermativo, a
partire da quando?)?
In questa materia si impone una premessa, purtroppo non precisamente breve. Invero, il giudizio
di opposizione a decreto ingiuntivo è ormai ricostruito come un semplice sviluppo, meramente
eventuale, della fase monitoria (73): ma, sul punto, la diatriba dottrinale sulla configurabilità o
meno di una natura di impugnazione in senso stretto (74) è di recente rinfocolata da alcune
sconcertanti pronunzie della Suprema Corte (75), peraltro intente alla riaffermazione della
competenza funzionale del giudice dell’opposizione.
Pure paiono presenti, almeno ictu oculi, alcuni profili tipici del giudizio di impugnazione in
quello di opposizione a decreto ingiuntivo (76): infatti, il meccanismo di introduzione
dell’opposizione è analogo a quello dell’introduzione di un’impugnazione, tanto che la sua mancata
proposizione dà luogo ad effetti equiparati al giudicato. Però, le caratteristiche intrinseche
dell’impugnazione vengono meno una volta instaurato il contraddittorio sull’opposizione, tanto che
il giudizio si svolge poi come ordinario giudizio di primo grado (77), sia pure con alcune peculiarità
dovute alla presenza di un titolo esecutivo giudiziale idoneo a conseguire efficacia anche a
prescindere da una sentenza.
In definitiva, nella fase di opposizione viene restaurata la piena operatività del principio del
contraddittorio, per quanto all’esito dell’atto di impulso processuale di colui che riveste la qualità
sostanziale di convenuto: e tanto in ordine a una domanda giudiziale, che si identifica in quella
proposta dal creditore nel ricorso per decreto ingiuntivo (78).
Quindi, il giudizio si svolge come un ordinario giudizio di cognizione (79) e, per di più, di
primo grado (80), fatte salve alcune espresse peculiarità relative al regime di esecutività di quel
provvisorio accertamento contenuto nel decreto ingiuntivo. E, ciò che conta, l’oggetto del giudizio
di opposizione non è affatto limitato al controllo di validità o merito del decreto ingiuntivo opposto
(81), ma involge il merito e, cioè, la fondatezza della pretesa azionata dal creditore fin dal ricorso.
In altri termini, l’opposizione devolve al giudice il completo esame del rapporto giuridico
controverso e non il semplice riscontro della legittimità della pronunzia del decreto (82). Di
conseguenza, i due profili, per quanto certo obiettivamente connessi, vanno tenuti tendenzialmente
separati: e mantengono un’irrinunziabile autonomia (83).
Ciò significa che nel decreto ingiuntivo viene solo provvisoriamente accertata, sulla base di
elementi probatori specifici (in genere molto meno rigorosi di quelli necessari in un giudizio
ordinario), la sussistenza dei fatti costitutivi vantati dal creditore; e deriva da tale struttura l’onere,
eccezionalmente addossato al convenuto, di contestare quei fatti costitutivi, sia negando validità ai
peculiari mezzi probatori riconosciuti validi per l’emissione del decreto, sia adducendo fatti
impeditivi, modificativi o estintivi del diritto azionato dalla sua controparte. Si può configurare il
conseguimento della definitività per mancata opposizione come riconoscimento, per condotta
legalmente tipizzata, ad opera della controparte del rapporto azionato, della reale sussistenza di
questo e nei termini di cui in ricorso (84).
Soltanto per questo e in relazione alla presenza di termini perentori per la proposizione della
fase di opposizione, quindi, la carenza di opposizione produce effetti che tradizionalmente si
ritengono in tutto simili o equiparabili al giudicato: in altri termini il decreto ingiuntivo non opposto
nei termini acquista, al pari di una ordinaria sentenza di condanna, autorità ed efficacia di cosa
giudicata sostanziale, in relazione al diritto in esso consacrato tanto in ordine ai soggetti ed alla
prestazione dovuta, quanto all’inesistenza di fatti impeditivi, modificativi o estintivi. E la sua
efficacia preclusiva si estende a tutte le relative questioni, impedendo che in un successivo giudizio,
avente ad oggetto una domanda basata sullo stesso rapporto, si proceda ad un nuovo esame di esse
(85).
Il destinatario di un decreto ingiuntivo, pertanto, non ha altra scelta, per evitare la definitività
della statuizione, per quanto impostata come provvisoria, dei fatti costitutivi del diritto della sua
controparte, se non quella di proporre impugnazione tempestiva. Ogni altro rimedio, tranne i casi
del tutto eccezionali di cui all’art. 650 cod. proc. civ., rimane precluso (86).
Importanti sono le conseguenze di tale impostazione complessiva:
a) attore in senso sostanziale è l’opposto, mentre il ruolo di convenuto è dell’opponente (87);
b) onerato della prova dei fatti costitutivi della domanda – dedotti in ricorso – è l’opposto (88);
c) l’opponente, con l’atto di citazione in opposizione, ha l’onere:
c1) di sollevare eccezioni in senso proprio e di prospettare questioni o di avanzare richieste
per le quali sia prevista la sanzione processuale di una decadenza o di una preclusione ancorata alla
prima difesa;
c2) di contestare la sussistenza dei fatti costitutivi del diritto azionato (89);
c3) di dispiegare domande, che assumono la qualificazione tecnica di riconvenzionali ove
esse possano fondarsi sullo stesso titolo dedotto in giudizio: e in ordine a queste riconvenzionali è
l’opposto ad assumere la posizione processuale di convenuto, essendo peraltro egli stesso a sua
volta facultato a dispiegare ulteriori domande nei confronti dell’opponente-attore in riconvenzionale
(90);
d) l’opponente, con l’atto di citazione in opposizione, ha la facoltà:
d1) di limitarsi a non formulare alcuna domanda in senso tecnico, allo stesso modo di una
qualunque comparsa di costituzione, visto che è comunque avanzata – se non altro implicitamente –
l’istanza di rigetto della domanda attorea;
d2) di chiedere la restituzione di ciò che, in forza del regime di esecutorietà del decreto
opposto, sia stato costretto a versare in corso di causa (91).
Tale non breve premessa serve da guida per la risoluzione di numerose problematiche sia in
tema di ordinanza ex art. 186 bis, sia in tema di ordinanza ex art. 186 ter: ed anzi consente di
rispondere immediatamente in senso affermativo alla questione della concedibilità di entrambe – e,
per quel che qui interessa, di quella ex art. 186 bis – nel giudizio di opposizione a decreto
ingiuntivo.
Per limitarsi, per il momento, all’ordinanza ex art. 186 bis, si obietta generalmente che la
peculiarità del giudizio e soprattutto la persistente presenza di un decreto ingiuntivo, idoneo per di
più a divenire definitivo in caso di estinzione del giudizio di opposizione ai sensi dell’art. 653 cod.
proc. civ., impedirebbe di conseguire un ulteriore titolo esecutivo, quale l’ordinanza in esame.
Eppure, l’ordinanza ex art. 186 bis (92) non è destinata a definire il processo, in luogo della
sentenza, potendo semmai conseguire un risultato analogo, ma solo dal punto di vista effettuale e
attraverso l’estinzione del giudizio, rimessa alla condotta – da presumersi cosciente e responsabile –
delle parti; di conseguenza, l’ordinanza rimane strutturalmente destinata ad essere assorbita dalla
sentenza di merito del grado in cui essa è stata pronunziata e, così, non incide e non deve incidere
affatto sul decreto ingiuntivo già emanato. Quanto all’evenienza che possano venirsi a trovare
coesistenti due titoli esecutivi giudiziali proprio nel caso dell’estinzione, cioè il monitorio ex artt.
653-654 e l’ordinanza ex art. 186 bis co. 3, agevolmente si può ribattere che la situazione può essere
risolta in sede di eventuale azionamento congiunto dei due titoli.
Come si vedrà di qui a tra breve, invero, l’efficacia delle ordinanze ex artt. 186 bis e 186 ter in
caso di estinzione deve ritenersi limitata al regime di titolo esecutivo e quindi equiparata a quella di
qualunque accertamento provvisorio dei fatti costitutivi della pretesa azionata dalla parte. Di
conseguenza, esclusa un’attitudine al giudicato, esclusa pure un’immutabilità equiparabile a
quest’ultimo (93), sarà tecnicamente possibile opporsi all’esecuzione intrapresa in forza
dell’ordinanza ex art. 186 bis (94) mediante l’adduzione di quei medesimi fatti o il dispiegamento di
quelle condotte processuali che potevano essere addotti o dispiegate nel prosieguo del giudizio in
cui l’ordinanza è stata emessa (95).
Ciò posto, peraltro non può farsi a meno di valutare se, caso per caso, sussistano tutti i
presupposti di concedibilità dell’ordinanza: primo fra tutti l’interesse ad agire, che difetterebbe
certamente, ad esempio, nel caso in cui il decreto ingiuntivo fosse stato già munito di provvisoria
esecutività (o esecutorietà) (tanto ex art. 642, quanto ex art. 648 cod. proc. civ.) e per di più per la
stessa somma per la quale si chiede l’ordinanza ex art. 186 bis (96). Ne consegue che l’interesse a
conseguire quest’ultima non può sorgere che all’esito dell’eventuale rigetto della domanda – ex art.
648 cod. proc. civ. – di concessione della provvisoria esecuzione, ovvero dell’eventuale
accoglimento della domanda, ex art. 649 cod. proc. civ., di sospensione della provvisoria esecuzione
eventualmente già concessa al decreto stesso.
Ciò consente di risolvere, infine, il problema del momento iniziale a partire dal quale concedere
o meno l’ordinanza in esame: e qui occorre armonizzare i risultati già raggiunti più sopra (97) con la
ricostruzione del procedimento di opposizione a decreto ingiuntivo, appena operata. Se il convenuto
in senso sostanziale deve identificarsi con l’opponente (del resto, chi, se non l’opponente, potrebbe
dispiegare eccezioni?) e se egli ha la facoltà di operare le contestazioni preclusive dell’ordinanza ex
art. 186 bis fino al momento della definitiva contestatio litis di cui all’ult. co. dell’art. 183, nss. t.,
cod. proc. civ., l’ordinanza di somme non contestate non potrà comunque – una volta verificatosi il
rigetto dell’istanza ex art. 648 cod. proc. civ. (98) o l’accoglimento dell’istanza ex art. 649 cod.
proc. civ. – essere esaminata prima di tale momento (99).
Capitolo secondo: sull’ordinanza ex art. 186 ter c.p.c.
Dell’utilità dell’ordinanza ingiuntiva (100) per come è stata strutturata dalla novella si è
immediatamente dubitato (101): anche se, a ben guardare, essa potrebbe svolgere certo un ruolo
importante almeno in tutti quei casi in cui la prova scritta entri nella disponibilità del creditore in
corso di causa (102), ovvero in cui sia già pendente la causa di accertamento negativo iniziata dal
debitore (103), ovvero ancora in cui il convenuto sia residente all’estero (104). Non è invece
ammessa nei casi di cui ai numeri 2 e 3 dell’art. 633, all’art. 635 e all’art. 636 cod. proc. civ. (105).
Essa viene vista come una sorta di generalizzazione della tutela già offerta al creditore con la
disciplina del decreto ingiuntivo: peraltro, si tratta di innestare in un procedimento ordinario, a
contraddittorio già instaurato e a cognizione piena, i princìpi e la disciplina di un procedimento
sommario, caratterizzato dal carattere posticipato ed eventuale del contraddittorio e dalla parzialità
di una cognizione, limitata alle situazioni giuridiche prospettate da una sola delle parti. Per non
creare insuperabili antinomie e per non fondare ingiustificate posizioni di privilegio processuale,
occorre allora armonizzare la disciplina del decreto ingiuntivo – e soprattutto del decreto ingiuntivo
nella fase monitoria – con quella del giudizio ordinario in cui essa è stata chiamata a trovare
applicazione.
In altri termini: nel procedimento per decreto ingiuntivo si ha un accertamento provvisorio della
fondatezza dei fatti costitutivi addotti unilateralmente da una delle parti ed all’esito di una
cognizione sommaria perché parziale; accertamento poi soggetto a revisione in caso sia
tempestivamente presa una certa iniziativa processuale da parte dell’ingiunto.
Nel procedimento per ordinanza ingiuntiva, invece, si è di fronte ad un procedimento solo in
apparenza monitorio (probabilmente, a struttura monitoria), ma che si innesta in un giudizio a
contraddittorio pieno, nel quale le parti hanno tutte avuto la possibilità di esporre le proprie ragioni
e di svolgere le proprie difese (106).
Il problema è quindi come conciliare una cognizione parziale (giustificata, nel decreto
ingiuntivo in fase monitoria, appunto con l’istituzionale assenza della controparte) – e cioè limitata
ad un provvisorio accertamento della sussistenza dei soli fatti costitutivi – con la circostanza che al
riguardo la controparte ha già legittimamente preso posizione.
O, se si vuole, il problema è di conciliare la parzialità della cognizione con il rispetto
dell’effettività del contraddittorio, visto che quest’ultimo è già stato instaurato.
Pare indispensabile che l’oggetto dell’accertamento del giudice sia allora di molto più completo
di quello che gli si richiede nella fase monitoria del procedimento per decreto ingiuntivo.
In questa egli, appunto, si deve limitare alla delibazione della sussistenza dei fatti costitutivi
sulla base delle prove addotte dalla parte attrice, ma solo perché si tratta di una fase a cognizione
sommaria perché parziale, in cui per legge il contraddittorio ancora non c’è e in cui, salvi casi
eccezionalissimi, nulla può officiosamente rilevare (classico è il caso della prescrizione del titolo di
credito: nel quale, anche ove essa sia assolutamente evidente, si è obbligati a concedere il monitorio
e, secondo una certa giurisprudenza, anche a munirlo della provvisoria esecutività (o esecutorietà)
ex art. 642 cod. proc. civ.).
Al contrario, con l’ordinanza ingiuntiva, il giudice deliba sì la prova scritta a sostegno del
diritto azionato da chi la chiede, ma non può non tenere conto dell’efficacia che, su quella prova,
dispiega la legittima attività processuale svolta dalla controparte sino al momento della pronunzia.
In altri termini, la prova scritta non dovrà essere contrastata, con efficacia diretta e immediata, dalle
contestazioni o dalle attività istruttorie del presunto debitore: ché, altrimenti, sarà anche prova
scritta, ma non idonea a dar conto della sussistenza del credito.
Del resto, già per la fase monitoria del decreto ingiuntivo la valutazione del materiale
probatorio, per quanto sommaria, deve comunque essere lasciata al prudente apprezzamento del
giudice: tanto che, in linea generale, occorre comunque un’adeguata ponderazione dei contrapposti
interessi del creditore e del debitore, almeno con riferimento alla delibazione di sufficienza, della
documentazione prodotta, per la stessa attribuzione di tali qualifiche alle parti.
Sulla nozione di prova scritta rilevante non può che rinviarsi alle trattazioni al riguardo operate
in tema di decreto ingiuntivo; ma in questa sede può essere utile un cenno ad alcune delle
problematiche lì sviluppate, ricordando, ad esempio, che:
a) prova scritta può essere costituita da qualunque documento, cioè da una qualsiasi cosa atta a
rappresentare fatti od eventi, quand’anche privo dell’efficacia probatoria assoluta di cui agli artt.
2700 e 2702 c.c. (107);
b) la prova scritta deve riguardare in modo immediato e diretto i fatti costitutivi del diritto
azionato (108); ma può essere integrata anche da un documento con scrittura non autenticata o non
– in precedenza – riconosciuta, sulla base delle regole del codice di rito in ordine al riconoscimento
giudiziale (109) e tenuto conto dell’onere, per colui che produce un documento da fare riconoscere,
di comunicarne la produzione alla controparte contumace (110);
c) la semplice fattura relativa ad una compravendita, di per sé sola, può far fede solo della
spedizione della merce fatturata, ma non anche di tutti gli altri elementi del contratto di
compravendita, in quanto essa attiene al solo momento esecutivo di questo; e, così, almeno nella
fase monitoria (ché in quella di opposizione potrebbe non bastare nemmeno questo), per non
mortificare oltremodo il diritto di difesa del debitore, occorrerebbe quanto meno – se non il
versamento in atti dell’ordine, sottoscritto dall’ingiunto – la prova dell’effettuazione della consegna,
ad esempio con la bolla di consegna sottoscritta da persona riferibile all’ingiunto (111); ed ancora
maggiore cautela occorre nelle fatture relative a prestazioni di servizi, con riguardo alle quali non vi
è, in genere, nemmeno alcun documento di riconoscimento, da parte del cliente, dell’effettiva
esecuzione della prestazione dell’ingiungente;
d) la prova può anche essere integrata da un documento proveniente da un terzo, purché, oltre
che attendibile e meritevole di fede, sia quanto meno idoneo a dimostrare, in via almeno presuntiva,
la sussistenza del debito (112): potendo le scritture formate da terzi comunque fornire materiale
indiziario e presuntivo atto a fondare la decisione (113).
Per rendere ancora più agevole la concessione dell’ordinanza ingiuntiva e, quindi, per conferire
un trattamento ancora più privilegiato ai crediti relativi, il codice disciplina casi di efficacia legale di
alcuni tipi di documenti, vale a dire gli estratti autentici delle scritture contabili; essi non devono
esaurirsi nella mera fotocopia, per quanto autentica, di parti di queste ultime, visto che il notaio che
li produce ne deve attestare altresì la regolare bollatura, tenuta e vidimazione; al riguardo, tale prova
legale è ammessa, nei confronti di soggetti non imprenditori, non più solo per il caso di
somministrazioni di merce o di denaro MA ORA (114) ANCHE PER LA PRESTAZIONE DI
SERVIZI (115).
Sulla certezza, liquidità ed esigibilità del credito non si ha in questa sede spazio sufficiente per
una qualche sia pur minima disamina: e devesi allora far rinvio alla normativa sostanziale relativa a
tali istituti (116).
1. È ammissibile in un giudizio soggetto al rito c.d. locatizio (117)?
Non sussiste alcun problema nella fase sommaria della convalida di sfratto per morosità,
caratterizzata, come già visto, da una spiccata specialità. In quest’ultima – che, a stretto rigore,
ancora non è soggetta al rito locatizio, il quale diverrà applicabile solo dopo l’esaurimento della fase
speciale, con l’ordinanza di mutamento del rito ex artt. 665-667-426 cod. proc. civ. – la possibilità
di conseguire una ingiunzione di pagamento è limitata alla domanda di ingiunzione per canoni
scaduti e da scadere, per quanto prevista solo per l’ipotesi della convalida; e ciò bene si spiega, se si
considera che la fase sommaria stessa deve poter condurre in tempi brevissimi alla pronunzia del
titolo esecutivo che sancisca la risoluzione per morosità ed eventualmente a quello che, su tale
presupposto, consenta al locatore di conseguire il pagamento delle rate non pagate. Quindi, solo in
caso di conseguita irretrattabilità della sussistenza della mora, come consacrata con l’ordinanza di
convalida dello sfratto, può essere, senza ulteriori formalità, pronunziato quello speciale monitorio
previsto dall’art. 664 cod. proc. civ. (118).
Ma, a ben guardare, non si pone neppure un problema di compatibilità, in una causa ab origine
o successivamente soggetta al rito locatizio, tra l’ordinanza ex art.186 ter cod. proc. civ. ed
eventuali norme speciali all’uopo richiamate dal processo del lavoro, che si è visto invece sussistere
per l’ordinanza ex art. 186 bis. Non vi è, infatti, nel rito del lavoro (che costituisce il riferimento di
quello locatizio), un istituto analogo a quello in esame (diversi essendo i presupposti e le finalità
dell’ordinanza di cui all’art.186 ter e di quella di cui all’art. 423 co. 2, avvicinabile forse molto di
più all’art. 186 quater); sicché la già vista interazione (119) tra processo del lavoro e processo civile
ordinario (120) consentirebbe l’operatività dell’art.186 ter anche in quello locatizio (come pure, ma
ciò non interessa i pretori civili, in quello del lavoro), visto che la peculiarità di quest’ultimo non
osta, in modo inequivoco, all’adozione di tale strumento.
Non possono condividersi le contrarie argomentazioni (121) che fanno leva sulla specialità del
rito del lavoro e sull’inutilità della misura in un processo che non necessiterebbe di misure
deflazionistiche alla pari di quello ordinario: si è visto che la specialità non deve precludere
l’estensione di istituti non incompatibili con la struttura processuale tipica del processo del lavoro;
mentre che quest’ultimo abbia meno bisogno di misure deflazionistiche resta una petizione di
principio e una scorretta sopravvalutazione del momento teleologico nel procedimento di
interpretazione della compatibilità della norma col rito speciale.
Certamente, ove nel caso concreto sussistesse la possibilità di conseguire in tempi rapidi, con la
piena garanzia di una sentenza di merito, la definizione ordinaria del giudizio, l’ordinanza ex art.
186 ter, nei limiti in cui sussiste la discrezionalità del giudicante nella sua emissione, non dovrà
essere emanata, proprio per evitare i rischi di una sommarizzazione del processo e quindi di una
diminuzione delle garanzie per tutte le parti: e per far tanto potrà farsi leva sulla evidente
insussistenza di un interesse ad agire ex art. 186 ter.
E che poi il desolante stato della giurisprudenza di legittimità (122) dia conto di una generale
inoperatività della peculiare speditezza del rito speciale non dovrebbe forse incoraggiare l’adozione
degli strumenti speciali di definizione, ma sommari e alternativi alla sentenza, quanto piuttosto
incitare al recupero della funzionalità di quest’ultima, soprattutto quando la sua adozione sia
consentita in forme obiettivamente semplici e agili e quand’anche a prezzo di una riconsiderazione
della cultura della decisione. Il tutto nell’ottica della non necessità di forme ridondanti o eccessive
nella sentenza stessa e della perfetta sufficienza, anche in quest’ultima, di schemi di motivazione
sostanzialmente analoghi a quelli dell’ordinanza. In tal modo, di fronte all’alternativa tra la
pronunzia di un’ordinanza ex art. 186 ter e quella di una sentenza che ne abbia in sostanza gli
identici contenuti e impianti argomentativi, dovrebbe compiersi ogni sforzo per privilegiare la
seconda: ma ciò incide, previa attenta considerazione della singola fattispecie, non già sull’astratta
ammissibilità della prima, bensì sulla sola sussistenza, nel caso concreto, di un interesse alla sua
emanazione.
2. È ammissibile in un giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo (e, in caso affermativo, a partire
da quando?)?
Si ripropone la problematica in parte affrontata in tema di ordinanza di pagamento di somme
non contestate. I sostenitori della tesi negativa insistono sul fatto che la peculiarità del giudizio
iniziato con ricorso per decreto ingiuntivo già integrerebbe l’anticipazione della tutela, propria a sua
volta dell’ordinanza ingiuntiva (123), sicché non potrebbe emanarsi un ulteriore provvedimento
anticipatorio della condanna, con cui si duplicherebbe sia la pronunzia, sia il titolo esecutivo
(qualora tanto il decreto ingiuntivo, quanto l’ordinanza ingiuntiva diventino o siano esecutivi)
(124).
Eppure, la già tentata ricostruzione del giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo (125)
consente di qualificare quest’ultimo come un ordinario giudizio di cognizione, con la sola
peculiarità della fase introduttiva e della presenza di un titolo giudiziale di accertamento provvisorio
della sussistenza dei fatti costitutivi del diritto azionato dall’ingiungente; titolo giudiziale che
diviene una condanna con riserva, qualora sia munito della provvisoria esecutività (o esecutorietà),
in quanto questa deve conseguire alla positiva delibazione del fumus boni iuris della parte in cui
favore è concessa.
Pertanto, una volta esaurita la peculiarità della fase introduttiva con la disamina delle istanze ex
art. 648 o 649 cod. proc. civ., il giudizio prosegue con le forme ordinarie, tranne che per quegli
istituti che siano assolutamente incompatibili con la persistente presenza del decreto ingiuntivo, su
cui occorre pronunziare soltanto con sentenza (126): ne consegue che, dal punto di vista della mera
ammissibilità, non dovrebbe precludersi in astratto la possibilità di chiedere ed ottenere l’ordinanza
ingiuntiva, a partire dal dies a quo che si vedrà di qui a tra un momento.
Sotto questo profilo, del resto, gli interpreti argomentano sulla agevole resolubilità in sede
esecutiva delle difficoltà eventualmente derivanti dalla compresenza di due titoli divenuti entrambi
esecutivivi (127): e la soluzione (128) convince, attesa anche l’inidoneità al giudicato
dell’ordinanza ex art. 186 ter anche nel caso di estinzione del processo (129).
L’efficacia delle ordinanze ex artt. 186 bis e 186 ter in caso di estinzione deve ritenersi limitata
al regime di titolo esecutivo e quindi equiparata a quella di qualunque accertamento provvisorio dei
fatti costitutivi della pretesa azionata dalla parte. Di conseguenza, esclusa un’attitudine al giudicato,
esclusa pure un’immutabilità equiparabile a quest’ultimo (130), sarà tecnicamente possibile opporsi
all’esecuzione intrapresa in forza dell’ordinanza ex art. 186 ter (131) mediante l’adduzione di quei
medesimi fatti o il dispiegamento di quelle condotte processuali che potevano essere addotti o
dispiegate nel prosieguo del giudizio in cui l’ordinanza è stata emessa (132).
Invece, occorrerà valutare se, caso per caso, sussistano tutti i presupposti di concedibilità
dell’ordinanza: primo fra tutti l’interesse ad agire, che difetterebbe certamente, ad esempio, nel caso
in cui il decreto ingiuntivo fosse stato già munito di provvisoria esecutività (o esecutorietà) (tanto ex
art. 642, quanto ex art. 648 cod. proc. civ.) e per di più per la stessa somma per la quale si chiede
l’ordinanza ex art. 186 ter (133).
Anche per questo motivo, quindi, l’interesse a conseguire quest’ultima non può sorgere che
all’esito dell’eventuale rigetto della domanda – ex art. 648 cod. proc. civ. – di concessione della
provvisoria esecuzione, ovvero dell’eventuale accoglimento della domanda, ex art. 649 cod. proc.
civ., di sospensione della provvisoria esecuzione già concessa al decreto stesso.
3. Vi sono margini o limiti di discrezionalità nella concessione?
La questione è più complessa di quella della sussistenza o meno di discrezionalità nella
concessione dell’ordinanza ex art. 186 bis: l’art. 186 ter non prevede, infatti, alcuna espressione
equivalente a quel “può”, su cui è stata fondata la discrezionalità dell’ordinanza di pagamento di
somme non contestate; e potrebbe allora sostenersi che, in presenza dei requisiti di cui all’art. 186
ter, il giudice sia obbligato (134) a concedere l’ordinanza.
È ben vero che la disciplina sulla provvisoria esecutività (o esecutorietà) dell’ordinanza si
ricollega direttamente alla sussistenza dei presupposti dell’art. 642 e/o dell’art. 648: ma, a parte i
dubbi sulla possibilità di disporre la provvisoria esecutività (o esecutorietà) in carenza di istanza di
parte specifica, il comma secondo dell’art. 186 ter sembra descrivere soltanto il regime di efficacia,
per il caso che l’ordinanza sia concessa; e non pare potersene inferire l’obbligatorietà non solo e non
tanto della concessione di quel particolare – ma tanto importante... – adminiculum che è la
provvisoria esecutività (o esecutorietà), quanto persino dell’emissione, in sé considerata,
dell’ordinanza ingiuntiva.
Anzi, a ben guardare, non è nemmeno previsto, a differenza – ad esempio – dalla disposizione
dell’art. 423 co. 1 cod. proc. civ., che il giudice, in presenza di quei requisiti, “dispone” tout court
l’ingiunzione: e pare allora che il problema possa risolversi in applicazione dei princìpi generali in
tema di pronunzie giurisdizionali, che il giudice deve sì emettere, ma all’esito del giudizio positivo
di sussistenza della pretesa azionata. Con ciò vuol dirsi che certamente il giudice, destinatario di
un’istanza ex art. 186 ter cod. proc. civ., dovrà valutare non solo la sussistenza della prova scritta a
sostegno dei fatti costitutivi del diritto, ma anche l’inesistenza di ragioni giuridiche – rilevabili di
ufficio o, altrimenti, ritualmente eccepite da colui nei cui confronti la domanda di ingiunzione è
dispiegata – tali da ostare alla concessione dell’ordinanza (135).
Senza necessità di coinvolgere il problema della discrezionalità nella concessione, allora, sarà
nel momento di apprezzare la sussistenza o meno della prova scritta del credito che potrà essere
esplicato il controllo sul merito della domanda, sotto il profilo della sussistenza delle condizioni
dell’azione e dei presupposti processuali. Per quanto detto più sopra, invero, sarebbe infatti del tutto
incongruo imporre o consentire l’emanazione di un’ordinanza ingiuntiva in presenza di fatti
impeditivi, modificativi od estintivi certi, ovvero di contestazioni in fatto o in diritto che privino i
documenti prodotti dall’ingiungente dell’efficacia probatoria che vi si vorrebbe ricondurre, o
comunque della possibilità che sulla loro base si giunga ad una pronunzia favorevole all’attore.
E se si aggiunge che l’ordinanza ingiuntiva è finalizzata alla vera e propria anticipazione della
pronunzia di merito, si scopre allora che il giudice, nel momento in cui gli si chiede di pronunziare
la prima, deve compiere anche una valutazione molto simile a quella che sarebbe chiamato a fare
per la seconda: dovendo operare sì una delibazione – e quindi espletare un’attività certamente meno
complessa di una decisione definitiva –, ma riguardo ai fatti addotti da tutte le parti, tra loro
comparati.
Correttamente, allora, si dovrebbe denegare l’ordinanza in caso di questione pregiudiziale o
preliminare, di rito o merito, su cui sia stato disposto – o sia da disporre – il rinvio per l’immediata
decisione, ai sensi del co. 2 e della prima parte del co. 3 dell’art. 187 cod. proc. civ.: dappoiché
l’intrinseca controvertibilità della medesima questione (ma, si ricordi, a patto che la valutazione del
rinvio per l’immediata decisione corrisponda, come di regola accade, ad una sorta di delibazione di
fondatezza della questione e di previsione di una pronunzia in rito) rende dubbia la sussistenza della
possibilità, per quel giudice, di pronunziarsi sulla domanda e, a maggior ragione, sulla domanda di
ordinanza ingiuntiva, per definizione finalizzata ad anticipare una sentenza di merito che quel
giudice probabilmente non potrà mai emettere.
Ancora, nessun dubbio dovrebbe sussistere sulla doverosità del diniego dell’ordinanza
ingiuntiva nel caso in cui la domanda sia manifestamente priva di idoneo supporto probatorio:
ipotesi che si verificherebbe certamente nel caso in cui l’efficacia della scrittura privata posta a base
dell’istanza di ordinanza ingiuntiva sia paralizzata da altra ed equipollente scrittura, ovvero da fatti,
anche di ordine processuale, idonei (quali il disconoscimento, che pure la norma ritiene rilevante ai
fini dell’esclusione della provvisoria esecutività (o esecutorietà), evidentemente presupponendo che
l’ordinanza possa in tali casi essere concessa, ma priva della provvisoria esecutività (o esecutorietà)
(136).
L’unica delibazione che al giudice dovrebbe essere vietata, in ciò solo riconoscendosi la
conseguenza dell’omissione del verbo “potere” dal tenore letterale dell’art. 186 ter, è quella della
opportunità della concessione della ordinanza ingiuntiva: discrezionalità che è stata invece
riconosciuta, appunto, al momento della pronunzia dell’ordinanza di pagamento di somme non
contestate, soprattutto in relazione alle peculiarità del caso concreto e, quindi, anche con riguardo
agli effetti concreti dell’esecuzione del titolo.
Per analoghe ragioni non dovrebbe essere consentito il diniego di emissione dell’ordinanza
ingiuntiva nei casi in cui essa non possa essere munita della clausola di provvisoria esecutività (o
esecutorietà). È evidente che la legge prevede espressamente questo caso, disciplinando che, in caso di
estinzione del processo, acquisti efficacia esecutiva l’ordinanza ingiuntiva che non sia già munita di
analoga clausola, ex art. 642 o 648 cod. proc. civ.: pertanto, un interesse – in senso tecnico – della parte
istante a conseguire un’ordinanza ingiuntiva anche non esecutiva sta proprio in ciò, che la stessa potrebbe
divenire esecutiva in caso di estinzione del processo in cui essa è stata emessa. Rimarrebbe solo da
valutare la sussistenza di un suo interesse ad agire ex art. 186 ter in presenza di altri titoli esecutivi a
sostegno della stessa pretesa, come il già visto caso del dispiegamento della domanda nella fase di
opposizione ad un decreto ingiuntivo già emesso.
4. A partire da quando può essere concessa?
La vista ricostruzione, che mette in risalto le differenze del procedimento per ordinanza
ingiuntiva rispetto a quello per decreto ingiuntivo, consente pure di stabilire il dies a quo della
concedibilità del primo provvedimento: per il quale in genere si richiede quanto meno che il
convenuto si sia costituito, visto che il regime di esecutività e finanche il contenuto del
provvedimento sono diversi a seconda che, appunto, l’ingiunto sia o meno contumace (137).
Più radicalmente, peraltro, si sostiene la necessità di fare riferimento all’udienza di comparizione
(138), sul presupposto che al convenuto è consentito espletare, proprio fino a quel momento, attività
rilevanti anche per escludere la concedibilità dell’ordinanza ingiuntiva, fra cui – almeno ai fini della
provvisoria esecutività (o esecutorietà) – il disconoscimento della scrittura privata azionata contro di lui.
E tale tesi deve essere preferita, in armonia con il sistema di preclusioni introdotto nel c.d. nuovo rito: il
quale sistema, se obiettivamente comporta notevoli oneri per il convenuto, comunque gli consente ben
più di uno spatium deliberandi per dispiegare tutte le sue difese, quasi per centellinarle. Sarebbe
certamente contrario alla lettera della riforma, anche come controriformata nel 1995, conculcare i diritti
espressamente riconosciuti alla parte, costringendola, per quanto nel suo interesse, a concentrare in
udienze non all’uopo destinate le delicate e complesse attività processuali che potrebbero precludere
l’emissione di un provvedimento ad essa stessa sfavorevole.
Con ciò si vuol dire:
• che lo scadenzamento, quasi la frantumazione dei tempi, dell’onere difensivo delle parti,
brillante risultato della controriforma del 1995, esige (purtroppo!) rispetto;
• che non si possono ritenere introdotti, nemmeno in via di interpretazione per incompatibilità e
sia pure al limitato fine della delibazione dell’istanza ex art. 186 ter, termini più brevi di quelli
ordinari per l’espletamento delle attività difensive;
• che eventuali condotte dilatorie della parte andranno represse con un contenimento
eccezionale dei tempi di rinvio, ma non sopprimendo arbitrariamente le garanzie comunque
riconosciutele.
Ne consegue che, fino alla definitiva contestatio litis quale risulti dal compiuto svolgimento
dell’udienza di comparizione di cui all’art. 183 nss. t. cod. proc. civ. (e quindi, c’è da temere, anche
sino alla scadenza degli eventuali termini obbligatoriamente concessi, su anche immotivata richiesta
di parte, ai sensi del quinto comma di tale articolo, vale a dire per l’eventuale modifica di domanda
ed eccezioni (139), non vi sia la possibilità di provvedere sulle istanze ex art. 186 ter (140).
E vanno solo richiamati i risultati delle già svolte argomentazioni in tema di termine iniziale di
concedibilità in caso di richiesta di ordinanza ingiuntiva nel corso di un giudizio di opposizione a
decreto ingiuntivo: visto che qui l’interesse ad agire non potrebbe sorgere che successivamente
all’accoglimento dell’istanza ex art. 649 cod. proc. civ. ovvero al rigetto dell’istanza ex art. 648 cod.
proc. civ., quando la somma richiesta sia eguale o minore di quella già resa oggetto del monitorio
(141).
Esula, invece, dai ristretti limiti della presente trattazione la disamina del problema relativo al
termine finale per la concessione dell’ordinanza, che la norma pure individua nell’udienza di
conclusioni (142), nonché di quello in ordine alla concedibilità in pendenza di sospensione o
interruzione, rinfocolato dalla presenza, nel tenore testuale della norma dell’art. 186 ter e non anche
in quello dell’art. 186 bis, della specificazione della concedibilità dell’ordinanza anticipatoria in
ogni stato e grado del processo (143).
5. Quali sono i presupposti della provvisoria esecuzione (144) dell’ordinanza nei confronti del
convenuto costituito?
Se alla tecnica legislativa odierna qualche volenteroso inteprete volesse rivolgere un plauso,
questo non sarebbe meritato certamente per come è stato formulato il secondo comma dell’art. 186
ter, laddove prescrive, dopo la necessità della statuizione sulle spese, che l’ordinanza ingiuntiva è
dichiarata provvisoriamente esecutiva ove ricorrano i presupposti di cui all’art. 642, nonché, ove la
controparte non sia rimasta contumace, quelli di cui all’art. 648, primo comma, cod. proc. civ..
In uno tra i migliori vocabolari della lingua italiana (145) alla congiunzione nonché viene
attribuito un valore meramente aggiuntivo: “e anche”, “e inoltre”, “come pure”; come valore
letterario si attribuisce il senso di “non solo”, “non solo non”, oppure di “oltre a”, “oltre che”.
Gli interpreti hanno tuttavia già trovato il modo di dividersi su come interpretare tale norma,
complicata dall’infelice (146) impiego della congiunzione “nonché”, presentando tre diverse
soluzioni (147) per l’operatività della provvisoria esecutività (o esecutorietà) nel caso che la parte
destinataria dell’ingiunzione non sia rimasta contumace (148):
1. devono ricorrere sia le condizioni di cui all’art. 642, sia quelle di cui all’art. 6481 cod. proc.
civ. (149): cioè entrambe debbono coesistere;
2. devono ricorrere o le condizioni di cui all’art. 642, oppure quelle di cui all’art. 6481 cod.
proc. civ. (150): cioè possono coesistere alternativamente;
3. devono ricorrere solo le condizioni di cui all’art. 6481 cod. proc. civ. (151).
Ora, per risolvere il problema interpretativa, è necessario porre attenzione all’art. 648 e alla sua
ricostruzione nella dottrina generale del decreto ingiuntivo.
Tale norma prevede che l’esecuzione provvisoria non sia mai concedibile se: a) l’opponente
produca una prova scritta (152); b) sia possibile una rapida definizione del giudizio (153). In tali
ipotesi, il giudice istruttore non può – e quindi non deve (154) – concedere la provvisoria
esecuzione, ex art. 648 c.p.c.: e tuttavia, l’insussistenza dell’una o dell’altra non deve consentire
all’istruttore di concedere, per questo solo fatto, la provvisoria esecuzione.
Se si ricorda che quest’ultima è un’autentica anticipazione degli effetti della pronunzia di
condanna in favore del creditore, si deve ritenere assolutamente indispensabile la positiva
delibazione del buon diritto di quest’ultimo, cui si voglia concedere appunto tale anticipazione, a
danno della sua controparte.
Ripudiata la prassi di concedere la provvisoria esecuzione sulla base della semplicistica
constatazione della carenza di una prova scritta e della presumibile eccessiva lunghezza dei tempi di
soluzione della causa, deve, al contrario, affermarsi la necessità, per la concessione della provvisoria
esecuzione di cui all’art. 648 c.p.c., del fumus boni juris del creditore procedente, da valutarsi alla
stregua delle regole generali sulla ripartizione dell’onere della prova e sulle prove proprie
dell’ordinario giudizio di cognizione.
A tale risultato si è giunti:
– in base ad un’intepretazione sistematica dell’art. 648 c.p.c.: cioè, una volta finalmente ripristinato il
contraddittorio con l’instaurazione del giudizio di opposizione, mai si potrebbe continuare a considerare
fondata la domanda accolta col decreto monitorio, nemmeno e tanto più ai fini della concessione della
sua provvisoria esecuzione, qualora, se la causa passasse in decisione in quel momento, la domanda
stessa, stando alle ordinarie regole probatorie, risultasse totalmente sfornita di prova;
– forse con maggiore coerenza sistematica, alla stregua della riconduzione dell’ordinanza
prevista da quella norma nell’ambito delle condanne con riserva delle eccezioni (155);
– al fine di evitare l’incostituzionalità della norma: l’ordinanza di provvisoria esecuzione
avrebbe una natura anche cautelare e, quindi, “la valutazione del fumus boni juris va operata anche
nei confronti della prova dedotta dall’istante opposto a base della domanda di decreto ingiuntivo”,
sicché sia il fumus che il periculum “reciprocamente si influiscono” nella cognizione del giudice
(156).
Se il provvedimento monitorio dotato di efficacia esecutiva è una condanna con riserva, allora,
deve richiedersi, per la concessione di quest’ultima (almeno nei casi in cui non sia
obbligatoriamente imposta dalla legge, come nel primo comma dell’art. 642 cod. proc. civ.), che
sussista il fumus boni iuris in favore di chi la chiede. Il punto centrale del discorso che qui si
imposta è che la conclusione possa essere applicata sicuramente anche al caso dell’ordinanza
ingiuntiva (157), visto che le differenze con il decreto qui si riducono ulteriormente, essendo in
entrambe le ipotesi possibile esaminare le istanze ex art. 648 cod. proc. civ. a contraddittorio oramai
instaurato (158).
Certo, non ci si nasconde che osta, almeno prima facie, alla piena sussumibilità dell’ordinanza
ingiuntiva esecutiva entro il paradigma della condanna con riserva il regime della libera revocabilità
e modificabilità della prima (159): e tuttavia, in un sistema che ha introdotto strumenti, con
aspirazioni definitorie dell’intero processo, dalla forma e dalla sostanza di una mera ordinanza, non
dovrebbe dare scandalo una revisione dinamica del concetto di condanna con riserva ed arnmettere
la sua estensibilità, appunto, al caso in esame. La semplificazione delle forme introdotta con le
ordinanze anticipatorie, in altri termini, può interagire con la teoria generale del processo e quindi
sui concetti stessi di ordinanza e sentenza. Si può, alla fine, ammettere l’estensione del regime di
stabilità soltanto relativa, tipico delle ordinanze, anche al caso in cui esse abbiano la sostanza di una
sentenza, ovvero di un accertamento a cognizione piena, limitata però ad una sola parte del thema
decidendum (perché delle residue questioni, appunto, ci si riserva di occuparsi in un momento
successivo): del resto, è conclamata tra gli interpreti l’ammissione di una sorta di atipicità dei
provvedimenti anticipatori e quindi dovrebbe essere consentito applicare solo per analogia – e
persino a seconda dei diversi aspetti via via coinvolti – la disciplina prevista per gli istituti che più
loro si avvicinano quanto a funzione e struttura.
Anche l’ordinanza ingiuntiva esecutiva potrebbe, allora, definirsi – se non altro quanto ad
efficacia – una condanna con riserva.
Ora, se si accetta questa premessa, le condizioni per la concessione della provvisoria esecutività
(o esecutorietà) dell’ordinanza ingiuntiva si risolvono proprio nella compresenza e nella reciproca
interazione di tutte quelle richiamate nell’art. 186 ter: vale a dire, nell’alternativa rilevanza di
ciascuna di quelle, purché, naturalmente, non osti, in generale, alla concessione la delibazione
dell’insussistenza del fumus boni iuris in capo alla parte a cui l’ordinanza possa concedersi (160).
Impregiudicato il problema della necessità o meno di un’istanza di parte in merito alla concessione
della provvisoria esecuzione, quindi, può concludersi che, nei confronti della parte costituita, essa
può aver luogo:
1. se il credito è fondato su cambiale, assegno bancario, assegno circolare, certificato di
liquidazione di borsa, o su atto ricevuto da notaio o da altro pubblico ufficiale autorizzato;
2. oppure se vi è pericolo di grave pregiudizio nel ritardo, ma potendo in questo caso il giudice
imporre cauzione a colui cui concede l’ordinanza;
3. oppure se l’opposizione (161) alla concessione dell’ordinanza ingiuntiva (162) non è fondata
su prova scritta;
4. oppure se la causa non è di pronta soluzione;
e sempre che (in tutte tali ipotesi) sussista il fumus boni iuris in relazione al diritto azionato da
colui in cui favore concedere l’ordinanza ingiuntiva (163).
E tutto ciò, naturalmente, all’ovvia condizione che si sia risolta positivamente la valutazione
sulla sussistenza della prova scritta del credito azionato (già da interpretarsi alla luce – per quanto
detto (164) – del complessivo impianto difensivo dell’aggiungendo), indispensabile comunque per
la stessa emanazione dell’ordinanza ingiuntiva.
6. Quali sono le facoltà processuali consentite al convenuto contumace che si costituisca dopo la
notifica dell’ordinanza ingiuntiva?
Per esclusione rispetto alle conclusioni appena raggiunte, allora, dovrà ammettersi che, nei
confronti del contumace, l’ordinanza ingiuntiva potrà essere emessa all’esito della valutazione della
sussistenza della prova scritta del credito azionato, stavolta da non interpretarsi alla luce del
complessivo impianto difensivo dell’intimando (visto che, essendo egli rimasto contumace, non ha
sviluppato alcun impianto difensivo); e che essa potrà essere dichiarata provvisoriamente esecutiva
se:
1. se il credito è fondato su cambiale, assegno bancario, assegno circolare, certificato di
liquidazione di borsa, o su atto ricevuto da notaio o da altro pubblico ufficiale autorizzato;
2. oppure se vi è pericolo di grave pregiudizio nel ritardo, ma potendo in questo caso il giudice
imporre cauzione a colui cui concede l’ordinanza.
Cosa possa fare poi l’ingiunto costituendosi dopo la notifica dell’ordinanza ingiuntiva (la quale,
si ricorderà, deve contenere l’espresso avvertimento che, ove la controparte non si costituisca entro
il termine di venti giorni dalla notifica, essa stessa diverrà esecutiva) si desume dal rito applicabile
alla controversia nel cui corso è stato emesso il provvedimento: una volta escluso che al contumace
non si applichino le decadenze già verificatesi (165), egli potrà proporre ancora solo le eccezioni –
non rilevabili di ufficio – da cui non sia decaduto (salva l’operatività delle rimessioni in termini di
cui agli artt. 294 e 184 bis, ove ne ricorrano i presupposti) (166), oltre ad allegare mere difese o
difendersi in punto di diritto (167).
Nemmeno, naturalmente, gli è preclusa l’istanza di revoca o modifica dell’ordinanza ingiuntiva,
sia sotto il profilo dell’insussistenza dei presupposti per la sua concessione, sia sotto quello
dell’irritualità della notifica (168), sia limitatamente alla richiesta di revoca della sola parte in cui
viene disposta la provvisoria esecutività (o esecutorietà) o a peculiari clausole di quest’ultima (come
quella in tema di cauzione).
Quanto poi alla dispiegabilità di un’opposizione tardiva ex art. 650 cod. proc. civ., che si vuole
introdurre ora in virtù del richiamo diretto operato dall’art. 647 a tale norma (169), ora in via di
applicazione analogica (170), deve ritenersi che il richiamo all’art. 647 da parte del quinto comma
dell’art. 186 ter sia limitato alla sola esecutività del provvedimento (l’ordinanza diviene esecutiva ai
sensi dell’articolo 647). Il riferimento al giudizio di opposizione, pure contenuto nell’art. 647,
invece, non può essere esteso al giudizio in cui è stata emessa l’ordinanza ingiunzione, vista la
differenza di presupposti e di struttura di un giudizio a cognizione ordinaria rispetto a quello
introdotto con ricorso per decreto ingiuntivo. D’altra parte, non si vede la necessità di complicare le
cose ipotizzando una specifica figura di opposizione tardiva ad ordinanza ingiuntiva, sia perché non
esiste un giudizio di opposizione tempestiva (visto che l’ordinanza ingiuntiva si innesta in un
ordinario giudizio di cognizione già in essere e il cui oggetto non sarà mutato, per il fatto che sia
stata chiesta e concessa l’ordinanza ex art. 186 ter, nella verifica del diritto provvisoriamente
consacrato con quest’ultima), sia perché al contumace che si costituisca tardivamente dovrebbe
potersi appunto consentire la rimessione in termini di cui alla norma generale dell’art. 294 (o,
secondo altri, 184 bis), di portata più ampia (e quindi più favorevole all’ingiunto) rispetto a quella
dell’art. 650 cod. proc. civ.
Deve invero escludersi, non essendo specificamente previsto dalla norma, che la costituzione
tardiva del contumace ingiunto determini la definizione del processo (171): ma, al riguardo, è ormai
indispensabile affrontare compiutamente il problema dell’efficacia dell’ordinanza ingiuntiva in caso
di estinzione del processo nel corso del quale è pronunziata.
7. Qual è il valore dell’ordinanza una volta che sia estinto il processo?
Secondo la lettera della legge, l’ordinanza ingiuntiva conserva la sua efficacia in caso di
estinzione del processo: e la disputa, tra gli interpreti, è in ordine alla qualificazione di tale efficacia
e alla stessa individuazione della natura dell’ordinanza in esame. Da un lato, infatti, si sostiene che,
in caso di estinzione, l’ordinanza ingiuntiva (alla pari dell’ordinanza di pagamento di somme non
contestate) acquista una vera e propria “immutabilità”, una attitudine al giudicato (172); dall’altro,
invece, si afferma che l’estinzione del processo darebbe luogo solo ad una mera “ultraattività”
dell’ordinanza, che manterrebbe solo la sua peculiare attitudine a fondare un’esecuzione (173) (cioè
la qualità di titolo giudiziale esecutivo).
L’argomento principale dei sostenitori della prima tesi (immutabilità equiparabile al giudicato)
è il richiamo alla disciplina del decreto ingiuntivo e, in particolare, all’esecutività di quest’ultimo in
caso di estinzione del processo (art. 653 cod. proc. civ.) e di inattività per mancata costituzione (art.
647 cod. proc. civ.): visto che nessuno dubita che il decreto ingiuntivo, nonostante il codice gli
attribuisca solo l’esecutività, diviene irretrattabile e acquista un’autorità e una forza equiparabile al
giudicato, appare logico che il richiamo alla medesima disciplina comporti gli stessi effetti.
L’argomento non può essere condiviso. Il decreto ingiuntivo, dichiarato esecutivo ex artt. 647 o
653 cod. proc. civ., diviene irretrattabile semplicemente in considerazione della peculiare struttura
processuale in cui il codice lo inserisce, la quale consente di rimettere in discussione il provvisorio
accertamento dei fatti costitutivi – in cui consiste il decreto stesso – esclusivamente entro termini
perentori dalla sua notifica: termini che, non solo in ipotesi di mancata o tardiva costituzione
dell’opponente, ma anche – e a maggior ragione – nel caso di estinzione del processo sono ormai
definitivamente elassi.
L’ordinanza ingiuntiva, invece, costituisce sì un accertamento provvisorio dei fatti costitutivi
del diritto vantato dall’ingiungente, ma è un subprocedimento incidentale – e accidentale – di un
ordinario giudizio di cognizione e, soprattutto, non è l’oggetto originario di un processo finalizzato
istituzionalmente alla sua verifica, il quale rimanga condizionato dalla carenza di attività
processuale specifica della parte ingiunta. Una volta emessa l’ordinanza ingiuntiva, infatti, il
processo in cui è pronunziata non si estingue per il fatto che l’ingiunto non contesti quell’ordinanza:
e ciò nemmeno per il caso in cui l’ingiunto sia contumace, visto che il codice nulla dispone
sull’esito del giudizio, ma solo in ordine all’efficacia esecutiva del provvedimento; e, nelle altre
ipotesi di estinzione, questa è disegnata dalla norma come la causa dell’efficacia esecutiva, non
come una conseguenza di quest’ultima.
D’altra parte, si è già tentato di ricostruire l’ordinanza ingiuntiva esecutiva come una condanna
con riserva (174): ciò deriverebbe dalla natura di titolo esecutivo provvisorio, fondato sulla positiva
delibazione della sussistenza dei fatti costitutivi del diritto dell’ingiungente. Deve allora ritenersi
(175) estensibile anche a questo caso la conclusione raggiunta dalla giurisprudenza di legittimità in
tema di ordinanza provvisoria di rilascio ex art. 665 cod. proc. civ. (176) e di cui pure già si è
accennato per l’art. 186 bis, secondo la quale l’accertamento contenuto nel titolo esecutivo
giudiziale costituito dalla condanna con riserva mantiene la sua efficacia fino ad una successiva
pronunzia di merito contraria: avvenga questa, come di regola, nello stesso processo in cui è stata
emanata la condanna con riserva, ovvero in altro e separato processo.
Dovrebbe ammettersi, allora, un’azione di accertamento negativo – e quindi intrapresa dal
presunto debitore – della pretesa momentaneamente consacrata nell’ordinanza ingiuntiva; ma anche
un’opposizione all’esecuzione intrapresa sulla base di tale titolo, visto che, estinto il giudizio in cui
quello si è formato ed esclusa la formazione di un giudicato, non si tratterebbe di far valere fatti
oramai preclusi da quest’ultima.
Non si può cioè, senza una specifica e inequivocabile disposizione, imporre all’ingiunto un
vero e proprio onere di reagire per evitare un’irretrattabilità equiparabile al giudicato, non foss’altro
che per la gravità delle conseguenze, anche – se non soprattutto – per il dedotto e il deducibile. Alla
parte ingiunta potrebbe convenire persino subire l’esecuzione, a condizione però che non diventino
indiscutibili altri fatti, contro il cui accertamento definitivo egli potrebbe avere uno specifico
interesse contrario; e, comunque, sarebbe per lui ben più oneroso rimettere in discussione con un
autonomo giudizio (anziché nel corso di quello in cui si è formata l’ordinanza ingiuntiva, di cui
avrebbe potuto chiedere immediatamente la revoca o la modifica) quanto provvisoriamente
accertato con il titolo esecutivo giudiziale oramai già pronunziato (la cui sospensione dovrebbe
essere possibile solo ex art. 624 cod. proc. civ., a tutto concedere).
Non ci si nasconde che l’interpretazione qui condivisa (ultraattività della sola efficacia di
titolo esecutivo) corre il rischio di rendere ancora meno operante l’effetto deflattivo auspicato per
questi provvedimenti anticipatori; ma il sistema pare coerente con una sorta di posticipazione, quasi
di eventualizzazione della reazione della parte, che non deve escludere però la possibilità di una
rimessione in discussione dell’intero tema della controversia, tranne i casi in cui ciò sia consentito o
imposto da una lettera della legge chiara ed univoca.
Per quanto la tesi dell’idoneità al giudicato sia conforme ad un’aspirazione di economia
processuale, così, la riconquista della normalità dell’esercizio della giurisdizione passa pur sempre
per il recupero della funzionalità dei meccanismi processuali a cognizione piena già esistenti e non
per l’amputazione delle garanzie – per le parti e per lo stesso ordinamento – assicurate dalla vigente
struttura del processo civile ordinario.
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SCRIMA, Le ordinanze ex artt. 186-bis e ter cod. proc. civ., relazione tenuta al Corso di
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TRISORIO LIUZZI, Sui termini per la pronunzia delle ordinanze di condanna ex artt. 186 bis e ter
cod. proc. civ., in Giur. it., 1995, I/B, 334 ss.
Fra tutte le trattazioni istituzionali, pare utile un richiamo a MANDRIOLI, Corso di diritto
processuale civile, Torino 1993 (per la IX ed.; ma è già stata edita la successiva), vol. II, 101 ss.
(2) La presente trattazione dichiaratamente non tenderà ad essere esaustiva delle ricche
problematiche relative agli istituti dei provvedimenti anticipatori di cui agli artt. 186 bis e ter: e
tanto per attenersi il più possibile all’impostazione del presente incontro di studi, che vuole una
presentazione agile, a mo’ di introduzione generale, seguita dalla piena, ma al tempo stesso
succinta, illustrazione, dei punti salienti di ogni questione. Di particolare utilità per una
ricostruzione complessiva e sistematica degli istituti oggetto della presente trattazione può rivelarsi
il pregevolissimo contributo della collega CIVININI, op. cit. alla nota precedente, come pure quello
della collega SCRIMA, Le ordinanze ex artt. 186-bis e ter cod. proc. civ., cit. alla nota precedente.
(3) Istituti analoghi a quelli di cui agli artt. 186 bis e ter erano presenti in tutte le numerose
proposte di riforma anteriori a quella poi approdata alla L. 353/90: per un panorama, cfr. CIVININI:
op. cit., 333, nota 2.
(4) La natura dell’ordinanza ex art. 186quater viene volutamente qui lasciata impregiudicata,
alla pari di qualunque questione ad essa relativa.
(5) Poiché non opera il meccanismo, introdotto poi con la successiva ordinanza di cui all’art.
186quater cod. proc. civ., di sostituzione dell’ordinanza stessa alla sentenza, anche ai fini delle
impugnazioni.
(6) ATTARDI, op. cit., 4: MANDRIOLI, Le nuove etc., cit., p. 648: PROTO PISANI, Lezioni,
cit., p. 638.
(7) TARUFFO, op. cit., pp. 301 ss.
(8) ATTARDI, op. loc. ult. cit.; COMOGLIO, op. cit., p. 313; MANDRIOLI, op. ult. cit., p.
647; TARZIA, op. cit., p. 132.
(9) BUCCI-CRESCENZI-MALPICA, Manuale pratico della riforma del processo civile,
Padova 1991, p. 167. Ma, in contrario (e con riserva di ulteriore approfondimento), v. le
osservazioni di SCARSELLI, op. cit., spec. 2351 ss.
(10) La giurisprudenza del Supremo Collegio qualifica oramai pacificamente l’ordinanza ex art.
665 cod. proc. civ. come condanna con riserva: per tutte, cfr. Cass. 19-7-96 n. 6522, in Rass. loc. e
cond., 1996, 338, Cass. 23-3-92 n. 3589, Cass. 20-2-91 n. 1797.
(11) Qualificano espressamente l’ordinanza ex art. 648 cod. proc. civ. come condanna con
riserva: SCARSELLI, In difesa etc., cit., 2351; IDEM, La condanna con riserva, Milano 1989, p.
344; PROTO PISANI, Appunti sulla tutela sommaria etc., cit., 629.
(12) BORGHESI, op. cit., p. 194; RAMPAZZI, op. cit., p. 244.
(13) PROTO PISANI, La nuova disciplina, cit., p. 301; RAMPAZZI, op. loc. ult. cit.
(14) Ma non anche tendenzialmente sostitutivi di una sentenza, a differenza dell’ordinanza ex
art. 186 quater cod. proc. civ..
(15) Cfr., tra gli altri: CHIARLONI, Prime riflessioni etc., cit., 657; MANDRIOLI, Le nuove
ordinanze etc., cit., 644 ss.; ATTARDI, Le ordinanze di condanna etc., cit., 1 ss.; CIVININI, op.
loc. ult. cit..
(16) Così, testualmente, PROTO PISANI, op. ult. cit., 235. Non si è in possesso di dati concreti,
supportati da statistiche attendibili: ma la scarsa frequenza dei provvedimenti in esame nelle riviste
giuridiche potrebbe essere un segnale di una scarsa diffusione pratica; per quel che possa valere,
nella Pretura Circondariale di Salerno consta l’emanazione, nell’ultimo anno e su di un carico di
circa tremila pendenze, di circa dieci-quindici ordinanze ex art. 186 bis o ter c.p.c..
(17) In generale, sul ruolo della non contestazione nel processo civile, cfr. CIACCIA
CAVALLARI, La contestazione nel processo civile, Milano 1992; e, per quello che qui riguarda,
soprattutto pp. 46 ss.
(18) È diffusissima, tra i commentatori, l’instaurazione di una sorta di parallelo tra la presente
ordinanza e quella prevista dall’art. 423 cod. proc. civ., primo comma (a mente del quale il giudice,
su istanza di parte in ogni stato del giudizio, dispone con ordinanza il pagamento delle somme non
contestate): v., per tutti, CIVININI, op. cit., 333; MANDRIOLI, Corso cit., p. 102. Anzi, si
sottolinea che l’ordinanza ex art. 186bis sia una sorta di evoluzione, positivamente salutata, della
norma dell’art. 423 co. 1, che aveva dato luogo a gravi problemi interpretativi, sia in ordine alla
possibilità di una sua emanazione contro la parte contumace, sia in ordine al regime di stabilità. Al
riguardo, dopo accese dispute interpretative (su cui v. PROTO PISANI, Le ordinanze di pagamento
etc., cit., 742 ss. e 746-), solo nel 1980 la Suprema Corte (Cass. SS.UU. 12-4-80 n. 2321, in Foro it.
1980. I, 1919) aveva qualificato il provvedimento ex art. 423 co. 1 c.p.c. come provvedimento
interinale condannatorio a cognizione sommaria e ad effetto anticipatorio, intrinsecamente
revocabile, non concedibile contro la parte rimasta contumace.
(19) Nonostante la corrente qualificazione della natura del rendimento dei conti come istruttoria
ed eventualmente decisoria: Cass. 2959/86 e 5591/83, o, in generale e per tutti, ROCCO,
Rendimento dei conti, in Nss. Dig. it., XV, Torino 1968, 432 ss., oppure RAMPAZZI GONNET, Il
giudizio civile di rendiconto, Milano 1990, oppure ancora MANDRIOLI, Corso cit., 232 ss.
(20) In generale, cfr. GARBAGNATI, I procedimenti di ingiunzione e per convalida di sfratto,
Milano 1979, pp. 325 ss. Comunque, la diversa dizione “somma non controversa” è infatti
equipollente alla non contestazione, anche se rimane discutibile l’ampiezza dell’oggetto della non
contestazione.
(21) Per una ricostruzione complessiva ci si permette di rinviare a VALITUTTI - DE
STEFANO, Le impugnazioni nel processo civile, Padova 1996, vol. I, pp. 300 ss. per il decreto
ingiuntivo definitivo e pp. 314 ss. per l’ordinanza di convalida di licenza o sfratto. Si può, in tali
casi, parlare di comportamento legalmente tipizzato a fini processuali – e segnatamente al fine del
conseguimento della definitività del provvedimento giudiziale –: VALITUTTI - DE STEFANO, Il
decreto ingiuntivo e la fase di opposizione, Padova 1994, pp. 140 ss.
(22) In tal senso, PROTO PISANI, La nuova disciplina etc., cit., 238. Pertanto, secondo l’A.,
presupposti dell’ordinanza sarebbero: 1. la non contestazione, da parte del convenuto costituito, dei
fatti costitutivi e l’omesso dispiegamento, da parte sua, di eccezioni di merito; 2. la verifica in iure,
da parte del giudice, dell’idoneità dei fatti dedotti dal creditore a produrre gli effetti da lui affermati
e dell’assenza di fatti impeditivi, modificativi od estintivi risultanti dagli atti o rilevabili di ufficio;
3. la delibazione dell’infondatezza delle eccezioni di rito sollevate dal convenuto e dell’inesistenza
di impedimento di rito rilevabili d’ufficio.
(23) Espressamente in tali sensi: TARZIA, Lineamenti etc., cit., pp. 130 ss.; SASSANI, op. cit.,
131; MANDRIOLI, Le nuove ordinanze etc., cit., 646. Va notato che lo stesso MANDRIOLI, Corso
etc., cit., p. 102, nota 3, precisa che la non contestazione potrebbe riguardare ANCHE le somme in
sé considerate e non necessariamente i fatti costitutivi del diritto.
(24) Proprio per evitare la conseguenza di un tale automatismo, precluso dall’impiego del verbo
“può”, RAMPAZZI, op. cit., 236, conclude nel senso del PROTO PISANI.
(25) ATTARDI, op. cit., 2. Dal canto suo, FRASCA (Provvedimenti interinali e cautelari,
relazione tenuta al Seminario su tematiche civili e processuali civili per gli uditori giudiziari
nominati con D.M. 1-8-91, organizzato dal C.S.M. dal 27 al 29 febbraio 1992, cit., p. 4) ritiene di
potere interpretare il PROTO PISANI nel senso che anch’egli, in fondo, si riferirebbe al diritto: a
sua detta, invero, anche l’illustre Autore valuterebbe la non contestazione con riferimento a fatti
qualificati giuridicamente e non a fatti considerati come accadimenti fenomenici.
(26) TARZIA, op. cit., p. 134. E senza considerare che pure potrebbe ammettersi una non
contestazione in astratto revocabile sino al momento della definizione del thema decidendum, cioè
alla precisazione delle conclusioni.
(27) Anche nel caso della convalida di licenza o sfratto, invero, il giudice non ha una mera
funzione notarile dell’intervenuta mancata contestazione, dovendo spingere comunque il suo
controllo all’accertamento di presupposti minimi per l’accoglimento della domanda: v., per una
rassegna, GARBAGNATI, op. cit., p. 317.
(28) Come, con la consueta lucidità, deduce in buona sostanza CIVININI. op. cit., 335,
richiamando anche FURNO, Contributo alla teoria della prova legale, 1940, pp. 124 ss.
(29) Pret. Salerno-Eboli, 29-3-95, in Arch. civ., 1996, p. 492.
(30) Per tutti: FABIANI, op. cit., 1997; contra, per tutti: TARZIA, op. cit., 131.
(31) Sulla quale, peraltro, non vi è concordia tra gli interpreti: BUCCI-CRESCENZIMALPICA, op. cit., 161 ss., esclude la necessità di un apposito contraddittorio; contra: SCRIMA,
op. cit., p. 20, che opportunamente fa leva sulla generalità del principio della previa audizione della
parte contro cui si invoca una pronunzia giudiziale. A tanto si aggiunga che, in nome dell’economia
processuale, non sarebbe comunque legittimo comprimere la facoltà, per la parte intimanda, di
precisare se e come aveva contestato in precedenza alcunché: ma, naturalmente, la necessità di
sentirla non impone affatto un previo rinvio ad altra udienza, potendo, su questo specifico punto, il
giudice valutare le circostanze del caso concreto. Il fondamento normativo del potere di disporre
l’interrogatorio della parte si può agevolmente rinvenire nell’art. 117 cod. proc. civ.
(32) Non si tratterebbe certo dell’imposizione di un onere non previsto dalla legge, ma solo
dell’interpretazione adeguatrice dell’art. 116, co. 2, ult. parte, cod. proc. civ. alla nuova disciplina
dell’art. 186 bis cod. proc. civ., nella parte in cui risulta applicabile alle cause soggette al c.d.
vecchio rito.
(33) In tal senso veggasi Pret. Salerno-Eboli 17-12-94, in Giur. merito 1995, 715.
(34) Leggasi: nuovissimo testo, vale a dire, come vigente al giorno d’oggi, a seguito delle
modifiche arrecate con l’art. 5 D.L. 432/95, conv. con mod. in L. 534/95.
(35) COMOGLIO, Le riforme etc., cit. 311.
(36) Cfr. Cass. 17-9-91 n. 9668.
(37) Cfr. FABIANI, I provvedimenti etc., cit., 2001, che distingue tra interessi legali, da un lato,
e interessi convenzionali e maggior danno, dall’altro.
(38) PROTO PISANI, La nuova disciplina etc., cit., p. 239; TARZIA, Lineamenti etc., cit., p.
131; COMOGLIO, Le riforme cit., p. 315.
(39) RAMPAZZI, op. cit., pp. 237 s.; ATTARDI, Le ordinanze etc., cit., p. 5; FABIANI, op.
cit., 1998; SCRIMA, op. cit., p. 21.
(40) E tratterebbesi di una sentenza particolarmente semplice, visto che si fonderebbe sulla
mancata contestazione del convenuto.
(41) Con squisita sensibilità CIVININI. op. cit., 336, richiama 1’attenzione – rifacendosi alla
relazione Acone-Lipari, cit., 420 – contro l’accentuazione dei rischi di sommarizzazione del
processo ordinario che deriverebbero dalla seconda tesi ora esposta.
(42) V., in generale, TRISORIO LIUZZI, cit. in nota 1.
(43) MANDRIOLI, Corso cit., vol. II, p. 102; per l’ordinanza ex art. 186 ter, cfr.: Trib. Bari.
ord. 21 (o 22-)-5-93, in Foro it. 1994, I, 259 e in Giur. it. 1995, I/B, 334 ss., con nota di TRISORIO
LIUZZI, cit,; Trib. Roma, ord. 25-1-96, in Giur. mer. 1996, I, 211.
(44) Espressamente nella Relazione Acone-Lipari, cit., 420, si sostiene che la pronuncia di un
provvedimento anticipatorio può ammettersi solo dopo il fallimento del tentativo di conciliazione.
(45) E, ad esempio, fatto salvo il caso di scuola in cui comunque la mancata contestazione si sia
avuta e si sia avuta in modo espresso ed inequivoco.
(46) Così espressamente SCRIMA, op. cit., 10.
(47) Si può pensare al caso in cui, interrogato il convenuto in sede di interrogatorio formale o di
udienza espressamente dedicata alla disamina dell’istanza ex art. 186bis cod. proc. civ., egli,
interpellato sul se contesti o meno uno o più dei fatti costitutivi addotti dall’attore, risponda nel
senso che si riserva di essere preciso sul punto solo all’esito del termine per modificare domande o
eccezioni, ex art. 183, ult. co., nss. t. cod. proc. civ.; risulterebbe difficile, in questo caso,
configurare un silenzio significativo ovvero una non contestazione, rilevante per l’emissione
dell’ordinanza ex art. 186 bis; ma, per non premiare oltremodo la condotta del convenuto, i termini
ex art. 183 ult. co. potrebbero essere benissimo ridotti al minimo e l’ordinanza ex art. 186bis, ove
sia intervenuta la non contestazione, emessa immediatamente dopo la loro scadenza.
(48) L’indicazione del momento della precisazione delle conclusioni è corrente: per tutti
MANDRIOLI, Le nuove etc., cit., p. 645; CIVININI, op. cit., 337; SCRIMA, op. cit., 10.
(49) V. gli Autori cit. alla nota prec.; contra: FABIANI, op. cit., 1999.
(50) Escludono la concedibilità durante la sospensione o l’interruzione: ATTARDI, op. cit., 93;
TARZIA, Lineamenti etc., cit., 129; RAMPAZZI, op. cit., 234 s.; la ammettono: PROTO PISANI,
La nuova disciplina etc., cit., 240; CIVININI, op. loc. ult. cit.; FABIANI, op. cit., 2000.
(51) Sul “può” si sofferma MANDRIOLI, Corso etc., cit., p. 102, nota 2; ATTARDI, op. ult.
cit., 93; COMOGLIO, op. cit., 219; ma anche DIDONE, op. cit., 767 e TOTARO, op. cit., 773.
(52) Su cui v. supra, § 1. La conclusione è quella del PROTO PISANI, di cui supra, nota 22,
alla fine qui accolta.
(53) Risposta negativa dà invece DIDONE, op. cit., 767, ma in modo – peraltro – invero
apodittico.
(54) In generale, sull’argomento, fra tutti: CIVININI, op. cit., 340; PROTO PISANI, op. ult. cit.,
244; FABIANI, op. cit., 2001; TARZIA, op. cit., 135; MANDRIOLI, Corso etc., cit., 102.
(55) SCRIMA, op. cit., p. 26, n. 36; IMPAGNATIELLO, op. cit., 111; FABIANI, op. cit., 2001.
(56) La questione si lascia impregiudicata; ma, proprio per quanto detto nel testo, la conclusione
potrebbe al limite condividersi sulla base della necessità di una valutazione della peculiarità del caso
singolo, a patto che sia accompagnata da un eccezionale impegno nella definizione la più pronta
possibile con i mezzi ordinari.
(57) Relazione Acone-Lipari, cit., 420.
(58) Se si eccettua il pregevole contributo di CIVININI, op. cit., 346 ss.
(59) Cfr. SCRIMA, op. cit., 8; Trib. Taranto, ord. 30-11-94, in Foro it. 1995, I, 2342 (secondo il
quale la contumacia di uno tra più coobbligati in solido non impedisce la pronunzia dell’ordinanza
nei confronti dei convenuti costituiti.
(60) Per il quale si rinvia a MENCHINI, Il processo litisconsortile. Struttura e poteri delle
parti, Milano 1993, I, 192 ss., spec. 320.
(61) PROTO PISANI, Lezioni etc., cit., 350 ss.
(62) CIVININI, op. loc. ult. cit.
(63) Così MENCHINI, op. cit., 320.
(64) Nei sensi che seguono, espressamente CIVININI, op. ult. cit.. p. 347.
(65) Resteranno irrilevanti, non impedendo l’emissione dell’ordinanza in presenza di non
contestazione, le eccezioni cc.dd. strettamente personali, relative ai vizi della capacità e del
consenso, alla sospensione della prescrizione, alla cessione del credito notiticata ad uno solo:
CIVININI, op. loc. ult. cit.
(66) È interessante ricordare che il c.d. modello di constatazione amichevole di incidente, di cui
all’art. 5 L. 857/76, costituisce tra le parti una confessione stragiudiziale e, rispetto
all’assicurazione, è la base di una presunzione di svolgimento del fatto secondo le modalità ivi
descritte: sicché, in caso di contumacia dell’assicurato, la contestazione, idonea a precludere
l’ordinanza ex art, 186 bis, deve essere specifica, mediante indicazione di prove in contrario:
CIVININI, op. cit.. 348. Invece, il giuramento e la confessione esplicano l’efficacia tipica di prova
legale solo nei processi con litisconsorzio facoltativo e limitatamente alla causa cumulata cui si
riferiscono, mentre esplicano l’efficacia di prova libera ex art. 2733 e 2738 c.c. nei processi con
litisconsorzio unitario: CIVININI. op. cit., 347; MENCHINI, op. cit., 334 ss. e 632 ss.
(67) Salvo poi a ritenere che l’ordinanza emessa nella causa pregiudiziale possa costituire il
presupposto per l’emissione di analoga ordinanza nella causa dipendente: CIVININI. op. cit., 347.
(68) I quali recitano: 1. Il giudice, su istanza di parte, in ogni stato del giudizio, dispone con
ordinanza il pagamento delle somme non contestate. 3. Le ordinanze di cui ai commi precedenti
costituiscono titolo esecutivo.
(69) Per tutte: Cass. 1-3-88 n. 2166, in Foro it., 1988, I, 2613; Cass. 7-3-91 n. 2366.
(70) Per un generale richiamo, cfr. supra, nota 18.
(71) Anche sotto il profilo della potenzialità definitoria insita nell’ordinanza ex art. 666 (visto
che il mancato pagamento della somma non contestata fatta oggetto dell’ordinanza comporta la
convalida e quindi la conclusione definitiva del procedimento) e non sussistente, invece,
nell’ordinanza ex art. 186 bis. Ove proprio si volesse ammettere una coesistenza delle due norme
nella sola fase sommaria, la discrezionalità propria della seconda dovrebbe indurre a negare
l’emissione del provvedimento, per privilegiare invece l’emanazione dell’ordinanza ex art. 666, se
del caso reinterpretando l’istanza dell’intimante (ove si trovasse un intimante così generoso da
rinunziare all’evenienza della convalida, che segue al mancato pagamento ex art. 666).
(72) In generale – e senza alcuna pretesa di completezza – si può consultare: MANDRIOLI,
Corso di diritto processuale civile, vol. III, Torino 1993; SATTA-PUNZI, Diritto processuale
civile, Padova 1993; GARBAGNATI, I procedimenti di ingiunzione e per convalida di sfratto,
Milano 1979; GARBAGNATI, Il procedimento d’ingiunzione, Milano 1991; BALBI, Ingiunzione
(procedimento di), in Enc. Giur., Roma 1989, vol. XVII; NICOLETTI, Note sul procedimento
ingiuntivo nel diritto positivo, in Riv. trim. dir. e proc. civ. 1975, pp. 980 ss.; VISCO, Il
procedimento per ingiunzione, Roma 1951; CIOFFI, I procedimenti per ingiunzione e per convalida
di sfratto, Roma 1959; SCIACCHITANO, voce Ingiunzione (dir. proc. civ.), in Enc. dir., Milano
1971; EBNER-FILADORO, Manuale del procedimento di ingiunzione, Milano 1993; PAJARDI, Il
procedimento monitorio, Milano 1991; AMBROSIO, L’opposizione a decreto ingiuntivo nei suoi
momenti applicativi, Milano 1994; FRANCO, Guida al procedimento di ingiunzione: fase
monitoria, fase dell’opposizione, rapporti con le procedure concorsuali, revocazione e opposizione
di terzo, Milano 1994; VALITUTTI-DE STEFANO, Il decreto ingiuntivo e la fase di opposizione,
Padova 1994.
(73) Per limitarsi alle più recenti: Cass. sez. Lav. 26-3-91 n. 3258, nonché 26-4-93 n. 4857;
esplicitamente, inoltre, sulla struttura del procedimento monitorio, Cass. 25-2-80 n. 1312, Cass. 139-77 n. 3955, Cass. 26-6-71 n. 2018, nonché le importanti Cass. SS.UU. 19-4-82 n. 2387 e Cass.
SS.UU. 7-7-93 n. 7448, di recente ribadite (ma solo con riferimento al c.d. vecchio rito) da 8-3-96
1835, in FI96-6 2086, con nota di Sbaraglio.
(74) Tra gli antesignani può indicarsi il CARNELUTTI, Appunti sull’opposizione
all’ingiunzione, in Riv. dir. proc. 1955, II, 206; ma si confronti anche ZANZUCCHI, op. cit. in
bibl., vol. II, 366 ss., nonché GARBAGNATI, op. cit. in bibl., 141 ss. Tra le poche pronunzie che
esplicitamente si riferiscono ad un giudizio vero e proprio di impugnazione, cfr., di recente e
soltanto per incidens, Cass. sez. Lavoro 19-6-93 n. 6838).
(75) Cfr. Cass. 24-4-95 n. 4612; Cass. 23-6-95 n. 7129.
(76) Per un panorama v. SCHIACCHITANO, op. cit., 521; per la presa di posizione delle
SS.UU., v. Cass. SS.UU. 8-10-92 nn. 10984 e 10985, in Foro it. 1992, I, 3286, con riferimento alla
natura di impugnazione del giudizio di opposizione.
(77) MANDRIOLI, op. cit., ed. 1983, pp. 160 s.
(78) Cass. 11-7-79 n. 4000; tra le più recenti, cfr. Cass. sez. Lavoro 8-2-92 n. 1410.
(79) Tra le tante: Cass. 8-4-89 n. 1690, Cass. 28-1-85 n. 485, Cass. 12-7-75 n. 2775, Cass. 3-1083 n. 5760, per risalire sino alla remota Cass. 5-12-56 n. 4350.
(80) Esclude, espressamente, la natura di giudizio di impugnazione, Cass. 9-1-95 n. 139 e 28-195 n. 1052.
(81) Cass. SS.UU. 7-7-93 n. 7448, cit.; Cass. 14-9-93 n. 9512; Cass. 17-11-94 n. 9708. V. anche
Cass. 8-9-95 n. 9490 e 21-12-95 n. 13027.
(82) Cass. 16-11-92 n. 12278.
(83) Pertanto non avrebbe alcun giuridico senso un’opposizione che intendesse limitarsi al
vaglio di legittimità dell’emanazione del monitorio: infatti, in ogni caso il giudice davanti al quale
l’opposizione fosse dispiegata potrebbe poi scendere nel merito della pretesa creditoria originaria,
giungendo a valutazioni diverse da quelle fatte in sede monitoria.
(84) Né si dimentichi la diversa ampiezza della cognizione nelle due fasi: parziale in quella
monitoria, piena in quella successiva. E sarebbe certo incongruo strutturare un’impugnazione
devolvendo al giudice di questa una cognizione molto più ampia del giudice che dovrebbe essere
considerato di primo grado.
(85) Cass. 7-10-67 n. 2326, Cass. 3-5-74 n. 2144, Cass. 6-6-77 n. 2320, relativa all’eccezione de
soluto. Tale risultato viene – solitamente – ricollegato alla devoluzione della cognizione del merito
della pretesa azionata con il ricorso alla sola fase di opposizione (tra le piu recenti, basti consultare
Cass. 3-5-91 n. 4833; secondo Cass. 22-3-71 n. 3107, anzi, l’eccezione di “passaggio in giudicato”
del decreto ingiuntivo per difetto di tempestiva opposizione può essere proposta, ai sensi dell’art.
345 c.p.v. cod. proc. civ., per la prima volta anche in sede di appello avverso la sentenza che abbia
pronunziato nel merito dell’opposizione stessa).
(86) Il principio è confermato anche in tema di decreti ingiuntivi emessi, contestualmente alla
convalida di sfratto per morosità, ex art. 664 cod. proc. civ.: al riguardo, Cass. 17-2-94 n. 1529
esclude la proponibilità del ricorso per Cassazione, in quanto, appunto, prevista l’opposizione ex art.
645 cod. proc. civ.
(87) Per tutte: Cass. 3-12-91 n. 12922, Cass. 5-11-92 n. 12000 e Cass. 3-3-94 n. 2124; si deve
segnalare la – peraltro, a quanto consta, rimasta isolata – Cass. SS.UU. 18-5-94 n. 4837, che
attribuisce invece al creditore opposto la qualifica, il ruolo e i poteri propri di convenuto; già dopo
tale pronunzia, tuttavia, si ribadisce il consolidato insegnamento circa l’identificazione del creditore
opposto come attore in senso sostanziale: Cass. 22-3-95 n. 3254 e 8-11-95 n. 11625.
(88) Per limitarsi alle più recenti, cfr. ad es.: Cass. 4-5-94 n. 4286.
(89) Ove la prova già fornita non sia di per sé sufficiente anche nella fase a cognizione piena.
(90) Cass. 3-12-91 n. 12922; peraltro, in giurisprudenza si dubita della possibilità, per
l’opposto, di dispiegare riconvenzionale. Può allora concludersi che l’opposto non dispiega mai una
riconvezionale in senso tecnico (per tutte: Cass. 3-3-94 n. 2124 e Cass. 22-3-95 n. 3273); e ciò
nemmeno se, nella sua comparsa di costituzione nel giudizio seguito alla citazione in opposizione,
richieda altresì accessori non richiesti con il ricorso per decreto o non concessi col monitorio poi
opposto, ovvero, comunque, invochi declaratorie o condanne nuove rispetto a quelle già, in modo
espresso o implicito, contenute nel ricorso: tali, invero, dovrebbero qualificarsi domande accessorie,
o, comunque, ulteriori dispiegate nei confronti del medesimo soggetto destinatario della prima,
rispetto alle quali potrebbe poi porsi il problema della competenza: è, al riguardo, evidente che il
cumulo non opera soltanto tra la domanda, dispiegata con l’atto di opposizione, e quella introdotta
con il ricorso per decreto, visto che i rispettivi attori non coincidono.
(91) La domanda di revoca del monitorio, a motivo della non debenza, parziale o totale, della
pretesa fatta valere da chi ha lo ha richiesto e ottenuto, infatti, contiene in sé, per implicito, nel suo
oggetto minimo, la domanda di restituzione della somma: Cass. 8-8-62 n. 2451.
(92) A differenza dell’ordinanza ex art. 186 quater, per la concedibilità della quale in un
giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo, infatti, devono nutrirsi fortissimi dubbi.
(93) Immutabilità che sussiste per il decreto ingiuntivo divenuto esecutivo per estinzione del
giudizio di opposizione, ma esclusivamente perché, per esso, la possibilità di contestare i fatti
provvisoriamente accertati è esclusivamente e tassativamente, sulla base della lettera della legge,
rimessa al giudizio di opposizione e soggetta ai rigorosissimi termini perentori per la sua
proposizione.
(94) Per giurisprudenza consolidata, non potrebbe invece GIAMMAI ammettersi
un’opposizione all’esecuzione intrapresa sulla base del decreto ingiuntivo per fatti anteriori alla
definitività del titolo esecutivo giudiziale definitivo (o comunque utilmente deducibili nel corso del
giudizio in cui quel titolo ha conseguito l’irretrattabilità), in quanto il debitore aveva l’onere di
dedurli nel corso del giudizio in cui (proprio in forza dell’inosservanza di tale onere) il titolo è
divenuto irretrattabile.
(95) Dovrebbe essere anche ammessa, ma sempre e solo nell’opposizione all’esecuzione
intrapresa sulla base dell’ordinanza ex art. 186 bis, la doglianza della duplicità dell’esecuzione sic et
simpliciter: in fondo, divenuto esecutivo il decreto ingiuntivo per estinzione del giudizio di
opposizione, viene meno il presupposto dell’ordinanza ex art. 186 bis, consistente nell’interesse ad
agire dell’ingiungente, che ha già altro titolo per la stessa pretesa.
(96) In termini, espressamente anche per l’art. 186 bis, Trib. Pistoia, ord. 12-10-94, in Foro it.,
1995, I, 331; tuttavia, la maggior parte delle pronunzie si riscontrano in tema di ordinanze ex art.
186 ter: su cui v. infra.
(97) V. § 2.
(98) L’esame della quale, comunque e come si tenterà di dimostrare, dovrebbe aver luogo
proprio dopo la contestatio litis di cui nel testo.
(99) Salvo – come detto – che l’opponente, invitato a precisare – anche in un momento
precedente, ad es., in sede di interrogatorio libero ex art. 183 co. 1 cod. proc. civ. – se contesti o
meno alcuni dei fatti costitutivi, abbia tenuto un contegno equivoco.
(100) La terminologia sembra preferibile perché instaura un immediato parallelismo con il
decreto ingiuntivo e non consente, almeno in prima approssimazione, alcuna contusione con
l’ordinanza-ingiunzione tipica del procedimento di depenalizzazione (di cui agli artt. 18 ss. L.
689/81 o 201 ss. nuovo codice della strada) o con quella di cui all’art. 2 R.D. 14-4-1910 n. 639.
(101) In generale, cfr. ATTARDI, op. cit., 1; CHIARLONI, Riflessioni inattuali, etc., in Foro it.
1990, V, 499 ss., spec. 503; SASSANI, op. cit., 127; FABIANI, op. cit.. 2002.
(102) CHIARLONI, Prime riflessioni etc., cit., 663. Non può peraltro condividersi la tesi –
sostenuta subito dopo dallo stesso Autore e condivisa da RAMPAZZI, op. cit., 250, ATTARDI, op.
cit., 13 – dell’equiparabilità alla prova scritta sopravvenuta del verbale di prova costituenda: visto
che – CIVININI, op. cit., 342 – il riferimento agli artt. 633 n. 1 e 634 cod. proc. civ. dovrebbe
intendersi esclusivamente alle prove documentali. Correttamente si argomenta – v. SCRIMA, op.
cit., 42 – che l’utilizzabilità, ai fini di una tutela provvisoria ingiunzionale, della prova acquisita nel
corso dell’istruzione risulta ora comunque consentita ai sensi e per gli effetti dell’art. 186 quater
cod. proc. civ.
(103) CIVININI, op. cit., 341, esalta il rilievo pratico della fattispecie, soprattutto in
considerazione dell’impostazione del Supremo Collegio in ordine all’impossibilità di una
trattazione unitaria della causa proposta dal debitore e di quella introdotta con decreto ingiuntivo dal
creditore, da cui discenderebbe anche l’impossibilità di emettere, nella seconda, la provvisoria
esecuzione in pendenza della prima, la quale ha carattere pregiudiziale.
(104) BORGHESI, op. cit., 196; SCRIMA, op. cit., 31.
(105) Il dubbio di costituzionalità espresso da Pret. Torino 31-5-94 (in Giur. it. 1994, I/B, 737)
per l’esclusione dalla tutela ex art. 186 ter dei crediti dello Stato o degli Enti pubblici sorretti da
prova scritta, di cui all’art. 635 cod. proc. civ., è stato fugato da Corte cost. 5-7-95 n. 295, in Foro it.
1996, I, 458.
(106): anzi, quanto meno nelle cause soggette al c.d. nuovo rito, le posizioni processuali
dovrebbero essere di già irretrattabili, salve le poche riserve di cui si dirà; ma pure nelle cause
soggette al c.d. vecchio rito deve escludersi che le parti possano fare veramente ancora tutto quello
che vogliono, sol che la controparte impieghi l’opportuna diligenza e non presti acquiescenza (ad
es., non accettando il contraddittorio su domande nuove, deducendo le decadenze istruttorie,
eccependo la violazione del principio di unitarietà delle prove, etc.).
(107) In particolare, non è necessario che la prova scritta fornisca una prova piena e diretta
dell’esistenza dei fatti giuridici costitutivi del diritto azionato, attesa la possibilità di integrare nel
successivo giudizio di opposizione e con efficacia retroattiva - le prove fornite nella fase monitoria
(per tutte: Cass. 25-3-71 n. 845, Cass. 27-4-76 n. 1479, Cass. 27-1-79 n. 615, Cass. 14-3-95 n.
2924).
(108) In tal modo, nessun problema si pone in caso di promessa di pagamento o ricognizione di
debito, ovvero di dichiarazione confessoria dell’apparente obbligato, ovvero di atti di rinnovazione
dell’originario documento (ex art. 2720 cod. civ.); quanto, invece, alle prove scritte contenenti non già la documentazione dei fatti costitutivi in se stessi
considerati, ma solo di altri, idonei – però – a fare logicamente ritenere provati i primi, occorrerà
limitare il ricorso alla prova critica entro il ristretto ambito dell’art. 2729 cod. civ., sicché potranno
ritenersi provati i fatti ignoti soltanto se gli indizi gravi, precisi e concordanti – od anche un solo
fatto, purché di rilevante precisione e gravità: Cass. 21-5-84 n. 3109, Cass. 4-8-82 n. 4376 – non
lascino ragionevoli dubbi in ordine alla verità del fatto da accertare (Cass. 6-3-78 n. 1106.
(109) Peraltro, il giudice dell’ingiunzione potra valutare l’autenticità sulla base della comune
esperienza, escludendola, ad esempio, in caso di firma palesemente illeggibile o manifestamente
irricondubile a colui che viene indicato come debitore – nome e cognome agevolmente leggibili, ma
diversi in modo radicale da quelli del debitore – o presenza di sottoscrizioni con grafie chiaramente
differenti ma attribuite alla stessa persona. Il problema si pone, naturalmente, solo per il caso di
convenuto contumace.
(110) L’art. 291 cod. proc. civ. è stato dichiarato incostituzionale da Corte Cost. 28-11-86 n.
250 nella parte in cui non prevede la notificazione al contumace del verbale in cui si dà atto della
produzione della scrittura privata anche nei processi davanti al Pretore. L’art. 313, vecchio testo,
cod. proc. civ., in tema di contenuto dell’atto introduttivo del processo dinanzi al Pretore, è stato
dichiarato INCOSTITUZIONALE PER NON PREVEDERE L’OBBLIGO DI INDICARE LA
SCRITTURA PRIVATA OFFERTA IN COMUNICAZIONE: Corte Cost. 24-5-91 n. 214, in Foro
it. 1991, I, 2664.
(111) Ritengono invece sufficiente la mera produzione della fattura, anche a prescindere dalla
presentazione dell’estratto autentico delle scritture di cui all’art. 634 c.p.v. cod, proc. civ., per tutte:
Cass. 26-5-79 n. 3090, Cass. 8-6-79 n. 3261, Cass. 23-7-94 n. 6879.
(112) Cass. 8-5-76 n. 1625, Cass. 23-4-76 n. 1449.
(113) Cass. 9-5-87 n. 4295, Cass. 5-9-84 n. 4767.
(114) A seguito della modifica dell’art. 8 co. 3 D.L. 432/95, conv. con mod. in L. 534/95 e con
decorrenza dal 21-12-95.
(115) Rimane naturalmente ferma la possibilità, sia pure con la necessaria integrazione di
ulteriore documentazione probante, di considerare il documento prodotto, per quanto non in regola
con l’art. 634 c.p.v. cod. proc. civ., quale prova scritta, non privilegiata, ai sensi dell’art. 633 cod.
proc. civ., ma, quindi, con libera valutazione del giudice.
(116) È qui opportuno solo ricordare che, nei confronti della P.A., il ricorso per decreto
ingiuntivo è sì ammesso, ma a condizione che la ragione di credito azionata sia di diritto soggettivo
e che la pronunzia richiesta rientri tra quelle di condanna consentite al giudice ordinario nei
confronti
della
P.A.
(per
tutte,
può
consultarsi
Cass.
SS.UU.
23-2-74 n. 542), per l’esistenza stessa del credito, d’altro canto, si ricordi che non è necessaria la
previsione della posta in bilancio, ma deve risultare comunque seguita la procedura amministrativa
di formazione della volontà di obbligarsi da parte dell’ente pubblico (diversamente, ove risultasse
soltanto l’effettuazione della prestazione da parte del privato, ma non anche una formale assunzione
di obbligazione da parte della P.A., vi sarebbe luogo soltanto per un’azione di ingiustificato
arricchimento, che presupporrebbe però il riconoscimento dell’utilità dell’opera o della prestazione
e che, così non sarebbe compatibile con il procedimento monitorio).
(117) MIRENDA, Le norme anticipatorie etc., cit. in nota 1.
(118) Su cui v. GARBAGNATI, I procedimenti etc., cit., pp. 323 ss., nonché VALITUTTI-DE
STEFANO, Il decreto ingiuntivo etc., cit., pp. 25, 123 e 150 ss.
(119) MIRENDA, op. cit., 249, icasticamente parla di relazione “osmotica”, che conduce a
riempire i “vuoti” del processo del lavoro con le norme generali del processo civile ordinario.
(120) V. supra, cap. 1, § 5.
(121) Pret. Monza, ord. 29-9-95, in Rass. loc. cond. 1995, 94 e in Giur. it. 1996, II, 14 ss.
(122) MIRENDA, op. cit., soprattutto in fine, ove ampi riferimenti. Del tutto inconferente pare,
però, il dubbio di incostituzionalità della disciplina del rito locatizio (su cui Pret. Massa, ord. 28-895, in Foro it. 1995, I, 3014, cui plaude MIRENDA, op. loc. cit.), se interpretata nel senso
dell’inestensibilità dell’istituto ex art. 186 ter c.p.c.: proprio per la presenza di strumenti definitori
alternativi assai più rapidi, l’interprete deve qualificare già di per sé maggiormente tutelato il rito
locatizio proprio per la possibilità di azionare quelli in luogo delle eccezionali ipotesi dell’art. 186
ter.
(123) In tale specifico senso, ad es., cfr. Trib. Roma, ord. 13-4-94. in Arch. civ. 1994, 1276.
(124) Cfr. Trib. Napoli, ord. 13-5-94, in Giur. it. 1995, II, 293; Pret. Civitanova Marche, ord.
15-3-96,
Euromeccanica
c/
Adriatica
imp.,
inedita;
Trib,
Bologna,
ord.
14-10-94, in Dir. proc., 1995, 1291; Trib. Bari, ord, 24-11-94, in Corr. Giur., 1996, 704; Trib.
Mondovì, ord. 25-8-94, in Foro it., 1995, I, 331 ss.
(125) V. supra, cap. I, § 6.
(126) Visto che al giudice dell’opposizione è consentito operare con ordinanza sul decreto
monitorio solo in caso di conciliazione, ai sensi dell’art. 652 cod. proc. civ. Ciò induce a ribadire i
gravissimi dubbi sulla ammissibilità dell’ordinanza ex art. 186 quater nel corso del medesimo
giudizio, vista la differente funzione di quest’ultima, finalizzata proprio a sostituirsi alla sentenza
definitiva e quindi attesa la sua intrinseca, costituzionale inidoneità, per la natura di ordinanza e
mancando un’espressa previsione legislativa, a provvedere sul decreto ingiuntivo.
(127) Per tutti, cfr. SCRIMA. op. cit., 33, Trib. Milano, ord. 30-6-94. in Dir. proc. 1995, 1291.
In generale, sull’ammissibilità dell’ordinanza ingiuntiva nel procedimento di opposizione a decreto
ingiuntivo, cfr. Trib. Nocera Inf., ord. 4-10-95, in Arch. civ. 1996, 490; Pret. Bari, ord. 29-2-96, in
Corr. giur. 1996, 704; Trib. Verona, ord. 29-3-93, per quanto in un caso assai particolare (in cui, a
seguito di riconvenzionale dell’opponente, operata una compensazione fra i due controcrediti, era
stata emanata ordinanza ex art. 186 ter in favore proprio dell’opponente per la differenza), in Foro
it. 1993, I, 1993; Trib. Pistoia, ord. 12-10-94, in Foro it. 1994, I, 331, con la nota di CIVININI, Le
condanne anticipate, più volte citata.
(128) Cfr., in generale, sull’ammissibilità dell’ordinanza ingiuntiva in corso di opposizione a
decreto ingiuntivo, già VALITUTTI-DE STEFANO, Il decreto etc., cit., pp. 227 e 216 (anche sotto
il profilo della possibilità di riconoscere tutela monitoria, proprio con il mezzo dell’art. 186 ter, per
somme inferiori a quelle recate dal decreto ingiuntivo; e stante la prevalente giurisprudenza,
orientata nel senso della non concedibilità della provvisoria esecuzione ex art. 648 cod. proc. civ.
per una parte della somma ingiunta: v. op. loc. ult. cit. per riferimenti); v. anche supra, cap. I, § 6. Si
è evidenziato che l’ordinanza anticipatoria di cui all’art. 186 bis, come quella di cui all’art. 186 ter
(ma a differenza di quella ex art. 186 quater) non è destinata a definire il processo, in luogo della
sentenza, potendo semmai conseguire un risultato analogo, ma solo dal punto di vista effettuale e
attraverso l’estinzione del giudizio, rimessa alla condotta – da presumersi cosciente e responsabile –
delle parti; di conseguenza, l’ordinanza rimane strutturalmente destinata ad essere assorbita dalla
sentenza di merito del grado in cui essa è stata pronunziata e, così, non incide e non deve incidere
affatto sul decreto ingiuntivo già emanato.
(129) V. infra, cap. II, § 7.
(130) Immutabilità che sussiste per il decreto ingiuntivo divenuto esecutivo per estinzione del
giudizio di opposizione, ma esclusivamente perché, per esso, la possibilità di contestare i fatti
provvisoriamente accertati è esclusivamente e tassativamente, sulla base della lettera della legge,
rimessa al giudizio di opposizione e soggetta ai rigorosissimi termini perentori per la sua
proposizione.
(131) Per giurisprudenza consolidata, non potrebbe invece GIAMMAI ammettersi
un’opposizione all’esecuzione intrapresa sulla base del decreto ingiuntivo per fatti anteriori alla
definitività del titolo esecutivo giudiziale definitivo (o comunque utilmente deducibili nel corso del
giudizio in cui quel titolo ha conseguito l’irretrattabilità), in quanto il debitore aveva l’onere di
dedurli nel corso del giudizio in cui (proprio in forza dell’inosservanza di tale onere) il titolo è
divenuto irretrattabile.
(132) Dovrebbe essere anche ammessa, ma sempre e solo nell’opposizione all’esecuzione
intrapresa sulla base dell’ordinanza ex art. 186 ter, la doglianza della duplicità dell’esecuzione sic et
simpliciter: in fondo, divenuto esecutivo il decreto ingiuntivo per estinzione del giudizio di
opposizione, viene meno il presupposto dell’ordinanza ex art. 186 ter, consistente nell’interesse ad
agire dell’ingiungente, che ha già altro titolo per la stessa pretesa.
(133) In termini, per tutti in dottrina, cfr. CIVININI, in annotazione a Trib. Pistoia, ord. 12-1094, cit., col. 331; in giurisprudenza insistono sulla necessità che la somma da ingiungersi ex art. 186
ter sia diversa da quella fatta oggetto del decreto ingiuntivo: Pret. Bari, ord. 29-2-96, cit.; Trib.
Nocera Inf., ord. 4-10-95, cit., Trib. Pistoia, ord. 12-10-94, cit. Dal canto suo, Trib. Napoli, ord. 112-94, Saces contro Spina, inedita, ha ritenuto insussistente l’interesse ad agire nel caso in cui il
creditore non avesse possibilità di conseguire la provvisoria esecutività (o esecutorietà) ex art. 642
cod. proc. civ.: la soluzione non convince, visto che l’interesse ad agire sussiste anche in questo
caso, se non altro per la possibilità che l’ordinanza ingiuntiva, in caso di estinzione del processo,
diventi esecutiva. Nella pratica può verificarsi il caso, comunque, del conseguimento – dopo
l’esaurimento della fase relativa alla disamina delle istanze ex artt. 648 o 649 c.p.c. in senso infausto
per il creditore – di materiale probatorio scritto o documentale totalmente nuovo, incolpevolmente
ignorato in precedenza: in tale ipotesi potrebbe ritenersi ammesso l’interesse ad agire per conseguire
ordinanza ingiuntiva per la stessa somma posta a base del decreto, per quanto già non dichiarato
esecutivo.
(134) SCRIMA, op. cit., p. 46, riferisce come prevalente l’orientamento sulla doverosità della
concessione; ma, negli espressi termini, consta BLANDINI, op. cit., 35. Dal canto suo ATTARDI,
op. cit., 6, richiede al giudice di valutare se vi siano motivi di diritto che non consentano di ritenere
fondata la pretesa del richiedente.
(135) ATTARDI, op. loc. ult. cit.; SASSANI, op. cit., 123; TOTARO, op. cit., 775.
(136) Molto significativamente ATTARDI, op. cit., 12, ritiene più coerente col sistema
escludere, in questi casi, la stessa pronunciabilità dell’ordinanza.
(137) Per tutti, cfr. Trib. Bari, ord. 21 (o 22)-5-93, cit., con nota di TRISORIO LIUZZI, pure
citata; nel senso della necessità di fare riferimento al solo termine per la costituzione del convenuto,
previsto dall’art. 167 cod. proc. civ., v. FABIANI, op. cit. 2003.
(138) Sostengono che l’ordinanza non possa essere emessa prima dell’udienza di comparizione
anche: MANDRIOLI, Le nuove ordinanze etc., cit., p. 651; TARZIA, Lineamenti etc., cit., p. 138;
RAMPAZZI, op. cit., p. 252; NAVARRA, op. cit., 82; COMOGLIO, Le riforme etc., cit., p. 331;
CECCHELLA, Il processo civile, cit., 128; TRISORIO LIUZZI, op. cit., p. 340; CIVININI, op. cit.,
343.
(139) Peraltro, non dissimilmente da quanto concluso in tema di ordinanza ex art. 186 bis, in
sede di interrogatorio potrebbe espressamente chiedersi alla parte ingiungenda di prendere posizione
sulla richiesta di ingiunzione: sicché la possibilità di provvedere ex art. 186 ter potrebbe sorgere
subito dopo una risposta evasiva o equivoca sul punto resa dalla parte ingiungenda (come quella con
cui essa chieda sì termine per la modifica di domande od eccezioni, ma in via generica, senza fare
espressa riserva di porre in essere specifiche attività idonee a precludere l’emissione di un’ordinanza
ingiuntiva).
(140) In tal senso sembra orientarsi anche SCRIMA, op. cit., 38. Resta ferma la possibilità,
naturalmente, per la parte di presentare l’istanza, finanche in uno all’atto introduttivo. La stessa
parte ingiungente, d’altra parte, imputerebbe a se stessa tale ritardo, visto che una tale conseguenza
deriverebbe esclusivamente dalla sua scelta di non agire con il procedimento per decreto ingiuntivo:
infatti, invocare l’ordinanza ingiuntiva fin dall’atto di citazione significa agire sulla base della stessa
(se non addirittura di una minore) documentazione idonea a richiedere il decreto ingiuntivo.
(141) V. supra, § 2.
(142) Pure si è sostenuto, in base alla necessità di un’udienza apposita per l’eventuale
costituzione del convenuto contumace, che l’istanza debba essere presentata fino a tutta l’udienza
immediatamente anteriore a quella di conclusioni: FABIANI, op. cit., 2003; SASSANI, op. cit.,
121. In senso contrario, peraltro, la maggioranza degli interpreti, che fa leva sulla lettera della legge:
per tutti, cfr. CIVININI, op. cit., 343. Resta salva la necessità, derivante peraltro da
un’interpretazione adeguatrice, della fissazione di un’ulteriore udienza per la costituzione del
convenuto contumace (ma sempre per conclusioni), qualora l’ordinanza ingiuntiva sia concessa
all’esito dell’udienza di precisazione delle conclusioni: SCRIMA, op. cit., 39; IMPAGNATIELLO,
op. cit., 115.
(143) Per la concedibilità, per tutti, cfr. PROTO PISANI, Lezioni etc., cit., 639.
(144) Si noti che non è prevista la possibilità di sospendere la provvisoria esecuzione già
concessa ex art. 642 c.p.c.: ma è corrente l’affermazione della possibilità di invocare, in sede di
revoca o modifica, proprio anche solo la clausola di provvisoria esecutività (o esecutorietà): cfr., per
tutti, FABIANI, op. cit., 2005.
(145) Il Nuovo Zingarelli, XI ed., Zanichelli ed., p. 1243.
(146) Usa tale termine MANDRIOLI, Corso etc., cit., p. 105, nota 9.
(147) Presentate sinotticamente da CIVININI, Le condanne anticipate, cit., 344.
(148) È vano chiedersi perché non sia stata adoperata l’espressione “se la controparte non si è
costituita”.
(149) SENSALE-CACCESE, Guida alla riforma del processo civile, Napoli 1991, 49;
NAVARRA, op. cit., 93.
(150) ATTARDI, Le nuove disposizioni etc., cit., 95 ss.; RAMPAZZI, op. cit., 225;
MANDRIOLI, Corso etc., cit., 105. In giurisprudenza, cfr. Trib. Torino, ord. 25-6-94, in Giur. it.
1995,I, 2, 89; Trib. Napoli, ord. 15-2-96, Vivese c/ Colombo, inedita.
(151) PROTO PISANI, La nuova disciplina etc., cit., 247; FABIANI, op. cit., 2004; e, almeno
in apparenza, TARZIA, Lineamenti etc., cit., p. 140.
(152) Deve trattarsi di un documento idoneo a provare, ai sensi degli artt. 2699 ss. c.c.,
l’inesistenza del fatto costitutivo del credito azionato, ovvero l’esistenza di fatti modificativi,
impeditivi o estintivi del medesimo: infatti, la necessaria comparazione della valenza probatoria di
separate serie di documenti scritti è, in un qualunque giudizio ordinario di cognizione – quale si
struttura quello di opposizione a decreto ingiuntivo –, attività tipica del momento della decisione
con sentenza; peraltro, un certo margine di discrezionalità rimane sempre, se non altro nella
valutazione della riferibilità diretta e immediata della prova ad un fatto impeditivo, modificativo od
estintivo del credito azionato o, comunque, nella valutazione della sua pienezza: ad es., non
costituiscono prova scritta di tal fatta: – le note o lettere di contestazione della qualità della merce
venduta formate dal medesimo opponente; – lo stesso contratto su cui si fonda il diritto azionato, di
cui però si adduca un’interpretazione diversa da quella data del creditore ingiungente (Trib, Tortona
2-12-91, in Nuova giur. civ. comm., 1992, p. 640); – una consulenza tecnica di parte, in quanto
contenente valutazioni; – la quietanza di pagamento, se non sia riferita in via diretta e immediata al
credito azionato: per disconoscimento della sottoscrizione da parte del creditore; ovvero perché
relativa a rapporti diversi da quello per cui si agisce (come nel caso di una serie pressoché continua
di forniture e di pagamento di solo alcune di esse).
(153) Anche in tal caso, comunque, l’istruttore ha un buon margine discrezionale: infatti, la
causa sarà matura per la decisione non soltanto quando la prova offerta dalle parti sia
esclusivamente documentale o quando non comporti la necessità dell’assunzione di un mezzo di
prova disciplinato dal codice, ma anche allorquando la natura delle questioni agitate sia tale da
consentire una decisione senza l’espletamento di mezzi istruttori; si noti, ad ogni buon conto, che la
prontezza della soluzione dovrebbe pur sempre esser considerata in relazione alla concreta attività
processuale da dispiegare e non alle contingenti necessità dell’Ufficio cui appartiene il giudice,
soprattutto qualora l’intervallo tra i rinvii sia notevole per il carico di lavoro: infatti, una soluzione
non cessa di esser pronta se il numero delle udienze in cui può esaurirsi il processo sia
particolarmente limitato, anche se l’udienza di rinvio è lontana.
(154) Si ricordi, poi, che non ha più alcuna efficacia automatica, ai fini della concessione della
provvisoria esecuzione, l’offerta del creditore di prestare cauzione: è stata infatti espunta
dall’ordinamento, con la sentenza 137/84 della Corte Costituzionale, siccome limitativa del diritto
di difesa, l’originaria disposizione dell’art 648 capoverso c.p.c., che imponeva la concessione
dell’esecuzione provvisoria in caso il creditore avesse offerto cauzione. La norma va ora letta nel
senso che anche qualora vi sia tale offerta il potere discrezionale del giudice di concedere o meno
l’ordinanza rimane integro. Attualmente, l’offerta di una cauzione non integra certamente una prova
o un principio di prova di uno dei fatti costitutivi del diritto azionato: e, per quanto più su
argomentato, rimane quindi del tutto irrilevante. Peraltro, anche sulla base di un’interpretazione solo
letterale della norma, il giudice può concedere l’esecuzione provvisoria se il creditore offra
cauzione, ma non sembra che possa imporre la stessa al creditore che non la voglia offrire. D’altro
canto, se il fumus sussiste, non si vede per qual motivo imporre una cauzione; se invece non
sussiste, la concessione della provvisoria esecuzione non potrà aver luogo in toto.
(155) Per tutti, se non si vuole consultare VALITUTTI-DE STEFANO, op. cit., p. 200 ss., cfr.
SCARSELLI, In difesa dell’art. 648 c.p.c., cit., 2346; IDEM, La condanna con riserva, Milano
1989, p. 344; PROTO PISANI, Appunti sulla tutela sommaria etc., cit., 629.
(156) Corte Cost., ord. 25-5-89 n. 295, in Foro it. 1989, I, coll. 2391 ss., con osservazione di
PROTO PISANI. I giudici di merito stanno, del resto, elaborando una nozione di fumus ben precisa,
mentre le persistenti gravi oscillazioni sulla contemporanea necessità del periculum in mora del
creditore ingiungente potrebbero superarsi con il pieno e coerente inquadramento dell’ordinanza
entro lo schema della condanna con riserva. Ciò consentirebbe di prescindere dal detto ultimo
requisito, del resto di difficile configurabilità nella stragrande maggioranza dei casi di opposizione a
decreto ingiuntivo, in cui oggetto del giudizio è il pagamento di una somma: e si ricorderà che il
danno meramente patrimoniale, essendo adeguatamente risarcibile per equivalente, non è mai
irreparabile e quindi non dà luogo a periculum in mora.
(157) Non osta a tale conclusione il puntuale distinguo operato da Corte cost. 8-3-96 n. 65 (del
resto ripreso in questa stessa relazione, infra, § 7), cit. (con nota di SCARSELLI, In difesa dell’art.
648 co. 1 cod. proc. civ., cit.), in quanto sviluppato essenzialmente ai fini della giustificazione della
diversità del regime di stabilità delle due ordinanze.
(158) Semmai, si potrebbe porre un problema di maggiore o minore approfondimento della
valutazione del fumus, a seconda della fase processuale in cui il creditore richiede l’ordinanza, e
quindi a seconda dell’attività istruttoria o comunque processuale già svolta, idonea a qualificare in
maggiore o minor misura il fumus: ma si confida che il creditore sappia considerare da sé lo stato
degli atti e quindi la convenienza, per se stesso, di avanzare o meno l’istanza di ordinanza
ingiuntiva a seconda dell’intensità dello speranza di valutazione positiva del fumus.
(159) V. supra, nota 9.
(160) Significativamente in CARPI-TARUFFO, op. cit., p. 443, si sostiene che, ove non
sussistano le ipotesi di cui agli artt. 642 e 648 co. 1 letteralmente interpretato, la provvisoria
esecuzione potrà sempre, discrezionalmente, essere concessa dal giudice, sulla base del maggiore o
minore grado di convincimento raggiunto circa la fondatezza del credito, attraverso il sommario
apprezzamento delle prove e delle eccezioni allo stato degli atti.
(161) Da intendersi formulata all’udienza in cui viene esaminata l’istanza di concessione
dell’ordinanza ingiuntiva.
(162) Ovvero, la contestazione dei fatti costitutivi del diritto di cui si chiede il provvisorio
riconoscimento con l’ordinanza ingiuntiva.
(163) Può praticamente configurarsi quale ipotesi legalmente tipizzata di insussistenza del
fumus il caso di intervenuto disconoscimento della scrittura privata o della proposizione di querela
di falso contro il documento ad opera della parte ingiungenda: anche se, per quanto visto più sopra,
tali eventi escluderebbero in radice la possibilità di concedere l’ordinanza ingiuntiva.
(164) V. supra, §§ 1 e 3.
(165) Come sostiene invece SASSANI, op. cit., p. 126; espressamente criticato sul punto da
MANDRIOLI, Corso etc., p. 105, nota 9b.
(166) FABIANI, op. cit., 2005; PROTO PISANI, – La nuova etc., cit., 247 – richiede
espressamente la sussistenza dei gravi motivi, rilevanti ex art. 649 cod. proc. civ.
(167) MANDRIOLI, op. loc. ult. cit.; CIVININI, op. cit., 343; PROTO PISANI, op. loc. ult. cit.;
FABIANI, op. loc. ult. cit.; SCRIMA, op. cit., 37, nota 49.
(168) CIVININI, op. cit.. 345; quanto alla tardività (rispetto al termine di quaranta giorni dal
deposito in cancelleria, atteso il richiamo del co. 5 dell’art. 186 ter all’art. 644 cod. proc. civ.), egli
ha l’onere di costituirsi in giudizio per contestare anche la tardività della notifica ed ottenerne
quindi, anche per questo solo motivo, la revoca (in tal senso RAMPAZZI, op. cit., 262). CIVININI.
op. cit., 345, ritiene possibile attivare la procedura ex art. 188 disp. att. cod. proc. civ. e richiamare
l’insegnamento di GARBAGNATI (op. cit., 108-109) per escludere che la costituzione possa aver
luogo solo per conseguire la revoca basata sulla tardività della notifica. Tuttavia, il richiamo alla
disciplina del decreto ingiuntivo non può accettarsi, vista la differente ricostruzione dell’efficacia
dell’ordinanza ingiuntiva esecutiva, di cui al § che segue.
(169) RAMPAZZI, op. cit., 263.
(170) TARZIA, op. cit., 144; FABIANI, op. cit., 2006; CIVININI, op. cit., 346.
(171) Chi la ammette – come CIVININI, op. cit., 345 ss. – è costretto poi ad ammettere che
l’effetto definitorio del processo si produce solo in caso di coincidenza dell’oggetto dell’ordinanza
ingiuntiva con quello del processo stesso.
(172) PROTO PISANI, op. ult. cit., 249; CIVININI, op. cit., 345; TARZIA, op. ult. cit., 142 ss.;
SASSANI, op. cit., 125; TAVORMINA, op, cit., 50; RAMPAZZI, op. cit., 257; FABIANI, op, cit.,
2005; e forse anche, per quanto dubitativamente, TOTARO, op. cit., 776 e SCRIMA, op. cit., 51.
(173) MANDRIOLI, Corso etc., cit., 103; ATTARDI, op. cit., 9-10.
(174) Cfr. supra, § 5.
(175) Con ciò forse eludendosi le critiche mosse agli argomenti degli illustri Autori citati alla
precedente nota 172, alcuni dei quali incentrati sulla figura dei provvedimenti a “provvisorietà
indefinitamente prolungata” (su cui MANDRIOLI, I provvedimenti presidenziali nel giudizio di
separazione dei coniugi, Milano 1953, p. 146).
(176) Cfr. supra, nota 10.
ASPETTI CONTROVERSI IN MATERIA
DI PROCEDIMENTO PRETORILE
Relatore:
dott. Antonello COSENTINO
pretore della Pretura circondariale di Bologna
Introduzione
In apertura di questi lavori desidero sottolineare che l’intento di questa conversazione non è, né
potrebbe essere, quello di una trattazione teorica e sistematica dei temi proposti alla vostra
attenzione, ma, ben più modestamente, quello di sollecitare lo sviluppo di un confronto tra colleghi
su alcune questioni di rilevante frequenza pratica; questioni sulle quali, a prescindere dal loro
maggiore o minore interesse teorico, mi sembra necessario sforzarci di pervenire, attraverso lo
scambio delle diverse possibili opinioni, a scelte interpretative che incontrino la condivisione più
larga possibile nei nostri uffici.
Ciò perché io credo che, specialmente in questo tempo di obbiettiva crisi della giustizia civile,
uno dei contributi più importanti – e anche forse più semplici – che ciascuno di noi può dare al
miglioramento dell’amministrazione della giustizia sia quello di assegnare un grado elevato, nella
scala di valori che sempre è sottesa a qualunque operazione di ermenutica giuridica, al valore della
uniformità della interpetrazione giurisprudenziale e quindi della prevedibilità delle decisioni
giudiziarie; e che l’esigenza di uniformità interpretativa può essere perseguita – senza negare né, da
un lato, l’indipendenza di ogni giudice, né, dall’altro, la funzione nomofilattica della Cassazione –
proprio attraverso il confronto tra colleghi sulle diverse tesi.
Questa opzione metodologica di fondo spiega la scelta degli argomenti della nostra
conversazione, scelta dettata dall’intenzione di svolgere insieme una panoramica su alcune delle
questioni che per prime si sono presentate all’attenzione degli operatori del processo pretorile dopo
la riforma.
Ciò premesso – e apparendomi ormai superfluo, a più di un anno e mezzo di distanza
dall’entrata in vigore della riforma, procedere ad una ricognizione complessiva delle innovazioni
introdotte nella disciplina del processo civile davanti al pretore – passerei senz’altro a delineare le
tematiche su cui ci soffermeremo:
a) i problemi posti dalla connessione tra cause soggette a riti diversi e, in particolare, tra cause
soggette al vecchio e cause soggette al nuovo rito;
b) alcun problemi connessi alla gestione della prima udienza di comparizione di cui all’art. 180
c.p.c.:
b1) possibilità di pronunciare in tale sede su istanze di provvedimenti anticipatori di
condanna (ordinanze ex artt. 186 bis e ter c.p.c.);
b2) nei giudici di opposizione a decreto ingiuntivo, possibilità di pronunciare sulle istanze
relative alla provvisoria esecuzione del decreto;
b3) ancora nei giudizi di opposizione a decreto ingiuntivo, individuazione della parte – se
trattisi dell’opponente o dell’opposto – a cui assegnare il termine di cui al secondo comma dell’art.
180 c.p.c.;
c) applicabilità dell’art. 186 quater al procedimento pretorile.
Connessione di cause e questioni di rito
1) Ambito di applicazione dell’art. 40, commi terzo, quarto e quinto, c.p.c.
Prima che l’art. 5 della legge 353/90 aggiungesse al testo originario dell’art. 40 c.p.c. i commi terzo,
quarto e quinto, non esisteva un criterio normativo di individuazione del rito applicabile ad un
procedimento in cui fossero cumulate cause soggette a riti diversi; e per tale ragione si riteneva
generalmente che la difformità di rito costituisse ostacolo insormontabile alla realizzazione del processo
simultaneo.
L’art. 5 della 353/90 ha quindi opportunamente disciplinato la materia, dettando un meccanismo
di coordinamento tra riti diversi espressamente destinato a regolare il cumulo di cause, originario o
successivo, nelle ipotesi di cui agli artt. 31 (accessorietà), 32 (garanzia), 34 (pregiudizialità), 35
(compensazione) e 36 (riconvenzione) del codice di rito.
Prima ancora di passare ad esaminare la disciplina della derogabilità del rito per ragioni di
connessione conviene però mettere subito in evidenza che tale disciplina, sebbene inserita, con la
tecnica della novellazione, nel corpo dell’art. 40 c.p.c., opera tuttavia su una materia completamente
diversa rispetto a quella regolata dai primi due commi di tale articolo, i quali regolano l’incidenza
della connessione sulla competenza, assegnando al giudice della causa principale o, fuori dal caso
della accessorietà, a quello preventivamente adito la competenza a conoscere della causa accessoria
o della causa connessa successivamente introdotta.
È peraltro utile ricordare, incidentalmente, che i primi due commi dell’art. 40 primo comma
c.p.c. non consentono modifiche alle regole ordinarie di competenza se non nei limiti fissati dalle
norme che appunto tali deroghe prevedono (artt. 31/36 c.p.c.); le quali, secondo l’interpretazione
consolidata offertane dalla giurisprudenza, consentono la deroga alla competenza per ragioni di
connessione nei seguenti termini:
a) è sempre derogabile la competenza per territorio semplice;
b) la competenza per valore è derogabile solo in favore del giudice superiore, eccettuati i casi di
accessorietà e garanzia, per i quali gli artt. 31 e 32 prevedono la deroga anche in favore del giudice
inferiore che sia competente per la causa principale o di molestia;
c) la competenza per materia e quella per territorio ex art. 28 c.p.c., e comunque, in generale, le
competenze funzionali non sono derogabili.
Si deve quindi tenere presente che il processo simultaneo davanti al giudice della causa
principale, in caso di accessorietà, o davanti al giudice preventivamente adito, negli altri casi, non è
possibile se tale giudice non è dotato di competenza – originaria oppure prorogata ex artt. 31/36 –
anche per la causa accessoria o successivamente introdotta.
Particolare si presenta poi – e mi sembra interessante parlarne per la frequenza con cui ricorre –
il caso del litisconsorzio facoltativo di cui all’art. 103 (connessione per identità di petitum, o causa
petendi, o questioni): si pensi all’ipotesi di pluralità di danneggiati a seguito di un unico sinistro
stradale, che agiscano contro il danneggiante chiedendo l’uno un risarcimento rientrante nella
competenza per valore del pretore e l’altro un risarcimento eccedente tale competenza.
In tale caso la derogabilità della competenza per valore non è prevista da alcuna delle norme
dettate dagli artt. 31/36 c.p.c.; in particolare, l’art. 33 prevede la deroga solo per territorio e solo nel
caso di domande proposte contro una pluralità di convenuti, non nel caso di domande proposte
contro un solo convenuto da una pluralità di attori.
Si ritiene peraltro che la derogabilità della competenza per valore, pur non espressamente prevista,
sia tuttavia implicita nella previsione del secondo comma dell’art. 103 c.p.c., a mente del quale, in caso di
separazione delle cause cumulativamente introdotte, il giudice “può rimettere al giudice inferiore le cause
di sua competenza”; diversamente opinando, infatti, la disposizione contenuta in tale inciso sarebbe
operativa solo nella ipotesi, del tutto residenziale, di cui all’art. 11 c.p.c.; devo peraltro segnalare che
alcuni precedenti degli anni ’50 (Cass. 2890/54, Cass. 3040/52) negano la possibilità del processo
simultaneo quando ciò implichi deroga alla competenza per valore per una delle cause.
Peraltro, la conclusione che il litisconsorzio facoltativo può essere originariamente instaurato,
proponendo le diverse domande verso lo stesso convenuto davanti al giudice competente per valore
per la domanda maggiore (la maggior parte della dottrina esclude che si applichi nel caso di
litisconsorzio la disciplina dell’art. 10, secondo comma, c.p.c.) lascia aperto il problema
dell’individuazione del giudice competente nel caso di cumulo successivo, giacché la regola dettata
dall’art. 40 primo comma, di prevalenza del forum preventionis, entra in conflitto con la regola
desimibile dall’art. 103 secondo comma, di prevalenza del forum connexitatis, tutte volte in cui il
giudice successivamente adito sia il giudice superiore.
In tali ipotesi si ritiene debba prevalere il forum connexitatis, e quindi la connessione sposti la
competenza in favore del giudice superiore, pur se successivamente adito.
Tornando, dopo questa breve disgressione, ai problemi della derogabilità del rito per ragioni di
connessione, conviene allora soffermarsi, in primo luogo, sulla esatta identificazione del campo di
applicazione di questa disciplina.
Come infatti risulta con chiarezza dal richiamo normativo contenuto all’inizio del terzo comma
dell’art. 40 c.p.c., la nuova disciplina di coordinamento del rito si applica non a qualunque ipotesi di
connessione in senso generico, ma alle sole ipotesi di connessione qualificata prevista dagli artt.
31/36 c.p.c., con esclusione della connessione ex art. 33 c.p.c.
Il legislatore ha quindi limitato la derogabilità del rito alle sole ipotesi in cui il legame di connessione
tra cause sia tale da implicare, in caso di decisioni separate, il rischio di un conflitto, e non di una mera
disarmonia, tra giudicati (connessione forte, o per subordinazione, o per pregiudizialità dipendenza,
secondo le diverse terminologie e classificazioni proposte dalla dottrina); mentre ha lasciato che nei casi
di connessione per mera coordinazione (tipicamente quelli previsti dagli artt. 33 c.p.c., proposizione in un
unico giudizio di domande contro più persone connesse per l’oggetto o per il titolo, e 104 c.p.c., cumulo
di domande non connesse oggettivamente nei confronti della stessa persona), l’eventuale soggezione a
riti diversi delle cause connesse impedisca il processo simultaneo.
Peraltro è discusso se il richiamo ad un elenco di singole figure di connessione, contenuto
all’inizio del nuovo terzo comma dell’art. 40 c.p.c., vada inteso tassativamente o secondo criteri di
interpretazione sistematica.
Si è infatti rilevato che non tutte le figure di connessione elencate nel suddetto richiamo
costituiscono ipotesi di connessione “forte”, posto che il riferimento indiscriminato all’art. 36 c.p.c.
copre anche ipotesi di connessione per coordinazione; la domanda riconvenzionale può infatti essere
legata a quella principale sia da un rapporto di connessione per pregiudizialità dipendenza, sia da un
rapporto di connessione per mera coordinazione.
Per contro sembra indubbio che la disciplina introdotta dai commi terzo, quarto e quinto
dell’art. 40 c.p.c. sia applicabile anche all’ipotesi della continenza (della quale la giurisprudenza
fornisce una nozione assai ampia, ricomprendente anche le ipotesi di domande contrapposte
nascenti da un unico rapporto sostanziale), pur se l’art. 39 non è tra quelli richiamati dal terzo
comma dell’art. 40 c.p.c..
Le opinioni espresse al riguardo dalla dottrina sono molto diversificate, andandosi da
orientamenti restrittivi, che escludono l’operatività delle norme sul coordinamento del rito nel caso
di riconvenzionale fondata sul titolo dedotto quale mezzo di eccezione e nel caso di garanzia
impropria (GIUSSANI, Competenze riti ed effetti della connessione, in Le riforme della giustizia
civile. Commento alla legge 353 del 1990 e alla legge 347 del 1991, a cura di Taruffo, Torino, 1993,
pag. 149 e seg.), ad orientamenti estensivi, che affermano l’applicabilità delle nuove norme ogni
qualvolta sussista una obiettiva esigenza di coordinamento dei rapporti sul piano sostanziale, e
quindi ad esempio, sebbene l’art. 33 c.p.c. non venga richiamato dal terzo comma dell’art. 40, anche
in alcune ipotesi di cumulo soggettivo (garanzia impropria, litisconsorzio unitario; tra gli altri,
MERLIN, Connessione di cause e pluralità di riti nel nuovo art. 40 c.p.c., in Riv. dir. proc., 1993,
pag. 1038).
Personalmente mi convince maggiormente la lettura del sistema che amplia al massimo
l’ambito della possibilità di trattazione simultanea di cause connesse, ammettendo la deroga anche
nei casi di litisconsorzio unitario o di chiamata in garanzia; devo però subito sottolineare come sia
obbiettivamente vero quanto sottolineato dal collega FRASCA (Considerazioni sui nuovi artt. 5 e
40 del codice di procedura civile, in Doc. Giust., 1996, col. 1812), che cioè l’evenienza che cause
connesse in ipotesi di litisconsorzio unitario o di chiamata in garanzia impropria soggiaccono a riti
diversi è obbiettivamente piuttosto marginale (per la garanzia impropria è stato fatto l’esempio,
effettivamente ricorrente nella pratica, del datore di lavoro che, convenuto in giudizio dall’INAIL o
dal suo dipendente per rispondere delle conseguenze di un infortunio sul lavoro, chiami in causa il
suo assicuratore); cosicché il problema rappresentato della impossibilità di realizzare il simultaneus
processus per diversità di riti (postulando detta impossibilità non superabile attraverso l’art. 40,
terzo comma, c.p.c., per la interpretazione restrittiva che di tale norma si ritenga di dover dare)
presenta un rilievo pratico abbastanza modesto, se non con riferimento ai problemi, che più avanti
esamineremo, di rapporto tra vecchio e nuovo rito.
2) Criteri di individuazione del rito da applicare nella trattazione delle cause cumulative proposte o
successivamente riunite.
Così sommariamente tratteggiato l’ambito di applicazione della disciplina dettata dai commi
terzo, quarto e quinto dell’art. 40 c.p.c., con le alternative ermeneutiche che sussistono in ordine
all’estensione di tale ambito, va ora esaminato quale sia il criterio di scelta del rito da applicare nel
processo.
Tale criterio è dettato dai commi terzo e quarto dell’art. 40: il terzo comma fissa il principio della
prevalenza del rito ordinario sui riti speciali, a meno che una delle cause connesse non rientri tra quelle di
cui agli artt. 409 e 442 c.p.c., nel qual caso prevale il rito del lavoro (la prevalenza è data in ragione della
causa petendi e non del rito in sé per sé e quindi si applicherà il rito ordinario in caso di connessione tra
causa soggetta al rito ordinario e causa in materia di locazione); il quarto comma prevede la connessione
di causa soggette a diversi riti speciali, stabilendo la prevalenza del rito previsto per la causa in ragione
della quale viene determinata la competenza, o, in subordine, del rito previsto per la causa di maggior
valore.
In relazione a tale disciplina, sono sorti diversi problemi interpretativi:
A) cosa si deve intendere per rito speciale?
a1) È uniforme l’orientamento secondo cui con tale espressione l’art. 40 c.p.c. si riferisce a riti
speciali nelle forme ma caratterizzati da cognizione piena e ordinaria; è quindi da escludere la
possibilità di trattazione simultanea, con deroga delle norme di rito, di un procedimento possessorio
o cautelare e di una causa ordinaria; difetta in tale ipotesi il presupposto stesso della connessione,
ossia la contemporanea pendenza di due cause, intese come procedimenti contenziosi volti
all’accertamento con efficacia di giudicato delle situazioni soggettive.
a2) Nelle ipotesi di procedimenti a cognizione sommaria (procedimenti per ingiunzione, per
convalida di sfratto, per repressione di condotta antisindacale) la connessione con altre cause può
rilevare solo dopo l’esaurimento della fase sommaria, allorquando il procedimento sia pervenuto
alla fase a cognizione piena (opposizione al decreto ingiuntivo, alla convalida di sfratto o licenza, al
decreto ex art. 28 stat. lav.).
a3) si può ricomprendere nell’ambito di applicazione dell’art. 40 l’ipotesi di pronuncia sui
diritti con rito camerale (si pensi alla domanda congiunta di divorzio, ex art. 4, u.c. l. 898/70, in
ipotesi connessa con una causa locatizia)?
Mi limito a porre il problema, senza nemmeno tentare di offrire una risposta, anche perché si
tratta di una questione che non si dovrebbe porre in procedimenti di competenza pretorile.
a4) si può parlare di riti speciali a proposito delle versioni “gemmate” dei riti (giudizio davanti
al pretore e davanti al giudice di pace, rispetto al giudizio davanti al Tribunale; rito locatizio,
rispetto al rito del lavoro)?
Pur nella consapevolezza della problematicità della questione, opto decisamente per la
soluzione negativa, ritenendo che la nozione di rito speciale si attagli solo alle ipotesi in cui vi è un
autonomo corpo normativo destinato a regolare il singolo processo.
Mi sembra quindi da escludere (e tale conclusione è peraltro pacifica) che si possa parlare di rito
speciale a proposito del giudizio davanti al pretore o al giudice di pace (caratterizzati da una serie di
norme speciali che però poggiano su un rinvio generalizzato al modello del giudizio davanti al
tribunale, ex art. 311 c.p.c.).
Meno pacifica è la questione del rapporto tra rito locatizio e rito del lavoro: anche in questo
caso, tuttavia, escluderei che il rito locatizio possa considerarsi autonomo rispetto al rito del lavoro,
giacché l’art. 447 bis c.p.c. opera in sostanza un rinvio in blocco alle norme del rito del lavoro,
sebbene mediante il richiamo puntuale di tutte (o quasi) le singole disposizioni che lo disciplinano.
Da ciò consegue che nel caso di connessione tra causa di lavoro e causa locatizia:
1) il simultaneus processus sarà possibile anche nei casi esclusivi dalla previsione dell’art. 40
(quindi anche in ipotesi di connessione meramente soggettiva ex art. 104 c.p.c.);
2) il processo sarà disciplinato secondo una regola di convivenza dei due riti, piuttosto che di
prevalenza dell’uno sull’altro (il problema non si pone per il terzo comma dell’art. 429 c.p.c., che
dispone la rivalutazione del credito di lavoro, giacché tale norma ha natura sostanziale e quindi, pur
se non richiamata dall’art. 447 bis c.p.c., sarà certamente applicabile al capo di sentenza contenente
condanna al pagamento di un credito da lavoro; per contro, ad esempio, l’esecutività della sentenza
di primo grado sarà regolata dall’art. 447 bis e non dall’art. 431, salvo valutare la possibilità di
differenziare il regime della sospensiva da parte del giudice d’appello in relazione ai diversi capi di
sentenza (in materia di lavoro l’art. 431 richiede la ricorrenza del gravissimo danno della
controparte per la sospensiva delle condanne in favore del lavoratore, mentre richiede la ricorrenza
di gravi motivi per la sospensiva delle condanne in favore del datore di lavoro; in materia di
locazione l’art. 447 bis richiede sempre, ai fini della sospensiva, la ricorrenza del gravissimo danno
della controparte).
B) La prevalenza del rito del lavoro, qualora una delle cause connesse rientri nella previsione
degli artt. 409 e 442 c.p.c., opera solo verso il rito ordinario (secondo la previsione testuale del
terzo comma) o anche (pur nel silenzio del quarto comma) verso gli altri riti speciali?
Concordemente con la dottrina prevalente, ritengo che il rito del lavoro prevalga anche nei
confronti degli altri riti speciali, per ragioni di logica sistematica, ma non è mancato che
(ATTARDI, Le nuove disposizioni sul processo civile, Padova, 1991, p. 27), ritenendo il rito
locatizio come autonomo rispetto al rito del lavoro, ha affermato che in caso di connessione tra
causa locatizia e causa di lavoro prevale il rito a cui soggiace la causa di maggior valore.
In pratica quindi l’ambito di applicazione del quarto comma dell’art. 40 c.p.c. (connessione tra
cause soggette a riti speciali, nessuna delle quali di lavoro) si presenta molto ridotto (si è fatta
l’ipotesi della connessione tra causa di accertamento del rapporto di locazione e causa di
opposizione all’ordinanza ingiunzione di cui all’art. 12 d.l. 21-3-78 n. 59, concernente la violazione
dell’obbligo di comunicare all’Autorità di PS la cessione di un immobile a titolo di proprietà o
godimento); l’ambito di più vasto utilizzo di tale norma sarà, come vedremo, quella della
connessione tra cause soggette al vecchio e cause soggette al nuovo rito.
C) La disciplina dettata dal quarto comma dell’art. 40 c.p.c., di prevalenza del rito della causa
in ragione della quale è stata determinata la competenza, vale solo nei casi in cui in concreto una
delle due cause sia stata trasferita, in applicazione delle norme dettate dagli artt. 31/36 c.p.c., dal
giudice originariamente competente al giudice dell’altra o, viceversa, opera anche come criterio
astratto, idoneo a determinare il rito applicabile al processo anche nel caso in cui non vi sia stata
alcuna translatio iudicii, rientrando le due cause nella competenza originaria dello stesso giudice?
Al riguardo sono state prospettate sia la tesi che si deve aver riguardo alla vis attractiva astratta
e potenziale di una causa sull’altra (TARZIA, Lineamenti del nuovo processo di cognizione,
Milano, 1991, pag. 39), sia la opposta tesi secondo cui nell’ipotesi di cause originariamente
rientranti nella competenza dello stesso giudice opera sempre il criterio del maggior valore
(ATTARDI, op. cit., pag. 26, PROTO PISANI, La nuova disciplina del processo civile, Napoli,
1991, pag. 35); sia la tesi intermedia (MERLIN, op. cit., pag. 1054) – a mio avviso preferibile –
secondo cui nella suddetta ipotesi si deve applicare il rito della causa principale nei casi di
connessione per accessorietà e garanzia (casi nei quali, a mente degli artt. 31 e 32 c.p.c., opera una
vis attractiva unidirezionale a favore della causa principale, o di molestia, suscettibile quindi di
applicazione anche in astratto), mentre si deve applicare il rito della causa di maggior valore nelle
ipotesi di cui agli artt. 34, 35 e 36 c.p.c. (nei quali non è predeterminabile a priori quale sia la causa
attraente, perché in astratto è tale quella che rientra nella competenza per valore del giudice
superiore).
Completerei tale ultima ricostruzione col rilievo che, nel caso di connessione ex artt. 34, 35 o 36
c.p.c., se il criterio del maggior valore non possa operare perché le cause sono di valore
indeterminato (o identico), può farsi ricorso, del tutto empiricamente, al criterio della prevenzione.
3) Il meccanismo di coordinamento tra i riti applicabili alle cause trattate simultaneamente.
Va sottolineato che, per espressa precisazione dettata dal terzo comma dell’art. 40 c.p.c., la
disciplina che prevede la derogabilità del rito per ragioni di connessione qualificata si applica a tutti
i casi di trattazione simultanea di cause connesse, siano esse state proposte in un unico processo ab
origine (“cumulativamente proposte”), siano esse state cumulate in un unico processo in tempi
successivi (“successivamente riunite”) e, in quest’ultimo caso, sia nella ipotesi di cause connesse
proposte davanti a giudici diversi, sia nell’ipotesi di cause connesse proposte dinanzi allo stesso
giudice in procedimenti separati.
Per tutte tali ipotesi il quinto comma dell’art. 40 prevede l’adozione, da parte del giudice, dei
provvedimenti di mutamento del rito di cui agli artt. 426, 427 e 439 c.p.c..
La formulazione della norma non è felicissima: “Se la causa è stata tratta con un rito diverso da
quello divenuto applicabile ai sensi del comma terzo”; tuttavia è pacifico che il mancato richiamo al
comma quarto non impedisce di ritenere applicabile il quinto comma anche nelle ipotesi di riunione
di cause soggette a diversi riti speciali, così come il riferimento alla causa “trattata” non impedisce
di ritenere applicabile la disposizione in esame non solo ai casi di cumulo successivo ma anche a
quelli di cumulo originario.
Qualche problema ricostruttivo può porsi in relazione alle attività processuali che debbono
essere compiute in determinate fasi processuali, dalle parti o dal giudice, e il cui omesso
compimento implichi il verificarsi di preclusioni.
Nessuna particolare questione dovrebbe porsi nell’ipotesi in cui più cause siano state introdotte
in un unico processo, penda esso davanti al giudice adito per la domanda principale oppure davanti
al giudice superiore a cui la causa sia stata eventualmente rimessa ai sensi degli articoli 34, 35 e 36
c.p.c.. In tali ipotesi si applicherà il rito con cui deve essere conosciuta la domanda principale (in
definitiva, il rito secondo il quale risulta modellato l’atto introduttivo proveniente dall’attore) fino al
momento in cui il giudice non provveda a disporre il mutamento di rito; tale ipotesi non differisce
quindi da quella ordinariamente regolata dagli articoli 426 e 427 c.p.c..
Quando deve essere disposto il mutamento di rito?
L’interpretazione formatasi sugli artt. 426 e 427 è concorde nell’affermare che non esistono
momenti preclusivi per tale incombente e che detta ordinanza (peraltro ritenuta revocabile e non
impugnabile) può essere adottata anche all’esito dell’istruttoria, sempre però garantendo il
contraddittorio delle parti sul punto.
Mi sembra peraltro che, nell’ipotesi di cui al quinto comma dell’art. 40 c.p.c., in cui la necessità
di cambiamento del rito dovrebbe normalmente emergere de plano della mera constatazione del
cumulo di domande soggette a riti diversi, il mutamento di rito debba essere disposto non appena il
giudice operi detta constatazione.
Consideriamo partitamente l’ipotesi di cui all’art. 426 e quella di cui all’art. 427 del codice di
procedura.
Il passaggio dal rito speciale (che nella maggior parte dei casi sarà quello locatizio) al rito
ordinario verrà normalmente disposto all’udienza di discussione ex art. 420 c.p.c.; e quindi il
pretore (ove non debba rimettere il fascicolo al dirigente per nuova assegnazione) effettuerà (per
non perdere tempo e non costringere le parti a ritornare di persona) l’interrogatorio libero e il
tentativo di conciliazione, assegnando poi, con la stessa ordinanza con cui dispone la
regolarizzazione fiscale degli atti, il termine, eventualmente richiestogli, per deduzioni istruttorie ex
art. 184 c.p.c..
Per l’ipotesi di chiamata in causa del terzo a domanda del convenuto, sulla quale il giudice deve
pronunciare all’udienza di discussione ex art. 420 c.p.c., fissando una nuova udienza ai sensi del
nono comma di detto articolo, riterrei che il mutamento di rito vada disposto a tale nuova udienza.
Tale conclusione pare inevitabile quando la necessità di mutamento del rito derivi dalla connessione
tra la causa principale e la domanda spiegata verso il terzo (si pensi, ove si ritenga ammissibile la
deroga al rito nei casi di garanzia impropria, alla chiamata in causa dell’assicuratore da parte del
conduttore che sia stato convenuto in giudizio dal locatore per i danni verificatisi nell’immobile
locato); in tale ipotesi infatti non vi è cumulo di cause fino a quando la chiamata non sia stata
effettuata con la notifica al terzo degli atti indicati nel comma nono dell’art. 420 c.p.c.. Ma la
suddetta conclusione mi sembra da accogliere anche per il caso in cui già prima della chiamata del
terzo nel processo siano cumulate più cause soggette a riti diversi (si ipotizzi, per restare
all’esempio precedente, che il conduttore, oltre a chiedere la chiamata dell’assicuratore, spieghi
anche una domanda riconvenzionale contro il locatore, fondata su un titolo diverso dal rapporto
locatizio); anche se i presupposti per il mutamento di rito sussistono indipendentemente dalla
effettuazione della chiamata del terzo, mi sembra tuttavia necessario che il provvedimento sul
mutamento di rito venga adottato a contraddittorio integro, a garanzia del diritto di difesa del
chiamato.
Passando ad esaminare il passaggio dal rito ordinario al rito speciale si rileva che esso, proprio
perché l’esame della relativa questione può essere svolto senza necessità di trattazione di merito
delle cause, dovrebbe essere disposto già all’udienza di comparizione ex art. 180 c.p.c., salva
tuttavia la possibilità di disporlo anche all’udienza di trattazione di cui all’art. 183 c.p.c., o ancora
successivamente.
Nell’ipotesi di chiamata in causa del terzo non dovrebbero presentarsi particolari problemi
quando questa sia stata effettuata dal convenuto, in quanto la stessa, secondo la disciplina dettata
dall’art. 269, secondo comma, c.p.c., dovrebbe essere già perfezionata al momento dell’udienza di
comparizione ex art. 180 c.p.c.; in caso di chiamata a richiesta dell’attore, prevista dal terzo comma
dello stesso articolo 269, si deve invece fissare una nuova udienza di comparizione; per tale
riferimento al passaggio dal rito speciale a quello ordinario e quindi il mutamento di rito dovrebbe
essere disposto nella udienza fissata per la citazione del terzo.
Per concludere sui problemi procedurali che concretamente possono porsi nel mutamento di rito
mi sembra utile ricordare che, per concorde opinione della dottrina, nel passaggio dal rito ordinario
al rito del lavoro non vengono sanate le decadenze già intervenute con il rito ordinario (in
giurisprudenza, conf. Cass. 1978/81, Cass. 8256/87); mentre nel passaggio dal rito speciale a quello
ordinario le preclusioni maturate sotto il più severo rito del lavoro cadono se non trovano riscontro
negli artt. 183 e 184 c.p.c.; pertanto, ad esempio, introdotta con rito locatizio una domanda di
pagamento di canoni, il conduttore convenuto che non abbia provato l’eccezione di inadempimento
del locatore in comparsa di risposta, incorrendo quindi nella decadenza di cui all’art. 416 terzo
comma, e che deduca in via riconvenzionale un proprio controcredito nei confronti del locatore
fondato su titolo diverso rispetto al rapporto locatizio, imponendo quindi il passaggio dal rito
speciale al rito ordinario, potrà provare tali eccezioni nel termine di cui all’art. 184 c.p.c.
assegnatogli con l’ordinanza di mutamento di rito.
Giova da ultimo sottolineare, che, per il principio di ultrattività del rito, gli atti compiuti prima
del mutamento di rito vanno valutati secondo il rito precedentemente osservato; cfr., al riguardo,
Cass. 5122/85, con riferimento ad una domanda riconvenzionale proposta prima del mutamento dal
rito ordinario a quello di lavoro, nelle forme di cui agli artt. 166 e 167 c.p.c. e quindi senza il
rispetto dell’art. 418 c.p.c.; egualmente è a dirsi per la forma dell’atto introduttivo, la chiamata in
causa del terzo etc..
Nel caso di cumulo successivo – quando cioè la trattazione simultanea di cause connesse
soggetta a riti diversi sia stata realizzata in base all’art. 40, primo comma, c.p.c., dopo che le stesse
erano state introdotte davanti a giudici diversi, oppure in base all’art. 274 c.p.c., dopo che le stesse
erano state introdotte separatamente davanti allo stesso giudice – possono porsi maggiori problemi
di coordinamento.
Innanzi tutto è da sottolineare che, mentre la connessione tra cause proposte davanti a giudici
diversi può essere eccepita o rilevata entro la prima udienza (da intendere come la prima udienza di
trattazione di cui all’art. 183 c.p.c., argomentando dal rilievo che la incompetenza per territorio
inderogabile, materia e valore può essere eccepita o rilevata fino a detta udienza, ai sensi del primo
comma dell’art. 38 c.p.c.), la riunione di cause connesse pendenti davanti allo stesso giudice è
ammessa in qualunque fase; con la conseguenza che effettivamente possono trovarsi riunite in un
unico procedimento due cause in una delle quali sia maturata una preclusione non ancora maturata
nell’altra.
Tale problema, peraltro, non riguarda specificamente l’ipotesi in cui le cause riunite
soggiacciono a riti diversi, poiché esso si presenta anche quando le cause siano tutte soggette allo
stesso rito; mi sembra interessante tuttavia tratteggiarne i termini.
Quando si tratta di connessione debole (per oggetto, titolo, o identità di questioni) ex art. 103
c.p.c. i problemi sono relativamente semplici, giacché ogni causa mantiene la sua autonomia; per
esempio, mi è capitato di avere due cause di risoluzione del medesimo contratto di locazione,
introdotte con due procedimenti per convalida di sfratto per morosità, relativi a due diverse
mensilità; in ognuno di tali procedimenti l’intimato si era opposto alla convalida, sollevando
un’eccezione di inadempimento del locatore, e, all’esito del mutamento di rito ex art. 667 c.p.c., era
stata disposta, nell’udienza di discussione ex art. 420 c.p.c., la riunione; in una di tali cause
l’intimato disconobbe la propria firma su un documento allegato in entrambe le cause dall’attore,
mentre nell’altra, forse per disguido, omise il disconoscimento, decadendo dalla possibilità di
effettuarlo ai sensi dell’art. 215 n. 2; in tale ipotesi non mi sembra difficile sostenere che,
nonostante la riunione, si dovrà differenziare la pronuncia in relazione alle due distinte domande di
risoluzione, tenendo conto del documento solo per la decisione della causa in cui esso non è stato
infatti disconosciuto; non vi è infatti alcuna connessione forte tra due domande di risoluzione per
morosità fondate sul mancato pagamento di due diverse mensilità di canone.
Più problematica si presenta però la questione quando il nesso tra le cause sia di pregiudizialitàdipendenza (che peraltro, come sopra si è visto, è l’unico che consente la deroga al rito e quindi la
trattazione simultanea di cause soggette a riti diversi): si pensi, nell’ambito del rito ordinario,
all’ipotesi della causa relativa alla domanda di pagamento del prezzo della vendita in cui il
compratore convenuto abbia eccepito in compensazione il proprio credito per il risarcimento dei
danni derivati da asseriti vizi della merce, omettendo di svolgere tempestivamente (cioè nel termine
di cui all’art. 184 c.p.c.) le richieste istruttorie necessarie per provare la sussistenza dei pretesi vizi;
in tale ipotesi potrebbe il compratore introdurre in via principale una causa di risoluzione del
contratto di vendita e, radicato il contraddittorio, chiederne la riunione a quella in cui egli è
convenuto per il pagamento del prezzo della vendita, offrendo quindi la prova, ai fini della
pronuncia sulla domanda risolutoria, di quei vizi che non può più provare ai fini della pronuncia
sulla domanda risarcitoria? La risposta affermativa, cui mi pare si debba giungere in considerazione
della natura forte della connessione tra tali cause (secondo la Cassazione si tratterebbe anzi di
continenza), lascia tuttavia perplessi per il facile aggiramento delle preclusioni processuali che così
si realizza.
4) La connessione tra cause soggette al vecchio rito e cause soggette al nuovo rito.
La problematicità della riunione di cause alcune delle quali già pendenti alla data del 30-4-95 ed
altre introdotte successivamente a tale data sorge dalla scelta compiuta dal d.l. 121 del 21-4-95
(successivamente reiterato fino al d.l. 432/95, convertito con la legge 534/95) di mantenere le cause
già pendenti alla data del 30-4-95 soggette alla disciplina procedurale previgente; scelta –
esattamente opposta rispetto a quella originaria della legge 353/93 – in conseguenza della quale per
molti anni nel nostro ordinamento continueranno a convivere due riti civili ordinari.
La questione che si pone è quindi quella di stabilire quale rito sia applicabile quando si debbano
riunire una causa “vecchia” ed una “nuova”.
In primo luogo si deve valutare se la disciplina dettata dall’art. 40, fino ad ora esaminata, sia
utilizzabile per la soluzione del problema del coordinamento tra cause soggette al vecchio rito e
cause soggette al nuovo rito.
Potrebbe infatti dubitarsi della utilizzabilità di tale disciplina per risolvere il problema del
coordinamento tra vecchio e nuovo rito, per il rilievo che tanto il vecchio quanto il nuovo rito
devono essere considerati riti ordinari, cosicché il tema del loro coordinamento esula dalla
previsione dei commi terzo/quinto dell’art. 40 c.p.c., i quali si occupano dei rapporti tra rito
ordinario e rito speciale o tra riti speciali fra di loro. Necessaria conseguenza di tale impostazione
sarebbe allora la pura e semplice esclusione della possibilità della riunione di cause che, per essere
state proposte alcune prima ed altre dopo il 30-4-95, siano soggette a riti (ordinari) diversi; infatti,
come si è visto, non esistono fuori dell’art. 40 c.p.c. norme che prevedono la deroga del rito per
ragioni di connessione e, d’altra parte, le stesse norme di cui ai commi terzo/quinto dell’art. 40
c.p.c. dovrebbero essere ritenute insuscettibili di interpretazione analogica, data la natura
eccezionale delle previsioni di modificazione del rito (in questo senso, Trib. Bari, 28-12-95, in Giur.
It., 1966, I, 2, 403, che nega la possibilità di trattazione simultanea di una causa soggetta al vecchio
rito e di una soggetta al nuovo rito, trattandosi di riti entrambi ordinari; la pronuncia è peraltro resa
in ipotesi di connessione debole).
A mio avviso peraltro una così radicale conclusione non potrebbe condividersi.
Se infatti è vero che la natura eccezionale delle previsioni di deroga al rito impone grande
cautela nelle interpretazioni estensive delle stesse (cft. NELA, in CHIARLONI, Le riforme del
processo civile, Bologna, 1992, pag. 56) non va tuttavia sottovalutata la portata sistematica della
modifica dell’art. 40 c.p.c. recata dalla legge 353/90; se per talune ipotesi di connessione
l’ordinamento consente la realizzazione del simultaneus processus pur in deroga (non solo alla
competenza ma anche) al rito, quando la diversità di riti discenda da diversità di materia, e quindi si
connetta a differenziate esigenze di tutela, mi sembrerebbe contrastante con la ratio del nuovo testo
dell’art. 40 escludere, per le medesime ipotesi di connessione, la possibilità del simultaneus
processus quando la diversità di riti applicabili alle diverse cause connesse discenda semplicemente
dalla differente epoca di introduzione delle stesse.
Riterrei quindi che la riunione di cause che siano soggette, ratione temporis, a riti diversi sia
preclusa al di fuori delle ipotesi di connessione richiamate dal terzo comma dell’art. 40 c.p.c., per
mancanza di una norma che autorizzi la deroga al rito, ma debba invece ammettersi per le ipotesi di
connessione contemplate da tali casi.
In concreto peraltro mi pare preferibile fissare il discrimine tra i casi di possibilità e quelli di
impossibilità di riunione di cause vecchie con cause nuove riferendosi non all’elenco degli articoli
del codice richiamati dal terzo comma dell’art. 40 c.p.c. ma alla idoneità/inidoneità del legame di
connessione esistente tra le cause a determinare il rischio di conflitto di giudicati.
In definitiva riterrei quindi di escludere la possibilità di riunione tra cause vecchie e nuove
quando il nesso di connessione tra le stesse non implichi il rischio di un conflitto di giudicati (si
pensi all’ipotesi, tipicamente riconducibile allo schema della connessione per coordinazione, della
identità di fatto costitutivo da cui sorgono più rapporti intercorrenti tra soggetti diversi, come nel
caso di più danneggiati in un sinistro stradale che agiscano contro il medesimo danneggiante);
ammettendo invece tale possibilità nei casi di connessione per pregiudizialità dipendenza, si tratti di
pregiudizialità logica (la quale descrive la relazione sussistente tra un singolo effetto giuridico e il
rapporto obbligatorio complesso o il diritto reale su cui l’effetto si fonda) o pregiudizialità tecnica
(la quale comprende le ipotesi in cui un diritto o un rapporto giuridico costituisce parte della
fattispecie costitutiva, o impeditiva o modificativa o estintiva, di un altro diritto o rapporto).
Così definito l’ambito di realizzabilità del simultaneus processus tra cause introdotte prima del
30-4-95 e cause introdotte dopo tale data, resta da stabilire quale debba essere il rito da applicare,
essendo da escludere che riti diversi possano convivere nello stesso processo.
Al riguardo si osserva che – nell’assenza di indicazioni normative – le opzioni interpretative
possibili sono molteplici; da un lato si è affermato, con un ragionamento del tutto svincolato dalla
disciplina dettata dall’art. 40 c.p.c., che prevale sempre il vecchio rito (Trib. Milano 6-5-96, in Foro
It. 1966, I, 3219, che argomenta dalla preferenza per la collegialità, letta come preferenza per il
vecchio rito, espressa dall’art. 274 bis c.p.c.); d’altro lato si è cercato un criterio nell’art. 40 c.p.c., e
quindi nel quarto o nel quinto comma dello stesso.
Il prof. PROTO PISANI, proprio in questa sede, nell’incontro del marzo 1996, suggerì di
considerare ordinario, nell’attuale assetto normativo, il nuovo rito, assegnandogli quindi la
prevalenza sulla base del quarto comma dell’art. 40 c.p.c.; tale opzione ha indubbiamente il pregio
di semplificare molto la materia, ma a tutt’ora non sembra aver trovato adesione nella dottrina che si
è occupata del problema (in senso critico, vedi CONSOLO, Al modo di postilla: prevale il rito
vecchio o quello nuovo in caso di riunione?, in Giur. It. 1966, IV, 123).
Sembra quindi prevalere l’orientamento secondo il quale, in applicazione analogica del quarto
comma dell’art. 40 c.p.c., si deve applicare al processo il rito previsto per la causa in ragione della
quale viene determinata la competenza o, in subordine, quello previsto per la causa di maggior
valore.
Naturalmente valgono anche per le ipotesi di connessione tra cause soggette a riti diversi
ratione temporis le osservazioni svolte sopra (par. 2, C) sull’interpretazione del ripetuto comma
quarto dell’art. 40 c.p.c.; pertanto nella scelta tra vecchio e nuovo rito prevarrà il rito della causa in
ragione della quale si è determinata in concreto la competenza e, quando tutte le cause rientrano
nella competenza originaria dello stesso giudice, quello della causa di molestia o principale o, fuori
dai casi degli artt. 31 e 32 c.p.c., quello della causa di maggior valore (o, nell’ipotesi di cause di
valore indeterminato o uguale il rito vecchio in quanto quello a cui soggiace la causa preveniente).
Per concludere, mi soffermerò brevemente sul meccanismo di trasformazione del rito
conseguente alla riunione delle cause soggette ai riti diversi ratione temporis.
Mi sembra necessario che il mutamento di rito sia esplicitato con una pronuncia ordinaria del
giudice, preceduta dal contraddittorio delle parti sul punto, in analogia con le previsioni degli artt.
426 e 427 c.p.c.: si dovrà quindi adottare una ordinanza di mutamento di rito.
Poiché, peraltro, il rito nuovo è caratterizzato da un regime di decadenza e preclusioni molto più
severo del rito vecchio, non mi sembra si possa porre alcun problema nel passaggio dal rito nuovo a
quello vecchio, mentre nel caso opposto è necessario adottare un meccanismo di coordinamento che
consenta alle parti di adeguare le proprie difese alla struttura del nuovo rito.
A questo scopo mi sembra che la soluzione più semplice sia quella di interpretare
analogicamente l’art. 426 c.p.c. e fissare l’udienza di trattazione ex art. 183 c.p.c., assegnando alle
parti un termine per integrare le difese; salve restando le preclusioni già anteriormente maturate
nella causa attraente secondo il nuovo rito e nella causa attratta secondo il vecchio rito.
Alcuni rilievi sulle attività che è possibile svolgere in sede di udienza di prima comparizione ex art.
180 c.p.c.
Considerazioni sull’ammissibilità dell’ordinanza ex art. 186 quater c.p.c. nel giudizio davanti al
pretore.
È osservazione comune che con la scelta di distinguere tra udienza di prima comparizione (art.
180 c.p.c.) e prima udienza di trattazione (art. 183 c.p.c.) il legislatore ha inteso raccogliere le
sollecitazioni, da più parti levatesi durante la lunga gestazione della riforma, che sottolineavano
l’opportunità di suddividere la fase introduttiva del processo in due udienze, delle quali la prima
destinata a verificare la regolarità e completezza del contraddittorio e la seconda destinata alla
compiuta e definitiva fissazione del tema del decidere.
Tale scelta, fortemente caldeggiata dal ceto forense, presenta peraltro alcuni vantaggi pratici per
lo svolgimento del lavoro giudiziario; infatti, da un lato, la concentrazione in una udienza, che si
può considerare preliminare, delle sole attività di verifica della regolare introduzione del
procedimento elimina quei problemi di programmazione dei tempi di lavoro del giudice per i quali
era stata introdotta la previsione dell’art. 168 bis ultimo comma, c.p.c., in quanto dette attività
normalmente richiedono poco tempo e quindi sono compatibili con la fissazione all’udienza di un
numero di cause anche rilevante, e comunque non programmato; d’altro lato, la concentrazione in
una successiva udienza dell’attività di trattazione vera e propria consente di riservare le udienze di
trattazione solo a quelle cause che effettivamente saranno trattate, essendo state già superate le
questioni preliminari concernenti la costituzione del rapporto processuale.
Ampiamente dibattuto è peraltro il tema della definizione delle attività che possono
legittimamente essere compiute in sede di udienza di prima comparizione.
Al riguardo si sono infatti delineati, nel dibattito svoltosi fino ad ora, un orientamento che
interpreta il catalogo delle attività indicate nel primo comma dell’art. 180 c.p.c. come
(tendenzialmente) esaustivo dei contenuti della udienza di prima comparizione, ed un altro che
invece individua come unico limite alle attività esplicabili in detta udienza quello rappresentato –
per dirlo con la felice ironia di Bruno CAPPONI (Note sui nuovi artt. 180 e 183 c.p.c., in Foro It.
1966, I, 1074) – dalla garanzia che la causa non sia effettivamente trattata nel merito.
Nell’ambito di questa dialettica si collocano i temi della adottabilità in sede di udienza di prima
comparizione dei provvedimenti di concessione o sospensione della provvisoria esecuzione del
decreto ingiuntivo opposto, ovvero di emanazione delle ordinanze anticipatorie di condanna ex artt.
186 bis, ter e quater c.p.c..
1) L’udienza di prima comparizione nel giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo: possibilità di
adottare ordinanze di concessione e sospensione della provvisoria esecuzione del decreto;
individuazione della parte a cui assegnare il termine per la proposizione di eccezioni ex art. 180
c.p.c..
Cominciando dalla questione della possibilità di concedere in udienza di prima comparizione la
provvisoria esecuzione del decreto opposto, si osserva che la tesi che nega detta possibilità si fonda
sostanzialmente su questi argomenti:
1) tendenziale tassatività dell’elenco delle attività da svolgere nell’udienza di prima
comparizione;
2) considerazione del debitore opponente come convenuto in senso sostanziale; da tale
presupposto (in sé del tutto pacifico) si trae la conseguenza (tutt’altro che pacifica) che sia
l’opponente la parte a cui deve essere assegnato il termine per la deduzione delle eccezioni in senso
stretto previsto dall’art. 180 c.p.c.; con la conseguenza ulteriore che non si potrebbe conoscere
dell’istanza di provvisoria esecuzione del decreto prima che sia spirato il termine entro cui
l’opponente ha il diritto di sollevare le proprie eccezioni;
3) la pronuncia sulla provvisoria esecuzione del decreto prima dello svolgimento delle attività
di trattazione previste dall’art. 183 c.p.c. rischia di pregiudicare le possibilità di successo del
tentativo di conciliazione e di formare un titolo esecutivo prima che lo stesso tema del decidere sia
compiutamente definito.
L’orientamento che mi pare prevalga, ed al quale personalmente aderisco, è peraltro nel senso
della ammissibilità della pronuncia di concessione della provvisoria esecuzione del decreto opposto
nell’udienza di cui all’art. 180 c.p.c.
Se infatti non mi sembra decisivo il rilievo che l’art. 648 c.p.c. non contiene previsioni che
ancorino a determinati momenti o fasi processuali l’esercizio del potere del giudice di concedere la
provvisoria esecuzione del decreto – poiché proprio l’assenza di tali previsioni potrebbe imporre di
coordinare il disposto di tale norma con la disciplina dettata in via generale per lo sviluppo del
procedimento (a tacer del rilievo che potrebbe sostenersi la prevalenza del limite posto dall’art. 180,
sulla mancanza di limite posto dall’art. 648, per la prevalenza della legge posteriore) – decisiva mi
pare invece la considerazione, di ordine sistematico, che il sub-procedimento incidentale tendente
alla pronuncia sulla provvisoria esecuzione del decreto costituisce una prosecuzione della fase
monitoria (cfr. Cass. 1410/92), e che il profilo che caratterizza la pronuncia sulla istanza di
concessione della provvisoria esecuzione del decreto opposto è l’avvenuta instaurazione del
contraddittorio (con la conseguente possibilità per l’opponente di dedurre prove scritte a sostegno
dell’opposizione, allegandole alla citazione), non la trattazione di merito della causa di opposizione
(in questi termini, ACIERNO, Gli adempimenti del giudice e le decadenze delle parti ex art. 180 e
183 c.p.c., in Doc. Giust. 1966, pag. 1756). Non mi pare, infine, si debba dare eccessivo peso ai
possibili effetti negativi che la eventuale concessione della provvisoria esecuzione abbia a
determinare sulle possibilità di successo del tentativo di conciliazione: si tratta di un rilievo del tutto
empirico, inidoneo a condizionare l’interpretazione delle norma.
Sottolineo che la questione della concedibilità in prima udienza della provvisoria esecuzione del
decreto opposto non è pregiudicata dalla questione dell’individuazione della parte a cui assegnare
termine di cui al secondo inciso del comma 1 bis dell’art. 180 c.p.c..
Anche ammettendo infatti, ma ne parleremo tra un attimo, che sia l’opponente il soggetto a cui
deve assegnarsi il suddetto termine, nulla vieta all’opponente medesimo di sollevare nella citazione
in opposizione le eccezioni fornite di prova scritta e produrre tale prova scritta entro l’udienza di
prima comparizione; dovendosi anzi ritenere che tale attività difensiva costituisca un onere per
l’opponente che voglia evitare il rischio della provvisoria esecuzione del decreto, salvo peraltro il
suo diritto a dedurre ulteriori eccezioni nel termine di cui all’art. 180 c.p.c., ove si ritenga che detto
termine vada assegnato all’opponente.
Tale ultima questione è peraltro ora necessario esaminare.
Al riguardo si è sostenuto che, trattandosi di un termine relativo all’esercizio di poteri
processuali, si deve aver riguardo alla posizione formale delle parti, con la conseguenza che il
termine vada assegnato all’opposto; tale tesi non mi convince, in quanto, trattandosi di un termine
per la proposizione di eccezioni (oltre che processuali anche) di merito, e quindi di un termine entro
cui si possono allegare fatti impeditivi, modificativi o estintivi del diritto di credito azionato in
giudizio, mi sembra incongrua l’assegnazione di tale termine al creditore.
Per contro, anche l’assegnazione del termine all’opponente mi lascia perplesso; a prescindere
dal rilievo della obbiettiva inutilità di una sorte di “citazione bis”, mi pare che l’assegnazione del
termine all’opponente sia in contrasto con la natura (anche) impugnatoria della opposizione a
decreto ingiuntivo; natura da cui discende l’obbligo, almeno tendenziale, di completezza
dell’esposizione dei motivi nell’atto di impugnazione.
La strada interpretativa che a questo punto mi pare possa aprirsi, e che offro al dibattito, è quella
di assegnare il termine all’opposto, ma solo per la proposizione delle eccezioni volte a paralizzare le
pretese eventualmente spiegate dall’opponente, in via riconvenzionale, nell’atto di citazione
(tornando quindi alla funzione originaria di tale termine, cioè di consentire una comparsa bis); non
assegnando il termine a nessuna delle parti quando l’opponente non abbia spiegato riconvenzionali
e, peraltro, considerando tardive le eccezioni dell’opponente non dedotte nell’atto di opposizione; se
infatti è vero che il secondo comma dell’art. 645 c.p.c. prevede che il giudizio di opposizione a
decreto ingiuntivo si svolge “secondo le norme del procedimento ordinario davanti al giudice
adito”, e pur vero che in tale richiamo, come in tutti i richiami di questo genere, può ritenersi
implicita la clausola “in quanto applicabile”.
Pochissime parole sulla sospensione della provvisoria esecuzione ex art. 649 c.p.c.. Non solo è
ovvio che la pronuncia sull’istanza di sospensiva debba ritenersi possibile in udienza di prima
comparizione da parte di chi ritiene ammissibile in tale udienza la concessione della provvisoria
esecuzione. Ma riterrei che, anche non ammettendo la possibilità di concedere la provvisoria
esecuzione in prima udienza, sia invece da ammettere la possibilità della sospensiva ex art. 649
c.p.c., attesa la natura chiaramente cautelare di detto provvedimento (e ciò a prescindere dalla
questione della soggezione, o meno, del sub-procedimento di cui all’art. 649 c.p.c. alla disciplina
del rito cautelare uniforme, in base all’art. 669 quaterdecies c.p.c.).
2) Possibilità di adottare i provvedimenti di cui agli artt. 186 bis e 186 ter nella udienza di prima
comparizione.
A differenza di quanto argomentato nella ordinanza Pret. Monza 29-9-95 (in Foro It., I, 3298) –
nella quale uno degli argomenti addotti a favore della possibilità di concedere la provvisoria
esecuzione del decreto opposto nell’udienza di prima comparizione è rappresentato dall’analogia tra
tale provvedimento e l’emanazione di una ordinanza ex art. 186 ter c.p.c., sul presupposto della
sicura possibilità di emettere tale ultimo provvedimento nell’udienza di prima comparizione –
ritengo che le differenze tra l’ordinanza ex art. 186 ter e l’ordinanza ex art. 648 c.p.c. siano tali da
non consentire argomentazioni fondate sull’analogia, in relazione al problema che stiamo
esaminando; e che peraltro gli argomenti addotti in quella sentenza, a conferma della possibilità di
emettere l’ordinanza ingiunzionale nell’udienza di prima comparizione, non siano tali da fugare
ogni dubbio al riguardo.
Se infatti è vero che lo stesso legislatore della riforma è quello che ha introdotto l’art. 186 ter,
nel quale è previsto che l’ordinanza ingiunzionale può essere richiesta “in ogni stato del processo”,
entro la precisazione delle conclusioni, il che vuol dire che può essere richiesta fin da quando sia
stato designato l’istruttore (competente ad emettere l’ordinanza) e sia stata verificata la contumacia
o la costituzione del convenuto, è pure vero che la riforma dell’art. 180 c.p.c. risale al 1995, (d.l.
238/95, non convertito e poi reiterato fino alla legge 534/95) ed è quindi posteriore all’introduzione
dell’art. 186 ter; con la conseguenza che la lettura di tale articolo, in relazione alla fase
procedimentale in cui possono essere emanate le ordinanze in esso previste, non può prescindere dal
contenuto dell’art. 180, nuovo testo, c.p.c. (in tal senso, vedi Trib. Roma 25-1-96 in Giur. merito,
1996, I, 211).
Ciò premesso, a me pare che le stesse argomentazioni utilizzate per affermare la possibilità di
concedere nell’udienza di prima comparizione la provvisoria esecuzione del decreto opposto
debbano indurre ad escludere la concedibilità, in detta fase, delle ordinanze previste dagli articoli
186 bis e ter c.p.c..
Se infatti la concessione in prima udienza della provvisoria esecuzione del decreto ingiuntivo
opposto deve ritenersi possibile, perché tale provvedimento si limita ad attribuire efficacia esecutiva
ad un titolo formatosi prima e fuori del giudizio, in un procedimento tipicamente strutturato proprio
sulla mancanza di contraddittorio, diverso appare il discorso per le ordinanze di cui agli artt. 186 bis
e 186 ter c.p.c., ove si tratta di creare ex novo un titolo condannatorio.
In tali ipotesi mi sembra che la trattazione di merito della causa costituisca un antecedente
necessario per l’emanazione delle ordinanze in parola.
Quanto all’ordinanza ex art. 186 bis, lo svolgimento dell’udienza di trattazione appare
indispensabile per verificare, tramite l’interrogatorio libero delle parti e all’esito della precisazione e
modificazioni delle domande ed eccezioni, in tale sede possibili, l’effettiva portata della non
contestazione.
Quanto all’ordinanza ex art. 186 ter, mi pare che, nel procedimento ordinario, non possa
imporsi al convenuto l’onere – che si è invece visto gravare sull’opponente nel giudizio di
opposizione a decreto ingiuntivo – di anticipare alla prima udienza lo svolgimento delle proprie
eccezioni, per le quali ha termine fino a venti giorni prima dell’udienza di trattazione, per evitare il
rischio di subire una ordinanza ingiunzionale; e quindi non possa essere vagliata, fino all’udienza di
trattazione, una istanza di emanazione di ordinanza ex art. 186 ter c.p.c.; istanza che – ove il
convenuto sia costituito (e si tenga presente che il convenuto che non intenda proporre
riconvenzionali, chiamare terzi in causa o eccepire l’incompetenza per territorio derogabile ben può
utilmente costituirsi anche dopo l’udienza di prima comparizione, purché entro il termine assegnato
ai sensi dell’art. 180, comma 1 bis, c.p.c.) – è suscettibile di accoglimento solo in mancanza di
eccezioni fondate su prova scritta.
3) L’ordinanza ex art. 186 quater nel giudizio davanti al pretore.
Tra le moltissime questioni interpretative che sono state sollevate dall’art. 186 quater, e sulle
quali si è già formato un vivace dibattito di dottrina e giurisprudenza, mi sembra interessante
discutere, in un incontro destinato a pretori, proprio il problema della applicabilità di tale
disposizione nel giudizio pretorile.
È stato infatti sostenuto in dottrina (COSTANTINO, La lunga agonia del processo civile, in
Foro It., 1995, V, 330; SCARSELLI, Rilievi problematici sull’ordinanza successiva alla chiusura
dell’istruzione, in Foro It., 1995, I, 3306) che nei procedimenti destinati a concludersi con la
pronuncia immediata della sentenza non vi sarebbe spazio per l’ordinanza ex art. 186 quater.
Al riguardo credo che si debba convenire sul rilievo che tanto nel rito del lavoro, e quindi nelle
controversie di lavoro, previdenziali, agrarie e locatizie, quanto nel giudizio di opposizione alle
ordinanze ingiunzione, non sia possibile applicare l’art. 186 quater.
Per il rito del lavoro, stante la (almeno tendenziale) concentrazione nell’udienza ex art. 420
c.p.c. di tutta la attività processuale (trattazione, istruzione e decisione della causa), dopo
l’esaurimento dell’istruttoria il pretore deve senz’altro invitare le parti a discutere e pronunciare la
sentenza. Non vi è quindi, a mio parere, alcun luogo processuale per l’applicazione dell’art. 186
quater (ammessa invece, nel rito del lavoro, da Pret. Massa 28-8-95, in Foro It., 1995, I, 3014).
Può capitare, e in effetti spesso accade, che, specialmente quando l’istruttoria è stata frazionata
in più udienze, le parti chiedono un rinvio per poter rileggere i verbali di causa e prepararsi con
calma alla discussione, magari depositando note scritte; secondo una prassi diffusa (ma
probabilmente contrastante col divieto di udienze di mero rinvio sancito dall’ultimo comma dell’art.
420 c.p.c.) il pretore concede tale rinvio; si tratta però di prassi che si collocano al di fuori del
modello normativo del processo del lavoro, mentre è con tale modello che va valutata, e quindi
esclusa, la compatibilità dell’art. 186 quater. Va comunque aggiunto che, anche quando venga
concesso un rinvio per discussione, si dovrebbe trattare normalmente di un rinvio estremamente
contenuto, cosicché non dovrebbe nemmeno sorgere l’esigenza pratica dell’ordinanza ex art. 186
quater (se una parte la richieda, il pretore dovrebbe dichiararla inammissibile e contestualmente
invitare le parti a discutere e pronunciare sentenza).
Le stesse conclusioni valgono per il giudizio di opposizione all’ordinanza ingiunzione.
A prescindere dal rilievo che una domanda di condanna al pagamento di somme o alla consegna
o rilascio di beni che debba essere conosciuta col rito di cui all’art. 23 l. 689/81 può concepirsi solo
in caso di connessione tra una causa ordinaria ed una di opposizione all’ordinanza ingiunzione, ex
art. 40, quarto comma, c.p.c., è comunque da escludere che con tale rito sia ammissibile la
pronuncia dell’ordinanza ex art. 186 quater, alla stregua del chiaro disposto del settimo comma del
suddetto articolo 23 l. 689/81 (“Appena terminata l’istruttoria il pretore invita le parti a precisare le
conclusioni ed a procedere nella stessa udienza alla discussione, pronunciando subito dopo la
sentenza mediante lettura del dispositivo”).
Passando al rito ordinario, non vedo alcuna difficoltà nell’applicazione dell’art. 186 quater nei
giudizi soggetti al vecchio rito (in questo senso, Pret. Salerno-Eboli, 2-11-95, in Foro It., 1996, I,
1053).
Quanto al nuovo rito, escludersi – per le medesime considerazioni già svolte a proposito del rito
del lavoro – l’applicabilità dell’art. 186 quater in tutti i casi in cui il pretore scelga di decidere la
causa nelle forme della discussione orale, la quale impone la immediata lettura della sentenza, ex
art. 315 c.p.c..
Residua invece un margine di applicabilità della disposizione in esame nel caso in cui la fase
decisoria si svolga nelle forme della decisione a seguito di trattazione scritta, ex art. 314 c.p.c.; si
tratta peraltro di un margine praticamente abbastanza residuale, tenuto anche conto del fatto che il
termine per il deposito di conclusionali può essere fissato anche a venti giorni, ai sensi del secondo
comma dell’art. 190 c.p.c..
In ultima ipotesi, infine, mi pare si possa riconoscere la possibilità, peraltro di modestissimo
rilievo pratico, della emanazione dell’ordinanza ex art. 186 quater nell’udienza di prima
comparizione ex art. 180 c.p.c., nel caso in cui le parti concordemente chiedano e il giudice,
trattandosi di controversia di mero diritto o comunque documentalmente già istruita con le
produzioni allegate agli atti introduttivi, autorizzi l’omissione della fase di trattazione e passi
senz’altro alla fase decisoria nei modi di cui all’art. 314 c.p.c..
ASPETTI CONTROVERSI IN MATERIA
DI PROCEDIMENTO PRETORILE
Relatore:
dott. Francesco RIZZI
pretore della Pretura circondariale di Torino
SOMMARIO: 1. Fissazione di apposita udienza ai fini dell’ammissione dei mezzi di prova: necessità,
opportunità, esclusione. – 2. Utilizzabilità del termine assegnato dal giudice entro il quale le parti
possono produrre documenti ed indicare nuovi mezzi di prova al fine di: a) dedurre mezzi di prova
in caso di mancata indicazione negli atti introduttivi; b) riformulare i capitoli di prova già dedotti; c)
integrare le liste testimoniali. – 3. Il termine successivo per l’indicazione di prova contraria:
necessità della sua assegnazione al contumace. – 4. Rilevabilità d’ufficio delle decadenze istruttorie.
– 5. Potere del pretore di disporre d’ufficio l’esame dei testi ex art. 312 c.p.c.: a) anche dopo
l’udienza di cui all’art. 184 c.p.c.; b) in relazione a circostanze in ordine alle quali la parte sia
decaduta dall’assunzione della prova ammessa.
1) Fissazione di apposita udienza ai fini dell’ammissione dei mezzi di prova: necessità, opportunità,
esclusione
Nell’affrontare una tematica relativa a specifiche questioni attinenti alla fase delle deduzioni
istruttorie, così come delineata dalla riforma del processo civile operata dalla L. n. 353/90, il tema
attinente all’individuazione dell’udienza nella quale il pretore deve provvedere sulle istanze
probatorie delle parti in causa non appare di scarso rilievo.
Il sistema delle preclusioni, la differenziazione del procedimento in fasi distinte, l’impossibilità
di regresso alle fasi precedenti, la stretta dipendenza del “thema probandum” dal “thema
decidendum” maturato nella fase delle deduzioni di merito, sono tutte circostanze che impongono
una chiara individuazione del momento processuale nel quale il giudice deve provvedere sulle
istanze di parte, radicando così le preclusioni istruttorie.
Il primo problema che dev’essere affrontato è se la netta separazione delineata dalla normativa
tra la fase preparatoria di trattazione e quella di istruzione deve o meno comportare una separazione
della prima udienza di trattazione da quella in cui il giudice provvede sulle istanze istruttorie delle
parti (disponendo, eventualmente, ex art. 202 c.p.c., per l’assunzione alla stessa udienza).
In tre casi (e si parla solo degli specifici casi relativi ai rapporti trattazione-istruzione) non vi è
dubbio che sia così.
La prima ipotesi è contemplata dall’art. 183, 5° comma, c.p.c., che prevede come, concessi i
termini per l’appendice di trattazione scritta, il giudice, con la stessa ordinanza, fissa l’udienza per i
provvedimenti di cui all’art. 184 c.p.c.: udienza che viene definita come di “prosecuzione della
prima udienza” dal PROTO PISANI (1).
A tale udienza, ex art. 184 c.p.c., secondo l’autore, il giudice provvederà o a rimettere la causa
al collegio ex art. 187 c.p.c., o a concedere il termine per le definitive richieste istruttorie o ad
emettere il giudizio di ammissibilità e rilevanza relativo ai mezzi di prova già proposti.
La seconda ipotesi riguarda, appunto, l’assegnazione del termine, previsto dall’art. 184 c.p.c., per
produrre documenti ed indicare nuovi mezzi di prova, da concedersi su istanza di parte. Anche in questo
caso la prima udienza di trattazione non potrà coincidere con quella in cui il pretore provvede sulle
istanze istruttorie, così come nel terzo caso, offerto dalla circostanza che vengano dedotte prove d’ufficio
ex art. 184 , 3° comma, c.p.c. (nel caso, ovviamente che ciò avvenga alla prima udienza di trattazione),
che si accompagnano alla concessione alle parti del termine per dedurre i mezzi di prova che si rendano
correlativamente necessari.
Secondo il PROTO PISANI (2) è unicamente nella prima udienza di trattazione, ai termini
dell’art. 184 c.p.c., che le parti possono proporre istanza di assegnazione del termine entro cui poter,
a pena di decadenza, produrre documenti ed indicare nuovi mezzi di prova, con la conseguenza che
la mancata istanza di parte entro la prima udienza (da intendersi, ai sensi della modifica dell’art. 180
c.p.c., operata dalla L. n. 534/95, quale prima udienza di trattazione) “determina la definitiva
preclusione dei poteri processuali istruttori delle parti nel corso del giudizio di primo grado”.
Questa soluzione deriverebbe, oltre che dalla lettera dell’art. 184 c.p.c., dal sistema delineato
dalla novella n. 353/90, che nel distinguere la fase preparatoria da quella istruttoria individua quale
cerniera tra le due fasi la preclusione definitiva in tema di deduzioni istruttorie ricollegata al
momento immediatamente successivo alla chiusura della fase preparatoria in senso stretto.
In sostanza, a prescindere dalle ipotesi di assegnazione dei termini conseguenti all’esercizio
delle facoltà previste dagli art. 183, 5° comma (per le allegazioni), e 184 c.p.c. (per le offerte di
prove e produzioni), i provvedimenti istruttori del giudice dovrebbero essere pronunciati nella prima
udienza di trattazione anche secondo MANDRIOLI, MONTESANO-ARIETA, OBERTO e
TARZIA (3).
Il COSTANTINO (4) , poi, sottolinea come, in teoria, l’ipotesi fisiologica, ex combinato
disposto degli art. 184 e 202 c.p.c., dovrebbe essere anzi quella dell’immediata assunzione dei
mezzi di prova nella prima udienza di trattazione ( nella quale sono stati ammessi) , giacché l’art.
202 c.p.c. prevede il rinvio delll’udienza solo in caso di impossibilità di procedere all’assunzione.
D’altra parte lo stesso autore sottolinea come l’ipotesi più probabile sarà quella del rinvio
dell’assunzione anche nel caso le parti definiscano in prima udienza di trattazione il thema
decidendum ed il thema probandum, giacché “una corretta gestione delle prime udienze di
trattazione implica che esse siano dedicate esclusivamente alle attività che necessariamente debbono
svolgersi in tale occasione” dovendosi tener conto delle esigenze dell’ufficio giudiziario e
considerato, d’altra parte, che l’art. 80 disp. att. c.p.c., prevede che le prime udienze di trattazione
sono espressamente distinte dalle altre e, in particolare, dalle udienze istruttorie (non si può però,
non rilevare che l’art. 80 disp. att. c.p.c., si riferisce all’udienza di prima comparizione che, a
seguito della nuova formulazione dell’art. 180 c.p.c. ad opera della L. n. 534/95, si differenzia
dall’udienza di trattazione).
In linea di principio sulla base delle stesse posizioni suvviste, ma più elasticamente, il
BALENA (5) sottolinea che, tanto in considerazione della significativa mancata previsione del
divieto delle udienze di mero rinvio (al contrario di quanto previsto dall’art. 420, ult. comma c.p.c.
per il rito del lavoro), quanto perché le attività contemplate dall’art. 183 c.p.c. (come l’interrogatorio
libero) potrebbero richiedere più di un’udienza, le preclusioni relative all’offerta di mezzi di prova,
alle produzioni od alla richiesta di un termine per provvedervi, si produrranno solo in quell’udienza
in cui il giudice, conclusa la trattazione ex art. 183 c.p.c., passerà ad esaminare le istanze istruttorie
delle parti.
Con ancora più flessibilità TARUFFO (6) avverte, d’altra parte, che l’ipotesi in cui il giudice
pronunci ordinanza sull’ammissibilità dei mezzi di prova a conclusione della prima udienza di
trattazione è quanto mai improbabile, oltre che per i motivi suddetti, anche perché l’eventuale
deduzione probatoria effettuata proprio in prima udienza di trattazione può suggerire un rinvio della
decisione qualora appaia opportuno uno spazio di riflessione.
Su un’opposta linea di pensiero si trova quella dottrina universitaria rappresentata dal
SASSANI (7) che rileva come il combinato disposto degli art. 183 e 184 c.p.c. renda “in ogni caso
necessario mantenere distante l’udienza destinata alla fissazione della materia del contendere e
l’udienza destinata alle attività probatorie”.
Sulla stessa linea, più recentemente, MONTELEONE (8) per il quale lo schema tipico del
nuovo processo, dopo l’udienza di prima comparizione e quella di trattazione, prevede una terza
udienza nella quale dovrà stabilirsi se e quali mezzi istruttori ammettere.
Ad avviso di altro autorevole pensiero, il giudice dovrebbe provvedere sulle deduzioni
istruttorie in un’udienza che, di regola , è successiva a quella in cui sono state definitivamente
fissate le deduzioni di merito: è questa l’opinione di CARPI-TARUFFO (9), già parzialmente
anticipata dal secondo autore nel lavoro cui si è fatto riferimento. Difatti, anche nel caso che,
all’udienza di trattazione, non sia stato concesso il termine di cui al 5° comma per le repliche,
modifiche e precisazioni, nondimeno il giudice stesso potrebbe aver bisogno di una pausa di
riflessione, di fronte alle modifiche apportate all’udienza, che potrebbe spingerlo a richiedere
chiarimenti sulle deduzioni o a indicare questioni rilevabili d’ufficio prima di pronunciarsi sulle
prove. In caso contrario nulla vieta al giudice di pronunciarsi immediatamente.
Anche l’ATTARDI (10), d’altra parte, spiega che le deduzioni istruttorie dovrebbero
completarsi all’udienza successiva rispetto a quella che esaurisce le deduzioni di merito ed in tale
udienza il giudice dovrebbe provvedere alla loro ammissione: la fase dedicata all’integrazione delle
deduzioni istruttorie, infatti, è successiva a quella che chiude le deduzioni di merito.
A sommesso avviso di chi scrive, non si può ritenere che alla conclusione della prima udienza
di trattazione (in caso di mancata concessione dei termini su istanza di parte ex art. 183, 5° comma,
e 184 c.p.c. o in caso di mancata disposizione di mezzi di prova d’ufficio) scattino le preclusioni
istruttorie a carico delle parti in causa.
In pratica, sarà possibile (anche se certo non obbligatorio) e, in molti casi, opportuno, che il
giudice, al termine della prima udienza di trattazione, fissi l’udienza per i provvedimenti di cui
all’art. 184 c.p.c.: udienza nella quale le parti ben potranno ancora chiedere il termine per produrre
documenti ed indicare nuovi mezzi di prova.
Difatti, innanzi tutto, come evidenzia lo stesso PROTO PISANI (11) l’art. 184 c.p.c., se prevede
come perentori i termini concessi dal giudice ai sensi del primo comma, non prevede affatto che le
parti debbano richiedere tali termini entro la prima udienza di trattazione.
Inoltre, il rigido sistema di divisione del procedimento in fasi, introdotto dalla novella, non può
che trovare conferma nella separazione materiale dell’udienza di trattazione, che definisce il thema
decidendum nel momento in cui si completano le deduzioni di merito, dall’udienza deputata alla
definizione del thema probandum attraverso il giudizio di ammissibilità e rilevanza delle deduzioni
istruttorie (o la concessione del termine per integrarle). D’altra parte, mentre l’art. 180 c.p.c. prende
in considerazione la prima udienza del giudizio (di comparizione), l’art.183 c.p.c. si riferisce (anche
in epigrafe) alla “prima” udienza di trattazione indicando quali sono le specifiche attività (attinenti
alla fase delle deduzioni di merito del giudizio) che nella stessa debbono essere compiute.
Appare coerente con la logica sistematica della riforma, quindi, che vi sia una successiva
(seconda) udienza (di trattazione) deputata all’assunzione di quei provvedimenti, previsti dall’art.
184 c.p.c., finalizzati alla cristallizzazione del thema probandum. Nei lavori preparatori, d’altra
parte, come ricordano VERDE-DI NANNI (12) la cosiddetta udienza d’istruzione costituiva un
segmento a sé stante.
Non pare inutile sottolineare che separare l’udienza ex art. 183 c.p.c., che individua le deduzioni
di merito, da quella successiva, che definisce le deduzioni istruttorie (e chiude, così, la fase
preparatoria) appare quanto mai opportuno in relazione alle attività da svolgere nella prima udienza
di trattazione. Dopo l’esperimento dell’interrogatorio libero, del tentativo di conciliazione, dopo la
richiesta di chiarimenti del giudice e l’indicazione delle questioni rilevabili d’ufficio, l’eventuale
precisazione e modificazione delle domande ed eccezioni, a buona ragione le parti ed il giudice
possono ritenere quanto mai opportuno il rinvio dell’udienza per i provvedimenti ex art. 184 c.p.c.,
giacché proprio in base alla valutazione complessiva delle suddette risultanze d’udienza, le parti
stesse potranno decidere se richiedere alla successiva udienza o meno l’ammissione dei mezzi di
prova già proposti od il termine per l’integrazione delle deduzioni e produzioni.
Infine, l’applicazione concreta che della riforma è già stata fatta da chi scrive, conduce a
rilevare come, in prima udienza di trattazione, il tentativo di conciliazione difficilmente si conclude
con la redazione del verbale ex art. 185 c.p.c..
Le parti, infatti, anche se il tentativo è ben avviato (e praticamente concluso) preferiscono
(probabilmente anche per non dover sopportare le spese di registro, che ultimamente sono molto
aumentate) chiudere la vertenza con un accordo stragiudiziale, lasciando cancellare la causa dal
ruolo ex art. 309 c.p.c..
In tal caso, quanto mai opportuno appare un rinvio ex art. 184 c.p.c. all’udienza deputata
all’emissione dei provvedimenti istruttori, soprattutto nel caso che le parti debbano ancora definire i
dettagli della conciliazione e si ripromettano di farlo prima dell’udienza successiva.
In tal modo il giudice potrà fissare un congruo numero di rinvii di cause di questo tipo ad
un’udienza unica, senza dover rinviare ogni causa a singole udienze private, soddisfando così
evidenti esigenze di gestione del ruolo.
Se, poi, all’udienza ex art. 184 c.p.c., le parti non si saranno ancora conciliate, ma la vertenza
sia in via di risolutiva definizione (come spesso succede), ben potrà essere concesso, su richiesta (e
solo allora sarà opportuno farlo, sia per non precludere un’ulteriore possibilità di rinvio, sia per non
imporre immediatamente termini perentori alle parti che stanno tentando di conciliare la vertenza) il
termine di cui all’art.184, 1° comma, c.p.c..
All’udienza successiva, infine, o si provvederà ex art. 309 c.p.c. o si emetteranno
(eventualmente a seguito di riserva) i provvedimenti istruttori del caso.
Né mi pare esatto sostenere che lo stesso risultato si raggiunge concedendo i termini ex art. 180,
2° comma, c.p.c., per la comunicazione di comparse. Difatti, innanzi tutto, a parere di chi scrive, il
principio di oralità dovrebbe divenire, anche da un punto di vista formale, uno dei cardini intorno ai
quali impostare la gestione di un processo improntato a canoni di concentrazione, immediatezza ed
economia processuale e, di conseguenza, del tutto inopportuna apparirebbe la scelta di concedere
alle parti la facoltà strumentale di depositare memorie (per le quali, tra l’altro, non è previsto un
limite).
Più coerente con i principi suddetti appare, invece, la concessione di specifici e finalizzati rinvii
che rispettino la sequela procedimentale prevista dalla riforma impedendo al giudizio di invischiarsi
in uno stato di totale inerzia che può durare anni. Le parti, invece, devono essere stimolate a trovare
la conciliazione nel limite stabilito dalle due successive fissazioni d’udienza previste ex art. 184
c.p.c. al termine delle quali si dovrà provvedere ad istruire la causa.
D’altra parte, la stessa Corte Costituzionale, con ordinanza n. 302 del 1986, pur in riferimento
al rito del lavoro, rispetto al quale l’art. 420, 12° comma, vieta espressamente le udienze di mero
rinvio, ha spiegato che la pendenza di trattative stragiudiziali costituisce motivo che giustifica il
rinvio non mero dell’udienza di discussione.
2) Utilizzabilità del termine assegnato dal giudice entro il quale le parti possono produrre
documenti ed indicare nuovi mezzi di prova al fine di:
a) dedurre mezzi di prova in caso di mancata indicazione negli atti introduttivi;
b) riformulare i capitoli di prova già dedotti;
c) integrare le liste testimoniali.
Per poter rispondere al quesito relativo all’utilizzabilità del termine ex art. 184, 1° comma,
c.p.c., ai fini di cui in epigrafe, è necessario interrogarsi sul significato dell’espressione “nuovi
mezzi di prova” che, appunto, possono essere indicati dalle parti previa assegnazione del termine de
quo.
La risposta al quesito suddetto non potrebbe che essere negativa se si ritenesse che la locuzione
“nuovo mezzo di prova” stia necessariamente ad indicare l’esistenza di altre prove già
precedentemente indicate dalle parti.
In tal caso la conseguenza sarebbe che il termine ad integrazione potrebbe essere assegnato solo
in caso che mezzi di prova siano già stati dedotti in precedenza (preferibilmente, ma non
necessariamente, negli atti introduttivi, come previsto dagli art. 163, 3° comma, n. 5 e 167 c.p.c.) e
che quelli da dedursi siano qualificabili come “nuovi” (e, cioè, che non siano già stati proposti, che
siano di tipo diverso da quelli proposti o che, almeno, siano destinati a provare fatti del tutto
distinti).
In senso ancora diverso (e, parzialmente, più restrittivo) VERDE-DI NANNI (13) spiegano
come la disposizione dovrebbe intendersi nel senso che i documenti ed i nuovi mezzi di prova sono
solo quelli che si sono resi necessari a seguito delle attività consentite alle parti dal 4° comma,
dell’art. 183 c.p.c.
Non è però, questa l’interpretazione che il pensiero maggioritario ha offerto della norma in
questione.
TARUFFO (14) ha infatti sottolineato che nessuna sanzione di nullità o decadenza è prevista
per la mancata indicazione negli atti introduttivi dei mezzi di prova. Deve, inoltre, sottolinearsi che,
a differenza di quanto avviene nel rito del lavoro ex art. 420, 5° comma, che specifica come le parti
possono proporre all’udienza solo i nuovi mezzi di prova “che non abbiano potuto proporre prima”,
nessuna restrizione del genere sussiste nell’art. 184 c.p.c., per cui pare di poter concludere che le
parti si possano ritenere libere di integrare od anche di effettuare totalmente le loro richieste
istruttorie non oltre il termine concesso all’udienza ex art. 184 c.p.c., valevole anche per le
produzioni documentali. È questa la posizione della dottrina maggioritaria (15).
Incidentalmente, pare opportuno sottolineare che la concessione del termine è un obbligo per il
giudice (che “assegna” il termine); che la durata massima del termine che il giudice concede non è
indicata dall’art. 184 c.p.c.; che nulla vieta alle parti di dedurre le prove (e di produrre i documenti)
alla stessa udienza, senza bisogno di chiedere alcun termine (giacché il giudice, ex art. 184, 1°
comma, c.p.c., ammette i mezzi di prova “proposti”).
Per quanto riguarda, quindi, i limiti di utilizzabilità del termine ex art. 184, 1° comma, c.p.c.,
ATTARDI (16) specifica che le parti possono liberamente avanzare nuove richieste istruttorie
integrando quelle contenute negli atti difensivi: in pratica, possono liberamente avanzare altre
deduzioni istruttorie.
Venendo più in particolar modo a trattare della prova testimoniale, si può sottolineare che
l’abrogazione dei commi 2° e 3° dell’art. 244 c.p.c. ha ricondotto la normativa particolare in tema di
modalidà di deduzione e controdeduzione della prova testimoniale al regime generale delle
preclusioni che riguarda tutti i mezzi di prova.
OBERTO (17), affrontando specificamente l’argomento, ha sottolineato che il potere del
giudice di concedere alle parti un termine per l’indicazione di nuovi mezzi di prova consente alle
stesse la possibilità di formulare ex novo capitoli di prova, la possibilità (argomentando a fortiori
dalla prima) di riformulare i capi già dedotti e di integrare le indicazioni testimoniali; tutto ciò
subordinatamente all’istanza di parte.
Anche BALENA e TARZIA (18) sottolineano che la disposizione dell’art. 184 , 1° comma,
c.p.c. che prevede la concessione del termine perentorio entro il quale le parti possono indicare
nuovi mezzi di prova ha sostanzialmente assorbito quelle, specificamente concernenti la prova
testimoniale, già contenute nei commi 2° e 3° dell’art. 244 c.p.c..
Detto questo, alcune ulteriori notazioni appaiono pertinenti a chi scrive.
Ritenere che le parti possano utilizzare il termine ex art. 184, 1° comma, c.p.c., al fine di
dedurre ex novo capi di prova o di riformulare quelli già dedotti consente di offrire una coerente
interpretazione sistematica del combinato disposto degli artt. 163, 3° comma, n. 5, 167 e 184 c.p.c.
Le prime due disposizioni prevedono, rispettivamente in relazione all’atto di citazione ed alla
comparsa di risposta, come gli atti introduttivi “debbano” contenere l’indicazione specifica dei
mezzi di prova e dei documenti offerti in comunicazione.
Tutto ciò, peraltro, senza prevedere, come già sottolineato, alcuna decadenza o nullità in caso
che ciò non avvenga (come si evince dal combinato disposto degli artt. 163, 164, 167 e 171 c.p.c.
che individuando specificamente i casi di nullità e decadenza non fanno cenno alcuno alla mancanza
delle deduzioni istruttorie negli atti introduttivi) nonostante che la deduzione delle prove si inserisca
nella fase preparatoria al fine di consentire un concentrato svolgimento delle fasi processuali e che
la previsione di una loro indicazione negli atti introduttivi sia in linea con il principio di eventualità
che permea la riforma.
Tali disposizioni però, assumono una concreta rilevanza proprio in relazione alla norma dell’art.
184, 1° comma c.p.c..
Difatti, se l’attore od il convenuto non deducono i rispettivi strumenti istruttori negli atti
introduttivi, saranno costretti, in linea di massima, appunto, ad utilizzare il termine concesso dal
giudice all’udienza ex art. 184 c.p.c. per (ad es.) capitolare le prove testimoniali, con la conseguenza
che, in caso di capitolazioni (ad es.) generiche, le loro istanze dovranno essere dichiarate “tout
court” inammissibili, senza che il giudice possa concedere loro il termine per riformulare i capitoli;
cosa che, invece, ben potrà fare (su richiesta, eventualmente subordinata in caso di riserva del
giudice, che ben può avvisare le parti, in caso di riserva, della possibilità di tale richiesta
subordinata) se i capitoli di prova inammissibili siano già stati formulati in atto di citazione od in
comparsa di risposta e ne sia stata chiesta l’ammissione.
In pratica, l’inerzia delle parti rispetto alle previsioni di cui agli artt. 163, 3° comma, n. 5 e 167
c.p.c. le espone al rischio della pronuncia di inammissibilità (od irrilevanza) delle deduzioni
istruttorie, senza che il giudice possa loro concedere il termine per riformulare i capitoli.
Tutto quanto suddetto opera sia in relazione alla prova diretta che alla prova contraria, per
l’indicazione della quale l’art. 184, 1° comma, c.p.c. prevede la concessione di altro termine
successivo. Le relative preclusioni condizionate alla scadenza del termine ulteriore operano, poi,
tanto per la prova contraria diretta che per la prova contraria indiretta, vertente cioè su fatti diversi
dai quali possa dedursi la insussistenza dei fatti così come allegati dal deducente (19).
È da notare che il termine per la deduzione della prova contraria ben potrà essere richiesto, ai
sensi dell’art. 184, 1° comma, c.p.c., anche se l’attore si limita a chiedere l’ammissione della prova
diretta già dedotta in precedenza nell’atto introduttivo.
Un’ulteriore notazione appare opportuna in relazione alla possibilità (che, come detto, risulta
pienamente sussistente) che il giudice conceda il termine di cui sopra ai fini di consentire
semplicemente l’integrazione della lista testimoniale.
Vigente l’art. 244 c.p.c. nella vecchia formulazione, si consentiva (20) l’indicazione dei testi
anche successivamente al momento di ammissione della prova testimoniale, fissando un termine
perentorio per tale indicazione (solitamente coincidente temporalmente con l’udienza di
assunzione).
A parere di chi scrive, la formulazione del combinato disposto degli artt. 244 e 184, 1° comma,
c.p.c. non consente più la possibilità di ammettere le prove testimoniali delle parti concedendo
l’ulteriore termine per l’indicazione dei testi.
L’art. 244 c.p.c., infatti, recita che la prova per testimoni dev’essere dedotta mediante
indicazione specifica delle persone da interrogare: ciò vuol dire che se le persone da interrogare non
sono indicate la deduzione testimoniale risulta inammissibile e come tale dev’essere dichiarata dal
giudice.
Né, d’altra parte, il disposto dell’art. 184 c.p.c. può essere utilizzato per la concessione di un
termine per indicare i testi, o anche semplicemente per integrare le indicazioni, dopo il
provvedimento d’ammissione.
Difatti, la norma dispone che il giudice “ammette” i mezzi di prova proposti; “ovvero... rinvia
ad altra udienza”, assegnando un termine (utilizzabile, come detto, anche al fine di indicare i testi).
Come specifica il PROTO PISANI (21) quando la parte chiede il termine ex art. 184 c.p.c. (bisogna
sottolineare, a prescindere dalle specifiche finalità istruttorie per cui lo chiede) il giudice non
provvede sull’ammissione, ma rinvia ad altra udienza nella quale provvederà alle valutazioni di
ammissibilità e rilevanza e disporrà per l’assunzione ai sensi degli artt. 202 c.p.c. e 81, 2° comma,
disp. att. c.p.c..
La necessità che il giudice ammetta le prove solo quando le stesse sono definite nella loro
integralità non solo è previsto, come detto, dall’art. 184 c.p.c., ma consente al giudice, ex art. 245,
1° comma c.p.c., non solo di ridurre preventivamente le liste sovrabbondanti, ma anche di evitare
che vengano ammesse prove testimoniali che risulteranno in seguito inammissibili nel caso che la
parte cui sia stato concesso il termine non indichi alcun teste (fattispecie che talvolta capitava nella
vigenza del vecchio rito) o indichi uno o più testi tutti incapaci a deporre.
D’altra parte, ad avviso di chi scrive, una completa ed esaustiva definizione del thema
probandum non può prescindere dell’individuazione complessiva dei testi e, di conseguenza, solo di
fronte ad una deduzione istruttoria compiuta ed integrale il giudice potrà emettere, al termine della
fase preparatoria, i provvedimenti ammissivi dei mezzi di prova.
3) Il termine successivo per l’indicazione di prova contraria: necessità della sua assegnazione al
contumace
L’interprete, nell’esegesi dell’art. 184, 1° comma, c.p.c., nella parte in cui specifica che il
giudice, su istanza di parte, rinvia ad altra udienza assegnando un termine alle parti per produrre ed
indicare (nuovi) mezzi di prova “nonché altro termine per l’eventuale indicazione di prova
contraria” può essere colto dal dubbio che il giudicante, una volta sollecitato da una parte a
concedere il primo termine, sia poi tenuto, d’ufficio, a concedere “l’altro” termine per l’indicazione
di prova contraria e, quindi, sia tenuto a concederlo anche al contumace. Analogo problema di
concessione di termini al contumace, infatti, si prospetta, seppur per una fattispecie del tutto diversa
(e con soluzione non necessariamente simile), in relazione all’art. 180, 2° comma, c.p.c..
Ad avviso di chi scrive, una interpretazione sistematica dell’art. 184 c.p.c. dovrebbe condurre
ad ammettere una tale eventualità.
MANDRIOLI, al contrario, (22) specifica che “l’altro termine” previsto dall’art. 184 c.p.c., e
che dev’essere deputato alla deduzione della prova contraria, potrà essere “chiesto” dall’altra parte.
Non dovrà, quindi, essere assegnato d’ufficio dal giudice.
D’altra parte, si potrebbe argomentare, il primo periodo del 1° comma dell’art. 184 specifica
che il giudice ammette i mezzi di prova “proposti” dalle parti, il che potrebbe valere anche per la
prova contraria.
Nel caso, poi, in cui venga concesso il termine ad integrazione delle deduzioni (e produzioni) la
norma chiarisce che il rinvio ad altra udienza (con relativa assegnazione del termine per dedurre
nonché di altro termine per l’indicazione di prova contraria) avviene su “istanza di parte” (e non
certo d’ufficio), dove l’istanza di parte condiziona e sostiene, si potrebbe affermare, non solo la
concessione del primo termine, ma anche quella del secondo per la deduzione della prova contraria
(definita, tra l’altro, “eventuale”).
D’altra parte, anche sotto la vigenza dell’abrogato terzo comma dell’art. 244 c.p.c., che
consentiva al giudice di assegnare un termine per formulare o integrare le indicazioni relative alla
prova (diretta e) contraria, si specificava (23) che tale potere presupponeva che l’istante avesse
richiesto l’ammissione della prova (diretta o) contraria non potendo il giudice violare il principio di
disponibilità delle prove differendo la decisione (in questo caso, relativamente all’ulteriore termine
da concedersi al contumace) al fine di consentire la deduzione di una prova testimoniale non
richiesta.
La dottrina maggioritaria è però, di parere opposto. TARZIA (24) sostiene che se anche una sola
delle parti ritiene di dover integrare le proprie deduzioni istruttorie ex art. 184, 1° comma, c.p.c., il
giudice dovrà concedere eguale termine ad “entrambe” le parti per questo adempimento “nonché il
termine, sempre comune alle parti, per l’indicazione di prova contraria”. Anche MONTELEONE e
MONTESANO-ARIETA sono sulla stessa linea interpretativa (25) così come CAPUTO (26) che,
appuntandosi espressamente sul secondo termine ex art. 184 c.p.c., specifica che “per venire
incontro alle esigenze della difesa, la norma poi dispone che il giudice, nell’assegnare il detto
termine, concede alle parti un secondo termine per l’eventuale indicazione di prove contrarie”.
Tale interpretazione appare a chi scrive preferibile, sulla base della stessa lettera della legge.
L’art. 184, 1° comma, seconda parte, c.p.c., infatti, recita che il giudice ... su istanza di “parte”,
rinvia ad altra udienza, assegnando un termine entro il quale “le parti” possono produrre documenti
ed indicare nuovi mezzi di prova, nonché altro termine per l’indicazione di prova contraria.
Dal che si desume come sia sufficiente l’istanza di una sola parte perché il termine sia assegnato
ad entrambe.
Ora, su tali basi, anche in caso di contumacia, si può certamente sostenere che il termine per
l’indicazione di prova contraria (il termine per indicare nuovi mezzi di prova pone il problema, cui
si accenna infra, relativo alle ormai formatesi preclusioni del “thema decidendum” ex art. 183 c.p.c.)
debba essere concesso al convenuto giacché l’esigenza di “controdedurre” nasce dalla richiesta del
termine effettuata dalla parte costituita e perché “l’eventualità” (contemplata dalla norma) di
indicare la prova contraria non può che valutarsi sulla base della prova che sarà dedotta entro il
termine perentorio assegnato al richiedente.
Ne discende che il contumace deve vedersi assegnato il termine (anche se non richiesto) per
l’indicazione di prova contraria (che, sia detto per inciso, vale anche per le produzioni documentali).
D’altra parte, sotto un profilo sistematico, il secondo comma dell’art. 244 c.p.c., ormai
abrogato, ben prevedeva che la parte contro la quale la prova veniva proposta potesse indicare, nella
prima risposta, la prova contraria e nessuno dubitava che il convenuto contumace, costituitosi prima
che intervenisse il provvedimento di ammissione della prova diretta, avesse la facoltà di articolare la
prova contraria diretta od indiretta che fosse. Come detto, le disposizioni del secondo e terzo
comma dell’art. 244 c.p.c. si ritengono assorbite dalla nuova formulazione dell’art. 184 c.p.c..
In altra e più approfondita prospettiva, poi, appare opportuno sottolineare che un’eventuale
termine per dedurre la prova contraria può essere concesso al contumace, ovviamente, solo nei
limiti in cui è compatibile con le preclusioni di merito radicatesi con la definizione del thema
decidendum e condizionanti il thema probandum.
Questo è il motivo, sia detto tra parentesi e per inciso, per cui lo stabilire se al contumace possa
essere concesso anche il termine per indicare nuovi mezzi di prova (una volta che la parte costituita
abbia avanzato tale richiesta al giudice) dipende essenzialmente dalla posizione che si intende
assumere circa la possibilità, una volta ultimata la fase preparatoria in senso stretto ex art. 183 c.p.c.,
di allegare nuovi fatti, di sollevare eccezioni processuali e di merito rilevabili d’ufficio, di allegare
fatti secondari. L’interpretazione che, a giudizio di chi scrive, è condivisibile, e che limita il rilievo
d’ufficio ai soli fatti tempestivamente allegati esclude la possibilità di dedurre capi di prova su fatti
non introdotti (ancora) nel giudizio dal contumace e, quindi gli preclude la possibilità di dedurre. Le
posizioni della dottrina, comunque, sono divise (27).
Riprendendo il discorso sulla prova contraria, il PROTO PISANI (28) specifica con molta
chiarezza che, in ipotesi di contumacia del convenuto, non dandosi corpo a fattispecie di non
contestazione, l’attore sarà onerato della prova dei fatti costitutivi posti a fondamento della sua
azione.
Il contumace costituitosi tardivamente, quindi, potrà liberamente prendere posizione sui tali fatti
costitutivi poiché più che contestarli non potrà fare (confermando il loro bisogno di essere provati),
ma non potrà articolare prova contraria se non verrà rimesso in termini ai sensi dell’art. 294 c.p.c..
A parere di chi scrive, tale tesi va parzialmente condivisa, ma ampliata nel senso e nel limite
che non potendo (a mio avviso, sulla falsariga di autorevole dottrina) più proporre eccezioni in
senso stretto, né domande riconvenzionali, né chiamate in causa di terzi e, soprattutto, neppure
potendo allegare “ex novo” “fatti” fondanti un’eccezione impropria (e, cioè, fatti estintivi,
impeditivi o modificativi del diritto di controparte) rilevabile d’ufficio (come l’eccezione di
pagamento) il convenuto costituitosi tardivamente, oltre i termini ex art. 183, 5° comma, c.p.c., non
potrà (essendo ormai limitato il thema decidendum) chiedere l’ammissione di prove testimoniali
contrarie indirette (che devono essere autonomamente articolate, sulla base di fatti nuovi e diversi,
rispetto alla prova diretta), ma potrà essere ammesso alla prova contraria diretta (articolata, a
contrario, sugli stessi capitoli di controparte) e, quindi, il termine per “controdedurre” gli dovrà
essere concesso.
4) Rilevabilità d’ufficio delle decadenze istruttorie
Dopo che sono state definitivamente fissate le deduzioni di merito, il giudice provvede sulle
deduzioni istruttorie delle parti: il thema decidendum condiziona il thema probandum.
Ai sensi dell’art. 184 c.p.c., quindi, il giudice o ammette le prove già dedotte oppure concede il
richiesto termine per le integrazioni istruttorie (anche documentali) con relativo termine ulteriore
per l’indicazione di prova contraria.
Se le parti non fanno richiesta del termine (ed il giudice provvede sulle richieste avanzate) o se lo
stesso è scaduto, le preclusioni scattano, come fa notare l’ATTARDI (29). Ovviamente anche per le
prove documentali.
D’altra parte, come sottolinea il PROTO PISANI (30) la novella ha introdotto un processo
suddiviso per fasi e caratterizzato dalla netta (seppur a volte tendenziale) distinzione tra la fase
preparatoria e la fase istruttoria con la previsione di una preclusione definitiva in tema di deduzioni
istruttorie ricollegata al momento immediatamente successivo alla chiusura della fase preparatoria.
Una volta maturate, tali preclusioni sono rilevabili d’ufficio dal giudice ad avviso di chi scrive,
sulla falsariga di quanto avviene per le deduzioni di merito, giacché le preclusioni relative sono
poste a tutela dell’interesse pubblico (che caratterizza l’intera riforma) ad un sollecito ed ordinato
svolgimento del processo che, evitando sovrapposizioni tra le diverse fasi processuali, eluda
situazioni di confusione ed impedisca quegli atteggiamenti dilatori che contribuivano a ritardare
sine die la soluzione della vertenza processuale.
La tesi della rilevabilità d’ufficio delle decadenze istruttorie trova conforto nella previsione
dell’art. 184, 2° comma, c.p.c., che individua come perentori i termini per integrare le deduzioni
istruttorie e nella tesi che nel caso di violazione di termini perentori scorge una fattispecie di nullità
insanabile, che si combina con il fenomeno della decadenza, riconducibile alla categoria
dell’inammissibilità e rilevabile anche in difetto d’istanza di parte: così PICARDI (31).
È appunto sul presupposto della perentorietà dei termini che BUCCI-CRESCENZI-MALPICA
reputano facoltà del giudice rilevarne d’ufficio l’eventuale inosservanza (32).
D’altra parte si deve sottolineare che tali rilievi, seppur pregnanti, non sono decisivi, giacché il
nostro ordinamento conosce casi di termini perentori cui ricollega anche effetti estintivi che non
sono rilevabili d’ufficio dal giudice pur operando ipso iure: paradigmatico è il caso dei termini
perentori di cui all’art. 307, 1° e 3° comma c.p.c., relativi alla riassunzione del giudizio, rispetto alla
rilevabilità dell’estinzione del processo in caso di mancato rispetto dei termini stessi (che dev’essere
eccepita dalla parte interessata).
Non si può non sottolineare, inoltre, che la prassi nella vigenza del terzo comma dell’art. 244
c.p.c., che consentiva al giudice di assegnare un termine perentorio alle parti per integrare le
indicazioni istruttorie, era nel senso di ritenere sanata per acquiescenza la decadenza relativa al
mancato rispetto del termine stesso, trattandosi di decadenza stabilita a tutela esclusiva degli
interessi delle parti (33).
Difatti, TARUFFO (34) si limita ad auspicare un’interpretazione giurisprudenziale rigorosa, ma
non si nasconde che tale esito non si ricava indiscutibilmente dalla disciplina della fase preliminare.
Decisive, invece, sono le considerazioni, svolte dal CHIARLONI (35), relative al fatto che un
sistema processuale imperniato sulle preclusioni non può funzionare se non si affida al giudice per
garantirne l’osservanza. La normativa in tema di preclusioni, quindi, è dettata dall’interesse
pubblicistico al corretto, razionale ed efficiente funzionamento del nuovo giudizio civile e, quindi,
le sue violazioni sono rilevabili d’ufficio, come conviene anche il MANDRIOLI (36).
PROTO PISANI (37) pur condividendo la tesi che a livello di regola generale le preclusioni
sono rilevabili d’ufficio, spiega che tale potere d’ufficio troverebbe un limite invalicabile in un
esplicito accordo delle parti volto a consentire il superamento delle preclusioni che però, deve
necessariamente avvenire nel rispetto delle forme indicate dall’art. 306, 2° comma, c.p.c. per la
rinuncia agli atti del giudizio e, cioè, o a mezzo di procuratore speciale o personalmente.
Critico è il CHIARLONI (38) nei confronti di questa estrema possibilità lasciata alle parti di
disporre delle preclusioni, giacché l’art. 306 consente alle parti di disporre del “se” del processo, ma
non del “come” dello stesso e poiché in caso di contumacia del convenuto, non essendo necessaria
la rinuncia agli atti del giudizio, simmetricamente l’attore dovrebbe poter disporre unilateralmente
delle preclusioni, conclusione che si reputa inaccettabile.
I motivi di ordine generale che sottendono la riforma del codice mi sembra che tendano ad
escludere che le parti (pur potendo disporre del giudizio ponendovi fine ed accordandosi sui diritti
controversi) possano influenzare le specifiche modalità attraverso le quali il processo deve svolgersi
per poter rappresentare, nei confronti della generalità dei consociati, uno strumento di razionale e
celere soluzione dei conflitti sociali, atto, quindi, a soddisfare compiutamente quel diritto alla tutela
giurisdizionale sancito dall’art. 24 della Costituzione.
5) Potere del pretore di disporre d’ufficio l’esame dei testi ex art. 312 c.p.c.:
a) anche dopo l’udienza di cui all’art.184 c.p.c.;
b) in relazione a circostanze in ordine alle quali la parte sia decaduta dall’assunzione della prova
ammessa.
Per poter rispondere ai quesiti di cui in epigrate è opportuno inquadrare i poteri istruttori del
pretore ex art. 312 c.p.c., relativi alla formulazione d’ufficio della prova testimoniale, nell’ambito
del sistema normativo processuale.
Il mezzo di cui sopra è ricompreso nella fattispecie generale dei mezzi di prova disponibili
d’ufficio cui fa riferimento l’art. 184, 3° comma, c.p.c. nello statuire che, in caso uno di tali mezzi
di prova sia disposto dal giudice, questi dovrà assegnare alle parti un termine perentorio per dedurre
gli strumenti istruttori che si rendano necessari in relazione ai primi.
PROTO PISANI (39) individua tali mezzi di prova nell’ispezione di persone e cose ex art. 118
c.p.c., nella testimonianza di riferimento ex art. 257 c.p.c., nel giuramento suppletorio ed estimatorio
ex art. 240 e 241 c.p.c., nella consulenza tecnica ex art. 191 c.p.c. (nei limiti in cui vengano
demandate ispezioni) e, appunto, nella prova testimoniale disposta d’ufficio dal pretore ex art. 312
c.p.c..
Sotto la vigenza del vecchio rito era stato genericamente affermato (40) che il regime di
decadenza dei poteri istruttori ufficiosi vincolerebbe il giudice allo stesso modo e negli stessi
termini in cui vincola le parti, ma l’opinione maggioritaria (41) è sempre stata dell’avviso che i
poteri del giudice ex art. 317 c.p.c. (ora 312) sono esercitabili senza limiti temporali e, addirittura,
dopo il passaggio in decisione della causa.
Una parte della dottrina che si è espressa sull’argomento in relazione alla riformata fase
istruttoria è dell’avviso che le preclusioni istruttorie vincolino anche la disposizione d’ufficio di
mezzi istruttori, non più ammissibile oltre la prima udienza di trattazione per MONTESANOARIETA, od oltre l’udienza successiva per CAPPONI (42), che si riferisce espressamente al potere
ex art. 312 c.p.c.
PROTO PISANI (43), pronunciandosi in relazione alla disciplina vigente dopo la novella,
spiega che il potere istruttorio d’ufficio non è subordinato agli stessi termini di decadenza previsti
per le deduzioni istruttorie delle parti. Specifica, inoltre, giustamente, che la previsione nel rito
ordinario di poteri istruttori d’ufficio non soggetti a decadenza non è destinata a porre grossi
problemi, sia per il carattere quantitativamente limitato di tali poteri, sia perché la maggioranza di
essi (il giuramento suppletorio, quello estimatorio, la testimonianza di riferimento e spesso la
consulenza tecnica) presuppongono che le prove su istanza di parte siano state non solo già
richieste, ma anche già acquisite. Non vi è motivo per ritenere che la fattispecie di cui all’art. 312
c.p.c. faccia eccezione alla regola.
Della stessa opinione si dimostra BALENA (44) il quale individua come ordinaria l’ipotesi in
cui il giudice, ex art. 184, 3° comma, c.p.c., disporrà d’ufficio ulteriori mezzi di prova dopo
l’assunzione delle prove dedotte dalle parti. Anche TARZIA e CAPUTO (45) sottolineano che il
giudice può sollecitare l’ammissione ufficiosa di prove in qualunque momento del processo e che
tale potere non è soggetto a termini di decadenza.
Credo, inoltre, che si possa rilevare come il dettato dell’art. 184 c.p.c. sia chiaro nel riferire le
decadenze istruttorie (con relativo richiamo ai termini perentori per la deduzione) alle fattispecie del
primo e secondo comma e, cioè, alle prove “proposte” dalle parti, e non alla fattispecie di cui al
terzo comma, relativa ai mezzi di prova disposti d’ufficio.
Essendo pienamente inquadrabile l’art. 312 nella fattispecie generale dei mezzi di prova
disponibili d’ufficio, allo stesso si applicherà integralmente il disposto dell’art.184, 3° comma,
c.p.c., relativo alla concessione alle parti del termine per dedurre a loro volta i mezzi di prova che si
rendano correlativamente necessari.
PROTO PISANI (46), spiegando come tale facoltà vada intesa come possibilità, per le parti, di
articolare la prova contraria, asserisce che la stessa facoltà sussiste anche se per tale prova sono già
maturate le preclusioni di cui all’art.184, 1° e 2° comma, c.p.c..
È possibile, poi, che il pretore disponga d’ufficio la prova testimoniale in ordine a circostanze
rispetto alle quali la parte, ex art. 208 c.p.c., sia decaduta dall’assunzione della prova ammessa in
precedenza, appunto perché non presentatasi all’udienza di assunzione? (pare opportuno
sottolineare che l’art. 104 disp. att. c.p.c. parla di “decadenza dalla prova” anche nel caso di
mancata intimazione di testimoni).
LEONE, in specifico riferimento alla fattispecie ex art. 208 c.p.c. (47), riporta il pensiero della
giurisprudenza in base al quale, in caso di mezzo di prova richiesto dalla parte, ma astrattamente
disponibile anche dal giudice, questi può ordinare la prova dalla cui assunzione la parte è decaduta.
La giurisprudenza (48), appunto, ha fatto uso di tale principio, con specifico riferimento alla
fattispecie di cui all’art. 257 c.p.c., asserendo che il potere di disporre la testimonianza di
riferimento è configurabile anche in ordine a quei testi il cui esame non sia più possibile per effetto
dell’avvenuta decadenza dall’assunzione. Non avrebbe rilievo il fatto che, in tal modo, la parte si
salvi da una decadenza nella quale era incorsa (49).
La “ratio” dell’art. 257 c.p.c. consiste nel consentire l’escussione testimoniale di soggetti (cui si
siano riferiti i testi) che possano fornire elementi per la formazione del convincimento del giudice.
Essendo questo lo “scopo” della fattispecie in esame, nulla vieta che “un effetto”
dell’assunzione sia quello che la parte eviti una decadenza nella quale era incorsa: ma questo,
appunto, è un semplice effetto della norma la cui causa, che viene in concreto perseguita, è, come
detto, tutt’altra.
Ora, i poteri istruttori del pretore ex art. 317 c.p.c. (ora 312) costituiscono, come già
sottolineava ANDRIOLI (50) un ulteriore sviluppo dell’art. 257 c.p.c. e, più precisamente, secondo
SATTA (51), un’estensione di tale fattispecie fino a consentire al giudice la formulazione di nuovi
capitoli.
Analogo alla fattispecie ex art. 257 c.p.c., quindi, ad avviso di chi scrive, è il caso dell’art. 312
c.p.c.. Qui lo scopo della norma è quello di integrare le acquisizioni probatorie tramite la
formulazione apposita di una prova testimoniale d’ufficio basata sui “fatti” che le parti hanno
esposto (e, cioè, basata sulle “allegazioni” di parte) quando queste si sono riferite a “persone in
grado di conoscere la verità”, categoria nella quale non possono ricomprendersi, all’evidenza, i testi
indicati dalle parti (52), e che, quindi, divengono autonomo strumento (ulteriore rispetto alle
deduzioni di parte) nell’iter che conduce alla formazione del convincimento del giudice.
Ora, se in tali casi il pretore può formulare autonomamente i capitoli di prova, non si può certo
escludere che intenda ascoltare tali persone sulle stesse circostanze dedotte nei capi di prova delle
parti (decadute dall’assunzione) giacché egli ha un autonomo potere di dedurre i capi di prova (che
prescinde, quindi, dalle decadenze di parte).
Le decadenze istruttorie delle parti sulle circostanze dedotte, quindi, non dovrebbe impedire al
pretore di ascoltare i soggetti da lui individuati (ma che, si ribadisce, non possono essere i testi
indicati dalle parti dalla cui assunzione le stesse siano decadute) sulla base delle allegazioni, intorno
alle stesse o consimili circostanze dedotte dalle parti decadute dall’assunzione, così come la
decadenza relativa all’assunzione del teste non impedisce al giudice di ascoltare lo stesso teste cui
altri testimoni si siano riferiti: anche nel primo caso, “l’elusione” della decadenza è un semplice
effetto dell’utilizzo della fattispecie della prova d’ufficio.
D’altra parte, è opportuno però, specificare che sotto la vigenza della vecchia formulazione
dell’art. 317 c.p.c., la giurisprudenza di merito (53) aveva asserito come il potere concesso al
pretore ex art. 317, 1° comma, c.p.c., di disporre d’ufficio la prova per testi non può essere
esercitato quando vi sia stata decadenza per mancata comparizione all’udienza. Specificamente (54)
è stata dichiarata l’impossibilità, per il pretore, ex art. 317 c.p.c. (ora 312), di assumere la prova
testimoniale dello stesso teste dalla cui assunzione la parte era decaduta ex art. 208 c.p.c..
In relazione alla riforma introdotta con la novella, d’altronde, anche CAPUTO (55) sostiene che
il potere istruttorio del giudice non può essere esercitato in relazione a mezzi di prova per i quali
siano intervenute delle decadenze.
Come detto però, innanzi tutto, le “persone che appaiono in grado di conoscere la verità”, di cui
all’art. 312 c.p.c., non sono i soggetti indicati come testi dalle parti e, quindi, nessuna decadenza
circa la loro assunzione può configurarsi.
Secondariamente, poi, ed anche a voler prescindere dalle motivazioni che precedono, la
decadenza ex art. 208 c.p.c. è relativa al diritto di “assumere” la prova, non alla prova di per sé. Ne
discende che la decadenza non può riferirsi che alla fattispecie concreta dell’assunzione (in questo
caso) dei testimoni specificamente indicati dalle parti (giacché è tramite loro che la prova,
materialmente, si assume), con la conseguenza che non si riflette sulle circostanze oggetto di prova
rispetto alle quali verranno escusse le persone indicate dal pretore ex art. 312 c.p.c..
L’opinione espressa da chi scrive, comunque, data la natura e la funzione suvvisti dell’art. 312
c.p.c., non dovrebbe essere inficiata dalla giusta considerazione di FRASCA (56) relativa al fatto
che i poteri istruttori del pretore non trovano più fondamento nell’art. 316 c.p.c., vecchio testo,
secondo il quale al pretore era sempre dato di indicare alle parti le lacune istruttorie ravvisate.
L’opinione contraria a quella sostenuta nel testo, d’altronde, sarebbe preferibile, invece, se si
ritenesse (57) che condizione richiesta per l’esercizio del potere ex art. 312 c.p.c. sia la mancata
capitolazione di parte dei fatti posti a base della domanda poiché, ovviamente, in tal caso il pretore
non potrebbe disporre prova d’ufficio in presenza di capitolazioni di parte sull’oggetto relativo,
anche se le parti nell’esposizione dei fatti abbiano fatto riferimento a persone non indicate come
testi.
Se, invece, il potere di cui all’art. 312 c.p.c. di disporre d’ufficio la prova testimoniale deve
ritenersi condizionato solo al “riferimento” a persone che appaiono in grado di conoscere la verità
(“il pretore... può disporre d’ufficio la prova testimoniale... quando le parti... si sono riferite”) la
formulazione dei capitoli di prova (diversi) non può che essere intesa come facoltà del giudice e non
come un’ulteriore condizione e, quindi, in definitiva, le decadenze di cui all’art. 208 c.p.c., nel caso
oggetto del presente paragrafo, non dovrebbero trovare applicazione poiché in tal caso il pretore
dovrebbe poter utilizzare le capitolazioni già dedotte o, comunque, dovrebbe poter interrogare i testi
su circostanze già oggetto delle precedenti capitolazioni.
BIBLIOGRAFIA
1) ANDRIOLI, “Commento al codice di procedura civile”, Napoli, 1957, II.
2) ATTARDI, “Le preclusioni nel giudizio di primo grado”, in Foro It., 1990, V, 385 ss.
3) BALENA, “Commento agli art. 184-184 bis c.p.c.”, in Provvedimenti urgenti per il processo
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4) BALENA, “La riforma del processo di cognizione”, Napoli, 1994.
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6) CAPPONI, in VACCARELLA-CAPPONI-CECCHELLA, “Il processo civile dopo le riforme”,
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8) CARPI-TARUFFO, commento all’art. 184 c.p.c. in “Commentario breve al codice di procedura
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11) FRASCA, commento all’art. 317 c.p.c., in D’AIETTI, FRASCA, MANZI, MIELE, “La riforma
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12) LEONE, voce “Istruzione della causa”, in Enciclopedia del diritto, 148.
13) MANDRIOLI, “Corso di diritto processuale civile”, Torino, 1991, II.
14) MONTELEONE, “Diritto processuale civile”, Padova, 1995, II.
15) MONTESANO-ARIETA, “Il nuovo processo civile”, Napoli, 1991.
16) OBERTO, “Il giudizio di primo grado dopo la riforma del processo civile”, in Giur. It., 1994,
IV, 313 ss.
17) PICARDI, “Dei termini”, commento all’art. 152 c.p.c., in “Commentario del codice di
procedura civile” diretto da E. Allorio, Torino, 1973, I, II, 1546 ss.
18) PROTO PISANI, “Lezioni di diritto processuale civile”, Napoli, 1994.
19) PROTO PISANI, “La nuova disciplina del processo ordinario di cognizione di primo grado e
d’appello” in Foro It., 1991, V, 249 ss.
20) SASSANI, in CONSOLO, LUISO e SASSANI, “La riforma del processo civile”, Milano, 1991,
p. 105 ss.
21) SATTA, “Commentario al codice di procedura civile”, Milano, 1966.
22) TARUFFO, “Le riforme della giustizia Civile”, Torino, 1993.
23) TARZIA, “Lineamenti del nuovo processo di cognizione”, Milano, 1991.
24) VERDE-DI NANNI, “Codice di procedura civile”, Torino, 1991.
(1) PROTO PISANI, “Lezioni di diritto processuale civile”, Napoli, 1994, p. 114.
(2) PROTO PISANI, op. cit., p. 118.
(3) MANDRIOLI, “Corso di diritto processuale civile”, Torino, 1991, II, p. 83;
MONTESANO-ARIETA, “Il nuovo processo civile”, Napoli, 1991, p. 49; OBERTO, “Il giudizio di
primo grado dopo la riforma del processo civile” in Giur. It., 1991, IV, 315; TARZIA, “Lineamenti
del nuovo processo di cognizione”, Milano, 1991, p. 109.
(4) COSTANTINO, “Commento agli art. 181-183” in “Provvedimenti urgenti per il processo
civile”, in NLCC, 1992, p. 85.
(5) BALENA, “Commento agli art. 184-184 bis” in “Provvedimenti urgenti per il processo
civile”, in NLCC, 1992, p. 93.
(6) TARUFFO, “Le Riforme della giustizia civile”, Torino, 1993, p. 270 ss.
(7) SASSANI, in CONSOLO, LUISO e SASSANI “La riforma del processo civile”, Milano,
1991, p. 107.
(8) MONTELEONE, “Diritto processuale civile”, Padova, 1995, II, p. 60; il combinato disposto
degli art. 175 c.p.c. (sui poteri di direzione del procedimento) e 183, ultimo comma, c.p.c., portano a
tale conclusione. Incoerente con la realtà dello svolgimento delle udienze civili, in cui vengono
trattate decine di cause contemporaneamente, sarebbero soluzioni diverse: sempre fatta salva la
facoltà del giudice di provvedere, se voglia farlo, in prima udienza di trattazione.
(9) CARPI-TARUFFO, in “Commentario Breve al Codice di procedura Civile”, Padova, 1994,
comm. art. 184.
(10) ATTARDI, “Le preclusioni nel giudizio di primo grado”, in Foro It., 1990, V, 386 s.
(11) PROTO PISANI, op. cit, p. 118.
(12) VERDE-DI NANNI, “Codice di procedura civile”, Torino, 1991, p. 89, che si riferiscono
ai progetti redatti da FABBRINI, PROTO PISANI e VERDE, alle bozze predisposte dal C.S.M. e
da Magistratura Democratica, al d.d.l. n. 732/S/X.
(13) VERDE-DI NANNI, op. cit., p. 93 s.
(14) TARUFFO, op. cit., p. 271.
(15) TARZIA, op. cit., p. 110, che fa espresso riferimento al principio di libertà delle deduzioni
istruttorie; SASSANI, op. cit., p. 106.
(16) ATTARDI, op. cit., p. 388.
(17) OBERTO, op. cit., IV, 316.
(18) BALENA, op. cit., p. 92; TARZIA, op. cit., p. 120.
(19) Cass. 1994 n. 1163; Cass. 1987 n. 3672.
(20) Cass. 1981 n. 611.
(21) PROTO PISANI, op. cit., p. 117.
(22) MANDRIOLI, op. cit., appendice, p. 3.
(23) Cass. 1991 n. 5406; Cass. 1977 n. 2030.
(24) TARZIA, op. cit., p. 109.
(25) MONTELEONE, op. cit., p. 62; MONTESANO-ARIETA, op. cit., p. 49.
(26) CAPUTO, “La nuova normativa sul processo civile”, Padova, 1996, p. 118.
(27) BALENA, “La riforma del processo di cognizione”, Napoli, 1994, p. 186 ss.; ivi per
un’accurata disamina delle varie posizioni dottrinarie.
(28) PROTO PISANI, op. cit., p. 122 s.
(29) ATTARDI, op. cit., p. 388.
(30) PROTO PISANI, op. cit., p. 118.
(31) PICARDI, “Dei Termini”, commento all’art. 152 c.p.c., in “Commentario del codice di
procedura civile” diretto da E. Allorio, Torino, 1973, I, 2, 1547.
(32) BUCCI-CRESCENZI-MALPICA, “Manuale pratico della riforma del processo civile”,
Padova, 1995, p. 112 s., che fanno riferimento anche all’art. 208 c.p.c. che prevede il rilievo
d’ufficio della decadenza dall’assunzione della prova per mancata presentazione della parte.
(33) Cass. 1991 n. 7205.
(34) TARUFFO, op. cit., p. 276 s.
(35) CHIARLONI, “Le riforme del processo civile”, Bologna, 1992, p. 205 s.
(36) MANDRIOLI, op. cit., p. 82.
(37) PROTO PISANI, “La nuova disciplina del processo ordinario di cognizione di primo
grado e d’appello”, in Foro It., 1991, V, 330.
(38) CHIARLONI, op. cit., p. 205 s.
(39) PROTO PISANI, op. cit., p. 119.
(40) Cass. 1986 n. 1882; conf. dottrina minoritaria, v. rif. in CARPI-TARUFFO, op. cit., comm.
art. 312.
(41) Cass. 1982 n. 121; e, per il diritto del lavoro, Cass. 1989 n. 2588, Cass. 1986 n. 7244;
Cass. 1984 n. 5123; Cass. 1984 n. 3009; per la dottrina conf., v. rif. nota precedente.
(42) MONTESANO-ARIETA, op. cit., p. 49; CAPPONI, op. cit., p. 256, che argomenta ex art.
320, IV, c., c.p.c., e dal fatto che l’art. 312 c.p.c. non riproduce l’inciso dell’art. 421 c.p.c. “ in
qualsiasi momento”.
(43) PROTO PISANI, op. cit., p. 119 s.
(44) BALENA, “Commento...”, cit., p. 93.
(45) TARZIA, op. cit., p. 115; CAPUTO, op. cit., p. 119.
(46) PROTO PISANI, op. cit., p. 120.
(47) LEONE, voce “Istruzione della causa” in Enciclopedia del diritto, 148.
(48) Cass. 1986 n. 1882; Cass. 1983 n. 6558.
(49) Cass. 20-4-1963 n. 974 in Giur. It., 1964, I, I, 471 ss., con specifico riferimento alla
possibilità di escutere, ex art. 257 c.p.c., lo stesso teste rispetto al quale la parte sia decaduta
dall’assunzione.
(50) ANDRIOLI, “Commento al codice di procedura civile”, Napoli, 1957, II, 361.
(51) SATTA, “Commentario al codice di procedura civile”, Milano, 1966, 459.
(52) BALENA, “La riforma...”, cit., p.342.
(53) Pretura Castellamare di Stabia 30.3.1956, in Rep. Giur. It., 1957, voce Prova testimoniale
civile, n. 178.
(54) Pret. Cortona, ord. 29-3-1952, in Nuovo Diritto, 1953, 568 ss., con nota però, contraria di
PAGLICCI-BROZZI; Pret. Roma, 6-4-1968, in Il Nuovo Diritto, 1969, 75 ss.
(55) CAPUTO, op cit., p. 119.
(56) FRASCA, in D’AIETTI, FRASCA, MANZI, MIELE, “La riforma del processo civile”,
Milano, 1991, p. 280 s.
(57) Cass. 1964, n. 678.
PRINCIPALI PROBLEMI IN MATERIA
DI PROCEDIMENTO PRETORILE
CON RIFERIMENTO ALLA FASE DECISORIA
Relatore:
dott. Andrea MIRENDA
pretore della Pretura circondariale di Verona
SOMMARIO: 1. Inquadramento generale delle modifiche apportate dalla novella al giudizio pretorile.
– 2. La decisione a seguito di trattazione scritta. – 3. La decisione a seguito di trattazione orale: 3.1.
Discrezionalità della scelta del modulo decisorio; 3.2. La necessità del preavviso ai difensori; 3.3.
Le modalità di pubblicazione della sentenza; 3.4. Conseguenze della mancata lettura immediata del
dispositivo e della motivazione e revocabilità della scelta del modulo decisorio all’esito della
discussione orale).
1. La riforma del processo civile ha modellato il procedimento avanti al pretore sulla falsariga di
quello avanti al giudice istruttore del tribunale in funzione di giudice unico. Oggi, difatti,
diversamente dal passato (ove il rito pretorile e quello del conciliatore erano sostanzialmente
coincidenti) le disposizioni comuni al pretore e al giudice di pace si riducono ai soli artt. 311 (rinvio
alle norme per il tribunale), 312 (poteri istruttori del giudice) e 313 (querela di falso).
Si è così acutamente osservato (1) che l’unificazione del rito avanti al giudici togati, come pure
la monocraticità sempre più ampia del giudice di primo grado ed il progressivo ampliamento della
competenza per materia e valore del pretore (che parimenti evidenzia lo scarso senso della
sopravvivenza del giudice di tribunale monocratico) costituiscono oramai la testa di ponte per la
conquista – reclamata oramai da ampi settori della dottrina e delle istituzioni – del giudice unico di
primo grado (2).
La cennata coincidenza tra rito pretorile e rito avanti al giudice istruttore del tribunale in
funzione di giudice unico non è però assoluta (3). La riforma, difatti, innova profondamente rispetto
al passato, introducendo per la prima volta una specifico capo volto a disciplinare – con elementi di
assoluta originalità – la fase della decisione pretorile (artt. 314-315 c.p.c.).
Vediamo, dunque, di cogliere gli aspetti salienti della innovazione.
Emerge, innanzitutto, un primo dato: diversamente da quanto prevede l’art. 190 bis c.p.c. per la
decisione del giudice istruttore (che giunge, di regola, all’esito della trattazione scritta, salvo il
temperamento dell’eventuale discussione orale a richiesta), la decisione del pretore può seguire due
strade alternative: quella, per così dire, tradizionale, della decisione a seguito di trattazione scritta
(art. 314), ovvero quella (densa di elementi evolutivi sui quali torneremo meglio) della decisione a
seguito di trattazione orale (art. 315).
Già questi primi cenni bastano per intravedere in filigrana la tendenziale anelasticità dei due
modelli decisori: invero, una volta adottato il rito di cui all’art. 314 c.p.c. viene meno ogni
possibilità di introdurre elementi di oralità, neppure – si badi – ad istanza di parte, come invece
prevede l’art. 190 bis, comma 2, c.p.c.. La scelta del legislatore – di non agevole comprensione sul
piano della coerenza sistematica – appare inoltre criticabile in quanto, a mio avviso, espone ad uno
sterile impoverimento della fase decisoria (che per essere il momento culminante del processo
meriterebbe invece l’adozione di ampie cautele) senza peraltro giovare alla celerità della decisione
(4).
2. L’art. 314 recita: “il pretore, quando ritiene la causa matura per la decisione, invita le parti
a precisare le conclusioni, dispone lo scambio delle comparse conclusionali e delle memorie di
replica ai sensi dell’art. 190 e, quindi, deposita la sentenza in cancelleria entro trenta giorni dalla
scadenza del termine per il deposito delle memorie di replica”.
La norma ricalca, nella sostanza, la formula dell’art. 190 bis c.p.c. per la decisione della causa
di fronte al giudice istruttore del tribunale in funzione di giudice unico. Se ne discosta, però, per
alcuni elementi non marginali:
1) il termine assegnato per il deposito della sentenza è dimezzato rispetto a quello previsto per il
Tribunale: la diversità di regime, già discutibile nella premessa (lì dove sottintende, del tutto
aprioristicamente, la maggiore semplicità delle cause pretorili) (5), appare oggi ancor meno
condivisibile dopo il sostanzioso (e, come si è fatto notare, per molti versi azzardato) (6) aumento
della competenza per valore introdotto con la legge di conversione 20-12-1995 n. 534;
2) una volta eletta la via della decisione a seguito di trattazione scritta, non è contemplata la
possibilità di una fase orale ad istanza di parte, sulla falsariga dell’art. 190 bis. Difetta, dunque, in
radice la possibilità della discussione orale dopo il deposito delle comparse conclusionali. Il pretore
dovrà pertanto decidere, a seconda dell’opzione esercitata, o dopo trattazione completamente scritta
(art. 314) ovvero – come si vedrà – dopo una fase di trattazione completamente orale (art. 315
c.p.c.) (7);
3) la decisione a seguito di trattazione scritta, diversamente dall’art.190 bis (che nulla dice al
riguardo), viene subordinata alla “maturità della causa per la decisione”: sulla scorta di questo dato
testuale una dottrina ha dubitato, in prima lettura, che il Pretore possa pronunciare sentenze non
definitive su questioni preliminari o pregiudiziali (8). Si è fatto tuttavia osservare che tale facoltà è
contemplata espressamente persino nel rito del lavoro, caratterizzato (almeno sulla carta) da celerità,
oralità, concentrazione ed immediatezza, giusta la disposizione di cui all’art. 420, comma 5, c.p.c.
(9). L’obiezione, a mio avviso, coglie nel segno; pertanto, in difetto di espresso divieto o,
comunque, di valide indicazioni di segno contrario, ritengo che la medesima facoltà vada
riconosciuta anche al pretore del rito ordinario novellato (10).
3. L’art. 315 c.p.c. recita a sua volta:
“Il pretore, se non dispone a norma dell’art. 314, può ordinare l’immediata discussione orale
della causa. Al termine della discussione pronuncia sentenza dando lettura del dispositivo e della
concisa esposizione delle ragioni di fatto e di diritto della decisione. In questo caso la sentenza si
intende pubblicata con la sottoscrizione da parte del giudice del verbale che la contiene ed è
immediatamente depositata in cancelleria”.
Come si è osservato da più parti (11), si tratta di una previsione profondamente innovativa,
ancorché non ignota al sistema previgente che, come si è ricordato, già conosceva il modulo
decisorio di cui all’art. 23, comma 8, della L. 689/1991. In effetti, nel giudizio di opposizione
all’ingiunzione di pagamento di sanzioni amministrative il pretore ha facoltà “di redigere e leggere
unitamente al dispositivo la motivazione della sentenza che è subito depositata in cancelleria”.
Nondimeno, la novella mostra importanti segni evolutivi rispetto alla disciplina menzionata, nella
quale la lettura immediata della motivazione costituisce una semplice facoltà e la pubblicazione
della sentenza, contrariamente a quanto previsto dall’art. 315 cit., segue sempre le regole ordinarie.
Ebbene, non sfuggirà ad un vigile interprete come attraverso l’art. 315 si assista, finalmente, al
primo timido ingresso nel rito ordinario dei principi chiovendiani dell’immediatezza, dell’oralità e
della concentrazione, ancorché confinati al solo giudizio pretorile.
A questo riguardo la Risoluzione del Consiglio Superiore della Magistratura (v. nota 2) – poi
recepita nella Relazione governativa e in quella Acone-Lipari della 2ª Commissione permanente del
Senato (punto 8.1.) – ha giustamente rimarcato l’intrinseco valore “culturale” della norma, posto
che se il processo si svolge in applicazione dei cennati principi, “...non è impensabile che il giudice
sia in grado non solo di pronunciare il dispositivo, ma anche di corredarlo di una motivazione,
succinta come vuole la legge”.
3.1. Gli artt. 314 e 315 non indicano i criteri-guida in base ai quali optare per l’uno o l’altro
modulo decisorio. La scelta viene dunque rimessa all’esclusiva discrezionalità del giudicante che
valuterà, caso per caso, quando sia necessario ottenere dalle parti ulteriori ragguagli critici a mezzo
degli scritti difensivi contemplati dall’art. 314 e quando, invece, per la natura delle questioni
prospettate, la causa possa essere immediatamente decisa. In altre parole, l’opzione tra la decisione
a seguito di trattazione scritta ovvero orale dovrà basarsi sulla maggiore idoneità dell’uno o
dell’altro modulo a fornire una risposta processuale ad un tempo giuridicamente adeguata e
sollecita, avuto riguardo al più o meno elevato tasso di giuridicità della decisione (12). Per
esemplificare, è ragionevole affermare che il naturale esito: A) delle controversie contumaciali; B) di
quelle definibili su questioni preliminari (o pregiudiziali) a carattere elementare; C) di quelle di
modesto valore economico, sarà presumibilmente quello della decisione immediata ex art. 315.
3.2. L’amplissima discrezionalità riconosciuta al pretore nella scelta del modello decisorio
risulta ancora più evidente se comparata con la ben diversa disciplina prevista per il giudice
istruttore in funzione di giudice unico (art. 190 bis, comma due, c.p.c.). In quest’ultimo caso, come
si è più volte ripetuto, la possibilità di accedere alla discussione orale non dipende affatto dalla
conforme volontà del giudice istruttore, essendo rimessa all’esclusiva volontà del difensore che ne
faccia richiesta. Ora, si è detto della tendenziale anelasticità dei moduli decisori pretorili, sia per la
loro rigida alternatività (che non si presta a soluzioni mediate), che per l’assoluta discrezionalità
della scelta rimessa al giudicante. Ebbene, questo contesto – di per sé critico – mostra, a mio avviso,
ulteriori segni di fibrillazione sotto il peso di altro delicatissimo problema, prontamente segnalato
dalla dottrina: l’art. 315 c.p.c. non prevede, difatti, che le parti siano preavvertite dell’intenzione del
giudicante di avvalersi dell’iter orale. Ciò pone intuibili problemi di compressione dei diritti della
difesa (13), esposta – in difetto di una quanto mai urgente interpretazione adeguatrice – al rischio
della repentinità della decisione, non bilanciata da una adeguata preparazione della discussione
orale.
A ciò si aggiunga l’inconveniente (non secondario nell’economia del processo)
dell’impossibilità per i difensori di predisporre la notula delle spese (ancorché essa costituisca un
adempimento obbligatorio ex art. 75 disp. att. c.p.c.), con l’inevitabile esito di incidere
negativamente sulla possibilità di effettivo ristoro della parte vittoriosa.
Va quindi condivisa la prevalente opinione secondo cui il pretore dovrà far precedere la
discussione da congruo preavviso, anche facendo leva sul meccanismo di differimento dell’udienza
contemplato dall’ancora vigente art. 62 disp. att. c.p.c. (14).
Nondimeno, è del tutto inutile nascondersi che, de iure condito, la soluzione indicata, lungi
dall’essere vincolante, è rimessa ancora una volta alla mera discrezionalità – o, per meglio dire, alla
sensibilità – del giudicante; pertanto, laddove essa – per la sua natura marcatamente “onoraria” –
non dovesse trovare piede sarà inevitabile – a mio sommesso avviso – investire della questione il
Giudice delle leggi, per sospetta violazione dei parametri di cui agli artt. 3 e 24, comma 2, Cost.
3.3. Le modalità di pubblicazione della sentenza.
Si è aperto un acceso dibattito intorno alle modalità di pubblicazione della sentenza resa a
seguito di trattazione orale. Il tenore letterale della norma (art. 315: “omissis... In questo caso la
sentenza si intende pubblicata con la sottoscrizione da parte del giudice del verbale che la
contiene ed è immediatamente depositata in cancelleria”) non dovrebbe lasciare spazio a dubbi: il
pretore deve procedere alla stesura della sentenza (dispositivo e motivazione) nello stesso verbale
d’udienza (15). Il provvedimento nel disegno del legislatore della riforma – segue, così, senza
soluzione di continuità, le conclusioni delle parti (pure precisate a verbale) (16), che per questa
ragione non andranno ovviamente ripetute nell’epigrafe della sentenza.
Pertanto, una volta che il giudice abbia redatto e firmato il provvedimento, si completa ed
esaurisce il procedimento di pubblicazione.
Parte della dottrina (17) ha tuttavia sollevato importanti rilievi che osterebbero al menzionato
iter di pubblicazione in forma semplificata.
Si è cosi ricordato: A) che l’art. 35 disp. att. c.p.c. impone al cancelliere di riunire annualmente
in volumi separati gli originali delle sentenze, dei decreti ingiuntivi e dei verbali di conciliazione,
mentre diversa sorte tocca al fascicolo dell’ufficio (a cui è unito il verbale d’udienza) per il quale è
prevista una distinta forma di archiviazione; B) che gli artt. 347, comma 3, c.p.c., e 123 bis disp. att.
c.p.c. fanno obbligo alla cancelleria del giudice a quo di trasmettere al giudice dell’impugnazione il
fascicolo dell’ufficio, sicché – ove fossero pedissequamente eseguite le disposizioni dell’art. 315 –
verrebbe inevitabilmente trasmesso, unitamente al primo, anche l’originale della sentenza, in
contrasto con il citato art. 35 disp. att. c.p.c..
Per ovviare a tali inconvenienti si è quindi proposto di redigere la sentenza su foglio separato
dal verbale di causa (ancorché costituente parte integrante di esso), e di autorizzare contestualmente
la cancelleria a prelevare l’originale così formato per destinarlo alla raccolta di cui all’art. 35 disp.
att. c.p.c., cit., previa estrazione di copia autentica da inserire nel fascicolo d’ufficio.
L’indicazione mira a superare lo scoperto imbarazzo delle Cancellerie ad inserire nella raccolta
degli originali delle sentenze anche parte del verbale di causa, come avverrebbe giusta la lettera
della norma in eseme.
Ritengo, peraltro, che debba essere privilegiata la volontà del legislatore non solo per banale
ossequio alla forma ma pure per ragioni sostanziali.
Quanto alla prima, è innegabile la chiarezza del dato letterale della norma. Pertanto, se da un
lato si impone lo sforzo di armonizzare le antinomie di questo quadro normativo, dall’altro va
evitata con fermezza la vanificazione del contenuto della norma più recente, anche alla luce dei
principi in materia di successione delle leggi nel tempo, evincibili dagli artt, 11 e 14 disp. prel. cod.
civ..
Quanto alle seconde, è agevole osservare che con lo strumento della sentenza resa nel verbale
d’udienza si è voluta abbandonare quella che taluno, con splendida sintesi, ha definito la concezione
“tolemaica’’ della motivazione (concezione che, di regola, si risolve – secondo l’id quod plerumque
accidit – nella razionalizzazione “ex post” del decisum, il più delle volte attraverso un uso barocco
di argomenti logico-giuridici che, a ben vedere, non hanno giocato un vero ruolo nel momento
intuizionistico della decisione) (18).
L’immediata dettatura a verbale della motivazione costituisce, perciò, una formidabile spinta
verso la formazione di una più moderna (e più snella) concezione della fase decisoria. Essa, inoltre,
attenua fortemente il rischio – paventato da ampi settori della dottrina (19) – della c.d.
“predecisione”: difatti, seguendo questa via, sarà assai difficile che il pretore giunga all’udienza di
discussione con la sentenza già pronta, da “allegare” comodamente a verbale. Evitato questo rischio,
ragioni di tempo materiale imporranno al giudicante di “deformalizzare” il contenuto del
provvedimento che, potrà così alleggerirsi, oltre che dello svolgimento del processo (come si ricava
dal raffronto tra l’art. 315 e l’art. 132, n. 4, c.p.c.), anche delle conclusioni (alle quali segue la
sentenza senza soluzione di continuità) e dell’indicazione dei nomi delle parti e dei procuratori (già
indicati nell’epigrafe del verbale dell’udienza di prima comparizione di cui all’art. 180 c.p.c.).
Peraltro, a mio avviso, i benefici della pubblicazione nella forma predetta si vedranno anche in
termini di “contenuto della motivazione” (20), giacché essa agevolerà il sobrio richiamo critico
delle prove orali raccolte nei verbali precedenti (dei quali quello che contiene la sentenza altro non è
che il prosieguo), mediante la tecnica del semplice rinvio.
In questa prima fase applicativa è dunque doveroso insistere per la piena affermazione della
pubblicazione in forma semplificata i cui vantaggi, come si vede, sono molteplici.
Non ci si vuole tuttavia sottrarre al tentativo di armonizzare la tesi propugnata con il quadro
normativo previgente: ritengo, a questo riguardo, che nulla osti a che il giudice autorizzi il
cancelliere: A) ad inserire il verbale contenente l’originale della sentenza nella raccolta di cui all’art.
35 disp. att. c.p.c.; B) ad estrarne copia conforme da inserire nel fascicolo d’ufficio. In tal modo – a
mio avviso – sarebbero assicurate tanto l’esigenza di conservazione separata del titolo giudiziario
presso l’ufficio del giudice che l’ha emesso, quanto quella della integrità e completezza del verbale
di causa, come pure gli inconvenienti di cui agli artt. 347, comma 3, c.p.c., e 123 bis disp. att. c.p.c.
(v. sub n. 14).
Si osserva, poi, che quanto proposto (ciò è a dire il diretto inserimento nella raccolta predetta
del verbale d’udienza contenente l’originale del titolo giudiziale) è già – a ben vedere – pratica
concreta di molti uffici giudiziari (ad es., della Pretura di Verona), per i casi delle ordinanze
esecutive ex artt. 186 bis e ter c.p.c.. Partendo, difatti, dalla assimilazione fiscale di questi
provvedimenti a quello monitorio (pure inserito nella raccolta di cui all’art. 35 più volte citato), se
ne è tratta, per analogia, la necessità di inserirli (ovviamente in originale) in quella stessa raccolta;
di fronte poi al problema di come eseguire detto inserimento, si è ritenuto, a mio avviso
esattamente, di seguire ancora una volta le forme previste per il decreto ingiuntivo, ciò è a dire
inserendo non solo l’originale del provvedimento ma pure dell’istanza (che nel caso degli artt. 186
bis e ter, diversamente da quello di cui all’art. 633 c.p.c., viene svolta direttamente a verbale).
3.4. Qualora il pretore opti per la discussione orale, sembra ovvio che la pronuncia della
sentenza dovrà seguire la via dell’art. 315. Il giudice dovrà dare, perciò, immediata lettura non solo
del dispositivo ma pure della motivazione. L’omissione di tali incombenti, facendo venire meno il
“tipo” stesso di provvedimento per come voluto dal legislatore, esporrà – temo – alla sanzione della
nullità insanabile della sentenza, sulla scorta della giurisprudenza formatasi nel processo del lavoro
per il caso dell’omessa lettura del dispositivo (21).
Il pretore, peraltro, ove all’esito della discussione orale dovesse ritenere che la complessità delle
questioni evidenziate dai difensori meritino una meditata ed approfondita disamina preclusa dalla
naturale semplicità della sentenza immediata, potrà – a mio avviso legittimamente revocare
l’ordinanza ex art. 315 c.p.c. e disporre ai sensi dell’art. 314 c.p.c. (22).
(1) TARZIA, Lineamenti del nuovo processo di cognizione, Milano, 1991, 189, che individua in
questo disegno un indice della tendenziale direzione verso il giudice unico (professionale) di primo
grado.
(2) Si veda, al riguardo, la significativa Risoluzione del C.S.M. sul d.d.l. n. 2214/S/IX,
approvata il 18 maggio 1988, est. Borrè.
(3) Sul punto si leggano gli interessanti spunti comparatistici di GLENDI, in Corr. Giur., n.
1/1991, 55 e ss.
(4) Su di essa si appuntano giustamente le critiche del TARZIA, in Riv. Dir. Proc. Civ., 1989,
130.
(5) In arg. cfr. CONSOLO-LUISO-SASSANI, La riforma del processo civile, Milano, sub art.
341, p. 224 e ss.
(6) CIPRIANI, Il problema dell’arretrato, in Foro it., 1995, V, 276 e ss.; v. anche,
sull’argomento, le ordinanze di non manifesta infondatezza della questione di legittimità
costituzionale dell’art. 2 del D.L. 238/1995, pronunciate rispettivamente dai Pretori di Verona e di
Salerno, nella parte in cui eleva la competenza per valore del Pretore a L. 50.000.000 (in Foro it.,
1995, I, 3016 e ss.).
(7) Critico sul punto è il TARZIA, in Riv. dir. proc. civ., 1989, 130; v., peraltro, in senso
opposto, C. BESSO, La riforma del processo civile, a cura di S. Chiarloni, Bologna, 370 e ss., che
pur riconoscendo le limitazioni che possono derivarne all’effettività del contraddittorio, condivide
la scelta del legislatore, tenuto conto sia del potere riconosciuto al pretore ex art. 315 c.p.c., che dei
limiti comunque posti alle repliche dall’art. 117 disp. att. c.p.c. anche nel caso della discussione
orale.
(8) Così ATTARDI, Le nuove disposizioni sul processo civile, Padova, 1991, 129 e ss., che
peraltro, in seguito, ha mutato opinione.
(9) La giurisprudenza interpreta estensivamente questa norma, ammettendo anche l’emanazione
di sentenze non definitive relativamente a questioni preliminari di merito: cfr. Cass. 10-10-1991 n.
10628.
(10) Così TARZIA, Lineamenti, op. cit., 199; PROTO-PISANI, La nuova disciplina, op. cit.,
187; C. BESSO, in Le riforme del processo civile, a cura di Chiarloni, p. 371.
(11) CARPI, in Riv. Trim. Dir. Proc. Civ., 1989, 482, 484; CAPPONI, in Foro It., 1989, V,
130; dello stesso autore, v. anche in Corr. Giur., 1990, 503 e in Doc. Giustizia, 1990, 4, 47 e 48;
COSTANTINO, Appunti sulle proposte di riforma urgente del processo civile, in Doc. Giustizia,
1988, n. 10, p. 42 e ss.
(12) Così CONSOLO, op. cit., 227; v. anche TARZIA, in Riv. dir. proc., 1989, 130; CARPI,
ibid., 483; GLENDI, Corr. giur., 1991, 59; CAPPONI, Le proposte di riforma urgente del processo
civile, in Foro it., 1989, V, 130, secondo cui “anche se elettivamente destinato alle controversie di
minore impegno (per il valore modesto o per la semplicità delle questioni dibatture), il modello
decisorio proposto dall’art. 22 del d.d.l. n. 1288 va salutato come una novità positiva e, per il suo
carattere immediato ed antinformalistico (anche rispetto al precedente costituito dall’art. 23 della L.
689/1981) sarebbe auspicabile che il pretore vi faccia sempre più frequente ricorso, assumendo così,
sia pure per gradi, una diversa mentalità ed un diverso atteggiamento nei confronti della stesura
delle motivazioni, che rappresenta attualmente il vero ‘collo di bottiglia’ che vanifica i possibili,
positivi risultati anche di un’istruttoria compiuta con impegno e tempestività”.
(13) In argomento, GLENDI, op. cit., 60, il quale peraltro, intravede “... una sorta di opportuno
bilanciamento di preparazione e impegno, specie sul piano della immediatezza, fra giudice e parti o
loro difensori” nel dovere del giudicante di procedere alla decisione e alla motivazione contestuale,
“... senza poter più riservare quest’ultima ad una successiva stesura”.
(14) CARPI, “È sempre tempo di riforme urgenti del processo civile”, in Riv. Trim. Dir. Proc.
Civ., 1989, 483; LUISO in CONSOLO-LUISO-SASSANI, La riforma del processo civile, 227;
ANDRIOLI, Sulla riforma del processo civile, in Riv. Dir. Civ., 1991, II, 218, rileva, con il solito
acume, che la disposizione dell’art. 315 c.p.c., per come congegnata, presuppone “rapidità di
ideazione e di esposizione che non è appannaggio comune dei mortali”.
(15) In questo senso CAPPONI, La proposta di riforma urgente del processo civile, in Foro it.,
1989, V, 130; COSTANTINO, Appunti sulla riforma urgente del processo civile, in Documenti
Giustizia, 1988, n. 10, 44, che nel salutare positivamente questa previsione deformalizzante osserva
“che, a ben vedere, essa non implica un’estensione del meccanismo previsto dall’art. 23, ult. c.p.v.,
della legge 24-11-1981 n. 689, perché non richiede al giudice la formazione di un autonomo
documento, ma la semplice redazione e sottoscrizione del verbale d’udienza”; v. altresì, GLENDI,
op. cit., 60-61, il quale giustamente osserva: “Posto che la pubblicazione della sentenza si ha con la
sola sottoscrizione da parte del giudice del verbale di causa e che a tale momento deve farsi
riferimento, ad esempio, per la decorrenza del c.d. termine lungo per impugnare, quale resta la
funzione del deposito in cancelleria che la norma riferisce alla sentenza e non al verbale che la
contiene e che la stessa norma impone come immediato, ma non contestuale? E che cosa dovrà
essere precisamente prodotto in appello? La copia autentica di tutto il verbale? O un estratto
contenente la sola sentenza? O potrà addirittura farsi a meno di tale produzione bastando
l’acquisizione agli atti del fascicolo d’ufficio del primo grado nel quale si contiene quale parte
integrante la sentenza stessa?” – per poi concludere – a mio avviso condivisibilmente – che
“potrebbe essere quest’ultima la soluzione migliore, con non indifferenti conseguenze anche sotto
molti profili e con ben prevedibili complicazioni, peraltro, ove si ammetta, ad esempio, l’eventualità
di sentenze non definitive nell’ambito dello stesso processo pretorile”.
(16) Ancorché l’art. 315 c.p.c. taccia sul punto, la dottrina ritiene che il pretore, anche in quel
caso, debba previamente invitare le parti a precisare le conclusioni ai sensi del tuttora vigente art. 62
disp. att. c.p.c.: in termini, C. BESSO, op. cit., p. 375.
(17) LUISO, in CONSOLO-LUISO-SASSANI, op. cit., 228 e ss.
(18) Nella citata Risoluzione del C.S.M. del 18 maggio 1988 (sub nota 2) si è acutamente
indicata “la concezione di ciò che la sentenza deve essere: non un documento avulso dal processo,
vivente di vita propria, e nel quale, quindi, tutto deve essere raccontato e analizzato anche
indipendentemente dalle reali necessità argomentative sulle quali il giudice ha finito per puntare: e
soprattutto non una difesa (sorretta da tutti i motivi possibili, come deve fare l’avvocato che non sa
quale tra essi sarà più gradito o meglio compreso) della decisione presa, ma un ‘rendiconto’ di ciò
che si è pensato per giungere a tale decisione”, sicché sarà sufficiente allo scopo “uno stile sobrio e
discorsivo, articolato in proposizioni semplici perché essenziali e convinte”, che può dunque
concretarsi nell’immediata “dettatura a verbale”.
(19) Prospettano tale pericolo CARPI, op. cit., 483, e ATTARDI, in Giur. It., 1989, IV, 294.
(20) La dottrina unanime è peraltro dell’avviso che la motivazione di cui all’art. 315 c.p.c. non
si differenzi da quella prevista in via generale per tutte le sentenze dall’art. 132 n. 4 (che richiede
“la concisa esposizione dello svolgimento del processo e dei motivi in fatto e in diritto della
decisione”).
(21) Cfr. Cass. 11-4-1990 n. 3062; Cass. S.U. 16-1-1987 n. 299, in Foro it., 1987, I, 1065; v.
altresì, quanto all’omessa lettura del dispositivo nel procedimento di opposizione all’ordinanzaingiunzione, Cass. S.U. 10-2-1992 n. 1457.
(22) Così GLENDI, in Corr. Giur., 1991, 60, il quale, nel considerare il caso in esame, osserva:
“Non si può tuttavia escludere che, pur avendo il pretore ritenuta la causa matura per la decisione,
anche a seguito della discussione orale, emerga la necessità di un completamento istruttorio, nel
qual caso, naturalmente, non sapremmo come negare la legittimità di una ordinanza che disponga in
tal senso”; analogamente BESSO, op. cit., 376.
ASPETTI CONTROVERSI IN MATERIA
DI ORDINANZA SUCCESSIVA ALLA CHIUSURA
DELL’ISTRUZIONE (art. 186 quater c.p.c.)
Relatore:
prof. Sergio CHIARLONI (*)
ordinario di procedura civile nell’Università di Torino
SOMMARIO: 1. Premessa – 2. L’anima doppia e contraddittoria della legge 20 dicembre 1995, n.
994. – 3. L’inopportunità della via di fuga tracciata con l’ordinanza ex art. 186 quater c.p.c. – 4.
Un’alternativa migliore: la sentenza con motivazione a richiesta. – 5. La struttura, da ordinanza
istruttoria, del provvedimento ex art. 186 quater c.p.c. – 6. Gli ostacoli nei confronti dell’obbiettivo
di tagliare i tempi del processo tramite l’ordinanza. – 7. Alcuni problemi esegetici. – 7.1. L’oggetto
del provvedimento. – 7.1.1. La non sezionabilità della domanda originaria per il tramite di
un’istanza “parziale”. – 7.1.2. Il provvedimento nei suoi rapporti con le forme di tutela che non ne
costituiscono il possibile oggetto. – 7.1.3. Il provvedimento di rigetto nel merito. – 7.1.4. Il
provvedimento di accoglimento parziale. – 7.1.5. Il provvedimento di non liquet. – 7.1.5.1. È
possibile un non liquet “discrezionale”? – 7.1.5.2. È possibile un non liquet “obbligatorio”?
(l’istanza e le eccezioni processuali). – 7.2. Qualche nota sulla revocabilità dell’ordinanza. – 7.3. I
tempi dell’istanza e del provvedimento. – 7.3.1. Il dies a quo dell’istanza non coincide con il dies a
quo del provvedimento. – 7.3.2. Il dies a quo e ... – 7.3.3. Il dies ad quem per l’emanazione del
provvedimento - differenze tra il nuovo e il vecchio rito. – 7.4. Il provvedimento e il contraddittorio:
basta la fissazione di una udienza di trattazione orale. – 7.5. Quasi una conclusione: alcuni problemi
relativi all’acquisto dell’efficacia di sentenza. – 7.5.1. Da quando decorrono i termini per l’appello
in caso di estinzione del processo? – 7.5.2. La motivazione “succinta” e i “motivi specifici
dell’impugnazione” ex art. 342 c.p.c.
1. Nella cultura giuridica italiana circola uno stereotipo che il processualista civile è costretto
oggi a contestare, di fronte alle vicende della c.d. “riforma della riforma” e al loro esito,
sperabilmente provvisorio (1).
Fin dai tempi della sua infanzia accademica, all’aspirante studioso viene insegnata la non
scientificità di un qualsiasi sindacato nei confronti delle norme vigenti. Una volta che un disegno
legislativo sia compiuto, il giurista positivo ha il compito di analizzare i dati a sua disposizione, di
risolvere problemi interpretativi, di ricostruire e concettualizzare il sistema. Ma non gli è consentito
di sottoporre al vaglio dello spirito critico il c.d. jus quo utimur, a pena di abbandonare il rifugio
sicuro della scienza per avventurarsi nel terreno infido della politica.
Lascio da parte l’errore metodico e il pregiudizio ideologico che si annidano in questo modo di
vedere le cose. Lascio anche da parte il rilievo che, almeno per il processualista, simili parole
d’ordine si adattano forse alla stanchezza degli epigoni, ma certamente non al lavoro dei padri
fondatori.
Mi limito a sottolineare che, se un nocciolo di ragionevolezza può venir riconosciuto all’actio
finium regundorum appena ricordata, occorre quanto meno che il prodotto legislativo sia frutto di
una situazione di normalità istituzionale.
Quando si tratti di por mano a discipline estremamente delicate, come sicuramente sono le
discipline afferenti al processo civile, i cittadini si aspettano di assistere ad una serie di eventi
politico-culturali, tramandati da una tradizione di buona fattura dei testi legislativi.
Purtroppo, la tradizione è stata tradita.
È mancato un dibattito articolato e consapevole sulle diverse alternative disponibili rispetto ai
fini perseguiti. In sua vece, anche a causa di una diffusa disinformazione tra gli avvocati sui reali
contenuti della Novella del 1990, qualche volta alimentata da interpretazioni distorte dei contenuti
più innovativi ad opera di enti esponenziali del ceto (2), è stata organizzata un’attività lobbistica di
contrasto, destinata ad un notevole successo. Non appare al riguardo affatto esagerato il rilievo che
si è finito con il pagare il prezzo di una “prevaricazione su un Parlamento riluttante, ma timoroso
della preoccupante intransigenza di una corporazione incurante del cattivo esempio offerto di totale
sfiducia verso lo Stato quale garante dell’interesse generale” (3).
È mancata un’ampia e ufficiale consultazione, con richiesta di pareri alle Università, alle
Associazioni e agli Ordini professionali, anche nelle articolazioni periferiche, che sarebbe stato
agevole organizzare negli oltre cinque anni di durata del tormentatissimo iter della “riforma della
riforma”. In sua vece, sono semplicemente cambiati i consiglieri del principe di turno: come è stato
argutamente osservato, il codice di procedura civile è venuto somigliando “ad una sorta di cantiere,
nel quale chiunque riesca ad avere un aggancio con il direttore dei lavori può mettere mano” (4).
È soprattutto mancato un normale e ordinato andamento degli itinera legislativi, con un apporto
meditato dei diversi organi competenti, prima della discussione in aula. In sua vece, l’interprete
attonito ha dovuto assistere alla danza senza fine di una decina di decreti legge emanati in
continuata inosservanza dei presupposti tracciati dalla Costituzione, che vuole confinata
l’emanabilità di questi provvedimenti ai casi di straordinaria necessità e urgenza.
Cum ira et studio, sul filo dei rinvii a catena dell’entrata in vigore, i contenuti originari della
Novella sono stati depotenziati e in qualche caso stravolti, senza che ad essi si sostituisse una
concezione alternativa capace di rivendicare una sua autonoma dignità. Il processo civile è una tra le
tante vittime delle difficoltà della politica durante la c.d. transizione tra la prima e la seconda
Repubblica. E’ difficile pensare che la partita sia chiusa con la recente conversione in legge
dell’ultimo decreto ad opera di un Parlamento oltremodo distratto.
2. La legge 20 dicembre 1995, n. 994 ha una doppia anima che la fa entrare in contraddizione
con se stessa.
Da un lato, essa incide sulla originaria disciplina delle preclusioni spostandole in avanti ben
dentro la fase introduttiva, oltre a risuscitare la necessità della reiterata diserzione dell’udienza ai
fini della cancellazione della causa dal ruolo.
D’altro lato, immette un istituto affatto nuovo, l’ordinanza successiva alla chiusura
dell’istruzione, secondo quanto recita la rubrica dell’art. 186 quater nel quale viene collocato. Con
questo provvedimento, emanabile su istanza dell’interessato, il giudice può disporre il pagamento di
somme di denaro ovvero la consegna o il rilascio di beni, nei limiti per cui ritiene già raggiunta la
prova, disponendo altresì sulle spese. L’ordinanza è revocabile con la sentenza che decide la causa.
Ma la sentenza non verrà emanata se la parte intimata dichiari di rinunciarvi, nonché se il processo
si estingue. In tali casi essa verrà sostituita a tutti gli effetti dall’ordinanza.
La contraddizione tra i due appena ricordati aspetti principali della legge che ha riformato la
riforma non si percepisce subito.
Occorre un approfondimento.
Bisogna riflettere prima di tutto sul significato da ascrivere alla modifica della disciplina delle
preclusioni.
Non è particolarmente preoccupante il loro slittamento in avanti, visto in sé e per sé. Di fronte
alle siderali durate del processo, l’incidenza di un rinvio che può essere opportunamente breve è di
sicuro scarsa.
Preoccupa, invece, e molto, il segnale che viene così lanciato, in grave contrasto con la filosofia
ispiratrice della Novella, eminentemente indirizzata verso l’abolizione dei tempi morti della
trattazione (5). Il nuovo testo dell’art. 180 suggerisce, molto semplicemente, che si può continuare
nella prassi dell’inconcludenza, dove gli operatori si illudono di lavorare, ma sovente sono costretti
ad affannarsi in attività futili, facendo rotolare da un’udienza all’altra la massa dei processi
pendenti, nel giuoco di specchi dei successivi rinvii e delle code davanti alla stanza del giudice per
ottenerli.
Il novantacinque per cento almeno delle prime udienze di comparizione avranno il solo scopo di
fissare il rinvio per trattazione, poiché è già ottimistico pensare che nel cinque per cento di esse si
abbiano verifiche negative della regolarità del contraddittorio o la necessità di emanare altri tipi di
provvedimenti che occupino il tempo dell’udienza (6).
Anche l’obbligatorio rinvio della causa ai sensi del ripristinato testo dell’art. 181, per venir
incontro alle esigenze dell’avvocato distratto o ritardatario, cospira nell’accreditare l’idea di una
totale rinuncia all’obbiettivo della concentrazione processuale.
Come si colloca il provvedimento immediato di condanna all’interno di un processo che
continuerà ad essere strutturato nella pratica secondo i moduli antichi, grazie ai ripensamenti
dell’ultima ora ed ai significati simbolici pesantemente restaurativi che vi sono implicati?
Male, purtroppo. Vedremo tra breve analiticamente il perché. Ma fin d’ora possiamo enunciare
la tesi: l’abbattimento dei tempi necessari alla decisione per il tramite di un provvedimento
immediato di condanna (che non sia da emanare al costo di ulteriori dilatazioni delle durate nei
casi per i quali non è previsto) esige una conoscenza dei fatti del processo al momento del
passaggio alla fase decisoria che il giudice può possedere solo all’interno di una cornice normativa
ispirata ai canoni dell’immediatezza e della concentrazione.
3. Facciamo un passo indietro.
Domandiamoci se sia stata opportuna la scelta di inserire, all’interno del processo ordinario a
cognizione piena, un provvedimento di merito, che è stato acutamente oltre che ironicamente
definito “a decisione sommaria”, per denotare il fatto che “è preso senza contraddittorio, con un
provvedimento che non esonera il giudice dall’emettere la sentenza” (7).
Si profila qui un problema di ordine generale piuttosto importante. A quanto pare nessuno
dubita più, neppure nel nostro Paese, della necessità di affrontare con spirito pragmatico la crisi
della giustizia civile, introducendo dove possibile strutture di “fast lane procedure” (8) che
consentano di arrivare in tempi ragionevoli alla decisione.
Ma l’innesto di queste strutture può avvenire secondo modalità diverse.
Si può trascinare sul tavolo operatorio il processo ordinario, per sottoporlo a manipolazioni
ortopediche piuttosto dolorose e di prognosi incerta.
Oppure si può ampliare l’ambito della cognizione sommaria, introducendo un nuovo
procedimento, basato su un rapido giudizio di probabilità circa la fondatezza della domanda, che
consenta, grazie al provvedimento esecutivo ma inidoneo al giudicato che lo conclude, di incidere
velocemente sui rapporti tra le parti, e consenta altresì al soccombente che lo desideri di riaprire la
lite davanti al giudice della cognizione piena.
L’alternativa è stata presentata in modo fazioso per far capire immediatamente al lettore la netta
preferenza per la seconda.
Già da molto tempo e in numerose occasioni (9) avevo lamentato che la ristrutturazione del
procedimento cautelare non avvenisse approfittando delle peculiarità dei provvedimenti di urgenza
rispetto ai provvedimenti cautelari in senso proprio per separarli da questi ultimi, trasformandoli, sul
modello francese del référé, in provvedimenti in grado di sopravvivere indipendentemente dal
radicamento (o dalla prosecuzione) del giudizio di merito, così da ribaltare sul soccombente l’onere
di domandare un provvedimento a cognizione piena che si sostituisse al provvedimento di
anticipazione sommaria.
Questo punto di vista è caduto nel più totale disinteresse. Solo recentemente si è sottratto al
destino della vox clamantis in deserto, avendo trovato l’adesione di uno studioso acuto come
Giorgio COSTANTINO (10). Guarda caso, ciò avviene proprio nel contesto di un’analisi
fortemente critica, anzi come vedremo per certi aspetti troppo critica, dell’art. 186 quater c.p.c..
La commistione dei modelli non offende soltanto il senso del dogmatico vecchia maniera, ma è
anche fonte di applicativi che non è esagerato definire difficilissimi, oltre che di inconvenienti di cui
non si sentiva proprio il bisogno: la nuova norma è entrata nella trama delicata e complessa del
processo ordinario con la grazia proverbiale dell’elefante nella cristalleria.
Per mettere ordine e incollare i cocci si capisce fin d’ora che sarà necessario molto lavoro.
4. Vi è di più. L’art. 186 quater è fonte di un pauroso guazzabuglio di complicazioni perché
racchiude una timida e per certi aspetti ipocrita soluzione di compromesso.
Queste complicazioni sarebbero state facili da evitare, se il legislatore avesse avuto un po’ più
di coraggio, e di fantasia.
In vista dell’abbreviazione delle durate processuali tramite la semplificazione della fase
decisoria, un risultato identico a quello perseguito con l’ordinanza ad istruzione esaurita si sarebbe
potuto molto più semplicemente ottenere introducendo la motivazione a richiesta delle sentenze di
merito di primo grado, magari collegandola all’esercizio del potere di impugnazione (11).
È facile immaginare il florilegio delle obbiezioni. Bisognerà tenerne accuratamente conto,
anche perché una di esse incide direttamente sulla ricostruzione dello stesso provvedimento ex art.
186 quater.
Cominciamo dall’obiezione più scontata. L’emanazione di una sentenza limitata al solo
dispositivo è vietata dall’art. 111 comma 1° Cost., ai cui sensi “tutti i provvedimenti giurisdizionali
devono essere motivati’’ (12).
Riflettiamo però sul fatto che nell’ipotesi prospettata non si è in presenza di un provvedimento
non motivato, bensì di un provvedimento a motivazione successiva. Anche eventuale, certo, ma
secondo l’arbitrio dell’interessato.
Chiediamoci allora quale sia la funzione della garanzia costituzionale nel caso particolare delle
sentenze civili di primo grado.
Con tutta franchezza, non credo che, per queste sentenze, la motivazione delle decisioni
rappresenti una garanzia irrinunciabile, in quanto consentirebbe al pubblico in generale il controllo
‘’democratico’’ dell’attività giurisdizionale
Il pubblico in generale non è generalmente interessato ai contenuti dell’attività giurisdizionale
civile di primo grado e i volumi che contengono le sentenze, tra l’altro consultabili solo su
autorizzazione ministeriale, giacciono negli archivi esposti soltanto alla critica roditrice dei topi e,
rarissimamente, alle curiosità scientifico statistiche di qualche ricercatore dotato di pazienza e
buona volontà.
L’eventuale interesse del pubblico, che può nascere in specifici casi dove vengano all’esame
questioni nuove, sarebbe senz’altro soddisfatto, per dir così in seconda battuta, dalla possibilità di
conoscere le motivazioni delle sentenze grazie ai gravami proposti dalle parti.
La garanzia costituzionale ha qui una funzione più ristretta in confronto a quella che la
motivazione assolve, assieme alla pubblicità, nel processo penale o, nel processo civile, nei gradi
superiori di giudizio e in particolare nel giudizio di cassazione.
La conoscenza degli argomenti di fatto e di diritto che sorreggono una decisione serve qui
essenzialmente alle parti, e in modo particolare al soccombente, interessato a soppesarli, nel
momento in cui decide di portare la sua critica alla sentenza.
Se così stanno le cose, la garanzia costituzionale appare perfettamente soddisfatta anche se la
sua concreta operatività è lasciata alla scelta di coloro che essa è indirizzata a proteggere.
Ma, ulteriormente si obietta, “se non si scrive la motivazione si rischia di non decidere bene la
causa”; il dovere motivatorio va in ogni caso assolto, “a garanzia della ricerca di decisioni giuste” (13),
insistendosi che “l’approfondimento del giudizio e la stesura accurata della sua motivazione non formano
nella realtà entità tra loro scindibili e non si può preservare il primo se non si lascia un posto centrale
anche alla seconda”.
Si dovesse accedere a questo punto di vista, avremmo non solo un irresistibile argomento contro
la costituzionalità della motivazione a richiesta, che dunque sarebbe sbagliato tentar di accreditare.
Saremmo anche costretti a ricostruire il nuovo provvedimento ex art. 186 quater in modo che il
risparmio di tempi processuali da esso assicurato diventerebbe irrisorio e incomprensibili le ragioni
della sua previsione, oltretutto a rischio del prevedibilissimo e puntualmente avviato corteo di
malumori e censure.
Proprio a questo modo ricostruisce il nostro provvedimento Claudio CONSOLO, proclamando
che l’ordinanza deve contenere “la compiuta motivazione dell’iter logico-giuridico seguito”,
cosicché i tempi di lavoro richiesti per la redazione... “non saranno – e soprattutto non dovranno
essere – in media molto più rapidi di quelli della corrispondente sentenza” (14), e aggiungendo che
occorre soddisfare l’esigenza che prima della pronuncia dell’ordinanza siano scambiate memorie
illustrative (nella sostanza comparse conclusionali, magari esse pure più concise)” (15).
Per lo più sono d’accordo con le acute analisi di CONSOLO. Questa volta accade
eccezionalmente il contrario. In verità, la motivazione non ha nulla a che fare con la bontà del
giudizio. Ha a che fare con la sua razionalizzazione a posteriori, che è tutt’altra cosa, come ben
sanno gli studiosi delle attività decisorie e come soprattutto risulta dalla disciplina positiva.
Lasciamo da parte i giudizi monocratici, dove la consecuzione temporale tra dispositivo e
motivazione non è percepibile (con la rilevante eccezione del processo del lavoro) e dove in un caso
– giudizi ordinari davanti al pretore – vi può essere contestualità tra i due elementi se il giudice
sceglie la modalità decisoria della lettura in udienza.
Per il processo tipo, quello davanti al tribunale, l’art. 276 c.p.c. ci fa sapere che prima il collegio
decide e poi l’estensore motiva, anche se – a differenza di quanto, comunque, accade nel processo
penale e in sede civile nel processo del lavoro – il dispositivo non acquista esistenza giuridica fino a
che non venga depositato, in una con la motivazione ed è dunque possibile (anche se nella realtà
molto raro) che fino a quel momento la camera di consiglio venga riconvocata su richiesta del
giudice estensore per una nuova deliberazione.
5. Abbiamo ora a disposizione qualche elemento per cominciare a scendere di quota e osservare
più da vicino l’oggetto della nostra indagine. Possiamo intanto prendere posizione su una
fondamentale questione di struttura. L’ordinanza ex art. 186 quater non ha i medesimi requisiti di
motivazione della sentenza. Non servirebbe osservare in contrario che, siccome l’ordinanza è
succintamente motivata (art. 134) e la sentenza contiene la concisa esposizione dei motivi in fatto e
in diritto (art. 132, n. 4) e siccome non si sa vedere la differenza tra ciò che è conciso e ciò che è
succinto, i requisiti di motivazione dei due provvedimenti devono essere identici.
Dobbiamo rifiutarci di soggiacere alla tentazione di giuocare con le parole. La volontà del
legislatore è chiarissima nel senso di disegnare una motivazione dell’ordinanza in tutto analoga alle
motivazioni che la prassi conosce per le ordinanze istruttorie, dove è sufficiente che il giudice si
limiti a spendere qualche parola circa l’esistenza dei presupposti per l’emanazione del
provvedimento. Al riguardo vi è solo da rilevare che, nel nostro caso bisognerà tener conto della
probabile maggiore complessità del giudizio: il giudice dovrà dire nel suo provvedimento quale
soluzione viene data a tutte le questioni dotate di valenza decisoria che si sono presentate.
Se davvero ordinanza e sentenza dovessero essere analogamente motivate, non si capisce
perché, in linea di principio, il giudice dovrebbe poi emanare la sentenza, al mancato verificarsi dei
due casi, estinzione e rinuncia, costruiti come eccezioni (alquanto ipocritamente, ma tant’è: hoc jure
utimur). Forse per la differenza dei nomi?
In buona sostanza, ha ragione chi ritiene che il giudice non è affatto tenuto, nel pronunciare il
provvedimento di condanna ad istruzione esaurita a motivare compiutamente l’iter logico-giuridico
che lo ha portato ad accogliere la relativa istanza (16).
La situazione è tutto sommato analoga quella che si sarebbe avuta con la motivazione a
richiesta. Solo, ci si è arrivati in modo più tortuoso, e con tante complicazioni in più.
6. Dobbiamo ora interrogarci più a fondo circa i reali vantaggi in termini di abbreviazione delle
durate, che sono ricollegabili alla semplificazione della fase decisoria implicata dal nuovo
provvedimento. O, il che è lo stesso dal nostro punto di vista ricostruttivo, dobbiamo domandarci
quali sarebbero stati i vantaggi ove si fosse introdotta la motivazione a richiesta delle sentenze.
Apparentemente, la risposta è facile ed è stata data. Con l’art. 186 quater sarebbe possibile “ottenere
un titolo esecutivo immediatamente alla chiusura dell’istruttoria, di contenuti pressoché identici alla
decisione di primo grado” (17). Analogamente, si è osservato che il provvedimento, nell’ottica di chi lo
ha escogitato, serve a rimediare alle durate del processo, tenuto conto che “oramai da anni, e in quasi tutti
gli uffici giudiziari del territorio nazionale, i tempi della decisione (ovvero i tempi che servono ai giudici
per scrivere le sentenze - corsivo mio) sono più lunghi dei tempi necessari alla stessa istruzione e
trattazione delle controversie” (18). Nello stesso ordine di idee e allo scopo di sostenere l’opportunità di
introdurre la sentenza con motivazione riservata chi scrive aveva rilevato che il giudice italiano spende,
sia pure nell’intimità della casa, gran parte del proprio tempo di lavoro nella stesura della motivazione
delle sentenze, grazie ad un’abitudine culturale, per cui la motivazione non viene intesa, alla francese,
come la secca enumerazione delle ragioni che giustificano l’emanazione di un atto dell’autorità, ma
piuttosto, alla tedesca, come una tribuna per la manifestazione del pensiero di un libero giurista (19).
Re melius perpensa, questi punti di vista debbono essere corretti, fortemente al ribasso. Con
l’attuale struttura del processo, non è affatto pensabile che la sostanziale e magari anche formale
abolizione del dovere della motivazione dimezzi le durate, anche se è vero che oltre la metà di
queste durate è oggi occupata dalla fase decisoria.
La necessità dell’autocritica rispetto a quanto mi è accaduto alquanto superficialmente di
sostenere nasce dalla seguente riflessione. Il giudice istruttore non è affatto in grado (come invece lo
è il pretore nel processo del lavoro) di emanare un dispositivo immediato al termine dell’istruzione
della causa.
Ammettiamo pure che il giudice istruttore non si sia limitato a seguire passivamente le attività
delle parti, assistendo come un convitato di pietra all’assunzione delle prove verbalizzate dai
difensori e fissando burocraticamente i successivi rinvii, come generalmente accade.
In ogni caso, al termine dell’istruzione egli ha la necessità di studiarsi una causa di cui non sa
nulla, perché ha ormai dimenticato tutto quello che ha appreso, come inevitabile effetto del semplice
trascorrere del tempo e del sovrapporsi dei diversi incombenti relativi alle centinaia o più spesso
migliaia di cause che giacciono sul suo ruolo. È questo un tributo inevitabile da pagare sull’altare di
un processo scritto e non concentrato, anzi così diluito che, ad esempio, per sciogliere la questione
di fatto, il giudice sarà costretto a studiarsi i verbali allo scopo di apprezzare le dichiarazioni di
testimoni che lui stesso ha ascoltato mesi o magari anni prima e che sono ormai cancellate dalla sua
memoria.
La conseguenza è che il nuovo istituto porterà ad un abbreviamento delle durate, ma non così
miracoloso come alcuni osservatori mostrano di credere. Il giudice dovrà comunque impadronirsi di una
causa di cui non è affatto padrone, prima di poterla decidere. A meno che non si acconci a tirare i dadi,
come il giudice Briglialoca di rabelaisiana memoria.
Certo, malgrado che il tempo di studio per la scelta del dispositivo sia probabilmente più ampio, nel
nostro processo scritto e diluito, del tempo da dedicare alla stesura dei motivi, può darsi benissimo che,
soprattutto nei primi tempi di applicazione della legge vengano emanate molte ordinanze di condanna
immediatamente a ridosso della chiusura dell’istruzione.
Ma, se questo succedesse e se quanto appena osservato è esatto, ci sarebbe, paradossalmente, da
essere preoccupati anziché soddisfatti. Di fronte all’istanza di parte per la condanna sommaria, i
giudici si concentreranno a studiare i processi nei quali è stata proposta, allo scopo di soddisfarla
prontamente.
Saranno così costretti a ulteriormente dilazionare la decisione per i processi nei quali l’istanza
non è stata proposta o non è proponibile.
Naturalmente, il paradosso e la relativa preoccupazione nascono con riferimento a questi ultimi. I
processi nei quali il legislatore non consente l’ordinanza di condanna sono infatti i più delicati e/o i più
importanti.
7. Esamineremo ora alcuni problemi esegetici relativi all’ordinanza ex art. 186 quater. Non
tutti, per le seguenti ragioni: perché il catalogo è ben lungi dall’essere completo e la fantasia
casistica non basta, occorre una lunga elaborazione ad opera del diritto vivente; perché i problemi
già venuti all’attenzione degli studiosi e della giurisprudenza sono così numerosi (ne ho contati una
cinquantina) che sarebbe già necessario una libro intero per affrontarli esaurientemente.
Due rilievi preliminari si impongono.
In primo luogo, voglio ribadire che nessuno dei problemi, a volte molto complicati, che saranno
affrontati nelle prossime pagine avrebbero impegnato l’esprit de finesse degli interpreti se il
legislatore avesse scelto la strada piana e semplice della motivazione riservata per le sentenze civili
di primo grado.
Ma in secondo luogo voglio sottolineare l’inopportunità di un atteggiamento che è dato cogliere
in alcuni dei primi interventi di commento. Intendo l’atteggiamento che, probabilmente a cagione di
un’antipatia di principio, magari giustificata, nei confronti delle scelte operate dal legislatore,
approfitta dei lati ambigui o delle lacune nella normativa per proporre interpretazioni che conducano
a complicare inestricabilmente la situazione processuale, scartando quelle che conducono invece a
ricostruirla in modo ragionevole, sia pure talora a prezzo di qualche forzatura.
7.1. Cominciamo dall’analisi del possibile oggetto del provvedimento.
7.1.1. Un primo problema al riguardo nasce in quanto da parte di alcuni si è sostenuto che,
nell’emanare l’ordinanza, il giudice non è vincolato all’osservanza della necessaria coincidenza tra
il chiesto e il pronunciato ex artt. 112 e 277 c.p.c. (20).
Per fare un esempio banale, di fronte ad una domanda di cento, il giudice istruttore potrebbe
emanare una condanna per i quaranta chiesti dalla parte, riservandosi di emanare successivamente la
sentenza in ordine ai rimanenti sessanta.
È facile immaginare le terribili complicazioni cui può dar luogo questa ricostruzione della
disciplina, a cominciare dai possibili contrasti teorici di giudicati tra le due pronunce qualora la
prima acquisti efficacia di sentenza e a finire con le difficoltà inerenti alla possibile contemporanea
pendenza in gradi diversi di giudizio di una causa avente per oggetto originario la medesima
domanda, qualora l’intimato rinunci alla sentenza e impugni l’ordinanza, mentre la causa prosegue
in primo grado per la parte non ancora decisa.
Queste complicazioni sono state difatti puntualmente denunciate da chi aderisce a questa
ricostruzione della normativa (21).
Ma una simile ricostruzione non è accettabile.
Non si riesce assolutamente a capire cosa dovrà fare il giudice con la “parte di domanda” che
non ha formato oggetto dell’istanza, se non mandarla immediatamente a decisione. Ora, è mai
possibile che il legislatore abbia voluto concedere alla parte di frazionare la sua domanda,
indirizzandone contemporaneamente i due tronconi a due diverse modalita di decisione? Ed è mai
possibile concepire un qualsiasi interesse di parte per un comportamento così irrazionale?
L’interpretazione che porta a questo risultato si basa, è vero, su due aspetti assai infelici dell’art.
186 quater c.p.c., là dove dice che il giudice istruttore può emanare l’ordinanza di condanna “nei
limiti in cui ritiene già raggiunta la prova” (primo comma) e dove precisa, per le due ipotesi ivi
previste, che l’efficacia della sentenza impugnabile è acquistata “sull’oggetto dell’istanza” (terzo e
quarto comma).
Tuttavia, la limitazione della efficacia della sentenza all’oggetto dell’istanza non significa
affatto che l’istanza possa avere un oggetto più ristretto dell’oggetto della domanda introduttiva del
giudizio.
Molto semplicemente (e senza necessità di farlo, donde gli equivoci interpretativi) il legislatore
ha voluto ricordare che l’eventuale autorità di cosa giudicata per mancata proposizione
dell’impugnazione ordinaria copre solo i possibili oggetti di istanza circoscritti al primo comma
(condanna al pagamento di una somma o alla consegna o rilascio di beni), mentre non può coprire le
eventuali questioni pregiudiziali che il giudice abbia dovuto risolvere per emanare l’ordinanza.
Quanto all’argomento che si vuol trarre dalla formula del primo comma, “nei limiti per cui
ritiene già raggiunta la prova” cominciamo con il notare che essa è il frutto di un vero e proprio
infortunio semantico, visto che il legislatore sta parlando di un provvedimento ad istruzione
esaurita, che non ha natura interinale, e con riferimento al quale non può pertanto pensarsi ad
ulteriori prove da assumere.
In realtà si tratta di un’espressione superflua e riassertiva. Andrà letta come se recitasse: “nella
misura in cui ritiene l’istruzione esaurita”, a ribadire che il giudice, se si accorge che è necessaria
un’ulteriore istruttoria (su qualunque categoria di probanda, costitutivi, modificativi o estintivi) non
può emanare il provvedimento.
Al riguardo è stata offerta un’altra possibile interpretazione, forse più stiracchiata, ma almeno
innocua sul piano ricostruttivo come quella appena offerta.
Viene suggerito che il legislatore, “alludendo ai limiti della prova ‘già raggiunta’, abbia inteso
(infelicemente) riferirsi al caso in cui l’istruzione sia stata esaurita... solo rispetto a talune delle più
domande cumulate... e il giudice disponga la separazione delle cause, ordini la precisazione delle
conclusioni solo rispetto a quelle già completamente istruite, e provveda per queste ultime a norma
dell’art. 186 quater” (22).
Certo è che, per quanti peccati si vogliano ascrivere al nuovo provvedimento, è esagerato
pensare che con la sua introduzione il legislatore abbia voluto stravolgere un principio fondamentale
del processo civile, come quello della corrispondenza tra il chiesto (con la domanda introduttiva) e
il pronunciato (con qualsiasi provvedimento capace di definire il processo). Padronissimo l’istante
di proporre un’istanza per una somma inferiore rispetto a quella domandata: vorrà dire che egli ha
ridotto il petitum.
7.1.2. Capita spesso che una condanna al pagamento di una somma di denaro o alla consegna o
al rilascio di beni sia condizionata dalla previa decisione di una causa pregiudiziale avente natura
costitutiva o di mero accertamento.
Il problema di come si collochi in questa ipotesi l’ordinanza ex art. 186 quater ha subito attirato
l’attenzione della dottrina, anche perché coinvolge una problematica di intensa complicazione ed
eleganza concettuale. Dal punto di vista dell’ordinanza, le cose sono peraltro abbastanza semplici.
Essa è sicuramente emanabile se la sentenza di accoglimento sull’azione costitutiva o di
accertamento è stata previamente emessa da un giudice che per qualsiasi ragione non si è ancora
pronunciato sulla correlata azione di condanna (ad esempio, per la sussistenza di esigenze istruttorie
da soddisfare).
Altrettanto sicuramente non potrà, invece, venire emanata cumulando nell’ordinanza la
decisione sull’azione costitutiva e quella sull’azione di condanna, per l’elementare motivo che un
provvedimento che non può venire ad esistenza isolatamente non può neppure nascere in simbiosi
con altro provvedimento consentito (23).
Se poi, relativamente alla questione che può formare oggetto di una separata domanda di
accertamento o costitutiva, è anche consentito un accertamento incidenter tantum ad opera del
giudice, questo accertamento insuscettibile di giudicato potrà ovviamente essere contenuto
all’interno dell’ordinanza di condanna ex art. 186 quater, né più e né meno di come può essere
contenuto all’interno di una sentenza emanata da un giudice che sarebbe incompetente per materia a
conoscerne in via principale (24).
7.1.3. Quid, se il giudice si convince che l’istanza sia infondata nel merito? certamente emanerà
un’ordinanza di rigetto.
Ma lo statuto di questo provvedimento è oscuro.
Il legislatore non ne parla e qualcuno potrebbe essere indotto a pensare che ci troviamo di fronte
ad una situazione analoga al caso di rigetto di un’istanza avanzata per ottenere un provvedimento
interinale ai sensi degli artt. 186 bis e ter.
Niente condanna alle spese e nessuna influenza sul futuro andamento del processo (25).
A mio giudizio occorre peraltro impegnarsi in una ricostruzione diversa, che tenga conto del
fatto che il provvedimento viene emanato, a differenza degli altri due, a seguito di una cognizione
piena e completa.
Colui che si è visto respingere l’istanza sa benissimo che, novantanove su cento, identico sarà il
contenuto della sentenza. Forse è inopportuno che, in attesa di
poter proporre l’impugnazione,
egli sia costretto a schiumare di rabbia, sicuramente a lungo e magari per anni perché il giudice, che
ormai ha deciso, sarà incline a privilegiare la definizione di altri processi sul suo ruolo.
Non mi accontenterei della tesi secondo cui l’efficacia di sentenza del provvedimento di rigetto
nel merito può essere acquistata solo nel caso di estinzione del processo (26), qualora si dovesse
ritenere che essa possa conseguire, oltre che all’inattività delle parti, ad una rinuncia agli atti che sia
accettata dalla controparte. L’istante si troverebbe comunque alla mercé del suo avversario,
“interessato” a coltivare il giudizio di primo grado allo scopo di procrastinare quello di gravame.
L’istante deve essere messo in grado di tagliare il nodo gordiano di un processo il cui esito in
primo grado è ormai scontato.
Possiamo arrivarci per due strade.
La prima: forzare la lettera dell’art. 186 quater alla luce delle osservazioni sistematiche e di
valore appena compiute, osservando che “intimato” ai sensi del comma è anche l’istante
soccombente, condannato alle spese.
Questa soluzione non è tuttavia a perfetta tenuta. Quando il giudice si sia avvalso del potere di
compensare le spese ai sensi dell’art. 92, comma secondo c.p.c., l’istante non potrebbe in alcun
modo acquistare la qualità di intimato.
Scegliamo allora anche la seconda strada e diciamo che l’istante totalmente soccombente può
comunque ottenere l’estinzione del processo rinunciando agli atti del giudizio, in quanto il suo
avversario, che ha vinto la causa in primo grado, non ha alcun interesse meritevole di tutela alla
prosecuzione, visto che l’efficacia di sentenza a suo favore, invece di aspettarla per chissà quanto, la
ottiene subito, grazie alla rinuncia agli atti compiuta dall’attore.
Inutile dire che ritenendo che sia percorribile anche questa strada, non siamo ugualmente riusciti
a comprendere tutte le possibili ipotesi.
Rimane fuori, ad esempio, il caso in cui, compensando le spese, il giudice abbia pronunciato,
respingendola, sulla domanda riconvenzionale del convenuto non incompatibile con la domanda
principale.
7.1.4. Quando l’istanza sia parzialmente accolta non esistono acrobazie interpretative capaci di
condurre alla conclusione che anche l’istante possa rinunciare all’emanazione della sentenza.
Giorgio COSTANTINO si è immediatamente reso conto dell’incongruenza di un
provvedimento costruito in modo tale da lasciare in talune ipotesi solo all’intimato la scelta sovrana
di trasformarlo in sentenza. Chieste mille e ottenute dieci, l’intimato sarà piacevolmente tentato
dall’idea di inchiodare l’istante al tempo lungo per l’emanazione della sentenza, così da rinviare ad
un futuro non tanto vicino il controllo del giudice superiore circa l’esistenza, magari evidente, di un
grossolano errore di valutazione.
È difficile sottrarsi al dubbio di una illegittimità costituzionale della normativa per violazione
della parità di trattamento.
Il ragionamento di LUISO (27), riferito ad un dubbio diverso, non tiene nel nostro caso. Viene
osservato che la logica del meccanismo è simile a quella del giuramento decisorio, dove chi lo
deferisce sa a quali rischi si espone e sa come evitarli non procedendo al deferimento.
Questa somiglianza si profila in ordine all’alea per l’istante di vedersi sottrarre la pronuncia
motivata, visto che per essere sicuri di ottenerla basta non proporre l’istanza. Non riesco a vederla in
ordine all’impossibilità per l’istante di sottoporre ad immediato controllo un provvedimento
ingiusto che lo pregiudica più gravemente dell’intimato, come nell’esempio fatto.
Pare, invero, comunque irragionevole che solo a costui sia concesso di ottenere l’immediata
efficacia di sentenza, mentre il primo è costretto ad attendere passivamente la sentenza successiva
che sarà quasi sempre riproduttiva dell’ordinanza.
7.1.5. In presenza dei requisiti richiesti dalla legge (domanda rientrante nella tipologia prevista,
esaurimento dell’istruzione) dovrà il giudice in ogni caso decidere sul merito dell’istanza? Oppure
si profilano ipotesi nelle guali gli è consentito, o addirittura gli è imposto, di emanare un
provvedimento di non liquet?
7.1.5.1. Sotto il primo profilo troviamo un precedente pubblicato del tribunale di Roma (28) che
afferma in termini alquanto apodittici l’esistenza di un potere discrezionale ricavandolo dalla lettera
della norma ove dice che “il giudice istruttore può disporre” e usa di questo asserito potere per
negare l’emanazione dell’ordinanza, in quanto si rende opportuna “la verifica in sede collegiale
delle prove acquisite”.
La dottrina che si è occupata del problema sembra invece orientata in senso contrario, facendo
leva sul classico argomento inteso a delegittimare il valore semantico ascrivibile all’indicativo
“può”, interpretandolo come manifestazione di un potere-dovere del giudice (29).
La soluzione del problema non è agevole, poiché abbiamo argomenti a favore di ambedue le
opposte soluzioni.
Per l’esistenza di un dovere del giudice di emanare il provvedimento una volta che ne abbia
acclarato i presupposti milita la sua inserzione all’interno di un grappolo di norme che disciplinano
altri provvedimenti di condanna (l’ordinanza di pagamento delle somme non contestate e
l’ordinanza ingiunzionale) per i quali, malgrado l’uso ricorrente dell’espressione “il giudice può”,
non vi è dubbio che il giudice deve emanarli se ritiene fondata la relativa istanza.
Contro l’esistenza del suddetto dovere non sta soltanto l’argomento escogitato dal giudice
istruttore di Roma, relativo alla particolare complessità della causa che può indurre il giudice
istruttore a ricercare il conforto del collegio. Anzi, questo è un argomento debole, prima di tutto
perché varrebbe soltanto nelle ipotesi di riserva di collegialità e non quando il giudice decide come
giudice unico.
Vi è piuttosto da valutare quanto già osservato ad altri fini e cioè che l’emanazione
dell’ordinanza immediata di condanna, se dovuta in ogni caso, può avere un effetto di disturbo sulla
regolarità dell’amministrazione della giustizia da parte del giudice invocato. Questi può trovarsi
nella situazione di gestire il proprio ruolo in modo fortemente irrazionale, emanando a getto
continuo le ordinanze ex art. 186 quater di cui sia richiesto e trovandosi così costretto a trascurare le
cause più complesse e più delicate di cui è investito. Un risultato che il legislatore non può
certamente aver voluto.
7.1.5.2. Appare comunque più interessante speculare circa la configurabilità di un non liquet
necessario.
Il problema si pone tutte le volte che si profili una questione pregiudiziale attinente al processo.
Si potrebbe essere tentati di ragionare nel modo seguente. Se, ad esempio, il convenuto ha
sollevato nei termini una questione di incompetenza per territorio su cui il giudice istruttore non ha
rimesso immediatamente in decisione la causa e poi a istruzione esaurita viene proposta l’istanza ex
art. 186 quater, il giudice non può decidere sull’istanza perché prima viene la decisione sulla
questione di competenza, che deve essere data necessariamente con sentenza.
D’altra parte, una volta effettuata la rimessione totale per la decisione della questione di
competenza, il giudice è nella pienezza dei suoi poteri per decidere anche nel merito, qualora ritenga
la questione di incompetenza non fondata. Non c’è dunque spazio, in casi del genere, per decidere
sull’istanza indirizzata ad ottenere l’ordinanza di condanna ad istruzione esaurita.
Va osservato che l’adesione ad un orientamento del genere comporta la conseguenza di lasciare
nelle mani del controinteressato l’emanabilità del nuovo provvedimento di condanna. Questi
potrebbe sempre paralizzarla sollevando una qualunque questione processuale idonea in astratto a
definire il giudizio e, pertanto, da decidersi in linea di principio con sentenza.
È questa una conclusione ovviamente inaccettabile, ma anche facile da schivare.
Basta far perno sul potere di delibazione riconosciuto al giudice istruttore dall’art. 187 comma
3° c.p.c. in ordine alla fondatezza delle questioni processuali che gli vengono avanzate. Un potere
che ha giusto la funzione di orientarne i comportamenti in vista della decisione.
Se intendiamo l’estensione di questo potere alla luce del nuovo provvedimento sembra
ragionevole pensare che, di fronte all’istanza ex art. 186 quater, il giudice rifiuterà di deciderlo nel
merito con un non liquet (esplicito o implicito, non importa) se e solo se ritenga fondata la
questione pregiudiziale attinente al processo.
In tal caso egli dovrà rimettere la causa in decisione per l’emanazione della sentenza assolutoria
dell’osservanza in giudizio.
Nel caso contrario, invece, la delibazione di infondatezza della questione lo orienterà a decidere
nel merito l’istanza per l’ordinanza di condanna.
Vedremo dove si indirizzeranno al riguardo le prassi, ma è da ritenere che non sia necessario (e
forse neppure opportuno) che il provvedimento dichiari infondata l’eccezione processuale.
A questo punto sorge una piccola difficoltà.
Dobbiamo domandarci quale sorte subirà l’eccezione processuale nel caso che l’ordinanza
assuma efficacia di sentenza. La risposta ha da essere nel senso che il convenuto soccombente potrà
riproporla in sede di gravame con i mezzi consentiti. Se si tratta, come nell’esempio fatto, di
un’eccezione di competenza, egli potrà, a sua scelta, impugnare il provvedimento con l’appello
oppure con il regolamento facoltativo di competenza. La decisione sul merito dell’ordinanza
comporta, infatti, una implicita decisione di infondatezza della eccezione processuale anche se di
essa non viene dato conto nella motivazione.
7.2. A norma del secondo comma dell’art. 186 quater la nostra ordinanza “è revocabile con la
sentenza che decide la causa”.
Se si riflette sulla struttura e sulla funzione del provvedimento è facile cadere nella tentazione di
offrire una lettura molto restrittiva di questa revocabilità. Verrebbe voglia di sostenere che il
legislatore intende semplicemente segnalare che l’ordinanza è sostituita dalla sentenza, con una
motivazione articolata al posto di quella succinta, ma con dispositivo identico per quanto attiene all’
“oggetto dell’istanza”.
Andare in contrario avviso, ritenere cioè che il giudice istruttore in funzione di giudice unico
oppure il collegio possono emanare una sentenza con un dispositivo diverso rispetto a quello
dell’ordinanza vuol dire riconoscere l’esistenza di una doppia singolarità.
Siccome l’ordinanza viene emanata, come abbiamo dianzi veduto, a seguito di una cognizione
completa alla fine dell’istruzione (a differenza di quanto accade per gli altri provvedimenti anticipatori,
pure revocabili, in questo caso opportunamente) (30), la revocabilità in senso proprio di essa significa
istituzione di una sorta di gravame all’interno del primo grado di cognizione. La revoca nascerà, invero,
all’esito dell’esercizio di un jus poenitendi del giudice istruttore o del controllo operato dal collegio in
ordine medesimo, materiale preso in esame al momento dell’emanazione dell’ordinanza, senza che, in
linea di principio (31), venga estesa l’area della cognizione nel passaggio dall’uno all’altro
provvedimento.
Una seconda stranezza, che pure non trova riscontro, nasce dal fatto che un mero atto di volontà
dell’intimato, la rinuncia alla sentenza, trasforma la natura dell’ordinanza, da provvedimento
provvisorio a provvedimento definitivo del grado, sottraendo al giudice un potere di riesame di cui è
originariamente investito e sottraendo all’istante (in ipotesi di soccombenza parziale) la possibilità
di godere i frutti dell’esercizio di quel potere, ottenendo fin dal primo grado di giudizio un
provvedimento di accoglimento totale della sua domanda.
Comunque, per quanto disinvolti siano ultimamente diventati i costumi interpretativi dei
processualisti, non si può soggiacere alla tentazione di leggere “l’ordinanza è revocabile dalla
sentenza” come se recitasse “l’ordinanza è revocata (id est assorbita) dalla sentenza”.
Non si può dubitare che il legislatore, vuoi per timidazza nei confronti dei provvedimenti di
anticipazione, voluti sempre come provvisori, vuoi per fatale attrazione esercitata dalla disciplina
dei provvedimenti già da qualche anno assestati negli artt. 186 bis e tris c.p.c., ha proprio inteso
attribuire al giudice il potere di “riformare”, re melius perpensa, il proprio provvedimento.
Piuttosto, vi è da dire che a fronte della declamata revocabilità, ci saranno, nella realtà della prassi,
ben poche revoche. Intanto, revocare l’ordinanza significa per il giudice ammettere di aver
commesso un errore e sappiamo bene che l’animo umano è poco portato all’autocritica.
In secondo luogo, va ricordato che il nostro provvedimento è stato inventato non per introdurre
una doppia decisione in primo grado e cioè un fattore di grossa oltreché inutile complicazione, ma,
tutto al contrario, per semplificare drasticamente la fase decisoria. La disciplina complessiva
malgrado la sua struttura apparente, alquanto venata di ipocrisia, è indirizzata all’acquisto
dell’efficacia di sentenza da parte dell’ordinanza, con una serie di stimoli per l’intimato (primo fra
tutti la possibilità di ottenere l’inibitoria dall’esecuzione forzata soltanto dal giudice di appello) a
rinunciare alla sentenza o ad accordarsi con l’avversario per l’estinzione.
Un norma destinata a rimanere inapplicata, dunque, la nostra.
Ma non sempre le norme inapplicate sono anche inutili. Qualche volta l’astuzia del legislatore
persegue scopi obliqui.
Nel nostro caso possiamo pensare che la ribadita provvisorietà di un provvedimento decisorio
che incide su diritti ha lo scopo di diffondere tra gli interpreti la certezza che il provvedimento non è
impugnabile con il ricorso straordinario ai sensi dell’art. 111 Cost., che tanto ha contribuito a
inflazionare i ruoli della nostra Corte suprema.
7.3. Un problema molto dibattuto riguarda i tempi per la proposizione dell’istanza e per
l’emanazione del provvedimento. Siccome la norma dice che “esaurita l’istruzione, il giudice
istruttore, su istanza della parte..., può disporre....” la maggioranza della dottrina si è fatta l’idea che
il dies a quo per la proposizione dell’istanza e quello per l’emanazione del provvedimento siano
necessariamente coincidenti. Il dissenso riguarda soltanto l’individuazione di questo comune punto
di partenza.
7.3.1. In verità, non sembra esistere una ragione al mondo contraria alla legittimazione della
parte interessata a proporre l’istanza (naturalmente senza bisogno di procura speciale) in qualunque
momento anteriore alla precisazione delle conclusioni, che vedremo rappresentare – almeno con
riferimento al nuovo rito – il dies ad quem.
L’istanza potrà dunque essere presentata anche nell’atto di citazione o nella comparsa di
risposta in caso di domanda riconvenzionale (32). Naturalmente sarà opportuno, quando il giudice
istruttore non abbia risposto in un momento anteriore (v. infra), che l’istanza venga ripetuta in sede
di precisazione delle conclusioni, affinché non sorga il dubbio che ad essa la parte abbia
implicitamente rinunciato.
7.3.2. Quanto al dies a quo per l’emanazione del provvedimento, il legislatore usa
un’espressione ambigua anche perché ellittica. La dottrina pressoché unanime ha già chiarito che,
per via di interpretazione estensiva, accanto all’istruzione esaurita va collocata l’istruzione superflua
(33), cosicché il provvedimento può venire emanato fin dalla prima udienza di trattazione (o magari,
nel caso di improbabile accordo delle parti o di contumacia del convenuto, fin dalla prima udienza
di comparizione ex art. 80 bis disp. att. c.p.c.) (34) quando si verifichi una concreta situazione
processuale che consenta, fin da queste udienze, la fissazione dell’udienza di precisazione delle
conclusioni e la rimessione in decisione per il merito (non essendo possibile, come abbiamo visto,
l’emanazione del nostro provvedimento quando la rimessione avvenga per la decisione di questioni
pregiudiziali o preliminari).
Sembra comunque certo che il provvedimento può venir emanato anche prima dell’udienza di
precisazione delle conclusioni (che continueremo a veder fissata, malgrado l’abrogazione dell’art.
110 disp. att. c.p.c.) (35).
Cerchiamo di definire meglio. Prendiamo il caso in cui l’istruttoria si è svolta. Il provvedimento
potrà venire emanato al termine dell’assunzione delle prove e nell’intervallo tra questo momento e
l’udienza di precisazione delle conclusioni, oltre che, naturalmente, in questa stessa udienza. Al
riguardo, si impone qualche avvertenza.
L’emanazione del provvedimento fa scattare anche nei confronti del giudice la preclusione nei
confronti della ammissione di mezzi istruttori di ufficio – che normalmente si colloca all’udienza di
precisazione. Se il giudice “ritiene già raggiunta la prova”, non può evidentemente assumere di
ufficio ulteriori prove.
Per quanto riguarda le parti, già decadute dalle istanze istruttorie ai sensi dell’art. 184, primo e
secondo comma, un problema si presenta con riguardo alla querela di falso, incidente istruttorio
proponibile in qualunque stato e grado del giudizio, e con riguardo all’istanza di restituzione in
termini per la deduzione di prove, sicuramente proponibile in linea di principio fino all’udienza di
precisazione. Si potrebbe essere tentati di pensare che l’emanazione del provvedimento ex art. 186
quater c.p.c., data la sua natura decisoria e la sua idoneità a trasformarsi in sentenza anticipa il
momento finale entro cui, nel processo di primo grado, sono avanzabili le suddette istanze, che
rimarranno comunque proponibili in appello.
Ma forse la conclusione è troppo drastica. Certo, optando a favore dell’opposta soluzione per
cui tali istanze sono comunque proponibili all’udienza di precisazione, dovremmo poi chiederci se
la loro proposizione fa venir meno nella parte intimata il potere di rinunciare alla sentenza.
7.3.3. È quasi superfluo osservare che, per i processi sottoposti al nuovo rito, il nostro
provvedimento non è emanabile dopo la precisazione delle conclusioni.
La rimessione in decisione fa scattare in automatismo una serie combinata di termini che
devono condurre entro un lasso di tempo piuttosto breve alla decisione della causa: dentro lo
scorrere dei termini per la trattazione scritta in fase decisoria e per la successiva emanazione della
sentenza non c’è evidentemente spazio per l’ordinanza del giudice istruttore.
A diversa conclusione ritengo si debba pervenire in ordine ai processi disciplinati dal vecchio
rito.
Il legislatore ha voluto che anche ad essi fosse applicabile l’art. 186 quater, perché,
evidentemente, ha pensato all’efficacia deflazionatrice del provvedimento sui ruoli.
Tutti sanno che la fissazione dell’udienza di discussione spesso a distanza grandissima
dall’udienza di precisazione delle conclusioni ha avuto la funzione di filtro che d’ora innanzi
spetterà a quest’ultima.
Sembra allora opportuno pensare che il momento finale per richiedere ed emanare il
provvedimento sia dato dalla suddetta udienza di discussione.
Non vale, per obiettare in contrario, il ricorso alla metafora secondo cui, con la rimessione al
collegio, il giudice istruttore si sarebbe “spogliato” della causa (36). È una metafora che contiene in
sé, nascosta dal più alto livello di astrazione, proprio la conclusione che intende comprovare.
D’altronde non si dubita più, grazie all’intervento nomofilattico delle sezioni unite (37), circa la
competenza del giudice istruttore, spogliato o vestito che sia, ad emanare provvedimenti cautelari
dopo la rimessione della causa al collegio.
Analogamente, non c’è da dubitare in ordine alla sua competenza anche dopo quel momento ad
emanare il provvedimento ex art. 186 quater c.p.c. (38) che, se non ha funzione cautelare, ha per lo
meno la funzione di svegliare con una pronta decisione una causa magari destinata a dormire per
anni in attesa della camera di consiglio.
7.4. Il lettore ricorderà che la definizione del provvedimento come a cognizione piena, ma a
decisione sommaria è stata motivata anche in base al rilievo che esso sarebbe preso senza
contraddittorio. L’icastica definizione di LUISO va mantenuta. Ma a connotare la “sommarietà”
della motivazione, non la mancanza del contraddittorio.
Trattandosi di un’ordinanza essa va, direi quasi per definizione, data nel contraddittorio delle
parti. Non solo, genericamente, nel senso che essa si situa all’interno di un procedimento in
contraddittorio, ma più precisamente con riguardo al suo contenuto.
Secondo alcuni autori ciò starebbe a significare che il giudice, di fronte all’istanza di parte
dovrebbe fissare termini per lo scambio di memorie (39). Non sono d’accordo. Diritto al
contraddittorio non significa di necessità diritto al contraddittorio scritto. Al giudice spetterà la
scelta ai sensi del secondo comma dell’art. 180 c.p.c., magari privilegiando la regola
fortunosamente reintrodotta all’ultimo minuto, secondo cui la trattazione della causa è orale.
Di fronte all’istanza dell’interessato, l’istruttore potrà dunque tranquillamente invitare
l’avversario a discuterla in udienza, prima di pronunciare il provvedimento.
7.5. Nella scelta compiuta in ordine all’analisi di pochi tra i numerosissimi problemi
interpretativi posti dall’art. 186 quater c.p.c. rimane ancora da dire qualcosa sulla mirabolante
capacità di trasformazione di cui il nostro provvedimento è stato opportunamente investito:
l’acquisto della efficacia di sentenza impugnabile sull’oggetto dell’istanza.
Al riguardo occorrerà attenersi ad un principio informatore che dovrebbe essere riguardato
come fondamentale e al quale ci siamo ispirati per negare che l’art. 186 quater violi la
corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato. I singoli problemi andranno sempre risolti rispettando
la regola per cui non debbono entrare in contraddizione poteri di cognizione e provvedimenti del
giudice di appello con poteri di cognizione e provvedimenti del giudice di primo grado o di altri
giudici.
7.5.1. Il principio appena nominato consente di prendere posizione in ordine al momento a
partire dal quale il provvedimento acquista efficacia di sentenza nel caso di estinzione del processo.
Secondo alcuni tale momento va identificato con il verificarsi della fattispecie estintiva (40).
Secondo altri, invece, tale momento va identificato, analogamente a quanto dispone l’art. 129
comma 3° disp. att. c.p.c. in materia di decorrenza del termine per l’impugnazione delle sentenze
non definitive pronunciate nel processo estinto, con il giorno in cui diventa irrevocabile l’ordinanza
o passa in giudicato la sentenza che dichiara l’estinzione del processo (41).
Ovviamente, in base alle premesse, ci dobbiamo orientare verso quest’ultima soluzione, che non
crea problemi di coordinamento tra il giudizio di appello e il giudizio concernente l’avvenuta o no
estinzione in primo grado.
È stato obiettato che questa soluzione porta con sé un inconveniente piuttosto grave. Essa
implicherebbe la paralisi dei poteri di impugnazione sino a quando non sia stata accertata in via
definitiva l’estinzione del processo, cosicché la parte intimata dovrebbe nel frattempo ‘’subire gli
effetti dell’ordinanza’’ (42). Immagino che l’allusione sia agli effetti esecutivi, non paralizzabili
chiedendo, l’inibitoria al giudice di secondo grado. È un’obiezione che non preoccupa. Si tratta di
un esempio del classico telus imbelle sine ictu.
Se l’intimato desidera impugnare l’ordinanza e poterne veder sospesa l’efficacia esecutiva o
l’esecuzione non ha che da rinunciare all’emanazione della sentenza prima di lasciar estinguere il
processo. Se così non ha operato, e anzi litiga a lungo sulla questione dell’estinzione portandola
davanti ai giudici superiori, ciò non può che significare che egli – eventualità a dire il vero
romanzesca, ma da non escludere ad opera della fantasia casistica, obbligata a razionalizzare la
disciplina anche di fronte alle ipotesi più cervellotiche – non vuole che l’ordinanza diventi sentenza,
ma vuole che l’ordinanza sia sostituita dalla sentenza.
7.5.2. Uno dei primi commentatori del nuovo istituto (43) ne ha ravvisato una stretta
correlazione con il giudizio di appello, nel senso che quest’ultimo non può strutturarsi qui come
revisio prioris instantiae. La critica della decisione impugnata diventerebbe impossibile quando
manchi la compiuta esposizione dell’iter logico giuridico che ha condotto al dispositivo. Di
conseguenza, “l’appello si configura come un trasferimento del giudizio, una prosecuzione del
processo dinanzi ad altro giudice. Riacquistano così vigore le opinioni che vedono nell’appello ‘la
prosecuzione del procedimento di primo grado ripreso nella condizione in cui si trovava prima della
chiusura della discussione’ ”(44).
Ora, è certamente vero che i motivi della citazione di appello, di fronte all’ordinanza
succintamente motivata secondo i criteri visti più sopra non possono articolarsi come
controargomenti nei confronti di argomenti rimasti inespressi, chiusi nel foro interno del giudicante.
Ma ciò non significa vedersi costretti a riaccreditare le antiche concezioni dell’appello sopra
menzionate. Si tratta invero di concezioni ispirate dall’idea che il giudizio di secondo grado sia
informato dall’effetto devolutivo inteso nella sua massima estensione, come riemersione
automatica, davanti al giudice del gravame, di tutto il materiale di cognizione portato in primo
grado, indipendentemente dall’iniziativa di parte.
Questa riemersione non si verifica nell’appello come disciplinato dal nostro legislatore, neppure
se si tratta di appello contro un’ordinanza ex art. 186 quater c.p.c.
È vero che l’ordinanza non dà conto, nella ricostruzione accolta, degli argomenti che
sorreggono una determinata soluzione prescelta in ordine alle eccezioni o alle ragioni delle domande
portate in primo grado. Essa deve, però, ovviamente, partitamente risolvere tutte le questioni di tal
tipo che si sono ivi profilate. L’appellante dovrà di conseguenza, per il tramite dei motivi,
lamentare, una per una, le soluzioni sfavorevoli che intende portare al riesame (e lo stesso deve fare
l’appellato vittorioso), in ordine alle (ragioni delle) domande ed alle eccezioni non accolte ex art.
346 c.p.c.
Facciamo un esempio banale. Se di fronte alla domanda di condanna al pagamento di un credito
il convenuto ha eccepito la prescrizione e contestato i fatti costitutivi, l’ordinanza di condanna dovrà
sia respingere espressamente l’eccezione di prescrizione (senza invece dover argomentare le ragioni
del rigetto) che dare per esistenti i fatti costitutivi. Ma se il convenuto appellante lamenta in secondo
grado soltanto la ritenuta esistenza dei fatti costitutivi, egli non potrà ottenere la riforma
dell’ordinanza-sentenza in base ad una declaratoria di prescrizione del credito, ciò che dovrebbe
poter avvenire, invece, in base alle antiche e superate concezioni dell’appello per cui esso
consisterebbe nella “prosecuzione del procedimento di primo grado ripreso nella condizione in cui
si trovava prima della chiusura della discussione’’, cosicché davanti al giudice ad quem riemerga
automaticamente, in virtù dell’effetto devolutivo, tutto il materiale di cognizione portato dinnanzi al
giudice a quo.
(*) Relazione al Convegno di Studi organizzato dal C.S.M. a Frascati dal 12 al 15 marzo 1996,
destinata agli Scritti in onore di Giuseppe Ragusa Maggiore.
(1) Anche se va condiviso l’auspicio di SCHLESINGER, Convertito in tempo il decreto-legge
sul processo civile, in Corr. giur., 1996, 5 ss. per un pausa di quiete che consenta al diritto vivente
di operare gli aggiustamenti possibili, mentre che, come chiede CONSOLO, Il processo civile si
emancipa (con qualche acciacco) dalla decretazione d’urgenza, in Gazz. giur., Giuffré-ItaliaOggi,
1996 n. 2, 3 ss. si pone mano, con calma e giudizio, a riforme più meditate.
(2) Cfr. COSTANTINO, Il processo incivile nel 1995 (note sull’applicazione dimezzata della
riforma), in Foro it., 1995, V, c. 230, il quale ricorda una deliberazione del Consiglio dell’ordine
degli avvocati e procuratori di Roma dove si afferma che le preclusioni connesse agli atti
introduttivi riguardano anche le deduzioni istruttorie.
(3) SCHLESINGER, La riforma della riforma. Giustizia civile: ancora un decreto, Editoriale in
Corr. giur., n. 9/1995.
(4) VERDE, Ma la colpa non è dei rinvii, in Foro it., 1995, V, c. 270.
(5) Ma non dell’istruzione probatoria. Cfr., al riguardo, la critica di TARUFFO, Le preclusioni
nella riforma del processo civile, in Riv. dir. proc., 1992, p. 299 s.
(6) Cfr., al riguardo, i rilievi di COSTANTINO, La lunga agonia del processo civile (Note sul
d.l. 21 giugno 1995 n. 238), in Foro it., 1995, V, 326.
(7) LUISO, Il D. L. n. 238/1995 sul processo civile, in Giur. it., 1995, IV, 246.
(8) In Inghilterra il dibattito in proposito ferve da qualche tempo. Cfr., al riguardo,
ZUCKERMAN, Interlocutory Remedies in Quest of Procedural Fairness, in Modern Law Review,
1993, (56), 325 ss; Mareva Injunctions and Security for Judgment in a Framework of Interlocutory
Remedies, in Law Quarterly Review, 1993, (109), 432 ss.
(9) Cfr., ad esempio, Considerazioni inattuali sulla novella del processo civile (con particolare
riguardo ai provvedimenti cautelari e interinali in Foro it., 1990, V, 499 ss.; Prime riflessioni sui
valori sottesi alla novella del processo civile, in Riv. dir proc., 1991, 657 ss.
(10) La lunga agonia del processo civile, cit., 332.
(11) Avevo avanzato questo suggerimento in Accesso alla giustizia e uscita dalla giustizia, in
Doc. giust., 1995, n. 1-2, 23 ss.
(12) Così, da ultimo, SPERA, I provvedimenti interinali ex artt. 186 bis e 186 ter c.p.c.
L’ordinanza successiva alla chiusura dell’istruzione ex art. 186 quater c.p.c., Relazione all’incontro
di studio organizzato dal C.S.M. e tenutosi a Frascati dal 25 al 27 gennaio 1996; CONTE, Appunti
sull’ordinanza ex art. 186 quater c.p.c.: primi orientamenti, in Corr. giur., 1996, 234 s.
(13) CONSOLO, Attese e problemi sul nuovo art. 186 quater (fra condanna interinale e
sentenza abbreviata), in Corr. giur., 1995, 1416, nota 26 e 1417.
(14) Op. cit., 1416.
(15) Op. cit., 1417.
(16) Cfr. gli autori citati alla nota 17.
(17) BUCCI, L’art 186 quater: una norma “grimaldello”?, in Giust. civ., 1995, II, 303.
(18) SCARSELLI, Osservazioni sparse sul nuovo art. 186 quater c.p.c., in Foro it., 1995, V,
390, e v. anche BALENA, Ancora “interventi urgenti” sulla riforma del processo civile, in Giur.
it., 1995, IV, 329.
(19) Accesso alla giustizia e uscita dalla giustizia, cit., 40.
(20) COSTANTINO, La lunga agonia, cit., 330; NAPPI, Rilievi problematici sull’ordinanza
successiva alla chiusura dell’ istruzione (art. 186 quater c.p.c.), in Foro it., 1995, I, 3313, ove si
parla di una “sentenza che può condannare al pagamento delle somme o alla consegna o al rilascio
di quei beni, per i quali, al momento della chiusura dell’istruzione, il giudice non aveva ancora
ritenuto raggiunta la prova (o che non erano stati chiesti con l’istanza)” – per quanto, vien da
osservare, se la prova non è stata ritenuta raggiunta, l’istruzione non può considerarsi esaurita;
CARRATTA, voce Ordinanza anticipatorie di condanna (dir. proc. civ.), in Enc. giur., Vol., Roma,
1996, 22. Contra LUISO, Op. cit., 248; CONSOLO, Op. cit., 1413.
(21) SCARSELLI, Osservazioni sparse, cit., 394 e 397.
(22) BALENA, Op. cit., 331.
(23) Cfr. Trib. Chiavari 7 luglio 1965, in Foro it., 1995, I, 3306, con riferimento alla domanda
di condanna che sia conseguenza di un’azione diretta ad ottenere una sentenza produttiva degli
effetti di un contratto non concluso; CONSOLO, Attese e problemi, cit., 1412, con riferimento alla
revocatoria fallimentare.
(24) Nello stesso senso cfr. SCARSELLI, Osservazioni sparse, cit., 393, ove opportunamente
viene ricordato che gli orientamenti giurisprudenziali e dottrinari più recenti circa l’estensione del
giudicato (e la correlativa restrizione dell’ambito degli accertamenti incidenter tantum) hanno di
fatto ridotto la possibilità di tal genere di accertamenti all’interno dell’ordinanza di condanna, come
di qualsiasi altro tipo di provvedimento decisorio.
(25) BUCCI, Op. cit., 302.
(26) È la tesi di SCARSELLI, Op. cit., 398.
(27) Op. cit., 247.
(28) Ord. 12 agosto 1995, in Foro it., 1995, I, 3307.
(29) Da ultimo CAMPESE, L’ordinanza successiva all’istruzione di cui all’art. 186 quater
c.p.c., in Corr. giur., 1996, 112.
(30) Perché si tratta di provvedimenti anticipatori basati su una cognizione sia sommaria che
parziale, i cui risultati possono facilmente venir contraddetti dall’evoluzione del processo
successiva alla loro emanazione. Ben si comprende, allora, come mai la mancata previsione della
revocabilità del decreto ingiuntivo nel corso del giudizio di opposizione abbia dato luogo al rilievo
di una questione di legittimità costituzionale (cfr. Trib. Salerno ord. 13 aprile 1995, in Gazz. Uff.,
1° serie speciale, 14 giugno 1995, n. 25) per violazione del diritto di difesa dell’intimato, nonché del
principio di uguaglianza con riferimento alla prevista revocabilità dell’ordinanza ingiunzionale di
cui all’art. 186 ter c.p.c.
(31) Un’eccezione è rappresentata dal jus superveniens. Peraltro, si tratta di un’eccezione
apparente, come è dimostrato dall’applicabilità del’ ius superveniens anche in sede di gravame.
(32) Così CARRATTA, Op.cit., 20.
(33) CONSOLO, Attese e problemi, cit., 1407. CONTE, Appunti, cit., 226; Contra,
isolatamente, CAPPONI, Commento al d.l. n. 238/1995, in Corr. giur., 1995, 778 s. a cui parere
l’ordinanza “non sembra che... possa trovare applicazione allorché un’istruttoria non sia stata
richiesta ovvero non sia stata ritenuta necessaria”.
(34) Molto opportunamente, viene fatto notare dal TARZIA, in Il Sole 24 Ore del 17 febbraio
1996 che il convenuto contumace non ha diritto allo sdoppiamento tra udienza di prima
comparizione e prima udienza di trattazione, né alla fissazione del termine di cui al secondo comma
del nuovissimo art. 180 comma secondo c.p.c..
(35) Contra, CARRATTA, Op. loc. cit. È nostra opinione che l’udienza di precisazione delle
conclusioni acquisterà un’importanza fondamentale nel processo riformato, poiché essa costituirà,
per così dire, il filtro organizzatorio capace di consentire, attraverso una fissazione più o meno
lontana a seconda del più o meno gravoso carico di lavoro del giudice, il rispetto dei tempi per la
decisione imposti dall’art. 275 quarto comma e 190 bis secondo comma c.p.c..
(36) Così, invece, CAMPESE, Op. cit., 110. Analogamente COSTANTINO, La lunga agonia,
cit., 329; BALENA, Ancora “interventi urgenti”, cit., 331.
(37) Cass. 14 dicembre 1981, n. 6594, in Giust. civ. Mass. 1981.
(38) Nello stesso senso LUISO, Op cit., 246; CONSOLO, Op cit., 1407; DI GIOVANNI e
NIUTTA, Competente il g.i. ad emettere ordinanza ex art. 186 quater c.p.c. anche dopo la
rimessione della causa al collegio, in Corr. giur., 1996, 85 ss..
(39) Cfr., a titolo di esempio, CONSOLO, Attese e problemi, cit., 1417, che, già lo abbiamo
ricordato, parla dell’esigenza di scambiare “memorie illustrative (nella sostanza comparse
conclusionali), magari esse pure più concise”, nel contesto di una ricostruzione generale del
provvedimento che, comprendendo l’obbligo della compiuta motivazione dell’iter logico giuridico
seguito, rende difficile comprendere l’utilità della recente escogitazione legislativa.
(40) BALENA, Op. cit., 332, in base ad un argomento ricavato dalla regola, in verità alquanto
misteriosa, per cui, ai sensi dell’art. 307 ult. comma c.p.c., “l’estinzione opera di diritto”.
Analogamente, BUCCI, Op. cit., 301; CALIFANO, Il nuovo art. 186 quater c.p.c., in Giust. civ.,
1995, II, 569.
(41) LUISO, Op. cit., 246; CAMPESE, Op. cit., 113; CONTE, Op. cit., 229.
(42) COSTANTINO, La lunga agonia, cit., 334.
(43) LUISO, Op. cit., 247.
(44) È la nota enunciazione di CHIOVENDA, Principii di diritto processuale civile, Napoli,
1912, 977.
L’ESECUZIONE MOBILIARE
Relatore:
dott. Silvio BOZZI
consigliere pretore di Firenze
Premessa
Non mancano certamente in materia di espropriazione mobiliare (e presso terzi) questioni sulle
quali sono aperti contrasti interpretativi delle norme, in dottrina e in giurisprudenza; ma, se anche ad
alcune di tali questioni sarà fatto cenno, ho ritenuto senza ombra di dubbio più utile ed opportuno
affrontare un discorso di prassi giudiziaria, in un materia dove non si pongono al momento problemi
applicativi di novità legislative (salvo quanto sarà accennato in tema di conversione del
pignoramento), mentre mi pare evidente l’esistenza di una generalizzata distonia tra quantità –
sicuramente molto rilevante – del “lavoro giudiziario” in materia di processi esecutivi, e puntualità,
rigore, adeguatezza delle prassi giudiziarie sia sotto il profilo di una sufficiente ottemperanza al
principio di legalità, sia con riguardo alla congruità della risposta giudiziaria alla “domanda di
giustizia”, sempre più articolata e complessa, che la società attualmente pone in materia di
esecuzione forzata per espropriazione.
Specialmente nei grandi uffici, operanti in realtà socio-economiche dinamiche e complesse, per
giunta fortemente investite dalla situazione attuale di crisi o di difficoltà economica e sociale, si
impone una sorta di adattamento della legalità meramente formale (duttilità, ampio ricorso alle
grandissime possibilità di sanatoria di atti formalmente irregolari) unita ad una strenua difesa della
legalità di fondo, quella dei principi e delle norme fondamentali; della tensione al raggiungimento
concreto dello scopo del processo espropriativo.
Negli uffici minori, in alcune sezioni distaccate di Preture Circondariali, mi risulta che spesso le
funzioni del giudice dell’esecuzione siano affidate ai vice pretori onorari, con notevole documento
per il servizio; ed anche magistrati togati spesso “sbrigano” il lavoro esecutivo.
Il foro, d’altra parte, ovunque non costituisce, se non occasionalmente e sporadicamente, un
momento di controllo della legalità, e si adatta alle diverse prassi, addirittura – qualche volta – a
clamorose illegalità.
I “punti” indicati nello schema di questo incontro sono soltanto alcuni tra quelli importanti; a
qualche altro sarà fatto cenno, per altri ancora non c’era assolutamente spazio.
I. Richiamo dei caratteri, principi normativi essenziali, istituti fondamentali del processo esecutivo,
con specifico riguardo al processo di espropriazione e a quello di espropriazione mobiliare in
particolare.
La disamina approfondita dei singoli temi richiederebbe una esposizione teorica tanto lunga
quanto non necessaria in questa sede. Mi limito perciò a fornire uno schema, meramente indicativo
di punti di riferimento essenziali.
– Processo “unilaterale”, disancorato dal “principio del contraddittorio”, ispirato soltanto al
principio (se di principio si possa parlare) della “audizione”.
– La “direzione” giudiziale del processo (art. 484 c.p.p.). La immutabilità del giudice
dell’esecuzione nel singolo processo (richiamo del citato art. 484 all’art. 174 c.p.c.) e la violazione
della norma nella prassi.
– Il controllo di legalità sugli atti del processo e il conseguimento dello scopo.
– Rilievo d’ufficio sull’esistenza del titolo esecutivo in senso formale, ed opposizioni
all’esecuzione.
– Revocabilità e modificabilità delle ordinanze del giudice dell’esecuzione, anche d’ufficio e
anche senza previa audizione delle parti o dell’altra parte.
– Opposizione agli atti esecutivi come strumento generale di controllo di legalità degli atti del
processo, in particolare dei provvedimenti del giudice dell’esecuzione. Risvolti positivi (mancanza
di ostacoli dilatori allo svolgimento del processo) e negativi (difetto di controllo di legalità) dello
scarso ricorso delle parti a tale opposizione.
II. Espropriazione mobiliare – Problematiche connesse alla ordinaria, rilevante insufficienza della
garanzia patrimoniale costituita dai beni pignorati.
1) - La situazione in generale. Lo “scopo” del processo esecutivo. Il rinvio della vendita dei beni
pignorati.
Il “nodo” è il conseguimento dello scopo del processo nonostante l’insufficienza della garanzia
patrimoniale.
Lo schema normativo del processo di espropriazione si fonda sull’implicito presupposto della
sufficienza della garanzia patrimoniale, che determini un effetto sufficientemente satisfattivo della
distribuzione del ricavato della vendita dei beni pignorati, o della loro assegnazione.
Oggi, per la consueta insufficienza della garanzia, la stragrande maggioranza dei processi non si
conclude con la vendita dei beni pignorati e la conseguente distribuzione del ricavato, ma, ove
addirittura non produca alcun risultato per sottrazione dei beni pignorati o a seguito di opposizione
di terzo, si conclude, positivamente per il creditore, con la rinuncia all’esecuzione per avvenuto
pagamento del debito, dopo rinvii della vendita per pagamenti in conto.
Quando il processo perviene alla vendita dei beni pignorati, quasi sempre il risultato è
largamente insufficiente.
La situazione non cambierebbe in modo rilevante anche sei i pignoramenti fossero fatti con
maggior diligenza e rigore, e – in alcune sedi – se fossero meglio organizzate e curate le vendite
giudiziarie. È l’economia attuale che determina l’assunzione di obbligazioni di valore fortemente
superiore a quello della garanzia patrimoniale di cui dispone il debitore.
Quindi il processo di espropriazione diviene satisfattivo non con il suo svolgimento
(teoricamente) patologico; non è quasi mai satisfattiva l’effettiva espropriazione, spesso porta a
soddisfazione la sola minaccia dell’espropriazione.
Si rende necessaria, conseguentemente, una rimeditazione – o meglio, una presa di coscienza
con precise implicazioni comportamentali – dello “scopo” del processo esecutivo, che è la
soddifazione del creditore nel singolo processo, non certamente il più rigoroso e rapido
espletamento dei processi, a prescindere dal loro risultato; e tanto meno una ipotetica funzione
“esemplare” di tale rigore e rapidità. I giudici dell’esecuzione devono quindi “gestire” i processi
espropriativi perché sia raggiunto, se possibile, il loro scopo.
Per questo ho messo in evidenza il tema dei “rinvii” della vendita mobiliare, normalmente
consentiti dal creditore eccezionalmente – e brevissimi – concessi dal giudice su istanza del
debitore, finalizzati a rendere possibile il pagamento del debito (è singolare che per molti ispettori
ministeriali, alquanto ignari delle norme processuali, il rinvio della vendita non sarebbe “previsto
dalla legge”; come se la legge non prevedesse la direzione giudiziale del processo e la revocabilità e
modificabilità delle ordinanze del giudice dell’esecuzione).
Risvolto tecnico giuridico (alquanto teorico per il rilevato adattarsi del foro ai “gusti” dei
singoli giudici): il rigetto dell’istanza del creditore per il rinvio della vendita, in una situazione di
insufficienza dei beni pignorati, motivato da esigenze di celerità nella definizione del processo (in
realtà di smaltimento dei processi) sarebbe frutto di cattivo uso del potere discrezionale del giudice,
e sarebbe quindi suscettibile di costituire oggetto di opposizione – fondata – “agli atti esecutivi” (è
ormai jus recptum” che la “irregolarità formale dell’atto del processo esecutivo, che legittima
l’opposizione, può consistere anche nella sua inopportunità, incongruenza, anche a prescindere dalla
violazione di specifiche regole formali).
2) - La “par condicio creditorum” nel processo di espropriazione singolare.
Il tema è strettamente collegato alle problematiche – già esposte – connesse all’insufficienza
della garanzia patrimoniale. È frequentissimo il caso ove si concedano rinvii della vendita dei beni
pignorati, che un debitore, pur avendo quei beni un valore di realizzo neppure sufficiente a
soddisfare uno solo dei creditori concorrenti, se intenda pagare e produca un reddito, riesca a
soddisfare tutti i creditori concorrenti. E poiché la pluralità di debiti di un solo soggetto verso
creditori diversi è frequente, specie se il debitore eserciti un’attività a qualunque livello
imprenditoriale, ne deriva che favorire la possibilità di realizzazione del concorso di creditori, in
situazione di “par condicio”, nel processo di espropriazione singolare, è cosa utile, perché idonea a
determinare il raggiungimento dello scopo del processo esecutivo molto più della frantumazione
dell’aggressione al debitore attraverso una pluralità di processi esecutivi, con l’attuazione di
privilegi sostanziali determinati da preclusioni di carattere processuale.
Viceversa, ultimamente la dottrina processualistica – che è poi il soggetto sociale autore
esclusivo e solitario delle riforme processuali legislative – ha accentuato programmaticamente una
tendenza ad evitare il concorso di creditori nell’espropriazione singolare mobiliare, fra l’altro non
dimenticando di ripetere che il principio della “par condicio” non avrebbe rilievo costituzionale.
Questa scuola di pensiero ha determinato una delle due sole modificazioni del codice di rito in
materia di processi di esecuzione, subito entrate in vigore, cioè la modificazione del terzo comma
dell’art. 525, e del suo combinato disposto con il quinto comma dell’art. 530: la elevazione da
cinquantamila lire a dieci milioni di lire del valore dei beni pignorati che esclude l’udienza per
disporre la vendita dei beni pignorati, e pone il limite per la tempestività dei pignoramenti
successivi, e degli interventi nell’espropriazione, al momento della presentazione del primo ricorso
per ottenere la vendita anziché al momento dell’udienza, così infliggendo un colpo durissimo al
concorso dei creditori e quindi alla realizzazione della “par condicio”.
Non insisto oltre su questo discorso, che forse è un mio “pallino”, pur determinato da una
lunghissima esperienza, se non per segnalare due problemi, uno di diritto e uno di prassi degli uffici
giudiziari.
Il primo concerne la possibilità di verificare se la lesione “processuale della “par condicio”, in
una situazione di diffusa insufficienza della garanzia patrimoniale, nonostante il teorico livello non
“costituzionale” del principio della “par condicio”, non determini irragionevoli e dannose disparità
di trattamento per i creditori, con lesione del più generale principio di uguaglienza e, soprattutto,
della concretezza del diritto alla difesa in giudizio.
Il secondo concerne l’ottemperanza, che mi risulta non diffusa, da parte delle cancellerie dei
giudici dell’esecuzione, al dovere di operare – prima che vi provveda il giudice se in qualunque
modo il problema in concreto gli si ponga – alle riunioni di pignoramenti in unico processo previste
dal secondo comma e dalla prima parte del terzo comma dell’art. 524 c.p.c. e alla indicazione del
limitato oggetto del “separato processo” di cui all’ultima parte del citato III comma dell’art. 524.
3) - La conversione del pignoramento.
L’istituto ha formato oggetto dell’altra delle due uniche innovazioni in materia di processo
esecutivo.
L’innovazione, ispirata alla solita esigenza di rendere più rapido il processo esecutivo, di
sottrarlo a espedienti dilatori del debitore, e alla solita indifferenza per il risultato concreto del
processo stesso, consiste:
a) nella previsione (saggia, a parte l’assurdità della modalità prevista) dell’onere di deposito di
una quota della somma dovuta contestualmente all’istanza di conversione;
b) nella abrogazione della conversione “rateale”, che era stata introdotta dalla legge 10 maggio
1976 n. 358: abrogazione voluta nonostante la manifestata contrarietà di quasi tutti i giudici
impegnati in processi di espropriazione mobiliare nelle più importanti sedi giudiziarie.
Sulle prassi giudiziarie da adottare in materia pongo due problemi.
Il primo riguarda la – per me sicuramente esistente – concreta possibilità tecnico-giuridica di
realizzare, sull’accordo (anche tacito) delle parti la conversione “rateale”.
Il secondo riguarda l’opportunità, sempre mediante la pre-organizzata mancata reazione delle
parti al provvedimento del giudice, di realizzare la conversione rateale con versamento delle rate
direttamente al creditore, e non nel libretto bancario con assegnazione finale dell’intera somma (la
semplice prassi instaurata in proposito nella Pretura di Firenze verrà oralmente descritta in
dettaglio).
III. Espropriazione presso terzi. Problemi connessi al pignoramento di crediti di lavoro, con
particolare riguardo, per taluni aspetti, a quelli dei dipendenti pubblici.
Il ricorso dei creditori all’espropriazione presso terzi ha avuto, negli ultimi anni, un incremento
addirittura enorme, specialmente per quanto riguarda il pignoramento del “quinto” delle retribuzioni
di lavoro subordinato, privato e – dopo le sentenze 89/1987 e 878/1988 della Corte Costituzionale –
pubblico.
Il problemi tecnico-giuridici in materia di espropriazione presso terzi sono tanti, e di notevole
spessore.Non è questa la sede per illustrarli, e mi limito perciò a segnalarne alcuni che
quotidianamente investono – o dovrebbero investire – le prassi giudiziarie in un grandissimo
numero di procedimenti.
In primo luogo potrebbe essere utile una ricerca comune sull’essere e il dover essere in punto di
modalità di raccolta della dichiarazione del terzo, sulla sua interpretazione al fine di considerarla
“positiva” o meno, sul modo di uscire da situazioni processuali di “impasse” in caso di
dichiarazione mancata o negativa non seguite da domanda di accertamento dell’obbligo del terzo,
sulla opportunità di consentire integrazioni successive di dichiarazioni “interlocutorie», sulla
strutturazione e la precisione di contenuti dell’ordinanza di assegnazione di crediti pignorati.
Per quanto riguarda in particolare il pignoramento di crediti retributivi sono da segnalare:
– il problema (secondo me insussistente ma talvolta enfatizzato nella prassi) del concorso tra
pignoramento e precedenti cessioni convenzionali (le c.d. cessioni del quinto);
– i pignoramenti successivi, le assegnazioni “in coda”, ad altre precedenti, l’organizzazione di
cancelleria per il rilevamento dei “precedenti” a prescindere dagli obblighi di menzione imposti al
terzo dall’art. 550 c.p.c.;
– la finalità della “chiamata nel processo” del sequestrante precedente (problema che non
riguarda soltanto il pignoramento di crediti retributivi);
– l’individuazione del terzo legittimato a rendere la dichiarazione, e a fondare la competenza
territoriale inderogabile (art. 26 e 28 c.p.c.) quando il terzo pignorato sia una società con sedi
secondarie, o sia lo Stato, per l’esigenza fondamentale che un determinato credito venga pignorato –
e sia ritenuto pignorabile – davanti ad un solo giudice, anche per la regolarità dell’eventuale
concorso di creditori (v. anche C. Cost. 6-10 giugno 1994 n. 231);
– l’ordinanza dichiarativa dell’incompetenza territoriale e la sua impugnabilità con
opposizione “agli atti esecutivi”.
L’UTILIZZAZIONE DEGLI STRUMENTI INFORMATICI
NELLA “GESTIONE” DEL PROCESSO
ESECUTIVO MOBILIARE
Relatore:
dott. Gianfranco D’AIETTI
consigliere della Corte d’Appello di Milano
SOMMARIO: 1. La gestione del processo esecutivo. - 2. Il processo esecutivo e la “filosofia” del suo
aspetto organizzativo. - 3. Gestione del fattore umano. - 4. L’analisi delle procedure e la loro
formalizzazione. - 5. La individuazione dei “colli di bottiglia” dei processi. - 6. La modulistica. - 7.
L’utilizzo di procedure informatiche. - 8. Le modifiche del processo esecutivo introdotte dalla
riforma. - 9. Conclusioni. – Allegati.
1. La gestione del processo esecutivo
Il processo esecutivo mobiliare è, generalmente, caratterizzato da una limitata presenza di
questioni squisitamente giuridiche e da una elevata quantità, invece, di problemi gestionaliorganizzativi la cui soluzione è condizionata dalle regole dettate dal codice di procedura civile.
Le norme del processo esecutivo sono state solo “sfiorate” dalla riforma processuale del 1990,
sotto ridotti e marginali profili. Ben altri potevano e dovevano essere gli “interventi urgenti” per
ridare un serio spazio operativo al processo esecutivo le cui norme, come è ampiamente
riconosciuto, furono redatte, fin dall’origine, con una certa trascuratezza.
Il quadro normativo del processo esecutivo appare ormai troppo “datato”, collegato ad una
generica ed arcaica concezione della “responsabilità patrimoniale”, senza tener adeguato conto della
reale dinamica dei fenomeni economici del giorno d’oggi.
Un efficace approccio metodologico ai problemi del processo esecutivo potrebbe, comunque,
consistere (senza il ricorso a modifiche legislative, pur necessarie) nell’ottimale utilizzo di tutte le
più efficaci tecniche di organizzazione volte al conseguimento dello scopo (la piena soddisfazione
esecutiva del credito) e nella valorizzazione di tutti gli elementi interpretativi che siano più
funzionali ad un rapido svolgimento dell’iter procedurale.
L’esperienza maturata presso la Pretura circondariale di Monza mette in evidenza che risultati
ampiamente soddisfacenti possono essere raggiunti attraverso: 1) un attento utilizzo delle risorse
umane; 2) l’individuazione di sequenze procedurali ben chiare e collaudate, rese disponibili
attravero strumenti di raffigurazione grafica; 3) un affinamento dei passaggi del processo tale da
“allargare i colli di bottiglia” 4) l’adozione di modulistica moderna ed efficace, 5) l’adozione di
opportune procedure informatiche dotate di un grado adeguato di flessibilità e di “intelligenza”.
2. Il processo esecutivo e la “filosofia” del suo aspetto organizzativo
La “filosofia” di fondo di una gestione organizzativa “aziendalistica” del processo esecutivo è
basata sulla considerazione che le numerose fasi del procedimento debbono ricevere un trattamento
che consenta un “ciclo produttivo” il più possibile standardizzato e nel quale tutte le ipotesi di
“varianze” del procedimento (ossia le anomalie rispetto all’iter prefissato) siano preventivamente
codificate e previste; in tal modo si realizza una struttura organizzativa che tratta anche i casi
anomali inserendoli nella gestione programmata dei processi. I casi anomali non sono tali, in
quanto in loro presenza la struttura della Cancelleria esecuzioni possiede già gli strumenti
concettuali (regole prefissate) ed operativi (modulistica e computer) per il trattamento. Anche
l'anomalia (prevista!), quindi, viene ricondotta allo “standard” con un aumento della “produttività”
dell’organizzazione.
La Cancelleria, quindi, lavora in base a sequenze operative prefissate (codificate, formalizzate
e tali da costituire la memoria storica dell’organizzazione), con la drastica riduzione di interruzioni
del “ciclo produttivo” e senza il coinvolgimento decisionale del giudice dell’esecuzione. Solo
l’anomalia non prevista, l’unica ad essere trattata, estemporaneamente, costituisce l’eccezione, in tal
caso, però, il “caso” viene esaminato in una riunione di gruppo (giudice dell’esecuzione,
cancelliere direttore della sezione ed altro personale interessato) e viene studiata una soluzione che
tenga conto sia della normativa in materia che degli aspetti organizzativi funzionali. Tra possibili
soluzioni interpretative viene quasi sempre privilegiata quella che procuri il minor disagio agli
utenti del servizio.
3. Gestione del fattore umano
Vi è una moderna tendenza degli economisti a quantificare il valore dei prodotti con riferimento
non tanto al valore intrinseco dei materiali di cui è composto, ma, piuttosto, con riferimento al
tempo-uomo impegnatovi.
Oggi il concetto del tempo-uomo costituisce l’elemento di più alto valore aggiunto. I costi
materiali, fisici, dei prodotti sono, nel mondo occidentale industrializzato, enormemente più bassi
rispetto al costo del lavoro umano.
Tale considerazione è maggiormente valida nel sistema processuale, in quanto i costi del
prodotto finale sono quasi tutti costi umani, ed appunto come tali essi vanno temporizzati
adeguatamente e quantificati. Un processo costa, alla fin fine, la quantità di unità di tempo che si
sono rese necessarie dai vari interventori nel processo.
Di tutti gli aspetti organizzativi-gestionali, quindi, il profilo relativo ai rapporti tra giudici
dell’esecuzione, tra questi ed il personale di Cancelleria ed ai rapporti interni di tale personale è
sicuramente quello più delicato per poter impostare uno “spirito di gruppo” che è il presupposto per
qualsiasi discorso sugli aspetti aziendali-organizzativi. Sicuramente trascende i limiti della presente
trattazione l’analizzare i contenuti di una corretta gestione dell’aspetto umano all’interno di una
organizzazione complessa, dal momento che i costi del processo sono rappresentati per la quasi
totalità, da impiego delle risorse umane è evidente, comunque, che la massima attenzione va
riservata proprio alle “persone” coinvolte operativamente nell’organizzazione.
Vanno, indicativamente, segnalati i problemi fondamentali: la creazione di un “gruppo” con
obbiettivi individuati e conosciuti; il coinvolgimento decisionale del personale ai vari livelli a cui
collabora, la individuazione di forme di promozione professionale tali da costituire un incentivo al
raggiungimento dei risultati; la risoluzione o, comunque, la gestione controllata degli inevitabili
conflitti interpersonali ed intra-gruppo; la nascita negli appartenenti al servizio del “gusto” di
appartenere ad una organizzazione i cui fini diventano l’obbiettivo del gruppo; l’adozione di
tecniche di lavoro innovative che valorizzino le singole funzioni ed evitino di far valutare come
inadeguate
le
modalità
del
lavoro
(con
conseguenti
frustrazioni).
4. L’analisi delle procedure e la loro formalizzazione
Esistono tecniche molto raffinate che permettono di qualificare attività e processi. Ogni impresa
dotata di un certo grado di complessità organizzativa utilizza strumenti adeguati per determinare la
sequenza ragionata (e preventivata) degli interventi di un certo ciclo produttivo.
L’analisi delle procedure e la loro formalizzazione attraverso i più progrediti strumenti di
gestione aziendalistica costituisce, quindi, una indefettibile condizione per una razionale
modernizzazione delle finzioni giudiziarie.
Laraffigurazione grafica delle procedure costituisce, nella moderna metodologia della cultura
di , un potente ed efficace strumento per un rapido apprendimento, in una visione sinottica
complessiva, della intera struttura di un processo (produttivo o organizzativo). La diagrammazione a
blocchi (altrimenti detta “flow-chart” o, italianizzando l’espressione originale, “carta o diagramma
di flusso”) consiste, difatti, nella rappresentazione grafica di procedure e di sequenze operative
attraverso figure simboliche di semplice intuitività, collegate tra di loro in una struttura ad albero
rovesciato.
Tali simboli sono in grado di visualizzare sinotticamente lo svolgersi di una procedura
attraverso il tempo ovvero anche solamente nelle sue fasi logiche.
Ciascun simbolo (trapezio, rombo, rettangolo ecc.) costituisce una forma convenzionale ed
univoca di un elemento o di una fase di una procedura. L’insieme di tali figure ed i loro
collegamenti (linee e frecce orientate) permettono di raffigurare graficamente complesse attività
procedurali, i presupposti che le contraddistinguono, le condizioni a cui sono sottoposte e le
diramazioni nelle quali si sviluppano.
Essere in grado di formalizzare in uno schema a blocchi una procedura giuridica significa (al di
là delle metodiche tecniche da utilizzare), inevitabilmente, doverne mettere a fuoco ogni aspetto,
sintetizzarne gli elementi peculiari, analizzarne i collegamenti funzionali e la logica interna,
scoprirne le lacune o, addirittura, taluni imprevisti sviluppi.
L’operatore che si impegni a formalizzare una procedura (tale termine è inteso in senso ampio,
comprendendo anche lo sviluppo logico di un problema non strettamente procedurale) è
inevitabilmente costretto ad approfondire e mettere in luce, in una visione sinottica, i vari profili e
momenti logici in cui si viene a snodare la procedura con la conseguente acquisizione di un
notevole arricchimento nel chiarimento del problema.
È inevitabile, infatti, che nel formalizzare graficamente i concetti l’operatore debba fare
innanzitutto opera di chiarezza in se stesso: i benefici si traducono soprattutto a livello divulgativo
in quanto ogni sia pur complessa procedura potrà essere appresa nei suoi aspetti fondamentali da
qualsiasi operatore pratico, sia pur frettoloso, che voglia rendersi conto della sequenza dei momenti
e degli sviluppi logici di un problema di cui non conosca bene gli aspetti qualificanti.
La diagrammazione delle procedure risulta utilissimo nella razionalizzazione dei processi
organizzativi. Fin dal 1985 presso la Pretura di Monza sono state messe a punto talune metodologie
di formalizzazione documentaria delle procedure correnti e si è tentato di costituire una sorta di
memoria storica dei processi organizzativi, non più affidati al tradizionale uso dei precedenti ma
fondati su una consapevole formalizzazione dello svolgimento e della sequenza delle operazioni.
Si sono concentrate, innanzitutto, le energie nella creazione di una organica e moderna
modulistica; è stato osservato che prospetti chiari ed articolati costituiscono una guida sicura per
chi è poco pratico e consentono di uniformare efficacemente i comportamenti da parte del personale
che si avvicenda negli uffici. Si è, infatti, notato che spesso il personale amministrativo che lascia
l’ufficio al quale era addetto spesso porta via, quasi come un patrimonio personale, le circolari e la
documentazione accumulate nei cassetti durante il proprio servizio. Troppo spesso le procedure
operative sono collaudate e messe a punto da una sola persona il cui trasferimento ad altro ufficio
comporta la totale perdita di tutta l’esperienza accumulata senza che vengano predisposti degli
strumenti organici per il trasferimento ad altri di tale patrimonio informativo; della procedura
rimane solo la riproduzione meccanicistica degli aspetti formali (i cosiddetti “precedenti
documentari”).
Alla Cancelleria della Pretura di Monza già da molti anni sono utilizzate flow-charts per la
esemplificazione e chiarimento di taluni aspetti delle procedure giudiziarie, ed in particolare,
esecutive.
Nei diagrammi allegati alla presente relazione sono raffigurati alcuni aspetti dell’iter del
processo esecutivo ed in essi viene messa in luce la struttura procedimentale ed i problemi connessi.
È evidente che i simboli scelti non sempre riescono a rappresentare in maniera del tutto esaustiva la
procedura, ed in certi punti la raffigurazione grafica non dà conto in modo adeguato di alcune
sottigliezze del fenomeno giuridico.
In molti casi lo svolgimento di una fattispecie giuridica comporta soluzioni complesse e non
univoche, sulle quali Autori giuridici hanno svolto complesse indagini; in tali casi sopperisce una
nota di rinvio ad un ulteriore diagramma ove il fenomeno può essere sviluppato in maggior
dettaglio.
Una rappresentazione più particolareggiata è tale da mostrare momenti conclusivi di scelte
decisionali, anche complesse, o addirittura le prassi utilizzate localmente da un certo ufficio
giudiziario.
Occorre chiarire che i simboli che vengono adottati sono tratti dalla tradizionale tecnica della
diagrammazione a blocchi dei processi produttivi. Questi simboli la cui scelta è fondata su
convenzioni comunemente accettate, sono in genere sufficienti per ottenere, soprattutto attraverso
una oculata utilizzazione del simbolo della scelta (definita attraverso il rombo: = ), una
diagrammazione di massima di quasi ogni problema giuridico; tale diagrammazione, se non
eccessivamente approfondita viene definita di 1° livello. Una maggiore precisazione delle
condizioni e presupposti porta ad una schematizzazione di 2°, 3°, ed anche 4° livello. Si suole dire
che, quando si sia raggiunto un tale ultimo livello di approfondimento, la procedura è stata talmente
delineata in tutti i suoi più minuti aspetti, da poter essere addirittura tramutata in linguaggio di
programmazione elaborabile elettronicamente.Altri strumenti più raffinati potrebbero essere
efficacemente utilizzati per l’analisi di quei processi organizzativi in cui la “tempificazione” appare
l’elemento più critico. Mi riferisco ai diagrammi di GANTT (che prendono il nome da un ingegnere
che nel corso della guerra di secessione americana mise a punto un metodo grafico per programmare
gli interventi logistici per gli approvvigionamenti) ed ai processi di PERT.
5. La individuazione dei “colli di bottiglia” dei processi
Proprio attraverso l’analisi funzionale delle procedure e la loro comparazione con gli obbiettivi
di razionalizzazione e di funzionalità dell’intero processo possono essere individuate quelle
soluzioni (anche sofisticate) per consentire la massima “fluidità” dell’iter procedimentale e la
riduzione drastica dei tempi tra un’attività e quella successiva.
Alla Pretura di Monza sono state messe a punto una serie di tecniche che hanno permesso di
ridurre drasticamente i “tempi morti” e di produrre un benefico effetto sui tempi complessivi della
procedura.
Fissazione delle vendite.
Negli scorsi anni, allorquando il sistema della “piccola espropriazione” era inapplicabile per la
irrisoria entità del limite di valore (L. 50.000), in accordo con il locale Ordine degli Avvocati e
procuratori fu ideato un meccanismo procedurale che consentisse, pur rispettando tutti gli
adempimenti ed i diritti di tutte le parti coinvolte nel processo, di evitare la drammatica perdita di
tempo costituita dalla udienza per la fissazione della vendita.
Alcune Preture avevano ritenuto di applicare la “piccola espropriazione” a tutte le procedure
esecutive che, pur superiori alle lire 50.000, rientravano, però, nella competenza per valore del Pretore,
interpretando la cifra di lire 50.000 (fissato quando la competenza per valore del Pretore era, appunto, di
lire 50.000) come un valore “mobile” collegato alla competenza per valore; in tal modo avevano abolito
direttamente l’udienza prevista dall’art. 530 c.p.c. ritenendo applicabile la “piccola espropriazione”. Ai
vantaggi di snellimento dell’attività (fissazione della vendita con decreto ed elusione dell’udienza di
fissazione della vendita) corrispondevano, però, conseguenze giuridiche che creavano profonde disparità
di trattamento tra i creditori. La più rilevante era rappresentata dal fatto che, non essendo fissata l’udienza
ex art. 530 il termine per gli interventi tempestivi era rappresentato dalla data in cui il creditore pignorante
aveva depositato all’istanza di fissazione della vendita.
Una soluzione operativa che ha dato eccellenti frutti, senza però creare disparità processuali di
trattamento è stata quella di fissare preventivamente TUTTI gli elementi del provvedimento di
vendita dei beni pignorati con lo stesso decreto con il quale le parti venivano convocate per
l’udienza. Tale udienza veniva tenuta solo se taluna delle parti del processo intendesse far valere
una qualche sua ragiane. La data dell’udienza era quella utile per gli interventi tempestivi e per
l’opposizione agli atti esecutivi. In caso contrario (ed era questa la regola, ormai “metabolizzata”
dalla quasi totalità degli operatori e dei “debitori abituali”) all’udienza non si presentava nessuno.
Qui interveniva l’unica vera “omissione” del giudice dell’esecuzione. In presenza di una data di
vendita ormai già fissata e comunicata a tutti gli interessati e di un incarico all’I.V.G. già trasmesso,
il giudice dell’esecuzione evitava di valutare la mancata presenza degli interessati e non effettuava
alcuna comunicazione ex art. 631.
Tutto qui. Con il massimo rispetto dei diritti e delle esigenze e della dignità delle parti (il non
perdere inutilmente tempo in un’affollata stanzetta di udienza in attesa di una “chiamata” che forse
non verrà mai ascoltata, costituisce un diritto “civico” di ogni cittadino che deve essere rispettato) si
è realizzata un accrescimento della funzionalità del processo con una drastica riduzione dei tempi e
dell’impiego delle risorse umane.
– incarichi all’I.V.G..
La capacità operativa dell’I.V.G. è correlata ad una serie di “risorse” umane e di mezzi sulle
quali il giudice dell’esecuzione può influire solo limitatamente. Sotto questo profilo può essere
interessante valutare i carichi di lavoro delle preture che fanno parte dello stesso Distretto e svolgere
eventuali osservazioni, circa l’inadeguatezza delle risorse (personale e mezzi di trasporto) al
Presidente della Corte di Appello che esercita la vigilanza sugli istituti incaricati delle vendite
giudiziarie.
Un elemento fondamentale del “ciclo produttivo” degli Istituti è rappresentato dall’evitare la
dispersione delle energie. Va considerato che le vendite con “asporto del bene” comportano
innanzitutto una previa “visita” dell’incaricato dell’I.V.G. ed in tutti i casi in cui occorre
effettivamente procedere all’asporto (e non vi sia stato un rinvio concordato) un impegno di energie
non indifferente.
Le vendite da tenersi “in luogo” (ovverosia dove si trovano i beni) impongono un “percorso”
del banditore che si deve spostare in varie località. La produttività può essere adeguatamente
accresciuta se il giudice dell’esecuzione, sensibile alle esigenze della logistica provvede a fissare
tutte le vendite di una giornata raggruppandole per aree geografiche omogenee. In tal modo sia i
banditori che gli asportatori si trovano ad operare per ciascun giorno in una medesima zona e gli
spostamenti tra un luogo ed un altro avvengono in tempi ridotti. Una tale organizzazione del lavoro
ha consentito di aumentare la produttività, aumentando, a parità di condizioni, il numero degli
incarichi affidati per ogni giornata di circa il 20% per quelle con asporto e del 30% quelle da tenersi
“in luogo”.
– le conversioni dei pignoramenti.
La conversione del pignoramento, prevista dalla precedente formulazione dell’art. 495 c.p.c.,
era consentita in forma rateizzata.
La nuova normativa in tema di conversioni del pignoramento, (art. 495 cod. proc. civ.
modificato dalla legge 393/90) nella parte in cui non consente più la rateazione mensile del
pagamento del debito introduce una disciplina apparentemente rigorosa, ma in concreto
pregiudizievole degli interessi sia dei creditori che dei debitori.
L’inopportunità di una tale scelta legislativa (presa in base alla opinabile considerazione che
l’istituto aveva dato “cattiva prova”) è stata evidente dal momento che da numerosissimi avvocati
del foro di Monza è venuto l’invito di disattendere la volontà legislativa attraverso l’utilizzo della
rateizzazione “su istanza del creditore”.
Infatti l’esperienza maturata negli anni di applicazione della conversione rateizzata ha mostrato
la notevole efficacia di questo istituto che ha consentito un efficace contemperamento degli interessi
contrapposti, evitando in molti casi la vendita dei beni pignorati che si concreta in ricavati quasi
sempre infimi.
Infatti la conversione rateizzata ha rappresentato per l’ufficio esecuzione di Monza (ma, per
quel che ho appreso, anche di Milano e di Firenze) una fondamentale modalità per la soddisfacente
conclusione del processo esecutivo in un elevato numero di procedure espropriative.
In conseguenza di un accordo preso con il locale Ordine degli avvocati ogni procuratore che
presenta la istanza di vendita autorizza preventivamente ed esplicitamente il Pretore ad ammettere
il debitore (se questi lo richiederà) alla conversione in forma “rateizzata” per un periodo non
eccedente i sei mesi senza necessità di disporre una comparizione delle parti. In tal modo, con il
consenso esplicito dei creditori, viene omessa la udienza per la audizione delle parti e, dopo il
versamento di un quinto del precetto, vengono fissate altre 5 rate (in misura forfettizzata); solo dopo
il puntuale adempimento del pagamento di sei rate il pretore provvede alla comparizione parti per
all’esatta determinazione della “somma da versare” con la conseguente determinazione precisa
dell’ultima rata. In tal modo l’audizione delle parti è limitata ai soli casi “positivi” in cui il debitore
ha dimostrato (fattivamente, col pagamento di sei rate) di voler adempiere la sua obbligazione.
La procedura è ormai collaudata e dà garanzie di funzionalità ed efficacia. I conteggi della
conversione sono realizzati attraverso un programma per personal computer messo a punto alla
Pretura di Monza.
– i pignoramenti presso terzi.
È stata adottato un apposito verbale di udienza nel quale è predisposto lo schema della più
usuale forma di pignoramento presso terzi (pignoramento delle retribuzioni). In sede di udienza tale
verbale costituisce, con le sue parti predisposte una efficace guida alla facile dichiarazione del terzo
i cui contenuti variabili vengono trascritti con garanzie di uniformità della tecnica di assunzione
delle dichiarazioni. Dopo la dichiarazione positiva il pretore si riserva e predispone un
provvedimento di assegnazione utilizzando un apposito programma per personal computer. Questo
programma agisce in quattro fasi, analiticamente descritte nel paragrafo “l’utilizzo delle procedure
informatiche”.
6. La modulistica
Una modulistica ben studiata e funzionale, esteticamente gradevole costituisce spesso uno
strumento di straordinaria efficacia per la funzionalità di un ufficio giudiziario. Non bisogna affatto
dimenticare che non è affatto vero che la rapidità della gestione dei processi sia un effetto
dell’informatica. Occorre prendere consapevolezza che spesso l’informatica, applicata in talune
procedure non strategiche, crea solo un inutile rallentamento di attività; in molti casi l’utilizzo di
una modulistica moderna e funzionale produce effetti molto più “pratici” di una (inutilmente)
laboriosa e costosa procedura informatica.
Una cospicua parte della modulistica può essere elaborata direttamente dagli uffici mediante il
sistema di videoscrittura di un personal computer con il vantaggio di una elasticità della gestione
(riduzione delle spese per la stampa, eliminazione di necessità di immagazzinamento di inutili
scorte, possibilità di riadattare la modulistica a nuove esigenze senza dover “buttar via” i pacchi
inutilizzati della vecchia modulistica). Sarebbe, anche in tal caso, opportuno che il Ministero
fornisse (come è accaduto in occasione della introduzione del nuovo processo penale) una
modulistica informatizzata da adoperarsi negli uffici giudiziari italiani.
Val la pena evidenziare che risultati eccellenti sono stati ottenuti attraverso una modulistica
plurifoglio a carta chimica colorata. In tale dossier (composto di 7 fogli) sono stati concentrati
(ogni foglio ha un diverso colore) l’ordinanza di vendita, gli avvisi agli interessati, il “bando” e
l’incarico all’I.V.G. Con una unica scritturazione (a mano e senza carta carbone) il collaboratore
di cancelleria compila TUTTI gli atti per la fissazione della vendita. L’incremento di produttività è
stato semplicemente sbalorditivo. La capacità di produzione dei documenti è aumentata del 400% e
la soddisfazione del personale (frustrato da una banale ripetitività di scrittura dei medesimi dati su
più documenti) ha giovato al buon clima dell’ambiente di lavoro.
7. L’utilizzo di procedure informatiche
Con un attento uso del personal computer ci si è sforzati di ampliare il collo di bottiglia della
capacità decisionale del magistrato, attraverso la creazione di vari programmi che facilitassero taluni
dei compiti più gravosi che impegnano il giudice dell’esecuzione civile. Si è concentrato lo sforzo
sull’elaborazione di procedure tipiche del giudice, mentre si è evitato di impegnarsi in attività di
automazione dei servizi di cancelleria che comportano la messa a punto di un programma di
elaborazione gestionale complessa e che presuppone la dotazione di un “hardware” adeguato e
collegamenti di più postazioni di lavoro in rete. Programmi “gestionali” del processo esecutivo (per
le cancellerie) sono stati messi a punto in esperimenti pilota presso la pretura di Castrovillari, la
pretura di Borgomanero e (limitato ad alcuni profili) alla pretura di Torino.
L’elaboratore è davvero insuperabile soprattutto nella esecuzione di conteggi, anche molto
complessi, e l’attività del giudice dell’esecuzione civile comporta proprio una gran quantità di
calcoli di non semplice esecuzione; i conteggi sono, poi, strettamente correlati con la soluzione di
problemi giuridici, non delegabili a personale delle cancellerie o alle parti private interessate al
processo esecutivo; si è rilevato, inoltre, che nella preparazione tradizionale del giurista non rientra
l’abilità matematico-contabile.
Si è cercato, quindi, di permettere al giudice di colloquiare in maniera amichevole con
l’elaboratore, in modo tale da consentirgli di inserire soltanto i dati elementari ed obbiettivi
rilevabili dagli atti del processo esecutivo così da ricavarne (attraverso una serie di calcoli eseguiti
poi dall’elaboratore) risultati utilizzabili direttamente nel provvedimento finale.
Il computer è stato programmato in modo tale da porgere al giudice, in un normale linguaggio
letterario (sia pur stringato) una serie incalzante di domande e/o di opzioni così da riprodurre (salvo
che per casi limite che fuoriescono dalla normalità) l’intero iter del ragionamento e dei conteggi.
Nella stesura dei programmi ci si è avvalsi di una rappresentazione simbolica (carta di flusso o
flow-chart) sviluppando, in una struttura grafica, l’intera serie di passaggi logici e dei collegamenti
funzionali tra i diversi momenti della procedura ed i dati relativi.
La distribuzione delle somme tra i creditori. – Per prima si è realizzata una procedura di ausilio
al giudice che lo guidasse nella elaborazione dei conteggi relativi alla distribuzione delle somme
ricavate dalla vendita dei beni pignorati.
La scelta di tale priorità è stata giustificata dal fatto che, nella esperienza del sottoscritto quale
giudice dell’esecuzione, non vi è altra operazione più noiosa e banalmente ripetitiva di questa.
Vanno evidenziati eventuali diritti di prelazione; vanno, poi, eseguite tante moltiplicazioni e
divisioni per quanti sono i creditori ai quali va attribuita una quota del ricavato.
Più in dettaglio le operazioni sono le seguenti: Il computer, richiede di inserire, attraverso la
tastiera, l’importo totale della somma da distribuire. Il messaggio che si legge sul video è
“INSERISCI LA SOMMA DA DISTRIBUIRE”.
L’operatore immette con i tasti numerici l’importo ed il computer, attraverso una formula
inserita nella sua memoria, calcola immediatamente l’importo delle spese di registrazione (se
dovute).
Tale importo è posto in prededuzione, assieme con le spese legali sostenute dal creditore primo
pignorante (che vanno inserite normalmente ma che possono pure essere automaticamente rilevate
da una tabella per scaglioni, concordata preventivamente con l’ordine degli Avvocati in relazione
all’importo precettato). È possibile inoltre attuare ulteriori prededuzioni per crediti privilegiati.
Attuata questa prededuzione, il computer fornisce l’esatto importo della somma residua e
richiede di specificare l’importo integrale di ciascuno dei crediti che partecipano alla distribuzione
per ciascun creditore.
Il video suggerisce: “CREDITORE N. 1 ?” ed attende l’immissione delle cifre; poi
“CREDITORE N.2 ?” e così di seguito.
Terminata questa operazione, sul video immediatamente compaiono le cifre attribuite a
ciascuno dei creditori con l’indicazione della percentuale spettantegli nella ripartizione, nonché
l’importo delle spese legali liquidate a ciascuno (sempre utilizzando la tabella standard delle spese,
diritti ed onorari memorizzata una volta per tutte dall’elaboratore).
In tal modo una attività del giudice dell’esecuzione non difficile, ma noiosa e laboriosa, viene
resa agevole e precisa. Il sistema è stato programmato in maniera non banale cosicché le somme
distribuite a ciascun creditore, vengono arrotondate tutte alle 1000 lire e tutti gli spiccioli residui
vengono caricati su una sola delle ripartizioni in modo tale da permettere poi alla cancelleria una più
agevole attività nella emissiome dei mandati di pagamento. Il programma consente di stampare,
addirittura l’intero provvedimento di distribuzione con tutti i dati sia originari che calcolati.
L’apparire di questo computer nel grigiore di un’udienza pretorile di distribuzione delle somme
ha suscitato curiosità, interesse ed approvazione tra gli avvocati che hanno apprezzato l’enorme
sveltimento delle operazioni, rese ancor più agevoli dalla predisposizione di un modulo
prestampato del tutto adeguato ad ospitare i dati previsti dal programma elettronico.
Qualità elevata del provvedimento e notevole risparmio di tempo sono i risultati più notevoli
nell’uso di questa procedura. L’operazione tradizionale occupava (con 3 o 4 creditori partecipanti
alla distribuzione) circa una quindicina di minuti per i soli conteggi (e con rischio di errori), con
l’uso del computer è ormai ridotta a non più di due minuti e con risultati assolutamente affidabili.
La conversione rateizzata del pignoramento. – Ai sensi dell’art. 495 codice di procedura civile
il debitore, che ha subìto una esecuzione mobiliare, può richiedere che il Pretore sostituisca al bene
pignorato una somma di denaro “pari all’importo delle spese e dei crediti del creditore pignorante e
dei creditori intervenuti”.
L’importo complessivo è “determinato con ordinanza dal giudice” (art. 495 secondo comma) e
l’operazione manuale (assistita da una semplice calcolatrice) comporta la esecuzione di una lunga
serie di calcoli.
Devono essere computati gli interessi (legali o convenzionali) e/o la rivalutazione monetaria
eventualmente prevista nel titolo esecutivo. Vanno detratti gli acconti versati dal debitore nelle more
del processo esecutivo, vanno aggiunte le spese del creditore (esborsi, diritti ed onorari, IVA e
contributi del 2% per i professionisti legali), vanno aggiunti gli interessi a scalare sul capitale
relativo alla (eventuale) rateizzazione. Tutti i dati numerici vanno sommati tra loro ed il risultato
diviso per le mensilità di rateizzazione.
Nella prassi giudiziaria tali operazioni vengono eseguite non di rado con una certa
approssimazione per la concreta impossibilità di dedicarvi il tempo necessario. Infatti, una serie di
calcoli sequenziali, quali quelli sopra indicati, impegnano il giudice dell’esecuzione in almeno 1520 minuti per ciascuna conversione, tenendo conto che nella procedura non vi sia più di un
creditore.
L’intera sequenza delle operazioni più comunemente prevedibili compiute dal giudice è stata
sviluppata in ogni sua prevedibile articolazione logica (c.d. algoritmo) e formalizzata in una serie di
rappresentazioni grafiche simboliche (c.d. carte di flusso) via via più particolareggiate.
La procedura è stata, poi, tradotta in linguaggio di programmazione ed inserita nel computer.
È il sistema stesso che propone all’utente via via i dati (numerici ed alfabetici) da inserire: 1)
l’importo del precetto non contestato (con possibilità di decurtare de plano eventuali somme non
dovute); 2) eventuali acconti (in deduzione); 3) l’importo del capitale puro (su cui il computer
calcolerà automaticamente interessi e/o rivalutazione); 4) gli eventuali interventi; 5) se è prevista o
meno la rivalutazione (SI o NO); 6) la data di decorrenza da cui si calcolano interessi e/o
rivalutazione.
Attraverso una complessa serie di formule logiche giuridiche (ideate e scritte dal giurista)
immagazzinate nella memoria del programma, il computer elabora i dati immessi ricavandone altri
derivati. Tra questi ultimi si possono evidenziare: il calcolo automatico del numero di giorni tra due
date inserite dall’operatore; la rivalutazione monetaria dalla decorrenza indicata fino ad oggi (sulla
base di una completa tabella di indici ISTAT dal 1957 ad oggi ed i relativi coefficienti di raccordo);
gli interessi maturati (al tasso legale o convenzionale) sul capitale puro; spese legali, diritti, onorari,
IVA e contributo previdenziale sulla base di scaglioni tariffari variabili in relazione all’importo
precettato (l’intera tabella delle spese legali a scaglioni è immagazzinata nella memoria del
computer).
L’assegnazioni dei crediti. – Particolarmente interessante è un programma per la assegnazione
dei crediti ed, in particolare, della quota pignorabile delle retribuzioni di lavoro del debitore. Troppo
spesso nella prassi operativa degli Uffici giudiziari si adottano formule ed espressioni oscure ed
equivoche, tali da lasciare agli interessati il problema in termini pressocché eguali a quelli che si
avevano prima di adire il giudice.
Il programma informatico è così strutturato:
– in primo luogo il pretore inserisce i dati variabili del verbale di udienza all’interno di una
sorta di scheda elettronica. In occasione di tale inserimento il pretore inserisce anche i dati relativi
alle soluzioni giuridiche che vuole adottare (il programma consente le relative scelte decisionali);
– subito dopo il programma elabora i dati derivati (calcoli di rivalutazione monetaria, interessi
legali o convenzionali, spese legali ed onorari, numero di mesi necessari per la estinzione del
debito) e genera una serie di frasi (conseguenza delle scelte predisposte del giudice);
– il giudice sceglie, nell’ambito di una biblioteca di provvedimenti elettronici da lui predisposti
in videoscrittura il provvedimento che più si adatta al caso da decidere;
– il programma provvede, poi, a fondere i dati originari, quelli elaborati dal computer ed il
modello scelto dal magistrato in un provvedimento stampato in cui la precisione dei contenuti si
associa ad un non trascurabile (sotto il profilo dell’immagine della giustizia) elemento di
gradevolezza estetica. Le espressioni adoperate sono chiare (non si perde certo tempo a scriverle!)
ed i calcoli dotati di una esattezza difficilmente raggiungibile per altra via.
Il vantaggio di tale programma consiste nella precisione della determinazione della pretesa
creditoria. In caso di assegnazione di una somma fissa mensile il programma è in grado di calcolare,
attraverso una complessa formula finanziaria gli interessi a scalare fino all’esaurimento dell’intero
debito (compresi gli accessori), la esatta durata del periodo alla fine del quale il debito potrà
considerarsi estinto. Tale risultato, in una funzione di effettività del “servizio” è un elemento
decisivo per evitare ulteriori controversie e contestazioni tra creditore, debitore e terzo realizzando
una grande chiarezza e trasparenza, quantomai necessaria in situazioni di questo tipo.
L’uso di tale provvedimento, i cui dati sono elaborati analiticamente, ha avuto un unanime
riconoscimento; gli adempimenti delle varie aziende datrici di lavoro e dei relativi uffici del
personale sono stati resi agevoli dal momento che dal provvedimento si ricava (senza equivoci!) la
somma che essi dovranno complessivamente pagare, a chi e per un periodo di tempo esattamente
determinato.
In tali programmi sono state messe a punto anche delle tecniche di elaborazione automatica di
frasi da parte del medesimo sistema il quale, in relazione al risultato dei calcoli eseguiti, inserisce
nel provvedimento finale alcune frasi o certe altre. Si prenda il caso in cui la assegnazione del
credito avvenga per una cifra (capitale, interessi rivalutazione, spese ecc...) inferiore a quella in cui
il terzo si è dichiarato debitore. In tal caso il computer, sulla base di un confronto tra la cifra
assegnata e quella indicata dal terzo, inserisce in un certo punto del testo del provvedimento una
frase con la quale si dispone che la cifra residua (risultante dalla differenza) sia liberata a favore del
debitore. Nel caso contrario, inserisce, invece, una espressione nella quale si rileva che la somma
assegnata non copre l’intero debito ed il debitore rimane obbligato ancora per la differenza (indicata
esplicitamente in una cifra ben precisa).
Il programma per la determinazione del calcolo degli interessi e/o della rivalutazione
monetaria. – Dopo molti anni di messa a punto e di utilizzo “sul campo” (pretura civile di Monza)
ho realizzato e pubblicato con l’Editore Giuffrè un sistema esperto (denominato ReMIDA) che
assiste il giurista nella elaborazione della rivalutazione monetaria e degli interessi.
Il programma svolge le funzione di “consulente legale elettronico” capace di impostare i
problemi legali e di risolverli.
Le sue prestazioni simulano un colloquio tra l’utente (che ha dei problemi legali e vuole
conoscere come deve essere rivalutato il suo credito) ed il giurista (che conosce le regole di diritto
applicabili al caso concreto).
Il suo uso, infatti, “emula” le sequenze del ragionamento mentale del giurista e guida l’utente
attraverso le scelte e le soluzioni giuridiche (anche alternative e contrastanti tra loro: lascia così
libero il giurista di scegliere la tesi che egli ritiene preferibile). Successivamente elabora tutti i dati
fornitigli dall’utente ed, attraverso una complessa sintesi delle regole di diritto presenti nel
programma, elabora i risultati e fornisce la soluzione del problema ed i relativi conteggi.
L’opera è composta da un programma per personal computer (IBM compatibile) e da una
monografia di 250 pagine divisa in tre sezioni (sezione dottrinale, sezione giurisprudenziale e
sezione manuale di istruzione). Il programma permette al giurista o all’operatore economico,
attraverso il semplice inserimento delle date iniziali e finali, di calcolare la rivalutazione
monetaria secondo gli indici dell’ISTAT (quelli cosiddetti del costo della vita) oppure, a scelta
dell’utente, secondo quelli diversi della scala mobile (per i crediti di lavoro: art. 150 disp. att.
c.p.c.).
Il programma esegue anche il calcolo a scalare degli interessi e rivalutazione tenendo conto di
eventuali pagamenti parziali del debitore e di eventuali altre somme maturate nel frattempo (per le
imputazioni vengono applicate le regole del codice civile: art. 1193).
Il programma è in grado di calcolare, senza alcun intervento dell’utente, il saggio legale degli
interessi distinguendo automaticamente il periodo da calcolare al 5% (fino al 15-12-1990) da quello
successivo al 10% (legge 26 novembre 1990 n. 353) ovvero, sempre automaticamente, il tasso
prime-rate A.B.I., il tasso ufficiale di sconto, lo speciale tasso di differimento per mora nei
crediti previdenziali nonché quello per il calcolo della mora nei pagamenti delle opere pubbliche. I
conteggi sono eseguiti applicando per ciascuna frazione di tempo il tasso storicamente in vigore in
quel periodo (aumentato o diminuito di n punti a scelta dell’utente). Gli interessi possono, poi,
essere calcolati sulla cifra capitale ovvero su quella rivalutata interamente (Cass. Sez. Un. 6-9-90
n. 9205) oppure via via rivalutata (Cass. 20-6-90 n. 6209), potendosi applicare in alternativa tutte le
varie soluzioni elaborate dalla giurisprudenza. È possibile anche il calcolo anatocistico (la
capitalizzazione trimestrale con tassi variabili: prime rate e tasso ufficiale sconto).
Una operazione di calcolo di interessi e rivalutazione con due o tre versamenti parziali che, in
genere occupa, manualmente, per il giudice dell’esecuzione un tempo di circa 15-20 minuti, viene
eseguito in 2 minuti, con la stampa completa (o sintetica) di tutti i passaggi e la indicazione degli
indici ISTAT via via applicati. Il risparmio di tempo è nell’ordine del 500-700% e la qualità del
risultato non è neppure lontanamente paragonabile con quello eseguito manualmente.
L’utilizzatore può inserire direttamente i nuovi indici ISTAT mensili ed i tassi speciali
dell’anno in corso. Per gli anni successivi i nuovi indici ISTAT possono essere variati solo
attraverso l’edizione di aggiornamento pubblicata annualmente dell’Editore.
Il programma viene utilizzato correntemente da diversi magistrati ai quali è stato concesso in
uso gratuito in una versione b-test, personalizzata con il proprio nome (ossia completa e con il solo
onere di segnalarne eventuali difficoltà di utilizzo, potenziali miglioramenti, lacune od errori).
8. Le modifiche al processo esecutivo introdotte dalla riforma
Il limitato intervento del legislatore ha toccato solo alcuni istituti. La conversione del
pignoramento (art. 495 c.p.c.), l’ampliamento della piccola espropriazione mobiliare (art. 525), la
conversione del sequestro conservativo in pignoramento e la disciplina dei compensi degli Istituti
delle vendite giudiziarie.
Della conversione del pignoramento abbiamo già trattato sopra. La opportuna imposizione del
previo versamento di un quinto del precetto a pena di inammissibilità appare in linea con
l’esperienza che era stata collaudata presso molte preture italiane (la cui legittimità era stata
finalmente – ma troppo tardi – confermata da Cass. Sez. Un. 19-7-1990 n. 7378). Va, invece,
decisamente disapprovata la eliminazione della conversione rateizzata che aveva dato buona prova
in tutti quei casi in cui l’ufficio del giudice dell’esecuzione avesse attentamente curato l’aspetto
organizzativo gestionale dell’istituto processuale.
Inoltre appare del tutto fuor di luogo la previsione di un maneggio di denaro da parte del
cancelliere; la poca avvedutezza della norma può essere rimediata attraverso un ordine di servizio
del capo dell’ufficio giudiziario che disciplini la modalità di versamento da parte del debitore
disponendo che il cancelliere, in via ordinaria, accetti solo ricevute di versamento effettuato
direttamente sull’istituto bancario designato dal giudice e che la ricezione delle somme possa
avvenire solo in ipotesi esplicitamente previste (es. chiusura o scioperi delle banche).
La rivitalizzazione dell’istituto della piccola espropriazione mobiliare (ora ricollegata ad un
valore del compendio pignorato non superiore a 10 milioni di lire) è destinata ad accelerare buona
parte delle espropriazioni mobiliari ed al contempo a realizzare una compressione del concorso tra i
creditori. La circostanza che il termine ultimo per l’intervento coincida con la presentazione della
istanza di vendita rende, di fatto, impossibile per gli altri creditori non pignoranti l’intervento
tempestivo nel processo. Anche i pignoramenti successivi sui medesimi beni sono equiparati ad
interventi tardivi con pregiudizio della par condicio. Sorgerà il problema dei criteri di valutazione
del valore dei beni da parte dell’ufficiale giudiziario procedente e dei mezzi giuridici per la loro
contestazione. Su tali problematiche si prospetta, quindi, il rimedio della opposizione agli atti
esecutivi, con un indubbio appesantimento di un processo che si voleva, invece, più agile.
Nelle disposizioni di attuazione al c.p.c. che sono state modificate dalla riforma del 1990 vi è
l’art. 159. Tale modifica ufficialmente è volta a “razionalizzare” i criteri di determinazione dei
compensi da attribuire agli Istituti delle vendite giudiziarie. Le società che gestiscono tali istituti si
sono, difatti spesso lamentate della eccessiva varietà dei criteri seguiti dai giudici dell’esecuzione
nell’adeguamento della misura dei compensi fissati col regolamento ministeriale del 1960. Tale
disparità di trattamento impedirebbe loro di informatizzare il servizio che non potrebbe
adeguatamente tener dietro a tabelle di liquidazione (troppo numerose) fissate da ciascun giudice
dell’esecuzione in base a criteri che non hanno il pregio della uniformità. La modifica appare, nei
suoi fini istituzionali, da condividersi, fermo rimanendo il potere di liquidazione del giudice
dell’esecuzione per le prestazioni effettivamente svolte dall’istituto.
9. Conclusioni
Occorre che sulle metodologie gestionali del processo venga intrapresa, sia dal Consiglio
Superiore della Magistratura che dal Ministero di Grazia e Giustizia, un’adeguata opera di
promozione, informazione e formazione: l’informazione sulle moderne tecnologie sia
organizzative che strumentali deve diventare prioritaria per la modernizzazione (assolutamente
indispensabile) dell’apparato giudiziario. In tale ottica avevamo già tentato di parlare di
metodologie aziendali nella Commissione “Azienda giustizia” presieduta dal Presidente Beria di
Argentine (in occasione della Conferenza Nazionale della Giustizia nel lontano novembre del 1986)
e della quale mi onoro di aver fatto parte. Ricordo che allora non fummo ben capiti. Spero che si
cominci a riparlarne per introdurre nel processo civile, finalmente, quegli elementi di funzionalità
organizzativa, senza i quali ogni opzione ideologica relativa alla struttura del processo civile è
destinata al fallimento.
***
Allegati: quattro flow-chart illlustrative della sequenza delle operazioni del processo esecutivo.
PROBLEMI IN TEMA DI COMPETENZA E DI SCELTA
DEL RITO NEL PROCEDIMENTO LOCATIZIO
E NEL PROCEDIMENTO DI CONVALIDA
DOPO LA LEGGE 353/90
Relatore:
dott. Marco MARULLI
pretore della Pretura circondariale di Bologna
SOMMARIO: 1. Il contenzioso delle locazioni e la novella del processo civile. Note preliminari. – 2.
Competenza e rito nel “sistema” processuale delle locazioni. – 3.1. La competenza per materia nella
previsione dell’art. 8, secondo comma, n. 3, c.p.c. – 3.2. Il concetto di “causa” in relazione
all’opposizione a decreto ingiuntivo, all’opposizione tardiva alla convalida, all’opposizione di terzo
... – 3.3. ... in relazione alle opposizioni all’esecuzione ... – 3.4. ... e in relazione alle controversie in
tema di assegnazione di alloggi di edilizia residenziale pubblica. – 4.1. La specie dei “rapporti di
locazione ... di immobili urbani” e i suoi limiti. – 4.2. La nozione di immobile urbano. – 4.3. Profili
della competenza in ordine alle controversie inerenti beni mobili ed immobili extraurbani. – 4.4. Le
controversie locatizie. – 4.5. Ancora sulle controversie in tema di assegnazione di edilizia
residenziale pubblica. Le ipotesi della revoca e dell’occupazione sine titulo. – 4.6. Le controversie
in tema di assegnazione in favore di soci di cooperativa. – 5. La specie dei “rapporti di comodato” e
la questione della tassatività. – 6.1. Fase sommaria e cognizione piena del giudizio di locazione tra
luci ed ombre dell’art. 667. – 6.2. Presupposti dell’ordinanza ed evoluzione della controversia al
giudice competente. – 6.3. Casi di applicazione. – 6.4. Contenuto dell’ordinanza. – 6.5. Domande
riconvenzionali.
1. Il contenzioso delle locazioni e la novella del processo civile. Note preliminari
Con la novellazione dell’art. 8, secondo comma, n. 3, c.p.c. e con l’introduzione dell’art. 447bis c.p.c., nonché con alcune altre norme minori, il legislatore ha colto l’occasione della riforma a
largo raggio del processo civile realizzata dalla l. 26 novembre 1990 n. 353 per porre mano anche ad
una non secondaria riforma del contenzioso in materia di locazioni.
L’accusa di “insipienza tecnica” (1), levatasi con ragione contro le disposizioni processuali
della l. 27 luglio 1978, n. 392, specie laddove esse si erano risolte nel mettere capo ad
un’“irrazionale frammentazione” dei riti e delle competenze in materia, non meno della
preoccupazione manifestatasi da più parti per le inevitabili distorsioni processuali indotte dal
ricorso, talora inevitabile, all’istituto della sospensione per pregiudizialità (2), avevano infatti già da
tempo contribuito a rendere evidente, insieme alle crescenti difficoltà della pratica, l’urgenza di una
rimeditazione in sede legislativa dei nodi fondamentali del processo locatizio.
L’auspicio de jure condendo, attorno al quale, in nome di una preliminare richiesta di chiarezza,
era andato perciò raccogliendosi un esteso consenso in dottrina (3), e che aveva registrato fin dai
primi passi della riforma la convinta adesione del governo (4), ha ora trovato una prima, incisiva
risposta nelle disposizioni che la novella del ’90 espressamente dedica a questo importante settore
del contenzioso civile.
Le linee portanti dell’intervento riformatore, malgrado il silenzio al riguardo dei lavori
preparatori – quasi ad indiretta testimonianza di quanto la sua necessità fosse sedimentata nella
coscienza dei conditores – a chi abbia cura di gettare uno sguardo d’assieme sui suoi contenuti,
appaiono fin da subito di immediata percezione, avendo invero il legislatore mostrato di puntare con
decisione al cuore delle principali questioni che si ponevano in argomento (5).
Da un lato, perciò, nel solco di una tendenza che si era già preannunciata con l’approvazione
dell’art. 6 l. 30 luglio 1984, n. 399 (6) – e che in pratica aveva decretato la fine della giurisdizione
del conciliatore in materia di locazioni – si è infatti impresso rinnovato vigore al processo di
concentrazione in capo al pretore di tutto il contenzioso locatizio in tema di immobili, con ciò, di
fatto, rimuovendo alla radice il presupposto stesso di quelle speciose questione in tema di riparto
delle competenze tra tribunale e pretura, che da sempre avevano costituito il punctum dolens della
disciplina previgente e che, com’è noto, toccavano talora drammaticamente punte di particolare
acutezza allorché il conduttore, convenuto per morosità, nell’opporsi al rilascio, era solito chiedere
riconvenzionalmente che fosse accertata la legalità del canone (7).
Parimenti, ma in senso opposto, ed anche qui, per vero, nel solco di una felice intuizione che già
aveva consentito di sperimentarne favorevolmente la naturale vis expansiva in rapporto al carattere
di massa di talune controversie (8), si è poi mirato a dare sbocco alle esigenze di razionalizzazione
che il sistema, con altrettanta forza, reclamava anche in punto di rito, in questa guisa risultando
appunto perfettamente funzionale la scelta di generalizzare il rito del lavoro quale rito tipico del
giudizio di locazione.
Peraltro la tecnica della novellazione, adottata nella circostanza, se appare innegabilmente più
rispondente alle finalità di urgenza asseritamente perseguite dal provvedimento, impone d’altro
canto, con riguardo all’effetto di naturale interpolazione, che n’è normativamente il risvolto pratico
di maggior portata, di misurare l’impatto di questi principi su un corpus normativo estremamente
vitale, quale, pur tra incongruenze di ogni sorta, doveva comunque giudicarsi il previgente
ordinamento processuale delle locazioni.
Ora, non è ovviamente qui il caso di indagare nei dettagli quale fosse l’assetto di questo sistema
al momento dell’entrata in vigore della l. 353/90 (9).
Basterà, piuttosto, osservare come, rispetto a questo sistema – ovvero, come meglio si è detto,
rispetto a questo “schema dei riti e delle competenze” – la riforma del ’90 appaia aver prodotto un
triplice ordine di conseguenze. Perché, invero, accanto agli aspetti più propriamente innovativi, non
possono esserne infatti taciuti, nella prospettiva di una valutazione intesa a coglierne la rilevanza
sistematica, anche quelli che si risolvono, in modo solo apparentemente più modesto, in un effetto
meramente abrogativo ovvero di pura conservazione del tessuto normativo preesistente.
In breve, quel che deve essere fin d’ora chiaro è che il legislatore, per quanto nei limiti imposti
dalla natura dell’intervento realizzato nell’occasione, e sia pure attraverso poche norme, non ha
voluto tuttavia minimamente sottrarsi al compito di imprimere dignità e valenze sistematiche al
processo delle locazioni; e, dunque, in questa consapevolezza, sarebbe errore interpretativo
indubbiamente grave, perdere di vista la dimensione sostanzialmente unitaria del disegno
riformatore in materia o, peggio, ignorare la ratio comune che fa da guida alle singole innovazioni e
che, almeno in linea di principio, non mancando affatto le aporie, com’è naturale, permette di
identificare, nel reticolo delle loro possibili relazioni, la volontà inconfondibile di dar vita ad un
autonomo “sistema” processuale delle locazioni.
È innegabile, cioè, che, di primo acchito, si sarà quindi istintivamente portati a mettere
l’accento sulla riformulazione dell’art. 8, secondo comma, n. 3 e sulla previsione dell’art. 447-bis,
giacché in essi si compendiano, com’è chiaro, i tratti salienti della novella, l’uno dando attuazione al
principio tendenziale del giudice unico delle locazioni, l’altro promuovendo l’omologazione,
altrettanto tendenziale, del processo locatizio al processo del lavoro.
Ma in questa cornice non risulteranno certamente meno significative, tanto da poter essere
passate sotto silenzio, da un lato, la sopravvivenza che si è inteso assicurare al procedimento
speciale di convalida, rimasto immutato nelle sue linee essenziali, ma rivisto, anche qui
riformulando l’art. 667 c.p.c., nel momento decisivo del raccordo col procedimento ordinario, del
quale, in relazione a talune possibili vicende del rapporto di locazione, continua comunque a
costituire per celerità e snellezza lo sbocco processuale più adeguato; dall’altro, l’abrogazione, a
naturale coronamento di un’opera di generale riordino normativo, per mezzo del suo art. 89, delle
disposizioni processuali della l. 392/78 e dell’art. 12, comma secondo, c.p.c..
Sicché si può ben dire che l’ordinamento del processo locatizio, per come emerge dalla novella
processuale del ’90, viene ora a poggiare su due norme fondamentali (artt. 8. secondo comma, n. 3 e
447-bis), regolanti rispettivamente la competenza ed il rito, e su una disposizione di raccordo tra
fase sommaria e fase ordinaria della cognizione (art. 667), alle quali si affiancano, in funzione di
garanzia della sua completezza, le norme di abrogazione (art. 89) (10).
Su alcune di queste disposizione e, principalmente sulle questioni che solleva la nuova lettera
dell’art. 8, secondo comma, n. 3, nonché sulla disciplina del passaggio dal procedimento di
convalida al giudizio ordinario, s’incentrerà l’indagine che cercherò di svolgere nei paragrafi
successivi.
2. Competenza e rito nel “sistema” processuale delle locazioni
Prima di procedere oltre, due precisazione mi sembrano ancora necessarie.
Si è detto, infatti, a proposito degli artt. 8, secondo comma, n. 3 e 447-bis, che il giudizio
locatizio, a seguito della novella, è ora organizzato in base a due norme fondamentali.
L’affermazione, lungi dal dover esser qui rettificata, merita tuttavia, ad un più attento esame, di
esser meglio ponderata, poiché il raffronto testuale tra le due disposizioni (art. 8, secondo comma, n.
3: “Il pretore ... è competente ... per le cause relative a rapporti di locazione e di comodato di
immobili urbani e per quelle di affitto di azienda, in quanto non siano di competenza delle sezioni
specializzate agrarie”; art. 447-bis, primo comma: “le controversie di cui all’articolo 8, secondo
comma, numero 3 sono disciplinate ...”) mette subito in chiaro che, se si eccettuano le norme
integrative contenute negli altri commi, il primo comma dell’art. 447-bis, che è quello che qui ci
interessa, è privo di un contenuto precettivo suo proprio.
Questo, è ovvio, non vale a svuotare di importanza la funzione che la norma adempie nella
concreta economia del giudizio locatizio. È però vero che la norma non si limita solo a richiamare
alcune disposizioni del rito del lavoro, ma definisce per relationem anche il campo delle
controversie in cui quel richiamo è destinato a rivelarsi efficace. Essa, in pratica, agisce quasi fosse
il vertice di un’immaginaria triangolazione, che consente agli altri due estremi, costituiti
rispettivamente dal rito del lavoro e dal contenzioso delle locazioni, di entrare in relazione tra loro
ovvero, più propriamente, al primo di estendersi al secondo e al secondo di divenire soggetto al
primo. In questo modo, è sì eliminato ogni problema interpretativo, giacché non si danno altre
controversie in materia, cui applicare il rito speciale, oltre quelle indicate nell’art. 8, secondo
comma, n. 3, ma si consegue pure il risultato di ridurre ogni questione di rito ad una questione di
competenza, nel senso, cioè, che se le controversie soggette al rito speciale sono solo quelle previste
dall’art. 8, secondo comma, n. 3, queste, a ben vedere, sono solo quelle di competenza del pretore.
Donde, un primo postulato, e cioè che tutte le controversie in materia di locazione, di comodato
e di affitto di competenza del pretore sono soggette all’adozione del rito speciale.
Quanto appena detto aiuta ad introdurre pure la seconda precisazione. Anche qui può essere
utile muovere da un dato testuale. Infatti, se si raffronta la disposizione dell’art. 8, secondo comma,
n. 3, dettata evidentemente per il giudizio di locazione che ha luogo in sede di cognizione ordinaria,
con quelle che regolano il medesimo giudizio, ma in sede di cognizione sommaria (artt. 657-658),
ossia colle norme sul procedimento di convalida, nessuno pare in grado di poter negare che, al di là
di un’iniziale convergenza, tra l’una e le altre disposizioni vi è in realtà più di una discrepanza (11).
E, ciò, perché, malgrado si fosse proceduto a riformare il giudizio ordinario, non si è ritenuto di
dover pure intervenire su quello che si svolge nelle forme speciali del libro quarto, sicché, fatto
salvo il raccordo operato dall’art. 667, manca, in pratica, ogni coordinamento normativo tra
procedimento ordinario e procedimento speciale.
Questo significa che, rispetto al fascio di controversie astrattamente riconducibili alla previsione
dell’art. 8, secondo comma, n. 3, il procedimento di convalida, da un lato, mostra di aver una portata
decisamente più ampia, risultando esso applicabile a rapporti, per i quali, già a prima vista, si può
certamente escludere che rientrino tra quelli previsti dall’art. 8, secondo comma, n. 3, mentre,
dall’altro, ha una portata, altrettanto decisamente, più ristretta, giacché con la convalida si può agire
solo per far dichiarare la cessazione degli effetti legali del contratto ovvero la morosità del
conduttore.
Ora, se si considera che, almeno per effetto dell’opposizione dell’intimato, il procedimento di
convalida si trasforma in un ordinario giudizio contenzioso e che, per converso, non vi è una
coincidenza assoluta tra le controversie suscettibili di essere definite in sede di procedimento
speciale e le controversie rientranti nella previsione dell’art. 8, secondo comma, n. 3, la conclusione
che si può trarre è che non tutte le controversie introdotte col procedimento di convalida, come tali
di competenza del pretore ai sensi dell’art. 661, appartengono pure alla competenza del pretore, una
volta che si trasformino in ordinario giudizio di cognizione.
Il che, per quanto visto sopra, è, come dire venendo così a formalizzare un secondo postulato –
che non tutte le controversie introdotte col procedimento di convalida, quando si debba far seguito
alla loro trattazione in sede ordinaria, sono soggette ad essere trattate e decise col rito speciale
dell’art. 447-bis.
Con ciò, che consente anche di affermare che le controversie in materia di locazione, di
comodato e di affitto soggiacciono all’applicazione del rito speciale, solo se siano di competenza
del pretore in sede di ordinaria cognizione, l’indagine può senz’altro proseguire oltre.
3.1. La competenza per materia nella previsione dell’art. 8, secondo comma, n. 3, c.p.c.
La ricerca che mi accingo a compiere non può prendere le mosse che dalla sua naturale sedes
materiae ossia dall’art. 8, secondo comma, n. 3.
Recita la norma, come visto, che “il pretore ... è competente qualunque ne sia il valore ... per le
cause relative a rapporti di locazione e di comodato di immobili urbani e per quelle di affitto di
aziende, in quanto non siano di competenza delle sezioni specializzate agrarie.”
Attenendosi al principio informatore dell’individuazione del pretore quale giudice unico delle
locazioni, la norma ne ha, dunque, inteso promuovere l’attuazione, organizzando la competenza in
materia del pretore – secondo peraltro una precisa indicazione di fonte dottrinale (12) – per gruppi
omogenei di rapporti piuttosto che per singoli gruppi di controversie, richiamando cioè, come si è
notato, “tutte le controversie inerenti ad un determinato rapporto e non soltanto controversie
‘tipiche’ ” (13).
3.2. Il concetto di “causa” in relazione all’opposizione a decreto ingiuntivo, all’opposizione
tardiva alla convalida, all’opposizione di terzo ...
Prima però di vedere quali importanti ricadute conseguano sul piano del petitum dall’adozione
di questo criterio, è doveroso chiedersi, proprio traendo spunto dalla sua lettera iniziale, a quali
“cause” del variegato pianeta del contenzioso locatizio l’art. 8, secondo comma, n. 3 abbia voluto
riferirsi.
La domanda, solo in apparenza, può giudicarsi oziosa.
È, infatti, evidente, per intuitive ragioni, che la norma alluda al processo di ordinaria cognizione
del libro secondo del codice, e, cioè, a quel processo che, in conformità al rito speciale ad esso
applicabile, si introduce ordinariamente avanti al pretore con ricorso.
Ma se si fa tanto da allargare lo sguardo oltre lo steccato del libro secondo ovvero, anche
restando nello stesso libro secondo, oltre la specie dell’ordinario giudizio di cognizione, non è
difficile rinvenire talune fattispecie procedimentali, che, ancorché innegabilmente di competenza
pretorile quando la res judicanda in esse dedotta attenga alla materia locatizia, soggiacciono tuttavia
alla regola della loro introduzione con citazione.
Si pensi, tanto per fare qualche esempio, tra i più ovvi, all’opposizione a decreto ingiuntivo, per
il quale l’art. 645, primo comma, stabilisce che si proponga “avanti all’ufficio giudiziario al quale
appartiene il giudice che ha emesso il decreto, con atto di citazione ...”; oppure all’opposizione
tardiva alla convalida dell’art. 668, il cui terzo comma rimanda alle “forme prescritte per
l’opposizione al decreto di ingiunzione”; o ancora all’opposizione di terzo ordinaria, che alla
stregua del secondo comma dell’art. 405, ove si prevede che “la citazione deve contenere ...”, è
indubbio che debba essere introdotta in questo modo.
Qui, pare chiaro, la domanda che ho posto, ha tutt’altra consistenza, se nel richiamo all’atto di
citazione, come si potrebbe supporre, è da vedersi un implicito rinvio al rito della cognizione
ordinaria, di cui l’atto di citazione è per l’appunto la peculiare forma di introduzione, e se,
soprattutto, come è largamente noto, le norme sul rito, diversamente da quelle sulla competenza,
sono norme sul procedimento, come tali destinate a riflettersi sul contenuto della decisione di merito
(14).
È, peraltro, vero che in rapporto a queste fattispecie sarebbe più corretto parlare di un problema
di rito che non di competenza.
Ma se, come abbiamo visto a proposito della relazione tra l’art. 8, secondo comma, n. 3 e l’art.
447-bis, si conviene sul fatto che nella norma che devolve al pretore la competenza in questa
materia è indirettamente racchiusa anche una statuizione sul rito, ecco allora che la locuzione di
“causa”, di cui si legge nell’art. 8, secondo comma, n. 3 si colora naturalmente anche di un altro
significato, rilevante non solo sul terreno della competenza.
E dunque, tornando a chiedersi se anche queste cause, nonostante sia per esse stabilita la forma
della citazione, debbano invece introdursi, in quanto di competenza per materia del pretore, con
ricorso, un primo indizio di risposta va certamente scorto in quanto si è appena finito di dire, vero,
in altre parole, che se la controversia è devoluta alla cognizione del pretore per ragioni di materia,
necessariamente la sua trattazione deve aver luogo col rito ordinariamente applicabile per quelle
controversie ossia, trattandosi di controversia in materia di locazione, con il rito speciale previsto
dall’art. 447-bis.
E se anche in ciò si volesse ravvisare solo un’opzione di carattere generale, come tale inidonea a
contrastare il difforme tenore letterale delle norme richiamate, di certo più sicuri elementi di
giudizio in questa direzione si possono ravvisare, almeno per quel che concerne l’opposizione a
decreto ingiuntivo e, di riflesso, l’opposizione tardiva alla convalida, su un piano esegetico, nello
stesso art. 645, il cui secondo comma, precisando che “in seguito all’opposizione il giudizio si
svolge secondo le norme del procedimento ordinario davanti al giudice adito”, non lascia infatti
margini di dubbio sul fatto che tra le norme procedimentali siano ricomprese anche quelle che
regolano la forma dell’atto introduttivo (15); e su un piano sistematico nel fatto, altrettanto
indiscusso, in dottrina e giurisprudenza (16), che nell’affine settore delle controversie in materia di
lavoro, l’opposizione a decreto ingiuntivo, benché nulla si disponga in proposito dalle norme sul
procedimento d’ingiunzione, è comunque pur sempre soggetta all’osservanza del rito speciale e
all’adozione del ricorso quale forma introduttiva.
Non diverse sembrano poi le considerazioni (17) che suscita l’opposizione ordinaria di terzo,
posto che, se sul piano sistematico, pur in difetto di precedenti giurisprudenziali specifici,
l’obbligatorietà del ricorso in materia di controversie del lavoro trova praticamente concorde la
dottrina (18), sul piano normativo va senz’altro escluso che l’inciso conclusivo dell’art. 406 (“... in
quanto non derogate dal presente capo”) valga a far salvo, anche ai fini del successivo svolgimento
del giudizio, il richiamo alla forma della citazione contenuto nel secondo comma dell’art. 405; e
ciò, intanto, perché sia lo stesso art. 406 sia il primo comma dell’art. 405 risultano del tutto univoci
nell’affermare che l’opposizione si propone e si svolge in conformità alle norme che regolano il
procedimento davanti al giudice adito, e poi perché il detto inciso è, per evidenti ragioni funzionali e
di collocazione, essenzialmente riferibile alle disposizioni, effettivamente derogatorie, degli artt.
407 e 408.
Conclusione, questa, che con riguardo all’opposizione di terzo, è inoltre rafforzata sotto un
profilo razionale anche dalla considerazione che, se presupposto imprescindibile di essa è, come si
legge in giurisprudenza (19), “la sussistenza in capo all’opponente di un diritto autonomo
incompatibile con la situazione giuridica accertata e costituita dalla sentenza”, non si può consentire
al terzo – che certo potrebbe agire a tutela di quel diritto in via ordinaria e che in quella guisa
dovrebbe dar forma alla propria pretesa unicamente con ricorso – di sottrarsi in via straordinaria,
legittimandone appunto la domanda a mezzo di citazione, a quel più intenso sbarramento preclusivo
che ancora adesso, come si riconosce (20), può derivare alla domanda dal dover essere proposta con
ricorso piuttosto che con citazione.
3.3. ... in relazione alle opposizioni all’esecuzione ...
Qualche problema in più lo stesso quesito è invece destinato a sollevare, sempre in relazione a
fattispecie procedimentali di estrazione codicistica, in tema di opposizione all’esecuzione.
Invero, prim’ancora che un problema di rito qui si configura diversamente dalle ipotesi
esaminate in precedenza, pure una questione di competenza, tanto che taluno, rilevando la
mancanza per le opposizioni all’esecuzione in materia locatizia di una disposizione analoga a quella
che l’art. 618-bis, espressamente dedica alle corrispondenti opposizioni in materia di lavoro e di
previdenza ed assistenza obbligatorie, si è sentito in obbligo di negare che nella competenza per
materia del pretore di cui all’art. 8, secondo comma, n. 3 possano farsi rientrare “le opposizioni a
precetto con le quali il conduttore contesti il diritto del locatore a procedere ad esecuzione” (21).
La tesi – oltre ad essere foriera di un non lieve problema interpretativo, laddove si risolve nel
riaffermare pure una competenza per valore del giudice dell’opposizione, ancorché l’art. 12,
secondo comma, che questo profilo più generalmente disciplinava, sia stato abrogato (22) – è
tuttavia scarsamente persuasiva.
Intanto, è seriamente discutibile che l’argomento tratto dall’art. 618-bis, quantunque di forte
impatto, specie se raffrontato all’assoluto silenzio del legislatore della novella, sia univocamente
valutabile nel senso qui adombrato. Un esame (23), anche in breve, dei lavori preparatori porta
infatti a concludere come l’art. 618-bis non è stato precipuamente concepito per colmare un vuoto
normativo che andava profilandosi in sede di opposizione all’esecuzione a seguito della previsione
in sede ordinaria di una competenza esclusiva per materia del pretore. Del resto, a conferma di
questo rilievo, si può aggiungere che l’utilità pratica della previsione era parsa piuttosto dubbia
anche ai suoi primi commentatori (24), dato che alla determinazione della competenza in materia
del pretore in funzione di giudice del lavoro si sarebbe potuti ragionevolmente pervenire anche in
applicazione delle norme di diritto comune. È non meno significativo è in questo senso il fatto che,
in materia di controversie agrarie, la mancanza di ogni richiamo all’art. 618-bis non abbia
minimamente impedito di ritenere che le opposizioni all’esecuzione per rilascio di fondo rustico
spettino comunque alla competenza delle sezioni specializzate agrarie (25).
Piuttosto, proprio facendo tesoro di questi rilievi, non sarà forse superfluo sottolineare, a
conforto della devoluzione al pretore ex art. 8, secondo comma, n. 3 anche di queste controversie,
come l’art. 615, primo comma, preveda che l’opposizione a precetto, prima che sia iniziata
l’esecuzione, debba essere proposta “davanti al giudice competente per materia o valore e per
territorio a norma dell’art. 27”. Ora se, come pare, fatta salva la riserva prevista per quella per
territorio, la competenza negli altri casi deve determinarsi in base ai principi ordinari (26) e se,
d’altro canto, la competenza del pretore in materia locatizia è stabilita dall’art. 8, secondo comma,
n. 3, qualunque sia il valore della controversia, non si vede perché, visto pure il richiamo fattovi
dall’art. 615, primo comma in alternativa a quello del valore, un analogo criterio di determinazione
della competenza, unicamente, cioè, per ragioni di materia, non debba valere anche in sede di
opposizione al precetto (27).
Né è poi trascurabile, sotto una diversa angolazione, l’intervenuta abrogazione, a mente del
primo comma dell’art. 89 l. 353/90, dell’art. 12, secondo comma. È vero che si è rimproverato al
legislatore di essere stato al riguardo troppo affrettato (28), ma il valore indiziario di questa
abrogazione, in quanto espressiva dell’intendimento del legislatore di rafforzare, anche per questa
via, e cioè attraverso l’abrogazione di ogni competenza per valore in materia, la scelta compiuta con
l’art. 8, secondo comma, n. 3, è in ogni caso fuori discussione e non sembra che se ne possa perciò
negare a priori ogni significato nella ricerca di una soluzione per quegli aspetti problematici ove la
determinazione della competenza sia quanto meno dubbia. Fin qui, dunque, l’opposizione a precetto
ai sensi dell’art. 615, primo comma.
Circa le altre opposizioni all’esecuzione, è da credere che esse, invece, in mancanza di una
norma di raccordo come quella dell’art. 618-bis, continueranno invece ad essere regolate dalle
norme ordinarie. Ciò, sintetizzando, vale a dire, quanto alle opposizioni dell’art. 615, secondo
comma, che esse si proporranno con ricorso al giudice dell’esecuzione, con la conseguenza che, se
giudice dell’esecuzione, ai sensi dell’art. 16, primo comma, è il pretore, il pretore, ai sensi dell’art.
616, prima parte, sarà pure competente per il merito in forza della riserva di competenza dell’art. 8,
secondo comma, n. 3, e, quindi, previa ordinanza di mutamento del rito ai sensi dell’art. 426,
tratterà la causa e provvederà alla sua decisione in conformità alle norme del rito speciale. Se invece
il giudice dell’esecuzione, ai sensi dell’art. 16, secondo comma, è da identificarsi nel tribunale,
questo, non essendo competente per il merito per quanto disposto dall’art. 8, secondo comma, n. 3,
dovrà rimettere le parti avanti al pretore competente, pronunciando all’uopo ordinanza e assegnando
un termine perentorio per la riassunzione a mente dell’art. 616, seconda parte.
Quanto poi alle opposizioni agli atti esecutivi, tanto quelle di cui al primo comma che quelle di
cui al secondo comma dell’art. 617, andranno proposte al giudice dell’esecuzione, le prime con
citazione e le seconde con ricorso e saranno soggette, per ciò che attiene ai successivi svolgimenti
processuali, alla disciplina dell’art. 618.
3.4. ... e in relazione alle controversie in tema di assegnazione di alloggi di edilizia residenziale
pubblica
Sempre nel quadro di queste riflessioni sulla nozione di causa accolta dall’art. 8, secondo
comma, n. 3, ci si può infine chiedere se le norme del rito speciale debbano osservarsi anche in
relazione a talune controversie in tema di assegnazione di alloggi di edilizia residenziale pubblica
(29).
Dico talune, perché, a stretto rigore, di fronte dell’esercizio dei poteri autoritativi consentiti dal
d.p.r. 30 dicembre 1972, n. 1035, – ed ora dalla legislazione regionale adottata a seguito del d.p.r.
616/77 – è solo l’art. 11, tredicesimo comma a legittimare l’interessato nell’ipotesi di decadenza
dall’assegnazione, all’opposizione avanti al pretore, mentre, malgrado regolino rispettivamente le
ipotesi affini dell’annullamento e della revoca dell’assegnazione e del rilascio decretato a carico
dell’occupante senza titolo, nulla dispongono in proposito i successivi artt. 16, 17 e 18 del citato
d.p.r., che dell’art. 11 si limitano infatti a richiamare solo il dodicesimo comma, concernente
l’efficacia esecutiva del provvedimento adottato.
Ciononostante, che un’analoga forma di reazione sia consentita anche in queste ipotesi è un
fatto assolutamente pacifico. E di esso, la prima a rendersene conto è certamente la giurisprudenza,
tanto quella ordinaria che quella amministrativa, entrambe per vero concordi nel distinguere, nel
complesso rapporto inerente l’assegnazione di alloggi di edilizia residenziale pubblica, tra una
prima fase di natura eminentemente pubblicistica costituita dal procedimento amministrativo ed una
seconda fase avente connotazioni privatistiche concernente l’esecuzione dell’assegnazione (30). È
però altrettanto incontrovertibile che l’unità di intenti che in principio si realizza su questo punto si
spezzi poi immediatamente all’atto pratico, poiché, se su queste basi si registra pure una sostanziale
convergenza di vedute nell’espungere dall’area della tutelabilità avanti al giudice ordinario
l’opposizione al provvedimento di annullamento (31) – mentre vi dovrebbe rientrare l’opposizione
al provvedimento che intima il rilascio all’occupante senza titolo (32) – giudici ordinari e giudici
amministrativi sono invece divisi da un aspro contrasto di giurisdizione quanto alla residua ipotesi
della revoca (33).
Cercando allora di tirare le fila di questo discoroso, se si tralascia per il momento l’esame delle
ipotesi dell’occupazione sine titulo e, se si riconosca la giurisdizione del giudice ordinario, della
revoca – che sollevano in parte problemi diversi e sulle quali avremo occasione di tornare in seguito
– è evidente che l’interrogativo premesso possa prendere legittimamente corpo soltanto in relazione
all’ipotesi della decadenza dell’assegnazione, giacché, come visto, solo in questa ipotesi il
tredicesimo comma dell’art. 11 prevede la competenza del pretore.
Se è così, la risposta, nel senso della piena applicabilità alla specie del rito speciale, è presto
data. E ciò non già perché il relativo giudizio, ancora a mente dall’art. 11 tredicesimo comma, debba
essere introdotto con ricorso piuttosto che con citazione, vero che se un tale rilievo non era in grado
di autorizzare alcuna deduzione in punto di rito sotto il vigore del regime processuale antenovellare,
men che meno lo potrà essere adesso, ove il ricorso si ammanta di una funzione identificativa del
rito. Deve invece aversi riguardo, in questa direzione, al fatto, esplicitamente avallato da quanto
poc’anzi ricordato a proposito della complessità del procedimento di assegnazione, che all’adozione
del relativo provvedimento segue la stipulazione con l’assegnatario di un contratto di locazione e
che il diritto che quest’ultimo quindi matura in ordine al godimento dell’alloggio in nulla differisce
da quello di un qualsiasi conduttore. È perciò perfettamente ragionevole che, se il rapporto che
consegue all’assegnazione dell’alloggio è riconducibile allo schema della locazione conduzione,
nell’ipotesi considerata, non solo l’atto introduttivo del giudizio, ma l’intero suo corso debba essere
regolato dalle norme del contenzioso locatizio, al pari cioè di una comune controversia in materia di
locazione di beni immobili, cui siano applicabili gli artt. 8, secondo comma, n. 3 e 447-bis.
4.1. La specie dei “rapporti di locazione ... di immobili urbani” e i suoi limiti
Ho già più volte avuto occasione di ricordare come alla devoluzione in favore del pretore del
contenzioso locatizio concernente gli immobili la novella del ’90 sia essenzialmente pervenuta
attraverso una globale riformulazione dell’art. 8, secondo comma, n. 3.
Mentre, in vigenza del testo ora abrogato, la competenza ratione materiae del pretore, in
armonia del resto con la previsione della sua inderogabilità da parte dell’art. 661, trovava, infatti,
radicamento solo in rapporto alla fase sommaria che il giudizio locatizio poteva eventualmente
conoscere a seguito dell’intimazione di licenza o di sfratto per finita locazione, il testo varato con
l’art. 3 della legge 353/90 rende invece il pretore più generalmente competente “per le cause relative
a rapporti di locazione ... di immobili urbani”.
È questa, certo, in tema di competenza, come si è detto con espressione indubbiamente felice
(34), “la più rilevante innovazione in crescendo apportata dalla legge n. 353”, della quale mi pare
doveroso rimarcare qui la pregnanza sotto un duplice angolo di osservazione. Perché se, per
spiegarmi, in prima approssimazione, si è indiscutibilmente indotti a soffermarsi sulla scelta di
principio in favore del pretore quale giudice unico delle locazioni che in essa vi si trova
rispecchiata, nondimeno, nell’allargamento della competenza pretorile, che è attestato dal raffronto
tra vecchio e nuovo testo dell’art. 8, secondo comma, n. 3, non si può non vedere tutta la portata di
una voluntas legis, non solo lucidamente orientata rispetto agli obiettivi di fondo del disegno
riformatore, ma del pari utilmente fruibile dall’interprete quale prezioso sussidio
nell’inquadramento delle singole innovazioni normative.
Peraltro, pur tenendo fede a questo dettame, che mi pare imprescindibile, va detto che quella
compiuta dal legislatore in questa direzione è una scelta solo tendenziale.
E ciò perché la competenza del pretore in materia conosce, già a partire dalla stessa lettera
dell’art. 8, secondo comma, n. 3, due importanti limitazioni, quantunque fortunatamente non
incidenti sugli aspetti di precipua connotazione immobiliare che avevano in passato contribuito a
rendere “caldo” il fronte del contenzioso locatizio.
Stabilendo infatti che il pretore è competente, qualunque ne sia il valore, per le cause relative a
rapporti di locazione concernenti beni immobili urbani, l’art. 8, secondo comma, n. 3
implicitamente sottrae alla sua cognizione le controversie locatizie riguardanti, innanzitutto, i beni
mobili e, quindi, gli immobili extraurbani (35).
Ora, com’è noto, la nozione di bene mobile, per quanto disposto dall’ultimo comma dell’art.
812 codice civile, si ricava pacificamente per esclusione da quella di bene immobile risultante dai
primi due commi di questa norma; di modo che, quando il bene locato non sia qualificabile come
immobile, la competenza del pretore andrà naturalmente esclusa, salvo, ben’inteso, che non si tratti
di locazione di un’universitas rerum produttiva ovvero dell’affitto di un’azienda, giacché in tal caso
la competenza del pretore tornerebbe nuovamente in vita in forza della diretta attribuzione di queste
controversie da parte delll’art. 8, secondo comma, n. 3.
4.2. La nozione di immobile urbano
Apparentemente più difficoltosa potrebbe rivelarsi, in ordine alla seconda limitazione,
l’identificazione della categoria, altrimenti rilevante, degli immobili extraurbani, che, almeno prima
facie, necessita di essere messa a fuoco sia in rapporto a quella dei fondi rustici, sia, soprattutto, in
rapporto alla ricostruzione in chiave riduttiva dell’opposta categoria di immobili urbani, che, nel
vigore della cessata legislazione vincolistica, era invalsa, specie in giurisprudenza. anche per effetto
dell’obiettiva suggestione esercitata dal titolo premesso agli art. 1607 e segg. codice civile (36).
Quanto al primo aspetto, si era, per vero, già chiarito prima della l. 392/78 (37) – e a ciò si è
consapevolmente adeguata la giurisprudenza successiva (38) – che l’ubicazione fuori
dall’agglomerato cittadino dell’immobile non valesse a privarlo della qualifica di “urbano”, quando
la sua utilizzazione fosse risultata indipendente da un fondo rustico ossia da un terreno adibito a
produzione agricola, rilevante palesandosi, in questa guisa, unicamente il criterio della sua
destinazione o meno a servizio di un’attivita di natura agraria. Perciò, dovendosi tuttora aver
riguardo a questo criterio, la competenza in materia del pretore, giusta il dettato dell’art. 8, secondo
comma, n. 3, non potrà ritenersi derogata, laddove, nonostante l’ubicazione in ambito extracittadino
del bene locato, sussistano comunque le condizioni per poterlo annoverare tra gli immobili urbani.
Più recente è invece il chiarimento maturato in merito al secondo aspetto, vero che, una volta
venute meno le esigenze che avevano consigliato, sul rilievo della loro eccezionalità,
un’interpretazione limitativa delle norme della previgente legislazione vincolistica e che,
nell’economia di questa legislazione, avevano indotto ad equiparare la nozione di immobile urbano
a quella di edificio o di costruzione, non dovrebbero esservi più ostacoli a ricomprendere nella
categoria degli immobili urbani – e ad estendere, perciò, alla loro locazione la competenza del
pretore – non solo la “casa dell’uomo”, come si diceva un tempo, ma, più genericamente, tutti gli
immobili di qualunque specie in cui si eserciti una delle attività contemplate nell’art. 27 l. 392/78,
ivi comprese le aree non oggetto di edificazione o altrimenti nude (39).
4.3. Profili della competenza in ordine alle controversie inerenti beni mobili ed immobili
extraurbani
Va da sé, poi, che, quando, in sorte del carattere mobiliare della locazione ovvero della sua
inerenza ad un immobile extraurbano, vengano meno le ragioni per conservare al pretore la
cognizione delle relative controversie, la competenza debba essere determinata nei modi ordinari,
sempreché, naturalmente, per gli immobili extraurbani, non debba riconoscersi la competenza delle
sezioni specializzate agrarie, vista la riserva che all’uopo figura formulata in chiusa dello stesso art.
8, secondo comma, n. 3.
Ma quid juris, in queste ipotesi, quando la competenza per valore per l’intervenuta sua
abrogazione non possa essere più determinata a mente dell’art. 12, secondo comma, che
espressamente era deputato a regolare questo profilo? In astratto, poiché non mi constano allo stato
riscontri diversi – anche se non è inimmaginabile che la questione possa assumere concreta
rilevanza, ad esempio, in ordine alla locazione di un veicolo o di un macchinario – le soluzioni
possibili sono molteplici. Si può, cioè, pensare alla reviviscenza in parte qua della norma abrogata,
salvo però osservare che in tal caso si verrebbe inammissibilmente a contrastare la manifesta
volontà abrogatrice dalla legge (40). Ma si potrebbe pure pensare che, in luogo del criterio cessato,
si renda più generalmente applicabile, ancorché non senza qualche trascurabile sforzo letterale, il
primo comma dell’art. 12; ovvero, se la controversia cada su beni mobili, che la determinazione in
parola potrebbe avvenire ricorrendo analogicamente al criterio dettato dall’art. 14 per le cause
relative alle somme di denaro e ai beni mobili (41), se in esso non dovesse più attendibilmente
ravvisarsi una norma di carattere eccezionale. Ancora, si è fatto leva (42) sul combinato disposto
degli artt. 657, 658, 667 per trarne la conclusione che, almeno per le cause concernenti i beni
immobili extraurbani, quelle per finita locazione e quelle di risoluzione per morosità sarebbero
comunque riconducibili alla competenza per materia del pretore, e ciò, a prescindere dalla sua
tassatività, malgrado l’inevitabile forzatura cui così si verrebbe a sottoporre il dettato dell’art. 8,
secondo comma, n. 3. E si è infine pensato (43) che dette controversie, allorché la competenza non
sia altrimenti determinabile, siano tutte di valore indeterminato e quindi tutte di competenza del
tribunale, anche a dispetto della pochezza economica che esse possono talora presentare.
4.4. Le controversie locatizie.
Fuori da questi limiti, la competenza in materia del pretore, vista l’ampia dizione dell’art. 8,
secondo comma, n. 3 ed attesa la ratio che indubbiamente ne ha ispirato la formulazione, è per il
resto da intendersi in modo piuttosto esteso.
Senza alcuna pretesa di esaustività, vi rientreranno, perciò, sul più generale rilievo (44) che la
detta competenza si estende a tutte le azioni aventi ad oggetto controversie insorte per
l’accertamento, l’esecuzione e lo scioglimento dei rapporti locativi inerenti immobili urbani, le
cause di accertamento, nullità e annullamento del rapporto, le cause di risoluzione del rapporto e
quelle conseguenziali, tra le quali quelle per la restituzione del deposito cauzionale, per il ripristino
delle condizioni dell’immobile e per la determinazione dell’indennità di avviamento; ed ancora le
cause concernenti il canone e le spese accessorie, quelle concernenti il diniego di rinnovazione e
quelle concernenti il ripristino del contratto a titolo di sanzione. È poi da credere che appartengano
alla competenza del pretore anche le controversie in tema di prelazione e riscatto (45) e,
verosimilmente (46), pure quelle per l’impugnazione delle delibere assembleari nei limiti in cui ciò
è consentito al conduttore a norma dell’art. 10 l. 392/78.
4.5. Ancora sulle controversie in tema di assegnazione di edilizia residenziale pubblica. Le ipotesi
della revoca e dell’occupazione sine titulo
Presupposto imprescindibile per la sussistenza di questa competenza è però che la controversia
investa un rapporto di locazione conduzione.
Sicché, prima di affrontare il nodo della natura tassativa o meno della previsione contenuta
nell’art. 8, secondo comma, n. 3, occorre riaprire il discorso in ordine a quelle controversie in tema
di assegnazione di alloggi di edilizia residenziale pubblica per le quali possa dirsi sostanzialmente
incontroversa, almeno secondo la giurisprudenza ordinaria, la giurisdizione dell’a.g.o. (47), ma per
le quali manchi, d’altra parte, una disposizione analoga a quella del già ricordato art. 11, tredicesimo
comma, del D.p.r. 1035/72. In breve, si tratta di stabilire, se la competenza del pretore e, di riflesso,
l’osservanza del rito speciale per la loro trattazione – che già, come si è visto, mi è sembrato di
poter affermare in relazione alla specie della decadenza – si impongano anche nelle ipotesi in cui
l’ente proprietario ai sensi dell’art. 16 D.p.r. 1035/72 decreti la revoca dell’assegnazione ovvero, a
mente dell’art. 18 D.p.r. 1035/72, intimi all’occupante il rilascio dell’alloggio occupato senza titolo.
Ancorché in apparenza accomunate dalla medesima radice normativa, le ipotesi in parola
coprono tuttavia, già ad una prima osservazione, ambiti alquanto differenti, giacché l’occupazione
sine titulo, com’è noto, quantunque trovi proprio in questo contesto occasione per manifestarsi con
più ricorrente frequenza, non è peculiare al settore dell’edilizia residenziale pubblica, ben potendo
realizzarsi intuitivamente anche in danno di un immobile privo di questa caratterizzazione. Da qui,
perciò, l’opportunità di procedere al loro esame in modo separato.
Cominciando, allora, dalla revoca, gioverà rammentare, sulla falsariga della distinzione, cui si è
fatto cenno sopra, a proposito di una prima fase di natura pubblicistica ed una seconda fase di natura
privatistica nel procedimento di assegnazione di alloggi residenziali pubblici, che l’assegnazione,
nel mentre pone termine alla prima fase, costituisce anche la fonte per l’attribuzione all’assegnatario
di un diritto soggettivo perfetto ovvero, più esattamente, di un diritto personale di godimento,
destinato a trovare formale consacrazione nella stipula di un ordinario contratto di locazione (48).
Se le cose stanno così, ferma più in generale, come avvertito, la giurisdizione del giudice
ordinario ove il provvedimento di revoca non sia dettato da ragioni di discrezionalità inerenti al
rapporto pubblicistico, ma si ricolleghi a vicende del rapporto locativo, – come quando, ad esempio
l’alloggio sia stato abbandonato dal locatario (49) –, non credo che sia possibile contestare che
anche le relative controversie debbano essere affidate alla cognizione del pretore ai sensi dell’art. 8,
secondo comma, n. 3. In pratica, proprio perché, come s’è notato (50), esse rifletterebbero “cause
sopravvenute di estinzione e di risoluzione direttamente inerenti al rapporto locatizio e sottratto al
discrezionale apprezzamento dell’amministrazione”, l’affermazione della competenza pretorile e,
per ovvia estensione, l’applicazione del rito speciale dell’art. 447-bis, non rappresentano nulla di più
che un naturale corollario del fatto di ritenere che il rapporto che ha vita di seguito all’assegnazione
è una normale locazione, di modo che non vi è perciò alcuna ragione perché delle vicende in chiave
patologica che il rapporto può conoscere durante il suo svolgimento non debba essere investito chi –
e nel modo ritenuto più idoneo – delle locazioni è il giudice designato per legge. Riscuote viceversa
un consenso pressoché unanime tra i commentatori l’opinione secondo cui la competenza ratione
materiae del pretore in tema di locazione non si estenderebbe alla fattispecie dell’occupazione “sine
titulo” (51).
Assorbente, in questo ragionamento, si rivela, infatti, la considerazione che nella specie in
esame “l’assenza di un contratto non consente in linea di stretta teoria di fondare l’obbligo di
restituzione dell’occupante senza titolo se non sul diritto di proprietà” (52).
Affermazione, che suona indubbiamente vera, specie laddove tende ad attribuire un fondamento
di realità all’azione di rilascio; ma che solleva, d’altro canto, qualche perplessità, quando, nella
giurisprudenza in argomento (53), Si rinviene l’affermazione – altrettanto incontestata – che
l’azione in parola, qualora l’opponente non impugni il diritto di proprietà dell’attore, ha
pacificamente natura di azione personale.
Come uscire, dunque, da questo impasse? Una via potrebbe essere quella suggerita da un
recente provvedimento (54) di far leva sull’estrema eterogeneità delle situazioni soggettive che
emergono dalle controversie individuate come tali ed, insieme, sulla innata vocazione espansiva che
la linea tendenziale della concentrazione presso un unico giudice delle controversie in materia di
godimento impone di conferire all’art. 8, secondo comma, n. 3. Posto, infatti, che le dette
controversie “solo a costo di distorsive generalizzazioni si possono classificare una volta per tutte
all’interno dello schema della realità o dei diritti personali” e che la definizione ampia dell’art. 8,
secondo comma, n. 3 “può ritenersi comprensiva di tutte quelle situazioni definite in dottrina come
diritti personali di godimento”, inferirne la competenza del pretore per ragioni di materia mi sembra
una conclusione assolutamente da condividere. Rafforzerei tuttavia la seconda proposizione, poiché
non si può ignorare che, ancorché comunque motivato, ogni allargamento della competenza
pretorile si risolve, per la particolare relazione tra l’art. 8, secondo comma, n. 3 e l’art. 447-bis, pure
in un’estensione del rito, con l’effetto, come si è visto, che, incidendo le norme sul rito sulla
potestas judicandi del giudice, né può risultare in definitiva influenzato dall’applicazione di un rito
in luogo di un altro il contenuto concreto della decisione. Donde, allora, l’esigenza, anche per
quanto in seguito si avrà occasione di dire in ordine alla questione della sua tassatività, di integrare
l’interpretazione dell’art. 8, secondo comma, n. 3 con il criterio della qualificazione causale del
rapporto oggetto di giudizio. Del che traendo le debite conseguenze in ordine al rapporto in esame,
credo che si potrà parimenti argomentare la competenza esclusiva del pretore ogni qualvolta la
pretesa dell’occupante abbia titolo in un diritto personale di godimento ovvero, meglio, quando la
causa di esso persegua eminentemente una finalità satisfattoria del godimento, come, ad esempio nel
precedente citato, allorché il diritto tragga origine da una cessione c.d. di fatto del godimento attuata
contra legem. Al contrario, la controversia andrà devoluta al giudice competente per valore, ai sensi
dell’art 15, in tutti quei casi in cui il godimento opposto dall’occupante costituisca la manifestazione
di un diritto reale quale l’usufrutto, l’uso o l’abitazione ovvero quando, più semplicemente,
l’occupante intenda solo contestare il diritto di proprietà di chi agisce per il rilascio.
4.6. Le controversie in tema di assegnazione in favore di soci di cooperativa
Ad una siffatta problematica non sembra invece dare adito l’assegnazione di alloggi di edilizia
economico-popolare in favore dei soci di cooperativa fruenti di contributo erariale.
Ancorché, a causa della quantità dei provvedimenti normativi regolanti il settore, ogni
schematizzazione in proposito possa risultare obiettivamente rischiosa, può senz’altro convenirsi
sulla premessa che il godimento, che al socio consegua in questa cornice dall’assegnazione, è
essenzialmente riconducibile o alla specie della cooperativa a proprietà individuale od a quella della
cooperativa a proprietà indivisa. Va inoltre aggiunto, a miglior intelligenza del tutto, che l’art. 131
del R.d. 28 aprile 1938, n. 1165, che del settore è tuttora il testo normativo portante, prevede la
costituzione di un giudice speciale con un’ampia competenza per materia, riferita, oltre che alle
controversie attinenti alla prenotazione e all’assegnazione degli alloggi, alla qualità di socio od
aspirante socio, anche a tutte le controversie tra soci e a quelle tra socio e cooperativa in quanto
riguardanti il rapporto sociale.
Questo rilievo è particolarmente significativo, perché, anche quando fosse altrimenti azionabile
la leva di un interpretazione lata della competenza pretorile in materia locatizia, porta comunque a
valorizzare in senso ineludibilmente ostativo la deroga che in esso trova sanzione alla giurisdizione
del giudice ordinario. Non si può infatti non osservare con la giurisprudenza largamente dominante
(55) che, se le controversie previste dall’art. 131 cit. sono devolute alla cognizione di un giudice
speciale fino alla stipulazione da parte del socio del contratto di mutuo individuale, che segna nello
stesso tempo il conseguimento delle finalità di interesse pubblico e l’acquisto della proprietà
dell’alloggio in capo al socio stesso, questo effetto è verosimilmente destinato pure a prodursi – ed
ogni relativa controversia ne resterà ovviamente assorbita – qualunque sia il regime negoziale in
dipendenza del quale il socio abbia conseguito il godimento dell’alloggio. E, dunque, se prima della
stipulazione del mutuo individuale, non determina la devoluzione delle relative controversie al
pretore la circostanza che il bene sia stato assegnato in locazione con patto di futura vendita o con
patto di riscatto (56), perché prim’ancora che la competenza in capo al pretore difetta la sua stessa
giurisdizione in quanto giudice ordinario, dopo la stipulazione del detto negozio, l’attribuzione in
proprietà del bene – ancorché le controversie relative al medesimo divengano per questa via
pacificamente soggette alla giurisdizione del giudice ordinario – esclude altrettanto pacificamente
che possa ipotizzarsi una riserva di competenza per ragioni di materia in favore del pretore.
Né ad un discorso diverso è da credere che si presti la specie della cooperativa a proprietà
indivisa, vero che, seppur si opponesse in questo caso, sulla scorta di una distinzione tra l’uno e
l’altro proflio partecipativo - che si faticherebbe comunque a rinvenire nella giurisprudenza in
materia – l’inefficacia dell’indicato criterio di demarcazione, non si potrebbe poi non tener conto
della tendenza, affiorata sia pur ad altri fini, a considerare la fruizione dell’alloggio da parte del
socio di cooperativa a proprietà indivisa come frutto dell’esercizio di un diritto di abitazione (57) –
di un diritto reale, cioè – piuttosto che di un diritto di godimento nascente da un contratto di
locazione. Con il che, in ogni caso, resterebbe di nuovo esclusa la competenza del pretore ratione
materiae.
5. La specie dei “rapporti di comodato” e la questione della tassatività
Oltre che per le cause relative a rapporti di locazione, sempre a mente dell’art. 8, secondo
comma, n. 3, il pretore è competente in via esclusiva, qualunque ne sia il valore, anche per le
controversie concernenti il comodato di beni immobili urbani.
Come si apprende dalla relazione accompagnatoria al disegno di legge approvato dal Senato
(58), la norma deve le ragioni della sua introduzione “al fine di evitare che la individuazione del
giudice competente possa dipendere dalla qualificazione giuridica del rapporto controverso”. Ciò,
perché, trattandosi all’evidenza di un modo di godimento assimilabile alla locazione, se se ne fosse
sottratta la cognizione al pretore, già competente per la materia locatizia, sarebbe stato senz’altro
vanificato l’intento razionalizzatore della novella, posto che in pratica non è sempre agevole
distinguere tra l’uno e l’altro rapporto, determinando, come si è rilevato (59), tanto l’uno che l’altro
“situazioni di sostanziale identità nell’uso e nella disposizione dell’immobile”.
La norma, per il resto, non solleva problemi specifici rispetto a quelli che già hanno formato
oggetto di esame a proposito della parallela competenza in materia di locazione. Sicché, nel ribadire
le note limitazioni che la competenza del pretore incontra in tema di comodato di beni mobili e di
comodato di immobili extraurbani, andrà qui pure ricordato quanto in quella sede s’ebbe modo di
dire in ordine al criterio regolatore della competenza per valore da adottarsi in tali casi, vero che
anche per le cause in materia di comodato il valore andava determinato in applicazione analogica
delle norme sulla locazione e, dunque, dell’ora abrogato art. 12, comma secondo.
Piuttosto la speciale competenza che la norma tributa sul punto al pretore solleva un altro ordine
di problemi, dovendosi chiedere, se per il fatto di essere competente nello stesso tempo per le
locazioni ed il comodato, il pretore non debba essere più generalmente considerato come “l’organo
competente a decidere tutte le controversie che possono sorgere dall’utilizzazione di immobili
urbani fondata su titolo diverso” (60). In breve, il quesito che intendo porre è se la previsione
dell’art. 8, secondo comma, n. 3 abbia natura tassativa ovvero se, sul presupposto della comune
radice costituita dal godimento del bene, essa non sia invece suscettibile di estensione ad altre
fattispecie negoziali di analogo contenuto.
La realtà è in questo senso indubbiamente ricca di stimoli: basti pensare, se non alle ipotesi in
cui la detenzione dell’immobile sia imputabile ad un contratto di appalto, a quelle in cui più
credibilmente essa dipenda da un contratto atipico come l’alloggio o la pensione (61). È innegabile
come in tutte queste ipotesi la detenzione si possa risolvere in un godimento non dissimile da quello
che il conduttore o il comodatario traggono dalla detenzione della cosa datagli in locazione o
concessagli in comodato.
Di fronte ad esse, però, l’orientamento prevalso in dottrina è che la competenza attribuita al
pretore dall’art. 8, secondo comma, n. 3 non sia estensibile oltre i casi strettamente considerati. Si è
infatti notato (62) che la norma avrebbe omesso di raccogliere il suggerimento volto ad includere tra
i rapporti negoziali in essa menzionati il deposito e, poiché il detto suggerimento era stato dettato
dall’intento di devolvere alla cognizione del pretore ogni controversia in cui sia discusso il diritto a
ritenere la cosa sulla base di un rapporto personale o comunque precario, l’omissione andrebbe
valutata come un’implicita conferma della natura tassativa del suo dettato.
Sempre nella stessa direzione si è poi osservato (63) come, a causa dell’assetto normativo
impresso alla materia, risolvendosi ogni modificazione della competenza in un mutamento del rito
ed influendo notoriamente il rito sul contenuto della decisione, la tassatività che occorre perciò
riconoscere ai criteri di scelta di quest’ultimo non potrebbe non riflettersi sull’interpretazione dei
criteri di competenza, nel senso cioè che solo i rapporti per i quali è espressamente applicabile il rito
speciale rientrano nella competenza per ragioni di materia del pretore.
Il primo argomento, per quanto ammantato di verità, non è propriamente irresistibile. La
preterizione, tra quelli previsti, di un determinato rapporto, per di più non esattamente provvisto di
una funzione satisfattiva del godimento, non impedisce che l’intendimento, che cosi si vorrebbe
negare, non possa del pari realizzarsi nella menzione degli altri rapporti che una finalità di
godimento tendono invece propriamente a soddisfare.
Più pregnante, ed in qualche misura decisivo in favore della tassatività del dettato normativo
dell’art. 8, secondo comma, n. 3, penso si debba invece giudicare l’altro argomento. Anche a me
pare, come in effetti ho più sopra rilevato, che il fatto che l’art. 447-bis si serva, per così dire,
dell’art. 8, secondo comma, n. 3 per delimitare il proprio raggio di azione non possa non essere
interpretato come un tacito invito in via di principio ad applicare le norme del rito speciale solo a
quei rapporti oggetto di espressa determinazione. Aggiungerei, poi, che in chiave analogamente
ostativa, gioca indubbiamente – ed in modo inversamente opposto a quanto lo stesso rilievo
conduce a ritenere per l’occupazione sine titulo (64) – la diversa natura causale che separa le speci
della locazione e del comodato da quelle ad esse affini o che ad esse si vorrebbero accostare,
giacché solo le prime sono tipicamente connotate da una causa del godimento o al godimento
riconducibile che nelle altre speci o è totalmente assente o si realizza, dando più frequentemente vita
a fenomeni di atipicità, nel concorso di altre cause (65).
6.1. Fase sommaria e cognizione piena del giudizio di locazione tra luci ed ombre dell’art. 667
La novella processuale del ’90, lo si è già detto, ha solo parzialmente interessato il
procedimento di convalida del libro quarto.
Se si eccettua l’intervento integrativo, cui, a tempo oramai scaduto, è stato sottoposto l’art. 660
(66), l’unica modifica apportata dalla legge 353/90 al procedimento di convalida è consistita infatti
nella novellazione, ad opera del suo art. 73, dell’art. 667, in forza del quale, sotto la rinnovata
rubrica intitolata al “mutamento di rito”, si legge ora che “pronunciati i provvedimenti previsti dagli
articoli 665 e 666, il giudizio prosegue nelle forme del rito speciale, previa ordinanza di mutamento
di rito ai sensi dell’articolo 426”.
La norma, pur nel lodevole intento di completare la disciplina processuale, che riguardo al
settore delle controversie locatizie andava definendosi su un piano più generale per effetto degli artt.
8, secondo comma, n. 3 e 447-bis, anche con la regolazione del momento del passaggio del giudizio
da una fase a cognizione sommaria ed un fase a cognizione piena (67), ha tuttavia fin da subito
messo in chiara luce tutti i limiti dell’impostazione accolta dal legislatore.
In particolare, la scelta di fermarsi ai margini del procedimento di convalida e di evitarne così
ogni più sostanziosa revisione si è risolta nel dar vita, prim’ancora che a non pochi problemi di
adattamento interpretativo, cui ha in parte posto rimedio la novella dell’art. 660, ad una serie di
vistose aporie sul piano sistematico, forse più gravi delle lacune che l’art. 667 lascia intravedere
dietro il suo scarno dettato.
In ciò, per intenderci, non si può, intanto, che aver riguardo alla diversità dei presupposti che
rendono possibile, d’un canto, il giudizio ordinario e, dall’altro, quello di convalida, all’uopo
bastando per vero un modesto esercizio di lettura: ma è del pari agevole vedere, quantunque meno
tangibilmente suffragato da un diretto riscontro testuale, pure un segno di attenzione per il carattere
riduttivo della previsione recata dall’art. 667, nonché per alcune delle diverse questioni
interpretative che la norma lascia tuttora aperte.
6.2. Presupposti dell’ordinanza ed evoluzione della controversia al giudice competente.
Come ho appena ho finito di dire, un primo ordine di questioni che l’immutata disciplina del
procedimento di convalida è destinata a sollevare di fronte alla riformulazione dell’art. 8, secondo
comma, n. 3 – e che l’art. 667, nella chiara presunzione del contrario (68), ha visibilmente omesso
di considerare – riguarda i diversi presupposti che legittimano l’instaurazione del giudizio ordinario
rispetto a quelli che ne legittimano la promozione in via sommaria ai sensi degli artt. 657, 658 e
659.
È invero di immediata, innegabile evidenza che le norme in questione, quantunque suscettibili
di regolare in astratto aspetti complementari della stessa controversia, scontino tuttavia all’atto
pratico, per quanto si è detto poc’anzi, l’inconveniente del loro mancato coordinamento,
potendosene riconoscere appunto la specularità solo in relazione a determinate categorie di rapporti.
E ciò perché se, per un verso, l’art. 8, secondo comma, n. 3 abbraccia un campo di applicazione
indubbiamente più largo, prevedendo che possa adirsi il pretore in sede ordinaria, oltre che per le
cause relative a rapporti di locazione, pure per i rapporti di comodato e per l’affitto di azienda,
mentre gli artt. 657 e 658 consentono, a loro volta di agire, per il rilascio in relazione alla sola
fattispecie della locazione, con esclusione dunque del comodato e dell’affitto di azienda, per l’altro,
esulano dalla cognizione del pretore ex art. 8, secondo comma, n. 3 le locazioni concernenti gli
immobili extraurbani e le controversie di competenza delle sezioni specializzate agrarie, che gli artt.
657 e 658, alle quali va associata pure la specie regolata dall’art. 659, rendono, almeno in principio,
deducibili come res del procedimento di convalida.
L’esigenza di un coordinamento è dunque in re ipsa, stante, come detto, anche l’assoluta
incongruità che rispetto a queste controversie affligge la previsione dell’art. 667, laddove essa si
limita a prevedere la pronuncia dell’ordinanza di mutamento del rito ai sensi dell’art. 426, mentre
per alcune di esse si dovrebbe più esattamente discorrere di una determinazione inerente alla
competenza che non al rito (69).
Sicché volendo tentare questa via (70), si può intanto iniziare col dire, sul rilievo che il
procedimento di convalida è, giusta il disposto dell’art. 661, inderogabilmente affidato alla
competenza del pretore del luogo in cui si trova la cosa locata, che, se il pretore non può essere
attinto in questa sede per il rilascio della cosa data in comodato ovvero per quello dell’azienda
affittata, l’art. 667 risulterà invece pienamente applicabile in caso di locazione di beni immobili
urbani, giacché è solo per questa ipotesi, senz’altro quella più frequente nella pratica, che l’ambito
di applicazione degli art. 657 e 658 coincide con quello dell’art. 8, secondo comma, n. 3.
Ma già le cose si fanno indiscutibilmente più complicate se solo l’immobile oggetto della
locazione non sia qualificabile come bene urbano, dato che in tal caso, arrestandosi la competenza
del pretore ex art. 8, secondo comma, n. 3 alle sole controversie concernenti immobili di questo
tipo, non si potrà far luogo alla pronuncia dell’ordinanza ex art. 667, non essendovi infatti alcun
mutamento di rito da disporre, se anche la cognizione in sede non sommaria della controversia
debba seguire le forme del rito ordinario. Di conseguenza, in questo caso, all’esito del procedimento
speciale, si possono profilare essenzialmente due alternative. Se il pretore sarà competente a
conoscere del merito – il che si è visto apre, per la determinazione della competenza per valore, un
diverso problema attesa l’abrogazione dell’art. 12, secondo comma egli, all’esito della fase
sommaria, si limiterà a fissare l’udienza di trattazione ex art. 183 avanti a sé stesso, questa soluzione
rivelandosi in ogni caso più coerente di quella consistente nella pronuncia di ordinanza ai sensi
dell’art. 427 (71), cui mi sembra si oppone la natura pur sempre ordinaria del procedimento
speciale. Qualora invece il pretore debba spogliarsi della controversia, perché essa è di competenza
del tribunale, sarà allora ragionevole ipotizzare che, in luogo dell’ordinanza ex art. 427 – cui pure si
è fatto per questa ipotesi richiamo e alla cui pronunzia si oppongono le medesime ragioni di cui
sopra – il pretore pronunci o ordinanza di remissione delle parti avanti al giudice competente, in
estensione analogica dell’art. 669 octies (72) ovvero, come ritengo preferibile, ordinanza di
declaratoria della competenza nel merito del tribunale, con contestuale termine alle parti per la
riassunzione ex art. 50 (73).
Ed è questo il paradigma a cui il pretore dovrà verosimilmente attenersi tutte le volte in cui la
sua competenza per la fase sommaria è destinata a venire meno per la fase di ordinaria trattazione.
Dunque, esso troverà applicazione anche in relazione alla licenza o allo sfratto per finita
locazione o per morosità intimati nei confronti dell’aff¦ttuario coltivatore diretto, del mezzadro o del
colono, sempreché ben’inteso si ritenga, di contro al diverso indirizzo della giurisprudenza (74), che
il relativo procedimento di convalida sia tuttora di competenza del pretore. Ed ancora ad esso si
uniformerà la definizione del procedimento, allorché il giudizio sia devoluto alla cognizione di un
collegio arbitrale (75), che non potrà conoscere di esso in sede di convalida, attesa la cogenza che
riveste ai sensi dell’art. 661 l’attribuzione della competenza operata al riguardo in favore del
pretore, ma potrà esserne investito in sede di ordinaria trattazione, giacché la relativa competenza,
con il solo limite dell’art. 447 comma secondo, è al contrario certamente derogabile. Ed infine vi
sarà pure soggetta, quando non ne sia competente lo stesso pretore adito in sede di convalida (76), la
cognizione nel merito della locazione d’opera ex art. 659, se il rapporto di lavoro in corrispettivo del
quale è pattuito il godimento dell’immobile rientri tra quelli per i quali ai sensi degli artt. 409 e 413
sia competente un pretore territorialmente diverso da quello adito col procedimento speciale ovvero,
esulando il detto rapporto da un siffatto inquadramento (per esempio, perché la cessione
dell’immobile sia convenuta con un professionista intellettuale o con un prestatore d’opera non
subordinato) (77), se la controversia ecceda la competenza del pretore.
6.3. Casi di applicazione
Altra questione, sulla quale l’art. 667 si rivela parimenti lacunoso riflette le condizioni alle quali
è soggetta l’adozione dell’ordinanza di mutamento del rito, stabilendo la norma che vi si possa
infatti procedere solo allorché siano stati pronunciati i provvedimenti previsti dagli artt. 665 e 666.
Ciò sembra presupporre, ad un primo esame, oltre ad una pronuncia in positivo dei detti
provvedimenti, senz’altro l’opposizione da parte dell’intimato. Viceversa va osservato che il
richiamo ai provvedimenti degli artt. 665 e 666 va più rettamente inteso (78), fuori cioè da ogni
condizionamento letterale, nel senso che la conversione del rito deve essere disposta quando sia
esaurita la fase processuale per la pronuncia di detti provvedimenti, donde ad essa si farà luogo non
solo quando i detti provvedimenti, pure richiesti, siano stati negati, ma anche se, nonostante
l’opposizione dell’intimato, nessuna loro richiesta sia stata avanzata dall’intimante.
Ma neppure la seconda condizione può ritenersi indefettibile, essendo pacificamente ammesso
che il pretore, vincolato al principio jura novit curia, possa rilevare d’ufficio la carenza dei
presupposti di merito o di rito che impediscono di pronunciare la convalida (79), indipendentemente
cioè dall’atteggiamento processuale dell’intimato e, dunque, a prescindere dalla sua opposizione. In
questa ipotesi, quando il rigetto della convalida non si ritenga pronunciabile con un’ordinanza (80),
andrà perciò disposta, sul presupposto che la controversia appartenga ovviamente alla competenza
ratione materiae del pretore, la conversione del rito ai sensi dell’art. 667 ed il giudizio susseguente
dovrà essere definito con sentenza (81).
Al mutamento del rito è poi da credere che si debba inoltre procedere, per chi reputa che il
giudizio in tal caso non si estingua (82), quando l’intimante non compaia all’udienza fissata
nell’atto di citazione e, ai sensi dell’art. 662, vengano meno gli effetti dell’intimazione (83); ed,
ancora, per chi del pari reputi che non vi sia incompatibilità tra opposizione e richiesta del termine
“di grazia” (84), se l’intimato, costituendosi chieda il termine per sanare la morosità ai sensi dell’art.
55 l. 392/78 e, nel contempo, opponendosi, si riservi di ripetere nel giudizio di merito la somma
corrisposta a questo titolo (85).
6.4. Contenuto dell’ordinanza
Anche sul contenuto dell’ordinanza l’art. 667 è povero di suggerimenti. Salvo, infatti,
precisarne la forma, la norma, per il resto, è del tutto silente, sicché, dovendo ricostruirne il
contenuto in via di interpretazione, occorrerà tener conto, da un lato, della norma generale dell’art.
134 e del rinvio all’art. 426, dall’altro, del fatto che, come si è detto (86), l’ordinanza segna il
passaggio del giudizio da una fase di cognizione speciale ad una fase di cognizione piena.
Sotto una prima angolazione è perciò ragionevole supporre che l’ordinanza debba essere
succintamente motivata, in pratica facendo cenno alla sussistenza dell’opposizione dell’intimato
ovvero, quando si convenga che il giudizio possa aver un seguito anche in difetto di opposizione, ai
motivi che ne abbiano impedito la definizione in sede di convalida. Più significativo è poi che
l’ordinanza debba contenere la prefissione di un termine perentorio onde consentire alle parti, come
si esprime l’art. 426, “l’eventuale integrazione degli atti introduttivi mediante deposito di memoria e
documenti in cancelleria”.
Qui, però, il discorso interseca il secondo piano di considerazioni, perché, se a mente dell’art.
667 “il giudizio prosegue (87) nelle forme del rito speciale”, il richiamo alle memorie dell’art. 426,
nondimeno, esalta il momento del “passaggio” che si riflette nella pronuncia dell’ordinanza e mira
in questo senso a consentire alle parti una compiuta articolazione in fatto e in via istruttoria delle
rispettive difese (88). Donde, ai fini in esame, l’opportunità (89), che non si ritiene affatto impedita
dal difforme dettato normativo, e che anzi si sposa perfettamente con un esigenza di rispetto del
contraddittorio, di assegnare alle parti un termine distinto per ciascuna di esse, e cioè un primo
termine all’intimante, che diviene attore, ed un secondo termine all’intimato, che diviene convenuto.
Termini, per la cui quantificazione, naturalmente, si potrà guardare al combinato disposto degli art.
415 e 416, ancorché la circostanza che l’intimante abbia già formalizzato la domanda all’atto della
convalida possa rendere discutibile che tra la data del deposito della sua memoria e quella
dell’intimato debba essere garantito lo spatium deliberandi di cui al terzo comma dell’art. 415. In
ogni caso quel che pare certo, in vista dell’esigenza di concentrazione che il rito speciale è chiamato
a soddisfare, consentendo nello specifico che l’attore non giunga impreparato all’udienza, è che il
termine concesso al convenuto non dovrebbe discostarsi da quello di dieci giorni previsto dall’art.
416 per la sua costituzione nel giudizio promosso in via ordinaria.
E sempre in materia di termini va pure favorevolmente apprezzato il suggerimento a completare
il contenuto dell’ordinanza con l’avvertenza concernente le domande riconvenzionali che, ove si
ritengono ammissibili – e salvo, quanto si dirà più sotto –, dovranno essere formalizzate nei modi
dell’art. 418 ovvero sarà onere all’intimato che abbia tempestivamente agito in riconvenzionale
chiedere al giudice, a pena di decadenza, il differimento dell’udienza già fissata (90).
Sin qui il contenuto, per così dire, “necessario” dell’ordinanza ex art. 667. Quanto ad un suo
contenuto, destinato ad integrare le prescrizioni delle quali ho detto – e che definirò perciò
“eventuale” – credo che si debba parlare principalmente in relazione all’ipotesi in cui l’intimato,
consentendoglielo l’art. 663 – e vieppiù l’ora novellato art. 660 – non si sia costituito a mezzo di un
difensore tecnico e sia comparso all’udienza di convalida personalmente. Qui, invero, la
considerazione che nel giudizio avanti al pretore non sia più concesso alla parte di difendersi
personalmente, salvo che non ricorra la rara eventualità dell’art. 417, impone che in sede di
mutamento del rito l’ordinanza rechi anche l’invito all’intimato, che ne sia sprovvisto, a munirsi di
un idoneo difensore, in difetto non potendo che dichiararsene la contumacia (91).
Altra prescrizione che potrà infine figurare nell’ordinanza riguarda la cancelleria, cui, sul rilievo
che il procedimento può, come visto, proseguire anche in questo caso, deve essere impartito l’ordine
di notificare il provvedimento (92) all’intimato non comparso (93). Ciò in applicazione del noto
dictum di costituzionalità in tema di mutamento del rito pronunciato per le controversie di lavoro
pendenti all’entrata in vigore della l. 11 giugno 1973, n. 533 e del conforme insegnamento di
legittimità che su di esso ha trovato modo di consolidarsi in relazione a tutte le controversie di
questa natura.
6.5. Domande riconvenzionali
Da ultimo vorrei accennare alla possibilità per l’intimato di proporre, di seguito alla pronuncia
dell’ordinanza di mutamento del rito ex art 667, un’eventuale domanda riconvenzionale.
La questione e, meglio, l’interesse che ad essa si annetteva – e che sulle prime era stato causa di
un vivace contenzioso dottrinale (94) – sembra, per la verità, essere in grande misura rientrato, dopo
che l’art. 8, comma terzo ter, della l. 534/95, integrando l’art. 660, ha definitivamente chiarito che
nel procedimento di convalida l’intimato, per svolgere le attività processuali connesse alla sua
comparizione e alla sua eventuale opposizione, non abbisogna dell’assistenza di un difensore
tecnico, potendo provvedervi di persona (95).
Con ciò è certamente venuto meno il principale motivo che aveva condotto i fautori della tesi
contraria a sostenere l’inammissibilità nel giudizio ordinario della riconvenzionale che non fosse
stata già proposta in sede di convalida, sul presupposto che, dovendo l’intimato costituirsi anche in
questa sede a mezzo di difensore abilitato e con il deposito di una comparsa ex art. 167, la mera sua
comparizione personale non avrebbe impedito che maturassero le preclusioni più generalmente
vigenti a livello di ordinaria cognizione (96).
Sicché, come detto, la questione conserva ora perciò un rilievo di mero “antiquariato”, non
dovendo esservi infatti più alcun impedimento a che l’intimato, sebbene personalmente comparso
nel procedimento di convalida, all’atto di formalizzare le proprie difese con la memoria di cui
all’art. 426, proponga – ovviamente nel rispetto dei modi richiesti dall’art. 418 – pure una sua
domanda riconvenzionale.
Vorrei solo aggiungere, a chiusura dell’argomento, che la circostanza che lo sbarramento
preclusivo si concretizzi solo a seguito della pronuncia dell’ordinanza ex art. 667 ha indotto qualche
autore a ipotizzare che la riconvenzionale proposta in sede di convalida si debba intendere
abbandonata se non reiterata nella memoria integrativa, poiché si è notato “ciò che rileva ai fini del
giudizio di merito .. è unicamente il contenuto della memoria integrativa” (97).
Io non sarei esattamente di questo avviso o, per lo meno non sarei propenso a credere che la
domanda debba intendersi abbandonata se l’intimato ometta il deposito della memoria. Intanto
perché la memoria dell’art. 426 ha funzione integrativa degli atti già versati nel giudizio, di modo
che se la riconvenzionale sia già stata proposta non vi è alcuna integrazione da fare. Inoltre, perché
le preclusioni operano evidentemente con efficacia ex nunc, ossia tendono ad impedire determinate
attività processuali per il futuro, ma non cancellano le attività processuali già compiute, e, dunque,
se l’intimato, costituendosi nel procedimento di convalida, svolga formalmente una domanda
riconvenzionale, non mi pare che in linea di principio si possa dire che egli decada dalla
riconvenzionale proposta se ometta di depositare la memoria di cui all’art. 426 (98).
(1) Il giudizio, reiterato più volte tra i commentatori, si può leggere, tra gli altri, in PROTO
PISANI, Rapporti fra competenza, rito e merito nella legge n. 392 del 1978 (e nel rito speciale del
lavoro), in Foro it., 1981, V, 185.
(2) Sul punto, v., espressamente, TARZIA, Lineamenti del nuovo processo di cognizione,
Milano, 1991, 18, ove richiami. Paventa come “una sorta di denegatio di tutela’’ la sospensione
necessaria, MERLIN, Le linee generali della legge 26 novembre 1990, n. 353; gli interventi in
materia di giurisdizione, di competenza e di connessione, anche con riferimento alla normativa sul
giudice di pace, in Quaderni del C.S.M., 1994, n. 73, I, 137. Ma per un’ampia rassegna di opinioni
critiche sull’istituto cfr. GIUSSANI, Competenze, riti ed effetti della connessione, in Le riforme
della giustizia civile a cura di Taruffo, Torino, 1993, 126 nota 4.
(3) Un primo abbozzo di queste posizioni ancora in PROTO PISANI, Rapporti fra competenza,
rito e merito, cit., 199 e segg., cui adde per una sintesi di maggior respiro, ID., Le controversie in
materia di locazione in ANDRIOLI, BARONE, PEZZANO, PROTO PISANI, Le controversie in
materia di lavoro2, Bologna-Roma, 1987, 201 nota 5.
(4) Cfr. la relazione al disegno di legge del governo n. 1288/S/X, ora in Documenti Giustizia,
1991, 10, che della l. 353/90 costituisce notoriamente l’archetipo, alla cui pagina 3 si legge che “in
tema di competenza la proposta contenuta negli articoli 1 e 2 è di concentrare – come da più parti
auspicato – nel pretore quella relativa ai rapporti di locazione ed agli altri diritti aventi ad oggetto
immobili”.
(5) PROTO PISANI, La nuova disciplina del processo civile, Napoli, 1991, 3; ATTARDI, Le
nuove disposizioni sul processo civile, Padova, 1991, 8 e segg.; MONTESANO-ARIETA, Il nuovo
processo civile, Napoli, 1991, 7; GIANCOTTI, Competenza del pretore, in Le riforme del processo
civile a cura di Chiarloni, Bologna-Roma, 1992, 28; CAPPONI, Competenza del pretore e del
conciliatore, in VACCARELLA, CAPPONI, CECCHELLA, Il processo civile dopo le riforme,
Torino, 1992, 22 e segg.; BALENA, La riforma del processo civile, Napoli, 1994, 26;
MANDRIOLI, Corso di diritto processualecivile10, III, Torino, 1995, 543.
(6) Sul punto, fra gli altri, CECCHELLA, I riti speciali, in VACCARELLA, CAPPONI,
CECCHELLA, Il processo civile dopo le riforme, cit., 192. Anche le innovazioni introdotte in
materia dalla l. 399/84 – sulle quali, in sintesi, SANTULLI e ACONE, voce “Competenza (diritto
processuale civile)”, in Enc. giur. Treccani, VII, Roma, 1988, 17 e segg. – erano state accolte da un
coro di critiche, delle quali ora riferisce sommariamente GIANCOTTI, Competenza del pretore, cit.,
26 nota 11.
(7) Emblematica al riguardo la notazione di GIUSSANI, in CARPI, COLESANTI, TARUFFO,
Commentario breve al codice di procedura civile. Appendice di aggiornamento, Padova 1991, 14:
“Innanzitutto si tratta di risolvere l’annoso problema del caos del rapporto fra competenza,
connessione e scelta del rito nella materia delle locazioni urbane, con un intervento coordinato
mirante a favorire il simultaneus processus restringendo la sfera d’applicazione dell’istituto della
sospensione necessaria: quest’ultima, infatti, operando nei casi di connessione per pregiudizialità fra
cause ricadenti in competenze inderogabili diverse o soggette a riti inconciliabili, comportava la
possibilità per il convenuto di bloccare con estrema facilità l’iniziativa dell’attore richiedendo
l’accertamento con efficacia di giudicato di una questione pregiudiziale anche se infondata”.
(8) Per un analisi di questo fenomeno – su cui si sofferma, fra gli altri, anche CECCHELLA, I
riti speciali, cit., 187 e segg. – TOMMASEO, L’espansione del rito del lavoro nelle leggi
processuali speciali, in Riv. dir. civ., 1987, II, 70 e segg.
(9) Per una compiuta ricognizione si può v. PROTO PISANI, Le controversie in materia di
locazione, cit., 189 e segg.
(10) Questo approccio, pressoché comune a buona parte dei commenti apparsi sulla riforma, è
fatto proprio, tra gli altri, da GIUSSANI, in CARPI, COLESANTI, TARUFFO, Commentario breve
al codice di procedura civile, cit., 15 e segg.; NICITA, Appunti sulla competenza nel nuovo rito
civile, in Giust. civ. 1991, II, 249; ACONE, in Provvedimenti urgenti per il processo civile a cura di
Cipriani e Tarzia, in Nuove leggi civ., 1992, 14; VERDE e DI NANNI, Codice di procedura civile,
Torino, 1993, 18; GIUSSANI, Competenze, riti ed effetti della connessione, cit., 131;
COSTANTINO, L’individuazione del giudice nella riforma del processo civile, in Quaderni del
C.S.M., 1994, n. 73, I, 101; BALENA, La riforma del processo civile, cit., 28; BARTOLINI, Nuovo
codice di procedura civile: il regime delle competenze con riferimento alla locazione ed al
condominio, in Arc. loc., 1995, 281.
(11) Con riserva di riprendere a mano il discorso a suo tempo si veda fin d’ora per questi rilievi,
GIUSSANI, Il rito delle locazioni, in Le riforme della giustizia civile a cura di Taruffo, Torino,
1993, 472.
(12) In questa direzione si era infatti già espresso PROTO PISANI, Rapporti fra competenza,
rito e merito, cit., 189, invitando il legislatore ad introdurre il rito speciale con riferimento “a
controversie relative a rapporti chiaramente individuati” e con riferimento a tutte le controversie
relative a rapporti chiaramente individuati”.
(13) Così ACONE, in Provvedimenti urgenti per il processo civile, cit., 15. Ma sul punto v.
conformemente, tra gli altri, BALENA, La riforma del processo civile, cit., 25.
(14) L’argomento è ampiamente sviluppato da PROTO PISANI, Questioni di rito, in
ANDRIOLI, BARONE, PEZZANO, PROTO PISANI, Le controversie in materia di lavoro2, cit.,
348 e segg.
(15) In questi termini, v., ultimamente, in relazione all’opposizione a decreto ingiuntivo,
VALITUTTI e DE STEFANO, Il decreto ingiuntivo e la fase dell’opposizione, Padova, 1994, 151,
quantunque con la precisazione che radicandosi la competenza in materia del pretore
“esclusivamente dopo la proposizione della opposizione, questa deve seguire appunto con la forma
ordinaria della citazione e non con ricorso: solo una volta introdotto il giudizio di opposizione il
giudice provvederà, se competente ... a mutare il rito”; ed in relazione all’opposizione tardiva alla
convalida, PANICO, Il nuovo procedimento avanti al pretore, in Quaderni del C.S.M., 1994, n. 75,
III, 108.
(16) Vedi, per la prima, GARBAGNATI, I procedimenti di ingiunzione e di convalida di
sfratto5, Milano, 1979, 266 e segg. e PEZZANO, Procedimento d’ingiunzione, in ANDRIOLI,
BARONE, PEZZANO, PROTO PISANI, Le controversie in materia di lavoro2, cit., 1047 e segg.;
per la seconda, ex plurimis, Cass., Sez. Un., 19 ottobre 1983, n. 6128, in Foro it., 1983, I, 3024, cui
adde, più di recente, ancorché in motivazione, Cass., 16 novembre 1994, n. 9675 e Cass., 26 aprile
1993, n. 4867, in Giur. it., 1995, I, 1, 759, con nota di RANA, Proposizione mediante citazione di
opposizione a ingiunzione in materia di lavoro: mutamento di rotta o incidente di percorso?, ove
altre indicazioni.
(17) Per le quali v., in giurisprudenza, Pret. Bologna, ord. 20 novembre 1995, in corso di
pubblicazione su Giust. civ..
(18) Così, per tutti, TARZIA, Manuale del processo del lavoro3, Milano, 1987, 250.
(19) Cfr., fra le altre, Cass., 10 febbraio 1984, n. 1026, in Mass. CED, 433196 e Cass., 1° marzo
1988, n. 2145, ivi, 457991.
(20) Ancora così, infatti, ultimamente BALENA, Le preclusioni nel processo di primo grado, in
Giur. it., 1996, I, IV, 273.
(21) VERDE e DI NANNI, Codice di procedura civile, cit., 19.
(22) Sul punto, v., meglio, infra.
(23) Per il quale v., amplius, PEZZANO, Le opposizioni in sede esecutiva, in ANDRIOLI,
BARONE, PEZZANO, PROTO PISANI, Le controversie in materia di lavoro2, cit., 1104 e segg.
(24) Così, fra gli altri, DENTI e SIMONESCHI, Il nuovo processo del lavoro, Milano, 1974,
235.
(25) Giurisprudenza conforme: cfr., in ultimo, Cass., 11 ottobre 1995, n. 10602, in Mass. CED,
494201 e Cass., 10 gennaio 1994, n. 195, ivi, 484969.
(26) Anche qui mi riporto alla giurisprudenza di legittimità, per la quale v., oltre a Cass., 1°
agosto 1994, n. 7173, in Mass. CED, 487615, che si richiama però ai soli criteri per materia, in
modo più completo Cass., 18 gennaio 1988, n. 336, ivi, 456904; Cass., 7 aprile 1987, n. 3359, ivi,
452399; Cass., 7 luglio 1984, n. 3977, ivi, 435951.
(27) Così infatti BALENA, La riforma, cit., 28.
(28) Il giudizio è di GIUSSANI, in CARPI, COLESANTI, TARUFFO, Commentario breve al
codice di procedura civile, cit., 16.
(29) Incidentalmente osservo, anche se l’osservazione potrà apparire ovvia alla stregua di quel
che dirà più avanti, anche qui rifacendomi ad un consolidato indirizzo di legittimità, che, come
ritenuto, per esempio, da Cass., 4 febbraio 1986, n. 685, in Mass. CED., 444243 o da Cass., 18
ottobre 1984, n. 5249, ivi, n. 436976, “in tema di edilizia economica e popolare la natura privatistica
del rapporto di locazione, con o senza patto di futura a vendita, a mezzo del quale viene attuato il
provvedimento di assegnazione dell’alloggio, comporta che il rapporto stesso resta soggetto alla
normale disciplina della risoluzione della locazione”.
(30) Così da ultimo, ex plurimis, Cass., 17 novembre 1994, n. 9794, in Giur. it., 1995, 1, 1200.
Ma questo aspetto è ancor meglio lumeggiato dal Cons. Stato, 5 settembre 1995, n. 28, in Foro it.,
1996, III, 87, ad avviso del quale occorre distinguere “tra una prima fase di natura pubblicistica
caratterizzata dall’esercizio di poteri direttamente finalizzati all’interesse pubblico da parte dell’ente
assegnante e, correlativamente, da posizioni di interesse legittimo, dei richiedente l’assegnazione, ed
una seconda fase di natura privatistica relativa all’esecuzione del contratto scaturito
dall’assegnazione e caratterizzata da posizioni di diritto soggettivo perfetto e da correlativi obblighi
a carico di entrambi i contraenti”.
(31) Cfr., tra le decisioni del S.C., da ultimo, Cass., 3 novembre 1993, n. 10829, in Mass. CED,
484149, – cui si riporta, tra i giudici di merito, Pret. Firenze, 30 settembre 1993, in Foro it., 1995, I,
722, ove richiami – a tenore della quale, “sussiste la competenza del giudice amministrativo ove
venga in discussione il disposto annullamento dell’assegnazione a causa dei vizi incidenti sulla fase
del procedimento amministrativo strumentale all’assegnazione stessa e caratterizzata dall’assenza di
diritti soggettivi”.
(32) Così, ancora recentemente, Cass., 10 febbraio 1996, n. 1029, in Mass. CED, 495790 e
Cass., 24 gennaio 1995, n. 821, ivi, 489907.
(33) Rinfocolato, per vero, dalla recente pronuncia dell’Adunanza plenaria del Cons. Stato, 5
settembre 1995, n. 28, cit., cui la questione era stata rimessa da Cons. Stato, 30 agosto 1994, n. 666,
in Giur. it., 1995, III, 170. Quanto alla giurisprudenza della S.C., ricordo ultimamente Cass., 27
novembre 1995, n. 12242, in Mass. CED, 494830; Cass., 29 luglio 1995, n. 8297, in Foro it. Mass.,
1995, 937; Cass., 17 novembre 1994, n. 9794, cit.; Cass., 14 giugno 1994, n. 5778, in Mass. CED,
487061.
(34) da TARZIA, Lineamenti del nuovo processo di cognizione, cit. 18.
(35) Su questi aspetti cfr., più generalmente, in dottrina, GIUSSANI, in CARPI, COLESANTI,
TARUFFO, Commentario breve al codice di procedura civile, cit., 17; GIANCOTTI, Competenza
del pretore, cit., 28; VERDE e DI NANNI, Codice di procedura civile, cit., 20; GIUSSANI,
Competenze, riti ed effetti della connessione, cit., 132; BALENA, La riforma del processo civile,
cit., 28.
(36 ) Per lo stato della questione si rimanda alla puntuale disamina di PIOMBO, Legge
dell’equo canone, locazione di aree non edificate ed incertezza sulla nozione di immobile urbano,
in Foro it., 1986, I, 690 e segg.
(37) Così, fra le altre, Cass., 10 aprile 1978, n. 1646, in Foro it., Rep., 1979, voce “Locazione”,
n. 392.
(38) Da ultimo in questo senso Cass., 19 aprile 1986, n. 2775, in Mass. CED, 445815, cui adde
non meno significativamente, in relazione alla locazione di un terreno comprensivo di uno specchio
d’acqua adibito all’esercizio di un impianto di pesca sportiva, Cass., 19 aprile 1990, n. 3230, ivi,
466710. L’attendibilità di questo insegnamento non sembra sminuita da Corte Cost., 22 febbraio
1984, n. 40, in Foro it., 1984, I, 910, che ha ritenuto compresi nella previsione dell’art. 27 l. 392/78
gli immobili adibiti all’esercizio di un’attività agricola, trattandosi di una decisione evidentemente
ispirata, come si è notato da PIOMBO, Legge dell’equo canone, cit., 694, dall’intento di “garantire
... la tutela dello svolgimento di qualsiasi attività produttiva ... senza alcuna distinzione circa il tipo
di produzione cui l’attività è diretta”.
(39) Il punto, vivamente dibattuto, come ancora ricorda PIOMBO, Osservazioni a Cass., 12
marzo 1985, n. 1942 e a Trib. Milano, 17 ottobre 1985, in Foro it., 1986, I, 197, cui si rimanda per i
precedenti di segno contrario, sembra ora potersi considerare risolto in modo definitivo: cfr., dopo
Cass., 16 dicembre 1985, n. 6384 e Cass., 29 novembre 1985, n. 5930, in Foro it., 1986, I, 690, tra
le pronunce più recenti, Cass., 2 giugno 1995, n. 6200, in Mass. CED, 492641; Cass., 9 luglio 1992,
n. 8386, ivi, 478118; Cass., 9 maggio 1991, n. 5157, ivi, 472069; Cass., 7 marzo 1991, n. 2390, ivi,
471176.
(40) Della questione si occupano in particolare GIANCOTTI, Competenza del pretore, cit., 29 e
GIUSSANI, Competenze, riti ed effetti della connessione, cit., 133.
(41) Così NICITA, Appunti sulla competenza, cit., 253. Ma critico al riguardo è GIUSSANI,
loc. ult. cit..
(42) Da BALENA, La riforma del processo civile, cit., 29.
(43) È questa la soluzione seguita da GIUSSANI, in CARPI, COLESANTI, TARUFFO,
Commentario breve al codice di procedura civile, cit., 17 e, amplius, ID., Competenze, riti ed effetti
della connessione, cit., 133 e segg.
(44) Che si legge in BARTOLINI, Nuovo codice di procedura civile, cit., 282, da cui è tratto
anche l’elenco delle controversie che cito nel testo. Concordano nell’attribuire al pretore le
controversie relative ai depositi cauzionali e gli oneri accessori VERDE e DI NANNI, Codice di
procedura civile, cit., 19.
(45) PROTO PISANI, La nuova disciplina, cit., 4, che aggiunge, per il contrario precedente
costituito dalla giurisprudenza agraria, “le quali trovino origine in uno dei rapporti indicati dall’art.
8, 2 comma, n. 3”, cui si riporta anche ACONE, in Provvedimenti urgenti per il processo civile, cit.,
13.
(46) Secondo GIANCOTTI, Norme applicabili alle controversie in materia di locazione,
comodato ed affitto, in Le riforme del processo civile a cura di Chiarloni, cit., 573 nota 8.
(47) Per riferimenti, supra, alle note 31, 32 e 33.
(48) Così, da ultimo, Cass., 14 giugno 1994, n. 5778, cit. Di “un diritto personale, non reale, del
quale è esclusivo titolare l’assegnatario medesimo” quale effetto del provvedimento di assegnazione
in locazione di un’edilizia residenziale pubblica parla apertamente Cass., 23 luglio 1987, n. 6424,
ivi, 454705.
(49) Giurisprudenza conforme: cfr., tra le altre, Cass., 27 novembre 1995, n. 12242, cit.; Cass.,
27 aprile 1993, n. 4913, in Foro it. Rep., 1993, Voce “Edilizia popolare”, n. 112; Cass., 10 gennaio
1991, 159, ivi, 1991, voce “Edilizia popolare”, n. 109. Di segno contrario è invece la prevalente
giurisprudenza amministrativa, per la quale cfr., da ultimo, Cons. Stato, 5 settembre 1995, n. 28, cit.
(50) L’affermazione è contenuta in Cons. Stato, 30 marzo 1994, n. 191, in Foro it., 1995, III,
12.
(51) Così, fra gli altri, VERDE e DI NANNI, Codice di procedura civile, cit., 20; GIUSSANI,
Competenze, riti ed effetti della connessione, cit., 131; BALENA, La riforma del processo civile,
cit., 28: SATTA e PUNZI, Diritto processuale civile12, Padova, 1996, 43; nonché, con qualche
temperamento indotto dalla considerazione delle norme in materia di edilizia residenziale pubblica,
PROTO PISANI, La nuova disciplina, cit., 3.
(52) PROTO PISANI, loc. ult. cit., cui si riporta pure ACONE, in Provvedimenti urgenti per il
processo civile, cit., 13.
(53) Da ultimo in questo senso, Cass., 26 luglio 1994, n. 6959, in Mass. CED, 487629, che da
questa premessa, come già in modo più esplicito Cass., 25 novembre 1986, n. 6931, in Giust. civ.
Rep., 1986, Voce “Competenza civile”, n. 45, argomenta non a caso che la competenza per valore
deve essere determinata in applicazione analogica dell’art. 12, secondo comma, ossia in base
all’ammontare dei fitti presumibilmente dovuti per un anno. Ma per una ricognizione della
giurisprudenza sul tema si rinvia a TASSONI, Azione di rilascio di immobile detenuto in comodato
o senza titolo: competenza, in Giust. civ., 1990, I, 1897.
(54) Entrambi questi rilievi in Pret. Bologna, 14 novembre 1995, in Giur. it., 1996, I, 2, 153.
(55) Cfr., fra le altre, Cass., 26 aprile 1993, n. 4902, in Mass. CED, 482052; Cass., 9 luglio
1992, n. 8390, ivi, 478120; Cass., 1° febbraio 1991, n. 950, ivi, 470726.
(56) Così, ad esempio, Cass., 17 maggio 1984, n. 3051, in Mass. CED, 435094.
(57) Da ultimo, in questo senso, Cass., 19 agosto 1994, n. 7455, in Mass. CED, 487751.
(58) Ora in Documenti Giustizia, 1991, 10.
(59) Da BARTOLINI, Nuovo codice di procedura civile, cit., 282.
(60) Così, ad esempio, si orientano MONTESANO-ARIETA, Il nuovo processo civile, cit., 7.
(61) Cenni sull’argomento in GIUSSANI, Competenze, riti ed effetti della connessione, cit., 131
e segg.
(62) VERDE e DI NANNI, Codice di procedura civile, cit., 19, ai quali sembra conformarsi
ACONE, in Provvedimenti urgenti per il processo civile, cit., 13.
(63) GIUSSANI, Competenze, riti ed effetti della connessione, cit., 132.
(64) E v., infatti, supra.
(65) Per l’atipicità del contratto di residence, cfr. esplicitamente Cass., 12 giugno 1984, n. 3493,
in Mass. CED, 435504. Significativo mi sembra inoltre quanto a proposito del contratto di
locazione di immobile collegato ad un rapporto di lavoro ha modo di affermare Cass., 21 ottobre
1982, n. 5474, ivi, 423244, dell’avviso che in questo caso “nella struttura normale della locazione si
innesta un’ulteriore causa contrahendi per la quale il rapporto locatizio assume carattere di
atipicità”.
(66) Le modifiche all’art. 660 introdotte in sede di conversione del D.l. 18 ottobre 1995, n. 432
dall’art. 8, comma terzo ter, della l. 20 dicembre 1995, n. 534, quando la novella era già entrata in
vigore, sono state in genere accolte favorevolmente dai commentatori: cfr., fra gli altri,
COSTANTINO, La giustizia civile e Biancaneve (note sulla l. 20 dicembre 1995 n. 534), in Foro
it., 1996, IV, 7; LAZZARO, Il procedimento di convalida dopo la riforma del processo civile, in
Rass. loc., 1996, 118.
(67) PROTO PISANI, La nuova disciplina, cit, 11; CONSOLO, LUISO, SASSANI, La riforma
del processo civile, Milano 1991, 416; MONTESANO-ARIETA, Il nuovo processo civile, cit., 110;
SALETTI, in Provvedimenti urgenti per il processo civile a cura di Cipriani e Tarzia, cit., 291;
CECCHELLA, I riti speciali, cit., 193. Giudica “ridondante” la disposizione – guadagnandosi però
il rimprovero di un “eccesso di zelo critico” da VERDE e DI NANNI, Codice di procedura civile,
cit., 430 –, stante la diretta applicabilità delle norme del rito speciale previste dall’art. 447-bis,
NELA, Mutamento del rito, in Le riforme del processo civile a cura di Chiarloni, cit., 601, a cui si
conforma ACIERNO, Il procedimento di convalida e la novella del processo civile, in Documenti
Giustizia, 1995, 1982; contra FRASCA, Brevi note sul procedimento di convalida di sfratto prima e
dopo la riforma del processo civile, in Foro it., 1995, I, 2937.
(68) LAZZARO, Il procedimento di convalida, cit., 121.
(69) Per questo rilievo, v., segnatamente, NELA. Mutamento, cit., 602.
(70) Un’accurata ricognizione della materia si rinviene in FRASCA, Brevi note, cit., 2937 e
segg. Ma ragguagli parimenti esaustivi in LAZZARO, Il procedimento di convalida, cit., 121 e
segg.
(71) PROTO PISANI, La nuova disciplina, cit., 12, cui si affianca, nelle conclusioni,
GIUSSANI, Competenze, riti ed effetti della connessione, cit., 132. Critico, per le ragioni che indico
nel testo, è però NELA, Mutamento, cit., 602 nota 12.
(72) NELA. Mutamento, cit., 602.
(73) Così FRASCA, Brevi note, cit., 2938, da cui non mi sembrano discostarsi CECCHELLA, I
riti speciali, cit., 194 e, forse, VERDE e DI NANNI, Codice di procedura civile, cit., 431.
(74) Nel solco di Cass., 16 novembre 1977, n. 5003, in Foro it., 1978, I, 660, e specie dopo la l.
14 febbraio 1990, n. 29, il cui art. 9 ha devoluto alla competenza delle sezioni specializzate agrarie
tutte le controversie in materia, è infatti insegnamento giurisprudenziale corrente – per il quale v.,
da ultimo, Cass., 27 febbraio 1995, n. 2236, in Mass. CED, 490746 – che il giudice ordinario non
possa essere adito in relazione a rapporti di natura agraria con il procedimento di convalida. Di
avviso contrario è però la dottrina, per le cui motivazione, cfr. GARBAGNATI, I procedimenti, cit.,
301 e segg.
(75) Per questa ipotesi v. LAZZARO, Il procedimento di convalida, cit., 122. Sui limiti di
derogabilità dell’art. 447-bis, secondo comma cfr. GIANCOTTI, Norme applicabili alle
controversie, cit., 576 e segg.
(76) In tal caso, il pretore o pronuncerà ordinanza ex art. 667 e tratterrà la causa presso di sé per
deciderla nel merito con le forme del rito del lavoro, ovvero, nel caso in cui presso l’ufficio di
pretura sia costituita una sezione per le controversie del lavoro, senza pronunciare l’ordinanza di
mutamento del rito, rimetterà il procedimento al dirigente per l’assegnazione al magistrato
tabellarmente incaricato della trattazione di quelle controversie; sul punto cfr., comunque,
FRASCA, Brevi note, cit., 2939.
(77) Per questa ipotesi v. ancora LAZZARO, Il procedimento di convalida, cit., 122.
(78) Come ha notato puntualmente MANDRIOLI, Le modifiche del processo civile, Torino,
1991, 172.
(79) Così dottrina e giurisprudenza dominanti, per le quali si rimanda a BUCCI, MALPICA,
REDIVO, Manuale delle locazioni, Padova 1989, 610. Osservo incidentalmente che tra i
presupposti di rito è certo da annoverarsi (cfr., per tutti GARBAGNATI, I procedimenti, cit., 320)
l’incompetenza per territorio del giudice adito per la convalida. In questo caso, la soluzione
preferibile, per la quale v. SALETTI, in Provvedimenti urgenti per il processo civile, cit., 293 e
FRASCA, Brevi note, cit., 2939, è nel senso di ritenere che il pretore, previa ordinanza di
mutamento del rito ex 667 dichiari la propria incompetenza con sentenza.
(80) Per questa opinione, fra gli altri, ANDRIOLI, Commento al codice di procedura civile3,
IV, Napoli, 1964, 131.
(81) SALETTI, in Provvedimenti urgenti per il processo civile, cit., 291; LAZZARO, Il
procedimento di convalida, cit. 122; e mi pare anche FRASCA, Brevi note, cit., 2939, che alle
ipotesi in cui il pretore sia stato attinto in sede di convalida per un rapporto di comodato o di affitto
di azienda aggiunge quella in cui l’intimato sia stato notificato ai sensi dell’art. 143.
(82) Così GARBAGNATI, I procedimenti, cit., 312.
(83) SALETTI, in Provvedimenti urgenti per il processo civile, cit., 291; LAZZARO, Il
procedimento di convalida, cit. 122.
(84) La tesi, in dottrina, è sostenuta in particolare – ed in aperto contrasto con la giurisprudenza:
cfr. Cass., 23 maggio 1990, n. 4646, in Mass. CED, 467352 – da GUARINO, in DRAGOTTO,
GUARINO, OLIVIERI, VARRONE, VERDE, Le locazioni di fronte al giudice, Milano, 223 e
segg.
(85) Ancora così SALETTI, in Provvedimenti urgenti per il processo civile, cit., 291;
LAZZARO, Il procedimento di convalida, cit., 123.
(86) FRASCA, Brevi note, cit., 2940. Ma il rilievo è condiviso dalla generalità dei
commentatori: cfr., fra gli altri, LAZZARO, Il procedimento di convalida, cit., 123.
(87) La locuzione ha dato il là a non poche interpretazione restrittive sulla facoltà dell’attoreintimante di emendare in prosieguo di giudizio la domanda introdotta col procedimento di
convalida: cfr., al riguardo, per tutti SALETTI, in Provvedimenti urgenti per il processo civile, cit.,
292. È noto, peraltro, che in vigenza del vecchio art. 667, la giurisprudenza era concorde
nell’ammettere la possibilità di una domanda diversa; riferimenti in proposito in LAZZARO, Il
procedimento di convalida, cit., 123 nota 12.
(88) SALETTI, in Provvedimenti urgenti per il processo civile, cit., 292; FRASCA, Brevi note,
cit., 2940.
(89) Sottolineata tra gli altri da ACIERNO, Il procedimento di convalida, cit., 1985; FRASCA,
Brevi note, cit., 2940; LAZZARO, Il procedimento di convalida, cit., 123; contrario sembra essere
invece SALETTI, in Provvedimenti urgenti per il processo civile, cit., 292, che, anzi, proprio
dall’unicità del termine, argomenta il divieto per l’intimante di modificare la domanda introduttiva.
(90) Opinione pressoché unanime, per quale v., segnatamente, ACIERNO, Il procedimento di
convalida, cit., 1985.
(91) FRASCA, Brevi note, cit., 2940.
(92 ) Altrimenti, in quanto ordinanza, oggetto di mera comunicazione ai sensi dell’art. 134,
quando non se ne debba presumere la conoscenza per essere stato pronunciato in udienza ex art.
176, comma secondo: sul punto, comunque, ampi ragguagli in FRASCA, Brevi note, cit., 2940,
(93) ACIERNO, Il procedimento di convalida, cit., 1985; FRASCA, Brevi note, cit., 2940;
LAZZARO, Il procedimento di convalida, cit., 125. Secondo MONTESANO-ARIETA, Diritto
processuale civile, Torino, 1995, 176 in questo caso l’ordinanza dovrebbe essere notificata nel
rispetto del termine minimo di trenta giorni stabilito dall’art. 415 quinto comma.
(94) Per riferimenti intorno al quale si rinvia a LAZZARO, Il procedimento di convalida, cit.,
124, cui adde BALENA, Ancora “interventi urgenti” sulla riforma del processo civile, in Giur. it.,
1995, IV, 335 nota 60.
(95) Sul che mi sembra, se non ho male inteso, è d’accordo anche LAZZARO, Il procedimento
di convalida, cit., 124.
(96) La tesi, ancorché con qualche riserva per il caso della comparizione personale, è sostenuta
in particolare da NELA, Mutamento, cit., 600 nota 6. Ma, già prima delle recenti modifiche all’art.
660, si era persuasivamente obiettato da PROTO PISANI, La nuova disciplina, cit., 11 come dal
richiamo all’art. 426 fosse possibile desumere “senza alcuna possibilità di dubbio che alla
notificazione della intimazione e della citazione ex art. 657 ss. non segue una fase preparatoria
soggetta alle preclusioni di cui agli artt. 167 e 183: la fase preparatoria del giudizio a cognizione
piena si perfezionerà solo a seguito della ordinanza di mutamento del rito, prima tramite
l’integrazione degli atti introduttivi (integrazione del tutto libera, giacché nessuna decadenza è
ricollegata alla fase speciale della convalida) e poi nel corso dell’udienza di cui all’art. 420”.
(97) Così LAZZARO, Il procedimento di convalida, cit., 125.
(98) Conforme, quantunque in una diversa chiave valutativa, NELA, Mutamento, cit., 600 nota
6, ove adesivi richiami di giurisprudenza in tema di controversie del lavoro.
IL PROCEDIMENTO DI CONVALIDA DOPO LA RIFORMA DEL PROCESSO CIVILE
Relatore:
dr.ssa Antonella MAGARAGGIA
pretore presso la Pretura circondariale di Venezia
SOMMARIO: I. Introduzione. – II. Disciplina del procedimento – 1. Atto introduttivo. – 2. Termine
a comparire. – 3. Costituzione delle parti. – 4. Udienza di convalida. – 5 Conclusione del
procedimento; 5.a. ipotesi in cui non va emessa l’ordinanza ex art. 667 c.p.c.; 5.b. ipotesi
in cui va emessa l’ordinanza ex art. 667 c.p.c.; 5.b.1. funzioni e contenuto dell’ordinanza
di mutamenti di rito; 5.b.2. modelli di provvedimento.
I. - Introduzione.
Il legislatore del 1990 non è intervenuto nel procedimento di convalida se non con la norma
dell’art. 73 l. n. 353/1990 che ha modificato l’art. 667 c.p.c..
Tale silenzio, che meglio, forse, può definirsi dimenticanza, ha posto non pochi problemi di
coordinamento tra la disciplina del procedimento di convalida pur fatta salva dal legislatore della
novella – e quella dell’ordinario giudizio di cognizione, soprattutto relativamente all’atto
introduttivo del giudizio (art. 163 c.p.c.), alla costituzione del convenuto (artt. 166 e 167 c.p.c.) e
alle relative preclusioni.
Tutte le questioni che gli interpreti si erano poste in via teorica in attesa dell’entrata in vigore
della novella (si rammenta che alcuni ritenevano applicabile in toto la disciplina ordinaria al
procedimento di convalida, che altri (1) propendevano per tesi intermedie e che altri (2) ancora
facevano salva la specialità del procedimento), sono emerse con tutta evidenza quando la riforma è
diventata operativa.
La prima e più evidente incongruenza è apparsa la lunghezza del termine a comparire (di 60
giorni), che, soprattutto in relazione agli sfratti per morosità, sembrava eccessivamente
penalizzante (in questi casi ho applicato in maniera automatica l’abbreviazione dei termini a
metà ex art. 163 bis comma secondo c.p.c. argomentando semplicemente dalla “feriabilità”
della causa ex art. 92 R.D. 30-1-1941 n. 12).
Sono quindi intervenuti il d.l. 21-6-1995 n. 238 (decaduto), il d.l. 9-8-1995 n. 347
(decaduto) e, quindi, il d.l. 18-10-1995 n. 432 (poi convertito con modifiche nella l. 20-121995 n. 534), che, all’art. 8 comma terzo – modificante l’art. 660 comma primo c.p.c. –,
stabilivano la riduzione di due terzi del termine a comparire diversificandolo da quello
ordinario onde salvaguardare la specialità del procedimento e lasciando, quindi, intendere –
semplicemente, ma efficacemente – che, come già riteneva parte degli interpreti, per il
convenuto intimato non valevano né il termine di costituzione di cui all’art. 167 c.p.c. né le
relative preclusioni.
Successivamente è intervenuta la l. 20-12-1995 n. 534 (di conversione del d.l. 18-10-1995
n. 432), che, con l’art. 8 comma 3 ter (aggiunto in sede di conversione), ha aggiunto all’art. 660
c.p.c. un terzo, un quarto, un quinto e un sesto comma che forniscono una microdisciplina,
difforme da quella ordinaria, sempre in ossequio alla specialità del procedimento, che viene
definitivamente sancita.
Risultano, quindi, superate le questioni più rilevanti che si erano poste in precedenza
avendo il legislatore della decretazione d’urgenza nonché quello della l.n. 534/1995 risolto
quelle più problematiche.
La presente relazione che, inizialmente, doveva affrontare tali questioni, vista la recente
“novella della novella”, si limiterà ad una ricognizione della normativa applicabile
soffermandosi su quei pochi profili che ancora presentano qualche aspetto di problematicità.
Premessa la natura speciale del procedimento di convalida, è evidente che la sua disciplina
sarà quella stabilita espressamente per lo stesso con l’integrazione di quella prevista per
l’ordinario procedimento di cognizione, che andrà applicata purché: 1) il caso non sia già
disciplinato dalla normativa speciale; 2) non vi siano elementi di incompatibilità con la
specialità del procedimento.
Nel prosieguo si esamineranno le norme applicabili al procedimento di convalida
sottoponendo al doppio vaglio suindicato quelle di cui agli artt. 163 e ss. c.p.c..
II. - Disciplina del procedimento.
1. Atto introduttivo.
Il comma terzo dell’art. 660 c.p.c. chiarisce che l’atto introduttivo del procedimento di
convalida è un atto di citazione (peraltro ciò era già deducibile dall’art. 657 c.p.c. che espressamente
menziona la “citazione per la convalida”) e, quindi, viene definitivamente a cadere
quell’orientamento – peraltro minoritario – che riteneva si dovesse introdurre la causa con ricorso,
conformemente a quanto previsto nella disciplina di cui all’art. 447 bis c.p.c., applicabile alle
controversie relative a locazioni di immobili urbani.
Viene inoltre previsto che la citazione debba avere i requisiti di cui all’art. 125 c.p.c.. Il
richiamare tale articolo potrebbe apparire superfluo in quanto, avendo chiarito il legislatore che
l’atto introduttivo è un atto di citazione, la norma applicabile dovrebbe essere quella dell’art. 163
c.p.c., che viene, d’altro canto, espressamente menzionata quando si stabilisce l’esclusione del
requisito di cui al n. 7. Il richiamo fatto all’art. 125 c.p.c. (che, come è noto, descrive il contenuto
minimo di ogni atto di parte, che va integrato con i requisiti eventualmente indicati nelle
disposizioni dettate per ciascun atto) può, peraltro, voler solamente rammentare all’interprete che
l’atto di citazione per la convalida è estremamente semplificato in quanto non introduce un
ordinario giudizio di cognizione, ma un procedimento speciale.
È, quindi, sufficiente che la citazione per la convalida contenga quel minimum che consenta al
giudice il “controllo di legalità”, che gli compete sempre, pure in caso di mancata presenza o
mancata opposizione dell’intimato, e che riguarda sia il merito (domanda proposta fuori dai limiti
posti dall’art. 657 c.p.c. come ad esempio intimazione di sfratto di un immobile oggetto di
comodato – o fuori dai limiti dell’art. 658 c.p.c. – come ad esempio intimazione di sfratto per
inadempienza diversa dalla morosità –) che il processo (questioni di giurisdizione, di competenza,
di capacità processuale, di regolarità della rappresentanza in giudizio).
Altro requisito che l’atto di citazione deve avere, ex art. 660 comma terzo c.p.c., è “l’invito a
comparire nell’udienza indicata, l’avvertimento che se non comparisce o, comparendo, non si
oppone, il giudice convalida la licenza o lo sfratto ai sensi dell’art. 663”.
Segnalo innanzi tutto che tale obbligo, riguardando l’instaurazione del contraddittorio, non
dovrebbe essere necessario per i procedimenti la cui notifica dell’atto introduttivo sia anteriore
all’entrata in vigore della l. n. 534/1995.
La presenza di tale avvertimento – abitualmente già inserito nell’atto introduttivo – viene ora
testualmente resa necessaria e ciò, direi, a pena di nullità, ex art. 164 comma primo c.p.c.
argomentandosi dalla identica funzione che ha tale avvertimento rispetto a quello dell’ordinaria
citazione e dal fatto che, proprio testualmente, l’uno sostituisce l’altro. Sul punto si segnala una
recentissima pronuncia del pretore di Bologna (ordinanza del 6-2-1996), il quale, evidenziando che
l’art.164 c.p.c. prevede la nullità della citazione per l’ipotesi di mancanza dell’avviso di cui all’art.
163 n. 7 c.p.c. e che, quindi, è cosiderato elemento essenziale dell’atto l’avvertimento che la
mancata costituzione nei termini comporta per il convenuto preclusioni e decadenze, rileva come, “a
maggior ragione dovrà considerarsi essenziale, nel procedimento di convalida, l’avviso che
l’inattività dell’intimato può comportare immediatamente la formazione di un titolo esecutivo nei
suoi confronti. Dalla identità di funzione assegnata ai due “avvertimenti”, nell’ambito dei
procedimenti cui essi rispettivamente afferiscono, attinenti alla tutela del convenuto, deriva, quindi,
la possibilità di applicare estensivamente all’uno la disciplina prevista per l’altro”.
Sul punto è da osservare come il comma terzo dell’art. 164 c.p.c. imponga al giudice la fissazione di
una nuova udienza nel rispetto dei termini.
Ritengo che nel caso di specie non sia sufficiente fissare una nuova udienza in quanto non vi è
un’inosservanza di termini, ma una carenza della citazione che va, quindi, rinnovata con
l’inserimento dell’avvertimento di cui al comma terzo dell’art. 660 c.p.c.
È da evidenziare, altresì, che l’art. 164 c.p.c. risulta in toto applicabile in quanto gli elementi
dell’atto di citazione la cui assenza o assoluta incertezza importa nullità sono contenuti pure nella
citazione per la convalida, tenendo, peraltro, presente quanto sopra si è detto circa l’estrema
semplificazione che connota il secondo atto rispetto al primo.
È evidente che l’applicazione del sistema di rinnovazione, integrazione e sanatoria introdotto
dalla novella, che sostanzialmente vuol far evitare, per quanto è possibile, una pronuncia di rigetto
in rito, assume una particolare importanza nel procedimento di cui si discute ove impedirebbe una
pronuncia di rigetto della convalida cui dovrebbe in ogni caso seguire il procedimento di cognizione
piena che, a propria volta, dovrebbe sfociare necessariamente in una sentenza.
Va solamente precisato che riterrei prodotto l’effetto sanante previsto dall’art. 164 comma terzo
c.p.c. non solo in caso di costituzione, ma anche in caso di comparizione dell’intimato, dovendosi
tali situazioni, ai fini che ci occupa, essere equiparate. E così dicasi, in relazione al comma quinto
dell’art. 164 c.p.c., sulla necessità della semplice integrazione e non della rinnovazione qualora
l’intimato si sia costituito o anche sia solo comparso personalmente.
È da ricordare, infine, che ai casi di rinnovazione della citazione previsti dall’art. 164 c.p.c.
vanno aggiunti quelli della disciplina speciale e cioè quelli previsti dall’art. 663 c.p.c. (quando
risulta o appare probabile che l’intimato non abbia avuto conoscenza della citazione o non sia
potuto comparire per caso fortuito o forza maggiore).
2. Termine a comparire.
Si è definitivamente stabilito che il termine a comparire è di venti giorni, specificandosi che lo
stesso deve essere “libero” e cioè conteggiato senza il dies a quo e senza il dies ad quem.
Si è anche chiarito – opportunamente poiché nella vigenza dei d.l. n. 238/1995, 347/1995 e
432/1995 se ne era dubitato – che tale termine può essere abbreviato dal pretore fino alla metà (e
cioè fino a non meno di dieci giorni), con decreto motivato, nelle “cause che richiedono pronta
spedizione”.
La formulazione di tale norma ricalca quella dell’art. 163 bis comma secondo c.p.c. e quindi ci si può
rifare alla giurisprudenza che si è formata e si formerà sulla stessa, con l’avvertenza, peraltro, che,
essendo già stati notevolmente abbreviati i termini di comparizione nel procedimento che ci occupa, il
ricorso ad una ulteriore riduzione va valutato caso per caso e, riterrei, con un certo rigore stante
l’opportunità che, qualora l’intimato opti per la difesa tecnica, questa possa svolgersi nella maniera
migliore.
3. Costituzione delle parti.
Il comma quinto dell’art. 660 c.p.c. detta una disciplina speciale quanto alla costituzione delle
parti reintroducendo il disposto dell’abrogato art. 314 c.p.c..
Si è prevista una “difesa tecnica” (la costituzione può avvenire fuori udienza “depositando in
cancelleria l’intimazione con la relazione di notificazione o la comparsa di risposta” – o in udienza,
e quindi fino a tale udienza, – presentando tali atti al giudice –) e anche una “difesa atecnica”.
consistente nella semplice comparizione personale dell’intimato “ai fini dell’opposizione e del
compimento delle attività previste negli articoli da 663 a 666”.
Si è quindi definitivamente chiarito che il convenuto intimato, se intende costituirsi, non deve
osservare il termine di cui all’art. 166 c.p.c. (inapplicabile al procedimento de quo) e, comunque,
può comparire personalmente e compiere le attività summenzionate. Tale ultima ipotesi rientra,
quindi, tra le eccezioni che l’art. 82 comma terzo c.p.c. consente (“Salvi i casi in cui la legge
dispone altrimenti…”) alla obbligatoria assistenza del procuratore, prevista dal legislatore del 1990
come regola pure nel procedimento in pretura.
Che, comunque, l’intimato potesse comparire personalmente era interpretazione che si era già
formata, indipendentemente dall’espressa previsione legislativa, visto che non era stato abrogato né
modificato l’art. 663 c.p.c. e valutata la specialità del procedimento, destinato solo eventualmente a
sfociare in un procedimento a cognizione piena, nel quale solamente ha senso imporre la “difesa
tecnica”.
La norma di cui all’art. 660 comma quinto c.p.c., tuttavia, non è meno importante nella parte in
cui prevede le modalità di costituzione dell’attore in quanto, prima della modifica operata dalla l. n.
534/1995, vi erano dei dubbi sulla applicabilità dell’art. 165 c.p.c., che deve, ormai, ritenersi
definitivamente esclusa.
Una puntualizzazione è da fare sull’art. 660 comma sesto c.p.c. in quanto il legislatore sembra
aver voluto tassativamente indicare i casi in cui è ammessa la difesa personale e cioè l’opposizione
e il compimento delle attività di cui all’art 663 c.p.c. (Mancata comparizione o mancata opposizione
dell’intimato), all’art. 664 c.p.c. (Pagamento dei canoni), all’art. 665 c.p.c. (Opposizione,
provvedimenti del giudice) e all’art. 666 c.p.c. (Contestazione sull’ammontare dei canoni).
Non ritengo che tale individuazione effettuata dalla legge possa escludere la possibilità per l’intimato
di chiedere personalmente il cosiddetto “termine di grazia” di cui all’art. 55 l. n. 392/1978 stante la natura
sostanziale dell’istanza (è, infatti, una richiesta di adempimento tardivo) e valutato anche il fatto che il
pagamento porta alla conclusione del procedimento.
4. Udienza di convalida.
Essendosi ripristinato il vecchio sistema che consente al convenuto intimato di comparire
personalmente e limitare la propria difesa solamente alla opposizione o non opposizione, è evidente
come nel procedimento di convalida non possa trovare applicazione l’art. 180 c.p.c., anche nella
novellata redazione che prevede lo sdoppiamento tra udienza di comparizione e udienza di
trattazione.
L’udienza di convalida costituisce, infatti, il fulcro del procedimento di cui si tratta
realizzandosi in tale sede gli effetti tipici del procedimento e cioè l’ottenimento di una pronuncia
avente efficacia di giudicato costituita dalla convalida, qualora l’intimato non compaia o non si
opponga oppure, ricorrendone i presupposti, di un titolo esecutivo costituito dalla ordinanza di
rilascio.
E la previsione espressa degli effetti di natura sostanziale conseguenti al comportamento delle parti
fa sì che non si possa ipotizzare lo sdoppiamento dell’udienza, che è funzionale al procedere “per fasi”
dell’ordinario giudizio di cognizione (“fasi” che sono prive di significato nel procedimento che ci occupa
ove vi è solamente l’udienza di convalida, che, praticamente, esaurisce il procedimento) e al progressivo
maturarsi delle preclusioni (che, per quanto avanti si dirà, non esistono nel giudizio di convalida).
Se, quindi, quella appena menzionata è la struttura dell’udienza, è anche vero che nella stessa il
giudice può trovarsi a dover prendere i provvedimenti richiamati nell’art. 180 comma primo c.p.c.
(escluso, evidentemente, quello di cui all’art. 167 c.p.c.), che, quindi, potrà trovare applicazione – ciò va
evidenziato perché potrà utilizzarsi la giurisprudenza che si è formata e si formerà sulla norma – sempre
tenendo conto che, pur dopo il compimento di tali attività, la causa sarà sempre nella fase della convalida.
Nulla osta, inoltre, all’applicabilità della prima parte del secondo comma dell’art. 180 c.p.c.
quanto alla possibilità di concedere termini per il deposito di memorie qualora la complessità delle
questioni lo renda necessario rimanendo, comunque, la causa, pure dopo il rinvio, sempre nella fase
della convalida.
Un’ultima puntualizzazione è da far riguardo alla prima udienza e cioè alla possibilità di
differimento ex art. 168 bis ultimo comma c.p.c..
Difformemente da quanto da altri sostenuto (3), ritengo evidente l’incompatibilità di tale norma
con il procedimento di convalida atteso che lo scopo della stessa è quella di consentire al giudice di
organizzare il proprio lavoro nel modo migliore e, quindi, di poter scaglionare le udienze a seconda
dei relativi incombenti e al fine di un loro adempimento effettivo. Ma nel caso di specie ciò non è
necessario atteso che la struttura dell’udienza di comparizione è estremamente semplice e, quindi,
limitato il compito del giudice, il quale deve emettere un provvedimento di convalida o, al più,
deliberare la fondatezza della opposizione dell’intimato.
5. Conclusione del procedimento.
La norma di cui all’art. 667 c.p.c., ritenuta da alcuni interpreti (4) ridondante, per come è
formulata (“Pronunciati i provvedimenti previsti dagli artt. 665 e 666, il giudizio prosegue nelle
forme del rito speciale, previa ordinanza di mutamento di rito ai sensi dell’art. 426”), sembra
prevedere un passaggio obbligato alla fase di merito disciplinata dal rito di cui all’art. 447 bis c.p.c.
per tutti i procedimenti di convalida. Ciò perché il legislatore del 1990, nel formulare la norma, si è
rappresentato solo le cause previste dall’art. 8 comma secondo n. 3 c.p.c. (che, peraltro,
costituiscono la maggioranza) e cioè quelle rientranti nella competenza funzionale del pretore.
È tuttavia da precisare che il procedimento di convalida ha una sfera di applicazione più ampia
di quella prevista dall’art. 8 comma secondo n. 3 c.p.c..
Ne consegue che l’ordinanza di cui all’art. 667 c.p.c. potrà essere – e normalmente lo sarà – lo
sbocco del procedimento di convalida, ma residueranno delle ipotesi che richiederanno
l’emanazione di altri provvedimenti.
5.a. Ipotesi in cui non va emessa l’ordinanza ex art. 667 c.p.c..
1) controversie aventi ad oggetto beni immobili non urbani (es. aree agricole) (5).
Tali controversie sono soggette al rito ordinario e all’ordinaria competenza per valore.
Come si attua il passaggio al giudice competente?
Per alcuni (6) previo mutamento di rito in forma analoga a quella prevista dall’art. 427 c.p.c.
(dal rito speciale, ex art. 657 c.p.c., al rito ordinario) con la conseguenza che la causa sarà trattenuta
avanti al pretore se questo è competente oppure andrà rimessa al tribunale.
Altri (7) non ritengono applicabile l’art. 427 c.p.c. in quanto tale norma è dettata per il
passaggio dal rito speciale al rito ordinario e non per quello da un procedimento speciale (ma
ordinario) ad un rito ordinario di cognizione. Non potendo l’art. 667 c.p.c. essere applicato alla
lettera, “il passaggio alla fase di merito deve avvenire o con il semplice procedere dell’istruttoria
(quando il pretore sia al riguardo competente per valore) ovvero con il meccanismo della rimessione
avanti al tribunale competente, da effettuare in un termine perentorio, in estensione analogica, a
quanto previsto dall’art. 669 octies c.p.c. per l’inizio del giudizio di merito susseguente
all’emanazione del provvedimento cautelare”.
Per altri ancora (8), nel caso in cui sia competente il pretore, questi disporrà con ordinanza la
prosecuzione del giudizio secondo le regole del processo di cognizione ordinario adeguando lo stato
processuale al regime delle preclusioni per quel tipo di processo stabilito e dovrà fissare l’udienza
ex art. 183 c.p.c. prevedendo che in relazione ad essa le parti possano mettersi in regola con le
preclusioni. Qualora, invece, vi sia la competenza del tribunale, vi sarà la rimessione a quest’ultimo
con ordinanza che dichiarerà la competenza dello stesso e fisserà termine per la riassunzione ex art.
50 c.p.c. avanti a detto giudice.
2) licenza o sfratto per finito affitto a coltivatore diretto, colono, mezzadro e sfratto per
morosità relativa all’affitto a coltivatore diretto.
È noto, peraltro, come la giurisprudenza, in contrasto con la dottrina, ritenga che il pretore
difetti di competenza anche riguardo alla procedura ex art. 657 c.p.c., che spetterebbe alla sezione
speciale (vedi Cass., 13 gennaio 1987, n. 155 in Foro It., Rep. 1987, voce Sfratto, n. 7; Cass., 16
novembre 1977, n. 5003, 1978, I, c. 660) con la conseguenza che, per l’ipotesi in cui venga adito il
pretore, questi dovrebbe dichiarare la propria incompetenza e rimettere la causa alla sezione agraria.
Qualora si ammetta la possibilità del rito speciale anche per le cause agrarie, in caso di
opposizione, per alcuni (9) “il giudice dovrà disporre ad un tempo la rimessione della causa alla
sezione specializzata di tribunale e il mutamento di rito ai sensi dell’art. 426” mentre per altri (10) si
dovrà provvedere in modo analogo a quanto ipotizzato per l’ipotesi di rimessione al tribunale cui si
è fatto riferimento sub 1) e, quindi, il pretore dichiarerà, con ordinanza, la competenza della sezione
specializzata agraria e rimetterà avanti ad essa le parti per la prosecuzione secondo il rito del lavoro
(applicabile ex art. 47 l. n. 203/1982).
3) controversie compromesse in arbitri.
Anche in questi casi è fatta salva la possibilità per il pretore di emettere i provvedimenti ex artt.
665, 666 c.p.c. (vedi Cass., n. 387/1981), ma sulla opposizione decideranno gli arbitri.
4) rapporti ex art. 659 c.p.c..
L’art. 667 c.p.c. non riproduce più il comma terzo della vecchia norma che imponeva la
riassunzione innanzi al pretore del lavoro. Tuttavia è da ritenere che il giudizio vada trasferito a tale
giudice, per cui il procedimento proseguirà avanti il pretore, se questo può trattenere la causa di
lavoro, o, altrimenti, andrà trasferito a quest’ultimo previa rimessione al pretore dirigente per
l’assegnazione del fascicolo.
Ciò non avviene quando si tratta di rapporti inclusi nell’art. 659 c.p.c., ma non rientranti
nell’art. 409 c.p.c. (in quest’ultimo caso non vi è trasformazione nel rito speciale e l’opposizione
prosegue con il rito ordinario).
5.b. Ipotesi in cui viene emessa l’ordinanza ex art. 667 c.p.c.
1) quando l’intimato proponga opposizione (per Cass., n. 295/1985 a prescindere dai limiti più
o meno ampi dell’opposizione stessa).
La norma parrebbe prevedere tale possibilità solo in caso di pronuncia positiva dei
provvedimenti previsti dagli artt. 665 e 666 c.p.c.. Nonostante la lettera della legge, il momento in
cui si muta il rito è quello della esaurita possibilità di pronuncia dei provvedimenti e non quello
della loro effettiva pronuncia;
2) inesistenza dei presupposti generali per la convalida, rilevabili d’ufficio anche in caso di
mancata comparizione o mancata opposizione dell’intimato.
Su tali questioni, infatti, ritengo si debba decidere con sentenza previo mutamento di rito
essendo questa interpretazione più ossequiosa della lettera della legge (comporta che la decisione
venga presa osservando gli artt. 420, 429 primo e secondo comma e 430 c.p.c.) e più celere;
3) nel caso di cui all’art. 662 c.p.c. per chi ritenga che la mancata comparizione del locatore non
determini l’estinzione del procedimento.
Sul punto si rammenta che secondo alcuni interpreti la mancata comparizione comporta la
cessazione di tutti gli effetti – sostanziali e processuali – dell’atto introduttivo, secondo altri
rimangono gli effetti della disdetta ma vengono meno gli effetti processuali e vi sarebbe una sorta di
improcedibilità cui consegue l’impossibilità per l’intimato di chiedere che la causa continui, anche
in via ordinaria, al fine di ottenere il rigetto della domanda e secondo altri ancora rimangono fermi
gli effetti processuali e sostanziali e il processo può continuare, peraltro non nelle forme speciali,
ma in quelle ordinarie, previo mutamento di rito.
4) nel caso dell’art. 666 c.p.c. quando l’intimato paghi le somme non contestate;
5) la norma non menziona l’art. 55 l. n. 392/1978, il che parrebbe confermare la tesi per la quale
vi è incompatibilità tra opposizione alla convalida e sanatoria della morosità. Tuttavia, se si ritiene
che l’intimato possa sanare la morosità proponendo opposizione e richiedendo la restituzione di
quanto pagato, è evidente che anche in questi casi si dovrà effettuare il mutamento di rito. E così
pure, qualora si ammetta la possibilità di proporre opposizione e, in subordine, di richiedere il
termine di grazia, per il caso che questo non venga concesso dal giudice oppure, una volta dato, il
conduttore non paghi.
5.b.1. Funzioni e contenuto dell’ordinanza di mutamento di rito.
La rubrica dell’art. 667 c.p.c. (“Mutamento di rito”) parrebbe attribuire alla relativa ordinanza
l’unico scopo di far “proseguire il giudizio nelle forme del rito speciale”.
Tuttavia, bisogna tenere presente che il provvedimento ex art. 667 c.p.c. segna pure il passaggio
della causa da una fase a cognizione sommaria a una fase a cognizione piena.
È evidente, quindi, che solo successivamente all’emanazione dell’ordinanza di cui si discute si
potranno maturare le preclusioni, non concepibili nel procedimento di convalida, per una serie di
ragioni (11).
Innanzi tutto perché le preclusioni sono funzionali ad un giudizio a cognizione piena e non a un
giudizio a cognizione speciale.
In secondo luogo perché il “meccanismo” delle preclusioni è strettamente collegato alla
costituzione delle parti mentre nel procedimento di convalida è espressamente prevista la possibilità
per una parte di non costituirsi e di opporsi in maniera generica e immotivata. Inoltre il suindicato
“meccanismo” – anche nel nuovo sistema che ha spostato in avanti alcune decadenze – intanto può
funzionare in quanto l’attore e il convenuto si costituiscano nei tempi previsti dagli artt. 165 e 166
c.p.c. e non all’udienza (termine ultimo che la legge prevede per l’attore/intimante e il
convenuto/intimato).
In terzo luogo perché, optando per la tesi opposta a quella che qui si sostiene, nell’intero
procedimento (comprensivo di fase a cognizione speciale e di fase a cognizione piena)
opererebbero, contro ogni logica, due sistemi di preclusioni, l’uno del giudizio ordinario e l’altro del
giudizio speciale ex art. 447 bis c.p.c..
Infine è da osservare che non si comprenderebbe l’espressa previsione (art. 667 c.p.c.) di un
termine di integrazione degli atti qualora le preclusioni fossero già maturate.
Le funzioni cui adempie l’ordinanza comportano necessariamente che la stessa, al di là della
semplicistica formulazione della norma di cui all’art. 667 c.p.c., contenga tutti quegli elementi che:
1) consentano alle parti di poter predisporre le proprie difese in vista dell’instaurazione di un
procedimento a cognizione piena; 2) consentano al giudizio di passare alla disciplina speciale di cui
all’art. 447 bis c.p.c..
Relativamente alla predisposizione delle difese, è da evidenziare come l’ordinanza,
opportunamente, non dovrà contenere un solo termine, ma un doppio termine (non vi sono, infatti,
ragioni ostative alla previsione di una differenziazione, secondo una prassi ormai consolidata), il
primo all’intimante, che diventa attore, e il secondo all’intimato, che diventa convenuto.
Il primo termine va dato all’attore in quanto lo stesso, con la memoria integrativa, può
reimpostare la lite con le ampie facoltà che gli riconosce la giurisprudenza formatasi fino ad oggi
(12), che – indipendentemente dal fatto che sia condivisibile o meno – ritengo non possa non essere
applicata in quanto l’orientamento della Corte di Cassazione che riconosce completa autonomia al
procedimento che si instaura dopo l’emissione dell’ordinanza ex art. 667 c.p.c. vale a fortiori per il
procedimento di convalida così come disciplinato dalla l. n. 534/1995, che ha definitivamente
sancito la specialità dello stesso differenziandolo in maniera consistente da quello ordinario.
Né si può sostenere che la formulazione della legge (“…il giudizio prosegue…”) impedisca di
sostenere la tesi suesposta in quanto pure la norma sostituita si esprimeva in termini di
“prosecuzione” del giudizio. Sull’argomento la dottrina che si è formata dopo la novella del 1990 è
pervenuta a soluzioni contrastanti (13).
Quanto al convenuto, è da osservare come lo stesso potrà proporre eccezioni e domande
riconvenzionali poiché sulle stesse, come si è detto, non si è formata alcuna preclusione.
Anche su tale argomento richiamo la giurisprudenza ante riforma (14).
Quanto alla dottrina, peraltro formatasi anteriormente all’ultimo intervento legislativo del 1995,
è da rilevare che vi sono varie interpretazioni in quanto accanto a chi ritiene possibile per il
convenuto proporre la riconvenzionale (15), vi è chi è di parere contrario (16).
Quanto alle modalità con cui possono attuarsi queste integrazioni e quanto ai termini da
concedere, non vi è alcuna previsione espressa nella legge, ma l’esigenza che “il giudizio prosegua
nelle forme del rito speciale”, come si esprime la norma di cui all’art. 667 c.p.c., suggerisce di fare
riferimento alle norme richiamate dall’art. 447 bis c.p.c. (che tal rito speciale governa) e, in
particolare, a quella dell’art. 414 c.p.c. quanto all’attore – e a quella dell’art. 416 c.p.c. – quanto al
convenuto – nonché a quella di cui all’art. 418 c.p.c. per l’ipotesi in cui vi sia proposizione di
domanda riconvenzionale. In quest’ultimo caso, quindi, il giudice deve spostare la data d’udienza
stabilita nell’ordinanza ex art. 667 c.p.c. e tale provvedimento deve essere notificato all’attore, a
cura dell’ufficio, unitamente alla memoria difensiva.
Sul punto è da osservare che, molto opportunamente, si è consigliato (17) di inserire
nell’ordinanza l’avvertimento che la proposizione di domanda riconvenzionale da parte
dell’intimato dovrà avvenire nel rispetto degli artt. 416 e 418 c. p. c..
È evidente che, così costituendo il contenuto dell’ordinanza, la stessa si riempie di elementi che
non sono indicati nella lettera della norma di cui all’art. 667 c.p.c.. Ritengo, tuttavia, che il loro
inserimento non possa essere contra legem (costituendo, semmai, un quid pluris) e che la loro
presenza non possa avere conseguenze di sorta atteso tale integrazione appare rispettosa del rito
speciale che governa il giudizio successivamente all’emissione dell’ordinanza e fa sì che la fase di
merito venga correttamente instaurata.
Poiché, peraltro, la norma di cui all’art. 667 c.p.c. richiama semplicemente l’art. 426 c.p.c., non
può ritenersi scorretta la scelta di non sdoppiare il termine, visto che la legge ne indica uno solo
(scelta questa che mi sentirei vivamente di sconsigliare perché non consente un’opportuno
articolarsi delle difese) né la concessione di termini non rispettosi del disposto degli articoli 416 e
418 c.p.c..
Tuttavia, quando la sequenza dei termini impedisce l’esercizio del diritto di difesa, la parte che
si trova in tale situazione potrà essere ammessa a valersi delle facoltà di cui all’art. 420 c.p.c. primo,
quinto e sesto comma c.p.c., ovviamente nei limiti consentiti dalla norma.
Il contenuto dell’ordinanza di mutamento di rito sarà ancora più articolato quando l’intimato
nella precedente fase di giudizio sia comparso solo personalmente. In questo caso, fermo restando
quanto sopra indicato, l’ordinanza de qua, che, come si è detto, segna il passaggio della causa da
una fase a cognizione speciale a una fase a cognizione piena, dovrà consentire all’intimato di
munirsi di difensore e anche in questo caso, come sopra si è detto, suggerirei di inserire un
opportuno avvertimento.
Va aggiunto che l’ordinanza di mutamento di rito, qualora venga emessa fuori udienza – nel
caso venga emanata in udienza si deve intendere comunicata senz’altro alle parti presenti o che
dovevano essere presenti ex artt. 134 comma primo e 176 comma secondo c.p.c. – deve essere
notificata. Sul punto si ricorda la sentenza della Corte Costituzionale del 14 gennaio 1977, n. 14,
che ha dichiarato l’illegittimità del combinato disposto dell’art. 426 c.p.c. e dell’art. 20 l. n.
533/1973 “nella parte in cui con riguardo alle cause pendenti al momento dell’entrata in vigore della
legge non è prevista la comunicazione alla parte contumace dell’ordinanza che fissa l’udienza di
discussione ed il termine perentorio per l’integrazione degli atti” e tale principio è stato ritenuto
applicabile anche alle controversie individuali di lavoro promosse dopo l’entrata in vigore della l. n.
533/1973 relativamente alle quali non troverebbe applicazione la pronuncia di incostituzionalità “in
applicazione di una regola che, sebbene non espressamente sancita per tale caso, costituisce,
tuttavia, un principio generale del nostro ordinamento e perciò anche un criterio legittimo di
ermeneutica conformemente al disposto dell’art. 14 delle disposizioni sulla legge in generale”
(Cass., 13 febbraio 1985, n. 1209) (18).
Non essendovi una espressa disposizione di legge, nel provvedimento vi deve essere l’espresso
ordine alla cancelleria in quanto l’art. 420 comma undicesimo c.p.c. prevede l’obbligo solo per le
notificazioni e comunicazioni previste dalla legge.
Un’ultima precisazione è da fare riguardo al fatto che – come si evince dalla presente
esposizione – non ho distinto la situazione dell’intimato comparso personalmente da quella
dell’intimato costituito se non in relazione al contenuto più articolato che deve avere l’ordinanza di
mutamento di rito nel primo caso.
Ciò vale anche ai fini delle preclusioni che, a mio parere, scattano in ogni caso dopo l’ordinanza
di mutamento di rito sia per l’intimato comparso personalmente che per quello costituito, e pure
nell’ipotesi in cui quest’ultimo si sia già completamente difeso (proponendo eccezioni e domande
riconvenzionali).
E questo per due ordini di ragioni.
La prima, attinente al merito, è che, ammettendo per l’attore la possibilità di reimpostare la lite
con le ampie facoltà cui sopra si è accennato, il convenuto deve essere posto in grado di difendersi
adeguatamente.
La seconda, riguardante il processo, è che, optando per la tesi opposta a quella che si sostiene, si
ammetterebbe l’esistenza di un doppio regime decadenziale, collegato alla costituzione o non
costituzione dell’intimato, che, oltre ad apparire irragionevole, non ha alcun fondamento né nella
legge né nel sistema.
Quanto sopra affermato vale pure per i casi in cui l’intimato si sia costituito e abbia proposto
domanda riconvenzionale e poi con la memoria ex art. 426 c.p.c. l’abbandoni o lo modifichi o,
ancora, ne aggiunga delle altre poiché ciò che rileva ai fini del giudizio di merito che segue
l’ordinanza di cui all’art. 667 c.p.c. è unicamente il contenuto della memoria integrativa.
5.b.2. Modelli di provvedimento.
IPOTESI IN CUI NEL PROCEDIMENTO DI CONVALIDA L’INTIMATO SIA COMPARSO
PERSONALMENTE
……provvedimenti sub 5.b……
Visto l’art. 667 c.p.c;
fissa l’udienza di cui all’art. 420 c.p.c. al…… dando termine, onde provvedere all’eventuale
integrazione degli atti introduttivi, fino al …… all’intimante per il deposito di memoria ai sensi
dell’art. 414 c.p.c. (relativamente alla proposizione di domande e di istanze istruttorie) e fino al……
all’intimato per il deposito di memoria ai sensi degli artt. 416 e 418 c.p.c. (relativamente alla
proposizione di eccezioni, domande riconvenzionali e istanze istruttorie), avvertendo quest’ultimo
che ha l’onere di munirsi di difensore, pena la dichiarazione di contumacia, salvo che non ricorrano
le ipotesi di cui all’art. 417 c.p.c..
Si comunichi alla parte costituita e si notifichi a quella comparsa personalmente.
IPOTESI IN CUI NEL PROCEDIMENTO DI CONVALIDA L’INTIMATO SI SIA COSTITUITO
……provvedimenti sub 5.b……
Visto l’art. 667 c.p.c;
fissa l’udienza di cui all’art. 420 c.p.c. al…… dando termine, onde provvedere all’eventuale
integrazione degli atti introduttivi, fino al…… all’intimante per il deposito di memoria ai sensi
dell’art. 414 c.p.c. (relativamente alla proposizione di domande e di istanze istruttorie) e fino al……
all’intimato per il deposito di memoria ai sensi degli artt. 416 e 418 c.p.c. (relativamente alla
proposizione di eccezioni, domande riconvenzionali e istanze istruttorie).
Si comunichi.
(1) vedi A. BUCCI, M. CRESCENZI e E. MALPICA, “Il processo delle locazioni dopo la
riforma”, in “Manuale della riforma del processo civile”, 1991, p. 203 e ss.
(2) M. ACIERNO, “Il procedimento di convalida e la novella del processo civile” in Documenti
Giustizia, 1995, 12, 1997 e ss.; A. MIRENDA, “Brevi riflessioni sul procedimento per convalida
dopo la riforma del processo civile”, in Rass. Loc. e Cond., 1995, 3, p. 323 e ss.
(3) Dissentono da tale opinione A. BUCCI, M. CRESCENZI e E. MALPICA, op. cit., p. 207 e
ss.: “la soluzione è discutibile in quanto da un lato, l’importanza della comparizione del convenuto
all’udienza fissata ai fini dell’opposizione, in relazione alle conseguenze che derivano da un
comportamento omissivo, può far ritenere l’impossibilità di ipotizzare la legittimità di un’udienza
diversa da quella indicata nella citazione (o rinviata automaticamente secondo quanto previsto dagli
artt. 56 e 57 disp. attuaz.), in assenza di un sistema che assicuri al convenuto non costituito la
conoscenza dell’udienza stessa. D’altro canto deve osservarsi (e tale soluzione ci sembra preferibile)
che la norma di cui al quinto comma dell’art. 168 bis non appare del tutto incompatibile con la
procedura di convalida, per la considerazione che l’onere che deriverebbe all’intimato non costituito
di accertare in cancelleria la nuova data della comparizione (stabilita dal pretore) è in sostanza del
tutto simile (e non più gravoso) di quello che deriva nel caso di uno slittamento automatico
dell’udienza in virtù dell’applicazione degli artt. 56 e 57 delle disp. att.”.
(4) P. L. NELA, in “Le riforme del processo civile” a cura di S. CHIARLONI, 1992, p. 601 e
ss., il quale sostiene: che il giudizio di merito debba proseguire nelle forme del rito speciale è
ricavabile dall’art. 447 bis c.p.c. ove si prevede che il giudizio di cognizione delle locazioni; deve
comunque svolgersi secondo tale rito. Che il passaggio dall’uno all’altro rito sia regolato dall’art.
426 c.p.c. è ricavabile dallo stesso art. 447 bis c.p.c. che richiama tra le norme applicabili l’art. 426
c.p.c.… Né senza il nuovo art. 667 c.p.c. si sarebbe potuto invocare la mancanza di una norma che
imponesse l’instaurazione del giudizio di merito posto che già nel codice precedente alla riforma
tale norma difettava e nessuno poneva in dubbio la necessità del giudizio di merito”. Sulla critica a
tale tesi vedi R. FRASCA, “Brevi note sul procedimento per convalida di sfratto prima e dopo la
riforma del processo civile”, nota a Cass., 29-7-1994, n. 7088, in Foro It., I, 2937 e ss., il quale
sostiene che “in assenza di una norma come il novellato art. 667 c.p.c. neppure sarebbe risultata
prevista la indefettibilità della cognizione ordinaria a seguito dell’opposizione dell’intimato (o del
verificarsi di una situazione di esclusione della convalida nel caso previsto dall’art. 666 c.p.c. a
seguito del pagamento delle somme non contestate oggetto della morosità”) e “inoltre la norma
dell’art. 426 c.p.c. di per sé è dettata per le cause proposte con le “forme ordinarie”, mentre la
citazione per convalida introduce tuttora un “procedimento speciale” e “tale peculiarità rende
l’ipotesi del passaggio della fase sommaria del procedimento per convalida a quella di cognizione
piena non scevra di una certa peculiarità che rivelerà la non integrale assimilabilità del
provvedimento del cambiamento di rito a quello dell’art. 426 c.p.c.”.
(5) Per G. GABRIELLI e F. PADOVINI, in “La locazione di immobili urbani”, 1994, p. 8 e ss.
“immobile urbano” è quello avente ad oggetto immobili diversi da quelli “rustici” (adibiti cioè ad
attività agricola o strettamente connessa) indipendentemente dall’ubicazione dell’immobile fuori
della cinta cittadina (Cass., 14 dicembre 1985, n. 6344) e indipendentemente dalle caratteristiche
dell’immobile, che può essere un edificio o un’“area nuda” (si pensi ad esempio al caso di un
proprietario che dà in locazione un fondo ad una associazione perché venga utilizzato come campo
per l’attività sportiva o al caso che all’interno del perimetro urbano venga locato un terreno
inedificato a chi ne ha bisogno per accatastare materiale o a chi mantiene un deposito di roulotte e
caravan).
(6) A. PROTO PISANI, “La nuova disciplina del processo civile”, 1991, p.12.
(7) P. L. NELA, op.cit., p. 602.
(11) A. PROTO PISANI, op. cit., p. 11 e ss. dal richiamo esplicito fatto dall’art. 667 c.p.c.
all’art. 426 c.p.c. “desume senza alcuna possibilità di dubbio che alla notificazione della
intimazione o della citazione non segue una fase preparatoria soggetta alle preclusioni di cui agli
artt. 167 e 183: la fase preparatoria del giudizio a cognizione piena si perfezionerà solo a seguito
dell’ordinanza di mutamento di rito prima tramite l’integrazione degli atti introduttivi (integrazione
del tutto libera, giacché nessuna decadenza è ricollegata alla fase speciale della convalida) e poi nel
corso dell’udienza di cui all’art. 420”.
(12) Ammettono la possibilità di proporre una diversa causa petendi Cass., 18 giugno 1993, n.
6806 e Cass., 11 giugno 1983, n. 4023. Ammettono la possibilità proporre una diversa causa
petendi e una domanda nuova Cass., 25 giugno 1993, n. 7066; Cass., 5 luglio 1984, n. 3930 che
ritiene possibile domandare, nel processo seguito all’opposizione alla convalida di sfratto per
morosità, la risoluzione della locazione per mutamento di destinazione della res locata; Cass. 10
febbraio 1981, n. 828 che ritiene possibile domandare, nel giudizio seguito alla opposizione alla
convalida di sfratto per finita locazione, il rilascio dell’immobile per la necessità di disporne a
norma dell’art. 2 della l. n. 253/1950; Cass., 13 gennaio 1981, n. 282; Cass., 25 giugno 1993,
n.7066; Cass., 23 ottobre 1979, n. 5541: Cass., 2 aprile 1975, n. 1186. Ammettono la possibilità di
domanda nuova Cass. 23 marzo 1991, n. 3154 che ritiene possibile proporre domanda di risoluzione
del contratto di locazione per inadempimento e di risarcimento dei danni; Cass., 14 novembre 1986,
n. 6700; Cass. 21 novembre 1981, n. 6221.Sulla questione se in questi casi vi siano delle vere e
proprie domande nuove vedi P. D’ASCOLA Osservazioni in tema di domanda nuova,
modificazione della domanda e procedimento per convalida di sfratto”, nota a Pretura Trento, Sez.
di Cles, 26 luglio 1993, in Giur It., 1994, 899 e ss.
(13) Per A. SALETTI, in “Le nuove leggi civili commentate”, 1992, p. 292 “Le memorie previste
dall’art. 426 mirano a permettere alle parti di completare le loro difese sia dal punto di vista
dell’allegazione dei fatti sia da quello delle istanze istruttorie: sicché – essendo il termine unico per tutte
le parti – un tale risultato sarebbe palesemente impossibile, se fosse consentito introdurre domande
totalmente nuove rispetto a quelle oggetto del procedimento speciale”. L’autore quindi ritiene, anche in
sintonia con la nozione di conversione del rito, che postula la continuazione di un procedimento già in
corso, che la domanda originariamente proposta dall’intimante/attore non possa essere mutata né ad essa
aggiunte altre. Per F. P. LUISO in CONSOLO-LUISO-SASSANI, “La riforma del processo civile”,
1991, p. 417 non sono ammissibili nuove domande che le parti possono formulare non oltre la prima
udienza del procedimento di convalida. Per A. BUCCI, M. CRESCENZI e E. MALPICA, op. cit., p. 211
e ss. non vi è possibilità di introdurre domande nuove. “Ove infatti si consideri lo stretto nesso di
continuazione sicuramente stabilito dal nuovo art. 667 tra fase sommaria e procedimento ordinario,
nonché il meccanismo previsto per il ‘passaggio’ dal rito ordinario a quello speciale (con l’art. 426, che
determina la fissazione dell’udienza di discussione di cui all’art. 420), se ne deve dedurre che il giudizio
che prosegue debba rimanere immutato nei termini fissati dalla originaria contestazione di cui
all’intimazione-citazione” per cui l’attore potrà essere ammesso a quelle attività previste dall’art. 420
c.p.c.. Né si può sostenere che la proposizione di domande nuove sia consentita attraverso l’integrazione
ex art. 426 c.p.c. che “si riduce in pratica nella formulazione completa dei mezzi istruttori e nella
produzione di tutti i documenti di cui attore e convenuto intendono avvalersi, ma “non può consentire la
sanatoria di decadenze o di preclusioni già verificatesi” risultando “evidente come una comparsa,
depositata a giudizio avanzato, non possa assolvere in alcun modo a quella funzione di contestazione
preventiva che è l’assenza dell’ammissibilità di qualsiasi domanda”.
(14) Ammettono la possibilità per il convenuto di dedurre nuove eccezioni e/o di proporre
domande riconvenzionali (Cass., 18 giugno 1993, n. 6806; Cass., 11 giugno 1983, n. 4023; Cass.,
13 gennaio 1981, n. 282; Cass., 21 novembre 1981, n. 6221; Cass., 23 ottobre 1979, n. 5541; Cass.,
2 aprile 1975, n. 1186).
(15) BALENA, “Ancora interventi urgenti sulla riforma del processo civile” in Corr. Giur, la
risposta è affermativa, perché, stante la natura del procedimento ora considerato, sembra lecito fare
comunque riferimento, a questo riguardo, alla disciplina del procedimento ordinario. A. SALETTI,
op. cit., p. 292 sostiene che l’intimato/convenuto potrà addurre eccezioni prima non formulate,
giacché l’opposizione non necessita di essere motivata e quindi non sono configurabili preclusioni
in proposito. In questi casi per permettere la realizzazione del contenzioso l’intimante/attore sarà
ammesso a valersi delle facoltà di cui agli artt. 420, comm. 1°, 5°, 6° c.p.p. richiamato dal nuovo
art. 447 c.p.c.. L’informalità cui è improntato il giudizio speciale, tale da consentire all’intimato
un’opposizione priva di formule sacramentali ed immotivata induce a ritenere che non sia
configurabile un obbligo di introdurre la riconvenzionale fin dalla opposizione e la circostanza
sarebbe confermata dalla struttura del giudizio speciale, che è finalizzato alla formazione
semplificata di un titolo esecutivo, non certo ad una completa formazione del thema decidendum del
successivo eventuale giudizio ordinario.
(16) Per P. L. NELA, op. cit., pag. 600 e ss.: “la presentazione di domande riconvenzionali è
consentita all’opponente nella comparsa con cui egli si sia eventualmente costituito, ed è
successivamente preclusa, ex art. 167 c.p.c, senza che la possibilità di integrare l’atto introduttivo si
risolva in una vera e propria sanatoria della decadenza. Né l’opponente dovrà dotare la memoria
integrativa della istanza di fissazione di nuova udienza, prevista dall’art. 418 c.p.c., poiché, al
momento della fissazione d’udienza ex art. 426, essendo già stata presentata la riconvenzionale,
tanto il giudice quanto la controparte ne sono a conoscenza, ed il primo ha provveduto alla
fissazione tenendone già conto. La risposta al quesito è forse meno facile, allorché l’opponente si sia
semplicemente presentato all’udienza, senza costituirsi o comunque limitandosi a dichiarare di
volersi opporre… Parrebbe che anche in questo caso l’attesa dell’intimato nel proporre la domanda
riconvenzionale non possa essere premiata, ma risulta piuttosto gravoso per la sua posizione,
ammetterlo alla comparizione persone innanzi al pretore, e poi comminargli la decadenza della
riconvenzionale”.
(17) R. FRASCA, op. cit., 2940.
(18) Sul punto vedi l’articolata e parzialmente diversa ricostruzione di R. FRASCA, op.cit.,
2940.
CONNESSIONE E RITO NELLE CONTROVERSIE LOCATIZIE. IL PROCEDIMENTO PER
CONVALIDA DI SFRATTO
Relatore:
dr.ssa Maria Giuliana CIVININI
giudice del Tribunale di Pistoia
SOMMARIO: 1. Premessa. – 2. Cause pendenti alla data del 1° gennaio 1993: il sistema introdotto
dalla l. n. 392/1978 e succ. mod. – 2.1. Segue. In particolare: le controversie relative alla
determinazione, aggiornamento e adeguamento del canone. – 2.1.1. Segue. In particolare:
il tentativo obbligatorio di conciliazione. – 2.2. Competenza e rito. – 2.3. Cause connesse
soggette a riti differenti. – 3. Cause introdotte dopo il 1° gennaio 1993. L’entrata in vigore
dei commi 3°, 4°, 5° dell’art. 40 c.p.c.. – 3.1. Effetti della nuova disciplina sulle
controversie in materia di locazione. – 3.2. La nozione di rito speciale. – 3.3. Problemi di
costituzionalità. – 4. Cause introdotte dopo le cause pendenti alla data dell’entrata in
vigore integrale della l. n. 353/1990. In particolare: l’ntrata in vigore dell’art. 447 bis
c.p.c.. – 4.1. Il problema del cumulo di più domande attribuite alla competenza di giudici
diversi. – 5. Il mutamento di rito nel procedimento per convalida di sfratto.
DIBATTITO SU ALCUNI PUNTI CONTROVERSI:
A) Cause iniziate prima del 1° gennaio 1993:
aa) quali controversie rientrano nella nozione di “controversie relative alla determinazione,
all’aggiornamento e all’adeguamento del canone”?
ab) quando la domanda di “equo canone” è introdotta in via riconvenzionale o in sede di
opposizione a decreto ingiuntivo deve farsi luogo al tentativo obbligatorio di conciliazione ai sensi
degli artt. 43 e 44 l. n. 392/78?
ac) è possibile realizzare il “simultaneus processus” quando in un giudizio di competenza del
tribunale è proposta in via riconvenzionale la domanda c.d. di “equo canone”? in caso positivo,
innanzi al giudice superiore o al giudice inferiore?
ad) è possibile realizzare il “simultaneus processus” quando le domande cumulate
soggiacciono a riti differenti?
af) formatasi una preclusione in punto di competenza, la questione di rito può ancora essere
messa in discussione?
B) cause introdotte dopo il 1° gennaio 1993 (data di entrata in vigore dei commi 3°, 4° e 5°
dell’art. 40 c.p.c., aggiunti dall’art. 51. n. 353/1990):
b1) rito lavoro e rito locatizio sono riti speciali differenti ai fini del verificarsi della “vis
actractiva” dell’uno rispetto all’altro?
b2) è costituzionalmente legittima la previsione della prevalenza del rito speciale sul rito
ordinario solo per il rito lavoro in senso stretto e non anche per il rito locatizio?
b3) la norma si applica anche in caso di cumulo soggettivo?
b4) come deve essere interpretato il criterio della prevalenza del rito della causa in ragione
della quale viene determinata la competenza?
C) cause che saranno introdotte (o risulteranno pendenti) dopo l’entrata in vigore degli artt. 38,
667 (come sostituiti dalla l. n. 353/1990) e 447 bis c.p.c.:
c1) è possibile il cumulo di domande di competenza del tribunale soggette al rito ordinario e
domande di competenza del pretore soggette al rito speciale? e la realizzazione del “simultaneus
processus” è possibile davanti al giudice inferiore?
c2) disposto il mutamento di rito ai sensi dell’art. 667 c.p.c., si apre una nuova fase
preparatoria? quando si formano le preclusioni?
1. Premessa.
La l. n. 353/1990 ha operato un intervento razionalizzatore della disciplina processuale in
materia di locazione di immobili urbani. Preso atto della situazione di “vero e proprio caos
processuale” (1) cui aveva dato luogo la l. 27 luglio 1978, n. 392, con la frammentazione dei riti
(ordinario, speciali c.d. a cognizione piena, sommari) e dei giudici competenti in primo grado
(conciliatore, pretore, tribunale) ivi prevista (2) (situazione ulteriormente complicata dalla l. n.
399/1984), il legislatore del 1990 da un lato ha sottoposto alla competenza per materia del pretore e
al rito lavoro tutte le controversie relative ai rapporti di locazione e di comodato di immobili urbani
e di affitto di aziende (v. art. 8 n. 3 nuovo testo e art. 447 bis), dall’altro lato “assoggettando le
controversie in materia di comodato di immobili urbani e di affitto di azienda alle stesse scelte
effettuate in punto di competenza per materia e di rito per le controversie in materia di locazione di
immobili urbani” ha evitato “che l’individuazione del giudice competente per materia e del rito
dipendano da complesse qualificazioni giuridiche del rapporto (rilevanti anche ai fini della
decisione di merito..)” (3).
Se, dunque, la nuova disciplina è destinata a far venir meno pressoché tutti i problemi insorti
nella vigenza del sistema attuato dalla l. n. 392/1978 e succ. mod. (4), i plurimi e rinnovati rinvii
dell’entrata in vigore dell’intera riforma (v. l. n. 447/1992, d.l. 14-2-1994, 14-4-1994) spostano nel
futuro tale risoluzione e rendono tuttora attuali i problemi medesimi.
D’altro lato l’entrata in vigore, a far data dal 1-1-1993, dei commi 3°, 4° e 5° dell’art. 40 c.p.c.
(aggiunti dall’art. 5 l. n. 353/1990), che disciplinano il cumulo di cause soggette a riti differenti, e la
previsione (contenuta nell’art. 92, 1° comma, l. n. 353/90 mod. dall’art. 2, 5° comma l. n. 477/1992)
che tale disposizione non si applica ai giudizi pendenti al 1-1-1993 (ai quali, fino alla data di entrata
in vigore dell’intera riforma, “si applicano … le disposizioni anteriormente vigenti”), dà luogo oggi
all’esistenza di un doppio regime processuale (ordinario-preriforma e transitorio o “di transizione”),
destinato ad essere superato dalla completa vigenza della riforma.
Tenteremo nel prosieguo di dar conto delle principali questioni legate ai temi dei rapporti tra
competenza e rito e della cumulabilità di cause soggette a riti differenti e attribuite alla competenza
di giudici diversi; tenuto conto di quanto si è detto sopra sull’esistenza di più regimi processuali, nel
far ciò distingueremo per gruppi di controversie identificate in base al criterio temporale dell’epoca
di introduzione.
2. Cause pendenti alla data del 1° gennaio 1993: il sistema introdotto dalla l. n. 392/1978 e succ.
mod..
Lo schema dei riti e delle competenze relativi alle controversie in materia di locazione di
immobili urbani, in base alla disciplina di cui alla l. n. 392/78 e 399/84, è il seguente:
a) rito speciale ex artt. 46-53 l. n. 392/78 per le controversie:
aa) relative alla determinazione, aggiornamento ed adeguamento del canone;
ab) relative alle opere di conservazione ex art. 23, all’indennità di avviamento ex art. 34 e
all’indennità per i miglioramenti apportati dal conduttore col consenso del locatore devolute alla
competenza per materia del pretore;
b) procedimento speciale ex art. 30 e 46 per le controversie relative al diritto di recesso nei casi
previsti dagli artt. 29, 59 e 73 devolute alla competenza per materia del pretore;
c) procedimento per convalida di sfratto ex art. 657 ss. c.p.c. devoluto alla competenza per
materia del pretore;
d) rito ordinario per ogni altra controversia e in particolare per quelle:
da) sulla cessazione del rapporto di locazione per cause diverse da quelle indicate negli artt.
29, 59 e 73 l. n. 392/78, 657, 658, 659 c.p.c. o per finita locazione o morosità quando vi sia stata
opposizione da parte del conduttore;
db) sul diritto di riscatto e di prelazione ex artt. 38, 39 e 40 l. cit.;
dc) sul diritto al ripristino ex art. 31;
dd) sugli obblighi di manutenzione la competenza a conoscere le quali è ripartita secondo gli
ordinari criteri di competenza per valore.
2.1. Segue. In particolare: le controversie relative alla determinazione, aggiornamento e
adeguamento del canone.
La formula di cui agli artt. 43-45 l. n. 392/78 (“controversie relative alla determinazione,
all’aggiornamento e all’adeguamento del canone”) ha fatto sorgere problemi interpretativi, la cui
risoluzione è di particolare rilievo dipendendo dalla qualificazione della controversia
l’individuazione del giudice competente e del rito applicabile (5).
Gli orientamenti della giurisprudenza possono così riassumersi:
A) è pacifico che rientrino nella categoria di controversie in esame quelle riguardanti la misura
del canone da determinarsi o aggiornarsi secondo la precedente legislazione vincolistica, in
riferimento sia alla richiesta del locatore di ottenere l’ammontare del corrispettivo dovuto sia alla
richiesta del conduttore di restituzione di somme indebitamente pagate, e anche se aventi ad oggetto
la validità ed efficacia delle clausole ISTAT; v. Cass., 4 luglio 1981, n. 4397 in FI, 1982, I , 2126;
Cass., 1 settembre 1982, n. 4771, in FI, 1983, I, 76; 8 marzo 1983, n. 1712, in Rass. Equo Can.,
1983, 119; Cass., 26 aprile 1983, n. 2873 e Cass., 29 marzo 1983, n. 2285, ibid., 1983, 116 ss.;
Cass., 25 giugno 1985, n. 3816 (sulla clausola ISTAT); Cass., 27 febbraio 1987, n. 2120; Cass., 10
agosto 1988, n. 4916, ibid., 1990, 136 (le ultime due specificano che sussiste la competenza
ratione materiae del pretore anche quando la controversia abbia ad oggetto canoni di locazioni in
corso al momento dell’entrata in vigore della legge e relativi al periodo ad essa antecedente);
B) costante è anche l’indirizzo secondo cui rientrano tra le controversie in esame quelle aventi
ad oggetto la restituzione delle somme che il conduttore assume corrisposte al locatore oltre la
misura del canone legalmente dovuto; v. Cass., n. 4771/82, cit.; n. 1712/83, cit., che espressamente
qualifica controversia sulla misura dei canoni la causa avente “per oggetto la pretesa dell’attore alla
restituzione di somme che sostiene essere state indebitamente percepite dalla locatrice per aumenti
illegittimi del canone”; Cass., 10 agosto 1988, n. 4916, secondo cui la competenza funzionale e
inderogabile del giudice monocratico “si estende alla domanda di pagamento di canoni rimasti
insoluti ed alla riconvenzionale di restituzione delle somme pagate in più per (pretesi) aumenti
illegittimi del canone, le quali, in quanto accessorie rispetto a quella principale (per manifesta
priorità logica e giuridica) di determinazione del canone, vanno devolute allo stesso giudice per
ragioni di concentrazione e di economia processuale” (la massima è ripetitiva; v. anche Cass., 16
dicembre 1988, n. 6860; 18 febbraio 1986, n. 967; 6 settembre 1985, n. 5452; Cass., 26 agosto
1983, n. 5484; Cass., 25 giugno 1985, n. 3816); Cass., 9 aprile 1993, n. 4334, in Arch. loc., 1993,
482, secondo cui “l’azione di ripetizione delle somme pagate dal conduttore al locatore in più del
dovuto nel corso del rapporto per effetto di illegittimo aumento del canone può anche essere
proposta, congiuntamente alla domanda di accertamento del canone di locazione dovuto, al pretore
competente su quest’ultima domanda, rispettato alla quale quella di ripetizione è accessoria, atteso
che, ai sensi dell’art. 31 comma 2 c.p.c., al giudice competente per materia sulla causa principale
possono essere proposte domande accessorie anche se eccedenti la sua competenza per valore”;
Cass., 10 febbraio 1990 n. 972, in FI, 1991, I, 1203 in cui si afferma che “le controversie sulla
misura dei canoni di locazione devolute alla competenza esclusiva del pretore non sono soltanto
quelle dirette a stabilire quale percentuale di aumento vada applicata, sul canone iniziale, ma per il
principio della concentrazione processuale, anche quelle aventi ad oggetto le conseguenti statuizioni
circa il pagamento delle somme dovute (o la ripetizione di quanto indebitamente corrisposto)”; per
la giur. di merito si v. Pret. Napoli, 7 febbraio 1986, n. 296 in Arch. Loc., 1987, 747, secondo cui
rientra nella competenza pretorile di cui all’art. 45 l. n. 392/78 la domanda di ripetizione di somme
pagate in più; Pret. Ventimiglia, 16 febbraio 89, secondo cui anche la domanda di ripetizione di
canoni indebitamente corrisposti, che postula la domanda di adeguamento del canone, deve essere
preceduta dal tentativo obbligatorio di conciliazione.
Come dimostra l’esame delle citate pronunce, la giurisprudenza ricomprende le controversie in
materia di rivalsa tra quelle di cui all’art. 45 cit. o direttamente o in quanto consequenziali rispetto a
quelle di determinazione del canone, rinvenendo il diritto alle restituzioni di cui all’art. 79 l. n.
392/78 fondamento nella violazione degli artt. 12 ss. l. cit. (6). La ratio decidendi maggiormente
ricorrente appare essere quella relativa al nesso di accessorietà che lega la domanda di restituzione
alla domanda di accertamento del canone, con conseguente applicazione dell’art. 31 c.p.c. (e deroga
alla competenza per valore in favore del giudice della causa principale competente per materia).
Perquanto non vengano indicate esplicitamente le scelte dogmatiche sottese a tale soluzione, la
costante affermazione secondo cui la domanda di ripetizione di canoni indebitamente corrisposti
“postula concettualmente le operazioni di adeguamento del canone”; il fatto che in nessun caso
venga posta la questione della realizzabilità della trattazione simultanea nonostante la diversità dei
riti (non ricomprendendosi la causa di restituzione direttamente tra quelle di cui all’art. 45 cit., la
medesima dovrebbe ritenersi soggetta al rito ordinario di cognizione); la circostanza, infine, che si
affermi la competenza per materia del pretore anche allorquando non vengono proposte due distinte
domande – una pregiudiziale di accertamento del canone e l’altra dipendente di restituzione – ma
una sola avente ad oggetto il diritto alla rivalsa, inducono a ritenere che la giurisprudenza nei casi in
esame accolga una nozione di accessorietà nel senso di “pregiudizialità logica o interna allo stesso
rapporto” (7).
Consegue a tale ricostruzione che domanda principale e domanda accessoria risultano inserite in
un medesimo rapporto e, quand’anche sia dedotta in giudizio esclusivamente la coppia pretesaobbligo relativa al diritto di rivalsa, l’oggetto del processo (e del giudicato) non è limitato alla stesso
ma si estende direttamente all’intero rapporto giuridico complesso e in particolare all’accertamento
del canone (8). Significativa in tal senso è Cass., 13 luglio 1992, n. 8495 (in Rass., 1993, 145); nel
caso di specie la corte d’appello aveva respinto l’eccezione di incompetenza in materia del tribunale
affermando che oggetto del giudizio era lo sfratto per morosità e che il convenuto non aveva
espressamente richiesto la determinazione del canone; la S.C. osserva che la corte di merito “non ha
considerato che la domanda riconvenzionale proposta dalla conduttrice per la restituzione delle
somme che asseriva di aver corrisposto in precedenza rispetto all’ammontare legalmente dovuto per
i canoni, postulava il preliminare accertamento della misura del canone e dei successivi aumenti
legali…Se la corte d’appello avesse tenuto conto della sostanziale volontà della conduttrice – la cui
domanda di restituzione delle somme che avrebbe corrisposto alla locatrice in eccedenza rispetto a
quelle dovute, non avrebbe avuto alcun senso senza l’accertamento e la determinazione del canone
legalmente avuto – avrebbe dovuto ritenere … che la domanda di restituzione non poteva non
contenere quella di accertamento e determinazione del canone …”.
C) la giurisprudenza di legittimità è costante nell’affermare che la domanda di risoluzione del
contratto di locazione per morosità sia retta dagli ordinari criteri di competenza per valore (e nel
negare che la medesima sia legata da un nesso di accessorietà alla domanda riconvenzionale con cui
il convenuto, contestata la morosità, chieda la determinazione legale del canone); v. Cass., 24
novembre 1982, n. 6362, in FI, 1983, I, 335 con n. di PIOMBO; 21 agosto 1985, n. 4470, id., 1986,
I, 2266; 28 marzo 1986, n. 2209; 27 febbraio 1987, n. 2113; gli ordinari criteri di competenza per
valore si ritengono applicabili anche alle controversie di mero accertamento sulla durata del
rapporto, sulla disciplina ad esso applicabile e in genere sul contenuto del negozio; v. Cass., 18
aprile 88, n. 3061, in FI, 1989, I, 1915 ed ivi ult. rif.; Cass., 28 novembre 1992, n. 12716 in Arch.
loc., 1993, 271; Cass., 18 giugno 1992, n. 7542; in senso contr., v. Cass., 29 maggio 1991, n. 6053
(in Giust. civ., 1992, I, 141), secondo cui “le controversie relative alla determinazione,
all’aggiornamento e all’adeguamento del canone ai sensi dell’art. 45 …comprendendo anche quelle
consistenti nello stabilire l’esistenza, la validità e la liceità degli accordi intervenuti tra le parti circa
la determinazione del canone e quindi anche l’eventuale simulazione di essi in violazione della
disposizione dell’art. 79 … che dichiara la nullità di ogni pattuizione diretta, tra l’altro, ad attribuire
al locatore un canone maggiore rispetto a quello previsto dalla stessa o altro vantaggio sempre in
contrasto con tale legge”; Pret. Monza 18 febbraio 1989 (in FI, 1989, I, 1915), il quale fa espresso
riferimento ai principi in materia di pregiudizialità in senso logico di cui sopra al fine di attrarre
nella competenza funzionale del pretore le domande pregiudiziali rispetto all’accertamento del
canone: rilevato che la competenza per materia non prevista con riferimento al rapporto
fondamentale (locazione) ma a “un rapporto giuridico-effetto del contratto di locazione, id est il
diritto soggettivo di una delle parti del contratto locatizio a ottenere l’accertamento di un
determinato modo di essere del contratto stesso, costituito dal canone”, sulla base di una analisi
delle fattispecie in cui in concreto può rilevare la determinazione del canone e del cumulo di azioni
prospettabili, conclude ritenendo che l’art. 43 cit. disciplina un’ipotesi di competenza che “non è
relativa solo alle controversie concernenti il rapporto giuridico-effetto del rapporto giuridico
fondamentale di locazione, costituito dal modo di essere di quest’ultimo quoad canone, bensì
involge tutti quegli accertamenti che possono definirsi afferenti a un modo di essere del rapporto
fondamentale giustificativo dell’applicazione della disciplina dell’equo canone. Detti accertamenti
possono concernere rapporti giuridici effetto della fattispecie locazione che di quella applicazione
sono il presupposto” (9).
D) in giur. si è ritenuto che appartengano alla competenza per materia del pretore ex artt. 43-45
l. cit. anche le controversie:
– relative alla determinazione del corrispettivo dovuto ex art. 1591 c.c. dal conduttore in mora
nella restituzione dell’immobile locato, poiché quel corrispettivo “mantiene … tutte le
caratteristiche del normale canone di locazione, anche in ordine alle norme applicabili alla sua
determinazione” (Cass., 13 luglio 1992, n. 8499 in FI, 1993, I, 122 ed ivi ampi riferimenti);
– relative all’accertamento della legittimità degli aumenti del canone richiesti e pagati nel corso
di rapporto di locazione di immobile destinato ad uso non locativo, in quanto per i relativi contratti
il canone può subire aumenti solo nei modi di cui all’art. 32 l. cit. (Cass., 9 aprile 1993, n. 4334, in
Arch. loc., 1993, 482).
2.1.1. Segue. In particolare: il tentativo obbligatorio di conciliazione.
L’inquadramento di una determinata controversia tra quelle di cui all’art. 45 l. n. 392/78 implica
che l’introduzione della medesima deve essere preceduta dal tentativo obbligatorio di conciliazione
ex artt. 43 e 44 l. cit. (10).
In giur., v. Pret. Ventimiglia, 16 febbraio 89, cit., che ha affermato il principio con riferimento
ad una domanda di ripetizione di canoni indebitamente corrisposti.
La giurisprudenza di merito ritiene che ricorra la necessità del tentativo di conciliazione solo
allorquando la domanda sia proposta in via principale e non anche in via riconvenzionale; v. Pret.
Pisa, 18 febbraio 1986, n. 27 in Arch. loc., 1988, 207; Pret. Foggia, 7 dicembre 1985, in FI, 1987, I,
1147; Pret. Firenze, 9 ottobre 1986, in Arch. Loc., 1987, 174; contra: Cass., 13 gennaio 1993, n.
353, in cui ritenuta l’improcedibilità della domanda riconvenzionale non preceduta dal tentativo di
conciliazione, si afferma: “tuttavia, se il tentativo di conciliazione sia stato esperito dal locatore in
relazione ad una sua pretesa inerente alla misura del canone, il conduttore non ha l’onere di
rinnovare il tentativo medesimo per la proposizione della domanda riconvenzionale perché quello
esperito dal locatore ha realizzato lo scopo di promuovere un confronto fra le parti sulle rispettive
posizioni in sede non contenziosa, perseguito dal citato art. 44”.
Nel primo senso in dottrina: PAPARO-PROTO PISANI (11), argomentando dal fatto che “l’art.
48, comma 1°, disciplinando esplicitamente l’ipotesi di passaggio dal rito ordinario al rito speciale
(diversamente dal testo originario del primo comma dell’art. 445) non fa menzione alcuna della
necessità di sperimentare previamente il tentativo di conciliazione ove si sia alla presenza di una
controversia relativa alla determinazione, aggiornamento o adeguamento del canone”; VERDE (12);
CEA (13), che argomenta tra l’altro dall’inutilità dell’istituto, finalizzato ad evitare che i contrasti
sfocino in sede contenziosa, allorquando tale evento siasi già verificato (14); contra TARZIA (15),
il quale ritiene che il tentativo di conciliazione possa essere instaurato dopo che la questione sul
canone è sorta.
2.2. Competenza e rito.
Si è già osservato come nel sistema della l. n. 392/1978 i problemi più rilevanti sorgano con
riferimento alla previsione del rito speciale del lavoro per alcune soltanto delle controversie inerenti
al rapporto di locazione cui si accompagnano ipotesi di competenza per materia (16).
Pur rinviando agli studi in materia (17), è opportuno riassumere brevemente i risultati cui è
pervenuta la dottrina in ordine: alla individuazione della nozione di rito, alle conseguenze
dell’errore sul rito, all’intreccio tra questioni di rito e questioni di competenza (18):
a) il rito non è un requisito di validità della domanda giudiziale e l’errore sul rito “non
determina la conclusione del processo con un provvedimento di rigetto per motivi di mera forma,
ma è solo causa di rilievo d’ufficio e di un provvedimento ordinatorio di mutamento di rito allo
scopo di consentire che il processo, anche se iniziato con rito erroneo, si concluda secondo il rito
prescritto con una sentenza di merito che decida chi ha ragione e chi ha torto”;
b) le questioni di rito sono rilevabili d’ufficio dal giudice sia in primo grado che in appello; gli
atti posti in essere secondo le regole di un rito errato non sono affetti da nullità e possono essere
utilizzati nel prosieguo del procedimento purché non incompatibili col rito esatto;
c) le questioni di rito sono risolte dal giudice con provvedimento avente forma di ordinanza,
inidoneo quindi a pregiudicare la risoluzione della controversia e soggetto al regime di stabilità di
cui all’art. 177 c.p.c.;
d) le norme sul rito, a differenza delle norme sulla competenza, “sono norme sul procedimento e
come tali possono (anche se non necessariamente) per definizione condizionare il contenuto della
decisione di merito”; tali norme devono essere rispettate al momento della decisione di merito e
pertanto (e come indicano l’assenza di un regime di preclusioni sulla rilevabilità della questione e la
normale revocabilità dell’ordinanza di mutamento di rito) il rito deve essere “individuato anche
sulla base della qualificazione giuridica dell’oggetto della controversia così come emerge al termine
dell’istruzione”;
e) il controllo da parte del giudice sulla scelta del rito deve essere effettuato in limine litis sulla
base degli atti e ad istruzione esaurita sulla base della valutazione globale delle risultanze
dell’istruttoria;
f) quando le questioni di competenza e di rito dipendono dai medesimi presupposti, dato il
diverso regime di preclusione cui sottoposto il rilievo di tali questioni, possono darsi i seguenti casi:
fa) se al momento del rilievo dell’erroneità del rito la questione di competenza non è preclusa, il
giudice che a seguito di mutamento di rito divenga incompetente deve, secondo la giurisprudenza
con sentenza impugnabile con regolamento ex art. 42 c.p.c. (secondo parte della dottrina con
ordinanza non impugnabile con regolamento), dichiarare la propria incompetenza, rimettere le parti
al giudice competente e fissare un termine per la riassunzione col rito prescritto; fb) se la questione
di competenza è preclusa, il giudice deve disporre il mutamento di rito con ordinanza
“indipendentemente da qualsiasi indagine in ordine al se, senza la intervenuta preclusione sulla
competenza, sarebbe stato competente ad applicare il rito speciale in quel grado di giudizio”.
2.3. Cause connesse soggette a riti differenti.
Il problema del cumulo nello stesso processo di domande soggette a riti diversi – già sorto con
riferimento alla connessione tra cause civili e cause commerciali e tra cause soggette al rito del
lavoro e cause soggette a rito ordinario – si è posto in tutta la sua gravità dopo l’entrata in vigore
della l. n. 392/78 (19).
Tale problema si presenta come duplice, articolandosi nelle due questioni: a) se, rientrando le
cause connesse nella competenza del pretore, la differenza di rito sia di ostacolo alla trattazione
simultanea; b) se, rientrando le cause connesse l’una – quella soggetta al rito ordinario – nella
competenza per valore del tribunale e l’altra – soggetta al rito speciale – nella competenza per
materia del pretore, possa farsi luogo al cumulo (e innanzi a quale giudice). È evidente che la
risposta alla seconda questione implica che la prima sia stata positivamente risolta. Ancora evidente
è che il problema si configura come più o meno grave a seconda del tipo di nesso che lega le cause
che si intendono cumulare. Infatti: A) qualora le cause siano connesse per identità di causa petendi
(es.: domanda di rilascio dell’immobile e domanda di risarcimento del danno per inadempienze
contrattuali; domanda di rilascio per finita locazione e domanda di ripetizione di somme corrisposte
oltre il canone legalmente determinato), le differenze di rito e di competenza non danno luogo a
difficoltà, ben potendo farsi luogo a separazione (20); B) qualora le cause siano legate da un nesso
di pregiudizialità dipendenza (es.: domanda di risoluzione del contratto per morosità e – previa
contestazione della morosità – domanda di determinazione del canone; domanda di rilascio
dell’immobile locato e domanda di determinazione dell’indennità di avviamento), le conseguenze
dell’impossibilità di realizzazione della trattazione simultanea sono assai più gravi, laddove si
ritenga che debba farsi luogo a sospensione necessaria della causa pregiudicata.
Poiché tormentatissimo tema della realizzabilità della trattazione unitaria di cause soggette
a riti differenti è stato oggi risolto positivamente dal legislatore (art. 40, comma 3°, 4°, 5° c.p.c.
in vigore dal 1 gennaio 1993 di modo che il relativo problema non si presenta per le cause di
nuova introduzione), appare superflua una sua specifica trattazione, limitandoci qui a ricordare
come la dottrina più attenta alle esigenze di effettività della tutela giurisdizionale avesse tentato
di enucleare – dagli artt. 416, 2° comma, 418 e 420, 9° comma c.p.c. richiamati dall’art. 46 l. n.
392/78 – un principio generale secondo cui, ove due cause soggette a riti diversi, ne sarebbe
possibile la simultaneità di trattazione nelle forme del rito speciale (21).
La seconda delle prospettate questioni si è posta soprattutto con riferimento all’ipotesi in
cui il conduttore, convenuto innanzi al tribunale competente per valore in un giudizio di
risoluzione del contratto per morosità, non si limiti ad eccepire che la morosità non sussiste ma
proponga domanda riconvenzionale di determinazione del canone. La giurisprudenza ritiene
ormai pacificamente che il “simultaneus processus” non può essere attuato, a ciò ostando le
norme sulla competenza – “essendo inutilizzabile il criterio dell’accessorietà di cui all’art. 31
c.p.c., sia per la maggiore importanza della domanda di risoluzione (incidente sull’intero
rapporto) rispetto a quella di determinazione del canone (attinente ad una sola delle prestazioni
corrispettive), sia per la non configurabilità di un tale criterio nel caso in cui detta
determinazione sia richiesta in via riconvenzionale” (Cass., n. 5484/1983) –, e che deve farsi
luogo a sospensione ex art. 295 c.p.c. della causa dipendente di risoluzione del contratto (v.
Cass., 9 ottobre 1980, n. 5411 in FI, 1981, I, 433; Cass., SU, 11 febbraio 1982, n. 839, id.,
1982, I, 1955; Cass., 14 aprile 1983, n. 2622 in Giur. it., 1985, I, 1, 1128; 23 agosto 1983, n.
5484; 6 ottobre 1988, n. 5373 in Arch. loc., 1989, 293; 7 maggio 1988, n. 3387 e altre) (22).
Tale soluzione è stata contrastata da una parte della dottrina (23) affermandosi la
possibilità della trattazione simultanea innanzi al giudice inferiore, competente per materia
sulla causa pregiudiziale, sulla base di una lettura correttiva dell’art. 34 c.p.c. alla luce del
disposto dell’art. 31, 2° comma c.p.c. fondata “sulla strutturale identità quanto meno fra alcune
ipotesi di accessorietà e pregiudizialità, e sull’art. 107, 3° comma Cost.” (oltre che sulla base
della ritenuta vis actractiva del rito speciale) (24); ove questa soluzione non si ritenesse
accoglibile si è affermato che “non resterebbe … che interpretare l’art. 34 alla luce del canone
ermeneutico fondamentale della effettività della tutela giurisdizionale …, e conseguentemente
ritenere che ove una domanda (proposta in via riconvenzionale o ex art. 34 c.p.c.) comporti un
accertamento che si pone come pregiudiziale rispetto alla domanda principale e non possa
essere trattata simultaneamente a questa per motivi di competenza (o di giurisdizione) o di rito,
in tal caso …le questioni che stanno alla base della domanda riconvenzionale dovranno pur
sempre essere conosciute, ma solo incidenter tantum, dal giudice della domanda originaria,
garantendo così in modo pieno il diritto di difesa del convenuto senza pregiudicare l’effettività
del diritto d’azione dell’attore…” (25).
3. Cause introdotte dopo il 1° gennaio 1993. L’entrata in vigore dei commi 3°, 4°, 5° dell’art. 40
c.p.c..
I commi 3°, 4° e 5° dell’art. 40 c.p.c., introdotti dalla l. n. 353/1990, risolvono il problema della
trattazione simultanea di cause connesse soggette a riti differenti, individuando in quali ipotesi è possibile
la trattazione simultanea e quali sono i criteri in base ai quali stabilire il rito applicabile. Niente dice la
norma sulla realizzazione del simultaneus processus allorquando le cause appartengano alla competenza
di giudici diversi e deve ritenersi che la sua applicazione presupponga risolto l’altro problema della
competenza (originaria o prorogata ex art. 31 ss. c.p.c.) del giudice innanzi al quale il cumulo si realizzi
ab origine o a seguito di riunione (ex artt. 39, 40, 1° comma, 274, 274 bis c.p.c.).
Per quanto concerne le ipotesi di connessione in cui è possibile la trattazione simultanea, l’art. 40, 3°
comma richiama espressamente solo “i casi previsti dagli artt. 31, 32, 34, 35 e 36” (26), esclusi i casi
previsiti dall’art. 33 in tema di cumulo soggettivo (27).
I criteri tramite cui risolvere i conflitti tra riti di domande connesse sono schematicamente i seguenti:
a) nel conflitto tra rito ordinario e rito speciale prevale il rito ordinario, salvo che la domanda soggetta a
rito speciale non rientri tra quelle di cui agli artt. 409 e 442 nel qual caso prevale il rito del lavoro; b) nel
conflitto tra rito speciale del lavoro in senso stretto e altro rito speciale prevale il primo, in forza
“dell’argomento a fortiori agevolmente desumibile dal nuovo testo del terzo comma dell’art. 40” (28); c)
nel conflitto tra rito speciale del lavoro in senso lato (fuori dai casi di cui agli artt. 409 e 442 c.p.c.) e altro
rito speciale, se le cause sono soggette alla competenza di giudici diversi prevale il rito relativo alla
domanda “in ragione della quale viene determinata la competenza”, se le cause sono soggette alla
competenza dello stesso giudice prevale il rito previsto per la causa di maggior valore (29).
Secondo alcuni Autori il criterio della prevalenza del rito speciale della causa in ragione della
quale viene determinata la competenza trova applicazione anche quando le cause appartengono fin
dall’origine alla competenza dello stesso giudice, dovendo in tal caso farsi riferimento al rito della
causa che astrattamente attratto l’altra causa (30).
Il 5° comma dell’art. 40 rinvia per il mutamento di rito alle regole dettate per il processo del
lavoro, artt. 426, 427, 439 (31).
3.1. Effetti della nuova disciplina sulle controversie in materia di locazione.
Come già si è osservato, la disciplina dettata all’art. 40, 3°, 4°, 5° comma trova applicazione per
le cause introdotte a partire dal 1 gennaio 1993, col che – almeno per queste ultime – potrebbero
ritenersi risolte le questioni in tema di trattazione simultanea di cause soggette a riti differenti
permanendo il problema del cumulo tra cause attribuite alla competenza di giudici diversi.
Peraltro, l’entrata in vigore della nuova disciplina su connessione e rito indipendentemente dalle
norme su competenza e rito in materia di locazione (art. 8 n. 3 e 447 bis) rischia di creare un effetto
perverso e sicuramente contrario all’intento perseguito dal legislatore. Infatti, la novella del 1990
aveva previsto la competenza per materia del pretore e il rito del lavoro per tutte le controversie in
materia di locazione, comodato di immobili urbani e affitto di azienda (32) e, se il corpus normativo
fosse entrato unitariamente in vigore, l’art. 40, 3°, 4° e 5° comma avrebbe giocato un ruolo affatto
residuale con riferimento al settore che qui interessa, nel senso che non avrebbe mai potuto porsi un
problema di rito tra cause di locazione ma solo nelle rare ipotesi di cumulo tra una causa di
locazione e una causa fuoriuscente da detta materia (es.: domanda di pagamento canoni e eccezione
in compensazione di un credito fondato su un titolo diverso da quello su cui si fonda il credito
principale). Solo in queste ultime ipotesi, dunque, il rito speciale sarebbe stato derogato in favore
del rito ordinario, restando nella quasi totalità dei casi a regolare il procedimento delle controversie
locatizie. La discrasia nell’entrata in vigore dell’art. 40, 3°, 4° e 5° comma da un lato e degli artt. 8 e
447 bis dall’altro rischia di provocare l’effetto opposto: essendo tutt’oggi numerose le ipotesi di
controversie locatizie soggette a rito ordinario (v. supra sub 2), ogniqualvolta risultano cumulate
una di tali cause e una di quelle di cui agli artt. 43 e 45 l. n. 392/78 il rito da applicare è quello
ordinario in deroga a quello speciale (33).
Tenuto conto di quello che era l‘intento perseguito dal legislatore e del fatto che il meccanismo
che si è appena descritto è il frutto più che di una scelta ragionata di un irrazionale frazionamento
della riforma, appare lecito tentare una interpretazione che, ampliando al massimo l’attuale
competenza per materia del pretore, riduca conseguentemente l’ambito di applicazione dell’art. 40
(34). Si tratta del resto di ripercorrere una strada già battuta, cogliendo e valorizzando gli spunti già
fortemente presenti nella giurisprudenza e indirizzati nel senso di offrire una definizione ampia di
controversia sul canone, quale comprendente anche gli antecedenti logici necessari (ad es. esistenza
e validità del contratto) e i vari effetti del rapporto complesso (v. supra sub 2.1.).
3.2. La nozione di rito speciale.
In ordine ai rapporti tra rito lavoro e rito locatizio (cioè quel rito speciale disciplinato mediante
richiamo di singole disposizioni sul rito del lavoro ma in modo da dar luogo ad un rinvio pressoché
globale) si è negato in dottrina che la controversia locatizia possa considerarsi diversa dal rito del
lavoro in senso stretto, potendo parlarsi di rito speciale “solo nei casi di vera e propria autonomia
del corpo normativo destinato a disciplinare il singolo processo, e non invece dove, accanto a una
serie di disposizioni speciali, vi sia poi un rinvio residuale alle norme del modello originario, oppure
ancora vi sia un rinvio nella sostanza “globale” ancorché concepito come selettivo rispetto ad un
modello originario chiaramente identificato” (35). Le conseguenze dell’esclusione del caso in esame
dalla fattispecie del concorso di riti diversi sarebbero da un lato la realizzabilità del cumulo
indipendentemente dalla tipologia della connessione, dall’altro lato una possibilità di convivenza
dei due modelli, per cui potrebbe “affermarsi, anziché la prevalenza tout court del rito della causa di
lavoro, la possibilità che all’interno del medesimo processo e nella convivenza dei due modelli
contigui, si assicuri …il rispetto di quelle norme che attengono al piano della tutela” (36).
3.3. Problemi di costituzionalità.
Viene prospettata in dottrina “l’illegittimità della norma” in esame “per l’irragionevole
discriminazione tra le cause di lavoro e previdenziali (che, in funzione della rilevanza degli interessi
ad essi sottesi, sono state sottoposte al rito speciale), e le altre cause che, per un’analoga valutazione
di interessi, il legislatore ha assoggettato al medesimo rito del lavoro o ad un rito affine, e per le
quali viceversa prevarrebbe, in caso di connessione, il rito ordinario” (37). In merito si osser-va
come un tale dubbio può risultare fondato solo laddove la specialità del rito risponda a specifiche e
particolari esigenze di tutela delle situazioni sostanziali tutelate mediante quelle forme e non anche
laddove si sia solo inteso perseguire un obbiettivo di efficienza dell’amministrazione della giustizia
in un determinato settore di controversie (come nel caso di specie sembrerebbe). Si aggiunga che,
una volta entrata in vigore per l’intero la riforma, la deroga al rito speciale locatizio dovrebbe
configurarsi come ipotesi del tutto residuale e che tale deroga avverrebbe in favore del rito
ordinario, così come razionalizzato dal legislatore del 1990.
4. Cause introdotte dopo le cause pendenti alla data dell’entrata in vigore integrale della l. n.
353/1990. In particolare: l’entrata in vigore dell’art. 447 bis c.p.c..
L’entrata in vigore dell’art. 447 bis c.p.c., che prevede l’applicazione di un unico rito speciale
ricalcato pressoché interamente sul rito speciale del lavoro per tutte le controversie di cui all’art. 8,
2° comma n. 3 (locazione, comodato, affitto), porrà definitivamente fine alle questioni di rito,
venendo meno anche i problemi che l’art. 40 c.p.c. pone nella fase transitoria (o di transizione).
Quella disposizione trova infatti applicazione anche nei giudizi pendenti “previa ordinanza di
mutamento di rito ai sensi dell’art. 426” (art. 90, 7° comma l. n. 353/90 e succ. mod.), mentre il
cumulo tra le cause pendenti al 1-1-1993, e che non fossero definite, potrà essere attuato attraverso
la riunione.
4.1. Il problema del cumulo di più domande attribuite alla competenza di giudici diversi.
L’unica ipotesi problematica resta quella della connessione tra una controversia locatizia,
attribuita pertanto alla competenza per materia del pretore, e una controversia rientrante secondo il
criterio del valore nella competenza del tribunale. Quanto si è detto sull’estensione della
competenza pretorile (ricomprendente tutta la materia delle locazioni, del comodato, dell’affitto)
indica come la questione sarà molto meno grave, dopo l’entrata in vigore degli artt. 8 e 447 bis
c.p.c., di quanto non lo sia oggi, trovando soluzione i casi che più frequentemente si sono presentati
nella pratica (riconvenzionale di equo canone nel giudizio di risoluzione del contratto per morosità;
domanda di determinazione dell’indennità di avviamento nel giudizio di risoluzione del contratto).
Sulla risoluzione della anzidetta questione un’influenza decisiva sarà esercitata dalle conseguenze
che dottrina e giurisprudenza ritrarranno in ordine alla modificazione della competenza per ragioni
di connessione dalla nuova disciplina sul rilievo dell’incompetenza di cui all’art. 38, 1° comma.
Tale disposizione prevede che “l’incompetenza per materia, quella per valore e quella per
territorio nei casi previsti nell’art. 28, sono rilevate, anche d’ufficio, non oltre la prima udienza di
trattazione”, così assimilando la disciplina della competenza per valore a quella della competenza
per materia e per territorio inderogabile. Sulla base di tale assimilazione – la quale scardina le
fondamenta della lettura tradizionale degli artt. 31 ss. (38) – si è giustamente osservato che “ove si
vadano oggi a rileggere gli artt. 31 ss. alla luce del nuovo testo dell’art. 38, 1° comma …ne dovrebbe
discendere in modo piano la seguente conseguenza: ogni qual volta il legislatore prevede la deroga alla
competenza per valore, è da dedurne la derogabilità anche della competenza per materia e per territorio
inderogabile sulla base dell’argomento a simili, nonché della competenza per territorio derogabile sulla
base dell’argomento a fortiori. Ne segue che nelle ipotesi di connessione previste dagli artt. 31, 32, 34, 35
e 36 (cioè in tutte le ipotesi di domande connesse tra le stesse parti o tra parti diverse per ragioni di
pregiudizialità-dipendenza) la simultaneità di trattazione sarebbe sempre possibile ove le due domande
pendano nello stesso grado di giudizio” (39).
Quanto al giudice davanti al quale realizzare la simultaneità di trattazione, lo stesso per quanto qui
interessa andrà individuato: a) “nel giudice ‘inferiore’ competente per materia sulla domanda principale o
pregiudiziale ove la domanda accessoria o dipendente rientri nella competenza per valore del giudice
superiore e sia proposta ab initio dall’attore cumulativamente alla domanda principale o pregiudiziale: e
ciò in forza della regola emergente dall’art. 31”; b) nel giudice originariamente adito ove la domanda
originaria sia la domanda pregiudiziale o principale e nel corso del processo sia proposta (in via
riconvenzionale o di chiamata in garanzia) domanda dipendente: e ciò in forza di quanto è da desumere
dagli art. 31 e soprattutto 32”; c) “nel giudice ‘superiore’ competente per valore o per materia sulla causa
dipendente, ove la domanda originaria sia la domanda dipendente e nel corso del processo sia proposta
(in via riconvenzionale di accertamento ex art. 34 o di eccezione in compensazione di controcredito che
sia contestato) domanda pregiudiziale che rientri nella competenza per materia o per valore del giudice
inferiore: e ciò in forza di quanto si desume implicitamente dall’art. 34 (e 35, 36) che prevede solo
spostamenti a favore del giudice superiore e non verso il giudice inferiore…” (40).
Seguendo tale interpretazione anche quell’ultimo problema può trovare infine soluzione.
5. Il mutamento di rito nel procedimento per convalida di sfratto.
Trattando delle questioni di rito nelle controversie in materia di locazione un ultimo cenno merita
l’art. 667 c.p.c. nel testo sostituito dalla l. n. 353/90 (non ancora in vigore), secondo cui “Pronunciati i
provvedimenti previsti dagli articoli 665 e 666, il giudizio prosegue nelle forme del rito speciale, previa
ordinanza di mutamento di rito ai sensi dell’art. 426”, previsione che si è resa necessaria a seguito delle
modifiche introdotte dagli artt. 8 e 447 bis in tema di competenza e rito (41). Dal richiamo di cui all’art.
426, 1° comma “si desume senza alcuna possibilità di dubbio che alla notificazione della intimazione e
della citazione ex art. 657 ss. non segue una fase preparatoria soggetta alle preclusioni di cui agli artt. 167
e 183: la fase preparatoria del giudizio a cognizione piena si perfezionerà solo a seguito dell’ordinanza di
mutamento di rito prima tramite l’integrazione degli atti introduttivi (integrazione del tutto libera, giacché
nessuna decadenza è ricollegata alla fase speciale della convalida) e poi nel corso della udienza di cui
all’art. 420” (42).
In particolare non sembra che possano estendersi al mutamento di rito in esame le conclusioni cui
erano pervenute dottrina e giurisprudenza per l’ipotesi prevista dall’art. 426 c.p.c., di causa di lavoro
introdotta con rito ordinario innanzi al pretore territorialmente competente a conoscerla; si affermava,
infatti, che qualora si fossero verificate delle preclusioni secondo le regole del rito erroneamente adottato
– nella specie quello ordinario –, queste dovevano permanere a seguito del mutamento di rito (43).
Tale soluzione non appare riproponibile con riferimento all’art. 667, sia perché – come già rilevato –
non epressamente prevista alcuna decadenza ricollegata alla fase della convalida, sia perché non paiono
estensibili le preclusioni di cui all’art. 167 c.p.c. (preclusioni collegate alla costituzione in giudizio
mediante comparsa di risposta, cioè un atto della difesa tecnica) con riferimento ad una udienza per la
quale l’ordinamento consente al convenuto di comparire e difendersi personalmente.
(1) L’espressione è di PROTO PISANI, Le controversie in materia di locazione, in ANDRIOLI,
BARONE, PROTO PISANI, PEZZANO, Le controversie in materia di lavoro, Bologna-Roma,
1987, 183.
(2) Sul tema, v. PROTO PISANI o.u.c., 183 ss; ID., Rapporti fra competenza, rito e merito
nella legge n. 392 del 1978 (e nel rito speciale del lavoro, in FI, 1981, V. 185 ss.; COSTANTINO,
Controversie in materia di locazione di immobili urbani, voce del N. ss. Dig. It., App., Torino,
1981, 759 ss.; TARZIA, Sulla tutela giurisdizionale nelle locazioni urbane, in Riv. Trim. Dir. Proc.
Civ. 1979, 102 ss.; SALETTI, in Equo canone. Commentario a cura di BIANCA, IRTI, LIPARI,
PROTO PISANI, TARZIA, Padova, 1980, 529 ss.; GUARINO S., Aspetti processuali della nuova
disciplina delle locazioni di immobili urbani, in Riv. trim. dir. proc. civ.; GARBAGNATI, I
procedimenti d’inquinazione e per convalida di sfratto, Milano, 1979, 291 ss.; CEA, I procedimenti
locativi, in FI, 1985, V, 353 ss.
(3) PROTO PISANI, La nuova disciplina del processo civile, Napoli, 1991, 3; sul tema v.
TARZIA, Lineamenti del nuovo processo di cognizione, Milano, 1991, 18; LUISO, in CONSOLO,
LUISO, SASSANI, La riforma del processo civile, Milano, 1991, sub artt. 3, 5, 70; NELA, in Le
riforme del processo civile a cura di CHIARLONI, 48 ss.; GIANCOTTI, ibidem, 568 ss.;
CARBONE, in Corriere giur., 1991, 1, 85 ss.; ATTARDI, Le nuove disposizioni sul processo
civile, Padova, 1991, 219 ss.
(4) Detti problemi riguardavano essenzialmente: a) l’individuazione delle controversie soggette
a rito speciale; b) la possibilità di realizzazione del cumulo tra cause soggette a riti differenti; c) la
possibilità di realizzazione del cumulo tra cause soggette a riti differenti e attribuite l’una alla
competenza per valore del tribunale e l’altra alla competenza per materia del pretore; per
un’illustrazione dei medesimi, oltre agli A. cit. alla nota precedente, v. infra.
(5) V.PROTO PISANI, Le controversie in materia di locazione, cit., 189 ss.; TARZIA, in Equo
canone. Commentario, cit., 495 ss.
(6) Cfr. PROTO PISANI, Le controversie, cit., 189-190.
(7) Sul tema v. MENCHINI, Il giudicato civile, Torino, 1988, 43 ss., spec. 55 ss. ed ivi ult. rif.
di dottor. e giur.; ID., I limiti oggettivi del giudicato, Milano, 1987, 59 ss., spec. 87 ss.; tale A.così
tratteggia la distinzione tra ‘pregiudizialità logica’ e ‘pregiudizialità tecnica’: “punto di partenza è il
riconoscimento di una differenza, sul piano strutturale, tra il nesso che collega il rapporto complesso
ai suoi singoli effetti (c.d. pregiudizialità logica) e quello riscontrabile nei casi di incompatibilità
oppure di dipendenza tra rapporti giuridici distinti (c.d. pregiudizialità tecnica). In particolare,
mentre nella pregiudizialità tecnica vengono in considerazione più rapporti giuridici eterogenei,
giacché l’effetto che rappresenta un elemento della fattispecie del diritto controverso trova origine
da un rapporto distinto rispetto a quello costitutivo di questo …, nella pregiudizialità logica si è in
presenza di un nesso tra un rapporto ed un suo effetto, ossia di una relazione tra la parte ed il tutto,
esprimendo il rapporto fondamentale l’aggregato, il complesso dei diritti da esso nascenti; si ha cioè
un collegamento tra entità omogenee, l’una delle quali è mera irradiazione dell’altra…”; sul tema v.
anche PROTO PISANI, Appunti sul giudicato civile e sui suoi limiti oggettivi, in Riv. Dir. Proc.,
1990, 386 ss., spec. 393 ss.
(8) Cfr. PROTO PISANI, o.u.c., 395 ss.
(9) Risolto nel modo di cui nel testo il problema della competenza, discende che il rito applicabile è
sempre quello speciale cfr. ANDRIOLI, in ANDRIOLI, BARONE, PEZZANO, PROTO PISANI,Le
controversie in materia di lavoro, Bologna-Roma, 1ª edizione, 1974, 153 ss: constatata la tendenziale
inconciliabilità tra rito ordinario e rito speciale osservava l’illustre A.: “a proposito dell’accessorietà è da
ricordare il contrasto tra chi ritiene sufficiente il nesso logico di dipendenza e finisce con il confonderlo
con la pregiudizialità, e chi stima migliore il partito di affiancare all’or ricordato nesso logico
l’accessorietà sostanziale tra le due domande (ANDRIOLI, Commento, I, sub art. 31). Se viene accettata
la tesi più rigorosa, la connessione per l’oggetto o per il titolo comporta la inserzione della domanda
principale ed accessoria nello stesso rapporto e, pertanto, l’assoggettamento dell’una e dell’altra allo
stesso rito, ma, se si segue la tesi meno rigorosa, l’inammissibilità della trattazione simultanea si verifica
le quante volte l’unico collegamento tra le due domande è dato dal nesso logico”. Nella sentenza citata
nel testo, il Pretore di Monza precisa, peraltro, “che la ricomprensione nella competenza per materia
secondo il rito speciale di cui all’art. 46 delle controversie in ordine alla soggezione del contratto all’equo
canone sussiste se ed in quanto le relative domande vengono proposte congiuntamente alla domanda
volta a sollecitare l’inserzione nel contratto del canone di legge. Così, ad es., se il conduttore è interessato
solo a che si accerti che il contratto apparentemente stipulato per soddisfare esigenze abitative transitorie
ex art. 26, lett. a), dissimula in realtà un contratto destinato a soddisfare esigenze abitative primarie, dovrà
proporre le domande secondo il rito ordinario.
(10) Cfr. PIOMBO, n. a Cass., n. 8499/92, in FI, 1993, 123.
(11) PAPARO-PROTO PISANI, in Equo canone. Commentario, cit., 595 n. 27; v. anche
PROTO PISANI, Rapporti fra competenza, rito e merito, cit., 196, n. 50; COSTANTINO, o.c., 763,
secondo cui, introdotta con rito ordinario innanzi a giudice incompetente una delle cause soggette a
rito speciale, la riassunzione non deve essere preceduta dal tentativo di conciliazione.
(12) VERDE, Aspetti processuali della legge 27 luglio 1978, n. 382 (c.d. sull’equo canone), in
Rass. dir. Civ., 1980, 135.
(13) CEA, Tentativo obbligatorio di conciliazione e domanda riconvenzionale di ‘equo canone’
proposta in sede di opposizione a decreto ingiuntivo, in FI, 1987, I, 978.
(14) L’argomento è presente nella rel. min. ex art. 83 l. n. 392/78: “il sussistere di una lite
giudiziaria in atto, nella quale le parti si sono già impegnate, farebbe ritenere la frustraneità di un
formale tentativo di conciliazione, che, fra l’altro, produrrebbe il negativo effetto di un inutile
ritardo nella definizione del processo; resterebbe salvo, comunque, il tentativo di conciliazione che
il giudice è sempre chiamato ad esperire ai sensi degli artt. 420 e 185 c.p.c.”.
(15) TARZIA, Sulla tutela, cit., 116.
(16) Su questi temi, v. PROTO PISANI, oo.cc.; ID., Questioni di rito, in ANDRIOLI,
BARONE, PEZZANO, PROTO PISANI, Le controversie, cit., 348 ss.; ID., Sulla tutela
giurisdizionale differenziata, in Riv. Dir. Proc., 1979, 536 ss; COSTANTINO, o.c.; VERDEOLIVIERI, Le questioni di rito e di competenza, in Le locazioni di fronte al giudice, Milano, 1981.
(17) PROTO PISANI, oo.cc. e ivi ult. riferimenti.
(18) V. in particolare, PROTO PISANI, Questioni di rito, cit., 350.
(19) Per una “storia” del problema di cui nel testo, v. PROTO PISANI, Questioni, cit., 377 ss.;
ID., Sulla tutela giurisdizionale, cit., spec. 546 ss.
(20) PROTO PISANI, Rapporti tra competenza, cit., 188; ID., Questioni, cit., 382 ss.
(21) V. PROTO PISANI, oo.uu.cc.; v. anche TARZIA, Sulla tutela, cit.; LUISO, Procedimento
per convalida di sfratto ed esecutività delle pronunce secondo la legge 392/1978, in Giust. civ.,
1982, II, 71 ss., i quali deducono la possibilità della trattazione cumulativa con rito speciale dagli
artt. 659 e 667, 3° comma c.p.c.
(22) V. però anche Cass., 12 aprile 86, n. 2809; 13 luglio 1992, n. 8495 (in Rass. loc., 1993,
142) in cui si afferma – in motivazione – che “l’accertamento del canone dovuto alla stregua della
legge n. 392 del 1978 appartiene al giudice competente secondo i criteri di valore stabiliti dal codice
di rito per la domanda di risoluzione del contratto di locazione per morosità, allorché siffatto
accertamento non formi oggetto di specifica domanda proposta in via principale o riconvenzionale,
potendo la questione relativa all’ammontare del canone essere conosciuta e risolta, in via puramente
mediata e strumentale, dal giudice competente per la domanda di risoluzione del contratto”.
(23) PROTO PISANI, Questioni di rito, cit., 386; ID, Sulla tutela, cit., 564; CONSOLO, n. a
Cassazione, n. 839/82 in Giur. it., 1983, I, 1, 637.
(24) PROTO PISANI, o.u.c., 387.
(25) PROTO PISANI, o.u.c., 387-388.
(26) È diffusa in dottrina l’affermazione secondo cui il legislatore avrebbe recepito la
distinzione dottrinale tra connessione ‘per coordinazione’ e connessione ‘per subordinazione’ – v.
NELA, in Le riforme del processo civile cit. sub art. 40, 56; LUISO, La riforma del processo civile,
cit., 23; MERLIN, Le innovazioni in tema di connessione di cause nelle leggi 353/1990 e 374/1991,
relazione all’incontro di studio C.S.M Frascati 28-6/2-7-1993; TARZIA, Lineamenti, cit. 33, al
quale A. si deve in particolare la relativa elaborazione (Connessione di cause e processo simultaneo,
in Riv. trim. dir. proc. civ., 1988, 427 ss.; v. anche FABBRINI, Connessione, in Scritti giuridici,
Milano, 1989, I) –; peraltro, come osserva PROTO PISANI, La nuova disciplina, cit., 32-33, i casi
di cui agli artt. 31, 32, 34, 35, 36 sono per un verso più ampi della connessione per pregiudizialità
(ricomprendendo il fenomeno della compensazione ed essendosi effettuato un richiamo non
discretivo all’art. 36, quindi comprensivo anche della riconvenzionale compatibile) per altro verso
più ristretti “ove la giurisprudenza continui ad escludere dall’art. 32 il fenomeno della garanzia
impropria); v. anche le osservazioni di MERLIN, cit.
(27) È problematico se il rinvio operato dalla norma sia tassativo o solo indicativo; v. NELA,
o.c., 56-57; PROTO PISANI, o.u.c., 33, il quale rileva come l’esclusione dell’art. 33 non ponga
particolari problemi, in quanto, nel caso di domande connesse per mera identità di titolo, potrà farsi
luogo a separazione; nel caso di litisconsorzio c.d. unitario, le cause poiché inerenti ad un unico
rapporto saranno di regola soggette al medesimo rito; MERLIN, o.c., 14 ss., la quale – rilevato che
le definizioni di connessione di cui agli artt. 31 ss. presuppongono il cumulo ab initio mentre la
norma in esame si applica anche in ipotesi di cumulo successivo, che vi sono ipotesi di domande
contrapposte incompatibili o interdipendenti che non rientrano nel concetto di riconvenzione e
pongono un problema di pronunce inconciliabili, che nell’ambito del litisconsorzio facoltativo
ricorrono casi in cui emerge l’esigenza di coordinamento tra le discipline sostanziali dei rapporti –
propone di interpretare “i richiami (agli artt. 31-32-34-35-36) in senso non letterale e tassativo, e
così facendo applicazione delle nuove norme in tutti i casi in cui il processo simultaneo risulti
opportuno per la presenza di una obiettiva esigenza di coordinamento dei rapporti sul piano
sostanziale, che renda non meramente teorica o logica la inconciliabilità delle pronunce. …Punto di
riferimento logico e funzionale di siffatta interpretazione potrebbe essere dato dalla nozione di
connessione che positivamente fornisce la Convenzione di Bruxelles del 1968 al fine di consentire
la riunione delle cause: assai pragmaticamente infatti l’art. 22 della Convenzione definisce come
connesse “le cause aventi tra loro un legame così stretto da rendere opportuna una trattazione e
decisioni uniche per evitare soluzioni tra di loro incompatibili ove le cause fossero trattate
separatamente”.
(28) PROTO PISANI, o.u.c.; 34.
(29) Cfr. PROTO PISANI, o.u.c.; 35; ritengono che il criterio della causa di maggior valore
operi sempre quando le cause sono di competenza dello stesso giudice: COSTANTINO, Appunti
sulle proposte di riforma urgente del processo civile, in Doc. giust., 1988, X, 22 ss.; ATTARDI, Le
nuove disposizioni sul processo civile, Padova, 1991, 26-27.
(30) TARZIA, o.u.c., 39; MERLIN, o.c. 34 ss., la quale specifica che il criterio della
“prevalenza astratta e potenziale” – che implica debba farsi riferimento alla vis actractiva della
causa in senso astratto cioè indipendentemente dal fatto che si esplichi in concreto – trova
applicazione nel caso in cui la forza attrattiva operi a senso unico nel senso che solo una delle cause
può esplicarla (artt. 31 e 32) e non negli altri casi di connessione in cui si ha una potenzialità
attrattiva a doppio senso.
(31) V. PROTO PISANI, Questioni di rito, cit..
(32) Di modo che problemi residuano solo riguardo all’esclusione dalla soggezione alla
competenza per materia del pretore e al rito lavoro delle azioni di rilascio per occupazione senza
titolo e all’individuazione della nozione di immobile urbano; cfr. PROTO PISANI, La nuova
disciplina, cit., 3.
(33) Sul tema v. MIRENDA, Connessione e rito nelle controversie locative, dopo la novella
dell’art. 40, comma 3 c.p.c.: addio al rito speciale, in Arch. loc., 1994, 218 ss., il quale osserva: “è
solare la contraddittorietà degli effetti prodotti dall’infelice scelta di anticipare la vigenza e dell’art.
40 c.p.c.: da un lato viene tradita la ratio propulsiva e promozionale che sta alla base della
applicabilità del rito speciale alla delicata materia della
determinazione/aggiornamento/adeguamento del canone ex art. 43 della l. n. 392/78 (la cui
‘strategicità’ – nel quadro della legge citata – è palese, sol che si pensi, ad es., agli importanti effetti
sostanziali nel rapporto negoziale fra locatore e conduttore che l’art. 45 u.c., riconosce alla mera
pendenza del giudizio); dall’altro …ci si muove in direzione diametralmente opposta a quella
percorsa dalla riforma”. (221).
(34) Nello stesso senso, MIRENDA, o.c., 221-222, il quale prende atto che “nell’art. 43 la
competenza per materia del pretore …viene espressamente confinata nell’ambito dell’azione di
mero accertamento delle componenti del canone”, e, con riferimento alle materie di cui all’art. 45
afferma: “che ogni qualvolta la causa petendi sia riconducibile ad una delle materie ivi elencate,
ricorre … la competenza funzionale, con rito speciale, del pretore delle locazioni, non limitata al
mero accertamento di quelle situazioni sostanziali ma estesa, altresì, a tutte le pronunce connesse,
comprese le domande di condanna”.
(35) MERLIN, o.c., 30-31.
(36) MERLIN, o.c., 31-32 che così esemplifica: “per la causa locatizia cumulata con la causa di
lavoro la disciplina dell’esecutorietà della sentenza dovrebbe comunque ritrovarsi nell’art. 447 bis
ult. comma, e non nell’art. 431”.
(37) TARZIA, Lineamenti, cit., 36; v. VERDE, in VERDE DI NANNI, Codice di procedura
civile. Legge 26 novembre 1990, n. 353, Torino, 1991, il quale in generale pone il dubbio se sia
ragionevole far dipendere la scelta del rito (le norme relative al quale in quanto norme sul
procedimento possono condizionare la decisione di merito) da vicende “occasionali ed estrinseche”
di connessione, pur ritenendo che solo una visione eccessivamente garantistica potrebbe far
propendere per l’incostituzionalità.
(38) Tale lettura “era nel senso che la previsione della deroga alla competenza per valore
comportasse a fortiori l’ammissibilità della deroga alla competenza per territorio derogabile
(assoggettata dall’art. 38 ad una disciplina più blanda), e a contrariis l’inammissibilità della deroga
alla competenza per materia e per territorio inderogabile (assoggettate dal testo originario del primo
comma dell’art. 38 ad una disciplina più forte di quella della competenza per valore)” (così PROTO
PISANI, La nuova disciplina, cit., 20-21.
(39) PROTO PISANI, o.u.c., 21.
(40) PROTO PISANI, o.u.c., 22.
(41) Per i casi in cui il procedimento si applica a controversie che non rientrano tra quelle di cui
all’art. 8 n. 3 c.p.c. (locazioni di immobili non urbani e controversie attribuite alla competenza delle
sezioni specializzate agrarie) v. PROTO PISANI, o.u.c., 12; NELA, in Le riforme del processo
civile, cit., sub art. 667, 602.
(42) PROTO PISANI, o.u.c., 11-12.
(43) Cfr. PROTO PISANI, Questioni di rito, cit., 374; FABBRINI, Diritto processuale del
lavoro, 1974, 51, 55, il quale formula l’ipotesi di preclusione della domanda
riconvenzionale, non espressa nella comparsa di risposta; TARZIA, Manuale del processo
del lavoro, Milano, 1980, 152; perquanto non esplicitata, deve ritenersi che tale
interpertazione sia valida per il caso in esame per LUISO, in CONSOLO, LUISO,
SASSANI, La riforma, cit., 417, il quale ritiene dubbio che l’opponente possa proporre, con
gli atti integrativi, domande riconvenzionali che dovrebbero essere proposte nell’udienza
fissata per la convalida (entrambe le parti potrebbero invece allegare nuovi fatti
(44) liberamente); nello stesso senso NELA, in Le riforme, cit., sub art. 667, 600 n. 6, secondo
cui “la presentazione di domande riconvenzioanli è consentita all’opponente nella comparsa
con cui egli si sia eventualmente costituito, ed è successivamente preclusa, ex art. 167 c.p.c.,
senza che la possibilità di integrare l’atto introduttivo si risolva in una vera e propria
sanatoria delle decadenze; l’A. dubita peraltro che tale soluzione sia valida anche per il caso
in cui il conduttore sia comparso personalmente all’udienza senza costituirsi.
LA SANATORIA DELLA MOROSITÀ
EX ART. 55 LEGGE 392/78
IN MATERIA DI LOCAZIONE
Relatore:
avv. Sergio PAPARO
avvocato del Foro di Firenze
SOMMARIO: 1. La sanatoria della morosità ex art. 55 legge 392/78 in relazione ai contratti aventi ad
oggetto gli immobili destinati ad uso non abitativo. – 2. La sanatoria della morosità ex art. 55 legge
393/78 in relazione all’ipotesi di contestazione parziale del canone (rapporto fra l’art. 55 legge
392/78 e l’art. 666 c.p.c.) ed alla possibilità di chiedere la sanatoria in via subordinata rispetto
all’opposizione proposta in via principale. – 3. La sanatoria della morosità ex art. 55 legge 393/78
nel rito ordinario. – 4. La sanatoria della morosità ex art. 55 legge 393/78 in caso di opposizione
tardiva (artt. 55 legge 392/78 e 668 c.p.c.). – 5. La condanna alle spese nel procedimento di
convalida di sfratto dopo il recente intervento della Suprema Corte (sentenza 5720/1994). – 6. Nella
locazione per esigenze abitative transitorie ex art. 26 lett. a) della legge 392/1978 le esigenze
oggettive del conduttore rilevano indipendentemente dalla conoscenza che di esse abbia il locatore?
1. La sanatoria della morosità ex art. 55 legge 392/78 in relazione ai contratti aventi ad oggetto gli
immobili destinati ad uso non abitativo.
La soluzione del quesito se l’art. 55 della legge 392/78 sia o meno applicabile alle locazioni
disciplinate dall’art. 27 della stessa (locazioni ad uso non abitativo) non è certamente agevolata
dall’evoluzione dell’interpretazione che della norma è stata proposta dalla giurisprudenza di
legittimità, soprattutto negli ultimi anni.
L’iniziale orientamento del Supremo Collegio fu assolutamente costante in senso affermativo.
La Corte infatti ebbe ad affermare più volte:
• che dai lavori preparatori era possibile ricavare la volontà del legislatore di rendere applicabile
gli artt. da 43 a 57 ad ogni locazione di immobili urbani, a prescindere dalla loro destinazione;
• che quella soluzione era l’unica rispondente alla “necessità di una interpretazione unitaria
della complessiva ratio legis”.
La massima ricavabile da quelle decisioni fu dunque nel senso che “le disposizioni dell’art. 55
primo comma della legge 392/78 in tema di sanatoria in sede giudiziale della morosità del
conduttore nel pagamento dei canoni o degli oneri accessori trovano applicazione, in mancanza di
espresse limitazioni risultanti dal dato normativo nonchè di qualsivoglia incompatibilità di ordine
logico, anche con riguardo alle locazioni di immobili adibiti ad uso diverso da quello abitativo”.
Successivamente le Sezioni Unite, con la sentenza 12210/1990, confermarono quel precedente
indirizzo con una decisione che, seppur riferita alla questione (risolta in senso negativo) se alle
locazioni non abitative sia applicabile la predeterminazione legale della gravità dell’inadempimento
di cui all’art. 5, ribadì incidentalmente l’inesistenza di qualunque nesso di interdipendenza fra l’art.
5 e l’art. 55 e dunque negò che il richiamo dell’art. 5 operato dal primo comma dell’art. 55 potesse
valere a condizionare (o, peggio, ad escludere) la piena operatività dell’istituto della sanatoria della
morosità anche per le locazioni non abitative.
Solo con la sentenza 2496/1992 il S.C. (Sezione Terza) mutò orientamento valorizzando, a
fondamento della sua decisione:
– il richiamo contenuto nell’art. 55 ai canoni ed agli oneri di cui all’art. 5 e dunque il
riferimento espresso ad una disposizione collocata nell’ambito delle locazioni abitative ed
espressamente esclusa, dall’art. 41, per le locazioni non abitative stipulate in regime ordinario;
– l’impianto stesso della legge, laddove nel regime ordinario non è stata riproposta una norma
del tenore dell’art. 74 che invece, nel regime transitorio, espressamente rende applicabile l’art. 55
anche alle locazioni non abitative.
Nei due anni successivi peraltro la stessa Terza Sezione (con le sentenze 659/1993, 7702/1993,
10202/1994, 2232/1995 e 6023/1995) modificò nuovamente orientamento dichiarando la possibilità
per il conduttore di immobile urbano adibito ad uso non abitativo di avvalersi della facoltà di sanare
la morosità in udienza e/o di richiedere apposito termine di grazia ex art. 55. Tali affermazioni,
peraltro, furono fatte sempre “in limine litis” in quanto le fattispecie sostanziali decise dalle
pronunzie di merito sottoposte a censura attenevano esclusivamente all’ambito di operatività della
predeterminazione della gravità dell’inadempimento del conduttore operata dall’art. 5.
Sulla questione ha avuto occasione di “intervenire” anche la Corte Costituzionale con
l’ordinanza 461/1993 con la quale – chiamata dal Pretore di Verona a pronunziarsi sulla questione
di legittimità costituzionale dell’art. 55 della legge 392/1978 nella parte in cui (a parere del giudice
di merito) esclude che l’istituto della sanatoria della morosità si applichi anche alle locazioni non
abitative – ha negato la sussistenza del denunziato vizio di legittimità implicitamente avallando,
sotto il profilo quantomeno della corretteza costituzionale, l’interpretazione fornita dal Supremo
Collegio con la ricordata sentenza 2496/1992.
GIURISPRUDENZA
• Corte Costituzionale
1. È manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 55 l. 27 luglio
1978 n. 392, sollevata con riferimento all’art. 3 cost., in base all’interpretazione, dibattuta in
giurisprudenza, che il citato articolo escluda la sanatoria della morosità del canone per le
locazioni di immobili urbani ad uso non abitativo, stipulate successivamente all’entrata in vigore
della citata legge, poiché la limitazione, in via transitoria, della facoltà di sanatoria della
morosità per le locazioni stipulate anteriormente, si giustifica con il fatto che il mutamento
legislativo incide sulla posizione delle parti contrattualmente stabilite per le locazioni in corso, e
rende quindi opportuno consentire al conduttore di sanare la morosità in sede giudiziale. Corte
costituzionale 23 dicembre 1993, n. 461 Cons. Stato 1993, II, 2106 (s.m.) Giur. cost. 1993, fasc.,
Giust. civ. 1994, I, 593 nota (IZZO) Arch. locazioni 1994, 51 Foro it. 1994, I, 330, 6.
• Cassazione
2. In tema di disciplina transitoria delle locazioni d’immobili urbani – come stabilita dal titolo
secondo della l. 27 luglio 1978 n. 392 (cosiddetta sull’equo canone) – la mancanza di
qualsivoglia incompatibilità di ordine logico-concettuale tra la sanatoria della morosità come
regolata dalla norma processuale dell’art. 55 e le locazioni non abitative come richiamate dalla
norma, anch’essa di natura processuale, di cui all’art. 74; la perentorietà di tale richiamo, senza
riserve o limitazioni; la corrispondenza tra la lettera e la “ratio” della norma, escludono una
interpretazione riduttiva dell’istituto della sanatoria della morosità, come descritto all’art. 55;
esso, di conseguenza, è applicabile anche con riferimento alle locazioni di immobili adibiti ad
uso diverso da quello di abitazione. Cassazione civile, sez. III, 24 aprile 1981 n. 2469, Giust. civ.
Mass. 1981, fasc. 4.; Riv. giur. edilizia 1983, I, 196.
3. In tema di disciplina transitoria delle locazioni d’immobili urbani – come stabilita dal titolo
secondo della l. 27 luglio 1978 n. 392 (cosiddetta sull’equo canone) – la mancanza di
qualsivoglia incompatibilità di ordine logico-concettuale tra la sanatoria della morosità come
regola dalla norma processuale dell’art. 55 e le locazioni non abitative come richiamate dalla
norma, anch’essa di natura processuale, di cui all’art. 74; la perentorietà di tale richiamo, senza
riserve o limitazioni; la corrispondenza tra la lettera e la ratio della norma, escludono
un’interpretazione riduttiva dell’istituto della sanatoria della morosità, come descritto all’art. 55;
esso, di conseguenza, è applicabile anche con riferimento alle locazioni d’immobili adibiti ad
uso diverso da quello di abitazione. Cassazione civile, sez. III, 25 giugno 1983 n. 4371, Giust.
civ. Mass. 1983, fasc. 6.
4. In tema di concessione di un termine per il pagamento dei canoni locatizi scaduti, previsto
dall’art. 55 della l. 27 luglio 1978 n. 392, la perentorietà del richiamo operato a detta norma dal
successivo art. 74; la mancanza di qualsivoglia incompatibilità di ordine logico concettuale tra la
sanatoria della morosità, come regolata dal citato art. 55 e le locazioni non abitative come
richiamate dalla norma, anch’essa di natura processuale, di cui all’art. 74; la corrispondenza tra
la lettera e la ratio della norma, escludono una interpretazione riduttiva dell’istituto che, di
conseguenza, è applicabile anche con riferimento alla locazione di immobile adibito ad uso
diverso da quello di abitazione. Cassazione civile, sez. III, 20 aprile 1984 n. 2594 Giust. civ.
Mass.1984 fasc. 3-4.
5. A norma dell’art. 1188 comma 1 c.c., il procuratore “ad litem” del locatore è legittimato a
ricevere il pagamento dei canoni arretrati (e/o degli oneri accessori) offerto ai sensi dell’art. 55
legge n. 392 del 1978 del conduttore di immobile urbano convenuto in giudizio per morosità e di
conseguenza, ove egli rifiuti il pagamento, si determina una situazione di oggettivo
inadempimento non ascrivibile a colpa del conduttore e non può, quindi, procedersi alla
risoluzione del rapporto. Cassazione civile, sez. III, 27 gennaio 1986 n. 524, Giur. it. 1986, I, 1,
724 (nota).
6. In tema di concessione di un termine per il pagamento dei canoni locatizi scaduti, previsto
dall’art. 55 della legge n. 392 del 1978, la mancanza di espresse limitazioni all’applicabilità di
tale norma nonché di qualsivoglia incompatibilità di ordine logico-concettuale tra la sanatoria
della morosità come da essa regolata e le locazioni non abitative, escludono una interpretazione
riduttiva dell’istituto e comportano la sua applicabilità anche con riferimento alla locazione di
immobile adibito ad uso diverso da quello di abitazione, stipulata successivamente all’entrata in
vigore della richiamata legge (nella specie, il 20 gennaio 1979). Cassazione civile, sez. III, 26
luglio 1986 n. 4799, Giust. civ. Mass. 1986, fasc. 7; Riv. giur. edilizia 1983, I, 196.
7. In tema di disciplina transitoria delle locazioni d’immobili urbani – come stabilita dal titolo
secondo della l. 27 luglio 1978 n. 392 (cosiddetta sull’equo canone) – la mancanza di
qualsivoglia incompatibilità di ordine logico-concettuale tra la sanatoria della morosità come
regolata dalla norma processuale dell’art. 55 e le locazioni non abitative come richiamate dalla
norma, anch’essa di natura processuale, di cui all’art. 74; la perentorietà di tale richiamo, senza
riserve o limitazioni; la corrispondenza tra la lettera e la “ratio” della norma, escludono una
interpretazione riduttiva dell’istituto della sanatoria della morosità, come descritto all’art. 55;
esso, di conseguenza, è applicabile anche con riferimento alle locazioni di immobili adibiti ad
uso diverso da quello di abitazione. Cassazione civile, sez. III, 27 novembre 1986 n. 6995, Giust.
civ. Mass. 1986, fasc. 11; Giur. it. 1987, I, 1, 1396.
8. In tema di disciplina transitoria delle locazioni d’immobili urbani – come stabilita dal titolo
secondo della l. 27 luglio 1978 n. 392 (cosiddetta sull’equo canone) – la mancanza di
qualsivoglia incompatibilità di ordine logico-concettuale tra la sanatoria della morosità come
regolata dalla norma processuale dell’art. 55 e le locazioni non abitative come richiamate dalla
norma, anch’essa di natura processuale, di cui all’art. 74; la perentorietà di tale richiamo, senza
riserve o limitazioni; la corrispondenza tra la lettera e la ratio della norma, escludono una
interpretazione riduttiva dell’istituto della sanatoria della morosità, come descritto all’art. 55;
esso, di conseguenza, è applicabile anche con riferimento alle locazioni di immobili adibiti ad
uso diverso da quello di abitazione. Cassazione civile, sez. III, 17 aprile 1987 n. 3791, Giust. civ.
Mass. 1987, fasc. 4.
9. Il disposto dell’art. 5 della legge n. 392 del 1978, per il quale il mancato pagamento del canone
costituisce motivo di risoluzione del contratto di locazione, ai sensi dell’art. 1455 c.c., soltanto
se siano decorsi venti giorni dalla scadenza prevista – operando così una predeterminazione
legale della gravità od importanza dell’inadempimento sottratta alla valutazione discrezionale
del giudice – trova applicazione anche con riguardo alle locazioni di immobili destinati ad uso
diverso da quello abitativo, stante il richiamo anche operativo della disciplina dell’art. 55 della
citata legge per l’istituto della sanatoria della morosità applicabile ad ambedue le categorie di
locazioni. Cassazione civile, sez. III, 23 novembre 1987 n. 8605, Giust. civ. Mass. 1987, fasc.
11.
10.Le disposizioni dell’art. 55, comma 1, della legge n. 392 del 1978 in tema di sanatoria in sede
giudiziale della morosità del conduttore nel pagamento dei canoni o degli oneri accessori,
trovano applicazione, in mancanza di espresse limitazioni risultanti dal dato normativo nonché di
qualsivoglia incompatibilità di ordine logico, anche con riguardo alle locazioni di immobili
adibiti ad uso diverso da quello abitativo. Cassazione civile, sez. III, 21 settembre 1988 n. 5182,
Giust. civ. Mass. 1988, fasc. 8/9.
11.In tema di disciplina transitoria delle locazioni degli immobili urbani, la sanatoria della morosità
prevista dall’art. 55 l. 27 luglio 1978 n. 392 è applicabile anche alle locazioni di immobili
destinati ad uso diverso da quello di abitazione, in considerazione della mancanza di qualsivoglia
incompatibilità di ordine concettuale, del richiamo senza riserve da parte dell’art. 74 della citata
legge agli art. da 43 e 57, in corrispondenza tra la lettera e la “ratio” della norma. Cassazione
civile, sez. III, 27 novembre 1990 n. 11397 Giust. civ. Mass. 1990, fasc. 11.
12.In tema di locazione di immobili urbani, l’art. 5 l. 27 luglio 1978 n. 392, sulla
“predeterminazione” della gravità dell’inadempimento, al fine della risoluzione del rapporto, non
trova applicazione per le locazioni ad uso non abitativo, atteso che tale norma è specificamente
dettata per le locazioni ad uso abitativo, non è richiamata nella disciplina di quelle non abitative,
ed altresì si correla alle peculiari regole, anche sulla determinazione del canone, che operano per
le locazioni del primo tipo. Ne consegue che, per le locazioni non abitative, ferma restando
l’operatività dell’art. 55 della citata legge con riguardo alla possibilità di sanare la mora, la
valutazione dell’importanza dell’inadempimento del conduttore resta affidata ai comuni criteri di
cui all’art. 1455 c.c. (salva la facoltà del giudice di utilizzare come parametro orientativo il
principio di cui al menzionato art. 5, alla stregua delle particolarità del caso concreto).
Cassazione civile, sez. un., 28 dicembre 1990 n. 12210, Giust. civ. Mass. 1990, fasc. 12.
13.In virtù dell’art. 74 della legge sull’equo canone, a norma del quale le norme processuali degli
artt. da 43 a 57 della stessa legge sono applicabili alle locazioni previste dai capi I e II, le
disposizioni dell’art. 55 comma 1, della legge n. 392 del 1978, in tema di sanatoria in sede
giudiziale della morosità del conduttore nel pagamento dei canoni e degli oneri accessori,
trovano applicazione, in mancanza di espresse limitazioni risultanti dal dato normativo, nonché
di qualsivoglia incompatibilità di ordine logico, anche per le locazioni di immobili adibiti ad uso
diverso da quello abitativo. Cassazione civile sez. III, 15 marzo 1991 n. 2772, Giust. civ. Mass.
1991, fasc. 3. Riv. giur. edilizia 1991, I, 574. Vita not. 1991, 573. Arch. locazioni 1992, 334.
14.L’art. 5 della legge sull’equo canone, per il quale il mancato pagamento del canone, decorsi i 20
giorni dalla scadenza prevista, o degli oneri accessori, quando l’importo non pagato superi quello
di due mensilità, è causa di risoluzione del contratto, si riferisce alle locazioni abitative e non
può essere applicato, quindi, alle locazioni non abitative per le quali l’inadempimento del
conduttore, ai sensi dell’art. 1455 c.c., può essere causa di risoluzione del contratto solo quando
il giudice accerti che non ha scarsa importanza, avuto riguardo all’interesse del locatore, a meno
che il conduttore, avvalendosi della facoltà di purgare la mora nei termini stabiliti dall’art. 55,
che è in ogni caso applicabile sia alle locazioni abitative che a quelle per uso diverso, non abbia
escluso la possibilità della risoluzione impedendo, così, l’accoglimento della domanda.
Cassazione civile sez. III, 17 dicembre 1991 n. 13575, Giust. civ. Mass. 1991, fasc. 12 –
Conforme – Cassazione civile sez. un., 28 dicembre 1990 n. 12210, Nuova giur. civ. commentata
1991, I, 660 (nota).
15.A differenza del regime transitorio delle locazioni urbane disposto dalla l. 27 luglio 1978 n. 392
(art. 74), nel regime ordinario, in mancanza di un onnicomprensivo richiamo, l’art. 55 della detta
legge – senza porsi in contrasto con il principio di eguaglianza ex art. 3 cost. – consente al
conduttore di sanare la morosità dei canoni soltanto con riguardo alle locazioni per uso abitativo
indicate dall’art. 5 della stessa legge e non è, quindi, applicabile alle locazioni per uso non
abitativo che sono assoggettate ad una autonoma disciplina alla quale possono essere estese solo
le norme sulle locazioni abitative espressamente richiamate, tra le quali non rientra quella del
citato articolo. Cassazione civile sez. III, 28 febbraio 1992, n. 2496 Giust. civ. 1994, I, 593 nota
(IZZO), Giust. civ. Mass. 1992, fasc. 2 Foro it. 1992, I, 3015. Vita not. 1992, 1195 Arch.
locazioni 1992, 787.
16.In tema di locazione di immobili urbani, l’art. 5 l. 27 luglio 1978 n. 392, sulla
“predeterminazione” della gravità dell’inadempimento, al fine della risoluzione del rapporto, non
trova applicazione per le locazioni ad uso non abitativo, atteso che tale norma è specificamente
dettata per le locazioni ad uso abitativo, non è richiamata nella disciplina di quelle non abitative,
ed altresì si correla alle peculiari regole, anche sulla determinazione del canone, che operano per
le locazioni del primo tipo. Ne consegue che, per le locazioni non abitative, ferma restando
l’operatività dell’art. 55 della citata legge con riguardo alla possibilità di sanare la mora, la
valutazione dell’importanza dell’inadempimento del conduttore resta affidata ai comuni criteri di
cui all’art. 1455 c.c. salva la facoltà del giudice di utilizzare come parametro orientativo il
principio di cui al menzionato art. 5, alla stregua delle particolarità del caso concreto. Cassazione
civile sez III, 20 gennaio 1993, n. 659 Giust. civ. Mass. 1993, 90 (s.m.) – Conforme –
Cassazione civile sez. III, 24 giugno 1993, n. 7002 Giust. civ. Mass. 1993, 1077 (s.m.).
17.In tema di locazione di immobili urbani l’art. 5 della legge sull’equo canone sulla
predeterminazione della gravità dell’inadempimento al fine della risoluzione del rapporto non
trova applicazione per le locazioni ad uso non abitativo, per le quali, ferma restando l’operatività
dell’art. 55 legge cit., con riguardo alla possibilità di sanare la mora, la valutazione
dell’importanza dell’inadempimento del conduttore resta affidata ai comuni criteri di cui all’art.
1455 c.c., salva la facoltà del giudice di utilizzare come parametro orientativo il principio di cui
al menzionato art. 5 alla stregua della particolarità del caso concreto. Cassazione civile sez. III,
29 novembre 1994, n. 10202 Giust. civ. Mass. 1994, fasc. 11.
18.In tema di locazione di immobili urbani, l’art. 5 l. 27 luglio 1978 n. 392, sulla
“predeterminazione” della gravità dell’inadempimento, al fine della risoluzione del rapporto, non
trova applicazione per le locazioni ad uso non abitativo, atteso che tale norma è specificatamente
dettata per le locazioni ad uso abitativo, non è richiamata nella disciplina di quelle non abitative,
ed altresì si correla alle peculiari regole, anche sulla determinazione del canone, che operano per
le locazioni del primo tipo. Ne consegue che, per le locazioni non abitative, ferma restando
l’operatività dell’art. 55 della citata legge con riguardo alla possibilità di sanare la mora, la
valutazione dell’importanza dell’inadempimento del conduttore resta affidata ai comuni criteri di
cui all’art. 145 c.c., salva la facoltà affidata del giudice di utilizzare come parametro orientativo
il principio di cui al menzionato art. 5, alla stregua delle particolarità del caso concreto).
Cassazione civile sez. III, 27 febbraio 1995, n. 2232 Giust. civ. Mass. 1995, 457.
19.L’art. 5 della l. 27 luglio 1978 n. 392 sulla “predeterminazione” della gravità
dell’inadempimento, ai fini della risoluzione del rapporto, correlandosi alle peculiari regole sulla
determinazione del canone dettate per le locazioni ad uso abitativo, non può essere applicato alle
locazioni non abitative, la cui disciplina non richiama la disposizione del citato art. 5, alle
predette locazioni non abitative è, invece applicabile l’art. 55 della stessa legge, relativo alla
possibilità di sanare la mora, che, benché inserito nel complesso di norme dettate per le locazioni
abitative prevede una disciplina limitatrice della risoluzione del contratto che, per la “ratio” che
la ispira, è di carattere generale e rientra, per di più, tra le disposizioni processuali richiamate in
tema di locazioni non abitative dagli art. 42 e 74 della legge n. 392 del 1978. Cassazione civile
sez. III, 29 maggio 1995, n. 6023 Giust. civ. Mass. 1995, 182.
• Merito
20.Lo speciale termine di grazia previsto dall’art. 55 l. 27 luglio 1978 n. 392 per sanare la morosità
nel pagamento del canone è applicabile ad ogni tipo di locazione e quindi anche a quelle
afferenti ad usi non abitativi, essendo evidente la “ratio” della norma stessa, che è appunto
quella di agevolare tutti i conduttori morosi e non soltanto quelli di case di abitazione. Pretura
Acireale 15 gennaio 1979, Nuovo dir. 1980, 422 (nota). – Conforme – Pretura Saluzzo 24
settembre 1979, Nuovo dir. 1980, 50 (nota).
21.La disciplina contenuta nell’art. 55 legge 392/1978, che accorda al conduttore la facoltà di sanare
la morosità nel pagamento dei canoni in sede giudiziale, è applicabile soltanto ai contratti relativi
ad immobili adibiti ad abitazione. Pretura Legnano 16 marzo 1979, Giust. civ. 1979, 1130, I; Riv.
dir. civ. 1980, II, 186, 496 (note). Foro it. 1980, I, 539.
22.Le disposizioni sul termine per il pagamento dei canoni scaduti, contenute nell’art. 55 l.
392/1978, sono applicabili ai soli contratti relativi ad immobili destinati ad abitazione stipulati
successivamente al 30 luglio 1978. Pretura Bassano Grappa 4 maggio 1979, Foro it. 1979, 1573,
I; Riv. giur. edilizia 1979, I, 816; Giur. merito 1979, 817 (nota).
23.La speciale sanatoria della morosità contemplata dall’art. 55 legge n. 392/1978 è applicabile
soltanto ai contratti di locazione relativi ad immobili destinati ad usi abitativi. L’art. 5 della legge
stessa è parimenti applicabile solo a tali contratti, onde in tema di gravità dell’inadempimento,
riprende vigore – relativamente alle locazioni di immobili non adibiti ad abitazione – il generale
principio espresso dall’art. 1455 c.c. Con riferimento a tali ultimi contratti è altresì applicabile
l’ulteriore generale principio di cui all’art. 1453 c.c., onde la loro risoluzione non è evitata per
avere il conduttore sanato la propria morosità soltanto dopo la richiesta giudiziale di risoluzione
dello stesso rapporto locatizio. Pretura Bassano Grappa 31 ottobre 1979, Nuovo dir. 1980, 45
(nota). Giur. merito 1981, 30 (nota).
24.Non è applicabile alle locazioni di immobili adibiti ad uso diverso dall’abitazione la norma che
consente al conduttore di sanare in sede giudiziale la morosità nel pagamento dei canoni scaduti.
Pretura Bassano Grappa 9 novembre 1979, Giur. it. 1980, I, 2, 585.
25.L’istituto della sanatoria della morosità, previsto dall’art. 55 della legge sull’equo canone, non è
applicabile alle locazioni di immobili adibiti ad uso diverso da quello di abitazione. Pretura
Bassano Grappa 1 dicembre 1981, Giur. it. 1983, I, 2, 129.
26.La disposizione di cui all’art. 55 l. 27 luglio 1978 n. 392 che consente al conduttore moroso di
sanare la morosità in sede giudiziale o di ottenere il c.d. termine di grazia per sanare la morosità
è applicabile anche alle locazioni di immobili adibiti ad uso diverso dall’abitazione. Pretura
Viareggio 6 febbraio 1982, Dir. giur. 1982, 406 (nota).
27.La disciplina della sanatoria della morosità mediante il pagamento dei canoni scaduti in sede
giudiziale ex art. 55 l. n. 392 del 1978 (“Equo canone”) non è applicabile alle locazioni di
immobili adibiti ad uso non abitativo già in corso, ovvero successive all’entrata in vigore della
predetta legge. Tribunale Messina 3 luglio 1982, Giur. merito 1982, 1103.
28.L’art. 55 l. 27 luglio 1978 n. 392, riservando la facoltà di sanare la morosità esclusivamente al
conduttore di immobile adibito ad uso abitazione non può trovare applicazione nei confronti di
locazione di immobile destinato ad uso diverso in virtù di contratto non soggetto a regime
transitorio. Pretura Roma 9 febbraio 1983, Temi romana 1983, 137.
29.La sanatoria della morosità prevista dall’art. 55 l. n. 392 del 1978 è applicabile anche con
riferimento alle locazioni di immobili adibiti ad uso diverso da quello di abitazione. Tribunale
Torino 28 ottobre 1983, Riv. giur. edilizia 1984, I, 516.
30. Il pagamento avvenuto dopo l’intimazione di sfratto in udienza o nel termine fissato dal giudice
non esclude la risoluzione del contratto in materia di locazioni non abitative, in quanto a queste
non è applicabile l’art. 55 legge n. 392 del 1978. Tribunale Lucca 24 marzo 1990, Arch.
locazioni 1990, 534.
31.L’art. 55 della legge n. 392 del 1978, riguardante la sanatoria in sede giudiziale della morosità
del conduttore nel pagamento del canone (e degli oneri accessori), è applicabile anche per le
locazioni di immobili adibiti ad uso diverso da quello abitativo nel regime ordinario. Pretura
Napoli, 20 novembre 1992 Arch. locazioni 1993, 156.
32. La sanatoria della morosità nel pagamento del canone di locazione – prevista dall’art. 55 della
legge n. 392 del 1978, è applicabile – nel regime ordinario – soltanto alle locazioni per uso
abitativo indicate dall’art. 5 della predetta legge e non riguarda, pertanto, le locazioni stipulate
per uso non abitativo, che sono assoggettate ad una autonoma disciplina alla quale possono
essere estese solo le norme sulle locazioni abitative espressamente richiamate tra le quali non
rientra quella del citato art. 55. Pretura Verona, 26 febbraio 1994, Arch. locazioni 1995, 186.
2. La sanatoria della morosità ex art. 55 legge 393/78 in relazione
1) all’ipotesi di contestazione parziale del canone (rapporto fra l’art. 55 legge 392/78 e l’art.
666 c.p.c.)
2) alla possibilità di chiedere la sanatoria in via subordinata rispetto all’opposizione proposta in
via principale
(1)
In via preliminare pare necessario domandarsi se l’art. 666 c.p.c. sia norma tuttora vigente o se
essa debba dirsi abrogata ai sensi dell’art. 84 della legge 392/1978.
La soluzione favorevole alla tesi della persistente operatività della disposizione del codice di
rito è stata ritenuta, seppure implicitamente, sia dalla dottrina che dalla giurisprudenza (entrambe, in
verità, alquanto scarse sotto il profilo quantitativo) che hanno individuato differenti ambiti operativi
delle due disposizioni in quanto destinate a disciplinare fattispecie del tutto diverse fra loro:
• l’art. 666 c.p.c. ipotizza che il conduttore intimato neghi la morosità solo in ordine al quantum
assunto dal locatore contestando l’ammontare del maggior importo preteso;
• l’art. 55 legge 392/1978 è tipicizzato sulla differente fattispecie dell’assenza assoluta di
eccezioni da parte del conduttore circa la sussistenza della mora e l’ammontare dell’importo dovuto.
Sia la giurisprudenza di merito che quella di legittimità hanno affrontato il problema del
rapporto fra le due differenti ipotesi sostanziali considerate dalle norme in questione ritenendo che
se il conduttore nel costituirsi in giudizio si oppone alla convalida contestando la morosità allegata
dal locatore ma ammettendone la sussistenza in misura inferiore, deve farsi applicazione non già
dell’art. 55 della legge 392/1978 bensì della norma del codice di rito.
Le differenze fondamentali fra i due istituti possono individuarsi:
a) nei presupposti per la concedibilità al conduttore del termine per sanare:
• ex art. 55 legge 392/78: solo su richiesta di parte, previo accertamento della sussistenza delle
condizioni (soggettive ed oggettive) di difficoltà del conduttore, di cui ai commi 2 e 4;
• ex art. 666 c.p.c.: anche d’ufficio ed a prescindere dalla sussistenza di condizioni di difficoltà
del conduttore;
b) nei limiti di concedibilità del termine per sanare:
• ex art. 55 legge 392/78: per non più di tre volte (che possono diventare quattro nei casi di
maggiori comprovate difficoltà del conduttore) nel corso di un quadriennio;
• ex art. 666 c.p.c.: senza alcuna restrizione;
c) negli effetti della sanatoria:
• ex art. 55 legge 392/78: è esclusa la possibilità per il giudice di pronunziare la risoluzione del
contratto;
• ex art. 666 c.p.c.: al giudice compete comunque la valutazione ex artt. 1455 cod. civ. della
gravità dell’inadempimento del conduttore relativamente alla parte di canone non contestato.
Un precedente giurisprudenziale (Pretura Milano 10 maggio 1983) ha ritenuto che “il diverso
campo di operatività delle due menzionate disposizioni le rende perfettamente compatibili tra loro,
tanto che appare possibile concedere alternativamente all’intimato i termini da esse rispettivamente
previsti”, rimettendosi poi alla scelta del conduttore di decidere di quale delle due facoltà avvalersi
nel concreto, con i conseguenti effetti in ordine alla possibilità che il giudizio prosegua nel merito
per la valutazione della gravità dell’inadempimento (nel caso in cui opti per la sanatoria parziale ex
art. 666 c.p.c.).
Questa soluzione, certamente apprezzabile per la finalità di ampliare le possibilità di difesa
sostanziale della parte intimata di sfratto per morosità, non indica però le soluzioni necessarie da
adottarsi sul piano più squisitamente processuale relativamente alla prosecuzione del processo.
Infatti:
• i termini di sanatoria indicati dalle due disposizioni sono nettamente diversi fra di loro (non
più di 20 giorni ex art. 666 c.p.c.; fino a 90 – ed in casi eccezionali anche fino a 120 – ex art. 5 legge
392/78); pertanto il giudice dovrebbe differire comunque l’udienza in applicazione del terzo comma
dell’art. 55 legge 392/78 onde armonizzare il procedimento con la possibilità che successivamente il
conduttore decida di avvalersi della facoltà della legge c.d. di equo canone piuttosto che di quella
del codice di rito: in tal caso appare evidente il rischio che l’intimato pur non avendo alcuna
intenzione di sanare integralmente la morosità possa formulare entrambe le istanze al solo fine
strumentale di dilatare i tempi processuali, optando poi per la sanatoria nel termine di cui all’art.
666 c.p.c. della sola mora non contestata;
• mentre la previsione dell’art. 55 della legge 392/78 mira alla definizione del giudizio (con
l’estinzione in caso di sanatoria o con la convalida in caso di mancato pagamento nel termine
assegnato) quella di cui all’art. 666 c.p.c. presuppone comunque non solo il giudizio di merito –
oggi da svolgersi nelle forme di cui all’art. 447 bis c.p.c. previa ordinanza di conversione del rito di
cui all’art. 667 c.p.c. – ma anche la possibilità che il locatore faccia richiesta al giudice di
pronunziare ordinanza di rilascio ex art. 665 c.p.c. ove l’eccezione del convenuto relativamente alla
morosità contestata non sia fondata su prova scritta e non sussistano gravi motivi in contrario alla
sua emanazione: l’interesse del locatore a che la decisione sulla sua istanza di emanazione
dell’ordinanza di rilascio non sia rinviata oltre il termine di cui al secondo comma dell’art. 666
c.p.c. verrebbe significativamente, e gravemente, compromesso.
(2)
La giurisprudenza ha avuto occasione di esaminare l’ipotesi in cui il conduttore, nel costituirsi
in giudizio per convalida di sfratto per morosità, in via principale ne contesti la sussistenza
proponendo formale opposizione, ma in via subordinata chieda di potersi avvalere del termine di
grazia per sanare la morosità intimatagli.
La Suprema Corte ha ritenuto compatibile tale comportamento processuale del conduttore
affermando il principio di diritto secondo cui “la contestazione della morosita”, da parte del
conduttore cui sia stato intimato sfratto ex art. 658 c.p.c., qualora sia diretta ad opporsi alla
convalida ed all’ordinanza di rilascio di cui all’art. 665 c.p.c., esaurisce in tali limiti la sua efficacia
e, quindi, non preclude né rende incompatibile il ricorso alla sanatoria di cui all’art. 55 della legge n.
392 del 1978, introdotta a completamento più dettagliato della procedura di convalida dettata dal
codice di rito per la possibilità offerta al conduttore di sanare la morosità e la cui utilizzazione
comporta implicitamente, ma necessariamente, la manifestazione della prevalente volontà solutoria
del conduttore, che va autonomamente valutata e regolamentata in aderenza alla ratio legis di
componimento della lite”.
Per “l’incompatibilità logica” fra la opposizione alla convalida e la richiesta di termine di
grazia per sanare, si è invece pronunziato il Pretore di Reggio Emilia (ordinanza 21-12-1983) il
quale ha ritenuto che in presenza di tali contrapposte istanze del convenuto competa al giudice di
valutare in concreto quale sia l’effettiva volontà della parte anche alla luce del complessivo
comportamento processuale da lui assunto in relazione alla domanda dell’attore.
La soluzione favorevole alla ammissibilità dell’istanza per la concessione del termine di grazia
in via subordinata alla principale opposizione, propone – sotto il profilo della gestione ulteriore del
processo – le stesse questioni in precedenza indicate con riguardo all’ipotesi sub (1), cui dunque
deve rimandarsi.
Nota. - È doveroso segnalare, per la compiutezza delle analisi e per la novità di alcune soluzioni
interpretative proposte, l’intervento, in dottrina, di A. CARRATO (La sanatoria della morosità tra
l’art. 55 della legge 392 del 1978 e l’art. 666 c.p.c.) in Rassegna delle Locazioni e del Condominio,
Cedam, 1995, 2, 193 e seg..
GIURISPRUDENZA
(1)
• Cassazione
1. In tema di procedimento per convalida di sfratto per morosità, qualora il conduttore, costituendosi
in giudizio e opponendosi alla convalida, contesti la morosità quale allegata dal locatore
intimante, ammettendone tuttavia l’esistenza in misura inferiore, può trovare applicazione non già
l’art. 55 legge n. 392 del 1978, ma l’art. 666 c.p.c.; con la conseguenza che l’ottemperanza del
conduttore all’ordine di pagamento della somma non controversa, emesso dal pretore ai sensi di
quest’ultima norma, pur avendo l’effetto di impedire la convalida dello sfratto per morosità, non
esclude la risolubilità del contratto all’esito del giudizio proseguito nelle vie ordinarie.
Cassazione civile sez. III, 12 maggio 1993, n. 5414 Foro it. 1994, I, 1074.
• Merito
2. Ove il conduttore, cui sia stato intimato sfratto per morosità, contesti in parte il debito e chieda un
termine per sanare la morosità relativamente alle somme che non contesta di dovere, non può
concedersi il termine di grazia previsto dal secondo comma dell’art. 55 della legge 392/78 bensì
quello di cui all’art. 666 c.p.c.. Peraltro qualora lo stesso conduttore abbia chiesto in subordine il
termine di cui all’art. 55 citato per pagare l’intera somma richiesta dal locatore può concedersi
questo termine alternativamente a quello previsto dall’art. 666 c.p.c.; con la conseguenza che se il
conduttore versa entro tale ultimo termine il canone non contestato, lo sfratto nei suoi confronti
non può essere convalidato, ma egli può essere condannato al rilascio se nel prosieguo del
giudizio si accerti l’infondatezza delle sue eccezioni, laddove la sanatoria della morosità prevista
dall’art. 55 esclude senz’altro la risoluzione del contratto per inadempimento del conduttore.
Pretura Milano, ord. 10 maggio 1983 Arch. Loc. Cond. 1983, 534.
(2)
• Cassazione
1. La contestazione della morosità da parte del conduttore – cui sia stato intimato sfratto ex art. 658
c.p.c. – qualora sia inequivocabilmente diretta ad opporsi alla convalida ed all’ordinanza di
rilascio di cui all’art. 665 c.p.c., esaurisce in tali limiti la sua efficacia e, quindi, non preclude, né
rende incompatibile il ricorso alla sanatoria di cui all’art. 55 della l. 27 luglio 1978 n. 392,
introdotta a completamento più dettagliato della procedura di convalida dettata dal codice di rito
per la possibilità offerta al conduttore di sanare la morosità e la cui utilizzazione comporta
implicitamente – ma necessariamente – la manifestazione della prevalente volontà solutoria del
conduttore, che va autonomamente valutata e regolamentata in aderenza alla ratio legis di
componimento della lite. Cassazione civile, sez. III, 22 maggio 1982 n. 3132, Giust. civ. Mass.
1982, fasc. 5. Giust. civ. 1982, I, 3082.
2. La contestazione della morosità, da parte del conduttore cui sia stato intimato sfratto ex art. 658
c.p.c., qualora sia diretta ad opporsi alla convalida ed all’ordinanza di rilascio di cui all’art. 665
c.p.c., esaurisce in tali limiti la sua efficacia e, quindi, non preclude né rende incompatibile il
ricorso alla sanatoria di cui all’art. 55 della legge n. 392 del 1978, introdotta a completamento più
dettagliato della procedura di convalida dettata dal codice di rito per la possibilità offerta al
conduttore di sanare la morosità e la cui utilizzazione comporta implicitamente, ma
necessariamente, la manifestazione della prevalente volontà solutoria del conduttore, che va
autonomamente valutata e regolamentata in aderenza alla ratio legis di componimento della lite.
Cassazione civile, sez. III, 21 agosto 1985 n. 4474, Giust. civ. Mass. 1985, fasc. 8-9.
3. In tema di locazione d’immobili urbani, qualora il conduttore cui sia stato intimato lo sfratto per
morosità nel pagamento del canone, pur opponendosi alla convalida per l’eccepita inesistenza
della morosità affermata dal locatore, provveda a corrispondere i canoni dovuti e chieda termine
per il pagamento delle spese processuali, previa liquidazione delle stesse da parte del giudice,
dimostra con tale comportamento una volontà incompatibile con l’opposizione alla convalida, per
cui ove egli non adempia al pagamento delle spese nel termine fissato dal giudice, questi, ai sensi
dell’art. 663 c.p.c. deve pronunciare ordinanza di convalida di sfratto, senza possibilità di rinvio
della causa per un’ulteriore trattazione del merito; detta ordinanza non è impugnabile né con
l’appello né con il ricorso per cassazione ex art. 111 cost. ma soltanto con l’opposizione tardiva ai
sensi dell’art. 668 c.p.c., tranne nelle ipotesi in cui si sostenga che essa sia stata emessa fuori o
contro le condizioni previste dagli art. 55 e 56 legge n. 392 del 1978 e 663 c.p.c. nel qual caso è
impugnabile con l’appello e non direttamente con il ricorso per cassazione. Cassazione civile sez.
III, 23 maggio 1990 n. 4646, Arch. locazioni 1991, 86. Giust. civ. 1991, I, 2129 (nota).
• Merito
4. L’art. 55 legge n. 392 del 1978 non è applicabile nel caso in cui il conduttore, al quale sia stato
intimato lo sfratto per morosità, si opponga alla convalida, in quanto sussiste una incompatibilità
logica e giuridica tra la opposizione alla intimazione di sfratto per morosità e la contestuale
proposizione della istanza volta ad ottenere la concessione del termine di grazia di cui al precitato
art. 55. Pretura Reggio Emilia, 21 dicembre 1993 Arch. locazioni 1994, 140.
5. Una volta manifestata dal conduttore l’opposizione alla convalida di sfratto, la subordinata
richiesta del termine di grazia deve essere interpretata quale istanza diretta a scongiurare,
comunque, l’emissione del titolo esecutivo costituito dall’ordinanza di rilascio ex art. 665 c.p.c.
Tribunale Bologna, 22 aprile 1994 Arch. locazioni 1994, 586.
3. Sanatoria della morosità ex art. 55 legge 393/78 nel rito ordinario.
Secondo l’indirizzo costante della Suprema Corte l’operatività dell’istituto della sanatoria della
morosità è limitata alle sole ipotesi in cui la contestazione giudiziale della morosità del conduttore
sia effettuata da parte del locatore mediante lo strumento del procedimento speciale ex art. 658 c.p.c.
e non anche allorché sia proposto ordinario giudizio di risoluzione del contratto per inadempimento
nelle forme del processo ordinario di cognizione (oggi ex art. 447 bis, c.p.c.).
Ad avallare questa interpretazione concorre anche la Corte Costituzionale che con la sua
ordinanza 2/1992 ha dichiarato non fondata – in riferimento all’art. 3 cost. – la questione di
legittimità costituzionale dell’art. 55 l. 27 luglio 1978 n. 392, concernente la sanatoria della
morosità nel procedimento di convalida di sfratto, ove interpretata nel senso della sua inapplicabilità
all’ordinario giudizio di risoluzione del contratto di locazione.
Il principale – ma a ben vedere unico – argomento utilizzato dal S.C. nei suoi iniziali interventi
(successivamente si è sempre limitato a richiamare “per relationem” i suoi propri precedenti
“confortati” dalla statuzione della Consulta) è quello che si ricava dall’applicazione del terzo
comma dell’art. 1453 cod. civ. laddove è statuita l’impossibilità per l’inadempiente di adempiere la
propria obbligazione successivamente alla proposizione ad opera dell’altra parte del contratto
dell’azione di risoluzione.
Decisamente contraria all’orientamento della Corte di Cassazione è quasi tutta la dottrina che ha
ripetutamente contestato la pochezza, al limite dell’inconsistenza, di quella “motivazione”
soprattutto (ma non esclusivamente) sul rilievo che anche il giudizio speciale ex art. 658 c.p.c. mira,
sostanzialmente, alla risoluzione del contratto previa esplicita dichiarazione della sussistenza
dell’inadempimento contestato al conduttore con la notifica dell’intimazione di sfratto e la
contestuale citazione per convalida.
Nota
Rende esaurientemente conto dello stato attuale della dottrina A. CARRATO (Il procedimento
di purgazione della morosità di cui all’art. 55 della legge 27 luglio del 1978 n. 392 ed il suo ambito
di applicazione) in Rassegna delle Locazioni e del Condominio,1994, 1, 59 e seg..
GIURISPRUDENZA
• Corte Costituzionale
1. Non è fondata – in riferimento all’art. 3 cost. – la questione di legittimità costituzionale dell’art.
55 l. 27 luglio 1978 n. 392, concernente la sanatoria della morosità nel procedimento di convalida
di sfratto, interpretata nel senso della sua inapplicabilità all’ordinario giudizio di risoluzione del
contratto di locazione. Corte costituzionale 22 gennaio 1992 n. 2, Giust. civ. 1992, 575. Riv. giur.
edilizia 1992, I, 275. Arch. locazioni 1992, 28. Cons. Stato 1992, II, 19. Foro it. 1992, I, 1363.
Giur. cost. 1992, 5 (nota).
• Cassazione
2. La sanatoria prevista dall’art. 55 della l. 27 luglio 1978 n. 392 è applicabile solo nel procedimento
sommario di convalida dell’intimazione di sfratto per morosità ex art. 658 e ss. c.p.c. e non nel
giudizio ordinario di cognizione per la risoluzione per inadempimento del contratto ex art. 1453 e
ss. c.c. Ne consegue che, dopo la proposizione della domanda di risoluzione del contratto da parte
del locatore, per il mancato pagamento dei canoni di locazione e degli oneri accessori, il
conduttore inadempiente non può più adempiere alla propria obbligazione ed il suo
comportamento non si sottrae alla valutazione del giudice di merito in ordine alla gravità
dell’inadempimento ai fini del giudizio di risoluzione. Cassazione civile, sez. III, 5 luglio 1985 n.
4057, Giust. civ. 1986, I, 835 (nota). Foro it. 1986, I, 134; Giust. civ. Mass. 1985 fasc. 7.
3. La particolare sanatoria della morosità nel pagamento del canone di locazione stabilita dall’art. 55
della legge n. 392 del 1978 trova applicazione soltanto nel procedimento di convalida di sfratto
per morosità di cui all’art. 658 c.p.c. e non pure qualora sia introdotto con citazione un ordinario
giudizio di risoluzione del contratto per inadempimento, nel qual caso non è consentito al
conduttore adempiere la propria obbligazione dopo la proposizione della domanda ai sensi del
comma 3 dell’art. 1453 c.c.. Cassazione civile, sez. III, 23 ottobre 1989 n. 4292, Giust. civ. Mass.
1989, fasc. 10.
4. La particolare sanatoria della morosità nel pagamento del canone di locazione stabilita dall’art. 55
della l. 27 luglio 1978 n. 392 trova applicazione soltanto nel procedimento di convalida di sfratto
per morosità di cui all’art. 658 c.p.c. e non pure qualora sia introdotto, con citazione, un ordinario
giudizio di risoluzione del contratto per inadempimento, nel qual caso, ai sensi del comma 3
dell’art. 1453 c.c., non è consentito al conduttore adempiere la propria obbligazione dopo la
proposizione della domanda. Cassazione civile, sez. III, 12 febbraio 1991 n. 1451, Giust. civ.
Mass. 1991, fasc. 2, Nuova giur. civ. commentata 1991, I, 760.
5. La particolare sanatoria della morosità nel pagamento del canone di locazione stabilita dall’art. 55
della legge 27 luglio 1978 n. 392, trova applicazione soltanto nel procedimento di convalida di
sfratto per morosità di cui all’art. 658 c.p.c. e non pure qualora sia introdotto, con citazione, un
ordinario giudizio di risoluzione del contratto per inadempimento, nel qual caso, ai sensi del terzo
comma dell’art. 1453 cod. civ., non è consentito al conduttore adempiere la propria obbbligazione
dopo la proposizione della domanda. Cassazione civile, III, sez., 10 marzo 1993, n. 2883, Rass.
Loc. Cond. 1994, 59.
6. La particolare sanatoria della morosità nel pagamento del canone di locazione e degli oneri
accessori stabilita dall’art. 55 legge n. 392 del 1978 è applicabile soltanto nel procedimento di
convalida di sfratto per morosità di cui all’art. 658 c.p.c., e non pure qualora sia introdotto con
citazione un ordinario giudizio di risoluzione del contratto per inadempimento, nel qual caso non
è consentito al conduttore adempiere la propria obbligazione dopo la proposizione della domanda
ai sensi del comma 3 art. 1453 c.c.. Cassazione civile, sez. III, 19 novembre 1994, n. 9805 Arch.
locazioni 1995, 69.
7. La particolare sanatoria della morosità del pagamento del canone di locazione stabilita dall’art. 55
della legge sull’equo canone trova applicazione soltanto nel procedimento di convalida di sfratto
per morosità di cui all’art. 658 c.p.c. e non pure qualora sia introdotto, con citazione un ordinario
giudizio di risoluzione del contratto per inadempimento, nel qual caso, ai sensi del comma 3
dell’art. 1453 c.c., non è consentito al conduttore di adempiere la propria obbligazione dopo la
proposizione della domanda. Cassazione civile sez. III, 29 novembre 1994, n.10202 Giust. civ.
Mass. 1994, fasc. 11.
• Merito
8. Nei procedimenti di convalida di sfratto per morosità – come in tutti gli altri procedimenti di
cognizione ordinaria attinenti alla mora del conducente – il giudice può concedere il termine di
grazia di cui all’art. 55, comma 2 l. 27 luglio 1978 n. 392 pur in assenza dell’intimato e anche
d’ufficio. Tribunale Cagliari 8 marzo 1985, Riv. giur. Sarda, 1986, 815 (nota).
9. La sanatoria della morosità nel pagamento del canone di locazione stabilita dall’art. 55 legge n.
392 del 1978, trova applicazione soltanto nel procedimento di convalida di sfratto per morosità di
cui all’art. 658 c.p.c. e non anche qualora sia introdotto con citazione un ordinario giudizio di
risoluzione del contratto per inadempimento, nel qual caso non è consentito al conduttore
adempiere la propria obbligazione dopo la proposizione della domanda ex art. 1453 c.c..
Tribunale Catanzaro 12 marzo 1987, Arch. locazioni 1989, 118.
4. Sanatoria della morosità ex art. 55 legge 393/78 in caso di opposizione tardiva (artt. 55 legge
392/1978 e 668 c.p.c.).
Con ordinanza 572 del 1987 la Corte Costituzionale ha dichiarato manifestamente infondata, in
riferimento agli art. 3 e 24 cost., la questione di legittimità costituzionale, esaminata per la prima
volta, dell’art. 668 c.p.c., dedotta sul rilievo che al conduttore che non abbia avuto conoscenza della
notifica dell’intimazione per caso fortuito o forza maggiore sarebbe riservato un trattamento
deteriore rispetto a colui che, tempestivamente presentatosi all’udienza, avrebbe la facoltà di
chiedere di poter sanare la morosità, facoltà che invece non sarebbe possibile – secondo l’ordinanza
di rimessione del giudice di merito – nell’ambito del procedimento di opposizione tardiva a
convalida.
Ha rilevato la Corte che:
• l’opposizione dopo la convalida, di cui all’art. 668 c.p.c., è rimedio dato a tutela di chi, per
irregolarità della notifica, caso fortuito o forza maggiore non abbia avuto conoscenza
dell’intimazione, ovvero (secondo quanto sancito dalla stessa Corte Cost. con la sentenza 89/1972)
di chi, per gli ultimi due motivi, non sia potuto comparire all’udienza di convalida pur avendo avuto
conoscenza dell’intimazione stessa;
• una volta accertati i presupposti di ammissibilità dell’opposizione tardiva viene meno
l’ordinanza di convalida e si dà luogo ad un ordinario giudizio di cognizione;
• nell’ambito dell’ordinario giudizio di cognizione il conduttore può “in limine litis” avvalersi
della facoltà di sanare la morosità di cui all’art. 55 della legge 392/78.
Adeguandosi alla decisione del Giudice delle leggi, la Corte di Cassazione ha pronunziato la
sentenza 11923 del 2-12-1993 con la quale ha così testualmente motivato:
“La procedura della sanatoria della morosità, di cui all’art. 55 della legge 27 luglio 1978 n. 392,
è stata ritenuta compatibile con l’opposizione dopo la convalida, di cui all’art. 668 c.p.c., dalla
Corte Costituzionale con ordinanza n. 572 del 18 dicembre 1987.
La ritenuta compatibilità dei due istituti comporta la necessità di stabilire come l’uno si
inserisca nell’altro, poiché l’art. 55 è stato scritto in previsione dell’ordinario procedimento di
convalida e non del procedimento di opposizione dopo la convalida, il quale si presenta con diverse
caratteristiche rispetto al primo.
Il procedimento di sanatoria di cui all’art. 55, nel procedimento di convalida, può avere due
possibili modalità di attuazione.
La prima si realizza mediante il pagamento da parte del conduttore, alla prima udienza,
dell’importo dovuto per tutti i canoni scaduti e per gli oneri accessori maturati sino a tale data,
maggiorato degli interessi legali e delle spese processuali liquidate in tal sede dal giudice.
La seconda si realizza, invece, allorquando, in mancanza del pagamento in udienza, il giudice,
dinanzi a comprovate condizioni di difficoltà del conduttore, assegni a quest’ultimo un termine per
provvedervi, e, in detto termine, il conduttore adempia. In entrambi i casi l’avvenuto pagamento
esclude la risoluzione del contratto e, quindi, il procedimento di convalida si conclude.
Nel procedimento di opposizione dopo la convalida, invece, l’avvenuto pagamento alla prima
udienza, da parte del conduttore, delle somme dovute, non può automaticamente comportare la
chiusura del procedimento, perché, dovrà, comunque, essere accertata l’ammissibilità della
opposizione e solo dopo tale accertamento, se positivo, potranno verificarsi gli effetti sananti del
pagamento.
Nell’ipotesi in cui, invece, il pagamento non avvenga alla prima udienza potrà essere concesso
il termine di grazia. Tale concessione non presuppone che venga preventivamente accertata
l’ammissibilità dell’opposizione, perché, come dimostra l’ipotesi di pagamento alla prima udienza, i
fatti idonei ad escludere la risoluzione del contratto, e cioè il pagamento corrispettivo dovuto, degli
interessi e delle spese, possono verificarsi, senza che sia pregiudicato il giudizio
sull’inammissibilità dell’opposizione.
La legittimità di tale ricostruzione e, quindi, dell’affermazione secondo cui il giudice
competente per la convalida, investito dalla opposizione non debba preventivamente pronunziarsi
sull’ammissibilità della opposizione e poi dar corso alla procedura di sanatoria, trova conferma nel
fatto che, in ipotesi, può non esservi coincidenza tra detto giudice, sempre competente in ordine alla
procedura di sanatoria, ed il giudice competente a giudicare del merito e, quindi, anche della
ammissibilità dell’opposizione.
È, in proposito, da ricordare come questa Corte abbia già altra volta avuto occasione di
affermare che, “per la disciplina dell’opposizione dopo la convalida (cosiddetta opposizione
tardiva), il richiamo contenuto nell’art. 668 c.p.c. alle forme prescritte per l’opposizione al decreto
d’ingiunzione (in quanto applicabili) limitato alle modalità dell’introduzione di detta opposizione ed
alla individuazione del giudice davanti al quale va proposta, con la conseguenza che nel giudizio
che ne consegue dopo la fase a cognizione sommaria, nell’ambito della quale il pretore od il
conciliatore aditi possono emettere i provvedimenti sulla sospensione del processo esecutivo,
previsti nell’ultimo comma del cit. art. 668, nella seconda fase a cognizione piena, sul merito
dell’opposizione, qualora le questioni sollevate siano tali da allargare la materia oltre i limiti della
competenza per valore del giudice adito, questi deve rimettere le parti davanti al giudice competente
per valore, non diversamente da quanto avviene nell’ipotesi di opposizione tempestiva alla
convalida (art. 665 e 667 c.p.c.)” (v. in tal senso Sez. III, 27 marzo 1984 n. 2024), e che “nel caso di
opposizione tardiva ai sensi dell’art. 668 c.p.c., la competenza a decidere sulla relativa
ammissibilità spetta al giudice competente per il merito con la conseguenza che, ove la competenza
al riguardo spetti, secondo le regole ordinarie, al tribunale, è a questo giudice e non al pretore che
abbia convalidato la licenza o lo sfratto che compete la decisione dell’ammissibilità di quella
opposizione” (v. in tal senso Sez. III, 9 luglio 1983 n. 4641; Sez. III, 2 aprile 1992 n. 4002).
È ancora da considerare che già l’art. 668 c.p.c. prevede un’ipotesi in cui il Pretore, prima
ancora di pronunciarsi sull’ammissibilità e sul merito dell’opposizione, emetta dei provvedimenti
che, teoricamente, detta ammissibilità presuppongono, come è quello con il quale viene disposta la
sospensione dell’esecutorietà dell’ordinanza di convalida, ai sensi dell’ultimo comma dell’articolo
citato. E non può certo negarsi che dopo l’emissione del provvedimento di sospensione, lo stesso
giudice che lo ha emesso, ovvero il giudice competente per il merito, possano dichiarare
l’inammissibilità dell’opposizione dopo la convalida.
Il vero è che così come la sospensione di cui all’ultimo comma dell’art. 668 c.p.c., che tende a
ricondurre le parti nelle condizioni di fatto anteriori alla emanazione del provvedimento di
convalida, anche la procedura di sanatoria di cui all’art. 55 della legge n. 392 del 1978, si inserisce
nella fase sommaria del procedimento di opposizione dopo la convalida, nella quale tutti i
provvedimenti vengono emessi senza pregiudizio dell’accertamento conclusivo cui il procedimento
è diretto e che ha ad oggetto l’ammissibilità dell’opposizione ed il merito della controversia, con la
conseguenza che la delibazione fatta dal pretore, in quella fase sommaria, sull’ammissibilità
dell’opposizione ha di necessità carattere provvisorio, nel senso che è diretta non a decidere la causa
ma a consentire che il processo giunga alla sua conclusione, attraverso quei passaggi che la legge
prevede.
Alla natura non definitiva di tale provvedimento, nel senso che esso non è idoneo a decidere la
causa per le sue caratteristiche di strumentalità, consegue la sua revocabilità con la sentenza che
decide la controversia; né, come si è già prima rilevato – e ciò attiene specificamente al secondo
motivo di censura – l’avvenuta sanatoria, sia che avvenga per effetto del pagamento delle somme
dovute alla prima udienza, sia che avvenga nel termine fissato dal giudice, comporta
automaticamente la chiusura del procedimento, così come accade nell’ordinario procedimento di
convalida, perché in quello di opposizione dopo la convalida, l’avvenuta sanatoria non pregiudica
l’accertamento dell’ammissibilità dell’opposizione.
Non merita pertanto censura la sentenza impugnata, laddove ha ritenuto che il provvedimento
con il quale il pretore, rilevata l’ammissibilità dell’opposizione, aveva concesso al conduttore il
termine di grazia per sanare la morosità, avesse oltre che forma, anche natura di ordinanza e potesse
quindi essere revocato dallo stesso giudice, nella specie competente, con la decisione definitiva di
merito, con la conseguente irrilevanza, una volta affermata l’inammissibilità dell’opposizione, del
mancato completamento della procedura di sanatoria.”
In assenza di giurisprudenza di merito utile a verificare l’attuazione nel concreto del principio
affermato dal Supremo Collegio, è necessario dar conto delle critiche – puntualissime – articolate
dai primi commentatori di quella decisione [in particolare vanno segnalati i lavori di A. CARRATO
(Opposizione tardiva a convalida di sfratto e concessione del termine per la purgazione della
morosità) in Rassegna delle Locazioni e del Condominio, 1995, 2, 237 e seg.; C. CAVALLINI (In
tema di decisione sull’ammissibilità dell’opposizione tardiva alla convalida dello sfratto) in
Giurisprudenza Italiana, 1995, I, 1, 1121; A. SCHERMI (La sanatoria della morosità del
conduttore a norma dell’art. 55 legge n. 392 del 1978 nel processo di opposizione dopo la
convalida di sfratto) in Giustizia Civile, 1994, I, 2285] i quali – seppure con toni ed argomentazioni
diverse – hanno posto in rilievo alcune evidenti incongruenze insite in quella decisione, ed in
particolare che:
• l’eventuale pagamento da parte del conduttore (opponente tardivo) dell’importo dovuto per
sanare la morosità (alla prima udienza del giudizio di opposizione tardiva o nel termine di cui
all’art. 55 della legge 392/78 assegnatogli dal giudice di quella procedura) non sarebbe idoneo a
determinare l’immediata conclusione del processo poiché rimarrebbe impregiudicata la valutazione
circa l’ammissibilità dell’opposizione, demandata all’esito del giudizio di merito da svolgersi nelle
forme ordinarie; con la conseguente obbligata revoca del provvedimento inizialmente concesso ex
art. 55 legge 392/78 ove l’opposizione tardiva fosse poi dichiarata inammissibile; in sostanza: la
facoltà di cui all’art. 55 della legge 392/78 essendo finalizzata, con l’adempimento
dell’obbligazione di pagamento, alla definizione del giudizio di convalida dovrebbe poterne
caducarne immediatamente gli effetti il che invece non è – per le stesse esplicite motivazioni della
Suprema Corte – che rinvia tale eventuale effetto solo all’esito del giudizio sull’ammissibilità
dell’opposizione tardiva, da pronunziarsi con sentenza;
• anche ove fosse concesso da parte del giudice del giudizio ex art. 668 c.p.c. l’eventuale
provvedimento di sospensione dell’esecuzione dell’ordinanza di convalida “impugnata”, la natura
comunque provvisoria di esso provvedimento di sospensione non consentirebbe di far “retrocedere”
le parti al momento anteriore all’emissione dell’ordinanza di convalida né la farebbe venir meno;
• la motivazione della Suprema Corte:
a) ipotizza che il giudizio ex art. 668 c.p.c. possa svolgersi in due fasi:
– la prima, nelle forme del procedimento sommario, finalizzata solo alla valutazione dei
presupposti di ammissibilità dell’opposizione ed alla emanazione dell’eventuale provvedimento di
sospensione dell’esecuzione;
– la seconda nelle forme del giudizio ordinario di cognizione alla prima udienza del quale il
conduttore potrebbe essere ammesso alla facoltà di sanare;
b) ma non considera
– da un lato che la sua stessa giurisprudenza ha sempre negato la applicabilità dell’art. 55 della
legge 392/78 al giudizio ordinario di cognizione riferendola esclusivamente al giudizio speciale ex
artt. 657 e 658 c.p.c.;
– dall’altro che il rito locativo conseguente all’entrata in vigore della novella del 1990 (art. 447
bis c.p.c.) non prevede la possibilità di enucleare un’udienza preliminare diversa da quella di
trattazione e decisione di cui all’art. 420 c.p.c..
Volendo rendere compatibile la decisione del Supremo Collegio (senz’altro condivisibile nella
volontà di uniformarsi al corretto indirizzo della Corte Costituzionale relativo alla tutela del
conduttore che senza sua colpa sia destinatario del provvedimento per convalida di sfratto) con la
struttura del nuovo processo delle locazioni di cui all’art. 447 bis c.p.c. e, soprattutto, dovendosi
ricercare soluzioni che siano coerenti con i principi dell’ordinamento e risolvano positivamente i
rilievi critici di cui sopra si è fatto cenno, l’unica soluzione interpretativa che pare ipotizzabile è
quella che si fondi:
• sulla applicabilità dell’istituto della sanatoria di cui all’art. 55 della legge 392/78 anche al
giudizio ordinario e non solo a quello di convalida (superando il contrario orientamento della Corte
di Cassazione oppure, e comunque, valorizzando il rilievo che nel giudizio ex art. 668 c.p.c. il
petitum centrale è costituito dalla “impugnazione” da parte del conduttore del provvedimento di
convalida e non già dalla domanda del locatore per la risoluzione del contratto per inadempimento);
• sul potere-dovere del giudice di risolvere la pregiudiziale questione circa l’ammissibilità
dell’opposizione tardiva (preliminare rispetto alla concessione al conduttore opponente della facoltà
di sanare) mediante sentenza ex art. 420, comma 5.
GIURISPRUDENZA
• Corte Costituzionale
1. È manifestamente infondata, in riferimento agli art. 3 e 24 cost., la questione di legittimità
costituzionale, esaminata per la prima volta, dell’art. 668 c.p.c., dedotta rilevando che al
conduttore che non abbia avuto conoscenza della notifica dell’intimazione per caso fortuito o
forza maggiore, è riservato un trattamento deteriore rispetto a colui che, tempestivamente
presentatosi all’udienza, ha facoltà di chiedere di poter sanare la morosità. Il primo, intimato,
infatti, a parere del giudice rimettente, non può avvalersi, in sede di opposizione tardiva, dell’art.
551 l. 27 luglio 1978 n. 392. Ma tale opinione non è condivisibile. L’opposizione dopo la
convalida, di cui all’art. 668 c.p.c., è rimedio dato a tutela di chi, per irregolarità della notifica,
caso fortuito o forza maggiore non abbia avuto conoscenza dell’intimazione, ovvero (secondo
quanto sancito dalla Corte cost. con la sent. n. 89 del 1972) di chi, per gli ultimi due motivi, non
sia potuto comparire all’udienza di convalida pur avendo avuto conoscenza dell’intimazione
stessa. Una volta accertati i presupposti di ammissibilità dell’opposizione tardiva e venuta meno
l’ordinanza di convalida, si dà luogo ad un ordinario giudizio di cognizione nel quale il
conduttore ben può “in limine litis” avvalersi della facoltà di sanare la morosità. Corte
costituzionale 18 dicembre 1987 n. 572, Giur. cost., 1987, fasc. 12.
• Cassazione
2. Nel caso di opposizione all’intimazione di sfratto per morosità dopo la convalida, la procedura di
sanatoria a norma dell’art. 55 della l. 27 luglio 1978 n. 392, non richiede la preventiva decisione
in ordine all’ammissibilità dell’opposizione, non comportando automaticamente la chiusura del
procedimento, così come accade nell’ordinario procedimento di convalida, ma restando
l’avvenuta sanatoria condizionata al successivo accertamento dell’ammissibilità dell’opposizione
di spettanza del giudice competente per il merito. Ne consegue che la deliberazione fatta al
pretore, in quella fase sommaria, sull’ammissibilità dell’opposizione ha carattere provvisorio ed è
sempre revocabile con la sentenza che decide la controversia. Cassazione civile, sez. III, 2
dicembre 1993, n. 11923 Giur. it. 1995, I, 1, 1121; Foro It. 1994, I, 1074; Arch. locazioni, 1994,
306; Giust. Civ. 1994, I, 2285; Rass. Loc. Cond., 1995, 2, 237.
5. La condanna alle spese nel procedimento di convalida di sfratto dopo il recente intervento della
Suprema Corte (sentenza 5720/1994).
Con la sentenza 13-6-1994 n. 5720 la Corte di Cassazione (Sezione Terza) afferma
l’ammissibilità della condanna del conduttore intimato alla refusione in favore del locatore
intimante, ex art. 91 c.p.c., di onorari, competenze e spese del giudizio.
Ha statuito il S.C. che l’ordinanza pronunciata a norma dell’art. 663 comma 1 c.p.c., con cui lo
sfratto è convalidato, deve contenere la condanna dell’intimato al rimborso delle spese sostenute dal
locatore per gli atti del procedimento.
Il precedente orientamento della giurisprudenza – sia di legittimità che di merito– riconosceva il
diritto del locatore di ottenere la condanna del conduttore al pagamento delle spese del
procedimento di convalida ma solo in separato giudizio.
Con la sentenza in questione, invece la Suprema Corte fa proprio il prevalente precedente
orientamento dottrinario affermando la competenza funzionale del giudice della convalida ex art.
663 c.p.c. alla statuizione in punto di spese ex art. 91 c.p.c. negando legittimità a quell’originario
indirizzo.
La motivazione della sentenza 5720/1994 muove dalla valorizzazione del principio –
conseguente anche alla sentenza delle Sezioni Unite 6066/1983 – che l’art. 91 c.p.c. sia applicabile
“con riguardo ad ogni provvedimento, tanto a cognizione piena che sommaria o cautelare e
ancorché reso in forma di ordinanza o decreto, che nel risolvere contrapposte posizioni elimini il
procedimento davanti al giudice che lo emette quando si renda necessario ristorare la parte
vittoriosa degli oneri inerenti al dispendio di attività processuale legata da nesso causale con
l’iniziativa dell’avversario”.
Gli argomenti sviluppati dal S.C. considerano:
• la possibilità di leggere estensivamente il termine “sentenza” adoperato dall’art. 91 c.p.c.,
interpretandolo sostanzialmente, ed a prescindere dalla forma, quale “provvedimento che definisce
il giudizio”;
• il carattere “definitivo” del provvedimento di convalida ex art. 663 c.p.c.;
• il nesso di causalità esistente fra il comportamento inadempiente del conduttore e l’iniziativa
giudiziale del locatore, con la conseguente “soccombenza” dell’intimato insita nel provvedimento di
convalida;
• le ragioni di economia processuale giacché il giudice della convalida è l’unico in condizione di
valutare il comportamento anche processuale delle parti, di rilievo ai fini dell’applicazione –
ovviamente dichiarata ammissibile – del disposto dell’art. 92 c.p.c. in punto di eventuale
compensazione, totale e/o parziale, delle spese di soccombenza.
Non v’è dubbio – e del resto la stessa sentenza ne fa riferimento – che la presa di posizione
della Suprema Corte è stata orientata anche dalla riforma dei procedimenti cautelari contenuta nella
novella della legge 353/1990 laddove, con l’art. 669 septies, si è tradotto in dato normativo positivo
l’orientamento oramai dominante (tanto in dottrina quanto in giurisprudenza) che voleva che il
giudice della procedura cautelare condannasse il soccombente alla refusione delle spese di lite ogni
qual volta che, rigettando l’istanza, definiva il giudizio.
Del resto, se quell’orientamento valeva (e vale oggi, per effetto della nuova disposizione) in
ipotesi nelle quali il provvedimento del giudice non aveva alcuna attitudine al giudicato, a maggior
ragione era ragionevole che se ne facesse applicazione nei casi in cui – come è per la convalida ex
art. 663 c.p.c. – il provvedimento giudiziale è idoneo a produrre – sotto il profilo della res iudicata
– gli effetti tipici della sentenza di condanna.
I primi commenti alla sentenza in oggetto hanno evidenziato il pericolo che l’applicazione in
concreto del principio affermato dal S.C. – laddove esclude che la statuizione sulla condanna
dell’intimato alla refusione delle spese di lite possa essere posta a fondamento di autonoma
domanda in separato giudizio anche ove il locatore ne faccia espressa riserva nell’ambito del
giudizio di convalida – possa determinare l’interesse del conduttore intimato ad opporsi alla
convalida, con la conseguente necessità del giudizio di merito, anche se la opposizione fosse riferita
alla sola domanda dell’attore in punto di applicazione dell’art. 91 c.p.c..
Il timore potrebbe ritenersi fondato solo ove si ritenesse ammissibile che l’opposizione del
conduttore intimato possa involgere, anticipatamente, l’an ed il quantum della statuizione del
giudice ai sensi dell’art. 91 c.p.c.; il che non pare plausibile atteso che, proprio per le considerazioni
che hanno orientato il S.C., la decisione del Pretore in ordine alla condanna dell’intimato alle spese
di lite e/o alla compensazione delle stesse è capo obbligato della decisione e dunque, in quanto tale,
sottratto alle conseguenze “impeditive” conseguenti alla opposizione della parte intimata.
In tale prospettiva interpretativa potrebbe forse giovare la considerazione che l’opposizione del
conduttore alla eventuale richiesta del locatore in punto di quantificazione nel minimo del termine
per il rilascio ex art. 56 della legge 392/78 non ha mai costituito impedimento alla emanazione
dell’ordinanza di convalida di cui all’art. 663 c.p.c.
Il principio affermato dalla Corte con la sentenza 5720/1994 impone che si dia soluzione ai
quesiti se sia ammissibile e quale sia, il rimedio “impugnatorio” esperibile avverso il capo del
provvedimento giudiziale con il quale il Pretore abbia statuito ex art. 91 e/o 92 c.p.c. oppure abbia
omesso di provvedere.
Dando per scontata la risposta affermativa alla prima domanda (e ciò sia in forza dei principi
generali dell’ordinamento processuale sia in base all’orientamento dottrinario e giurisprudenziale
sulle analoghe fattispecie in tema di impugnabilità della statuizione sulle spese di lite nelle ipotesi di
emanazione di provvedimenti di rigetto delle istanze cautelari antecedentemente alla entrata in
vigore della novella del 1990) quanto alla seconda l’opzione possibile è, ovviamente, fra l’appello
ed il ricorso per Cassazione ex art. 111 Cost..
Parrebbe doversi preferire questa seconda soluzione (il ricorso per Cassazione) in
considerazione della forma del provvedimento (ordinanza piuttosto che sentenza), come ritenuto
proprio dalla qui sopra ricordata giurisprudenza in materia di impugnazione dei provvedimenti
cautelari di rigetto contenenti statuizione in punto di spese ex art. 91 c.p.c..
Le motivazioni della sentenza in esame escludono – a contrariis, ma del tutto logicamente – che
debba (rectius: possa) farsi applicazione dell’art. 91 e/o 92 c.p.c. nelle ipotesi di convalida di
licenza per finita locazione, qui essendo del tutto esclusa ogni ipotesi di soccombenza dell’intimato
conduttore, attesa la chiara natura di “condanna in futuro” del relativo provvedimento giudiziale.
GIURISPRUDENZA
• Cassazione
1. Il locatore ha facoltà di chiedere nell’intimazione di sfratto la condanna del conduttore alle spese
processuali, che ben possono essere richieste in separata sede. Cassazione civile, sez. III, 24
novembre 1994, n. 9987 Giust. civ. Mass. 1994, fasc. 11.
2. Il principio secondo cui la pronuncia sulle spese del giudizio compete esclusivamente al giudice
della causa, il quale, ai sensi dell’art. 91 c.p.c. deve provvedervi anche d’ufficio con il
provvedimento che chiude il processo avanti a sé – con la conseguenza che se tale statuizione non
contenga esso deve essere impugnato dall’interessato onde impedire il formarsi di un giudicato
negativo sul diritto al rimborso – trova applicazione anche nel procedimento per convalida di
sfratto per finita locazione, nel senso che l’ordinanza pronunciata a norma dell’art. 663 comma 1
c.p.c., con cui lo sfratto è convalidato, deve contenere la condanna dell’intimato al rimborso delle
spese sostenute dal locatore per gli atti del procedimento. Cassazione civile, sez. III, 13 giugno
1994, n. 5720 Giust. civ. Mass. 1994, fasc. 6 (s.m.) Arch. locazioni 1994, 763 nota (BEONI);
Rassegna delle locazioni e del Condominio,1995, 24 nota (MIRENDA).
• Merito
3. A seguito di ordinanza di convalida di sfratto per finita locazione e per morosità, ben può il
locatore ottenere la condanna dell’intimato al ristoro delle spese della procedura di convalida.
Pretura Verona, 3 giugno 1993, Arch. locazioni, 1993, 575.
6. Nella locazione per esigenze abitative transitorie ex art. 26 lett. a) della legge 392/1978 le
esigenze oggettive del conduttore rilevano indipendentemente dalla conoscenza che di esse abbia
il locatore?
Nell’affrontare il quesito in questione può essere utile premettere qualche breve cenno in merito
al concetto di transitorietà della locazione, alla luce degli insegnamenti che si ricavano dalla
giurisprudenza (soprattutto del Supremo Collegio).
È stato infatti ritenuto che:
• la natura transitoria delle esigenze abitative del conduttore ricorre solo “nelle ipotesi in cui
l’abitazione del conduttore, in quanto eccezionale e temporanea, comporti una sua permanenza
soltanto precaria o sussidiaria nell’immobile locato” mentre va esclusa nel caso in cui l’immobile
rappresenti la normale e continuativa dimora del locatario;
• la transitorietà può essere affermata sussistente nei rapporti nei quali l’aspirante conduttore,
disponendo di propria stabile ordinaria abitazione, voglia trasferire altrove la dimora per soddisfare
bisogni di carattere contingente, tali da non comportare, nemmeno sotto il profilo intenzionale, un
cambiamento di residenza;
• non è la maggiore o minor durata del contratto rispetto alla previsione tipica quadriennale
dell’art. 1 della legge 392/1978 a poter operare quale elemento qualificante della stabilità e/o
transitorietà della locazione bensì il “rapporto” stabile e/o continuativo che il conduttore faccia, per
uso di sua abitazione, dell’appartamento oggetto della locazione.
Due orientamenti si contrappongono circa i criteri da utilizzare per individuare nel caso
concreto se la locazione debba qualificarsi o meno come “transitoria”:
• da un lato si privilegia la verifica delle effettive esigenze abitative del conduttore a
prescindere da quelle indicate nel testo contrattuale; “compensandosi” la posizione del locatore
mediante il riconoscimento del suo diritto di proporre azione di annullamento del contratto per dolo
o errore quale strumento di reazione alla domanda del conduttore diretta alla declaratoria di
soggezione del contratto al disposto degli artt. da 1 a 25 della legge 392/1978;
• dall’altro si dà priorità e rilevanza decisiva alle dichiarazioni contrattuali delle parti ed in
particolare alla destinazione dell’immobile prospettata dal conduttore in sede contrattuale;
conseguentemente il conduttore in tanto potrà impugnare con successo il contratto ex art. 79 legge
392/1978 solo ove riesca a dimostrare che la transitorietà della locazione risultante dal testo
contrattuale è conseguente alla simulazione della sua effettiva e contraria volontà di condurre
stabilmente l’immobile.
Originariamente, e per anni, la Corte di Cassazione ha fatto proprio il primo indirizzo allorché
ha affermato, ripetutamente, che:
• “la natura transitoria delle esigenze abitative del conduttore va accertata con riferimento agli
specifici bisogni del conduttore che l’immobile locato è destinato a soddisfare al momento della
conclusione del contratto... (omissis)...; l’indagine diretta ad accertare quale delle due ipotesi ricorra
nel caso concreto va compiuta avendo riguardo all’effettiva destinazione dell’immobile e con
riferimento alla natura dell’esigenza abitativa del conduttore (desunta ad esempio dal sistema di vita
di costui, dalla sua attività lavorativa nel luogo in cui è situato l’immobile, dalla disponibilità o non
di un alloggio nel luogo di residenza anagrafica, ecc.) e non alle espressioni letterali del contratto
fatto sottoscrivere dal locatore al conduttore allorquando la dichiarata transitorietà – smentita dalla
situazione di fatto – abbia costituito il mezzo, vietato dall’art. 79 della l. 27 luglio 1978 n. 392, per
eludere l’applicazione della normativa sull’equo canone”;
• “la natura transitoria delle esigenze abitative del conduttore va accertata con riferimento agli
specifici bisogni del conduttore al momento della stipulazione del contratto, a nulla rilevando che le
parti abbiano contrattualmente esplicitato il carattere transitorio”;
• “la natura transitoria delle esigenze abitative del conduttore deve essere accertata con riguardo
alla natura dell’esigenza abitativa in relazione agli specifici bisogni del conduttore al momento della
conclusione del contratto e non solo alle dichiarazioni di una o di entrambe le parti, né alle
circostanze che il contratto sia stato stipulato per una durata inferiore al quinquennio o ad un canone
superiore a quello ritenuto equo dalla legge”.
Nel 1993 però il Supremo Collegio (con la sentenza 12947/1993) ha radicalmente mutato
orientamento affermando che “per qualificare come transitoria, o meno, l’esigenza abitativa del
conduttore, ai fini dell’applicazione al rapporto di locazione del regime giuridico c.d. dell’equo
canone, non è sufficiente il requisito obiettivo della reale situazione di fatto desunta dall’effettiva
destinazione dell’immobile locato (a prescindere dalle espressioni letterali adoperate nel contratto),
ma occorre anche la consapevoleza del locatore di tale effettiva destinazione; sicché, presumendosi
l’altrui buona fede, nel caso di un contratto di locazione ad uso abitativo stipulato con la previsione
di un uso transitorio, il conduttore che assume la nullità di tale clausola, ai sensi dell’art. 79 legge n.
392 del 1978, per inesistenza in concreto della dedotta natura transitoria delle esigenze abitative, ha
l’onere di dimostrare che questa inesistenza era ragionevolmente apprezzabile dal locatore, in base
alla obiettiva situazione di fatto da lui conosciuta al momento del contratto”.
Alla sentenza qui sopra riferita ha poi fatto seguito quella n. 5722 del 1994 che pare rinnovare il
precedente indirizzo allorché sostiene che “la natura transitoria delle esigenze abitative del
conduttore che esclude la locazione dell’immobile urbano per uso abitativo dall’ambito di
applicabilità della l. 27 luglio 1978 n. 392 deve essere accertata con riguardo alla natura
dell’esigenza abitativa in relazione agli specifici bisogni del conduttore al momento della
conclusione del contratto e non solo alle dichiarazioni di una o di entrambe le parti, né alle
circostanze che il contratto sia stato stipulato per una durata inferiore al quinquennio ad un canone
superiore a quello ritenuto ‘equo’ dalla legge”.
È però da dire che questa pronunzia è successiva a quella 12947/1993 solo con riferimento alla
data di pubblicazione giacché in realtà si tratta di decisione assunta all’esito di udienza tenutasi in
data anteriore.
Ed infatti con la decisione n. 4001 del 5 aprile 1995 la Corte ha riconfermato il suo mutato
orientamento affermando che “quando un contratto di locazione abitativa sia stipulato con la
previsione di un uso transitorio, il conduttore, che assuma la nullità ex art. 79 l. 27 luglio 1978 n.
392 di tale clausola per inesistenza in concreto della dedotta natura transitoria delle esigenze
abitative, deve dimostrare che questa inesistenza era ragionevolmente apprezzabile dal locatore in
base alla obiettiva situazione di fatto da quest’ultimo conosciuta al momento del contratto, non
potendo altrimenti rilevare contro il locatore né situazioni di fatto occultate dal conduttore, né la
riserva mentale di costui di non accettare la clausola”.
GIURISPRUDENZA
• Cassazione
1. Poiché la normativa sull’equo canone – salva l’ipotesi particolare (prevista dall’art. 26, lett. a)
della l. n. 392 del 1978) del conduttore che, pur avendo esigenze di natura transitoria, abiti
stabilmente nell’immobile per motivi di lavoro o di studio, dettata dalla opportunità di offrire
tutela ad una categoria di bisogni del tutto particolari – ha inteso tutelare l’abitazione quando
essa si presenta come esigenza primaria e normale ed abbia, quindi, carattere di stabilità e
continuatività, i contratti concernenti appartamenti per la sola villeggiatura o per soggiorni
saltuari, nei quali manchi una dimora continuativa e stabile, rientrano fra le locazioni stipulate
per soddisfare esigenze abitative di natura transitoria, con conseguente inapplicabilità della legge
n. 392 del 1978, indipendentemente dalla durata del contratto, essendo la transitorietà riferita
non a tale durata, bensì alla natura dell’esigenza abitativa. Cassazione civile, sez. III, 1°
dicembre 1983 n. 7200, Giust. civ. Mass. 1983, fasc. 11.
2. Poiché la normativa sull’equo canone – salva l’ipotesi particolare del conduttore, pur avendo
esigenze di natura transitoria, abiti stabilmente nell’immobile per motivi di lavoro o di studio
(art. 26, lett. a) della legge n. 392 del 1978), dettata dall’opportunità di riconoscere una categoria
di bisogni del tutto particolari, meritevoli di tutela – ha inteso tutelare l’abitazione quando essa si
presenta come esigenza primaria e normale ed abbia, quindi, carattere di stabilità, l’espressione
“esigenze abitative di natura transitoria” contenuta negli art. 1 (comma 2) e 26 della richiamata
legge non sia riferita alla durata della locazione, bensì alla natura dell’esigenza abitativa, a quei
rapporti cioè in cui l’abitazione del conduttore, in quanto eccezionale e temporanea, comporti
una sua permanenza precaria o sussidiaria, diversa dalla normale e continuativa dimora.
Cassazione civile, sez. III, 26 giugno 1984 n. 3730, Giust. civ. Mass. 1984 fasc. 6.
3. La disciplina dei contratti di locazione di immobili ad uso di abitazione contenuta nella l. 27
luglio 1978 n. 392 si applica esclusivamente ai rapporti afferenti alle necessità primarie di
alloggio di un nucleo familiare, mentre ne rimangono escluse tutte quelle ipotesi in cui la
locazione, anche se determinata da un bisogno abitativo, non sopperisce a tali necessità, salvo
che la locazione, secondo l’espressa previsione dell’art. 26 lett. a) della legge, pur se stipulata
per esigenze abitative di natura transitoria, sia determinata da motivi di lavoro o di studio del
conduttore. La indicazione di queste ultime ipotesi è da qualificarsi tassativa, e non consente di
estendere la disciplina della legge ad altri rapporti di carattere transitorio, determinati da
esigenze diverse, come quella della salute, non contemplate dalla norma. Cassazione civile, sez.
III, 3 settembre 1984 n. 4742, Giust. civ. Mass. 1984, fasc. 8.
4. La natura transitoria delle esigenze abitative va accertata con un apprezzamento di fatto degli
specifici bisogni che il locatario intende soddisfare con la punibilità dell’immobile urbano locato
e non può essere desunto solo dagli elementi obiettivi delle particolari destinazioni e ubicazioni
degli immobili oggetto del contratto di locazione. Cassazione civile, sez. III, 23 novembre 1984
n. 6078, Giust. civ. Mass. 1984, fasc. 11.
5. La natura transitoria delle esigenze abitative – che l’art. 26 della l. 27 luglio 1978 n. 392 esclude
dall’ambito di applicabilità della nuova disciplina – va accertata con riferimento agli specifici
bisogni che il conduttore intende soddisfare e soddisfi con la disponibilità dell’immobile
locatogli, e non può essere esclusa solo perché la durata convenzionale risulta superiore ad un
periodo stagionale (nella specie: un anno) o perché nel contratto non risulta specificata quale
esigenza abitativa si intende soddisfare, normale e continuativa, ovvero saltuaria e transitoria.
Cassazione civile, sez. III, 11 luglio 1987 n. 6078, Giust. civ. Mass. 1987, fasc. 7.
6. La natura transitoria delle esigenze abitative del conduttore che esclude la locazione dall’ambito
di applicabilità della legge n. 392 del 1978 (art. 1 e 26 della legge cosiddetta dell’equo canone),
va accertata con riguardo non alla durata della locazione ma alla natura dell’esigenza abitativa in
relazione agli specifici bisogni del conduttore al momento della conclusione del contratto,
restando senza rilevanza i successivi mutamenti delle esigenze abitative del conduttore
medesimo (nella specie, per separazione dal coniuge), inidonei a far venir meno la natura
transitoria del rapporto, prevista dalle parti all’inizio della locazione. Cassazione civile, sez. III,
20 giugno 1988 n. 4211, Giust. civ. Mass. 1988, fasc. 6.
7. La transitorietà delle esigenze abitative del conduttore (art. 1 e 26 legge n. 392 del 1978), da
accertarsi dal giudice con riferimento al momento della conclusione del contratto senza tener
conto di eventi cronologicamente successivi i quali possono aver reso stabile una esigenza
inizialmente insorta come contingente e precaria va riferita tra l’altro a quei rapporti nei quali
l’aspirante conduttore, pur disponendo di propria stabile ordinaria abitazione, voglia trasferire
altrove la dimora per soddisfare bisogni di carattere contingente, tali da non comportare
nemmeno sotto il profilo intenzionale un cambiamento di residenza. Le ragioni più o meno
oggettivamente cogenti o soggettivamente pressanti che possono essere all’origine delle suddette
esigenze abitative non incidono sul quadro della loro transitorietà quando, secondo un giudizio
“ex ante” affidato ad un criterio di normale prevedibilità, esse si palesino all’atto della
stipulazione dell’accordo destinate ad esaurirsi entro un tempo breve, segnatamente inferiore
comunque alla durata minima quadriennale previsto nel comma 1 dell’art. 1 legge n. 392 del
1978 (fattispecie in cui il contratto dedotto in lite era stato stipulato dal conduttore per
fronteggiare una situazione di emergenza venutasi a creare a seguito di eventi sismici che
avevano interessato la località ove egli aveva l’abitazione e ne avevano consigliato il
temporaneo, prudenziale allontanamento. Cassazione civile 23 ottobre 1989 n. 4291, Giust. civ.
Mass. 1989, fasc. 10.
8. La natura transitoria delle esigenze abitative del conduttore – che comporta l’esclusione della
locazione dall’ambito di applicabilità della l. 27 luglio 1978 n. 392 ai sensi dell’art. 26 lett. a)
della stessa legge – va accertata con riferimento agli specifici bisogni del conduttore che
l’immobile locato è destinato a soddisfare al momento della conclusione del contratto; nel senso
che la suddetta natura transitoria va riconosciuta nell’ipotesi in cui l’abitazione del conduttore, in
quanto eccezionale e temporanea, comporti una sua permanenza soltanto precaria o sussidiaria
nell’immobile locato, mentre va esclusa nel caso in cui l’immobile rappresenti la normale e
continuativa dimora del conduttore. L’indagine diretta ad accertare quale delle due ipotesi ricorra
nel caso concreto va compiuta avendo riguardo all’effettiva destinazione dell’immobile e con
riferimento alla natura dell’esigenza abitativa del conduttore (desunta ad esempio dal sistema di
vita di costui, dalla sua attività lavorativa nel luogo in cui è situato l’immobile, dalla
disponibilità o non di un alloggio nel luogo di residenza anagrafica, ecc.) e non alle espressioni
letterali del contratto fatto sottoscrivere dal locatore al conduttore allorquando la dichiarata
transitorietà smentita dalla situazione di fatto – abbia costituito il mezzo, vietato dall’art. 79
della l. 27 luglio 1978 n. 392, per eludere l’applicazione della normativa sull’equo canone.
Cassazione civile sez. III, 18 dicembre 1990 n. 11984, Giust. civ. 1991, I, 1783. Arch. locazioni
1991, 41.
9. La natura transitoria delle esigenze abitative del conduttore, che esclude la locazione
dell’immobile urbano per uso abitativo dell’ambito di applicabilità della l. 27 luglio 1978 n. 392,
deve essere accertata con riguardo alla natura dell’esigenza abitativa in relazione agli specifici
bisogni del conduttore al momento della conclusione del contratto e non solo dalle dichiarazioni
di una o di entrambe le parti. La carenza del predetto requisito, imposto da una necessità di tutela
assoluta del conduttore, in considerazione della natura primaria dell’esigenza abitativa,
determina la nullità della clausola sulla durata del contratto di locazione, rilevabile dal giudice di
ufficio, anche prescindendo dalle allegazioni delle parti e dalla prova della simulazione (relativa)
della clausola predetta. Cassazione civile sez. III, 11 ottobre 1991 n. 10676, Giust. civ. Mass.
1991, fasc. 10.
10.La natura transitoria delle esigenze abitative del conduttore, che comporta l’esclusione della
locazione dalla sfera di applicazione delle norme della l. 27 luglio 1978 n. 392, deve essere
desunta non dal termine di durata della locazione stabilito dalle parti, ma dalla natura della
esigenza abitativa che, nelle locazioni transitorie, in quanto diversa da quella della normale e
continuativa dimora, comporta una permanenza solo precaria e saltuaria del conduttore
nell’immobile, assumendo carattere eccezionale e temporaneo (nella specie, trattavasi di
locazione di appartamento utilizzato da una coppia per incontri saltuari che il giudice di merito
aveva ritenuto non transitoria solo a causa del termine quinquennale di durata
convenzionalmente stabilito). Cassazione civile sez. III, 26 febbraio 1992 n. 2371, Giust. civ.
Mass. 1992, fasc. 2. Riv. giur. edilizia 1992, I, 596. Riv. giur. edilizia 1992, fasc. 6.
11.La natura transitoria delle esigenze abitative del conduttore – che comporta l’esclusione della
locazione dall’ambito di applicabilità della l. 27 luglio 1978 n. 392 ai sensi dell’art. 26 lett. A
della stessa legge – va accertata con riferimento agli specifici bisogni del conduttore che
l’immobile locato è destinato a soddisfare al momento della conclusione del contratto; nel senso
che la suddetta natura transitoria va riconosciuta nell’ipotesi in cui l’abitazione del conduttore, in
quanto eccezionale e temporanea, comporti una sua permanenza soltanto precaria o sussidiaria
nell’immobile locato, mentre va esclusa nel caso in cui l’immobile rappresenti la normale e
continuativa dimora del conduttore. L’indagine diretta ad accertare quale delle due ipotesi ricorra
nel caso concreto va compiuta avendo riguardo all’effettiva destinazione dell’immobile e con
riferimento alla natura della esigenza abitativa del conduttore (desunta ad esempio dalla sua
attività lavorativa nel luogo in cui è situato l’immobile, dalla disponibilità o non di un alloggio
nel luogo di residenza anagrafica) e non alle espressioni letterali del contratto fatto sottoscrivere
dal locatore al conduttore allorquando la dichiarata transitorietà – smentita dalla situazione di
fatto – abbia costituito il mezzo, vietato dall’art. 79 l. 27 luglio 1978 n. 392, per eludere
l’applicazione della normativa sull’equo canone. Cassazione civile sez. III, 3 giugno 1992 n.
6777, Giust. civ. Mass. 1992, fasc. 6 – Conforme – Cassazione civile 11 ottobre 1991 n. 10676,
Riv. giur. edilizia 1992, I, 353.
12.Poiché le disposizioni della l. 27 luglio 1978 n. 392 sulla determinazione del canone di locazione
degli immobili per uso abitativo si applicano anche alle locazioni stipulate per esigenze abitative
transitorie solo se, ai sensi dell’art. 26 della citata legge, l’immobile sia stabilmente abitato per
motivi di studio o di lavoro, il conduttore che intende sostenere di essere tenuto al pagamento del
canone equo, piuttosto che di quello contrattualmente stabilito, ha l’onere di provare non solo la
ragione dell’occupazione (motivi di studio o di lavoro), ma anche il carattere di stabilità di
questa occupazione e tale prova può, però, desumersi anche da elementi indiziari. Cassazione
civile sez. III, 16 giugno 1992 n. 7410, Giust. civ. Mass. 1992, fasc. 6.
13.Qualora la stipulazione di un contratto di locazione per esigenze abitative transitorie sia stata il
mezzo per sottrarsi alla disciplina legale in tema di durata e canone, il contratto simulato è
illecito, ed al fine di far valere la nullità delle relative clausole e l’operatività del contratto
dissimulato il conduttore è ammesso a provare per testi la simulazione relativa. Cassazione civile
sez. III, 13 luglio 1992, n. 8501 Foro it. 1993, I, 1134, Arch. locazioni 1993, 306.
14.Per qualificare come transitoria o meno l’esigenza abitativa del conduttore non è sufficiente
considerare l’effettiva destinazione dell’immobile locato, anche se contrastante con le previsioni
contrattuali, ma occorre invece la consapevolezza del locatore di tale effettiva destinazione, di
conseguenza, il condutore che assuma la nullità delle clausole contrastanti con la disciplina del
c.d. equo canone ha l’onere di dimostrare non solo l’inesistenza in concreto della natura
transitoria delle esigenze abitative, ma anche che tale inesistenza era ragionevolmente
apprezzabile dal locatore, in base alla obiettiva situazione di fatto da lui conosciuta al momento
del contratto. Cassazione civile sez. III, 29 dicembre 1993, n. 12947, Giust. civ. 1995, I, 1603
nota (IZZO) – Foro it. 1994, I, 1440, Arch. locazioni 1994, 299, Corriere giuridico 1994, 741
nota (DE TILLA) – Conforme – Tribunale Milano, 30 gennaio 1995 Gius. 1995, 954 –
Conforme – Tribunale Milano, 12 gennaio 1995 Gius. 1995, 954.
15.La natura transitoria delle esigenze abitative del conduttore che esclude la locazione
dell’immobile urbano per uso abitativo dall’ambito di applicabilità della l. 27 luglio 1978 n. 392
deve essere accertata con riguardo alla natura dell’esigenza abitativa in relazione agli specifici
bisogni del conduttore al momento della conclusione del contratto e non solo alle dichiarazioni
di una o di entrambe le parti, né alle circostanze che il contratto sia stato stipulato per una durata
inferiore al quinquennio ad un canone superiore a quello ritenuto “equo” dalla legge. Cassazione
civile sez. III, 13 giugno 1994, n. 5722, Giust. civ. 1995, I, 1603 nota (IZZO) – Conforme –
Tribunale Verona, 29 ottobre 1993, Gius. 1994, fasc. 11, 169 (s.m.) – Conforme – Tribunale
Firenze, 7 dicembre 1993, Gius. 1994, fasc. 12, 207 (s.m.).
16.Quando un contratto di locazione abitativa sia stipulato con la previsione di un uso transitorio, il
conduttore, che assuma la nullità ex art. 79 l. 27 luglio 1978 n. 392 di tale clausola per
inesistenza in concreto della dedotta natura transitoria delle esigenze abitative, deve dimostrare
che questa inesistenza era ragionevolmente apprezzabile dal locatore in base alla obiettiva
situazione di fatto da quest’ultimo conosciuta al momento del contratto, non potendo altrimenti
rilevare contro il locatore né situazioni di fatto occultate dal conduttore, né la riserva mentale di
costui di non accettare la clausola. Cassazione civile sez. III, 5 aprile 1995, n. 4001 Giust. civ.
Mass. 1995, 774.
• Merito
17.Ai sensi dell’art. 26, lett. a), l. 27 luglio 1978 n. 392, la deroga alle norme sulla durata della
locazione e sulla misura del canone è consentita solo quando le esigenze abitative di natura
transitoria non solo esistono effettivamente, ma sono anche specificamente contemplate nel
contratto, che ad esse deve fare chiaro riferimento, pur senza formule solenni sacramentali, onde
possa esserne apprezzata la particolarità della causa rispetto a quella generica del tipo negoziale.
Tribunale Firenze 18 aprile 1980, Vita not. 1980, 889.
18.Ha natura transitoria ed è sottratta alla disciplina dettata dal capo I della legge n. 392/1978 la
locazione di un immobile urbano stipulata per uso abitativo da uno studente iscritto fuori corso
presso l’università della città in cui è sito l’immobile e residente altrove, a meno che il
conduttore dimostri di dovere occupare stabilmente l’unità immobiliare per seguire corsi di
pratica professionale. Pretura Parma 18 ottobre 1980, Foro it. 1981, I, 2302. Dir. giur. 1982, 127
(nota).
19.La prova della simulazione di una locazione transitoria è ammissibile senza limiti (e quindi
anche a mezzo testimoni e presunzioni), anche se proposta da una parte (nella specie, il
conduttore), in quanto diretta a far valere l’illiceità del contratto dissimilato (ovvero di un
contratto di locazione per il quale artificiosamente si è aggirata la normativa legale in tema di
canone). Tribunale Firenze 16 maggio 1990, Giur. merito 1992, 841.
20.L’esigenza transitoria rilevante ai fini dell’esclusione del contratto di locazione dalla tutela della
legge n. 392 del 1978 deve essere espressamente evidenziata dalle parti al momento della stipula,
mediante riferimento a fatti concreti relativi alle esigenze abitative del conduttore, a nulla
rilevando la qualificazione del rapporto come transitorio o la pattuizione della sua durata
infraquinquennale. Tribunale Milano 8 ottobre 1990, Arch. locazioni 1990, 739.
21.Spetta al conduttore, che deduca essere stato dissimulato un contratto soggetto alla disciplina
legale sotto l’apparenza di locazione transitoria, di darne la prova. Tribunale Firenze 6 novembre
1990, Giur. merito 1992, 840.
22.La transitorietà delle esigenze abitative del conduttore che esclude la locazione dall’ambito di
applicabilità della legge n. 392 del 1978 (art. 1 e 26 della suddetta legge) non è meramente
riferibile alla durata della locazione, né va automaticamente desunta da locuzioni o formule
genericamente espressive di tali esigenze adottate dalle parti in seno alla convenzione locatizia,
ma deve essere accertata in concreto con riguardo agli specifici bisogni che il conduttore ha
inteso soddisfare ed ha, in realtà, soddisfatto con la disponibilità dell’immobile locatogli. (Nella
specie la clausola relativa alla durata biennale del rapporto e le espressioni concementi il
carattere provvisorio ed eccezionale della convenzione locatizia, nonché l’uso dell’abitazione
come seconda casa, contenute in contratto, in assenza di concreto riferimento a reali necessità del
conduttore idonee a giustificare e a spiegare la precarietà dell’uso abitativo inerente
all’appartamento locato, sono state ritenute insufficienti ad attribuire il carattere della
transitorietà ad una esigenza abitativa atteggiantesi, di fatto, con i connotati tali della primarietà e
della stabilità). Tribunale Milano 27 dicembre 1990, Arch. locazioni 1990, 739.
23.Ai fini della qualificazione della natura transitoria del rapporto di locazione ai sensi dell’art. 26
legge n. 392 del 1978, non deve farsi riferimento alla pura e semplice volontà dei soggetti
contraenti, bensì alla obiettiva natura dell’esigenza abitativa del conduttore, che comporti una
permanenza precaria o sussidiaria nell’immobile, diversa dalla normale e continuativa dimora, in
base alle complessive risultanze del suo sistema di vita ed attività lavorativa. Tribunale Firenze
21 gennaio 1991, Arch. locazioni 1992, 159.
24.Perché un contratto di locazione possa ritenersi sottratto alla disciplina dell’equo canone, ai sensi
dell’art. 26 lett. a) legge n. 392 del 1978, in quanto stipulato per soddisfare esigenze abitative
transitorie del conduttore, occorre che siffatte esigenze siano realmente esistenti al momento
della stipulazione, non essendo sufficiente una dichiarazione di intenti in tal senso del conduttore
ovvero il generico richiamo nel contratto ad esigenze di natura transitoria (nella specie, in
presenza di un generico riferimento del contratto all’ “uso esclusivamente abitativo di natura
meramente transitoria” dell’immobile, e in difetto di prova circa la effettiva transitorietà delle
esigenze abitative del conduttore, il tribunale ha ritenuto corretto presumere la ordinarietà delle
stesse). Tribunale Milano, 24 maggio 1993, Gius. 1994, fasc. 7, 155 (s.m.).
25.Considerato che il principio della preminenza della situazione soggettiva ha subito un radicale
ridimensionamento per effetto della sent. 18 febbraio 1988 n. 185 della Corte cost. che ha
condizionato la decadenza dall’azione di risoluzione all’effettiva conoscenza – da parte del
locatore – della mutata utilizzazione dell’immobile locato, per qualificare come transitoria, o
meno, l’esigenza abitativa del conduttore, ai fini dell’applicazione al rapporto di locazione del
regime giuridico c.d. dell’equo canone, non è sufficiente il requisito obiettivo della reale
situazione di fatto desunta dall’effettiva destinazione dell’immobile locato, ma occorre anche la
consapevolezza del locatore di tale effettiva utilizzazione, con il conseguente onere probatorio a
carico del conduttore. Tribunale Milano, 12 gennaio 1995, Giust. civ. 1995, I, 1603 nota (IZZO).
ASPETTI CONTROVERSI IN TEMA DI COMPETENZA
E RITO LOCATIZIO (artt. 8, comma 2, n. 3 e 447 bis c.p.c.)
Relatore:
dott. Fortunato LAZZARO
presidente di sezione del Tribunale di Roma
Il legislatore del 1990, in considerazione del positivo esito dell’esperimento iniziato nella
vigenza della disciplina vincolistica (art. 29 della legge 23 maggio 1950, n. 253 e art. 6 della legge
1° maggio 1955, n. 368) e continuato con la legge 27 luglio 1978, n. 329 (artt. 30 e 45), ha
individuato nel pretore il giudice competente “per le cause relative a rapporti di locazione e di
comodato di immobili urbani e per quelle di affitto delle aziende, in quanto non siano di
competenza delle sezioni specializzate agrarie”.
1. Opportunità e ratio della scelta
L’attribuzione a detto giudice delle controversie in tema di concordato e di affitto di aziende
denota chiaramente la ratio della norma, che va identificata nella ricerca di chiarezza e di riduzione
delle questioni sulla individuazione del giudice competente, nonché nell’intento di evitare
(attraverso le devoluzione al pretore di materie tradizionalmente contermini alla locazione) che
siffatta individuazione possa dipendere dalla qualificazione giuridica del rapporto controverso (cfr.
in tal senso, la Relazione dei sen.ri Acone e Lipari alla 2 Commissione del Senato).
Il criterio (molto opportunamente) adottato elimina così ogni problema di ripartizione di
competenza tra pretore e tribunale in relazione al valore – che si determinava cumulando i fitti o le
pigioni rela
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