PRINCIPALI PROBLEMI IN MATERIA DI PROCEDIMENTO PRETORILE CON RIFERIMENTO AI SEGUENTI PROFILI: – Rappresentanza ed assistenza del difensore; – Poteri istruttori del giudice; – Connessione Relatore: dott. Antonio COSENTINO pretore della Pretura circondariale di Prato Introduzione. Prima di entrare nel merito dei temi che formeranno oggetto di questa conversazione vorrei fare alcune precisazioni di ordine metodologico; precisazioni che mi sembrano tanto più opportune in quanto nella programmazione dello svolgimento di questo incontro di studio è toccata a me l’apertura dei lavori. Il mio obiettivo non consiste nella trattazione sistematica della disciplina del processo civile davanti al pretore, ma, ben più modestamente, nella introduzione di un dibattito volto a favorire un confronto tra colleghi su alcune questioni di rilevante frequenza pratica; questioni sulle quali, a prescindere dal loro maggiore o minore interesse teorico, mi sembra necessario sforzarci di pervenire, attraverso lo scambio delle diverse possibili opinioni, a scelte interpretative che incontrino la condivisione più larga possibile nei nostri uffici. Ciò perché io credo che, specialmente in questo tempo di obbiettiva crisi della giustizia civile, uno dei contributi più importanti – e anche forse più semplici – che ciascuno di noi può dare al miglioramento dell’amministrazione della giustizia sia quello di assegnare un grado elevato, nella scala di valori che sempre è sottesa a qualunque operazione di ermeneutica giuridica, al valore della uniformità della interpetrazione giurisprudenziale e quindi della prevedibilità delle decisioni giudiziarie; e che l’esigenza di uniformità interpretrativa può essere perseguita – senza negare né, da un lato, l’indipendenza di ogni giudice, né, dall’altro, la funzione nomofilattica della Cassazione – proprio attraverso il confronto tra colleghi sulle diverse tesi. Questa opzione metodologica di fondo spiega la scelta degli argomenti della nostra conversazione; argomenti che, se indubbiamente sono marcatamente disomogenei tra loro dal punto di vista della sistematica giusprocessualistica, è tuttavia sembrato opportuno inserire in questa sessione di lavoro, proprio per la sua caratterizzazione eminentemente pratica e per la volontà di svolgere insieme una panoramica su alcune delle questioni che per prime si sono presentate all’attenzione degli operatori del processo pretorile dopo la riforma. Ciò premesso, mi sembra tuttavia opportuno offrire, prima di passare all’esame delle singole questioni indicate nel programma, un quadro d’insieme delle innovazioni introdotte nella disciplina del processo civile davanti al pretore dalle riforme del 1990 e del 1991. L’intervento riformatore ha inciso in duplice direzione sul processo pretorile: da un lato si è modificato il regime di competenza per materia e per valore, dall’altro si è rimodellata la struttura del Titolo secondo del Libro secondo del codice di procedura civile, con un intervento il cui risultato complessivo pare quello di una più marcata omogeneizzazione del giudizio pretorile al giudizio davanti al tribunale. Quanto alla competenza per valore, questa è stata innalzata assegnando al pretore la competenza a conoscere delle cause, anche relative a beni immobili, di valore non superiore, prima a venti e poi, col d.l. 238/95, a cinquanta milioni. Opportunamente il primo comma dell’art. 8 precisa che dette cause rientrano nella competenza pretorile in quanto non siano di competenza del giudice di pace (la mancanza di tale precisazione nel testo dell’art. 8 introdotto dalla legge 399/84 aveva fatto sorgere il dubbio che per le cause di valore inferiore ad un milione sussistesse una competenza concorrente, di diritto del pretore e di equità del conciliatore). Escono quindi dalla competenza pretorile grandi aree di contenzioso, cioè le cause mobiliari di valore fino a cinque milioni e le cause di risarcimento del danno da circolazione di veicoli e natanti fino a trenta milioni, nonché le cause rientranti nella competenza per materia del giudice di pace ai sensi del quarto comma dell’art. 7 c.p.c.; al pretore è peraltro stata recuperata, col d.l. 238/95, la competenza sulle opposizioni alle ordinanze ingiunzione e sulle opposizioni alle sanzioni amministrative ex art. 75 d.p.r. 309/90; competenza che nel disegno iniziale della riforma era stata assegnata al giudice di pace. Quanto alla competenza per materia del pretore, il nuovo testo dell’art. 8 c.p.c., risultante dalle modifiche apportate dall’art. 3 della legge 353/90 e poi dall’art. 18 della legge 374/91, prevede quanto segue: a) È stata mantenuta la competenza per le azioni possessorie e nunciatorie, purché non penda il giudizio petitorio (resta infatti salvo il disposto degli artt. 704 e 688, secondo comma, c.p.c.), mentre è stata abolita la generale competenza ante causam sulle domande di provvedimenti d’urgenza ex art. 700, in relazione alle quali il pretore sarà competente solo se abbia competenza anche nel merito; ciò in base al principio dettato dall’art. 669 ter c.p.c., per il quale la competenza all’adozione dei provvedimenti cautelari appartiene, appunto, al giudice competente per il merito (si noti che un’eccezione a tale principio è posta proprio dalla norma in commento, che attribuisce al pretore la competenza ante causam per le nunciatorie, in via generale e quindi anche quando la denuncia sia correlata ad una causa di merito di carattere petitorio eccedente il valore di cinquanta milioni). b) È stata attribuita al pretore la competenza per materia sulle cause relative a rapporti di locazione e comodato di immobili urbani e su quelle di affitto di azienda, in quanto non siano di competenza delle sezioni specializzate agrarie; la innovazione è stata salutata con unanime favore perché – in correlazione all’art. 447 bis c.p.c., che configura un rito speciale locatizio sostanzialmente esemplato sul rito del lavoro – elimina i numerosi e complessi problemi posti fino ad oggi dagli intricati rapporti tra competenza rito e connessione in materia di locazioni. Il meritorio intento di semplificazione ha poi giustamente condotto a far rientrare in tale competenza non solo i rapporti di locazione ma anche quelli, contigui, di comodato e affitto, onde ridurre l’area delle possibili questioni preliminari di competenza; restano invece escluse dalla competenza per materia in discorso le cause concernenti l’occupazione senza titolo. Oltre alle due forme di competenza per materia previste dal nuovo testo dell’art. 8 c.p.c. vanno poi aggiunte – a parte le preesistenti, e non modificate, competenze del pretore in funzione di giudice del lavoro – la già menzionata competenza a conoscere delle opposizioni ad ordinanza ingiunzione (artt. 22 l. 689/81) e la competenza su domande di provvedimenti cautelari inerenti a rapporti rientranti nella competenza di merito del giudice di pace (artt. 669 ter e 669 quater c.p.c.). Sono invece state sottratte alla competenza per materia del pretore, e attribuite al giudice di pace, le competenze in materia di apposizione di termini e osservanza delle distanze riguardo al piantamento di alberi e siepi, nonché in materia di misura dei servizi condominiali. L’unica innovazione concernente la competenza per territorio è, infine, quella introdotta dal secondo comma del citato art. 447 bis, ove si prevede, per le controversie relative ai rapporti di locazione e comodato di immobili urbani e di affitto di azienda, la competenza del giudice del luogo dove si trova la cosa. Così riassunte le novità introdotte in materia di competenza pretorile dalle riforme del '90/'91, conviene dare ora uno sguardo di insieme alle modifiche introdotte nel rito ordinario davanti al pretore. In primo luogo è da osservare che la riforma ha sostituito la precedente bipartizione del Titolo secondo del Libro secondo del codice – che conteneva un capo dedicato alle disposizioni comuni al procedimento davanti al pretore ed al conciliatore e un capo dedicato al solo procedimento davanti al conciliatore – introducendo tre capi, il primo dedicato alle disposizioni comuni al procedimento davanti al pretore e al giudice di pace e il secondo e terzo dedicati alle disposizioni speciali rispettivamente pertinenti al giudizio davanti al pretore e a quello davanti al giudice di pace. Il capo concernente le disposizioni comuni contiene tre articoli (artt. 311/313). L’art. 311, riprendendo quasi letteralmente il testo previgente (con la sostituzione dell’espressione “giudice di pace” a quella “conciliatore”), contiene il richiamo generale, per quanto non espressamente regolato, alla disciplina del procedimento davanti al tribunale; l’art. 312, riproducendo il vecchio testo dell’art. 317, disciplina il potere di iniziativa istruttoria del pretore e del giudice di pace; l’art. 313, riproducendo il vecchio testo dell’art. 318, concerne la proposizione della querela di falso. Il capo relativo alle disposizioni speciali per il procedimento davanti al pretore contiene solo due articoli (314 e 315) interamente dedicati alla fase decisoria. L’art. 314 disciplina la decisione a seguito di trattazione scritta, dettando una procedura analoga a quella prevista nel giudizio davanti al tribunale; l’art. 315 prevede invece un modello, fortemente innovativo, di discussione integralmente orale e di decisione contestuale. Più esteso (artt. 316/322), è infine il capo dedicato esclusivamente al procedimento davanti al giudice di pace. A seguito dell’intervento riformatore – e in particolare alla eliminazione delle disposizioni contenute nel vecchio testo degli artt. 312/315 – il giudizio pretorile risulta ora, come già accennato, assai più vicino di prima al giudizio davanti al tribunale. Non vi sono infatti più differenze in ordine alla costituzione delle parti e alla fase introduttiva del processo. A mente del nuovo testo dell’art. 82 c.p.c. non è più prevista la possibilità, contemplata dal vecchio testo di tale articolo, che il pretore autorizzi le parti a stare in giudizio personalmente; né è più possibile, per la abrogazione della disposizione contenuta nel secondo comma del vecchio testo dell’art. 312, la proposizione verbale della domanda per le cause di valore inferiore a L. 600.000. Inoltre scompare qualunque disposizione speciale relativa al contenuto della citazione e ai termini per comparire (art. 313 vecchio testo), cosicché ora anche nel procedimento davanti al pretore la citazione deve contenere tutti gli elementi di cui all’art. 163 c.p.c. e il termine per comparire è quello di cui all’art. 163 bis c.p.c. (60/120 giorni a seconda che il luogo della notifica sia in Italia o all’estero); inoltre non è più possibile la costituzione in udienza prevista dal vecchio testo dell’art. 314: costituzione delle parti, designazione del giudice ed eventuale differimento della prima udienza sono ora integralmente regolati dalle norme dettate per il procedimento davanti al tribunale (artt. 165, 166, 167, 171 e 168 bis) mentre troveranno integrale applicazione le preclusioni di cui agli artt. 167, 183 e 184 c.p.c.. Le modifiche normative ora illustrate si riverberano anche sulla interpretazione degli artt. 56 e 57 delle disposizioni di attuazione, non toccati dalla riforma, che concernono, rispettivamente, la designazione del giudice per ciascuna causa e il rinvio dell’udienza di comparizione. Sembra doversi ritenere che tali articoli siano stati implicitamente abrogati nella parte in cui si riferiscono al pretore, mantenendo efficacia solo con riferimento al procedimento davanti al giudice di pace (così PROTO PISANI). In definitiva quindi, all’esito della novellazione del 1990/91, le uniche varianti che residuano nel rito pretorile rispetto al procedimento davanti al tribunale consistono nel blando potere inquisitorio di disposizione d’ufficio della prova testimoniale e nella particolare disciplina della fase decisoria. Il patrocinio in dell’art. 82 c.p.c. pretura dei praticanti procuratori dopo la modifica Nell’ambito della nuova disciplina del rito pretorile uno dei primi problemi che si sono posti all’attenzione degli operatori è quello della possibilità per i praticanti procuratori di esercitare il patrocinio in pretura. Tale possibilità è espressamente prevista dall’art. 8 del R.D.L. 27-11-33 n. 1578 (Ordinamento della professione di avvocato e procuratore), nel testo modificato dalla legge 27-6-88 n. 242, in forza del quale i laureati in giurisprudenza che svolgano la pratica forense sono iscritti in un registro speciale tenuto dal consiglio dell’ordine e, dopo un anno di iscrizione in tale registro, sono ammessi, per un periodo di sei anni, “ad esercitare il patrocinio davanti alle preture del distretto nel quale è compreso l’ordine circondariale che ha la tenuta del registro suddetto”. A tale disposizione faceva riscontro, nel codice di rito, l’art. 82, che, nel testo anteriore alla riforma, prevedeva che le parti non potessero stare in giudizio davanti ai pretori “se non col ministero o con l’assistenza di un difensore”; a meno che non fossero autorizzate dal pretore a stare in giudizio di persona, in considerazione della natura ed entità della causa. Tale disciplina differiva da quella del giudizio davanti ai tribunali e alle corti d’appello, giudizio nel quale invece, per il terzo comma dello stesso articolo, le parti dovevano stare “col ministero di un procuratore legalmente esercente”. È peraltro pacifico che il “ministero”, o difesa attiva, si identifica nella rappresentanza processuale, che si conferisce con procura (art. 83 c.p.c.) e che consiste nel potere di compiere e ricevere nell’interesse della parte tutti gli atti del processo a questa non espressamente riservati (art. 84 c.p.c.); mentre l’“assistenza”, o difesa consultiva, consiste nell’ausilio che l’avvocato fornisce alla parte senza rappresentarla. Come già accennato nell’Introduzione, il testo dell’art. 82 c.p.c. è stato modificato dall’art. 20 della legge 374/91; nella nuova disciplina il giudizio davanti ai pretori viene totalmente uniformato, quanto al regime del patrocinio, al giudizio davanti ai tribunali e alle corti, prevedendosi che davanti a tutti tali uffici giudiziari le parti debbano stare in giudizio col ministero di un procuratore legalmente esercente. Nei giudizi davanti ai pretori è quindi venuta meno la possibilità per la parte di stare in giudizio con la semplice assistenza di difensore, nonché la possibilità di essere autorizzata a stare in giudizio di persona (ferme restando le deroghe all’onere di patrocinio previste in materia lavoro dal primo comma dell’art. 417 c.p.c. e in materia di opposizione alle ordinanze ingiunzione dall’art. 20 l. 689/81). In relazione al nuovo testo dell’art. 82 c.p.c. è allora sorto il dubbio, presso numerosi ordini forensi e uffici di pretura, che i praticanti procuratori non possano più esercitare il patrocinio in pretura, per avere l’art. 20 l. 374/91 implicitamente abrogato la norma di cui alla prima parte del secondo comma dell’art. 8, testo aggiornato, della legge forense. Tale dubbio si fonda su tre ordini di considerazioni: a) il primo è di ordine letterale: l’art. 82 nuovo testo dispone che le parti stiano in giudizio davanti ai pretori col ministero di procuratore e tale non è, per definizione, un praticante procuratore; b) il secondo è di ordine sistematico: il totale parallelismo esistente tra il regime del patrocinio davanti ai pretori e il regime del patrocinio davanti ai tribunali ed alle corti non appare compatibile con la previsione della possibiltà che il patrocinio davanti ai pretori possa essere esercitato dai praticanti; c) il terzo e di ordine teleologico-evolutivo: se la possibilità del patrocinio in pretura per i praticanti era stata introdotta per consentire ai giovani di avere una palestra professionale in cui formare le proprie prime esperienze nell’ambito di un contenzioso di ridotto valore, tale ultimo presupposto è venuto meno con l’innalzamento della competenza per valore del pretore fino alla soglia di cinquanta milioni. Dico subito che dei tre argomenti ora indicati mi sembra di effettiva consistenza è il primo: il secondo e il terzo potrebbero a mio giudizio valere come ragione di critica della mancata abrogazione espressa dell’art. 8 della legge forense, ma non valgono come dimostrazione della mancata abrogazione implicita di detta norma. Anche il primo argomento, sebbene non privo di suggestione, mi sembra tuttavia insufficiente per fondare un giudizio di abrogazione implicita di tale disposizione. Ritengo infatti che l’art. 8 R.D.L. 1578/33, nel testo introdotto dalla legge 242/88, non sia incompatibile col nuovo testo dell’art. 82 c.p.c. e quindi non possa ritenersi da tale norma implicitamente abrogato (art. 15 disp. prel. cc; l’abrogazione delle norme incompatibili con quelle recate dalla legge 374/91 è peraltro stata espressamente prevista dall’art. 47 di tale medesima legge). A mio giudizio infatti la relazione tra l’art. 8 della legge forense e l’art. 82 c.p.c. è una relazione non di antinomia ma di integrazione; e la riforma dell’art. 82 c.p.c. introdotta con legge 374/91 non ha inciso in alcun modo su tale relazione. Infatti il vecchio testo dell’art. 82 c.p.c., come si è visto consentiva alla parte di stare in giudizio davanti al pretore: a) col ministero di difensore; b) con l’assistenza di difensore; c) di persona, se autorizzata dal pretore. Secondo l’interpretazione di tale norma offerta dalla Cassazione, se la parte decideva di avvalersi del ministero di difensore, essa era tenuta a conferire procura ad litem ad un procuratore iscritto in un albo del distretto, mentre se decideva di avvalersi dell’assistenza (non rappresentanza) di un difensore, era tenuta a rivolgersi ad un avvocato. (cosi SS UU 26-6-86 n. 4252, in sede di composizione di un ampio contrasto giurisprudenziale sulla possibilità per l’avvocato esercente extra districtum di rappresentare la parte nei giudizi davanti al pretore; conf. Cass. 11880/91). Se allora, anche prima della modifica introdotta dalla legge 374/91, il ministero di difensore doveva essere esercitato, a mente dell’art. 82 c.p.c., da un procuratore iscritto ad un albo del distretto; se tale disciplina codicistica non era di ostacolo alla piena operatività dell’art. 8, nel testo aggiornato, del R.D.L. 1578/33 (il quale, ammettendo i praticanti all’esercizio del patrocinio, cioè della difesa tecnica in senso generico, li facoltizza non solo a svolgere l’assistenza ma anche a prestare il ministero); se quindi, anche prima della legge 374/91, la legge forense prevedeva un’integrazione a quanto previsto dal codice di rito, perché per i procedimenti davanti ai pretori ammetteva i praticanti (intra districtum) ad esercitare (anche) il ministero, il quale, per il codice, doveva essere esercitato da procuratori (intra districtum); mi pare si possa attendibilmente sostenere che la disposizione della legge forense sia integrativa e non contrastante con la disciplina codicistica del patrocinio davanti ai pretori e che, conseguentemente, la modifica della disciplina codicistica del patrocinio davanti ai pretori non abbia inciso sulla operatività della norma della legge forense. Tanto più che tale modifica non ha in alcun modo inciso sulla nozione normativa di ministero di difensore, inteso come rappresentanza della parte ad opera di un procuratore legalmente esercente, ma si è limitata ad eliminare la possibilità per la parte di stare in giudizio davanti ai pretori con la sola assistenza di difensore, ovvero di persona. Credo quindi si possa continuare a ritenere operante la possibilità per i praticanti procuratori di esercitare il patrocinio in pretura. Tale conclusione in definitiva si risolve nel ritenere che l’art. 8 della legge forense equipari i praticanti iscritti nel registro ai procuratori iscritti nell’albo, quanto alla possibilità di esercitare il patrocinio davanti ai pretori del distretto in cui è compreso l’ordine circondariale presso cui il registro e l’albo sono tenuti; legittimando quindi i praticanti procuratori, alle condizioni e nei limiti indicati dalla stessa norma, come procuratori legalmente esercenti davanti ai pretori del distretto. Questa conclusione peraltro ha il pregio di uniformare il regime del patrocinio davanti ai pretori in sede civile e in sede penale; nella quale ultima i praticanti possono sicuramente esercitare il patrocinio come difensori di fiducia delle parti private, compresa la parte civile, nonché (nonostante l’isolato precedente di Cass. 12-7-94 n. 7909, poi superato da Cass. 16-3-95 n. 2722) come difensori di ufficio dell’imputato. Sul potere del difensore di rappresentare la parte in sede di interrogatorio libero ex art. 183 c.p.c. Sempre con riguardo alle problematiche connesse alla difesa tecnica, un secondo tema sul quale sono state espresse opinioni discordanti, in dottrina e tra gli operatori, è quello della possibilità che il difensore rappresenti la parte nel compimento dell’interrogatorio di cui al secondo comma dell’art. 183 c.p.c.. Tale norma, introducendo anche nel rito ordinario quel momento di contatto personale tra le parti ed il giudice che costituisce una delle caratteristiche salienti del rito del lavoro, ha previsto che le parti compaiano personalmente all’udienza di trattazione (qualificando la mancata comparizione come comportamento valutabile ai sensi dell’art. 116 c.p.c.) per rendere l’interrogatorio libero e per consentire lo svolgimento del tentativo di conciliazione. Alle parti è peraltro stata riconosciuta, analogamente a quanto previsto nell’art. 420, secondo comma, c.p.c., la possibilità di farsi rappresentare da un procuratore generale o speciale, il quale deve essere a conoscenza dei fatti di causa; la procura, precisa la norma, deve essere conferita con atto pubblico o scrittura privata autenticata e deve comprendere la facoltà di transigere e conciliare. Rilevo incidentalmente che la trasposizione nel rito ordinario della disciplina contenuta nel secondo comma dell’art. 420 c.p.c. rende ormai inattuale il dubbio che era sorto in giurisprudenza in ordine alla interpretazione dell’art. 117 c.p.c., dubbio vertente proprio sulla possibilità per la parte chiamata a rendere l’interrogatorio non formale di farsi rappresentare da un procuratore (detta possibilità veniva negata da Cass. 2422/60, in Rep. Foro It. 1960, voce Prova Civile, n. 72; ammessa invece da Cass. 9316/91, Id., 1991, voce Prova Civile, n. 16). I problemi posti dall’art. 183, secondo comma, c.p.c., in relazione al tema dei rapporti tra la parte ed il suo difensore, sono i seguenti: a) se il difensore possa ricevere tale procura; b) se tale procura possa essere contenuta nella procura ad litem rilasciata nelle forme di cui al terzo comma dell’art. 83 c.p.c.; c) se tale procura sia implicita nella procura a transigere e conciliare. a) La prima questione è stata discussa già a proposito della previsione contenuta nell’art. 420 c.p.c.. In alcuni commenti alla legge 533/73 si sostenne che il difensore della parte non potesse essere nominato procuratore della stessa, ai sensi e per gli effetti di cui al secondo comma dell’art. 420 c.p.c., perché ciò sarebbe stato incompatibile con la ratio a cui era ispirata la necessaria comparizione delle parti nel sistema del processo del lavoro. In particolare, si sottolineava, da un lato, che il difensore non sarebbe stato adatto, per la sua forma mentis ed attitudine professionale, alla effettiva ricerca della conciliazione; dall’altro, che il difensore non poteva avere la conoscenza dei fatti di causa richiesta dalla norma. A questi argomenti (avanzati da F. FOGLIA), è stato aggiunto in giurisprudenza che la nomina del difensore come procuratore speciale sarebbe inammissibile per contrasto con l’obbligo del difensore al segreto professionale (Pret. Milano 30-5-77, in Riv. dir. lav. 1977 II 278). Largamente prevalente peraltro appare l’orientamento, cui aderisco, che, basandosi sulla assenza di impedimenti normativi espressi, ritiene ammissibile il conferimento al difensore della procura a rispondere all’interrogatorio libero (PEZZANO, PAPALEONI, LUISO); essendosi peraltro sottolineato, a mio avviso condivisibilmente, che la conoscenza dei fatti di causa richiesta dall’art. 420 c.p.c. non necessariamente deve essere conoscenza diretta. Semmai, è stato rilevato (FABBRINI) come sia sconsigliabile per l’avvocato assumere l’incarico di rendere l’interrogatorio libero in nome del proprio assistito, poiché dallo svolgimento di tale incarico possono discendere obbiettivi rischi professionali, connessi alla confusione tra il piano della difesa tecnica e quello della cura sostanziale degli interessi della parte. In giurisprudenza, la tesi negativa è stata sostenuta, a quanto mi consta, solo nella sentenza del Pretore di Milano citata sopra; mentre la tesi affermativa è stata sostenuta, oltre che in un ormai remoto precedente del Pretore di Firenze (Pret. Firenze 26-5-75, in Mass. giur. lav. 1976, 83), da Cass. 25-3-83 n. 2096). Ritengo che le conclusioni interpretrative elaborate in relazione all’art. 420 secondo comma siano tranquillamente estensibili al corrispondente disposto dell’art. 183 secondo comma; in dottrina la possibilità per la parte di farsi rappresentare dal difensore nell’interrogatorio libero è stata espressamente sostenuta da CHIARLONI. b) Sulla premessa che la parte possa farsi rappresentare, per rendere l’interrogatorio libero, dal proprio difensore, si deve poi verificare se sia valida una procura a tal fine conferita nel contesto di una procura ad litem rilasciata nelle forme dell’art. 83 terzo comma c.p.c.. Al riguardo è da rilevare che l’art. 183, secondo comma, c.p.c. impone, perché l’interrogatorio libero possa essere reso da un procuratore nominato dalla parte, che la procura da questa rilasciata presenti un requisito di forma ed uno di contenuto: il requisito di forma consiste nel conferimento con atto pubblico o scrittura privata autenticata, il requisito di contenuto consiste nella inclusione, tra i poteri del procuratore, del potere di transigere o conciliare la controversia; iniziando l’esame del nostro problema dall’analisi del requisito di forma, si tratta di vedere se questo possa ritenersi soddisfatto dalle modalità previste nel terzo comma dell’art. 83 c.p.c.. Secondo tale disposizione la procura speciale ad litem può essere conferita, oltre che con atto pubblico o scrittura privata atenticata, con scrittura in calce o a margine ad uno degli atti in essa indicati (citazione, ricorso, controricorso, comparsa di risposta o d’intervento, precetto e domanda d’intervento nella esecuzione) e in tale ipotesi l’autografia della sottoscrizione della parte deve essere certificata dal difensore. È chiaro che la soluzione – e, prima ancora, la stessa impostazione – del problema che stiamo esaminando è strettamente connessa al valore che si attribuisca alla certificazione del difensore prevista dal terzo comma dell’art. 83 c.p.c.. Se infatti si ritenga che la certificazione del difensore prevista dall’art. 83, terzo comma, c.p.c., non costituisca una vera e propria autenticazione, ma rientri tra le ipotesi di c.d. autentica minore, o vera di firma, in quanto l’accertamento in essa contenuto copra solo l’identità – e non la legittimazione, i poteri e la capacità – del sottoscrittore (in tal senso Cass. SS UU 5-2-94 n. 1167); ovvero che detta certificazione sia atto assolutamente estraneo al modello della autenticazione (potendo il potere certificatorio del difensore esercitarsi solo sulla sottoscrizione delle procure in suo favore, cosicché la certificazione costituirebbe in realtà nient’altro che l’accettazione dell’incarico da parte del professionista: in tal senso CIPRIANI); allora si dovrebbe escludere che la procura a rendere l’interrogatorio libero possa essere validamente rilasciata nel contesto di una procura ad litem data nelle forme di cui all’art. 83 terzo comma c.p.c., proprio per il motivo che tali forme non integrerebbero gli estremi della scrittura privata autenticata. Se invece si ritenga che la certificazione del difensore rappresenti una vera e propria autenticazione della firma della parte (in questo senso MANDRIOLI, nonché Cass. SS UU 22-11-94 n. 9869), allora si dovrebbe verificare quale sia il limite del potere certificatorio del difensore; se cioè il difensore possa attestare la provenienza dalla parte della sola dichiarazione di conferimento della procura ad litem, oppure possa attestare la provenienza dalla parte di qualunque altra dichiarazione resa contestualmente al rilascio della procura ad litem ed avente un contenuto connesso al conferimento dello ius postulandi. Solo accogliendo la seconda delle due alternative sopra prospettate potrebbe ritenersi che le forme di cui al terzo comma dell’art. 83 c.p.c. soddisfino il requisito della scrittura privata autenticata previsto dall’art. 183 c.p.c.. Ritengo peraltro che questa prospettiva interpretativa susciti rilevanti perplessità, posto che dalle risposte all’interrogatorio libero potrebbero conseguire effetti indirettamente dispositivi del diritto in contesa; perplessità che si accrescono se si considera il secondo requisito – quello di sostanza – che l’art. 183 c.p.c. prescrive per la procura speciale a rendere l’interrogatorio libero, e cioè che al procuratore sia stato conferito anche il potere di transigere o conciliare la lite (il che mi pare confermi che dalla risposta all’interrogatorio libero può derivare la disposizione del diritto in contesa). Al riguardo va infatti rilevato che il secondo comma dell’art. 84 c.p.c., nello stabilire che il difensore non può compiere atti di disposizione del diritto in contesa se non ne ha ricevuto espressamente il potere, differenzia nettamente la rappresentanza processuale (che si conferisce con la procura ad litem e si fonda su un rapporto di prestazione d’opera professionale) dalla rappresentanza sostanziale (che si conferisce con un atto distinto rispetto alla procura ad litem e si fonda su un rapporto di mandato). Da tale rilievo mi sembra doversi desumere che il potere certificatorio del difensore – riconosciuto dall’art. 83, terzo comma, c.p.c. con espresso riguardo alla procura speciale ad litem – non comprenda il potere di certificare la autografia della sottoscrizione di una procura a conciliare. Pertanto se la procura a rendere l’interrogatorio libero non può essere disgiunta, a mente dell’art. 183 c.p.c., dalla procura a conciliare e se la procura a conciliare non può essere rilasciata nelle forme dell’art. 83, terzo comma, c.p.c., mi sembra inevitabile concludere per la inammissibilità di una procura a rendere l’interrogatorio libero e a conciliare che sia stata rilasciata al difensore nel contesto di una procura speciale alla lite data nelle forme di cui all’art. 83 terzo comma c.p.c.. Del resto tale opzione interpretativa non mi pare sacrifichi al rigorismo formale alcun interesse sostanziale; infatti verosimilmente i casi in cui la parte riterrà conveniente delegare al difensore lo svolgimento dell’interrogatorio libero e del tentativo di conciliazione riguarderanno per lo più le imprese di dimensioni medio/grandi, con un contenzioso tendenzialmente standardidazzato, le quali agevolmente potranno munire il proprio difensore di procura generale per atto pubblico o scrittura privata autenticata. c) Quanto all’ultima delle questioni sopra individuate, concernente la possibilità di considerare la procura a rendere l’interrogatorio libero implicitamente contenuta nella procura a transigere e conciliare (che, alla luce di quanto precisato al punto precedente, sia stata rilasciata nelle forme di cui al secondo comma dell’art. 83 c.p.c.), riterrei che si tratta di una questione di interpretrazione della procura. In linea generale osservo che l’attività di conclusione di un accordo conciliativo è diversa rispetto all’attività di risposta all’interrogatorio libero e che, se la procura a rendere l’interrogatorio libero deve, per poter spiegare il proprio effetto legittimante in capo al procuratore, conferire anche il potere di conciliare, il conferimento del potere di conciliare non implica di per se stesso il conferimento del potere di rendere l’interrogatorio; con la conseguenza che in linea di massima escluderei la possibilità di ammettere il difensore munito di procura a conciliare, ma non di espressa procura a rendere l’interrogatorio libero, a rappresentare la parte nel compimento dell’interrogatorio medesimo. Salva tuttavia la possibilità che il conferimento al difensore del potere di rappresentare la parte nel compimento dell’interrogatorio libero sia desumibile, univocamente pur se implicitamente, dalle particolari espressioni utilizzate nella procura stessa. Preclusioni istruttorie e poteri istruttori d’ufficio del pretore. 1) Le preclusioni istruttorie e il loro regime di rilevabilità. È osservazione comune che una delle innovazioni di maggior rilievo introdotte dall’intervento riformatore sul rito civile è rappresentata dalla introduzione di una netta distinzione tra la fase di trattazione – volta alla definizione del thema decidendum e quindi alla individuazione dei fatti controversi – e la fase istruttoria; nonché dalla introduzione di un sistema di preclusioni concernente tanto la allegazione dei fatti quanto la deduzione delle istanze istruttorie tendenti a fornire la prova dei fatti allegati. Per quanto specificamente concerne le istanze istruttorie, va in primo luogo sottolineato che – sebbene il legislatore preveda che tanto l’attore quanto il convenuto indichino fin dai rispettivi atti introduttivi i mezzi di prova dei quali intendono avvalersi e i documenti che offrono in comunicazione (artt. 163 n. 5 e 167, primo comma) – nessuna sanzione processuale è tuttavia comminata per il caso che in citazione o in comparsa sia omessa tale indicazione. Il che peraltro è coerente con la netta scansione tra fase di trattazione e fase istruttoria, cui sopra si è fatto cenno: consentire alle parti di formulare le proprie richieste istruttorie anche in una fase successiva alla chiusura della trattazione – dopo quindi che dagli atti introduttivi e dalla trattazione svolta nell’udienza di cui all’art. 183 c.p.c. siano stati evidenziati i fatti realmente controversi, cioè realmente bisognosi di prova – risponde infatti ad una evidente scelta di razionalità ed economia processuale. Le parti quindi, abbiano o meno svolto deduzioni istruttorie negli atti introduttivi, possono svolgere tali deduzioni nell’udienza di trattazione, ovvero possono chiedere al giudice un termine (che il giudice è tenuto a concedere, salvo determinarne l’ampiezza discrezionalmente), per produrre documenti e indicare mezzi di prova, nonché altro termine per l’eventuale indicazione di prova contraria. È peraltro evidente che le deduzioni istruttorie sono comunque condizionate all’assolvimento da parte di attore e convenuto dell’onere di allegazione dei fatti pricipali rilevanti in causa (per tali intendendosi i fatti costituitivi impeditivi modificativi ed estintivi del diritto azionato) e quindi sono limitate dalle preclusioni verificatesi per tali allegazioni ai sensi del ripetuto art. 183 c.p.c.. All’udienza successiva alla scadenza dei termini di cui al primo comma dell’art. 184 c.p.c., il giudice provvederà alla pronuncia sulle istanze istruttorie, aprendo così la fase dell’istruttoria probatoria in senso stretto. In ordine all’affermazione della esistenza di una preclusione istruttoria va peraltro sottolineato che la lettera della legge, come non prevede espresse sanzioni processuali alla mancata proposizione di richieste istruttorie negli atti introduttivi del processo, così non prevede espresse sanzioni al mancato svolgimento delle richieste istruttorie nella udienza di trattazione o nella udienza fissata a seguito della concessione del termine di cui al quinto comma dell’art. 183. L’unico riferimento alla perentorietà dei termini per lo svolgimento di richieste istruttorie concerne i termini assegnati dal giudice a richiesta delle parti ai sensi del primo comma dell’art. 184; cosicché potrebbe astrattamente sostenersi che, qualora le parti non si autolimitino chiedendo un termine (perentorio ex lege) per deduzioni istruttorie, potrebbero, anche in prosieguo di causa, svolgere le istanze istruttorie non svolte negli atti introduttivi o nell’udienza di trattazione. Tale ipotesi interpretativa è però stata decisamente respinta dalla totalità dei commentatori della riforma, i quali hanno unanimemente evidenziato che tutto il sistema introdotto dalla l. 353/90 si fonda sulla articolazione del processo per fasi, sulla separazione tra fase preparatoria e fase istruttoria e sulla esistenza di una cerniera tra le due fasi costituita dalla preclusione in tema di richieste istruttorie collegata al momento immediatamente successiva alla chiusura della fase preparatoria: cerniera dettata dai primi due commi dell’art. 184, a tenore dei quali, all’esito della definizione del thema decidendum e del thema probandum, le parti o chiedono il termine per deduzioni istruttorie di cui all’art. 184 primo comma o perdono il potere di chiedere acquisizioni istruttorie ulteriori rispetto a quelle già chieste negli atti introduttivi o nel corso della udienza di trattazione o nel corso dell’udienza fissata ai sensi dell’art. 183 ultimo comma c.p.c. (in questi termini, PROTO PISANI). Si deve quindi conclusivamente affermare che la preclusione istruttoria matura “o quando, non essendovi una richiesta per la fissazione di un termine per avanzare nuove richieste istruttorie, il giudice abbia provveduto sulle richieste avanzate o allorché scadano i termini perentori che il giudice abbia fissato” (ATTARDI); preclusione che, è bene aggiungere, il primo comma dell’art. 184 ha chiaramente previsto, sciogliendo i dubbi che al riguardo erano sorti nel rito del lavoro, non solo per le prove costituende ma anche per le produzioni documentali. Sfuggono a tale preclusione: a) Le deduzioni istruttorie volte a fornire la prova di fatti di cui sia ammessa la allegazione tardiva o di cui la necessità di prova derivi da una contestazione tardiva che sia stata ammessa; senza soffermarmi sul tema delle preclusioni alle allegazioni o alle contestazioni, mi limito a segnalare che nei casi in cui sia ammessa una tardiva allegazione (generalmente ritenuta possibile in ordine ai fatti sopravvenuti o in ordine ai fatti la cui rilevanza dipenda da sopravvenute modifiche normative), o in cui la parte sia rimessa in termini per effettuare una allegazione o una contestazione, non può non essere ammessa una tardiva deduzione istruttoria volta a dimostrare l’esistenza del fatto tardivamente allegato o contestato; b) l’istanza di verificazione della scrittura privata (mentre il disconoscimento della scrittura prodotta dall’avversario resta soggetto al regime dell’art. 215), la querela di falso, il disconoscimento delle riproduzioni meccaniche, il giuramento decisorio (in tal senso, TARZIA, RAMPAZZI). c) le deduzioni istruttorie di cui al terzo comma dell’art. 184 c.p.c., cioè quelle rese necessarie dai mezzi di prova disposti d’ufficio; sul punto tornerà a proposito dell’art. 312 c.p.c.. Così delineato il sistema delle preclusioni istruttorie, resta da chiedersi se la decadenza della parte dalla deduzione istruttoria debba essere rilevata d’ufficio o su istanza della controparte. Il tema confluisce nel più generale tema della rilevabilità delle preclusioni processuali nel sistema introdotto dalla l. 353/90, non sussistendo ragioni per differenziare il regime di rilevabilità delle preclusioni istruttorie da quello delle preclusioni concernenti le allegazioni di fatti e la proposizione di domande ed eccezioni. È noto che nel regime anteriore alla novella si riteneva che nel rito ordinario le preclusioni in cui fosse incorsa una parte (ad esempio con riguardo alla proposizione della domanda riconvenzionale, o con riguardo alla proposizione di una domanda nuova) non potessero essere rilevate d’ufficio, trattandosi di divieti posti nell’esclusivo interesse delle parti; a proposito del rito del lavoro era invece prevalso un orientamento più rigoroso, che dalla considerazione dell’esistenza di un interesse pubblicistico al funzionamento del rito aveva tratto la conseguenza della rilevabilità di ufficio delle preclusioni maturate a carico delle parti. È opinione comune che con la riforma del 1990 è stato introdotto un modello processuale in cui l’esistenza di un sistema rigido di preclusioni costituisce elemento costitutivo, funzionale alla esigenza, squisitamente pubblicistica, di uno svolgimento celere ed ordinato del processo; con la conseguenza che il rispetto delle preclusioni non può essere lasciato alla disponibilità delle parti ma deve essere assicurato in ogni caso dal controllo del giudice, il quale quindi ha il potere-dovere di rilevare la tardività delle deduzioni di parte anche d’ufficio. 2) Il potere del pretore di disporre d’ufficio la prova testimoniale. La novella del 1990 non ha introdotto alcuna modifica in materia di mezzi di prova disponibili d’ufficio, i quali continuano ad essere i medesimi previsti nel sistema anteriore. In ordine a tali mezzi di prova si pone però, in seguito alla riforma, un problema non sussistente – nell’ambito del rito ordinario – nel sistema precedente, cioè quello del raccordo tra la possibilità della disposizione ufficiosa di tali mezzi di prova e la esistenza di un sistema di preclusioni istruttorie per le parti; problema che può così sintetizzarsi: i poteri istruttori del giudice sono soggetti alle stesse preclusioni a cui sono soggetti i poteri istruttori delle parti? se no, quali sono i poteri di risposta delle parti all’esercizio dell’iniziativa istruttoria ufficiosa? La prima questione è generalmente risolta in senso negativo, ritenendosi che l’uso dei poteri istruttori d’ufficio non è subordinato alle decadenze previste per le deduzioni istruttorie delle parti (PROTO PISANI, TARZIA, RAMPAZZI); è stato anzi sottolineato come l’esigenza del ricorso d’ufficio a mezzi istruttori può sorgere in ogni momento del processo e talora sorge necessariamente dopo l’assunzione delle prove proposte dalle parti (si pensi alla prova testimoniale di riferimento, o al giuramento suppletorio, deferibile soltanto ad istruzione chiusa). Potrebbe peraltro sostenersi che, in mancanza di una disciplina generale dei poteri istruttori d’ufficio nel rito ordinario, la questione dell’esistenza di un termine per il relativo esercizio da parte del giudice dovrebbe essere affrontata distintamente per ciascuno dei mezzi istruttori disponibili d’ufficio. In tale prospettiva è necessario considerare più da vicino i limiti del potere assegnato al pretore (e al giudice di pace) dall’art. 312, nuovo testo, c.p.c., il quale riproduce senza modifiche il testo del primo comma del previgente art. 317 c.p.c.. Al riguardo va innanzi tutto osservato che tale potere – che certamente è soggetto, a differenza che nel rito del lavoro, ai limiti dettati dal codice civile in materia di prova testimoniale – può essere esercitato solo in relazione a fatti esposti dalle parti e solo chiamando a deporre persone a cui le parti abbiano fatto riferimento. È quindi da escludere qualunque iniziativa ufficiosa ad explorandum e qualunque utilizzazione di scienza privata del giudice (DITTRICH), in quanto il potere ufficioso in parola patisce il duplice limite della allegazione dei fatti ad opera delle parti e del riferimento, pure ad opera delle parti, alle persone da chiamare a deporre (disponibilità del “mezzo” ma non della “fonte” di prova). Il limite della allegazione esclude quindi, tra l’altro, che il potere in parola sia esercitabile per fornire la prova di fatti non allegati e la cui esistenza appaia dal materiale legittimamante acquisito in causa. Al riguardo è stato rilevato che, nel sistema anteriore alla novella, l’art. 317 si correlava strettamente all’art. 316, il quale prevedeva il potere del pretore di indicare “in ogni tempo” alle parti le lacune che ravvisava nell’istruzione; tale disposizione è stata abrogata e non sostituita nel sistema novellato, nel quale quindi è venuto meno quel potere di “suggerimento istruttorio permanente” che il previgente sistema attribuiva al pretore; potere ora rifluito nel generale potere di richiesta di chiarimenti e di indicazione delle questioni rilevabili d’ufficio, di cui al terzo comma dell’art. 183, esercitabile da parte di ogni giudice (non solo dal pretore) nel limite temporale della prima udienza di trattazione. Così chiariti i limiti del potere di disposizione ufficiosa della prova testimoniale da parte del pretore, posso tornare al tema del termine entro cui tale potere è esercitabile: parte della dottrina – facendo leva sul rilievo che nell’art. 312 manca l’inciso “in qualsiasi momento”, contenuto invece nell’art. 421 secondo comma c.p.c. – ha sostenuto che il pretore non può disporre d’ufficio la prova testimoniale, ex art. 312 c.p.c., oltre la udienza fissata per la formulazione definitiva delle richieste istruttorie delle parti (VACCARELLA-CAPPONI-CECCHELLA, CONSOLO-LUISO-SASSANI). Tale tesi presenta l’indubbio vantaggio di evitare in radice il rischio che l’esercizio del potere istruttorio ufficioso del pretore alteri l’equilibrio delle parti, provocando gli effetti di una illecita rimessione in termini della parte negligente; essa tuttavia pare difficile da sostenere, sia per la mancanza di una previsione espressa in tal senso nell’art. 312 c.p.c. (e più in generale nell’art. 184 c.p.c.), sia perché la ratio della norma sembra chiaramente volta a conferire al pretore (e al giudice di pace) una funzione di assistenza delle parti (così DITTRICH, che pone il limite all’esercizio del potere di cui all’art. 312 nel passaggio in decisione della causa). Quanto alla reazione delle parti all’esercizio dei poteri ufficiosi del giudice in materia istruttoria, viene in rilievo la disposizione dettata dal terzo comma dell’art. 184, a mente del quale “Nel caso in cui vengano disposti d’ufficio mezzi di prova, ciascuna parte può dedurre, entro un termine perentorio assegnato dal giudice, i mezzi di prova che si rendono necessari in relazione ai primi”. È stato osservato che la norma in questione, formulata in termini tali da evitare i dubbi che sorsero nel rito del lavoro in ordine all’art. 421 secondo comma, garantisce il diritto di difesa di fronte all’esercizio dei poteri ufficiosi (TARZIA). Dei diversi profili interpretativi su cui si sono maggiormente soffermati i primi commentatori della novella il più interessante, ai fini della nostra riflessione sull’art. 312 c.p.c., mi sembra quello relativo ad uno specifico profilo di ammissibilità a cui sono soggetti i mezzi di prova di cui all’ultimo comma dell’art. 184 c.p.c., cioè il profilo della loro necessarietà in relazione ai mezzi di prova disposti dal giudice. Tale nesso di necessarietà credo vada inteso in senso rigoroso, affermando cioè che le parti sono facoltizzate a chiedere solo i mezzi di prova tendenti a fornire la prova contraria, diretta o indiretta, dei fatti ammessi a prova dal giudice (conformi TARZIA e PROTO PISANI); è peraltro prospettabile una diversa e più larga interpretrazione del nesso di necessarietà, secondo cui le parti potrebbero, a mente dell’ultimo comma dell’art. 184, chiedere tardivamente di provare fatti – diversi da quelli ammessi a prova dal giudice e non con questi incompatibili – la cui rilevanza emerga dalla dimostrazione in giudizio dei fatti costituenti oggetto della prova d’ufficio. Per quanto specificamente concerne la disposizione di cui all’art. 312, è da rilevare che – pur quando si accogliesse la nozione di necessarietà più ampia tra le due ora tratteggiate – il potere della parte di dedurre mezzi di prova a seguito della disposizione d’ufficio della prova testimoniale da parte del pretore dovrebbe comunque ritenersi soggetto al limite della allegazione; nel senso che, anche ammettendo che le parti possano essere ammesse a provare tardivamente fatti diversi da quelli formanti oggetto della prova d’ufficio, con questi non incompatibili, dovrebbe però escludersi che tali fatti possano non rientrare tra i fatti allegati; non foss’altro che per la considerazione che anche la prova testimoniale disposta dal giudice può vertere, come sopra precisato, solo su fatti ritualmente allegati. Resta infine da chiedersi se il potere di disposizione d’ufficio della prova testimoniale sia o meno esercitabile in relazione a fatti che la parte sia stata ammessa a provare e dalla assunzione della cui prova sia poi decaduta. Al riguardo, faccio in primo luogo presente che il regime della decadenza dal diritto di far assumere le prove è stato ampiamente rimaneggiato dalla riforma del '90. Infatti il nuovo testo dell’art. 208 si differenzia dal precedente perché, da un lato, non detta alcuna espressa disciplina per l’ipotesi della diserzione bilaterale dell’udienza istruttoria, e, dall’altro, prevede che, se non compare la parte ad istanza della quale doveva essere iniziata o proseguita la prova, il giudice la dichiara decaduta dal diritto di farla assumere, salvo che l’altra parte presente non ne richieda l’assunzione. Per la prima ipotesi deve quindi trovare applicazione l’art. 309 che, richiamando l’art. 181, prevede il rinvio ad altra udienza e, in caso di diserzione anche della nuova udienza, la cancellazione della causa dal ruolo (riterrei peraltro che nella ordinanza di cancellazione della causa dal ruolo sia implicita la declaratoria di decadenza delle parti dal diritto di far assumere la prova, con la conseguenza che tale diritto non risorga nel caso di riassunzione della causa). Per la seconda ipotesi, viene introdotto un regime – opposto a quello anteriore – di rilevabilità d’ufficio della decadenza della parte non comparsa, salva la possibilità (derivante dal principio di acquisizione processuale) che l’altra parte non chieda l’assunzione della prova stessa. Aggiungo, per quanto particolarmente concerne la prova testimoniale, che la modifica del regime di rilevabilità della decadenza ex art. 208 c.p.c. non può non riflettersi sull’interpretrazione dell’art. 104 disp. att. c.p.c. (non toccato dalla riforma), che prevede che il giudice dichiari decaduta dalla prova per testi la parte che non abbia fatto chiamare testimoni davanti al giudice stesso. Tale disposizione nel sistema previgente veniva generalmente interpretata, in mancanza di una indicazione normativa espressa, nel senso che la declaratoria di decadenza ivi contemplata potesse essere pronunciata dal giudice solo su istanza della controparte, per identità di ratio con l’art. 208 c.p.c.; nel nuovo regime mi pare che proprio tale identità di ratio imporrà la soluzione contraria. Alla luce delle innovazioni introdotte dalla novella sul regime di rilevabilità della decadenza della parte dal diritto di far assumere la prova, mi pare si debba allora rispondere al quesito sopra prospettato in ordine all’estensione del potere istruttorio del pretore ex art. 312 nuovo testo c.p.c. escludendo che tale potere possa essere esercitato disponendo d’ufficio la prova testimoniale su circostanze formanti oggetto di una prova già dedotta e ammessa su istanza di una parte che sia successivamente decaduta dal diritto di farla assumere; così peraltro confermando, a fortiori, la giurisprudenza già formatasi in relazione al vecchio art. 317 c.p.c. (Cass. 26-3-64 n.678); conforme la dottrina che si è pronunciata sul punto (VACCARELLA-CAPPONI-CECCHELLA, CONSOLOLUISO-SASSANI). Sul rito applicabile quando si debbano riunire due cause introdotte l’una prima e l’altra dopo il 30-4-95. La problematicità della riunione di cause alcune delle quali già pendenti alla data del 30-4-95 ed altre introdotte successivamente a tale data sorge dalla scelta compiuta dal d.l. 121 del 21-4-95 (successivamente reiterato fino al d.l. 432/95, convertito con la legge 534/95) di mantenere le cause già pendenti alla data del 30-4-95 soggette alla disciplina procedurale previgente; scelta – esattamente opposta rispetto a quella originaria della legge 353/93 – in conseguenza della quale per molti anni nel nostro ordinamento continueranno a convivere due riti civili ordinari. La questione che si pone è quindi quella di stabilire quale rito sia applicabile quando si debbano riunire una causa “vecchia” ed una “nuova”. Al riguardo va sottolineato che il problema della scelta del rito da applicare, in ragione dei differenti tempi di instaurazione dei procedimenti, si può porre in tutti i casi di cumulo successivo, cioè sia nell’ipotesi, disciplinata dai primi due commi dell’art. 40 c.p.c. di cause connesse proposte davanti a giudici diversi, sia nell’ipotesi, disciplinata dall’art. 274 c.p.c., di cause connesse proposte dinanzi allo stesso giudice; mentre non si pone nel caso di cumulo originario, quando cioè le cause vengano proposte fin dall’inizio in un unico procedimento, perché in tal caso il momento della pendenza della lite, e quindi il rito applicabile all’intero procedimento, è comunque unico. Venendo allora al tema del cumulo successivo, si osserva che il problema della scelta del rito sorge solo dopo il superamento del problema della competenza, cioè solo quando in concreto risulti possibile il cumulo di diverse cause in un unico procedimento perché tutte tali cause rientrino nella competenza di un ufficio giudiziario, si tratti di competenza originaria oppure di competenza prorogata in forza delle disposizioni di cui agli artt. 31/36 c.p.c. Prima che l’art. 5 della legge 353/90 aggiungesse al testo originario dell’art. 40 c.p.c. i commi terzo, quarto e quinto, non esisteva un criterio normativo di individuazione del rito applicabile ad un procedimento in cui fossero cumulate cause soggette a riti diversi; e per tale ragione si riteneva generalmente che la difformità di rito costituisse ostacolo insormontabile alla realizzazione del processo simultaneo. L’art. 5 della 353/90 ha quindi opportunamente disciplinato la materia, dettando un meccanismo di coordinamento tra riti diversi espressamente destinato a regolare il cumulo di cause, originario o successivo, nelle ipotesi di cui agli artt. 31 (accessorietà), 32 (garanzia), 34 (pregiudizialità), 35 (compensazione) e 36 (riconvenzione) del codice di rito. Conviene allora soffermarsi, in primo luogo, sulla esatta identificazione del campo di applicazione di questa disciplina. Come risulta con chiarezza dal richiamo normativo contenuto all’inizio del terzo comma dell’art. 40 c.p.c., la nuova disciplina di coordinamento del rito si applica non a qualunque ipotesi di connessione in senso generico, ma alle sole ipotesi di connessione qualificata prevista dagli artt. 31/36 c.p.c., peraltro con l’esclusione della connessione ex art. 33 c.p.c.. Il legislatore ha quindi limitato la derogabilità del rito alle sole ipotesi in cui il legame di connessione tra cause sia tale da implicare, in caso di decisioni separate, il rischio di un conflitto, e non di una mera disarmonia, tra giudicati (connessione forte, o per subordinazione, o per pregiudizialità dipendenza, secondo le diverse terminologie e classificazioni proposte dalla dottrina; mentre ha lasciato che nei casi di connessione per mera coordinazione (tipicamente quelli previsti dagli artt. 33 c.p.c., proposizione in un unico giudizio di domande contro più persone connesse per l’oggetto o per il titolo, e 104 c.p.c., cumulo di domande non connesse oggettivamente nei confronti della stessa persona), l’eventuale soggezione a riti diversi delle cause connesse impedisca il processo simultaneo. Peraltro è discusso se il richiamo ad un elenco di singole figure di connessione, contenuto all’inizio del nuovo terzo comma dell’art. 40 c.p.c., vada inteso tassativamente o secondo criteri di interpretrazione sistematica. Si è infatti rilevato che non tutte le figure di connessione elencate nel suddetto richiamo costituiscono ipotesi di connessione “forte”, posto che il riferimento indiscriminato all’art. 36 c.p.c. copre anche ipotesi di connessione per coordinazione; la domanda riconvenzionale può infatti essere legata a quella principale sia da un rapporto di connessione per pregiudizialità dipendenza, sia da un rapporto di connessione per mera coordinazione. Per contro sembra indubbio che la disciplina introdotta dai commi terzo quarto e quinto dell’art. 40 c.p.c. sia applicabile anche all’ipotesi della continenza (della quale la giurisprudenza fornisce una nozione assai ampia, ricomprendente anche le ipotesi di domande contrapposte nascenti da un unico rapporto sostanziale), pur se l’art. 39 non è tra quelli richiamati dal terzo comma dell’art. 40 c.p.c.. Le opinioni espresse al riguardo dalla dottrina sono molto diversificate, andandosi da orientamenti restrittivi, che escludono l’operatività delle norme sul coordinamento del rito nel caso di riconvenzionale fondata sul titolo dedotto quale mezzo di eccezione e nel caso di garanzia impropria (GIUSSANI), ad orientamenti estensivi, che affermano l’applicabilità delle nuove norme ogniqualvolta sussista una obbiettiva esigenza di coordinamento dei rapporti sul piano sostanziale, e quindi ad esempio, sebbene l’art. 33 c.p.c. non venga richiamato dal terzo comma dell’art. 40, anche in alcune ipotesi di cumulo soggettivo (garanzia impropria, litisconsorzio unitario; tra gli altri, MERLIN). Così sommariamente tratteggiato l’ambito di applicazione della disciplina dettata dai nuovi commi terzo, quarto e quinto dell’art. 40 c.p.c., con le alternative ermeneutiche che sussistono in ordine all’estensione di tale ambito, si deve ora innanzitutto valutare se detta disciplina sia utilizzabile per la soluzione del problema del coordinamento tra cause soggette al vecchio rito e cause soggette al nuovo rito. Potrebbe infatti dubitarsi della utilizzabilità della disciplina contenuta nel nuovo articolo 40 c.p.c. per risolvere il problema del coordinamento tra vecchio e nuovo rito, per il rilievo che tanto il vecchio quanto il nuovo rito devono essere considerati riti ordinari, cosicché il tema del loro coordinamento esula dalla previsione dei commi terzo/quinto dell’art. 40 c.p.c., i quali si occupano dei rapporti tra rito ordinario e rito speciale o tra riti speciali fra di loro. Necessaria conseguenza di tale impostazione sarebbe allora la pura e semplice esclusione della possibilità della riunione di cause che, per essere state proposte alcune prima ed altre dopo il 30-4-95, siano soggette a riti (ordinari) diversi; infatti, come sopra accennato, non esistono fuori dell’art. 40 c.p.c. norme che prevedano la deroga del rito per ragioni di connessione e, d’altra parte, le stesse norme di cui ai commi terzo/quinto dell’art. 40 c.p.c. dovrebbero essere ritenute insuscettibili di interpretazione analogica, data la natura eccezionale delle previsioni di modificazione del rito. A mio avviso peraltro una così radicale conclusione non potrebbe condividersi. Se infatti è vero che la natura eccezionale delle previsioni di deroga al rito impone grande cautela nelle interpretazioni estensive delle stesse, non va tuttavia sottovalutata la portata sistematica della modifica dell’art. 40 c.p.c. recata dalla legge 353/90; se per talune ipotesi di connessione l’ordinamento consente la realizzazione del simultaneus processus pur in deroga (non solo alla competenza ma anche) al rito, quando la diversità di riti discenda da diversità di materia, e quindi si connetta a differenziate esigenze di tutela, mi sembrerebbe contrastante con la ratio del nuovo testo dell’art. 40 escludere, per le medesime ipotesi di connessione, la possibilità del simultaneus processus quando la diversità di riti applicabili alle diverse cause connesse discenda semplicemente dalla differente epoca di introduzione delle stesse. Riterrei quindi che la riunione di cause che siano soggette, ratione temporis, a riti diversi sia preclusa al di fuori delle ipotesi di connessione richiamate dal terzo comma dell’art. 40 c.p.c., per mancanza di una norma che autorizzi la deroga al rito, ma debba invece ammettersi per le ipotesi di connessione contemplate da tali casi. In concreto peraltro mi pare preferibile fissare il discrimine tra i casi di possibilità e quelli di impossibilità di riunione di cause vecchie con cause nuove riferendosi non all’elenco degli articoli del codice richiamati dal terzo comma dell’art. 40 c.p.c. ma alla idoneità/inidoneità del legame di connessione esistente tra le cause a determinare il rischio conflitto di giudicati. Tale opzione – favorevole, ai fini della individuazione dei casi di possibilità di realizzazione del processo simultaneo su cause vecchie e nuove, ad una interpretazione di tipo sistematico, piuttosto che letterale, del nuovo terzo comma dell’articolo 40 c.p.c. – discende non tanto da considerazioni inserite nel generale dibattito, cui sopra ho fatto cenno, relativo all’ambito di operatività dei nuovi commi terzo/quinto dell’art. 40 c.p.c., quanto proprio dalla specificità della questione del rapporto tra rito vecchio e rito nuovo rispetto al tema del rapporto tra rito ordinario e riti speciali. Specificità che appare con evidenza se ad esempio si considera la irrilevanza, ai fini del rapporto tra cause soggette al rito vecchio e cause soggette al rito nuovo, del richiamo all’art. 36 c.p.c. (la domanda riconvenzionale si inserisce direttamente nel processo instaurato con la proposizione della domanda principale, cosicché il momento della pendenza della lite, a cui ancorare il rito da applicare al processo, resta solo quello della proposizione della domanda principale); e per contro, sempre per esempio, alla rilevanza del nesso di connessione (o continenza) esistente tra due domande contrapposte e incompatibili (annullamento del contratto contro adempimento delle obbligazioni derivanti dallo stesso) che, qualora vengano proposte ciascuna in un autonomo processo e non in un unico processo, una come principale e l’altra come riconvenzionale, esulerebbero dalla previsione dell’art. 36 c.p.c.. In definitiva riterrei quindi di escludere la possibilità di riunione tra cause vecchie e nuove quando il nesso di connessione tra le stesse non implichi il rischio di un conflitto di giudicati (si pensi all’ipotesi, tipicamente riconducibile allo schema della connessione per coordinazione, della identità di fatto costitutivo da cui sorgano più rapporti intercorrenti tra soggetti diversi, come nel caso di più danneggiati in un sinistro stradale che agiscano contro il medesimo danneggiante); ammettendo invece tale possibilità nei casi di connessione per pregiudizialità dipendenza, si tratti di pregiudizialità logica (la quale descrive la relazione sussistente tra un singolo effetto giuridico e il rapporto obbligatorio complesso o il diritto reale su cui l’effetto si fonda) o pregiudizialità tecnica (la quale comprende le ipotesi in cui un diritto o un rapporto giuridico costituisce parte della fattispecie costituitiva, o impeditiva o modificativa o estintiva, di un altro diritto o rapporto). Così definito l’ambito di realizzabilità del simultaneus processus tra cause introdotte prima del 30-4-95 e cause introdotte dopo tale data, resta da stabilire quale debba essere il rito da applicare, essendo da escludere che riti diversi possano convivere nello stesso processo. Al riguardo si osserva che – nell’assenza di indicazioni normative – le opzioni interpretative possibili sono quelle di ritenere applicabile il quarto oppure il quinto comma dell’art. 40 c.p.c.. A mio avviso la scelta dell’applicazione del quarto comma è difficilmente sostenibile, giacché mi sembra che non esista alcun criterio per affermare che uno dei due riti, quello vecchio o quello nuovo, possa considerarsi ordinario rispetto all’altro. Mi pare quindi in definitiva inevitabile fondarsi sull’applicazione analogica del quinto comma e quindi applicare al processo il rito previsto per la causa in ragione della quale viene determinata la competenza o, in subordine, quello previsto per la causa di maggior valore. Sul punto è però necessaria qualche precisazione. In relazione all’interpretazione del quarto comma dell’art. 40 c.p.c. ci si è infatti chiesti se la prevalenza del rito della causa in ragione della quale è stata determinata la competenza valga solo nei casi in cui in concreto una delle due cause sia stata trasferita in applicazione delle norme dettata dagli artt. 31/36 c.p.c., dal giudice originariamente competente al giudice dell’altra; o viceversa operi anche come criterio astratto, idoneo a determinare il rito applicabile al processo anche nel caso in cui non vi sia stata alcuna translatio iudicii, rientrando le due cause nella competenza originaria dello stesso giudice. Al riguardo sono state prospettate sia la tesi che si deve aver riguardo alla vis attractiva astratta e potenziale di una causa sull’altra (TARZIA), sia la opposta tesi secondo cui nell’ipotesi di cause originariamente rientranti nella competenza dello stesso giudice opera sempre il criterio del maggior valore (VERDE, COSTANTINO e altri); sia la tesi intermedia secondo cui nella suddetta ipotesi si deve applicare il rito della causa principale nei casi di connessione per accessorietà e garanzia (casi nei quali, a mente degli artt. 31 e 32 c.p.c., opera una vis attractiva unidirezionale a favore della causa principale, suscettibile quindi di applicazione anche in astratto) e il rito della causa di maggior valore nelle ipotesi di cui agli artt. 34, 35 e 36 c.p.c.. La recezione di quest’ultima tesi condurrebbe, in relazione allo specifico tema del rapporto tra vecchio e nuovo rito, ad applicare al processo in cui vengano riunite una causa proposta prima del 30-4-95 ed una proposta dopo tale data, connesse per pregiudizialità dipendenza, logica o tecnica, il rito della causa di maggior valore, fuori che nelle ipotesi di accessorietà o garanzia propria, nelle quali ultime il rito applicabile sarebbe invece quello della causa principale. Sul trasferimento del giudizio di opposizione decreto ingiuntivo per ragioni di connessione. 1) Lo stato della questione. La questione della possibilità per il pretore – investito, in sede di opposizione a d.i., di una domanda riconvenzionale dell’opponente eccedente la sua competenza per valore – di trasferire l’intera lite al tribunale, secondo il meccanismo di cui all’art. 36 c.p.c., rientra, costituendone uno dei risvolti maggiormente ricorrenti nella pratica, nel più generale tema della possibilità/impossibilità di realizzare la trattazione simultanea tra giudizio di opposizione a d.i. e giudizio sulla domanda connessa o continente rientrante nella competenza di altro giudice. Su tale tema si è acceso negli ultimi anni un forte contrasto giurisprudenziale che, nonostante l’intervento delle Sezioni Unite, non ha tuttora trovato una sua definitiva composizione. L’indirizzo tradizionalmente prevalente escludeva infatti per il giudice dell’opposizione a d.i. di spogliarsi della causa di opposizione per ragioni di connessione (sia che questa si presentasse nei termini ampi e generici di cui all’art. 40 c.p.c., sia che si trattasse delle speciali ipotesi di connessione previste dagli artt. 34, 35 e 36 c.p.c.) o di continenza (fosse la situazione di continenza preesistente o successiva all’emanazione del decreto); vedi, ex plurimis, Cass. 1958/86, Cass. 6139/86, Cass. 9582/87 Cass. 5554/89, Cass. 9624/90. Secondo tale indirizzo, quindi, ove il debitore proponesse una domanda riconvenzionale (o di accertamento incidentale, o un’eccezione di compensazione) eccedente la competenza per valore del giudice dell’opposizione, quest’ultimo doveva rimettere al giudice competente la domanda riconvenzionale (o quella di accertamento incidentale, o la controversia sul credito opposto in compensazione) e decidere la causa di opposizione, salvo sospenderla ex art. 295 c.p.c. in attesa della definizione della causa pregiudiziale; analogamente, ove si rilevasse che la causa introdotta in via monitoria era contenuta in altra rientrante nella competenza di un giudice diverso da quello dell’opposizione, quest’ultimo doveva, se successivamente adito, annullare il decreto e, se preventivamente adito, sospendere il giudizio di opposizione in attesa della definizione della causa continente. Tale impostazione peraltro implicava notevoli inconvenienti pratici, sia in ordine alla posizione del debitore ingiunto, che era costretto a subire la sospensione ex art. 295 c.p.c. del processo di opposizione – in attesa della definizione della causa pregiudiziale (o continente proposta dopo la notifica del decreto) – patendo intanto la provvisoria esecuzione del decreto, eventualmente concessa ex art. 642 o ex art. 648 c.p.c.; sia in ordine alla posizione del creditore, che era esposto alla declaratoria di nullità di un decreto ingiuntivo, pur ritualmente ottenuto, qualora tale decreto fosse stato notificato al debitore dopo la instaurazione, da parte del debitore stesso, di una causa continente (c.d. azione in prevenzione del debitore). Il rilievo di tali inconvenienti – dei quali si è anche sostenuto in dottrina (PROTO PISANI, SBARAGLIO, DALMOTTO) l’incidenza sul diritto di difesa costituzionalmente garantito (incidenza peraltro esclusa dalla Corte Costituzionale, che ha negato, con l’Ordinanza 26-6-91 n. 308, il contrasto della disciplina in esame con l’art. 24 Cost., affermando che il simultaneus processus costituisce un mero “espediente processuale mirato ai fini di economia di giudizi e di prevenzione del pericolo di eventuali giudicati contraddittori, onde la sua inattuabilità non riguarda né il diritto di azione né il diritto di difesa”) – ha favorito un ripensamento giurisprudenziale dell’indirizzo tradizionale; ripensamento che si è manifestato con Cass. 3653/91, Cass. 9427/91, Cass. 12633/91, Cass. 6298/92, le quali hanno affermato il principio, antitetico rispetto a quello tradizionale, secondo cui la competenza del giudice dell’opposizione a decreto ingiuntivo è modificabile per ragioni di connessione, cosicché il giudice dell’opposizione che sia investito di una domanda riconvenzionale eccedente la sua competenza deve rimettere al giudice superiore l’intera controversia. Con le sentenze 10984 e 10985 dell’8-10-92 la Cassazione riaffermava però, a Sezioni Unite, il più risalente orientamento, ribadendo che il giudice dell’opposizione a decreto ingiuntivo è dotato di competenza funzionale, non derogabile (nemmeno) per ragioni di connessione. Tali pronunce – che raccoglievano in dottrina netti dissensi (PROTO PISANI, DALMOTTO), ma anche aperti apprezzamenti (CAVALLINI, GIUSSANI) – non chiudevano però la vicenda giurisprudenziale. Ancor prima della entrata in vigore del testo novellato dell’art. 38 c.p.c., entrata in vigore a cui la dottrina aveva affidato la residua prospettiva di un riesame della questione a livello di legittimità, la Terza Sezione della Cassazione, con un ulteriore e approfondito riesame del problema, riaffermava il principio secondo cui il giudice della opposizione a d.i., investito dal debitore di una domanda riconvenzionale eccedente la sua competenza, deve trasferire l’intera controversia al giudice superiore (Cass. 6531/93 dell’11-6-93). Dopo tale pronuncia, peraltro, numerose sententenze delle sezioni semplici della Cassazione si sono uniformate ai principi esposti dalle sezioni unite (tra le più recenti, Cass. 16-5-95 n. 5385, Cass. 11-10-95 n. 10594). All’esito della sintetica esposizione del contrasto giurisprudenziale ora illustrato, è necessario svolgere qualche considerazione sui termini della questione che si dibatte, particolarmente allo scopo di verificare se, come da più parti ipotizzato, detti termini debbano ritenersi modificati in relazione al mutamento del regime della rilevabilità della incompetenza, introdotto dal nuovo testo dell’art. 38 c.p.c.. Si deve innanzi tutto rilevare che l’indirizzo interpretrativo riaffermato dalle Sezioni Unite si fonda sui seguenti passaggi: il giudizio di opposizione è un giudizio di impugnazione; la competenza del giudice dell’impugnazione ha carattere funzionale; le competenze funzionali non possono subire né deroghe convenzionali né modifiche per ragioni di connessione. Il ragionamento delle Sezioni Unite si risolve quindi in definitiva nel seguente sillogismo: il giudice dell’opposizione a d.i. è dotato di competenza funzionale; la competenza funzionale non è modificabile per ragioni di connessione; la competenza del giudice dell’opposione a d.i. non è modificabile per ragioni di connessione. È allora evidente che la conclusione del sillogismo è destinata a cadere ove venga meno anche una sola delle due premesse; la critica della tesi secondo cui la competenza del giudice dell’opposizione a d.i. non è derogabile per ragioni di connessione può quindi svolgersi secondo due alternativi percorsi argomentativi: A) negare che il giudice dell’opposizione a d.i. sia titolare di una competenza funzionale, ovvero B) negare che la competenza funzionale sia non derogabile per ragioni di connessione. 2) La negazione della competenza funzionale del giudice dell’opposizione a d.i.. Le sentenze con cui la Cassazione ha affermato la derogabilità della competenza del giudice dell’opposizione hanno seguito la prima alternativa. Infatti in Cass. 3653/91 e in Cass. 6298/92 si valorizza il carattere di giudizio di primo grado del giudizio di opposizione, sottolineando: a) da un lato (particolarmente in Cass. 6298/92), che l’opposizione a decreto ingiuntivo non introduce una domanda (in ordine alla quale si possa quindi porre un problema di competenza) né una impugnazione, ma introduce (al pari della comparsa di risposta nel giudizio ordinario) una semplice contestazione; cosicché l’art. 645 primo comma non contiene una norma attributiva di competenza, non essendo la competenza del giudice dell’opposizione in nulla diversa dalla competenza del giudice dell’ingiunzione; b) d’altro lato (in Cass. 3653/91) che non è utilizzabile la nozione di competenza funzionale a proposito del giudice dell’opposizione a d.i., se non attribuendo a tale espressione il limitato significato di “potere giurisdizionale di far proseguire il giudizio virtualmente instaurato col ricorso”; si legge infatti in tale sentenza che “la funzione del giudice dell’opposizione è proprio quella di definire il giudizio, rientrato nell’alveo del giudizio ordinario, nei consueti modi, senza che debba obbligatoriamente pervenire ad una decisione definitiva di merito e potendo anche, come ogni altro giudice, declinare la propria competenza, vuoi per ragioni preesistenti all’instaurazione della lite (e che coinvolgano la competenza del giudice dell’ingiunzione), vuoi per ragioni sopravvenute”. Entrambi tali filoni argomentativi confluiscono poi in Cass. 6531/93 (redatta dallo stesso estensore di Cass. 3653/91), che è successiva alle pronunce delle Sezioni Unite e si fa carico di contraddirle, ribadendo i seguenti argomenti: I) L’art. 645 c.p.c. non è norma attributiva di competenza; rileva infatti la sentenza che – poiché ai sensi dell’art. 643, terzo comma, c.p.c., la notifica del ricorso e del decreto “determina la pendenza della lite” – deve affermarsi che al momento di tale notifica c’è già una domanda (quella proposta in via monitoria) su cui non si è ancora avuta una decisione (pende la lite); decisione che dovrà essere emanata dallo stesso giudice (inteso come ufficio giudiziario) che ha emesso il decreto; se allora il giudice dell’opposizione è lo stesso che ha emesso il decreto, è evidente che la sua competenza è la stessa competenza del giudice che ha emesso il decreto: e quindi il giudice dell’opposizione che dichiari l’incompetenza del giudice dell’ingiunzione non fa che dichiarare l’incompetenza, ora per allora, dell’ufficio a cui appartiene. II) Corentemente con la impostazione enunciata sub I) il giudizio di opposizione a d.i. non può qualificarsi come giudizio di impugnazione (al riguardo la sentenza sottolinea la mancata menzione di tale giudizio nell’art. 323 c.p.c. e il fatto che la relativa disciplina non è contenuta nel libro secondo, titolo terzo, ma nel libro quarto del codice di rito). III) Non è comunque utilizzabile, riguardo al giudizio di opposizione a d.i., la nozione di competenza funzionale. Prendendo evidentemente atto delle critiche che la nozione di competenza funzionale utilizzata in Cass. 3653/91 – sopra sintetizzata sub b) – aveva sollevato da parte delle dalle Sezioni Unite (che avevano rilevato che tale nozione divergeva completamente da quella elaborata dalla dottrina processualistica, aggiungendo che “l’attribuzione di una diversa accezione ad una parola o ad una espressione comunemente intesa con altro significato non risolve in alcun modo il problema che la parola o l’espressione ponevano”; analoga osservazione in MONTANARI) Cass. 6531/93 abbandona la prudenza che aveva indotto Cass. 3653/91 a non rompere con la terminologia tradizionale e sviluppa una critica radicale della stessa nozione di competenza funzionale, affermando che tale nozione, mai usata dal codice, confonde il concetto di funzione con quello, nettamente distinto, di competenza. In Cass. 6531/93 si afferma che la nozione di funzione-intesa come sfera d’azione di un giudice – è sottesa a tutte le norme di procedura ed è alla base del principio per cui una parte che voglia dedurre una prova o chiedere la fissazione di una udienza di precisazione delle conclusioni deve rivolgersi al giudice istruttore della causa e non al Giudice Istruttore di un’altra causa o al Presidente del Tribunale, senza che ciò implichi questioni di competenza. Egualmente, poiché il procedimento di ingiunzione è un procedimento speciale e l’opposizione non è un giudizio di impugnazione, il rapporto tra i due giudici (appartenenti allo stesso ufficio) non è di competenza ma solo di diversità di funzione (pacificamente inderogabile); consegue, ad avviso della sentenza in esame, che l’ufficio giudiziario che ha emesso il decreto è l’unico legittimato a ricevere la citazione in opposizione, non perché titolare di una competenza ma perché è l’ufficio dinanzi al quale è stata instaurata la lite (come qualunque giudice di primo grado adito con citazione è l’unico legittimato a ricevere la comparsa di risposta); con la conclusione che “non è la funzione esercitata dal giudice dell’opposizione (quella che le Sezioni Unite chiamano “competenza funzionale”) a precludergli una pronuncia dichiarativa della propria incompetenza, bensì è la sua incompetenza (per valore) a precludergli l’esercizio della funzione di giudice (del merito) in quella causa di primo grado (a tale sua incompetenza per il merito residua la sola ed unica competenza a dichiararla, secondo il principio che ciascun giudice è giudice della propria competenza)”; essendo la competenza il presupposto dell’esercizio della funzione e viceversa. È opportuno sottolineare alcuni profili problematici che sono rilevabili nell’indirizzo giurisprudenziale ora riportato. In primo luogo è necessario spendere qualche parola – senza peraltro poter svolgere alcun approfondimento – sulla nozione di competenza funzionale, nozione saldamente posta dalle Sezioni Unite alla base delle proprie decisioni. Nella categoria della competenza funzionale, elaborata per primo da CHIOVENDA, rientrano ipotesi eterogenee, riconducibili sostanzialmente a due gruppi: di competenza funzionale si parla infatti sia a proposito del riparto di funzioni necessarie nel medesimo processo, affidate a giudici diversi o anche allo stesso giudice (competenza per gradi, competenza per le impugnazioni davanti allo stesso giudice, competenza per le fasi – cautelare, di cognizione, di esecuzione – ulteriori del procedimento), sia a proposito della attribuzione ad un ufficio giudiziario della competenza per territorio in ragione della maggior efficacia con cui una certa funzione giurisdizionale può essere svolta in un determinato luogo (attribuzione che conseguentemente deve ritenersi inderogabile anche in mancanza di una previsione legale al riguardo). Tale categoria dogmatica, tutta concettuale (il codice non parla mai di competenza funzionale), fu elaborata in un’epoca in cui non esisteva alcuna previsione normativa espressa di competenze territoriali inderogabili (previsione ora contenuta nell’art. 28 c.p.c., che ha recepito, così però delimitandone la portata applicativa, l’intuizione chiovendiana della inderogabilità di taluni tipi di competenza per territorio); cosicché dalla presenza nel sistema vigente dell’art. 28 c.p.c., peraltro insuscettibile di interpretazione analogica, si è desunta la inattualità teorica di tale categoria, se non limitatamente all’ambito delle competenze per grado (RASCIO); o comunque l’inutilità pratica della stessa, se non con riguardo alla individuazione del giudice dell’impugnazione (PROTO PISANI). È quindi evidente come sia oggi altamente problematica la utilizzabilità della nozione di competenza funzionale e come quindi appaia malcerta una costruzione giurisprudenziale che, come quella delle sentenze in discorso delle Sezioni Unite, su tale nozione si basi. Il secondo profilo problematico su cui vorrei soffermarmi concerne quello che a me sembra il punto di maggior impegno teorico della motivazione di Cass. 6531/93, cioè la netta qualificazione della citazione in opposizione come atto contenente una mera contestazione (e quindi né una domanda, né una impugnazione), con la consequenziale ricostruzione del giudizio di opposizione come mero giudizio di primo grado e la, altrettanto consequenziale, affermazione che la norma contenuta nell’art. 645 c.p.c. non è norma attributiva di competenza. Al riguardo – e senza alcuna pretesa di affrontare compiutamente i nodi teorici ora segnalati – mi sembra però necessario sottolineare che la tesi secondo cui fase monitoria e fase di opposizione costituiscono segmenti di un unico procedimento – cosicché l’opposizione sarebbe un mero atto di impulso tendente all’attuazione del contraddittorio nell’ambito di un processo pendente fin dalla notifica del decreto al debitore – è rifiutata dalla prevalente dottrina. Tra le molteplici ricostruzioni dottrinarie del giudizio di opposizione a d.i. raccoglie infatti i maggiori consensi quella che (sulla scorta del rilievo che la mancata proposizione dell’opposizione non determina l’estinzione del giudizio ex art. 307 c.p.c., ma la definitività del decreto) configura detto giudizio come giudizio di impugnazione (GARBAGNATI). Devo peraltro aggiungere – per dare sintenticamente conto delle possibili opzioni dottrinarie sull’argomento – che è teoricamente possibile negare all’art. 645 c.p.c. il contenuto di norma attributiva di competenza, pur in un quadro ricostruttivo in cui sia riconosciuta la qualità tra fase monitoria e fase di opposizione: in tale prospettiva, la necessaria proposizione dell’opposizione davanti al giudice che ha emesso il decreto, prevista da detto articolo, si atteggerebbe come condizione di ammissibilità dell’opposizione stessa (ANDRIOLI). A questa impostazione è stato obbiettato (GARBAGNATI) che, così opinando, il giudice dell’opposizione, che fosse incompetente per il merito, non potrebbe nemmeno dichiarare la nullità del decreto per incompetenza del giudice che lo ha emesso, non potendosi scindere la pronuncia di nullità del decreto dalla pronuncia di accoglimento dell’opposizione (con la conseguenza che, pur dopo la declaratoria di incompetenza dell’ufficio che ha emesso il decreto, si dovrebbe attendere, per la caducazione del decreto stesso, la conclusione del giudizio riassunto davanti al giudice competente). Sul punto è stato peraltro replicato da PROTO PISANI che la tesi di GARBAGNATI non tiene conto della natura ibrida del giudizio di opposizione, che non può qualificarsi unicamente come giudizio di impugnazione ma “è ad un tempo e giudizio di impugnazione, avente ad oggetto il controllo circa l’esistenza dei presupposti generali e speciali di ammissibilità del decreto ingiuntivo e giudizio di primo grado avente ad oggetto il credito fatto valere col ricorso di cui all’art. 638”. Tesi a cui è stato però ulteriormente opposto (MONTANARI), che, anche ammettendo che il giudizio di opposizione abbia un contenuto duplice, non potrebbe negarsi che, nella sua parte concernente il controllo di legittimità del decreto, esso abbia i caratteri del gravame rescindente, con la conseguenza che una revoca del decreto per motivi di rito non potrebbe non essere intesa come una pronuncia sull’opposizione (cioè sulla domanda di impugnazione in essa racchiusa); con la conseguenza che se ad emanare tale pronuncia debba essere indefettibilmente il giudice indicato nell’art. 645 c.p.c., non può disconoscersi a questo articolo il contenuto di norma attributiva di competenza, almeno con riguardo alla parte impugnatoria dell’opposizione (tesi che tale ultimo Autore correda con l’ulteriore affermazione della impossibilità di scindere, pena il rischio di insanabili contrasti tra giudicati, il giudizio sulla legittimità del decreto dal giudizio sul rapporto sostanziale). Chiudo sull’argomento limitandomi a rilevare che non mi pare vi siano difficoltà insormontabili – né teoriche, né pratiche (la provvisoria esecuzione eventualmente concessa ex art. 642 c.p.c. può comunque essere sospesa ex art. 649 c.p.c.) – ad ipotizzare che il decreto emesso da giudice incompetente venga revocato, per tale suo vizio, dal giudice competente per il merito al quale la causa sia stata rimessa dopo la proposizione dell’opposizione. 3) La negazione del carattere inderogabile della competenza funzionale. L’altro percorso argomentativo che, come accennato alla fine del punto 1), può essere seguito per affermare la possibilità per il giudice dell’opposizione di spogliarsi della lite per ragioni di connessione o continenza prescinde dalla natura del giudizio di opposizione e, dando per scontato che l’art. 645 c.p.c. attribuisca al giudice dell’opposizione a d.i. una competenza funzionale, si fonda sulla affermazione che in seguito alla modifica del regime della rilevabilità dell’incompetenza introdotta dal nuovo testo dell’art. 38 c.p.c. nessuna forma di competenza, nemmeno funzionale (con la sola eccezione della competenza per grado), è sottratta alle modifiche per ragioni di connessione. I passaggi logici di tale impostazione sono questi: a) nel nuovo testo dell’art. 38 c.p.c. l’incompetenza per materia e quella per territorio inderogabile, precedentemente rilevabili d’ufficio in ogni stato e grado del procedimento, e l’incompetenza per valore, precedentemente rilevabile d’ufficio entro il giudizio di primo grado, vengono assoggettate ad un medesimo regime di rilevabilità, costituivo dalla rilevabilità d’ufficio entro la prima udienza di trattazione; cade quindi la distinzione tra criteri forti (materia e territorio inderogabile) e criteri deboli (valore) di competenza inderogabile; b) tale innovazione sistematica fa venir meno il sostegno normativo alla tradizionale lettura degli artt. 34-36 c.p.c., secondo la quale le competenze per materia e territorio inderogabile (competenze “forti”), non sono, a differenza della competenza per valore (competenza “debole”) modificabili per ragioni di connessione; anche le competenze per territorio inderogabile e per materia devono quindi ritenersi modificabili per ragioni di connessione; ciò impone di riconsidereare il tradizionale assunto della inderogabilità assoluta della competenza funzionale; c) a tal fine è necessario distinguere, nell’ambito di tale ultima categoria, le diverse ipotesi in essa ricomprese: le competenze funzionali di cui all’art. 28 c.p.c. dovrebbero ora ritenersi certamente modificabili per ragioni di connessione; la competenza per grado, a cagione della sua peculiarità, dovrebbe ritenersi tuttora insensibile alla connessione; al di fuori della competenza per grado non sarebbero più individuabili forme di competenza assolutamente inderogabile – tale non essendo, in particolare, nemmeno la competenza per le impugnazioni davanti allo stesso giudice – perché, con la modifica dell’art. 38 c.p.c., quest’ultimo non rappresenterebbe più un referente normativo alla cui stregua sostenere che l’ordinamento accoglie e disciplina criteri di competenza assolutamente insuscettibili di deroga (SBARAGLIO; sul tema anche VULLO e PROTO PISANI); d) conseguentemente, mentre le esigenze di certezza presidiate dall’art. 645 c.p.c. impongono che la opposizione a d.i. sia indefettibilmente proposta dinanzi al giudice che ha emesso il decreto, nulla impedisce che tale giudice correttamente investito della causa di opposizione, se ne spogli (non essendo titolare di una competenza per grado) nel successivo corso del giudizio, a favore del giudice competente per ragioni di continenza o connessione. Per introdurre una riflessione sulla prospettiva ricostruttiva ora esposta mi pare necessario innanzi tutto sottolineare come questa – pur ponendosi su un piano completamente diverso rispetto a quello su cui si è svolto l’indirizzo giurisprudenziale espresso da Cass. 3653/91, Cass. 6298/92 e Cass. 6531/93 (sebbene la revisione svalutativa della categoria di competenza funzionale sia presente anche, come si è visto, in Cass. 6531/93) – non può tuttavia ritenersi impregiudicata dalla replica che a tale indirizzo è stata fornita dalle Sezioni Unite, posto che uno dei cardini della sentenza 10984/92 è rappresentato proprio dall’affermazione che la competenza del giudice dell’impugnazione è sempre (quindi anche quando non si tratti di competenza per grado) inderogabile. Le Sezioni Unite hanno quindi, nell’esercizio della loro funzione nomofilattica, sbarrato preventivamente la strada a possibili tentativi giurisprudenziali di affermare la trasferibilità della causa di opposizione al giudice della causa connessa o continente in base alla modifica dell’art. 38 c.p.c., sganciando (sia pure implicitamente) il regime della competenza funzionale del giudice dell’impugnazione dal regime della competenza per materia e territorio e quindi rendendo insensibile il primo alle possibili ricadute di detta modifica sul secondo. Ne consegue che la riapertura in giurisprudenza del dibattito sulla possibilità di trasferire ad altro giudice la causa di opposizione a d.i. dovrà comunque passare – pur quando a tale risultato si pervenga non attraverso la negazione della qualificazione del giudizio di opposizione come giudizio (almeno in parte) impugnatorio, ma attraverso l’affermazione della non assolutà immodificabilità della competenza del giudice dell’impugnazione (che non sia per grado) – da una nuova pronuncia delle Sezioni Unite. Ciò premesso, dò conto di due critiche che sono state mosse (da MONTANARI) alla tesi in esame. Da un lato, si è giudicato arbitrario individuare il referente normativo del regime della competenza per la impugnazione davanti allo stesso giudice nel regime della competenza per materia o territorio ex art. 28 c.p.c., piuttosto che nel regime della competenza per grado. D’altro lato, si è affermato che è contraddittorio ritenere applicabile al giudizio di opposizione gli spostamenti di competenza ex art. 34-36 e 39, secondo comma, c.p.c. – sul presupposto che tale giudizio sia governato da una regola di competenza funzionale non (più) assolutamente inderogabile – e non ammettere che tale giudizio possa ab origine essere introdotto davanti ad un giudice diverso da quello che ha emesso il decreto, che sia competente per attrazione. Secondo tale critica, infatti, o si ritiene che l’art. 645 non contenga una norma attributiva di competenza, ma ponga una condizione di ammissibilità della domanda, e allora la modifica dell’art. 38 c.p.c. risulta del tutto ininfluente sulla questione; o si ritiene che l’art. 645 ponga una norma attributiva di competenza funzionale (non più assolutamente inderogabile), e allora il riferimento alla modifica dell’art. 38 c.p.c. diviene rilevante ma non si può disconoscere la possibilità di esperire la opposizione a decreto direttamente al giudice competente a conoscere della domanda continente o connessa; non potendosi, insomma, attribuire all’art. 645 il duplice significato di norma attributiva della competenza a statuire sul merito della domanda e di norma istitutiva di un requisito di ammissibilità della domanda stessa. Di tali rilievi ritengo debba tener conto una indagine interpretativa che cerchi nel nuovo testo dell’art. 38 c.p.c. l’avvio per un ripensamento del regime degli spostamenti di competenza per ragione di continenza e connessione. PRINCIPALI PROBLEMI RELATIVI ALLA PRIMA UDIENZA DI COMPARIZIONE (art. 180 c.p.c.) Relatore: dott. Luciano GERARDIS presidente di sezione del Tribunale di Reggio Calabria Premessa. La presente relazione trae spunto da una serie di incontri tra magistrati addetti al settore civile del distretto di Reggio Calabria. Sono grato agli organizzatori per la straordinaria opportunità, che mi viene offerta, di confrontare le soluzioni giurisprudenziali adottate in tale distretto con quelle di altre sedi giudiziarie. Mi atterrò scrupolosamente a quanto richiestomi, in relazione sia al “taglio”, concreto e tutt’ altro che teorico, sia alla durata del mio intervento (spero non superiore ai 15 minuti programmati), sia ai quesiti formulatimi, che analizzerò partitamente, accorpando quelli per cui appare opportuna una trattazione congiunta. 1) Residua un margine di applicazione per l’art. 168 bis c.p.c., relativo alla facoltà di differimento della prima udienza? L’art. 168-bis, quinto comma, c.p.c. consente al Giudice Istruttore di differire, con decreto da emettere entro cinque giorni dalla presentazione del fascicolo, la data della prima udienza fino ad un massimo di quarantacinque giorni. Tale decreto non necessita di motivazione (art. 135, quarto comma, c.p.c.), ed ovviamente non è impugnabile né reclamabile, attenendo soltanto alla migliore distribuzione del lavoro. La norma in esame non è stata abrogata, pur dopo l’entrata in vigore del nuovo articolo 180 c.p.c., che ha determinato la separazione tra l’udienza di prima comparizione e la prima udienza di trattazione della causa. Non potrebbe neppure ravvisarsi alcuna abrogazione tacita, non sussistendo contrasto con altre norme di rito (TRISORIO LIUZZI, La comparsa di risposta e la costituzione del convenuto, ritiene invece incompatibile il differimento della prima udienza di comparizione da parte del Giudice Istruttore con la nuova struttura iniziale del processo di cognizione). Suscita perplessità, inoltre, la tesi secondo la quale l’art. 168 bis quinto comma c.p.c. sarebbe inapplicabile al giudizio dinanzi al pretore od al giudice di pace, per l’espressa previsione dell’art. 57, secondo comma, disp. att. c.p.c., per la quale “se nell’udienza di comparizione non possono essere sentite le parti il pretore o il giudice di pace dà atto nel processo verbale della loro comparizione e rimanda la causa all’udienza successiva”: si è detto che il rinvio previsto da quest’ultima norma “sembra assorbire ogni altra ipotesi di differimento dell’udienza” dinanzi a quei magistrati (BARTOLINI, Nuovo codice di procedura civile, sub art. 168 bis c.p.c. n. 4, ultimo capoverso); ma appare più convincente la tesi che la finalità delle due norme è assolutamente diversa, attenendo la prima ad una migliore organizzazione preventiva dell’ufficio del giudicante e la seconda soltanto alla necessità di non sopprimere l’interrogatorio libero delle parti, una volta che esse, già comparse, non possano essere sentite. Non si vede, quindi, la ragione per ritenere incompatibile con l’art. 57 disp. att. citato la nuova norma in esame. È pur vero, però, che l’introduzione di un’udienza di prima comparizione, destinata esclusivamente ad alcune verifiche preliminari in ordine alla regolare costituzione delle parti, all’integrità del contraddittorio ed all’inesistenza di vizi dell’atto di citazione, riduce di molto la portata pratica dell’articolo 168 bis nella parte che qui interessa, dal momento che consente al giudice, all’udienza di cui all’art. 180 c.p.c., di distribuire al meglio le cause per l’effettiva trattazione, in relazione alla propria agenda di lavoro. Non va tuttavia trascurato che, ove dovessero affermarsi interpretazioni (di cui meglio si dirà nei successivi paragrafi) “elastiche” dell’art. 180 c.p.c., intese a consentire l’accorpamento in tale udienza anche delle attività previste per altre fasi processuali, riemergerebbe, con ogni evidenza, tutta l’utilità del differimento di cui all’art. 168 bis, cui già peraltro i magistrati del circondario di Palmi, tra quelli del distretto di Reggio Calabria, fanno ampio, se non sistematico ricorso. Residua il problema se, una volta differita l’udienza di prima comparizione, il termine per comparire di cui all’art 163 bis c.p.c. debba essere computato con riferimento all’udienza fissata con l’atto introduttivo del giudizio ovvero alla nuova udienza differita. Pur non mancando autorevoli commentatori che opinano per quest’ultima soluzione (LAZZARO-GURRIERI-D’AVINO, L’esordio del nuovo processo civile, p. 48), appare preferibile la prima tesi, consolidata sotto la vigenza del “vecchio” codice. L’art. 70 bis disp. att. c.p.c. dispone espressamente, per il caso di spostamento d’ufficio della prima udienza dovuto al fatto che il Giudice Istruttore designato non tenga udienza nel giorno fissato per la comparizione delle parti con l’atto introduttivo del giudizio, che “i termini di comparizione, stabiliti dall’art. 163 bis c.p.c., debbano essere osservati in relazione all’udienza fissata nell’atto di citazione”. La norma ha una sua ratio che ricorre anche nel caso in esame: facendo il convenuto esclusivo riferimento, per valutare la ritualità della notificazione dell’atto introduttivo del giudizio, alla data di comparizione fissata in tale atto, ben potrebbe egli non costituirsi confidando nel vizio d’instaurazione del processo, una volta verificato il mancato rispetto dei termini di cui all’art. 163 bis c.p.c.. Sarebbe del tutto incongruo, pertanto, che l’eventuale nullità dell’atto di citazione (art. 164 c.p.c.) fosse sanata col differimento della prima udienza di comparizione ex art. 168 bis quinto comma c.p.c.; tanto più che un tale decreto del Giudice Istruttore non va comunicato alla parte non costituita (e dunque al convenuto che abbia fatto affidamento sulla nullità dell’atto introduttivo del giudizio). Argomento in contrario non può trarsi, infine, dalla soppressione dell’ultimo inciso del ripetuto art. 168 bis ultimo comma c.p.c. (“Restano salve le decadenze riferite alla data di udienza fissata nella citazione”), che con ogni evidenza faceva riferimento a decadenze processuali che nulla hanno a che vedere con la nullità dell’atto di citazione ex art. 164 c.p.c., per come è reso manifesto anche dalla contestuale integrazione dell’art. 166 c.p.c., che prevede la possibilità per il convenuto di costituirsi tempestivamente anche “almeno 20 giorni prima dell’udienza fissata a norma dell’art. 168 bis c.p.c.”. 2) Il termine perentorio per la proposizione delle eccezioni processuali e di merito deve darsi ex art. 180 c.p.c., comma secondo, anche al convenuto contumace? 2.1) Si può rinunciare al termine perentorio per la proposizione delle eccezioni processuali e di merito da parte del convenuto costituito? 2.2) Alla prima udienza di comparizione deve comunque fissarsi una data successiva per la prima udienza di trattazione o le parti possono rinunciarvi? 3) Restano in vigore gli artt. 59, 62 e 80 bis disp. att. c.p.c.? La c.d. “novella della novella” ha così riformulato il secondo comma dell’art. 180 c.p.c.: “La trattazione della causa davanti al giudice istruttore è orale. Se richiesto, il Giudice Istruttore può autorizzare comunicazioni di comparse a norma dell’ultimo comma dell’art. 170. In ogni caso fissa a data successiva la prima udienza di trattazione, assegnando al convenuto un termine perentorio non inferiore a venti giorni prima di tale udienza per proporre le eccezioni processuali e di merito che non siano rilevabili d’ufficio”. Le maggiori questioni interpretative sono state poste ovviamente dall’ultimo periodo, attesa la perentorietà dell’espressione “in ogni caso”. Vi è chi (tra questi, BALENA, Ancora interventi urgenti sulla riforma del processo civile) ritiene necessario, una volta esauriti gli adempimenti di cui al primo comma del medesimo articolo 180, rinviare comunque la causa ad una udienza successiva: “Ove non si vogliano imboccare strade interpretative contra legem, deve ritenersi esclusa la possibilità di intraprendere l’attività di trattazione vera e propria della causa già nell’udienza di comparizione”; dunque, nell’udienza di prima comparizione, “non potrà mai aver luogo la rimessione al collegio, neppure quando la causa dovesse essere già matura per la decisione. Vero è infatti che l’art. 80 bis disp. att. c.p.c. non è stato espressamente abrogato; ma è pur vero che esso, nella nuova realtà normativa, rimarrà praticamente inapplicabile (al di fuori (..) della remota ipotesi in cui le parti, entrambe costituite, dovessero chiedere concordemente l’immediata decisione) poiché (...) non è pensabile che la causa passi in decisione prima che sia finanche iniziata la sua trattazione, tenuto conto che tale attività concorre a determinare compiutamente l’oggetto stesso della causa, con possibili riflessi anche sulle questioni, preliminari o pregiudiziali, sollevabili in limine iudicii” (conformemente, D’ASCOLA – La “nuova” prima udienza, con particolare riferimento agli incombenti del Giudice Istruttore – trae argomento, per escludere che possa essere omessa l’apposita udienza di trattazione, dall’art. 184 c.p.c., il quale “prevede l’applicazione dell’art. 187 solo prima dell’ammissione dei mezzi di prova”). E nella giurisprudenza esaminata del distretto di Reggio Calabria si segnalano alcune ordinanze (ad esempio, Pretura di Palmi) che, proprio in considerazione del tenore letterale dell’art. 180 secondo comma c.p.c. (“In ogni caso..”), ritengono necessario disporre il rinvio ex art. 180 c.p.c., oltre che nell’ipotesi che il convenuto sia rimasto contumace, anche in quella in cui tutti gli eventuali convenuti si siano costituiti ed abbiano concordemente rinunziato al termine di cui a tale norma . Vi è, all’opposto, chi (tra i più autorevoli, TARZIA, La prima udienza non ostacola il rito, in Il Sole 24 Ore, 13 febbraio 1996, pag. 22), osserva che una lettura contestuale del secondo comma dell’art. 180 c.p.c. impone di collegare l’espressione “in ogni caso” al precedente periodo “se richiesto, il giudice può autorizzare comunicazioni di comparse”: “vi sia o non vi sia questa richiesta, sia essa accolta o respinta, in ogni caso deve fissarsi la prima udienza di trattazione”. Inoltre, “il differimento della prima udienza di trattazione è espressamente collegato all’assegnazione al convenuto di un termine perentorio, anteriore alla nuova udienza, per proporre le sue eccezioni processuali e di merito. Il rinvio è dunque finalizzato a questa attività difensiva del convenuto, e non ha alcuna ragione di essere disposto se il convenuto rinunci al termine e chieda che la causa sia immediatamente trattata o sia rimessa in decisione”. Poiché, dunque, questo termine è funzionale “al completamento di un’attività difensiva già svolta”, “il convenuto contumace decade (...) dal potere di chiedere il termine di cui si discorre”. Analogamente, alcune decisioni dei giudici di merito affermano che, essendo ius receptum che il convenuto che si costituisca tardivamente è tenuto ad accettare il processo nello stato in cui si trova, salvo che sussistano i presupposti della sua rimessione in termini, “l’attenuazione del sistema delle preclusioni (operata dal nuovo testo degli artt. 167 e 180 c.p.c.) non va confusa con una sorta di indiscriminata licenza di costituzione tardiva che contrasterebbe in modo stridente con gli obblighi imposti dagli artt. 166 e 167 e con l’esplicita previsione dell’art. 170 c.p.c.”; cosicché “non appare ragionevole ritenere che la causa debba essere necessariamente rinviata, contro l’espressa volontà dell’attore costituito per consentire al convenuto una costituzione che non potrebbe essere che tardiva”, anche perché altrimenti “si premierebbe la tattica dilatoria del convenuto che sarebbe indotto a costituirsi l’ultimo giorno utile traendo profitto dall’allungamento dei tempi processuali in tal modo artatamente ottenuto in evidente contrasto con la stessa volontà del legislatore il quale ha inteso attenuare il tanto temuto sistema delle preclusioni e non certo favorire astuzie processuali a meri fini dilatori” (Tribunale di Bari, ordinanza 26 settembre 1995, Virgilio contro Racanelli). Non mancano posizioni intermedie, che tendono a conciliare il rigido tenore letterale del ripetuto art. 180 secondo comma c.p.c. ed i principi che ispirano il processo civile (primo tra tutti, il principio dispositivo), distinguendo l’ipotesi del convenuto contumace da quella del convenuto costituito rinunziante. Nel primo caso, si sottolinea (CAPPONI, Prima udienza di comparizione e prima udienza di trattazione: Preclusioni di merito ed istruttorie) come “il convenuto – che ha l’onere di conoscere il codice di procedura civile ed il diritto di avvalersi di ogni spazio di difesa che gli sia riconosciuto per legge – sa che nella comparsa di risposta deve proporre, a pena di decadenza, le eventuali domande riconvenzionali e di chiamata del terzo (oltre che le specifiche eccezioni previste da disposizioni diverse dall’art. 167 c.p.c.) e che la proposizione di eccezioni processuali e di merito non rilevabili d’ufficio può tranquillamente essere riservata alla memoria da depositarsi venti giorni prima dell’udienza ex art. 183 c.p.c. che in ogni caso il giudice deve fissare”. Egli quindi, se non intende proporre domande riconvenzionali, ben può rimanere contumace all’udienza di prima comparizione, riservandosi di scoprire le proprie difese in prosieguo, non potendo essere privato di un potere che la legge espressamente gli attribuisce. Militano, a sostegno di tale tesi, le seguenti considerazioni ulteriori: 1) il secondo comma dell’art. 180 c.p.c. prevede l’assegnazione del termine “al convenuto”, non distinguendo tra convenuto costituito e convenuto contumace; 2) da nulla si evince che le eccezioni di cui si discorre debbano essere “integrative” di precedenti difese; 3) la norma in esame non attribuisce un potere processuale che necessiti di un precostituito ius postulandi, ma concede a priori un termine per l’espletamento di talune attività difensive; 4) la soluzione opposta comporterebbe un regime differenziato, che non è nella legge, tra convenuto costituito e convenuto contumace: mentre il primo potrebbe proporre tutte le eccezioni processuali e di merito non rilevabili d’ufficio nel termine concesso ai sensi dell’art. 180 secondo comma c.p.c., il secondo decadrebbe da tale facoltà sin dalla prima udienza di comparizione; e non è superfluo ricordare che invece il rinovellato art. 167 c.p.c. ha previsto, per la mancata costituzione tempestiva, soltanto la decadenza dalle domande riconvenzionali (e al più, secondo la tesi maggioritaria, dalla chiamata del terzo). In conclusione, non sembra che il Giudice Istruttore possa privare il convenuto contumace di un termine sul quale questi abbia fatto preventivo e legittimo affidamento. Nel caso di contumacia del convenuto (o anche di uno solo dei convenuti), va dunque sempre fissata a data successiva la prima udienza di trattazione con la concessione del termine di cui all’art. 180 c.p.c.. Diverso è il caso in cui tutti i convenuti siano costituiti e tutti rinunzino al termine per le ulteriori eccezioni. Una volta assodato che tale rinunzia è meramente processuale, e può pertanto essere validamente fatta dal difensore (arg. ex art. 84 c.p.c.), non sussistendo ragioni di ordine pubblico che vi si oppongano, il principio dispositivo impone che di essa si prenda atto. Ove non ostino, pertanto, altre ragioni processuali e l’attore aderisca, il giudice potrà senz’altro dare corso alla trattazione della causa nella stessa udienza di comparizione. E, se nessun’altra attività sarà necessaria, la causa potrà ben essere rimessa in decisione. Si pensi, ad esempio, a cause seriali, come quelle, assai frequenti al momento al Tribunale di Reggio Calabria, aventi ad oggetto la tenutezza di alcune società al pagamento di tasse per concessioni governative; ovvero, come pure è capitato allo scrivente, ad una causa per risarcimento danni da sinistro stradale in cui sia ictu oculi fondata l’eccezione, già tempestivamente proposta dal convenuto con la comparsa di risposta, di incompetenza per valore. In tali ipotesi, in cui o non sia necessaria alcuna attività istruttoria trattandosi di questioni di “puro diritto”, ovvero un’eccezione preliminare sia manifestamente fondata, nulla impedisce al giudice, in presenza di una espressa rinunzia al termine di cui all’art. 180 da parte del convenuto costituito (o dei convenuti che siano tutti costituiti) e dell’adesione dell’attore (o degli attori), di applicare la norma di cui all’art. 80 bis disp. att. c.p.c., definendo rapidamente il giudizio. Solo addivenendo a tale soluzione sembra conciliabile la rigorosa scansione codicistica delle varie fasi processuali con la comune esigenza di tutte le parti di una pronta soluzione della vertenza, specialmente ove questa appaia di facile definizione. Conforta tale conclusione la considerazione che il sistema oggi vigente appare, per così dire, intermedio tra il rito del lavoro ed il vecchio rito ordinario, nel senso che sono attenuati i principi di carattere pubblico che ispirano il rito del lavoro e, nel contempo, sussistono preclusioni e decadenze ben più incisive del vecchio rito ordinario. Si potrebbe forse dire, in una battuta e con tutta l’approssimazione del caso, che il rito del lavoro è incentrato sul giudice, il vecchio rito ordinario sulle parti private, mentre l’attuale sistema necessita di una costante collaborazione tra giudice e parti, in un equilibrio tra poteri e doveri affidato al leale rispetto dei reciproci ruoli. In tale contesto, non sembra che il potere dispositivo delle parti possa essere inibito, ove non ricorrano precise esigenze d’ordine pubblico, non certo indiscriminatamente ravvisabili a priori nella disposizione dell’art. 180 secondo comma c.p.c.. Conclusivamente: se il convenuto costituito (o i convenuti, che siano tutti costituiti) rinunzia(no) al termine di cui al secondo comma dell’art. 180 c.p.c., l’attore aderisca e null’altro osti alla immediata trattazione della causa, il giudice potrà persino all’udienza di prima comparizione rimettere la causa in decisione, nel rispetto, ovviamente, dei necessari adempimenti di rito. L’art. 80 bis, dunque, mantiene il suo vigore, non essendo stato abrogato espressamente, e non sussistendo un contrasto insanabile con il nuovo sistema processuale, che ne faccia ritenere l’abrogazione tacita. Alla stessa conclusione si deve pervenire per quanto attiene all’art. 59 disp. att. c.p.c., che integra la norma di cui all’art. 171 terzo comma c.p.c. in ordine alla dichiarazione di contumacia alla prima udienza. Va in proposito evidenziato che in tale udienza possono essere adottati provvedimenti diversi da quelli elencati dall’art. 180 c.p.c., specialmente se, come nel caso, riferiti alla prima udienza da specifiche disposizioni di legge. (Sulla adottabilità anche di altri provvedimenti, cfr. Maria ACIERNO, I primi mesi di applicazione del nuovo rito civile). In altri termini: mentre il giudice è tenuto a compiere tutte le verifiche previste dall’art. 180 c.p.c. (ovviamente allo stato degli atti, ben potendo, ad esempio, sorgere solo successivamente l’esigenza di integrare il contraddittorio), nulla esclude che anche altri provvedimenti vengano pronunciati, come la dichiarazione di contumacia espressamente prevista in prima udienza dall’art. 171 terzo comma, c.p.c.. Il legislatore ha voluto un accertamento preliminare sulla regolarità dell’instaurazione del processo, non anche uno svuotamento della prima udienza di comparizione: chè anzi del tutto opposte erano state le sollecitazioni rivoltegli (tra esse, la risoluzione del 18 maggio 1988 del C.S.M.: “Ciò che conta veramente (..) (è) che il processo (..) sia posto in condizioni di non partire col “piede sbagliato” di una udienza di mero rinvio che è intrinsecamente diseducativa”). Deve dunque concludersi che in tale udienza va ancora dichiarata la contumacia, con le modalità di cui all’art. 59 disp. att. c.p.c.. Quanto, infine, all’art. 62 disp. att. c.p.c., poiché il programma prevede per il pomeriggio una relazione esclusivamente dedicata all’esame della fase decisoria del procedimento pretorile, ci si limita in questa sede a ricordare soltanto, con autorevoli commentatori (CARRATO, Lineamenti generali del processo civile pretorile novellato, BARTOLINI, op. cit.), che tale disposizione deve essere ormai coordinata con le norme di cui agli artt. 314, 315 e 320 c.p.c.: solo in questi termini, e nei limiti in cui è compatibile con i citati articoli, mantiene ancora un residuo vigore. 4) Alla prima udienza di comparizione ex art. 180 c.p.c. possono essere richiesti e concessi: A) Provvedimento cautelare ex art. 669 quater; B) Provvisoria esecuzione del decreto ingiuntivo ex art. 648 c.p.c.; C) Sospensione della provvisoria esecuzione ex art. 649 c.p.c.? I superiori quesiti nascono dalla nuova formulazione dell’art. 180 c.p.c. che, come si è visto, non elenca i provvedimenti che precedono tra quelli adottabili alla prima udienza di comparizione. Ci si è dunque chiesti se i citati provvedimenti, la cui disciplina non esclude affatto l’adottabilità in tale udienza, possano essere subito pronunciati o debbano essere riservati ad un momento successivo. È evidente che chi ritiene che l’elencazione del citato art. 180 c.p.c. sia tassativa nega l’adottabilità di tali provvedimenti, che dovrebbero sempre essere preceduti almeno dal completamento di tutte le difese delle parti. Così, in giurisprudenza, vi è chi (Tribunale di Bari, ordinanza 18-10-1995, Pastore contro Leasing Levante), considerato che “sia le finalità, cui è preposta l’udienza di prima comparizione, sia la tecnica legislativa prescelta, estrinsecantesi nella tassativa elencazione delle questioni da verificare (N.B.: la frase in neretto non è del provvedimento in esame), ostano alla introduzione e trattazione di una questione del tutto autonoma”, ritiene che la valutazione discrezionale del giudice, nella delibazione dell’istanza ex art. 648 c.p.c., presuppone che “l’opposto abbia completato le sue difese e che siano stati espletati il libero interrogatorio delle parti ed il tentativo di conciliazione”. Altri si soffermano sulla natura dei provvedimenti richiesti. In particolare vi è chi (Pretura di Reggio Calabria, ordinanza del 1° marzo 1996) distingue tra provvedimento cautelare (tra cui rientra la sospensione dell’esecuzione provvisoria del decreto ingiuntivo) senz’altro adottabile, e provvedimento ex art. 648 c.p.c., che, non avendo tale natura, non può essere emesso prima della definitiva determinazione del thema decidendum, dal momento che: a) “nella composizione tra i contrapposti interessi – ad una sollecita pronunzia, da un lato, e ad una pronunzia il più aderente possibile a quello che sarà il risultato finale – si ritiene di dover attribuire prevalenza alla “stabilità” del provvedimento, con sacrificio della sua tempestiva emissione”; b) “il pericolo di un lungo differimento della disamina della richiesta di parte creditrice, per quanto non infondato, è pur sempre rimesso all’uso discrezionale dei poteri di direzione ed organizzazione di cui il giudice dispone; sarà così possibile “smascherare” poco commendevoli intenti dilatori con rinvii temporalmente contenuti e con la concessione di termini anche assai brevi per lo scambio delle memorie di precisazione del thema disputandum”. Pur senza affrontare, in questa sede, la delicata questione della natura del provvedimento ex art. 648 c.p.c., che viene talvolta considerato cautelare (cfr. Corte Cost. ord. 25.5.1989 n. 295; Cass. 26 gennaio 1988 n. 675; Cass. 10 luglio 1990 n. 7200; Cass. 2 marzo 1990 n. 1645), non si può condividere la soluzione giurisprudenziale appena prospettata. Si comprendono le ragioni di giustizia sostanziale che possono suggerire di privilegiare, sull’esigenza del creditore ad un più rapido soddisfacimento del proprio credito, la maggiore aderenza possibile tra il provvedimento concessivo dell’esecuzione provvisoria e la sentenza di merito. Queste ragioni, però, non sono nella legge: nessuna norma, infatti, richiede tale probabile aderenza, trattandosi piuttosto di una delibazione allo stato degli atti. Non diversa era l’esigenza codicistica anteriormente alla novella: anche prima, infatti, l’esecuzione provvisoria del decreto ingiuntivo restava svincolata dalla completezza del thema decidendum, che anzi veniva definito soltanto dopo l’istruzione della causa, con la precisazione delle conclusioni. Non sembra che su tale sistema abbia inciso né la novella del 1990 né la c.d. “novella della novella” del 1995, che, sotto il profilo che qui occupa, si sono limitate soltanto ad anticipare la definizione del thema decidendum rispetto all’attività istruttoria. Come nel passato, infatti, il debitore opponente – quale che sia la soluzione che si intende dare al problema, che in seguito sarà affrontato, della sua qualità di attore o di convenuto – potrà modificare le sue difese anche dopo la delibazione dell’istanza ex art. 648 c.p.c.. Ma egli avrà l’onere, se intende evitare la provvisoria esecuzione del decreto, di scoprire subito le sue carte, offrendo fin dalla prima udienza di comparizione prova scritta a conforto dei propri assunti o dimostrandone altrimenti la palese fondatezza. Insomma, giudizio ordinario e sub-procedimento incidentale (termine con cui si vuol fare qui riferimento al procedimento instaurato sia con la richiesta di provvisoria esecuzione del decreto ingiuntivo sia con l’istanza cautelare ex art. 669 quater sia con la richiesta ex art. 649 c.p.c. sia ancora con le istanza ex art. 186 bis e ter c.p.c.) sono del tutto distinti ed autonomi. Le facoltà processuali che ciascuna parte ha nel primo non possono in alcun modo condizionare ne l’instaurazione nè la definizione del sub-procedimento incidentale, che altrimenti risulterebbe, spesso, privato della sua stessa funzione urgente e/o anticipatoria. In altri termini, la proponibilità di ulteriori difese e di mezzi istruttori ben oltre la prima udienza di comparizione non può ostare all’ammissibilità in tale udienza del sub-procedimento incidentale la cui tempestiva definizione è spesso necessaria al raggiungimento del suo scopo. Una volta esclusa, poi, la tassatività dell’elencazione di cui all’art. 180 c.p.c., non si vede perché dovrebbe negarsi la proponibilità, alla stessa prima udienza di comparizione, delle istanze in esame, la cui delibazione non richiede affatto la preventiva trattazione della causa di merito. Ciò è pacifico per le richieste ex art. 648 e 649 c.p.c., che costituiscono piuttosto un’appendice della fase monitoria che un “incidente” della fase di merito (in tal senso LAZZARO-GURRIERI-D’AVINO, op. cit., pag. 243; cfr. anche Cass. 14-9-1993 n. 9512; Cass. 8-2-1992 n. 1410; Cass. 28-11-1989 n. 5185). Ma è altrettanto evidente per le domande cautelari od anticipatorie sopra richiamate che richiedono soltanto una valutazione del materiale probatorio offerto fino al momento della loro decisione (ferme restando le facoltà di ulteriori allegazioni, anche in contrasto con le precedenti, delle parti). Conclusivamente: vanno separati nettamente poteri delle parti nel giudizio ordinario da oneri di allegazione derivanti dalla possibile instaurazione di sub-procedimenti incidentali. Le parti, che potranno sempre fare affidamento sui primi non sono perciò solo esonerate dall’adempimento dei secondi, nel senso che un difetto iniziale di allegazione – pur consentito dal nuovo rito ordinario – potrà senz’altro risultare pregiudizievole nel sub-procedimento incidentale. 5) Nei giudizi di opposizione a decreto ingiuntivo le parti, ai fini degli adempimenti indicati nell’art. 180 c.p.c., vanno intese in senso formale o sostanziale? Sono note le divergenze dottrinali e giurisprudenziali in ordine all’assunzione delle qualità di attore e convenuto nel giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo. Se è fin troppo evidente che in senso sostanziale attore è l’opposto, titolare del credito di cui si è intimato il soddisfacimento, controverso è invece chi assuma tale qualità in senso formale, o meglio a chi spettino i poteri e gli oneri processuali ad essa connessi. Ai fini che qui occupano, senza alcuna pretesa di completezza ed al solo scopo di riassumere le posizioni, è sufficiente rilevare che parte della dottrina (tra gli altri, SATTA, Diritto processuale civile) ritiene che, intercorrendo un rapporto di reciproca autonomia tra decreto ingiuntivo ed il successivo giudizio di opposizione, la qualità di attore ed i rispettivi poteri ed oneri, sia pure “con ragionevoli temperamenti”, spettino all’opponente. Altri invece (GARBAGNATI, I procedimenti d’ingiunzione e per convalida di sfratto), dopo aver rilevato che “per effetto dell’opposizione le posizioni delle parti si trovano processualmente invertite, rispetto a quanto accade in un ordinario processo di condanna, (…) poiché il debitore opponente, pur essendo soggetto passivo del rapporto giuridico controverso, ha formalmente veste di attore, mentre il creditore, di fronte alla notificazione della citazione in opposizione, viene processualmente a profilarsi come una parte convenuta”, osserva che, poiché “l’opposizione dà inizio non ad un autonomo processo, ma ad un procedimento di impugnazione del provvedimento giurisdizionale dichiarativo che, in forma di decreto d’ingiunzione, ha accolto la domanda di condanna del debitore inadempiente, proposta dal creditore col ricorso per ingiunzione, (..) è a questa domanda, introduttiva dell’intero processo, che occorre far capo, sia agli effetti dell’onere della prova sia in tema di nuove domande od eccezioni”. Anche la giurisprudenza di legittimità appare contrastante, pur se sembra ampiamente recepito il secondo dei citati orientamenti, secondo il quale i poteri e gli oneri connessi alla qualità di attore spettano al creditore opposto (cfr., tra le altre, Cass. 14-7-1965 n. 1509; Cass. 8-10-1970 n. 1867; Cass. 12-1-1972 n. 84; Cass. 12-5-1973 n. 1276; Cass. 22-10-1986 n. 6208; Cass. 22-10-1986 n. 6209; Cass. 30-7-1988 n. 4795; Cass. 6-4-1990 n. 2875; Cass. 3-3-1994 n. 2124). Più di recente, ad una pronunzia in senso contrario delle SS. UU., secondo cui “tutti i poteri che il codice di rito ricollega alla posizione del convenuto, compreso quello di proporre domanda riconvenzionale, spettano all’opposto” (Cass. 18 maggio 1994 n. 4837), si è contrapposto che ‘’l’opposto, in quanto attore in senso sostanziale, può, a norma degli artt. 183 e 184 c.p.c. (vecchio rito), solo precisare e modificare le domande spiegate con il ricorso ma non proporre domande riconvenzionali” (Cass. 22-3-1995 n. 3254). Come è facile intuire e come pure parzialmente si evince dalle citate massime giurisprudenziali, l’adozione dell’una o dell’altra soluzione ha delle rilevanti conseguenze sul piano processuale, in ordine alla proponibilità di domande riconvenzionali (spettanti al solo convenuto), ai limiti entro i quali può essere mutata la domanda proposta con il ricorso per decreto ingiuntivo, infine all’onere della prova. Ed il rilievo che in difetto di ogni prova utile nell’ordinario giudizio di cognizione da parte sia del debitore che del creditore, l’opposizione va accolta ed il decreto ingiuntivo deve essere revocato, è senz’altro un forte argomento a favore della tesi secondo la quale attore è l’opposto, cui appunto incombe l’onere di dimostrare l’esistenza del proprio credito. Parimenti, non è senza significato che l’art. 643 terzo comma c.p.c. faccia coincidere la pendenza della lite con la notificazione del ricorso e del decreto ingiuntivo, che dunque vanno considerati gli atti introduttivi dell’(eventuale) procedimento di opposizione (con la conseguenza, tra l’altro, che l’applicazione del vecchio o del nuovo rito a tale giudizio dipende proprio dalla data di notificazione degli atti suddetti). Il problema posto in questa sede è però complicato dalla previsione di concessione del termine di cui all’art. 180 secondo comma c.p.c. “al convenuto”. È sembrato ad alcuni interpreti anomalo che tale termine dovesse essere concesso all’opponente, che pure ha proposto l’atto di citazione con cui ha dovuto invitare il creditore opposto a costituirsi, nei termini di legge, prima dell’udienza di comparizione. Stride, cioè, che il destinatario di tale invito sia diverso dalla parte alla quale va concesso il termine di cui al ripetuto art. 180 c.p.c.. Ed alcune decisioni, invero senza affrontare ex professo la questione, hanno senz’altro optato per la concessione di tale termine all’opposto (Trib. Bari, ordinanze del 18 ottobre 1995, Pastore contro Leasing Levante, e del 25-11-1995, Medit s.a.s. contro Azienda Agricola Valle d’oro). Altri, invece, richiamandosi motivatamente al ricordato indirizzo prevalente del giudice di legittimità, hanno identificato nell’opponente il destinatario del termine in esame (Pretura di Trani, 2 ottobre 1995, Società Manifatture Petruzzelli contro Società Golf; Pretura di Monza, 29 settembre 1995, Società Montedil contro Società A.B.C.). Non sfugge l’anomalia che tale ultimo orientamento comporta rispetto all’ordinario giudizio di cognizione, che si fonda ormai sul c.d. tiro incrociato, sull’alternanza, cioè, delle difese delle parti secondo atti scritti predeterminati, di cui meglio si dirà al paragrafo seguente. Tale schema comporterebbe certamente, per come si è detto, che il termine di cui all’art. 180 c.p.c. fosse assegnato non a chi ha proposto l’atto di citazione, ma alla controparte. Resta solo da valutare se tale anomalia, ricollegabile come le altre cui sopra si è fatto cenno (domande riconvenzionali, modifica della domanda, onere probatorio) alla natura del procedimento di opposizione, possa ritenersi superata dalla considerazione, non per tutti accoglibile, che l’instaurazione di questo giudizio avviene con la notificazione del ricorso e del decreto ingiuntivo. La giurisprudenza del distretto di Reggio Calabria è sul punto non uniforme, adottandosi ora l’una ora l’altra soluzione, in conseguenza della costruzione teorica del procedimento di opposizione. 6) Quando ed a quali parti concedere il temine per comparse ex artt. 170 e 180 c.p.c.? Come sopra si è visto, l’art. 180 c.p.c., dopo aver ribadito il principio di oralità della trattazione della causa (plaude al ripristino di tale principio, tra gli altri, CASTELLINI, Commento all’art. 180 c.p.c. in Guida al Diritto, 2, 13 gennaio 1996), prevede che, “se richiesto, il giudice può autorizzare comunicazioni di comparse a norma dell’ultimo comma dell’art. 170”; ed aggiunge che con il rinvio alla prima udienza di trattazione va assegnato al convenuto un termine perentorio non inferiore a venti giorni prima di tale udienza per le eccezioni non rilevabili di ufficio. Pertanto, mentre è il convenuto a potere usufruire dell’ulteriore termine per le proprie difese, tutte le parti costituite, od anche una sola di esse, possono chiedere l’autorizzazione alla comunicazione di comparse. Ed il giudice, se è tenuto, nei limiti sopra esposti, a concedere il termine per le eccezioni del convenuto, può autorizzare la comunicazione delle comparse. In proposito, si è osservato che, nell’esercizio del suo potere discrezionale, il giudice “dovrà farne un uso parco, confinato alle sole cause più complesse e nelle quali il chiarimento scritto sia ritenuto realmente utile sulla base di quanto sino a quel momento acquisito” (D’ASCOLA op. cit.). Si è posto, poi, il problema se la scadenza del termine per tale comunicazione debba precedere o seguire quella per la proposizione delle eccezioni del convenuto ex art. 180, secondo comma, c.p.c.. Quest’ultima soluzione è diffusamente adottata (optano per essa, tra gli altri, COSTANTINO, Proposte di prassi applicative, e Maria ACIERNO, op. cit.), evidentemente sul presupposto che con la comparsa in esame l’attore deve essere messo in condizione di poter replicare anche alle eccezioni formulate dal convenuto nel termine concessogli ai sensi dell’art. 180 c.p.c.. Tale conclusione, però, non appare l’unica compatibile con il sistema, né quella che meglio risponde sempre alle esigenze del contraddittorio. Non va dimenticato, in primo luogo, che, come sopra si è accennato, il nuovo processo civile è improntato allo schema del c.d. tiro incrociato, che prevede l’alternanza delle difese delle parti secondo atti rigidamente predeterminati. Così all’atto di citazione il convenuto replicherà con la comparsa di risposta; così ancora all’udienza di trattazione l’attore potrà proporre le domande e le eccezioni che siano conseguenza della domanda riconvenzionale e delle eccezioni del convenuto (art. 183 quarto comma c.p.c.); così infine le parti potranno chiedere un termine per il deposito di memorie contenenti precisazioni o modificazioni delle domande, delle eccezioni e delle conclusioni già proposte, con diritto a replicare alle domande ed eccezioni nuove o modificate dell’altra parte ed a proporre le eccezioni che sono conseguenza delle domande e delle eccezioni medesime (art. 183 quinto comma c.p.c.). Orbene, tale rigorosa alternanza di difese lascerebbe presupporre che con la comparsa di cui all’art. 180 c.p.c. l’attore possa già replicare alle eccezioni formulate dal convenuto nella comparsa di risposta; tanto più che rispetto alle nuove eccezioni proposte all’udienza di rinvio ex art. 180 secondo comma c.p.c. lo stesso attore potrà rispondere, ai sensi del citato quarto comma dell’art. 183 c.p.c., all’udienza di trattazione. Conforta tale soluzione qualche esperienza concretamente maturata dallo scrivente. L’esigenza della comunicazione di memorie si è infatti evidenziata allorché su una questione preliminare, proposta dal convenuto in comparsa di risposta, l’attore abbia ritenuto di dover immediatamente replicare prima dell’adozione di qualsiasi provvedimento del giudice. Così si è verificato che, eccepito dal convenuto il difetto di contraddittorio per mancata citazione in giudizio di un presunto litisconsorte necessario, l’attore abbia chiesto di potersi difendere sul punto con comparsa. Non vi è ragione, in questi casi, di posticipare il termine per la comunicazione di tale comparsa alla proposizione delle ulteriori eccezioni del convenuto, che, ripetesi, potranno ben essere contraddette all’udienza di trattazione. Sembra opportuno dunque che, nell’esercizio del suo potere discrezionale, a seconda delle necessità del processo, sia il Giudice Istruttore a determinare, caso per caso, a) se concedere l’autorizzazione alla comunicazione delle comparse; b) entro quale termine esse vadano comunicate (e quindi anche se prima o dopo la proposizione delle eccezioni del convenuto ex art. 180 c.p.c.); c) eventualmente, se e quale delle parti debba comunicare per prima la propria comparsa ed il termine della risposta della controparte, ai sensi dell’art. 83 bis disp. att. c.p.c., che sul punto mantiene inalterato il suo vigore. GLI INCOMBENTI DELL’ISTRUTTORE ALL’UDIENZA EX ART. 180 C.P.C. Relatore: dott.ssa Maria ACIERNO pretore di Bologna Introduzione La soluzione definitivamente accolta (1) dal legislatore di codificare la distinzione tra udienza di prima comparizione (art. 180 c.p.c.) e prima udienza di trattazione (art. 183 c.p.c.) ha quanto meno il pregio di aver fornito materiale normativo da esaminare e valutare non più sottoponibile a revisione (2). Fino ad ora la vigenza meramente temporanea di numerose disposizioni (3) e la tecnica “atomistica” di introduzione delle disposizioni novellate (4) aveva determinato un accanimento interpretativo sproporzionato alla durata effettiva delle soluzioni faticosamente adottate (5). Non riveste particolare utilità pratica valutare la adeguatezza del risultato finale rispetto alla lunga e complessa genesi del processo di formazione del nuovo procedimento di cognizione mentre occorre mettere a fuoco con esattezza quali sono i compiti dell’istruttore risultati rafforzati e divenuti ineluttabili per effetto del modello processuale derivante dagli articoli 180 e 183 c.p.c.. Deve essere sottolineato preliminarmente che la centralità del ruolo di direzione dell’udienza e di individuazione dell’oggetto della trattazione da parte del giudice è rimasto inalterato anche all’esito della distribuzione in due udienze della attività volta ad introdurre in modo tendenzialmente completo l’oggetto ed i soggetti della lite. Va aggiunto che se si vuole riconoscere una funzione positiva alla diluizione (6) della attività preparatoria come delineata dalle disposizioni citate, essa va ricercata nella inderogabilità dei controlli preliminari codificati nell’art. 180 c.p.c. e desumibili dal codice (7) e nella obbligatorietà degli adempimenti previsti nell’art. 183 (8) con preminente rilievo per l’interrogatorio libero, realizzabile in modo più confortevole in una udienza depurata del carico delle verifiche preliminari già effettuate nella udienza di prima comparizione. Deve essere, al contrario, fin dall’inizio abbandonata la tentazione di ritenere che la cd. “controriforma” realizzata con lo spostamento in avanti di talune decadenze processuali incombenti sul convenuto (9) e con la predisposizione di un’udienza da dedicare “in ogni caso» (10) alle verifiche preliminari significhi un ritorno a prassi contrassegnate dalla tendenza a posticipare il più possibile la conoscenza del fascicolo da parte del giudice ed a svalorizzare il rilevantissimo contributo alla definizione dell’oggetto del giudizio e del “thema probandum” da attribuire all’interrogatorio libero. La rigidità impressa dal legislatore alle udienze ed agli adempimenti da eseguirsi prima della istruzione probatoria non esclude (11) la concreta possibilità di adeguare elasticamente il modello processuale alle caratteristiche delle singole controversie, eludendo, se effettivamente superfluo, qualche passaggio procedimentale anche se codificato. Tali scelte non possono però essere rimesse alla determinazione ancorché concorde delle parti ma rimangono estrinsecazione dell’esclusivo potere di direzione dell’udienza conservato dalla legge in modo notevolmente rafforzato dalla novella, al Giudice Istruttore. Cap. I. Gli incombenti del giudice designato ex art. 168 bis anteriori alla 1a udienza di comparizione. L’esame delle disposizioni sulle quali è scandita la fase introduttiva del procedimento ordinario viene condotta attraverso gli incombenti dell’istruttore nell’udienza di prima comparizione e nella prima udienza di trattazione. È necessario individuare con esattezza nelle singole controversie gli adempimenti ed i passaggi procedimentali ineliminabili, senza affidarsi meccanicisticamente all’apparente inderogabilità del sistema di sdoppiamento delle udienze e di separazione delle attività da eseguirsi in ciascuna di esse che emerge dall’esame letterale dell’art. 180 e 183-184 c.p.c. (per i mezzi di prova). L’obiettivo rimane fissato nell’effettività della trattazione e, conseguentemente, è indispensabile avere la chiara definizione – per ciascuna scansione procedimentale – del potere dispositivo delle parti e del contenuto della funzione di direzione del giudice senza omissione negli adempimenti doverosi (12), anche in presenza dell’accordo delle parti, ma anche senza forzature procedimentali quando l’appesantimento non solo temporale del processo è inversamente proporzionale alla limitatezza dell’oggetto controverso. 1. Art. 168 bis u.c.: smistamento dei fascicoli da parte dell’istruttore: un passaggio organizzatorio destinato a scomparire? Gli adempimenti del giudice designato ex art. 168 bis secondo comma per il procedimento a cognizione piena verificabili anteriormente alla udienza di prima comparizione riguardano la integrazione del contraddittorio ad istanza di parte convenuta (art. 269 2° comma), la eventuale introduzione di un sub-procedimento incidentale di natura cautelare od anticipatoria (art. 669 quater); la necessità di natura organizzatoria di distribuire le prime udienze secondo tempi diversi da quelli risultanti dalla citazione a comparire indicata dalla parte. Conviene partire da quest’ultimo incombente divenuto con lo sdoppiamento in due udienze della fase introduttiva, meramente eventuale. Una delle finalità della prima udienza di comparizione consiste proprio nella possibilità di smistare le controversie da rinviare per la prima udienza di trattazione secondo le esigenze dell’agenda di ciascun giudice in modo da poter dedicare all’interrogatorio libero ed alla trattazione delle questioni rilevabili d’ufficio un segmento temporale dell’udienza da fissare adeguato alla complessità delle singole controversie. Inoltre la preparazione delle cause per la prima udienza di trattazione dovrebbe essere facilitata dalla conoscenza, ancorché superficiale degli atti introduttivi del giudizio disponibili all’udienza ex art. 180 c.p.c. Viene meno, di conseguenza, la concreta utilizzabilità dell’art. 168 bis ultimo comma, secondo il quale il Giudice Istruttore può differire con decreto da emettere entro cinque giorni dalla presentazione del fascicolo, la data della prima udienza fino ad un massimo di quarantacinque giorni. È stata espunta dalla disposizione originaria la parte relativa all’ininfluenza dello spostamento d’udienza sulle decadenze. Prima della introduzione della udienza di prima comparizione nei numerosi incontri di studi e di ricerca di prassi uniformi che hanno scandito la gestazione frazionata della novella era emersa la concreta eventualità di non comprimere tutte le attività procedimentali relative alla fase introduttiva, mediante un’udienza preliminare destinata alla distribuzione razionale delle cause al fine di renderne effettiva la trattazione ancorché differita ad una udienza successiva. Non vi era però una unanimità di orientamento sull’utilizzazione generalizzata o mirata di tale separazione della fase introduttiva (salvo i casi in cui la estensione del contraddittorio o la rinnovazione degli atti introduttivi non imponevano di fatto la moltiplicazione della prima udienza) proprio perché si sottolineava l’esistenza di uno strumento avente analoghe finalità come il potere di differimento della prima udienza ex art. 168 bis ultimo comma. Si è voluto accennare all’intenso dibattito che ha preceduto l’introduzione dell’art. 180 c.p.c. novellato non tanto per evidenziare la compatibilità del sistema preesistente con la concreta possibilità di distribuire la fase introduttiva in più di un’udienza, ma piuttosto per suggerire un uso veramente marginale dell’art. 168 bis ultimo comma, con l’attuale codificazione ed applicazione generalizzata cogente della separazione tra udienza destinata alle verifiche preliminari e prima udienza di trattazione. La utilizzazione del potere discrezionale di differire la prima udienza ex art. 168 bis fino ai 45 giorni congiunta con il lungo termine a comparire stabilito all’art. 163 bis potrebbero consentire al convenuto di costituirsi ex art. 167 c.p.c. e conseguentemente proporre tempestivamente domande riconvenzionali e chiamata di terzo, con uno “spatium deliberandi” che può superare gli 80 giorni (13). La dilazione temporale sembra veramente eccessiva se comparata alla marginalità delle decadenze connesse alla successiva al termine di cui all’art. 167 c.p.c. ma si tratta di uno “spatium deliberandi” destinato ad incrementare fortemente se si assume come termine finale quello stabilito all’art. 180 c.p.c. per la proposizione delle eccezioni processuali e di merito. Scegliendo questa seconda modalità di costituzione il convenuto ha un tempo di allestimento delle proprie difese che può divenire veramente lungo in quegli uffici ove non sia possibile fissare in tempi ravvicinati alla udienza di prima comparizione la udienza ex art. 183 c.p.c. soprattutto se prevarrà la prassi di concedere il termine massimo consentito dalla legge e consentire il deposito della c.d. comparsa di risposta bis fino al ventesimo giorno prima dell’udienza ex art. 183 (non computando ex art. 155 c.p.c. il giorno in cui è fissata la udienza) (14). La disposizione contenuta all’ultimo comma dell’art. 168 bis è tutt’ora vigente. Lo spazio applicativo deve essere veramente residuale. Possono esservi controversie in cui per la pluralità delle parti, diventa opportuna la fissazione separata e differita della udienza di prima comparizione, al fine di procedere a verifiche preliminari accurate. Alla stessa soluzione si potrebbe pervenire per controversie seriali, con identico oggetto in modo da procedere alla riunione più speditamente soprattutto se il numero delle cause è veramente elevato e viene distribuito in “blocchi’’ a diversi giudici. Divenuta, in conclusione, rilevante stabilire se la Cancelleria deve provvedere sempre ed in via generale alla trasmissione dei fascicoli relativi alle udienze di prima comparizione già fissate al fine di mettere il giudice in condizione di esercitare il potere discrezionale di cui all’art. 168 bis o se ormai tale passaggio organizzativo può essere omesso in via generale con la possibilità di selezionare preventivamente le tipologie di controversie per le quali può essere applicabile l’art. 168 bis, utilizzando le esemplificazioni fornite o scegliendo parametri diversi. Per i motivi ampiamente esposti questo ultimo mi sembra l’orientamento da adottare, con la precisazione che l’esame dei fascicoli di ciascuna udienza di prima comparizione deve comunque essere eseguito prima dello svolgimento dell’udienza e, pertanto, le esigenze di smistamento possono trovare ampio spazio valutativo in corso di essa. 2. art. 269 c.p.c. c.p.v.: lo spostamento della prima udienza di comparizione dovuto alla chiamata del terzo richiesta dal convenuto: permane la funzione acceleratoria della disposizione? La chiamata in causa di un terzo, diverso dal litisconsorte necessario (15) ha subito significative modificazioni con l’entrata in vigore della novella. L’art. 269 c.p.c. è stato sostanzialmente riscritto con la finalità di scongiurare una decelerazione eccessiva dell’avvio della trattazione dovuta alla partecipazione al giudizio di litisconsorti facoltativi su richiesta delle parti. L’analisi degli adempimenti dell’istruttore deve, pertanto, essere effettuata sulla base di questo criterio guida, incisivamente fotografato nella nuova disciplinata della chiamata in causa su istanza del convenuto. Nel regime antevigente, lo sbarramento temporale comune ad entrambe le parti per richiedere l’autorizzazione a chiamare un terzo era costituito dalla prima udienza (16). Il giudice vi provvedeva solo all’esito di una valutazione discrezionale ed insindacabile (17) relativa alla sussistenza di ragioni di connessione giustificative dell’istanza. Se la parte (attrice o convenuta) voleva evitare tale giudizio citava il terzo nel rispetto dei termini a comparire alla prima udienza (art. 269 1° comma previgente). L’attuale disciplina normativa della chiamata del terzo si fonda su un regime decadenziale diverso per ciascuna delle parti. Il primo comma dell’art. 269 c.p.c. stabilisce innovativamente per entrambe le parti che alla chiamata in causa del terzo si provveda con citazione a comparire all’udienza fissata dal giudice nel rispetto dei termini a comparire. La disposizione sembrerebbe avere l’esclusiva funzione di vietare al convenuto, ove il rispetto dei termini di comparizione lo potesse consentire, di chiamare in causa il terzo direttamente per la prima udienza. I commentatori più autorevoli della novella sono divisi al riguardo. La maggioranza degli autori (18) non condivide l’interpretazione restrittiva risultante dall’esame letterale dei primi due comma dell’art. 269 c.p.c. in quanto la citazione del terzo per la prima udienza risponderebbe pienamente all’esigenza acceleratoria voluta dalla nuova disciplina normativa e potrebbe per i litisconsorti necessari citati dal convenuto per la prima udienza determinare una rilevante anticipazione delle attività c.d. preliminari (19). La soluzione estensiva sembra preferibile anche se introduce una deroga alla regola dell’attribuzione al giudice del potere esclusivo di fissare l’udienza per la citazione del terzo. L’imperatività di quest’ultimo principio si esprime, però, pienamente nel 2° comma dell’art. 269 c.p.c., disciplinante specificamente la chiamata in causa del terzo da parte del convenuto. Dalla disposizione risultano chiaramente predeterminati il contenuto minimo della richiesta ed il termine entro cui formularla. Gli adempimenti della parte non pongono pertanto problemi interpretativi. La chiamata in causa del terzo deve avvenire a pena di decadenza nel termine di costituzione stabilito nell’art. 166 c.p.c. e cioè “almeno venti giorni prima dell’udienza di comparizione”. L’ultimo comma dell’art. 167 c.p.c. ed il capoverso dell’art. 269 c.p.c. determinano inequivocamente lo sbarramento temporale per tale incombente. Il convenuto deve, a pena di decadenza, fare dichiarazione nella comparsa di risposta della volontà di chiamare in causa un terzo e contestualmente chiedere lo spostamento della prima udienza per garantire il rispetto dei termini a comparire. Il contenuto effettivo degli adempimenti cui è tenuto il giudice sono invece oggetto di ampia revisione interpretativa. La disposizione sembrerebbe imporre all’istruttore lo spostamento della prima udienza di comparizione limitando il potere di controllo del giudice alla tempestività ed alla completezza dell’istanza. L’adozione di questo profilo interpretativo, più aderente all’esame letterale della disposizione dovrebbe poggiare sulla non attribuibilità al convenuto della facoltà processuale di citare il terzo per la prima udienza di comparizione nel rispetto dei termini a comparire. Al convenuto sarebbe attribuito il potere non sindacabile nel merito, di chiamare in causa un terzo ma solo con le modalità tipizzate nel capoverso dell’art. 269 c.p.c. Tale potere sarebbe corrispondente a quello dell’attore libero di instaurare la lite contro chi ritiene. L’interpretazione indicata ha senz’altro il pregio di una perfetta coerenza testuale con le disposizioni contenute nel 1° e 2° comma dell’art. 269 c.p.c. ma si pone in contrasto con l’orientamento convalidato della giurisprudenza di legittimità formatasi nel regime antevigente dell’art. 269 c.p.c., secondo la quale il provvedimento del giudice di autorizzazione alla chiamata in causa costituisce il frutto di una deliberazione sull’esistenza di un requisito della connessione. Anche l’apparente equiparazione tra le parti conseguente dalla lettura testuale delle disposizioni esaminate viene posto in dubbio se raffrontato al terzo comma dell’art. 269 c.p.c., regolante la chiamata in causa del terzo ad opera dell’attore. Per tale parte è infatti espressamente stabilito che il giudice compia una valutazione sul requisito della connessione. La conoscenza degli atti difensivi del convenuto da parte dell’attore non sembra però idonea ad eliminare i dubbi di una disparità di trattamento tra le parti. Anche il convenuto, al momento della tempestiva formulazione dell’istanza ex 2° comma art. 269 c.p.c. conosce l’atto di citazione e si trova in condizioni difensive pressoché analoghe a quelle dell’attore (20). Al giudice che ha l’incombente di provvedere ex art. 269 2° comma c.p.c. si prospettano diverse alternative pratiche: a) spostamento doveroso dell’udienza di prima comparizione senza la preventiva valutazione della “connessione”, comunque differibile e concretamente realizzabile con la separazione dei giudizi; b) esame preventivo non solo della ritualità della richiesta ma anche del requisito della “connessione” ancorché in una fase processuale nella quale ancora non si è formato il contraddittorio. All’esito di un incontro finalizzato ad una prima valutazione delle modifiche introdotte con il d.l. n. 238/95 avvenuto fra i magistrati dell’Emilia Romagna è stata da alcuni prospettata la possibilità di differire la decisione sulla chiamata in causa del convenuto alla prima udienza di comparizione già fissata, in modo da garantire sostanziale parità di trattamento fra le parti (21), sul rilievo che la previsione dello spostamento d’udienza stabilito all’art. 269 c.p.c., capoverso, fosse più coerente con il quadro normativo iniziale della fase introduttiva caratterizzato da una prima udienza carica di adempimenti ed in particolare incentrata sulla partecipazione personale delle parti. Con la previsione di una scansione processuale aggiuntiva dedicata esclusivamente alle verifiche preliminari, l’esigenza di razionalizzazione sottesa allo spostamento necessitato della udienza di prima comparizione verrebbe meno, tanto più che è stato codificato per tale udienza il controllo sulla completezza del contraddittorio, ove questo adempimento sarà possibile prima della completa formazione del thema decidendi (cfr. il richiamo espresso all’art. 102 c.p.c. contenuto nell’elenco degli adempimenti da eseguire all’udienza di prima comparizione). La soluzione è suggestiva ma incontra due obiezioni: la prima è testuale in quanto l’art. 269 c.p.v. verrebbe abrogato per tutta la parte non disciplinante la decadenza temporale per la proposizione dell’istanza; la seconda è sistematica. Con l’adozione della soluzione indicata alla possibile sufficienza di una sola udienza di prima comparizione ancorché spostata in avanti nel tempo, si sostituirebbe la quasi certa duplicazione dell’udienza ex art. 180 c.p.c. dovuta alla citazione del terzo. Quale che sia la prima udienza di comparizione successiva alla richiesta di parte convenuta formulata ex art. 269 c.p.c. c.p.v., deve ribadirsi che in questa udienza vanno svolti tutti gli adempimenti previsti dalla legge in materia di verifiche preliminari. Rimane da definire un ultimo profilo relativo agli incombenti del giudice quando il processo acquista una pluralità di parti. La udienza destinata alle verifiche preliminari secondo il novellato art. 180 c.p.c. può non esaurirsi in una sola sessione temporale e snodarsi almeno in due udienze quando l’attore ex 3° comma art. 269 c.p.c., richieda espressamente già all’udienza di prima comparizione di essere autorizzato a chiamare un terzo. Se si verifica tale evenienza occorre chiedersi se il giudice già alla prima delle udienze ex art. 180 c.p.c. deve concedere al convenuto originario il termine decadenziale per la proposizione delle eccezioni processuali e di merito oppure se deve differire tale adempimento all’udienza di verifica della costituzione del terzo. Si deve chiarire se la fase introduttiva scandita normativamente in due sotto-fasi destinate rispettivamente alle verifiche preliminari e all’effettiva trattazione può essere composta di udienze a contenuto misto quanto meno sotto il profilo delle decadenze ad esse ricollegabili oppure se si deve procedere unitariamente e destinare le udienze esclusivamente all’uno (le verifiche preliminari) od all’altra (la trattazione o meglio l’interrogatorio libero) degli adempimenti indicati dal legislatore (22). Il problema non è privo di rilievo pratico perché incide sul regime delle decadenze posto a carico del convenuto originario. In una causa con una pluralità di parti il termine per la proposizione delle eccezioni processuali e di merito non rilevabili d’ufficio può essere notevolmente spostato in avanti se lo si ancora per tutti all’esito della verifica della completezza del contraddittorio. Non può infatti escludersi che il terzo una volta costituitosi ex art. 271 c.p.c. 2° comma chieda ritualmente di chiamare in causa un’altra parte con conseguente spostamento doveroso dell’udienza di prima comparizione. La soluzione “unitaria” oltre ad evitare situazioni processuali troppo sbilanciate in favore delle parti ultime entrate nel processo (23) è coerente con il testo dell’art. 180, c.p.c. secondo il quale il termine perentorio ha come “dies a quo” la prima udienza di trattazione. Il problema non si pone per l’integrazione del contraddittorio dovuta a litisconsorzio necessario non potendosi evitare ex lege la trattazione unitaria delle controversie e la posizione difensiva di partenza paritaria delle parti. Cap. II. Gli incombenti dell’istruttore nell’udienza di prima comparizione. 1. Le verifiche preliminari ex art. 180 c.p.c. - un elenco incompleto e ridondante. La prima udienza di comparizione è destinata alle verifiche preliminari sulla regolarità e completezza del contraddittorio. Il suggerimento fornito dalla dottrina (24) e dalle prime riflessioni dei pratici (25) di prevedere l’opportunita di suddividere la fase introduttiva quantomeno in due udienze per poter adeguatamente procedere alla trattazione della causa, è stato accolto con una soluzione tecnica che desta perplessità. Il primo comma dell’art. 180 c.p.c., contiene, infatti, un elenco di adempimenti “doverosi” per l’istruttore non differibili ad udienze successive. La indicazione delle verifiche preliminari da effettuarsi in I° udienza viene eseguita dal legislatore con il riferimento diretto alle disposizioni che disciplinano i controlli da effettuare, come generalmente avviene per le catalogazioni od esemplificazioni di carattere tassativo. L’elenco contenuto nel 1° comma dell’art. 180 non può essere ritenuto tassativo perché talune attività da svolgersi necessariamente alla udienza di prima comparizione quali l’accertamento della tempestiva costituzione di almeno una delle parti ed i provvedimenti conseguenti alla mancata comparizione delle stesse, non sono contenuti nella disposizione. La classificazione non integra infine neanche il contenuto minimo dei controlli preliminari esercitabili prima della piena definizione del “thema decidendum” cui è destinata la prima udienza di trattazione (26). L’accertamento relativo al litisconsorzio necessario può non essere realizzabile prima dell’interrogatorio libero delle parti o comunque può emergere dopo la precisazione e la modificazione delle domande e delle eccezioni o delle conclusioni effettuabili esclusivamente alla prima udienza di trattazione. Evidenziata la finalità meramente esortativa del catalogo di adempimenti preliminari posti a carico del giudice deve sottolinearsi che le indicazioni provenienti dai commentatori sulla scissione della fase introduttiva del giudizio non prevedeva un sistema di rigida separazione delle attività classificabili come verifiche preliminari e quelle più propriamente attinenti alla definizione del thema decidendum e degli effettivi contraddittori. Doveva essere compito delle parti e del giudice provvedere a controlli ed alla rinnovazione delle nullità esercitabili sulla sola base degli atti introduttivi della causa. La maggior parte delle questioni, astrattamente classificabili come preliminari possono invece sorgere con l’esame più approfondito del rapporto dedotto in giudizio. La scelta di non predeterminare le attività ed i controlli processuali preliminari da effettuarsi all’udienza cosiddetta di smistamento aveva il pregio di eliminare i dubbi interpretativi sulla fissazione temporale di decadenze variamente ancorate alla prima udienza, coincidente nel regime previgente nella prima udienza di trattazione. La soluzione contraria presenta, invece, il grave inconveniente di lasciare all’interprete la definizione temporale di termini decadenziali aggiungendo al problema, già affrontato per le controversie di lavoro della non coincidenza tra l’unità temporale e l’unità giuridica processuale dell’udienza, anche quello di stabilire, quando la “prima udienza” significhi udienza di prima comparizione o prima udienza di trattazione. In numerose disposizioni è riportato il termine “prima udienza». L’art. 269, comma terzo relativo alla chiamata in causa da parte dell’attore indica come termine finale la prima udienza. La disposizione va coordinata con l’art. 183 4° comma nel quale è espressamente prevista la facoltà dell’attore di chiamare un terzo in causa se l’esigenza è sorta dalle difese del convenuto. Nulla vieta all’attore di proporre l’istanza all’udienza ex art. 180 c.p.c. ma il termine di decadenza va spostato alla prima udienza di trattazione, quando le attività difensive introduttive del convenuto sono complete. Il rilievo officioso o di parte della connessione deve avvenire in “prima udienza”. Anche per questa fattispecie di difettoso coordinamento normativo si propone la soluzione sopra illustrata per il termine perentorio contenuto nell’art. 269 c.p.c. terzo comma. Le ragioni della connessione possono, infatti, emergere per la prima volta all’esito dell’interrogatorio libero delle parti. Soluzioni diverse sono invece già state prospettate in ordine alla rilevabilità dell’incompetenza territoriale derogabile. L’art. 38 2° comma c.p.c. fissa a pena di decadenza il rilievo nella comparsa di risposta. La disposizione va, però coordinata con l’art. 180 2° comma, secondo il quale le eccezioni processuali non rilevabili d’ufficio possono essere proposte nel termine non inferiore a venti giorni dalla prima udienza di trattazione, fissato dal giudice all’esito della udienza di prima comparizione. Se l’art. 38 2° comma si pone in relazione di specialità con il nuovo secondo comma dell’art. 180 c.p.c., il rilievo dell’incompetenza territoriale derogabile va anticipato al termine di costituzione tempestiva stabilito negli artt. 166-167 per la proposizione della domanda riconvenzionale e della chiamata di terzo da parte del convenuto (27). Se, invece, si ritiene che la disposizione successiva abbia abrogato le disposizioni con essa incompatibili anche tale eccezione può ritenersi validamente proposta nella comparsa di risposta bis prima della Iª udienza di trattazione nel termine assegnato dal giudice (28). La soluzione da preferire sembra la seconda in primo luogo perché i numerosi difetti di coordinamento normativo causati dalla caotica e frammentata introduzione di disposizioni nuove portano ad escludere una volontà derogatoria del legislatore rispetto al principio generale della modifica per effetto della legge successiva delle precedenti disposizioni contrarie. In secondo luogo, rimane, anche con lo spostamento del termine di proponibilità dell’eccezione di incompetenza territoriale derogabile, la diversa rilevabilità temporale di tale eccezione rispetto alle altre fattispecie di incompetenza per le quali il termine decadenziale è (una volta tanto) indicato chiaramente nella Iª udienza di trattazione. In terzo luogo nelle fattispecie caratterizzate da una pluralità di fori concorrenti, quali i rapporti obbligatori, la individuazione del giudice competente può essere condizionata dalla proposizione di un’eccezione che modifichi la qualificazione del rapporto. Per numerose altre disposizioni (es. art. 168 bis u.c., art. 163 3° comma n. 7) la indicazione è meramente esemplificativa) non sussistono dubbi interpretativi: il riferimento alla prima udienza va interpretato nel senso di udienza ex art. l80 c.p.c., in quanto si tratta incontestatamente del riferimento temporale alla prima scansione temporale del procedimento. Quando la individuazione della “prima udienza” costituisce uno sbarramento temporale decadenziale per l’emersione processuale di questioni preliminari o pregiudiziali, il termine finale va individuato nell’udienza ex art. 183 c.p.c. Le ragioni della scelta sono due. L’art. 180 novellato costituisce la risposta ad un problema orgariizzativo di smistamento delle cause ed ad un problema difensivo di garanzia per il convenuto: introduce una deroga espressa al sistema delle preclusioni, spostando in avanti la proponibilità delle eccezioni non rilevabili d’ufficio e si lascia inalterato l’impianto sistematico delle decadenze non collegate agli atti difensivi iniziali. Non vi è pertanto motivo di identificare diversamente dal testo originario della novella, l’udienza nella quale devono essere rilevate le questioni di competenza e connessione e le altre per le quali il legislatore fissi come termine decadenziale la Iª udienza, tanto più che gli adempimenti prescritti nell’udienza ex art. 180 c.p.c., non perdono di rilievo officioso se non esaminati in tale udienza perché la loro emersione processuale non è assoggettata ad alcuna decadenza, attendendo tutti alla completezza e regolarità del contraddittorio. Vi è anche una ragione logica: le questioni esemplificate possono richiedere la preventiva trattazione del thema decidendi e, pertanto non ne può essere anticipata la rilevabilità ad una fase anteriore. 2. I controlli effettivamente realizzabili sulla base degli atti difensivi iniziali. Le verifiche che attengono alla instaurazione del procedimento e del rapporto processuale hanno effettivamente contenuto preliminare e, conseguentemente devono venir rilevate e superate con gli strumenti variamente disposti dalla legge esclusivamente all’udienza ex art. 180 c.p.c. La necessità organizzativa di non sovraccaricare una sola udienza anche delle verifiche estranee alla determinazione del thema decidendum, ha indotto il legislatore a duplicare la fase introduttiva. L’omissione dell’attivita di verifica e di sanatoria dei profili di invalidità riscontrabili sulla base degli atti introduttivi è gravemente censurabile sul piano della responsabilita professionale del giudice ma non esclude la rilevabilità successiva delle questioni non affrontate nella sede processuale appropriata, ove la decadenza non risulti da disposizioni ad hoc (29) o dall’applicazione del principio generale in materia di nullità relative contenuto nell’art. 155 2° comma con il rischio di dilatazione della fase introduttiva veramente poco confortanti. La rilevabilità oltre l’udienza di prima comparizione o la preclusione del rilievo oltre tale udienza verranno evidenziate comunque nell’esame delle singole attività di verifica preliminare cui si rinvia. a) controllo sulla tempestiva costituzione di almeno una delle parti (artt. 171-307 c.p.c.) La preventiva necessità di verificare se con la tempestiva costituzione di almeno una delle parti si possa definire incardinato un procedimento giudiziale non è indicata speficamente tra le verifiche preliminari da effettuarsi alla udienza di prima comparizione. L’oggetto del controllo ne impone però il rilievo assolutamente preliminare perché l’adempimento – da realizzarsi mediante la tempestiva iscrizione a ruolo – è la condizione processuale per poter procedere ai controlli sul contraddittorio. L’esegesi delle disposizioni che disciplinano le conseguenze della tardiva costituzione delle parti non è agevole. L’art. 171 1° comma dispone che se nessuna delle parti si costituisce si applicano le disposizioni dell’art. 307 1° e 2° comma. L’art. 307 c.p.c. che disciplina l’estinzione del processo per inattività delle parti, determina al 1° comma il termine perentorio entro il quale riassumere i procedimenti cancellati dal ruolo e stabilisce, ancorché indirettamente, che la sanzione della cancellazione della causa dal ruolo consegue alla mancata costituzione di almeno una delle parti entro il termine di cui all’art. 166 c.p.c. L’orientamento ormai consolidato della Suprema Corte interpreta le due disposizioni (art. 171 1° comma e 307 I° comma) nel senso che ciascuna delle parti ha l’onere di costituirsi nel tempo rispettivamente prescritto dalla legge (30) con la conseguenza che il giudice deve disporre la cancellazione della causa dal ruolo anche quando l’attore costituitosi oltre il termine di 10 giorni dalla notificazione della citazione ad esso imposto dall’art. 165 c.p.c., sia però rientrato nel termine di costituzione tempestiva stabilito dall’art. 166 c.p.c. (almeno venti giorni prima della udienza di prima comparizione) per il convenuto. La mancata cancellazione della causa dal ruolo è rilevabile in ogni grado del giudizio (31) ed il convenuto costituitosi ritualmente (nel termine di cui all’art. 166 c.p.c., può sollevare il difetto di costituzione tempestiva dell’attore e chiedere che venga disposta la cancellazione della causa dal ruolo. La assolutezza dell’orientamento peraltro non fondata sull’interpretazione letterale del rinvio all’art. 307 c.p.c., contenuta nell’art. 171 c.p.c. 1° comma è stata aspramente criticata da un’autorevole dottrina (32). È stato rilevato che se il giudice concede un termine al convenuto costituito per integrare l’atto difensivo rimasto incompleto per la tardiva costituzione dell’attore o dispone la rinnovazione della citazione quando il convenuto non si sia costituito, nella stessa evenienza elimina ogni disparità di trattamento per le parti rimettendo pienamente in termini la parte che aveva potuto confidare della mancata costituzione tempestiva dell’avversario. La sanatoria dovrebbe trovare applicazione per tutte le fattispecie di tardiva costituzione dell’attore, secondo l’orientamento dottrinario citato, anche per quelle effettuate successivamente al termine di cui all’art 166 c.p.c. La conclusione consegue al riconoscimento di una finalità esclusivamente difensiva al rispetto del termine di costituzione. Solo la mancata costituzione dell’attore, quando il convenuto abbia a sua volta omesso di costituirsi, determina la sanzione della cancellazione della causa dal ruolo. La costituzione ancorché intempestiva del convenuto produrrebbe un effetto immediatamente sanante la invalidità conseguente alla tardiva costituzione dell’attore anche se il convenuto si fosse costituito per eccepire la intempestiva iscrizione a ruolo del giudizio da parte dell’attore. La concessione di un termine per integrare l’atto difensivo e la restituzione in termini per le decadenze già verificatesi producono infatti lo stesso effetto della cancellazione della causa dal ruolo, ponendo la parte convenuta nella stessa condizione processuale conseguente alla notifica della citazione. Secondo la Suprema Corte, al contrario, i termini di costituzione hanno rilievo pubblicistico e devono essere osservati, non potendosi, in mancanza, ritenere validamente instaurata la lite. La soluzione della rinnovazione della citazione suggerita dalla dottrina, è ritenuta inapplicabile in quanto non prevista dalla legge (33) dalla Suprema Corte. La soluzione della sanabilità della tardiva costituzione sembra preferibile. In effetti con la rinnovazione della citazione o con la rimessione in termini per le decadenze maturate il convenuto non subisce alcun svantaggio difensivo dalla tardiva costituzione dell’attore. Poiché l’art. 307 c.p.c. riconosce alla tardiva costituzione di una parte la dignità processuale di atto esistente, facendo conseguire precisi ed opposti effetti alla iscrizione a ruolo entro od oltre il termine di cui all’art. 166 c.p.c., potrebbe essere applicata la norma secondo la quale il giudice, quando sia possibile deve disporre la rinnovazione degli atti, in considerazione anche del favore legislativo per la instaurazione di procedimenti non viziati all’esito di un rigoroso vaglio giudiziale anticipato alla fase introduttiva. La cancellazione della causa dal ruolo o la rinnovazione della citazione devono, comunque, essere inequivocamente disposte alla udienza di prima comparizione avendo ad oggetto accertamenti del tutto estranei alla definizione dell’oggetto della lite. Gli adempimenti stabiliti all’art. 181 1° comma (34) devono essere effettuati all’udienza ex art. 180 c.p.c. Scarsa applicazione pratica ha l’art. 171 c.p.c. per la parte relativa alle decadenze in cui incorre il convenuto che si costituisce tardivamente (oltre il termine di cui all’art. 166 c.p.c.) quando l’altra parte si sia tempestivamente costituita. In questo caso alla udienza di prima comparizione non si determina alcuna decadenza in quanto le domande riconvenzionali e la chiamata in causa del terzo sono tardive e la proposizione delle eccezioni processuali e di merito può essere formulata ben oltre tale udienza nel rispetto del termine di cui all’art. 180 2° comma. b) controllo della regolare costituzione delle parti (art. 182 c.p.c.). L’art. 182 1° comma prescrive che il Giudice Istruttore verifichi d’ufficio la regolarità della costituzione delle parti e le inviti, quando occorra, a completare o a mettere in regola gli atti e documenti difettosi. L’ultima parte della disposizione disciplina la sanatoria delle mere “irregolarità” degli atti e dei documenti concernenti la costituzione delle parti. Ne consegue l’ininfluenza sulla validità successiva del procedimento dell’omessa integrazione anche se determinata dalla mancata sollecitazione del giudice. Rimane, invece, ferma la regola stabilita all’art. 162 c.p.c. dell’obbligo di disporre la rinnovazione degli stessi atti affetti da nullità. Il secondo comma dell’art. 182 c.p.c. disciplina invece la sanatoria del difetto di assistenza, rappresentanza ed autorizzazione disponendo che il giudice può assegnare alle parti un termine per eliminare il vizio riscontrato nella esecuzione della verifica preliminare. Dal coordinamento della disposizione in esame con il 1° comma dell’art. 180 c.p.c. che impone al giudice – quando occorra – di adottare i provvedimenti di cui all’art. 182 c.p.c., può desumersi la doverosità del controllo e dell’ordine di integrazione da parte del giudice ogni qual volta accerti il difetto della capacità processuale della parte (35). La rilevanza del controllo, che può essere eseguito per tutto il corso del procedimento non deve sfuggire. La giurisprudenza della Suprema Corte, ancorché anteriore all’innovazione normativa risultante dal nuovo testo dell’art. 180 c.p.c., ha due orientamenti difformi sul difetto di capacità processuale delle parti non sanato dal Giudice Istruttore ex art. l82 c.p.c. capoverso. Il più recente orientamento consente al Collegio anche in secondo grado di esercitare tale verifica e dispone l’acquisizione dell’atto autorizzativo o di conferimento del potere di rappresentanza mancante (Cass. 20-4-94 n. 3775 in Foro It. 1995, I, 1296) anche dopo che la causa è stata posta in deliberazione. Nella pronuncia n. 7682 del 23-6-92 (36) invece si ritiene che il potere del giudice di disporre la rinnovazione degli atti ex art. 182 2° comma è discrezionale e può essere esercitato solo nella fase istruttoria con conseguente inammissibilità dell’appello proposto dal Sindaco in nome e per conto del Comune privo al momento della decisione, dei documenti inerenti la prescritta autorizzazione. Sembra preferibile l’orientamento più recente in quanto coerente con il disposto dell’art. 162 c.p.c. 1° comma e pienamente corrispondente all’intento del legislatore della novella di evitare pronunce di rigetto in rito valorizzando in ogni fase del procedimento il potere di rinnovare gli atti affetti da invalidità. La natura meramente formale della verifica esaminata e la sua incidenza sulla qualità esclusivamente processuale di parte possono far dubitare sulla necessità di fissare una volta disposta la integrazione degli atti una nuova udienza ex art. 180 c.p.c. all’esito della quale fissare al convenuto il termine per proporre le eccezioni processuali e di merito non rilevabili d’ufficio. La verifica dell’integrazione potrebbe infatti validamente effettuarsi alla prima udienza di trattazione in quanto necessariamente preceduta da un’attenta lettura del fascicolo. Questa soluzione non sembra in contrasto con il sistema della fase introduttiva ed inoltre evita una eccessiva dilatazione temporale delle sessioni dedicate ai controlli preliminari. c) controllo della validità degli atti introduttivi (artt. 164-167 c.p.c.) Il controllo del giudice riguarda in primo luogo la fattispecie di nullità dell’atto di citazione contenute nell’art. 164 c.p.c. 1° comma consistenti nella mancanza dei requisiti essenziali della vocatio in ius (indicazione del giudice e dell’attore) nella insufficienza del termine a comparire o nella mancanza dell’avvertimento sulle “temperate” conseguenze della costituzione intempestiva. Seguono quelle relative al contenuto espositivo dell’atto introduttivo (nn. 3-4 art. 164: la determinazione della cosa oggetto della domanda e l’esposizione degli elementi di fatto e di diritto), da estendersi alla domanda riconvenzionale, anch’essa rinnovabile se viziata da nullità, con provvedimento da assumersi in sede di verifiche preliminari. Ci si deve però chiedere se il giudice disponendo la rinnovazione degli atti nulli ex art. 164 c.p.c. deve sempre rifissare l’udienza di prima comparizione ex art. 180 c.p.c. devono essere distinte le diverse evenienze processuali. Le nullità rilevabili per la mancata costituzione del convenuto (art. 164 1° c.) impongono la rifissazione di una udienza ex art. 180 c.p.c. perché la parte raggiunta dalla citazione non ha ricevuto un atto idoneo a farle predisporre difese tempestive. Alla stessa conclusione dovrebbe pervenirsi per l’inosservanza del termine a comparire e per il mancato avvertimento delle conseguenze della costituzione intempestiva. Anche per queste fattispecie il convenuto sia che non si costituisca sia che lo faccia al solo fine di eccepire la nullità non è stato posto nelle condizioni reputate adeguate dalla legge, per potersi validamente costituire. La stessa soluzione andrebbe in conseguenza adottata per il difetto di determinatezza dell’oggetto e degli elementi di fatto e di diritto fondanti la pretesa attorea. Al termine per la rinnovazione della citazione o per la integrazione della domanda, qualora il convenuto si sia costituito, consegue la rifissazione dell’udienza destinata alle verifiche preliminari, non potendosi porre a carico del convenuto un termine di decadenza per la proposizione di eccezioni processuali e di merito senza avere la preventiva conoscenza del rapporto dedotto in giudizio. Si pongono però due interrogativi: la concessione del termine per la rinnovazione degli atti non può precedere quello relativo alla proposizione delle eccezioni processuali e di merito quando il convenuto sia costituito e salva la rilevabilità del vizio non emendato all’udienza ex art. 183 c.p.c. con riapertura per il convenuto del termine per la proposizione delle eccezioni processuali e di merito. La seconda domanda riguarda il caso in cui l’attore integri all’udienza le carenze espositive contenute nei nn. 3-4 art. 163 c.p.c. ed il convenuto sia costituito. In questo caso, valutata positivamente l’integrazione della domanda effettuata dall’attore il giudice dovrebbe poter fissare la prima udienza di trattazione previa concessione al convenuto del termine perentorio per la proposizione delle eccezioni processuali e di merito. Un’ultima riflessione merita l’integrazione della domanda riconvenzionale disposta dal giudice ex art. 164 penultimo comma e art. 167 c.p.c.. Per questa evenienza dovrebbe imporsi il passaggio alla effettiva trattazione della causa con la fissazione del termine di decadenza al convenuto, non potendosi far discendere da un comportamento deliberatamente non diligente la conseguenza dello spostamento in avanti di una decadenza processuale. d) controllo sulla esistenza e validità della notificazione della citazione (art. 291 c.p.c.). L’udienza di prima comparizione è fisiologicamente destinata alla verifica della instaurazione del contraddittorio. Il giudice ex art. 291 1° comma deve provvedere alla rinnovazione della notificazione ex art. 160 c.p.c. se ne riscontra la invalidità. È utile ricordare che la fattispecie di nullità della notificazione indicata nell’art. 160 c.p.c. non sono tassative: il giudice può, pertanto, procedere alla rinnovazione della notificazione non solo se non sono state osservate le disposizioni relative alla persona cui deve essere consegnata la copia o se vi è incertezza assoluta sulla persona a cui la notificazione viene fatta o sulla data (ex art. 160 c.p.c.) ma si estendono anche alla mancata individuazione della persona che ha richiesto la notificazione quando non sia in alcun modo possibile dall’atto processuale desumere le generalità del richiedente ed, infine, all’incompetenza dell’ufficiale giudiziario che ha provveduto alla notifica. Il potere di rinnovazione non si estende alla notificazione inesistente. La definizione, di origine non normativa, deve essere intesa in senso restrittivo al fine di consentire un largo uso del potere di rinnovazione attribuito al giudice dall’art. 291 c.p.c. Secondo la più recente qualificazione giuridica, fornita dalla Suprema Corte, la inesistenza giuridica della notificazione ricorre quando questa manchi del tutto o sia diretto a destinatario del tutto diverso da quello risultante dalla citazione o sia effettuata in modo assolutamente non previsto dal codice di rito (Cass. 11-4-91 n. 3819). Devono, pertanto, essere ritenute inesistenti solo quelle notifiche cui non può in alcun modo conseguire la costituzione del convenuto, non risultando fenomenicamente possibile che tale parte sia venuta, per effetto della eseguita notifica a conoscenza dell’atto. e) controllo sulle eventuali intervenute decadenze (art. 167 c.p.c.). Ci si riferisce in particolare alla domanda riconvenzionale e alla chiamata di terzo tardiva da parte del convenuto. Il giudice deve far rilevare le decadenze fin dall’udienza ex art. 180 c.p.c. in modo che le parti siano effettivamente messe nella condizione di incentrare le loro deduzioni difensive sulle domande ed eccezioni formanti oggetto dell’accertamento giudiziale di merito. Deve essere esclusa in particolare ogni efficacia sanante alla c.d. accettazione tacita della controparte non essendo più ammissibile riconoscere effetti giuridicamente rilevanti al comportamento meramente inerte della parte e far discendere, come era principio consolidato nel sistema previgente, l’estensione del petitum dalla disattenzione del difensore. Le decadenze, come per il processo del lavoro, sono prefissate a tutela dell’interesse di rilievo pubblicistico della razionalità e rapidità del procedimento e sono conseguentemente del tutto sottratte alla disponibilità delle parti (37). La rilevabilità tempestiva delle decadenze costituisce una attività doverosa e particolarmente utile del giudice anche nelle fasi processuali successive, in modo da non gravare l’oggetto della deliberazione finale di questioni estranee alla res iudicanda. f) l’art. 181 1° comma: la mancata comparizione delle parti in prima udienza. Il testo dell’art. 181 c.p.c., risultante dalla l. 534/95 di conversione del d.l. 18-10-95 n. 432 dispone che se nessuna delle parti compare alla prima udienza, il giudice fissa un’udienza successiva, di cui il cancelliere dà comunicazione alle parti costituite. La “prima udienza” indicata nella disposizione non può che coincidere con quella disciplinata dall’art. 180 c.p.c. in quanto destinato al primo (in senso temporale oltre che tecnico giuridico) confronto tra le parti. Il rinvio va disposto senza la concessione del termine previsto dal secondo comma dell’art. 180 c.p.c., perché l’oggetto del provvedimento del giudice è il differimento integrale della udienza di prima comparizione, in quanto non effettuata per la mancata comparizione delle parti. 3. Verifiche solo eventualmente realizzabili all’udienza ex art. 180. a) controllo della completezza del contraddittorio (art. 102 c.p.c.). È stato già osservato che la necessità di integrare il contraddittorio può più frequentemente sorgere all’esito dell’interrogatorio libero delle parti od attraverso una più puntuale qualificazione giuridica del rapporto dedotto in giudizio (38). Non mancano però fattispecie di litisconsorzio necessario in cui è immediatamente riconoscibile dalla natura stessa della controversia la pluralità di parti. Si pensi ai giudizi di opposizione all’esecuzione, nei quali è parte necessaria il debitore esecutato (ed in quelli avverso il piano di riparto tutti i creditori pignoranti od intervenuti), nelle azioni costitutive tendenti al mutamento di uno stato o rapporto giuridico destinato ad operare nei confronti di più soggetti. L’anticipazione dell’ordine di rinnovazione del contraddittorio deve essere realizzata dal giudice ogni qual volta sia possibile in modo da evitare che all’udienza ex art. 183 c.p.c. possa verificarsi un regresso ad una fase processuale già esaurita con rimessione in termini ex art. 184 bis per le decadenze già verificatesi e una eccessiva dilatazione temporale della fase introduttiva (39). b) sospensione del procedimento ex art. 295 c.p.c.. Analoghe considerazioni valgono per la decisione relativa alla sospensione necessaria della causa ex art. 295 c.p.c.. Le fattispecie più frequenti riguardano la proposizione di una domanda riconvenzionale eccedente la competenza per valore del giudice della causa principale, nella opposizione a decreto ingiuntivo. L’orientamento della Corte di Cassazione a sezioni unite, (sent. n. 10984 del 1992 in Giust. civ., 1992, I, 2333) sul rilievo che la competenza del giudice dell’opposizione è funzionale prescrive che la domanda riconvenzionale sia separata da quella principale salva la possibilità di sospendere quest’ultimo giudizio se l’oggetto della riconvenzionale è pregiudiziale rispetto alla cognizione dell’opposizione a decreto ingiuntivo. Il provvedimento di sospensione va assunto all’udienza ex art. 180 c.p.c., in quanto la proposizione di domande riconvenzionali sia che provengano dall’opponente (convenuto in senso sostanziale) sia che provengano dall’opposto (attore in senso sostanziale) devono essere fissate a pena di decadenza negli atti introduttivi accompagnati da costituzione tempestiva. Per l’opponente la decadenza discende dal divieto di proporre domande nuove nel corso del giudizio (salva la “reconventio reconventionis”, ex art. 183 c.p.c. 4° comma), per l’opposto dall’art. 167 c.p.c. Le parti ai fini dell’esercizio di facoltà processuali in senso stretto sono qualificate secondo la veste che formalmente assumono nel giudizio. Per le altre fattispecie di sospensione conseguenti alla pendenza di una controversia legata da nesso di pregiudizialità, il provvedimento, di natura doveroso non è soggetto a limiti temporali, ma la necessità di sospendere va accertata con particolare rigore salvi i casi in cui non sia prevista dalla legge (art. 75 c.p.p.; questioni di stato; querela di falso). c) riunione di procedimenti. Occorre in primo luogo distinguere la riunione di procedimenti pendenti davanti lo stesso giudice da quelli pendenti davanti a giudici diversi. Per i primi la richiesta di parte non è assoggettata a limiti temporali di proposizione (arg. a contrario art. 40 2° comma e 274 c.p.c.). Quando i procedimenti pendono davanti a giudici diversi dovrebbe trovare applicazione il termine di decadenza stabilito dall’art. 40 2° comma. La perplessità interpretativa sorge dal dubbio che lo spostamento temporale sia limitato alla fattispecie di connessione che determinano lo spostamento di competenza ex lege e l’accertamento della connessione con sentenza di incompetenza (art. 40 comma 1). Deve, pertanto, essere rilevata entro la prima udienza di trattazione, la connessione dovuta alla necessità di procedere ad accertamenti incidentali (art. 34 c.p.c.) alla cognizione di domande riconvenzionali (art. 35 c.p.c.) o di eccezioni di compensazione (art. 36 c.p.c.). Danno invece luogo ad un mero provvedimento ordinatorio di riunione i motivi di connessione specificati nell’art. 103 c.p.c.. La trasmissione ex lege del fascicolo al Dirigente dell’ufficio ex art. 274 c.p.c., deve però precedere la fase di trattazione e i provvedimenti contenenti le deliberazioni di carattere organizzatorio precedere ogni altra valutazione, salvo che l’esigenza sorga all’udienza ex art. 183 c.p.c. e sia ancora possibile procedere alla riunione perché le cause si trovano nella stessa fase processuale. La litispendenza e la continenza sono le fattispecie di incompetenza per le quali non e fissato dall’art. 38 c.p.c. un termine di decadenza per la loro rilevabilità, né lo sbarramento temporale può dedursi dal citato art. 40 c.p.c.. È comunque opportuno assumere nella fase preliminare od introduttiva dei procedimento i provvedimenti ex art. 39 c.p.c. in quanto l’attività processuale svolta nella causa “contenuta” o in quella successivamente instaurata per la litispendenza diventa “inutileter data” con la declaratoria di incompetenza. Cap. III. Gli incombenti dell’istruttore nell’udienza ex art. 180 c.p.c. diversi dalle verifiche preliminari. 1. Provvedimenti doverosi: termine al convenuto e fissazione della prima udienza di trattazione: sono atti del procedimento del tutto inevitabili? L’esame si sposta sul secondo comma dell’art. 180 c.p.c. introduttivo delle più rilevanti modifiche al sistema originario delle decadenze ed alla configurazione normativa della fase introduttiva del giudizio. La disposizione si apre con la concessione alle parti della facoltà di chiedere un termine per memorie qualora l’esigenza sorga dalla lettura degli atti difensivi iniziali. Il giudice ha il potere discrezionale di autorizzare o negare l’esercizio di tale facoltà. La medesima previsione era contenuta nella prima parte del primo comma dell’art. 180 c.p.c. previgente ed aveva la finalità di temperare il principio dell’oralità della trattazione solamente enunciato già dal legislatore del 1940. Il “temperamento’’ ha funzionato ben oltre le previsioni iniziali trasformando l’udienza di prima comparizione in un’udienza destinata quasi esclusivamente a concedere un rinvio per esame della costituzione del convenuto. Nell’attuale contesto normativo la previsione di un termine per lo scambio di memorie all’inizio del procedimento non può incidere sulla sequenza obbligata delle udienze destinate alla fase introduttiva scandita degli art. 180 e 185 c.p.c.. Se il giudice non deve disporre la rinnovazione o l’integrazione di atti, l’udienza di prima comparizione deve concludersi “in ogni caso” con la fissazione dell’udienza di trattazione e non con un provvedimento avente ad oggetto il prolungamento degli scambi e dei controlli preliminari. La obbligatorietà del passaggio all’udienza ex art. 183 c.p.c. o nei limitati casi in cui è possibile, a fasi processuali successive, deriva sia dall’aggancio temporale con il termine di decadenza per le eccezioni non rilevabili d’ufficio, sia dalla finalità pubblicistica di accelerazione dei tempi del procedimento posta a base della novella. Il provvedimento del giudice all’esito dell’udienza ex art. 180 c.p.c., qualora sia stata accolta la richiesta di una o di entrambe le parti di depositare memorie deve essere formulato in modo da indicare in primo luogo il termine per la proposizione delle eccezioni non rilevabili d’ufficio, ed a scalare, tenendo conto del principio del contraddittorio, l’altro termine ex art. 170 c.p.c. L’uso della facoltà processuale esaminata deve essere moderato perché alla prima udienza di trattazione è largamente prevista la possibilità per le parti di dedurre e scambiarsi memorie senza peraltro alcun potere limitativo del giudice. La disposizione che crea maggiori difficoltà interpretative rimane però quella che stabilisce il differimento temporale della decadenza riguardante la proposizione delle eccezioni non rilevabili d’ufficio. Il legislatore ha previsto che “in ogni caso (il giudice N.d.S.) fissa a data successiva la prima udienza di trattazione, assegnando al convenuto un termine perentorio non inferiore a venti giorni prima di tale udienza per proporre le eccezioni processuali e di merito non rilevabili d’ufficio”. Il primo quesito riguarda l’applicabilità del termine al convenuto contumace. Al riguardo sono state prospettate due soluzioni. La risposta negativa riconosce al termine in oggetto una funzione esclusivamente difensiva e pertanto ne assoggetta la concreta applicabilità all’istanza di parte, equiparandone il regime giuridico alle altre fattispecie in cui una facoltà processuale viene sottoposta con provvedimento del giudice ad una definitiva limitazione temporale (cfr. art. 244 c.p.c. ultimo comma per le deduzioni istruttorie) (40). La locuzione “in ogni caso” che apre la disposizione relativa alla concessione del termine in oggetto andrebbe interpretata nel senso di “quando al convenuto non lo si può rifiutare”. La risposta positiva poggia su più salde basi normative e sistematiche. La disposizione in esame introduce, in via generale, un nuovo regime giuridico delle decadenze cui è assoggettata la parte convenuta. La conferma testuale proviene dall’art. 167 c.p.c. 2° comma, emendato della parte relativa alla proposizione delle eccezioni processuali e di merito ed incontestatamente applicabile per le decadenze rimaste ancorate alla costituzione “ante causam” anche al convenuto contumace all’udienza di prima comparizione. La soluzione opposta postula invece un regime di decadenze temporalmente diverso per il convenuto tempestivamente costituito ex art. 167 c.p.c. e per quello che non versi in tale condizione processuale. Per il primo le decadenze relative alle eccezioni non rilevabili d’ufficio scatterebbero nel termine di cui all’art. 180 c.p.c. 2° comma, per il secondo sarebbero tutte anticipate al termine di venti giorni prima dell’udienza di prima comparizione. La conclusione è però priva di sostegno normativo proprio perché l’art. 167 c.p.c. secondo comma prescrive solo per le domande riconvenzionali la proponibilità a pena di decadenza nel termine indicato nell’art. 166 c.p.c. La fissazione del termine ex art. 180 2° comma c.p.c. vale, pertanto, anche per il convenuto non costituito all’udienza di prima comparizione, anche se il provvedimento che lo determina non deve venire comunicato a tale parte sia che venga reso in udienza sia che sia contenuto in un provvedimento riservato. L’art. 176 2° comma, coordinato con l’art. 292 1° comma (41) regola la prima ipotesi. La seconda deriva dall’applicazione dell’art. 176 2° comma e 170 1° comma, ai sensi dei quali i provvedimenti emessi fuori udienza vanno comunicati alle sole parti costituite salvo che abbiano ad oggetto l’ammissione dell’interrogatorio formale ed il giuramento decisorio del contumace per cui trova applicazione l’art. 292 1° comma c.p.c. Rimane da esaminare il problema della rinunciabilità del termine da parte del convenuto costituito e la possibilità di non fissare la prima udienza di trattazione quando la causa è già matura per la decisione. I due profili sono direttamente collegati perché la mancata indicazione temporale del termine per proporre le eccezioni non rilevabili d’ufficio su richiesta della parte convenuta è logicamente prodromica alla omissione dell’udienza ex art. 183 c.p.c. L’esame testuale della disposizione sembra escludere la legittimità del “salto” dalle verifiche preliminari alla precisazione delle conclusioni omettendo di dedicare un’udienza alla trattazione della causa e di concedere il termine decadenziale ancorato a tale udienza. Residua un limitato margine di elusione dell’imperativo normativo “in ogni caso”. Si tratta del caso in cui la causa venga ritenuta dalle parti e dal giudice matura per la decisione. È insufficiente il mero consenso comune delle prime o la sola valutazione discrezionale del secondo perché da un lato al giudice non può venire sottratto il potere-dovere di rilievo pubblicistico di direzione del procedimento; dall’altro, la disposizione esclude l’esistenza di un potere discrezionale del giudice, imponendogli al contrario “in ogni caso” e non quando lo ritenga necessario od opportuno, la prefissione del termine. La corretta interpretazione della locuzione sembra pertanto “in ogni caso in cui le parti non sono d’accordo sul contrario ed il giudice non consenta” (42). Deve essere infatti sottolineato che l’art. 80 bis disp. att. non è stato abrogato e pertanto è astrattamente possibile ritenere la causa matura per la decisione e rinviare esclusivamente per quest’incombente (43). Il potere discrezionale del giudice di direzione dell’udienza incontra il limite della rigida demarcazione delle udienze fissata dal legislatore. Il problema si può riproporre quando le parti, entrambe costituite (44) chiedono già all’udienza ex art. 180 c.p.c. un provvedimento ammissivo di prove orali, ritenendo superflua non solo la concessione del termine per la proposizione delle eccezioni non rilevabili d’ufficio ma anche l’interrogatorio libero delle parti. Questa evenienza è di più difficile soluzione rispetto a quella sopra esaminata della causa di puro diritto. Quando la soluzione richiede lo svolgimento di attività istruttoria non sembra consentita l’omissione della prima udienza di trattazione. Va osservato infatti che la esatta definizione del thema decidendi integrata delle questioni (condizioni dell’azione ed eccezioni) rilevabili d’ufficio suggerite dal giudice sia obbligatoriamente prodromica alla fase istruttoria vera e propria. Il sistema normativo è incentrato sulla conseguenzialità delle due fasi al fine di pervenire ad un completo accertamento del merito (45). La obbligatorietà tendenziale dell’udienza ex art. 183 c.p.c. deriva anche dal maturarsi di talune decadenze (artt. 38-40 c.p.c.) in tale udienza. C’è da chiedersi come incide il mancato espletamento della prima udienza di trattazione sul regime giuridico di tali decadenze. Se la mancata fissazione dell’udienza ex art. 183 c.p.c. è dipesa esclusivamente dal giudice dovrebbe essere consentito alle parti di sollevare le eccezioni di incompetenza alla prima sessione temporale e processuale in cui ciò sia possibile, e cioè all’udienza successiva a quella di prima comparizione preliminarmente allo svolgimento degli incombenti prescritti dal provvedimento di rinvio. Più difficile è applicare la stessa soluzione quando la udienza ex art. 183 c.p.c. sia stata omessa con il consenso delle parti. In questa evenienza il rilievo officioso e di parte delle questioni di competenza deve ritenersi del tutto precluso. Ad una soluzione analoga si può pervenire per la evenienza che il giudice fissi l’udienza ex art. 183 c.p.c. ma ometta di concedere al convenuto (che non vi ha rinunciato se costituito o quando sia contumace) il termine perentorio per la proposizione delle eccezioni non rilevabili d’ufficio. Può trovare applicazione in questo caso la regola generale in materia di termini perentori secondo la quale l’omessa pronuncia del giudice fa scattare il termine di legge. Conseguentemente entro il ventesimo giorno anteriore alla fissata prima udienza di trattazione devono essere proposte le eccezioni di parte. Lo stesso principio è direttamente statuito dall’art. 669 octies in materia di riassunzione del giudizio di merito all’esito della fase cautelare. Il legislatore indica espressamente che in caso di omessa indicazione del termine nel provvedimento del giudice il processo va riassunto nei trenta giorni. 2. Provvedimenti condizionati dalle istanze delle parti. a) provvisoria esecuzione e sospensione della esecutorietà del decreto ingiuntivo (art. 648-649 c.p.c.). b) ordinanze anticipatorie ex art. 186 bis, ter, quater. Poiché l’udienza di prima comparizione è destinata esclusivamente all’esecuzione dei controlli formali sul contraddittorio e la costituzione delle parti rientranti nelle c.d. verifiche preliminari (46) ci si è chiesti se fosse possibile alle parti formulare richieste di provvedimenti anticipatori richiedenti, tendenzialmente, la delimitazione del thema decidendi ad un udienza non destinata normativamente a tale incombente. In particolare devono essere esaminati la richiesta di provvisoria esecuzione del decreto ingiuntivo, la richiesta di sospensione della provvisoria esecuzione del decreto che ne sia munito, le ordinanze di condanna anticipata disciplinate dagli artt. 186 bis, ter, quater. La richiesta di provvisoria esecuzione del decreto ingiuntivo è disciplinata dall’art. 648 c.p.c. senza alcuna previsione temporale relativa alla adottabilità da parte del Giudice Istruttore del provvedimento di accoglimento o di rigetto. Sul piano testuale nessun ostacolo normativo proveniente dall’art. 648 c.p.c. si frappone alla decisione sull’istanza alla prima udienza di comparizione. L’opponente, da considerarsi attore, al fine di applicare il regime di decadenze appropriato, (47) se vuole evitare l’accoglimento della più probabile richiesta di provvisoria esecuzione deve anticipare alla data di costituzione (e formazione del fascicolo) od al massimo alla udienza di prima comparizione, la devoluzione in giudizio di prove documentali oppositive al diritto di credito vantato dall’opposto. La previsione di un termine di decadenza successivo per la indicazione dei mezzi di prova, disciplinato nell’art. 184 ed articolabile in più di una sessione processuale è applicabile esclusivamente al procedimento a cognizione piena, ed ha lo scopo di consentire alle parti di procedere gradatamente ma non discrezionalmente alla definizione del thema decidendi e del thema probandi, relativi al giudizio di merito. Nulla però vieta alla parte di scoprire preventivamente le proprie carte ed anzi tale comportamento processuale costituisce un vero e proprio onere quando nel giudizio ordinario si innesta una richiesta di condanna anticipata quale quella contenuta nell’art. 648 c.p.c. Ne consegue la necessità di porre l’opponente nella condizione di difendersi validamente sull’istanza ex art. 648 c.p.c. quando l’opposto – convenuto in senso formale – si costituisce direttamente alla udienza di prima comparizione e chiede la provvisoria esecuzione del decreto. La concessione di un termine a difesa non significa, però, differire l’esame dell’istanza all’esito dell’interrogatorio libero delle parti, ma esclusivamente garantire il contraddittorio effettivo anche nel sub-procedimento incidentale destinato agli incombenti di cui all’art. 648 c.p.c.. La conclusione è rafforzata dalla “specialità” del sub-procedimento in oggetto, ritenuto secondo l’orientamento maggioritario in dottrina e nella giurisprudenza di legittimità (48) una prosecuzione della fase monitoria (49) e non un “incidente” dell’ordinario giudizio di merito. Senza prendere posizione sul delicato problema della qualificazione giuridica della provvisoria esecuzione ex art. 648 c.p.c. deve rilevarsi che la reiterabilità dell’istanza (50) all’esito di un provvedimento di rigetto, ormai divenuta “ius receptum” costituisce un ulteriore argomento a sostegno della soluzione affermativa. La risposta negativa si fonda in particolare sulla autonomia della deliberazione relativa alla provvisoria esecuzione rispetto alla fase monitoria; sulla “piena cognizione” del Giudice Istruttore fin dall’instaurazione del giudizio di merito, sulla natura anticipatoria ma non cautelare del provvedimento (analogamente allo stesso provvedimento monitorio) ed alla conseguente ineludibile necessità di avere prima di decidere una tendenzialmente completa prospettazione del thema decidendum, soprattutto con riferimento ai parametri di valutazione richiesti dall’art. 648 c.p.c., non sicuramente individuabili in forma completa alla prima udienza di comparizione. Si tratta in verità di considerazioni pratiche di indubbio rilievo ma prive di sostegno normativo. La tendenziale minore efficacia dell’interrogatorio libero all’esito di un provvedimento di accoglimento della provvisoria esecuzione, non può costituire elemento discriminante l’inammissibilità della richiesta. La norma prevede che l’ingiungente la formuli senza limiti temporali dilatori e sulla base degli elementi di fatto e di diritto a sostegno del credito desumibili dalla fase speciale, senza prevedere condizioni diverse da quelle relative al sostegno probatorio dell’opposizione. Il profilo qualificante della deliberazione è l’avvenuta instaurazione del contraddittorio, non anche la trattazione della stessa. La intervenuta trattazione costituisce una eventualità procedimentale seguente alla reiterazione dell’istanza all’esito di rigetto o alla scelta dell’opposto di differirne l’adozione ad una fase del procedimento più avanzata. La soluzione indicata è senz’altro applicabile al provvedimento ex art. 649 c.p.c., dove le ragioni di tutela cautelare sono incontroverse. Per quanto riguarda i provvedimenti anticipatori ex art. 186 bis e ter la soluzione dell’interrogativo è notevolmente più problematica perché non si tratta di provvedimenti legati ad una fase di accertamento, ancorché sommario, del diritto già avvenuta ante causam. Si tratta di sub-procedimenti incidentali inseriti nel giudizio di merito e tendenzialmente generati dall’evoluziorie della cognizione piena in corso di procedimento. La incidenza statistica di tali richieste in sede di udienza di prima comparizione dovrebbe essere modesta. Per l’art. 186 bis la sussistenza fin dagli atti introduttivi del giudizio dei requisiti di ammissibilità della tutela monitoria dovrebbe spingere la parte ad azionare il procedimento speciale. Per l’art. 184 ter il requisito della “non contestazione” è destinato ad emergere nella maggior parte dei casi dopo l’interrogatorio libero od addirittura dopo la formazione delle prove costituite. Deve però obiettarsi sul piano testuale la assenza di una preclusione temporale iniziale, essendo ravvisabile in entrambe le disposizioni solo la fissazione del termine finale di esercizio del diritto (la precisazione delle conclusioni) (51). L’ostacolo normativo proviene in realtà dall’art. 180 2° comma che prevede per il convenuto la possibilità di proporre le eccezioni processuali e di merito oltre la conclusione dell’udienza dedicata ai preliminari. A differenza dell’art. 648 c.p.c., nessun particolare onere di diligenza probatoria può essere posta a carico della parte contro la quale è diretta l’istanza. Il godimento del termine di differimento delle decadenze per le eccezioni di parte nonché delle altre limitazioni temporali graduali relative alla definizione del “thema decidendi” e “probandi” non incontra ostacoli dalla proposizione di istanze ex art. 186 bis e ter. Tali istanze dovrebbero essere ritenute inammissibili all’udienza ex art. 180 c.p.c. quando la parte contro cui sono dirette intende esercitare validamente il proprio diritto di distribuire il proprio onere difensivo secondo la scansione di legge. Un’applicazione residuale potrebbe essere ravvisata quando le parti chiedono entrambe di passare direttamente alla fase deliberativa, ed una di esse formula istanza ex art. 186 bis o ter. In tutte le altre controversie in cui le parti od il giudice nonostante il diverso iniziale avviso delle parti, decidono di procedere secondo l’ordine temporale delle fasi processuali volute dalla legge, non può farsi discendere alcuna conseguenza probatoria – quale la non contestazione o la sussistenza dei requisiti per l’ingiunzione – dall’incompleta difesa di una parte dovuta alla facoltà processuale di differirne la devoluzione in giudizio ex lege. Nemmeno l’instaurazione del contraddittorio sull’istanza, realizzata con la concessione di un termine per memorie, avente ad oggetto la contestazione della fondatezza delle richieste, può dirsi legittimo perché costituirebbe la violazione del sistema di graduazione temporale dell’attività processuale. La conclusione negativa può essere applicata all’art. 186 quater, salva la applicazione residuale sopra evidenziata. (1) Con la legge di conversione 20-12-95 n. 534 (in G.U. - serie generale - n. 256 del 20-12-95. Il testo coordinato del d.l. 18-1-95 n. 432 con la legge di conversione è in G.U. 28-12-95 n. 302, serie generale, p. 40. L’art. 4 del d.l. riporta le modifiche all’art. 180 c.p.c. in esame. In appendice alla relazione - sub A). (2) Le critiche sulla inutilità e non opportunità normativa in oggetto sono state indicate in modo accurato e completo nei numerosi commenti già apparsi nelle riviste. Per una disamina più approfondita cfr. nota a margine - Pretura Monza ord. 29-9-95 in Foro It., 1995, p. 3298. Si è in particolare criticato la inelasticità della dicotomia tra le due udienze e la difficoltà di far rientrare talune attività processuali nelle verifiche preliminari (udienza ex art. 180 c.p.c.) o nelle questioni attinenti alla definizione del thema decidendum. (3) Cfr. da ultimo la abrogazione del novellato art. 181 c.p.c. per effetto della citata legge di conversione (nota 1) e la reintroduzione del regime anteriore al 1-1-93 in ordine alla mancata comparizione delle parti in prima udienza ed in quelle successive. La sorte della disposizione contenuta nell’art. 181 esemplificativa delle divergenti pressioni subite dal legislatore della novella ad una iniziale applicazione del regime di cancellazione della causa dal ruolo alla prima udienza in cui non comparivano le parti alle sole cause pendenti dopo il 1-1-93 (ex l. 26-11-90 n. 353 così come modificata dalla l. 14-12-92 n. 477). Si è pervenuti ad una estensione della nuova regola anche alle cause pendenti (ex d.l. 121/95) ed ora, invece è definitivamente applicabile la disciplina vigente prima dell’entrata in vigore della legge n. 353/90. (4) A parte il “corpus” omogeneo relativo al procedimento cautelare uniforme (art. 669 bis e ss.) le altre disposizioni della l. 26-11-90 n. 353 sono entrate in vigore in tempi differenziati e con estensione applicativa distinta nel tempo. Per esempio: le controversie pendenti al 1-1-93 erano integralmente assoggettate al rito antevigente. Con il d.l. n. 121 del 20-4-95 sono state ritenute applicabili a tali controversie le disposizioni della novella in precedenza vigenti solo per le cause instaurate dopo il 1-1-93 (si tratta in particolare delle disposizioni nuove in materia di rito nei procedimenti connessi - ordinanze anticipatorie di condanna - cancellazione cause dal ruolo, provvisoria esecuzione sent. 1° grado). Questo parziale “collage” normativo ha subito applicazioni caotiche e casuali proprio perché estratto da un contesto coerente ed inserito in un insieme eterogeneo. Ancora più bizzarra la sorte delle cause instaurate dopo il d.l. 20-4-95 n. 121 le quali dopo l’entrata in vigore del d.l. 9-8-95 n. 347 sono state assoggettate ad un regime giuridico “virtuale” per oltre tre mesi diverso sotto il profilo della individuazione del giudice competente e delle decadenze processuali, diverso dall’attuale vigente. (5) Per i procedimenti di convalida il tentativo di rendere organica e distinta la fase sommaria da quella a cognizione piena ha trovato un riscontro normativo positivo nell’art. 660 così come novellato dalla l. di conversione (in Appendice vedi sub B). (ó) La felicissima scelta terminologica è di B. CAPPONI: “Prima udienza di comparizione e prima udienza di trattazione. Preclusioni di merito e preclusioni istruttorie”. Relazione tenuta all’incontro di studi sul tema, Frascati 27/29-11-95. (7) Mi riferisco a quelli qui più diffusamente esposti nel cap. II sub. 1 - sub. 2. (8) Per la individuazione degl’incombenti rinvio al cap. IV. (9) Ovvero la proposizione delle eccezioni processuali e di merito per le quali il convenuto ha un termine non inferiore a venti giorni prima della udienza ex art. 183 c.p.c. (cfr. ex 180 2° comma c.p.c.). (10) La locuzione viene usata con riferimento alla prima udienza di comparizione: argomentando dall’art. 180 2° comma che riferisce l’espressione “in ogni caso” alla fissazione della prima udienza di trattazione, richiedendo, pertanto, lo svolgimento di entrambe le udienze. (11) cfr.: CAPPONI, in op. ult. cit. p. 16. (12) Es: interrogatorio libero. (13) Il rilievo con riferimento ad esperienze di ordinamenti diversi è di CAPPONI in op. ult. cit., p. 16 e ss. ove è sottolineato che nel tempo in cui il convenuto nel ns. ordinamento può validamente costituirsi, in altri ordinamenti viene decisa la causa. (14) Per questo modo di computare il termine cfr.: BALENA op cit. pag. 138 contra Cass. 7-488 n. 2739 in Giust. Civ. 1988 I, 2752 nel senso che il dies a quo è quello della costituzione e non quella dell’udienza. (15) Originario o divenuto tale ex art. 107 c.p.c. “iussu iudicis”. (16) Sulla perentorietà del termine anche nel regime antevigente cfr. fra le tante: (Cass. 19.10.76 n. 3617). (17) La insindacabilità è sempre stata sottolineata dalla Suprema Corte cfr. fra le tante Cass. 219-79 n. 4867 e 23-1-78 n. 4292. Sulla necessità della preventiva delibazione sulla connessione cfr. Cass. 13-4-87 n. 3667 e 9-5-90 n. 3806. (18) BALENA in: “La Riforma del processo di cognizione”, Napoli, 1995 pag. 244; LUISO in: “La riforma del processo civile”, Milano, 1991, p. 163 ss; TARZIA: “Lineamenti del nuovo processo di cognizione”, Milano, 1991 p. 100; COSTANTINO in: “Provvedimenti urgenti per il processo civile” (Commentario a cura di Cipriani e Tarzia), in Nuove leggi civili commentate, 1992, p. 77; BUCCI, CRESCENZI, MALPICA: “Manuale pratico della riforma del processo civile”, Padova, 1991, p. 115; DI NANNI: “Codice di procedura civile”, Legge 26-11-90 n. 353, Torino, 1991, p. 128 n. 3.2. (19) L’osservazione finale è di BALENA, op, ult, cit. p. 244, il quale sottolinea che l’intervento coatto a cura del convenuto per la prima udienza consente un più rapido superamento della fase c.d. preliminare. (20) Vedi per tutti: G. OBERTO in “La riforma del processo civile”, Roma, 1994, vol. I, pag. 260 ss.. (21) Per l’attore che intenda chiamare in causa un terzo la “prima udienza” è quella di trattazione come risulta dall’art. 183 penultimo comma. (22) La stessa riflessione con riferimento agli altri provvedimenti conseguenti alle verifiche preliminari che hanno ad oggetto rinnovazione di atti, in B. CAPPONI loc. ult. cit., p. 25, il quale conclude anche se “amaramente” per la soluzione unitaria. (23) Si pensi al caso in cui si proceda all’interrogatorio libero delle parti originarie nell’udienza destinata limitatamente al terzo chiamato alle verifiche preliminari. (24) Così TARZIA in Lineamenti, cit. p. 81. (25) Questa era la soluzione maggioritaria negli incontri tra Magistrati che si sono susseguiti lungo la interminabile “vacatio legis” della novella, in particolare nell’ambito dell’“Osservatorio della Giustizia Civile” finalizzati alla creazione di prassi comuni per i tribunali dell’Italia settentrionale. (26) La qualificazione giuridica del rapporto dedotto in giudizio, all’esito della prima udienza di trattazione può ad esempio chiarificare la natura trilatera del contratto da esaminare (es.: da cessione credito in cessione contratto). Un’altra esemplificazione può provenire dalle controversie aventi ad oggetto responsabilità civile da circolazione stradale quando venga opposta dalla compagnia assicurativa la esclusione della copertura assicurativa e sia necessario citare il Fondo di Garanzia vittime della Strada, perché esistono danni alle persone, oppure quando risulti che il bene su cui si vanta un diritto è di proprietà comune. (27) Cfr. Pretura Monza ord. 23-9-95 in Foro it., 1995, I, 3296, nel corso della quale viene accolta questa tesi. (28) Così Tribunale Trani ord. 9-10-95 in Foro it., 1995, I, 3295. (29) Es.: ex art. 164 5° comma la costituzione del convenuto sana i vizi della citazione incidenti sulla validità dell’atto introduttivo ex art. 164 1° comma. (30) Cfr. Cass.: 28-11-87 n. 8878. (31) Sent. Cass. su rep. foro it. 9-3-90 n. 1928. (32) PROTO PISANI in “La nuova disciplina del processo Civile”, Napoli, 1991, p. 123. (33) Non risulta applicabile per analogia la disciplina normativa delle nullità stabilita all’art. 162 1° comma in quanto la fattispecie della tardiva costituzione è equiparata quanto agli effetti alla mancata costituzione con conseguente inesistenza dell’atto da sanare. (34) Vedi la nuova formulazione dell’art. 181 c.p.c. per effetto della legge di conversione 2012-95 n. 534 del d.l. 19-10-95 n. 432 che abroga la novella e reintroduce il previgente sistema della necessaria mancata comparizione reiterata per due udienze per poter validamente disporre la cancellazione. (35) Le fattispecie più frequenti riguardano la mancanza della delibera contenente l’autorizzazione a stare in giudizio per i legali rappresentanti degli enti pubblici. Analogo provvedimento autorizzatorio deve essere emesso dal giudice delegato per la legittimazione processuale del curatore o l’omesso deposito della procura generale alle liti. (36) Conforme Cass. 8-6-88 n. 3884. (37) Si porrà fine alle molteplici rimessioni sul ruolo dovute a domande principali o riconvenzionali non istruite perché introdotte caoticamente in corso di causa, magari in una memoria allegata a verbale e non conosciuta dalla controparte. (38) A mero titolo esemplificativo si pensi ai giudizi di divisione ereditaria in cui solo con l’interrogatorio libero possono emergere un numero di eredi superiori a quello formante oggetto del rapporto originario oppure in una causa di rivendica o di accertamento negativo di un diritto altrui, di cui emerge la contitolarità con terzi, non ancora partecipanti al processo, o quando l’oggetto di un giudizio in materia immobiliare riguardi invece una parte comune di un edificio. (39) Per le controversie in cui la pluralità di parti può desumersi da documenti può essere utile disporre l’integrazione documentale necessaria e rinviare ancora per gli adempimenti ex art. 180 c.p.c. ad un’udienza ravvicinata. (40) VERDE in: Il nuovo processo di cognizione: Lezioni su primo grado ed impugnazioni in generale, Napoli, 1995, p. 22-23. (41) L’art. 176 2° comma stabilisce che i provvedimenti resi in udienza si intendono conosciuti dalle parti presenti e da quelle che dovevano comparire. L’art. 292 1° comma stabilisce che si devono portare a conoscenza del contumace solo i provvedimenti ammissivi di interrogatorio formale. (42) Ad analoga conclusione pervengono BALENA in op. ult. cit. p 322 e CAPPONI op. ult. cit. p. 13. (43) L’art. 80 bis disp. att. prescrive che la rimessione al Collegio è possibile anche all’udienza di prima comparizione. Per un’attenta disanima del problema vedi BALENA op. ult. cit. p. 326. (44) Questa è la condizione di partenza per potere valutare l’ammissibilità di “salti” nel procedimento. (45) Rimane da obiettare che in numerose controversie relative alla responsabilità civile per circolazione stradale o nelle clause volte alla mera determinazione di un compenso quando sia incontestato l’“an debeatur” il thema decidendi si esaurisce nella attività istruttoria di quantificazione del danno e, pertanto la prima udienza di trattazione risulta superflua. (46) Sull’individuazione delle quali rinvio ai Cap. I e II della presente relazione. (47) Contra ord. Pretore Monza in Foro It., 1995, I, 3296, però vedi in Cass. Sez. Un. 18-5-94 n. 4837, in Foro It. ’94, I, 1682, la chiara precisazione in motivazione che all’opposto spettano poteri processuali del convenuto. (48) Cfr. Cass. Sez. lavoro 8-2-92 n. 1410 ove è ribadito che il giudizio di opposizione apre una valutazione sulla fondatezza della pretesa, mentre la decisione ex art. 648 c.p.c. si fonda sull’esame dei presupposti del decreto. (49) Con conseguente valutabilità degli elementi di prova per l’opposto esclusivamente della fase sommaria. (50) Cass. 8-12-93 n. 12138. (51) Questo sembra l’orientamento del Tribunale di Milano secondo il resoconto di una riunione tenutasi all’indomani dell’entrata in vigore dell’art. 180 novellato tra i colleghi. I GIUDIZI DI COGNIZIONE ORDINARIA INTRODOTTI CON RICORSO DOPO L’ENTRATA IN VIGORE DELLA NOVELLA, CON RIFERIMENTO AI PROCEDIMENTI DI OPPOSIZIONE ALL’ESECUZIONE (artt. 615, co. 2, 619 c.p.c.) E DI OPPOSIZIONE AGLI ATTI ESECUTIVI: IL RACCORDO TRA LA FASE SOMMARIA E LA FASE DI MERITO Relatore: dott. Raffaele FRASCA pretore della Pretura circondariale di Monza SOMMARIO: 1. Premesse. – 2. Un dato normativo da considerare. – 3. Le norme che disciplinano (o dovrebbero) ancora oggi disciplinare il “raccordo” fra la fase iniziale e quella ordinaria delle opposizioni esecutive. – 4. Le opposizioni esecutive nel sistema della stesura originaria del c.p.c. del 1940. – 5. Il sistema del “raccordo” fra fase introduttiva e fase successiva delle opposizioni esecutive in relazione alla disciplina della fase introduttiva ed iniziale del giudizio di cognizione ordinaria nel codice del 1940. – 6. Le modalità del “raccordo”. – 7. La possibilità di fissazione di un’apposita udienza, anticipata rispetto a quella ex art. 185, per la sola trattazione dell’istanza di sospensione dell’esecuzione e dell’istanza di adozione dei provvedimenti ex art. 618 sul corso dell’esecuzione. – 8. Le opposizioni esecutive dopo la Novella del 1950. – 9. Il problema del “raccordo” fra il sistema dell’introduzione con ricorso delle opposizioni esecutive e la nuova disciplina della fase introduttiva ed iniziale del processo di cognizione dopo le recenti riforme. – 10. La perdurante vigenza degli articoli 184 e 185 disp. att. c.p.c.. – 11. Il “raccordo” nel nuovo rito. – 12. L’udienza che il giudice dell’esecuzione deve fissare nelle opposizioni esecutive. Cenni sul ricorso orale e sull’opposizione ex art. 512 c.p.c. – 13. Il procedimento sull’istanza di sospensione dell’esecuzione e quello sui provvedimenti ex art. 618 come procedimenti cautelari in corso di causa di merito. 1. Premesse. I. – Preliminarmente debbo avvertire che l’espressa limitazione del tema affidatomi alla questione dei giudizi introdotti con ricorso relativi alle opposizioni ex artt. 615, 617 e 669 c.p.c. esclude che io debba esaminare in generale la questione del raccordo fra la nuova disciplina del processo civile (risultante dalla tormentata riforma, della quale si è – per il momento – avuto l'epilogo con la l. n. 534/95, di conversione con modifiche del d.l. n. 432/95) e le altre numerose fattispecie di procedimenti giurisdizionali civili a cognizione piena di primo grado, che si svolgono, almeno a partire da un certo momento, secondo le norme del c.d. rito ordinario, dettate per il procedimento avanti al tribunale e dei quali è, però, prevista l’introduzione con quella particolare forma di proposizione della domanda giudiziale che è il ricorso e no con la citazione (1). Basti qui dire che sembra più apparente che reale una contrapposizione che nella scarsa dottrina che si è occupata della questione si coglie fra chi autorevolmente e radicalmente sostiene che la citazione e non invece il ricorso sarebbe idonea a dar luogo all’introduzione di un giudizio ordinario di cognizione e che nei procedimenti introdotti da ricorso si ponga un problema di cambiamento del rito dopo una prima fase iniziale che sarebbe a cognizione sommaria, sovente non disciplinato quanto a modi, tempo e forme (2) e chi, al contrario ha affermato che in numerosi casi il ricorso sarebbe idoneo ad introdurre quella cognizione, salvo poi ammettere che un problema di passaggio da una fase sommaria alla fase di cognizione ordinaria si pone e meriti di essere affrontato, con la ricerca di soluzioni in termini di cambiamento di rito o similari (3). Il contrasto appare più apparente che reale, perché ciò che l'autorevole dottrina che sostiene la prima prospettazione vuole sottolineare, affermando che il ricorso è inidoneo a dar luogo alla cognizione ordinaria, è, non tanto l’inidoneità del ricorso a costituire l’atto introduttivo di un giudizio che ad un certo momento sfocia nella cognizione ordinaria, quanto che alla domanda con esso proposta deve seguire, perché quella cognizione abbia luogo un qualche provvedimento di adeguamento del rito processuale, della cui necessità non dubita neppure la dottrina che sostiene la seconda delle prospettazioni riferite. In defintiva, l’apparenza del contrasto di cui si è detto si rivela, laddove l'una e l'altra prospettazione concordano nella necessità di individuare, in relazione al singolo procedimento introducibile con ricorso, le modalità con le quali esso si adegua alle regole del processo introdotto con citazione. II. – Detto questo, basti qui ricordare che il problema di coordinamento di cui si discorre si pone per una serie di procedimenti previsti dalla legge fallimentare (ad es. giudizi di opposizione allo stato passivo ex art. 98 r.d. 16 marzo 1942, n. 267, giudizi di impugnazione dei crediti ammessi al passivo fallimentare ex art. 100 r.d. citato, giudizi di insinuazione tardiva di crediti ex art. 101 r.d. citato, giudizi ex artt. 102 e 103 r.d. citato), per il procedimento di separazione e di divorzio (art 706 c.p.c. e 4 comma secondo l. 1 dicembre 1970, n. 898), giudizi ex art. 3 del r.d. 14 aprile 1910, n. 639, giudizi ex art. 11 comma terzo del d.p.r. 30 dicembre 1972, n. 1035 (4). Peraltro, la restrizione dell'indagine al problema del raccordo della fase iniziale delle opposizioni esecutive alla fase che si deve svolgere secondo le ordinarie norme del processo di cognizione non può apparire limitativa ed arbitraria, una volta che si tenga conto della circostanza che il nostro Codice di Procedura Civile, anche dopo l’ultimo e per ora definitivo intervento di cui alla l. n. 534/95, continua a dettare una serie di norme specifiche (pur se non esaustive) con riguardo ad esso. E, se pure, alcune di esse contengono previsioni simili a quelle di altre norme che disciplinano il problema del raccordo per altri tipi di procedimento introdotti con ricorso, tuttavia è innegabile che nel loro complesso conservano una propria specificità, che giustifica una indagine ad hoc. III. – Nell'iniziare tale indagine debbo avvertire che, dopo una certa meditazione, mi è sembrato opportuno accantonare completamente talune conclusioni alle quali, a livello operativo (cioè quale giudice dell'esecuzione, in sede di trattazione di opposizioni all'esecuzione), mi era sembrato possibile giungere. Conclusioni che avevo affermato in alcuni provvedimenti, assunti sia immediatamente a ridosso dell'entrata in vigore (al 30 aprile 1995) della riforma nella stesura originaria di cui alla l. n. 353/90, sia dopo gli interventi di controriforma espressisi nei dd.ll. n. 328, 347 e 432/95 ed ora sedimentatisi nella l. n. 534/95. L'opportunità di prescindere totalmente da quelle conclusioni e di una rimeditazione della questione ex novo mi è stata consigliata, da un lato dall'esigenza di un ulteriore approfondimento imposto dalla natura stessa della funzione cui deve adempiere questa relazione, dall'altro e soprattutto dalla constatazione che gli unici due studiosi che ex professo (almeno per quel che mi consta) l'hanno approfondita ed i cui scritti all'epoca delle scelte interpretative compiute nei miei provvedimenti non conoscevo (5) sono pervenuti (tra l'alto il primo scrivendo in un contesto anteriore ai dd.ll. n. 238, 347 e 432/95) a riscostruzioni della disciplina del “raccordo” molto diverse fra loro. 2. Un dato normativo da considerare. Come punto di partenza dell'indagine mi è sembrato opportuno riflettere su un dato normativo. Esso è rappresentato da una circostanza che emerge immediatamente dalle norme che nella disciplina delle tre tipologie di opposizioni esecutive di cui agli artt. 615, 617 e 619 c.p.c. disciplinano tuttora o dovrebbero disciplinare il problema del raccordo fra la fase di cognizione introdotta dal ricorso e la fase di cognizione successiva da svolgersi secondo il rito previsto per il normale processo di cognizione introdotto dalla citazione. Si tratta della circostanza che tali norme continuano ancora oggi ad essere quelle stesse che il legislatore aveva dettato nella stesura originaria del c.p.c. del 1940. Infatti, queste norme non subirono alcuna modifica a seguito della famosa (o famigerata?) Novella del 1950, di cui alla l. 14 luglio 1950, n. 581, ancorché quella Novella avesse – com'è noto – apportato radicali modificazioni alla discipina introduttiva del processo di cognizione ed alla sua fase iniziale. Dopo la Novella del 1950 e fino alla riforma di cui alla l. n. 353/90 e, quindi, per ben quarantacinque anni quelle norme hanno potuto disciplinare il problema del raccordo, pur collocandosi in un contesto normativo complessivo del tutto diverso e lo hanno fatto senza creare eccessivi problemi interpretativi, come dimostra la scarsa attenzione che dottrina e giurisprudenza hanno mostrato rispetto a quel problema. Basta leggere uno qualsiasi dei classici manuali di diritto processuale civile o dei più moderni commentari e scorrere le migliori rassegne di giurisprudenza, per convincersene. La riflessione in discorso mi ha subito spinto ad interrogarmi sul perché le dette norme abbiano potuto rivelare questa capacità di regolare tutto sommato senza eccessivi problemi il “raccordo” con riguardo a contesti normativi tanto diversi quali quelli esistenti prima e dopo la riforma della Novella del 1950. E, pertanto, mi è sembrato doveroso indagare anzitutto su come avrebbero dovuto funzionare (e forse di fatto funzionarono negli anni dal 1942, in cui il c.p.c. del 1940 entrò in vigore, al 1950: dico di fatto, poiché non v'è giurisprudenza edita sul punto, anche per il fatto che parte di quel periodo si collocò negli anni della seconda Guerra Mondiale) le norme dettate per il raccordo nella logica della stesura originaria del c.p.c. del 1940, per poi capire perché poterono restare insensibili alla Novella del 1950 e, quindi, ricavare dalla loro vicenda ormai più che cinquantennale spunti ricostruttivi per il presente. Le considerazioni che seguono si dipaneranno appunto seguendo la falsariga di questo iter di indagine. 3. Le norme che disciplinano (o dovrebbero) ancora oggi disciplinare il “raccordo” fra la fase iniziale e quella ordinaria delle opposizioni esecutive. L'inventario delle norme che ancora oggi il c.p.c. contiene, le quali hanno rilievo diretto od indiretto, in funzione del “raccordo” fra la fase iniziale e quella successiva secondo le regole della cognizione ordinaria delle opposizioni esecutive consta di alcune norme contenute direttamente nel Codice e di altre contenute nelle sue disposizioni di attuazione. Per tutti e tre i tipi di opposizione esecutiva relativi ad esecuzione già iniziata è previsto che l’introduzione avvenga con ricorso al giudice dell'esecuzione, a seguito del quale si provvede con decreto alla fissazione di un'udienza di comparizione, cui deve seguire la notificazione di entrambi gli atti alla controparte entro un termine espressamente definito perentorio. Per le opposizioni all'esecuzione ex secondo comma dell'art. 615 e per l'opposizione di terzo ex art. 619 c.p.c. è previsto che successivamente il giudice dell'esecuzione proceda all'istruzione “a norma degli articoli 175 e seguenti”, se sussiste la sua competenza, mentre, nel caso in cui tale competenza non sussista e sia competente altro giudice (sia il secondo comma dell'art. 615 che il secondo comma dell'art. 619 fanno riferimento alla sola competenza per valore, ma è pacifico che si potrà trattare anche di competenza per materia) ha luogo la rimessione avanti a questo con la fissazione di un termine sempre qualificato come perentorio per la riassunzione e, quindi, con traslatio iudicii (6). Per l'opposizione ex secondo comma dell'art. 615 c.p.c. e per l'opposizione di terzo è previsto che prima della delibazione della questione di competenza e dei provvedimenti conseguenti, nell'uno o nell'altro dei sensi appena indicati, il giudice dell'esecuzione possa provvedere sull'istanza di sospensone dell'esecuzione, in ordine alla quale va segnalato fin d'ora che risulta dettato uno specifico (e forse compiuto) complesso normativo procedimentale, quello degli artt. 624 e 625 c.p.c., che ha chiaramente (come si desume dall'inciso d'esordio dell'art. 624 “se è proposta opposizione all'esecuzione a norma degli articoli 615 secondo comma e 619”) posizione endoprocessuale rispetto allo svolgimento della fase delle opposizioni in discorso anteriore alla delibazione della questione di competenza. Per l’opposizione agli atti esecutivi, per la quale a stare alla lettera della legge non è ammessa la sospensione dell'esecuzione (7), l'art. 618 c.p.c. prevede che nello stesso decreto o all'udienza di comparizione il giudice dell'esecuzione possa dare i provvedimenti indilazionabili circa il corso dell'esecuzione e che poi, essendo sempre competente anche sulla cognizione ordinaria, provveda all'istruzione, anche qui a norma degli artt. 175 e ss. L’art. 184 delle disp. di att. al c.p.c. continua a recitare che “i ricorsi previsti negli articoli 615 secondo comma e 619 del codice, oltre le indicazioni volute dall'articolo 125 del codice, debbono contenere quelle di cui ai numeri 4 e 5 dell'articolo 163 del codice”, mentre l'art. 185 continua formalmente a dire che “all’udienza di comparizione davanti al giudice dell'esecuzione fissata a norma degli articoli 615, 618 e 619 del codice si applica l'art. 183 del codice”. 4. Le opposizioni esecutive nel sistema della stesura originaria del c.p.c. del 1940. Come ho gia detto le norme indicate nel paragrafo precedente sono rimaste immutate rispetto a com'erano state scritte nella stesura originaria del Codice del 1940. Pertanto, è opportuno domandarsi come esse regolassero il problema del “raccordo” nel modello del processo civile quale codificato da quella stesura. Ciò, anche per la ragione che quel modello era imperniato su preclusioni anche più rigide di quelle introdotte con le recenti riforme. Al riguardo, è opportuno considerare che la competenza sulle opposizioni esecutive è ancora oggi regolata allo stesso modo in cui era regolata nella stesura originaria del Codice, posto che nessuna delle novellazioni successive, ad eccezione di quella sul processo del lavoro, di cui alla l. n. 533/73 (che introdusse la norma speciale dell'art. 618-bis c.p.c., su cui non mi soffermerò, perché estranea all'indagine), ha introdotto modifiche in ordine ad essa. Così come attualmente, nella stesura originaria del Codice, dall'immutato combinato disposto degli articoli 16, 615 secondo comma, 617 e 619 c.p.c. si evinceva che la competenza sulle opposizioni all'esecuzione, quanto alla fase introdotta con il ricorso era per ragioni funzionali cosi regolata: a) sull'opposizione all'esecuzione ex secondo comma dell’art. 615 c.p.c. ed ex art. 619 c.p.c. avverso l'esecuzione per consegna o rilascio di cose, avverso l’esecuzione degli obblighi di fare e di non fare ed avverso l'espropriazione forzata di cose mobili e di crediti era competente il pretore, tenuto conto che in ordine a detti tipi di esecuzione l'art. 16 attribuiva (come attribuisce) la competenza per materia al pretore, che, dunque, si identificava (come si identifica) nel giudice dell'esecuzione forzata, cui gli artt. 615 secondo comma e 619 attribuiscono la competenza sulle opposizioni da essi regolate; b) sull'opposizione all'esecuzione ex secondo comma dell'art. 615 c.p.c. ed ex art. 619 c.p.c. avverso l'esecuzione per espropriazione di beni immobili o di cose mobili assoggettate all'esecuzione insieme a beni immobili (art. 556 c.p.c.) era (ed è) competente il tribunale, posto che l'art. 16 secondo e terzo comma per tali tipi di esecuzione attribuiva (ed attribuisce) la competanza al tribunale; c) sulle opposizioni agli atti esecutivi ex art. 617 secondo comma c.p.c. era (ed è) competente il pretore in relazione alle esecuzioni di sua competenza ed il tribunale in relazione a quelle di sua competenza, sempre ai sensi dell'art. 16 c.p.c. È evidente che all'atto dell'entrata in vigore dal Codice del 1940 come ancora oggi la gran parte delle opposizioni esecutive risultavano attribuite alla competenza del pretore, restando la competenza del tribunale limitata alle sole opposizioni all'espropriazione forzata di immobili (e di mobili insieme a immobili). Ora, chi si interroghi su come si poneva il problema del “raccordo” al lume delle disposizioni sopra riferite ancora oggi presenti nel Codice non può che prendere atto: aa) che esso risultava regolato chiaramente e con un certo automatismo in modo piano per tutte le opposizioni affidate al pretore; bb) che esso risultava regolato in modo meno chiaro, ma altrettanto piano per le opposizioni affidate al tribunale. 5. Il sistema del “raccordo” fra fase introduttiva e fase successiva delle opposizioni esecutive in relazione alla disciplina della fase introduttiva ed iniziale del giudizio di cognizione ordinaria nel codice del 1940. I. Per convincersi di quanto affermato in chiusura del paragrafo precedente, basta riflettere un momento sul modo di disciplina della fase introduttiva ed iniziale del giudizio avanti al pretore ed avanti al tribunale nella stesura originaria del Codice. Per il giudizio avanti al tribunale l'introduzione della lite per la cognizione ordinaria era – com'è noto – incentrato non sul sistema della notificazione della citazione ad udienza fissa, ma su un sistema per cui alla notificazione della citazione era previsto seguisse la costituzione dell'attore nei dieci giorni dalla notificazione (art. 165 c.p.c.) e la costituzione del convenuto entro venti giorni se il luogo della notificazione della citazione si fosse trovato nella circoscrizione del tribunale adito (entro trenta giorni, se il luogo de quo si fosse trovato fuori di quella circoscrizione, ma entro quella della Corte d'appello, entro quaranta giorni ove il luogo si fosse trovato nella circoscrizione di altra corte d'appello) (8), dopo di che la fissazione dell'udienza di prima comparizione e la designazione del giudice istruttore avvenivano, su istanza contenuta nella citazione o nella comparsa di risposta ovvero presentata separatamente con ricorso, da parte del presidente del tribunale (o, nei tribunali divisi in sezione, da parte del presidente di sezione designato dal presidente del tribunale), una volta scaduto il termine per la costituzione del convenuto (o, nel caso di assenza dell'istanza di designazione del giudice istruttore nella citazione, a seguito di istanza che doveva essere presentata, a pena di estinzione del processo, entro trenta giorni dalla scadenza del termine per la costituzione del convenuto: art. 172, abrogato dalla Novella del 1950). Il relativo decreto veniva comunicato almeno cinque giorni prima dell'udienza alle parti costituite. Tale sistema emergeva dagli ora abrogati articoli 172 e 173 del c.p.c. II. Ora, alla scadenza del termine di costituzione del convenuto ex art. 166 c.p.c. non era ricollegata alcuna effettiva decadenza per il convenuto, ancorché l'art. 167 c.p.c. dicesse nella sua stesura originaria nel primo comma che “nella comparsa di risposta il convenuto deve proporre tutte le sue difese e le eventuali domande riconvenzionali, indicare specificamente i mezzi di prova dei quali intende valersi e formulare le conclusioni” ed il secondo comma che “se intende chiamare un terzo in causa per la prima udienza, deve farne dichiarazione nella stessa comparsa”. L'assenza di preclusioni in relazione alla scadenza del termine per il convenuto si evinceva, oltre che dall'assenza di una espressa previsione in tal senso: a1) dal fatto che, ove l’attore si fosse costituito nel termine di cui all’art. 165 c.p.c., il convenuto si poteva costituire alla prima udienza avanti al giudice istruttore, come prevedeva il secondo comma dell’art. 171, senza comminare alcuna decadenza; a2) dal fatto che l’art. 269 secondo comma testo originario prevedeva che il giudice istruttore potesse concedere in prima udienza un termine per la chiamata del terzo. Solo nella prima udienza di comparizione avanti al giudice istruttore, che era definita dall'art. 183 come “prima udienza di trattazione” sostanzialmente scattavano per il convenuto (peraltro eventualmento, come subito si dirà) preclusioni per le attività di allegazione di fatti e di deduzione delle prove. Stabiliva, infatti. l'art, 183 quanto segue: “Nella prima udienza di trattazione le partì possono precisare e, quando occorre, modificare le domande, eccezioni e conclusioni formulate nell'atto di citazione e nella comparsa di risposta, sulle quali intendono insistere. Le parti, in ogni caso, possono proporre le domande e le eccezioni che sono conseguenza diretta di quelle già formulate; e, quando il giudice istruttore riconosce che sono rispondenti ai fini di giustizia, possono proporre altre eccezioni o chiedere nuovi mezzi di prova e produrre nuovi documenti. Il giudice richiede alle parti gli schiarimenti necessari e indica loro le questioni rilevabili d'ufficio, delle quali ritiene opportuna la trattazione. Quando è necessario, il giudice può fissare altra udienza per il compimento di quanto è prescritto nel presente articolo, autorizzando le parti a presentare memorie”. Il successivo articolo 184 evidenziava il ricollegarsi alla prima udienza di trattazione (peraltro, data la possibilità del rinvio e dello scambio di memorie, da intendere non in senso cronologico, potendo scindersi in due udienze) di rigide preclusioni alle allegazioni e alle deduzioni e produzioni probatorie, poiché sanciva che “durante l'ulteriore corso del giudizio, soltanto quando concorrono gravi motivi il giudice istruttore può autorizzare le parti a produrre nuovi documenti, chiedere nuovi mezzi di prova e proporre nuove eccezioni che non siano precluse (dove il “precluse” si intendeva riferito alla disciplina sostanziale dell'eccezione). Il dato di fatto somministrato da tali norme per il processo avanti al tribunale era nel senso che nessuna preclusione (salva l'impossibilità di una domanda nuova dell'attore rispetto all'originaria e l'onere dell'attore di dedurre le prove e produrre i documenti a sostegno della domanda opportunamente individuata: la necessità che l'attore indicasse le prove ed i documenti si evinceva dal fatto che l'art. 183 condizionava ad un'autorizzazione del giudice l'ulteriore compimento di tali attività) nasceva prima della prima udienza di trattazione. In particolare, il fatto che il primo comma dell'art. 183 consentisse solo la precisazione o modificazione delle eccezioni, delle domande e delle conclusioni formulate dal convenuto nella comparsa di risposta e che, poi, il secondo comma subordinasse all'autorizzazione del giudice la proposizione di nuove eccezioni e di nuove deduzioni probatorie, non toglieva che, potendo il convenuto costituirsi, come si è detto, anche all'udienza di prima trattazione, egli potesse articolare la sua difesa con la comparsa depositata in quella stessa udienza. In questo senso, ciò che si vuol rimarcare è che nel sistema del processo civile di cognizione avanti al tribunale, predisposto dalla stesura originaria del Codice del 1940, la prima udienza di trattazione era il momento iniziale in cui il convenuto poteva incorrere in preclusioni, ove non si fosse costituito con comparsa di risposta almeno in essa. Il convenuto, in particolare, in difetto di deposito di comparsa di risposta almeno nella detta prima udienza vedeva precludersi la formulazione della riconvenzionale, della chiamata in causa del terzo, delle eccezioni e la possibilità di dedurre mezzi di prova e depositare documenti, conservando solo (salva la possibilità di una rimessione in termini ex art. 294, a seguito di tardiva costituzione dopo essere stato dichiarato contumace) la possibilità di introdurre mere difese. III. Per il processo pretorile, viceversa, era previsto (salva la possibilità di formulazione orale della domanda per le cause non eccedenti il valore di lire duemila) il sistema della introduzione della domanda mediante citazione a comparire ad udienza fissa (art. 312 primo comma stesura originaria) e l'art. 313 c.p.c., dopo aver stabilito nel primo comma che la domanda dovesse contenere oltre l'indicazione del giudice e delle parti, l'esposizione dei fatti e l'indicazione dell'oggetto, prevedeva un termine di comparizione di tre giorni (liberi) ove la notificazione fosse avvenuta entro la circoscrizione territoriale del pretore, mentre prevedeva termini di comparizione ridotti alla metà rispetto alle altre ipotesi contemplate dall’art. 166 a proposito del termine di costituzione del convenuto, con possibilità di abbreviazione ulteriore alla metà su istanza di parte. L'art. 314 prevedeva poi (a parte il caso della domanda orale) che la costituzione delle parti potesse avvenire in cancelleria o direttamente all'udienza di comparizione mediante presentazione della citazione con la procura da parte dell'attore e della copia notificata della citazione da parte del convenuto con la procura, senza necessità di comparsa di risposta. L’art. 315 primo comma disciplinava la prima udienza di comparizione in questi termini: “Nella prima udienza la parte attrice, quando occorre, deve chiarire i fatti e l’oggetto della domanda, proponendo i mezzi di prova e producendo i documenti; la parte convenuta deve proporre le sue difese, eccezioni, mezzi di prova e produrre i documenti. A tal fine il giudice, se è necessario, può fissare altra udienza”. L'esame del complesso normativo appena riferito evidenzia che anche nel processo pretorile nessuna preclusione maturava per il convenuto prima dell'udienza di prima comparizione, le attività previste dalla quale, peraltro potevano compiersi anche in due udienze successive, Va anzi detto che preclusioni non maturavano neanche per l'attore, salva l'impossibilità di introdurre una nuova domanda. In forza del richiamo dell'art. 311 successivamente alla prima udienza (intesa in senso sostanziale) nuove allegazioni e deduzioni e produzioni probatorie erano vietate, salva l'applicazione del già riferito art. 184 c.p.c. 6. Le modalità del “raccordo”. I. Ora, se ci si interroga su come le modalità di introduzione del giudizio avanti al tribunale ed al pretore promosso con citazione si potessero raccordare nel Codice del 1940 con la modalità di introduzione con ricorso delle opposizioni esecutive ex artt. 615 secondo comma, 617 secondo comma e 619 c.p.c., ai fini dello svolgimento della cognizione ordinaria, mi sembra che la risposta, una volta considerate le norme innanzi richiamate nel paragrafo precedente, debba essere nel senso che il raccordo fosse assolutamente naturale e, soprattutto, dovesse operare nel presupposto che il ricorso introduttivo di dette opposizioni fosse già di per sé introduttivo di una cognizione piena ed ordinaria, non diversamente da quella introdotta con la citazione di un normale giudizio. Questa conclusione si evinceva, in particolare, dalla considerazione delle norme degli articoli 184 e 185 delle disposizioni di attuazione. L'art. 184, nel prevedere che il ricorso introduttivo dell'opposizione ex secondo comma dell'art. 615 e quello introduttivo dell'opposizione ex art. 619 c.p.c. dovessero contenere “oltre le indicazioni volute dall'art. 125 del codice” quelle di cui al n. 4 ed al n. 5 dell'art. 163 del codice rivelava l'intenzione del legislatore di parificare pienamente la domanda introdotta con ricorso alla domanda introdotta con citazione. Infatti, posto che l'art. 125 individuava il contenuto necessario del ricorso nell'indicazione dell'ufficio giudiziario adito, delle parti, dell'oggetto, delle ragioni della domanda e delle conclusioni, l'imposizione della indicazione anche dei requisiti di cui ai numeri 4 e 5 dell'art. 163 (rispettivamente relativi, allora come ancora oggi, alla “esposizione dei fatti e degli elementi di diritto costituenti le ragioni della domanda, con le relative conclusioni” ed alla “indicazione specifica dei mezzi di prova dei quali l'attore intende valersi e in particolare dei documenti che offre in comunicazione”) comportava una sostanziale coincidenza di contenuto fra la citazione ed i ricorsi ex secondo comma dell'art. 615 e 619 c.p.c. E ciò – mi pare – costituiva l'indice manifesto della volontà del legislatore di considerare con detti ricorsi introdotta l'azione ordinaria di cognizione inerente detti tipi di opposizione. Con la particolarità rappresentata dal fatto che sostanzialmente si verificava una piena parificazione della forma dell'atto introduttivo nelle opposizioni da introdursi avanti al giudice dell'esecuzionetribunale e nelle opposizioni da introdursi avanti al giudice dell'esecuzione-pretore. Queste ultime, una volta considerata la disciplina risultante dalle norme del primo comma dell'art. 313 e dalla possibilità prevista dall'art. 315 della formulazione dei mezzi di prova e della produzione di documenti in prima udienza, risultavano assoggettate alla disciplina di maggior rigore prevista per il giudizio avanti al tribunale. L'assenza nell'art. 184 di un riferimento all'opposizione ex art. 617 c.p.c. d’altro canto appariva pressoché innocua, cioè tale da non escludere comunque la stessa valutazione appena espressa, al lume della considerazione del successivo articolo 185, il quale per tutte le opposizioni esecutive in discorso stabiliva espressamente che “all'udienza di comparizione fissata avanti al giudice dell'esecuzione a norma degli articoli 615, 618 e 619, del codice si applica la disposizione dell'articolo 183 del codice”. L'espressa previsione che l'udienza di comparizione avanti al giudice dell'esecuzione fosse assoggettata al regime dell'art. 183 (e, per le opposizioni esecutive di competenza pretorile non al regime dell'art. 315 c.p.c.), oltre a suggerire che l'art. 184 dovesse estendersi anche all'opposizione ex art. 617, corroborava pienamente l'impressione che la cognizione ordinaria fosse introdotta già fin dal ricorso introduttivo dell'opposizione, poiché significava che con riferimento a quell'udienza (se del caso scindibile in due udienze con l'intermezzo di memorie scritte, giusta la riferita previsione dell'art. 183 ultimo comma) si verificavano le preclusioni previste per il normale processo cognitivo con riguardo alla prima udienza di trattazione avanti al tribunale. Né una controindicazione al riguardo si poteva trarre dalla circostanza che gli articoli 615 secondo comma, 618 secondo comma e 619 terzo comma prevedessero, il primo ed il terzo per il caso di positiva valutazione sulla competenza, il secondo fisiologicamente (data la coincidenza fra competenza iniziale e competenza sul merito) che il giudice dell'esecuzione adito, competente anche per il merito, procedesse all'istruzione a norma degli articoli 175 e seguenti. Il richiamo a tali norme, infatti, non poteva certo significare che si dovesse rifissare l'udienza ex art. 183, posto che già l'udienza di comparizione era tale. II. Ora, il fatto che il ricorso dovesse avere i requisiti contenutistici della citazione ed il fatto che l'udienza di comparizione avanti al giudice dell'esecuzione fosse un'udienza ex art. 183, rendevano – a mio avviso – pienamente compatibile la disciplina che gli articoli 615, secondo comma, 617 secondo comma e 619 davano all'introduzione delle opposizioni esecutive con quella normale dell'introduzione del giudizio mediante citazione. E ciò per la ragione che la modalità di introduzione tramite ricorso, seguito da decreto di fissazione dell'udienza di comparizione da notificarsi entro un termine perentorio, risultava pienamente idonea ad assicurare uno svolgimento della fase introduttiva assolutamente analogo a quello del processo introdotto con citazione. Infatti: b1) la previsione dell'art. 184 delle disp. di att. del c.p.c., laddove stabiliva che il ricorso dovesse avere un contenuto simile a quello della citazione garantiva che al ricorrente fossero imposti oneri di allegazione e probatori fin dall'atto introduttivo identici a quelli imposti all'attore in una citazione (avanti al tribunale); b2) la previsione della fissazione dell'udienza da parte del giudice e di un termine perentorio da lui stabilito per la notificazione del ricorso e del relativo decreto, si presentava come perfettamente idonea ad assicurare che il contraddittorio si attivasse in un momento tale, rispetto alla fissata udienza, da garantire alla parte opposta, cioè al convenuto in opposizione, almeno un termine a difesa identico a quello stabilito dagli articoli 166 (rispettivamente per la costituzione) e 313 (per la comparizione), tra il giorno della notificazione e quello dell'udienza, nel senso che il giudice nel fissare l'udienza ed il termine poteva indicare quest'ultimo in modo tale che il termine a difesa fosse rispettato; b3) la possibilità, fisiologica nel sistema degli articoli 615, 617 e 619, che l'opposto si costituisse in udienza, del resto, corrispondeva a quanto previsto come norma per il processo pretorile introdotto con citazione, mentre, per quello avanti al tribunale, non rappresentava alcuna alterazione al sistema delle preclusioni operante per l’ordinario processo avanti al tribunale, poiché si è detto sopra che in quel processo, pur essendo previsto che il convenuto si dovesse costituire prima dell'udienza ex art. 183, in definitiva il difetto di tale costituzione non determinava per lui decadenze, essendogli riconosciuta la possibilità di costituirsi con la comparsa anche in detta udienza e svolgere le stesse attività, da compiersi con la comparsa depositata entro il termine per la costituzione ex art. 166. III. Va notato a questo punto che il quasi totale affidamento al pretore della competenza sulle opposizioni esecutive, una volta considerato che il termine a difesa per il processo pretorile era di tre giorni nel caso di notificazione entro la circoscrizione del giudice adito, di dieci in caso di notificazione entro quella del tribunale, di venti entro quella della corte d'appello (tralascio le ipotesi della notifica nelle colonie ed all'estero) ed una volta tenuto conto che tali termini ridotti potevano essere abbreviati alla metà, comportava di fatto la conseguenza che per provvedere sull'istanza di sospensione dell'esecuzione ex art. 624 e su quella ex art. 618, per il caso che non si fosse ritenuto di provvedere inaudita altera parte si presentava pienamente idonea la stessa udienza di comparizione, senza che occorresse fissare un'udienza anticipata per la trattazione della sola questione di sospensione o di quella ex art. 618 c.p.c.. Infatti, la prospettiva fisiologica della fissazione dell'udienza ex art. 183 in tempi relativamente brevi garantiva la possibilità che si potesse provvedere sollecitamente su quelle istanze, aventi natura cautelare. E tutto sommato, una volta considerato che il termine per la costituzione avanti al tribunale di cui all'art. 166 poteva essere analogamente dimezzate, anche in sede di fissazione dell'udienza di comparizione nei processi di opposizione esecutiva di competenza del tribunale l'udienza di comparizione ex art. 183 avrebbe potuto essere fissata (a seguito di istanza di abbreviazione) a breve, in modo da consentire sollecita possibilità di decisione sulle suddette istanze cautelari. Basti pensare che nei casi in cui il luogo di notificazione del ricorso in opposizione e del decreto di fissazione dell'udienza si fosse trovato nella circoscrizione del tribunale, l’udienza avrebbe potuto essere fissata entro dieci giorni dalla notificazione, mentre ove quel luogo si fosse trovato entro la circoscrizione della corte d'appello entro quindici giorni e ove si fosse trovato nella circoscrizione di altra corte d'appello entro venti giorni (tali termini risultavano dalla divisione alla metà di quelli fissati dall'art. 166). Dunque, nell’impianto originario del codice del 1940 ben si comprendeva il senso sia della previsione che il ricorso oppositivo avesse gli stessi requisiti della citazione sia della previsione che l'udienza di comparizione fosse una normale udienza ex art. 183: il processo di opposizione era immaginato né più né meno che come un normale giudizio di cognizione, in cui cambiava solo la modalità di introduzione, ma restava immutata l’organizzazione della fase iniziale, essenzialmente in punto di preclusioni alle allegazioni ed alle deduzioni e produzioni probatorie. L'omologazione del contenuto del ricorso a quello della citazione, in punto di oneri di allegazione e probatori dell'attore opponente e la previsione che l'udienza di comparizione fosse un’udienza ex art. 183, cioè l'udienza in cui si verificavano, in definitiva, anche nel rito introdotto con la citazione, le preclusioni per il convenuto, si presentavano perfettamente funzionali a far considerare il processo oppositivo un processo che (salvo la modalità introduttiva) ricalcava quello introdotto con citazione ed era direttamente idoneo ad introdurre la cognizione ordinaria. 7. La possibilità di fissazione di un’apposita udienza, anticipata rispetto a quella ex art. 185, per la sola trattazione dell’istanza di sospensione dell’esecuzione e dell’istanza di adozione dei provvedimenti ex art. 618 sul corso dell’esecuzione. I. In un tale contesto, d'altro canto, occorreva tenere conto che l'apposita regolamentazione dettata dagli articoli 624 e 625 (rimasti ancora oggi immutati) per il procedimento sull'istanza di sospensione dell'esecuzione in caso di ex art. 615 e 619 e l'ulteriore regolamentazione dettata dall'art. 618 primo e secondo comma per i provvedimenti urgenti in ordine al corso dell’esecuzione, si presentava assolutamente idonea a consentire l’adozione di tale provvedimento anche prima dell'udienza ex art. 183, nei casi in cui la fissazione di tale udienza in modo da consentire l'osservanza del termine a difesa si fosse collocata a tal distanza dal deposito del ricorso da collidere con l'esigenza di un provvedimento immediato e sollecito in ordine all'adozione di tale provvedimento. Per quanto riguardava il procedimento sull'istanza di sospensione dell'esecuzione, di cui all'art. 695 c.p.c., la previsione del primo comma dell'art. 625 c.p.c., secondo cui sull'istanza “si provvede con ordinanza, sentite le parti”, si presentava idonea a consentire: c1) sia che si provvedesse nell'udienza di comparizione fissata ai sensi dell'art. 183 c.p.c.; c2) sia che si potesse provvedere in un'apposita udienza, riservata alla sola cognizione dell'istanza e collocantesi prima dell'udienza ex art. 183, da fissarsi congiuntamente ad essa nel decreto pronunciato ex art. 615 secondo comma o ex art. 619 secondo comma c.p.c. oppure a seguito di istanza presentata nelle more del sopraggiungere dell'udienza ex art. 183, anteriormente ad essa. Viceversa, per il caso di provvedimento sull'istanza di sospensione fosse assunto inaudita altera parte, la previsione dell'art. 625 secondo comma, secondo cui “nei casi urgenti, il giudice può disporre la sospensione con decreto, nel quale fissa l’udienza di comparizione delle parti” e che “all'udienza provvede con ordinanza”, si presentava idonea, sia a giustificare che tale udienza si identificasse, nella stessa udienza ex art. 183, sia, per ragioni di sollecita definizione del procedimento, in un'udienza apposita fissata anteriormente, sulla falsariga di quanto consentiva il primo comma dell'art. 625 c.p.c.. Inducevano a questa ricostruzione: d1) la circostanza che il legislatore avesse dettato un apposito procedimento per provvedere sull'istanza di sospensione; d2) il rilievo che, se il legislatore avesse voluto escludere in caso di provvedimento a seguito di contraddittorio, la possibilità di fissazione di un'udienza apposita anteriore a quella ex art. 183, avrebbe nel primo comma dell'art. 625 detto che sulla sospensione si provvede all'udienza fissata ai sensi del secondo comma dell'art. 615 ed ai sensi del secondo comma dell'art. 619 e non avrebbe usato, invece, l'espressione “sentite le parti”, la quale, in ossequio al principio di libertà delle forme (art. 121 c.p.c.), ben si prestava alla possibilità della fissazione di un'udienza anticipata; d3) la circostanza del generico riferimento del secondo comma dell'art. 625 c.p.c. ad un decreto di fissazione dell'udienza di comparizione delle parti per il caso di provvedimento assunto senza contraddittorio e non al decreto di fissazione dell'udienza di cui al secondo comma dell'art. 615 ed al secondo comma dell'art. 619. II. Quanto ai provvedimenti urgenti correlati all'opposizione agli atti esecutivi dall'art. 618 c.p.c., mi sembra che potesse sostenersi (e si possa ancora oggi sostenere) che il primo comma di tale norma, laddove dice che il giudice dell'esecuzione “dà, nei casi urgenti, i provvedimenti opportuni”, non escludesse la possibilità di provvedere in contraddittorio previa fissazione di un'apposita udienza anticipata rispetto a quella ex art. 183 c.p.c., oltre che con il decreto inaudita altera parte. Mi induce a tale conclusione il rilievo che il complemento di modo “con decreto”, contenuto in precedenza nello stesso comma, è retto dal verbo “fissa” e sembra non correlarsi anche al successivo verbo “dà”. 8. Le opposizioni esecutive dopo la Novella del 1950. I. La Novella del 1950 a mio avviso non comportò alcun effetto sul sistema del “raccordo” fra la fase introdotta con ricorso delle opposizioni in discorso e quella successiva . In particolare: aa) l'introduzione del sistema della citazione a comparire ad udienza fissa anche per il processo avanti al tribunale e la previsione (art. 163-bis nel testo anteriore alla novella di cui alla l. 353/90, introdotto, dalla Novella del 1950) di termini di comparizione rispettivamente di trenta giorni, quaranta e sessanta giorni, a seconda che la notificazione della sitazione fosse avvenuta nella circoscrizione del tribunale adito, nella circoscrizione della corte d'appello o in quella di altra corte d'appello, unita alla possibilità di una riduzione alla metà di tali termini, consentiva a breve la fissazione dell'udienza di comparizione ex art. 183, sempre in forza dell'immutato art. 185 disp. att. c.p.c., nel rispetto di tali termini, cioè assicurandosi che fra la scadenza del termine perentorio per la notificazione del ricorso e del decreto e l'udienza intercorressero i termini, eventualmente ridotti alla metà, di cui all'art. 163-bis c.p.c.; bb) per il processo pretorile, rimasto fermo il termine di comparizione in caso di notifica entro la circoscrizione del pretore e sempre ridotti alla metà di quelli stabiliti ex novo dall'art, 163-bis e comunque ulteriormente riducibili essi stessi alla metà (art. 313 nel testo anteriore alla l. n. 353/90) i termini in caso di notifica fuori da quella circoscrizione, la fissazione a breve dell'udienza ex art. 183 c.p.c. era automaticamente garantita, pur dal rispetto dei termini di comparizione fra scadenza del termine perentorio per la notifica e udienza, in tempi relativamente, brevi; cc) la possibilità che sull'istanza di sospensione dell'esecuzione vi fosse una tale urgenza di provvedere, sia pure nel contraddittorio delle parti, da imporre la fissazione di un'udienza ad hoc prima dell'udienza di comparizione ai fini della cognizione ordinaria, ancorché fissata in modo da dar luogo all'abbreviazione del termine a difesa, rimaneva implicitamente prevista per le ragioni indicate nei paragrafi precedente con riferimento alla stesura originaria del Codice; dd) analoga possibilità si poteva dare per i provvedimenti dell'art. 618 in ordine all'opposizione agli atti esecutivi, sempre per le ragioni indicate con riguardo alla stesura originaria del Codice; ee) l'eliminazione delle preclusioni ricollegate all'atto introduttivo per l'attore, la conservazione delle preclusioni per la chiamata in causa e per la riconvenzionale del convenuto con riguardo al deposito della comparsa di risposta almeno all'udienza ex art. 483 c.p.c. e l'eliminazione delle ulteriori preclusioni previste dall'originario art. 183 con riguardo a tale udienza, risultanti dalla modificazione dell'art. 183 e dell'art. 184 operata dalla Novella del 1950 rimasero, d'altro canto ininfluenti sulla ricostruzione delle opposizioni esecutive nel senso proposto alla luce della stesura originaria del Codice, poiché anche nel nuovo regime lassista di assenza di preclusioni (salvo per la proposizione di domande nuove, la riconvenzionale e la chiamata in causa di un terzo) rimase fermo, in forza del mantenimento delle norme degli articoli 184 e 185 delle disposizioni di attuazione, che i ricorsi introduttivi delle opposizioni esecutive avverso esecuzione già iniziata introducevano essi stessi l'ordinaria cognizione; ff) l’udienza ex art. 183 fissata con i decreti di cui agli artt. 615 secondo comma, 617 e 619 secondo comma restò una normale udienza ex art. 183 c.p.c., assolutamente simile all'udienza di un normale giudizio cognitivo introdotto con citazione e come tale udienza, in forza della eliminazione delle preclusioni emergente dall'art. 184 novellato (9), divenne un'udienza in cui le uniche preclusioni che si potevano verificare erano rappresentate: ff1) dalla mancata proposizione della riconvenzionale da parte del convenuto opposto, che tale domanda non avesse svolto almeno costituendosi in essa ai sensi dell'art. 171 secondo comma rimasto immutato; ff2) dalla mancata formulazione almeno in detta udienza dell'istanza di chiamata in causa del terzo, possibilità mantenuta dagli immutati secondo e terzo comma dell'art. 269 (ancorché l'immutato art. 167 prevedesse come nella stesura originaria del Codice che la chiamata dovesse essere formulata nella comparsa); gg) il mantenimento nell'art. 184 novellato della preclusione alla possibilità di una domanda nuova dell'attore, cioè dell'opponente, confermava poi quanto già sancito nella stesura originaria del Codice. II. Anche dopo la Novella del 1950, dunque, il problema del “raccordo” fra la forma processuale con cui le opposizioni esecutive venivano introdotte e lo svolgimento del processo di primo grado a seguito della normale introduzione con citazione, siccome emergente dalle norme degli articoli 184 e 185 delle disposizioni di attuazione e dalle norme degli articoli 615 secondo comma, 618 e 619 secondo comma rimaneva entro i non disagevoli binari in cui aveva inteso incardinarlo il Codice del 1940 e che sopra sono stati illustrati. Che l'applicazione del sistema come sopra ricostruito non desse luogo a problemi mi sembra emerga da un dato. Nella ricerca di precedenti giurisprudenziali sulle questioni applicative delle norme degli articoli più volte cennati sul “raccordo” mi sono imbattuto solo in un precedente (10) a proposito della questione del termine di comparizione e in pochissimi precedenti per la questione dell'inizio del giudizio di cognizione con lo stesso ricorso (11), mentre non ho rinvenuto nulla a proposito della possibilità innanzi sostenuta della fissazione di un'udienza ad hoc per la sola trattazione della questione di sospensione dell'esecuzione e dei provvedimenti a seguito dell'opposizione ex art. 617 c.p.c. Evidentemente, la circostanza che la quasi totalità delle opposizioni esecutive competevano al pretore, unita alla brevità dei termini a comparire avanti a tale giudice, nonché la sostanziale inesistenza di ragioni di urgenza nelle opposizioni avverso gli atti esecutivi in materia di espropriazione immobiliare (dato il suo meccanismo piuttosto lento) hanno fatto sì che non sorgessero questioni in ordine alla inosservanza dei termini a comparire di cui all'art. 163-bis e 313 c.p.c. e neppure si palesasse l'opportunità di fissazione di un'udienza anticipata rispetto a quella ex art. 185 disp. att. c.p.c.. La dottrina, d'altro canto, trovandosi ad operare in un sistema processuale che non prevedeva sostanzialmente preclusioni anteriormente alla prima udienza di trattazione ex art. 183 ed in relazione ad essa prevedeva solo la preclusione alla riconvenzionale del convenuto ed alla chiamata in causa, non ha molto approfondito – a mio modesto avviso – il problema del “raccordo” e si è limitata ad affermazioni del tutto fugaci circa il termine di comparizione a difesa da darsi in sede di fissazione dell'udienza ex art. 183 (12) e tralasciando del tutto di considerare la possibilità che l'udienza di comparizione per la trattazione delle questioni inerenti la sospensione ed i provvedimenti ex art. 618 potesse essere fissata anticipatamente rispetto a quella ex art. 185 disp. att. c.p.c. ai sensi dell'art. 183. 9. Il problema del “raccordo” fra il sistema dell’introduzione con ricorso delle opposizioni esecutive e la nuova disciplina della fase introduttiva ed iniziale del processo di cognizione dopo le recenti riforme. I. Il lungo excursus su come era regolato il problema del “raccordo” nel sistema del Codice del 1940 e successivamente dopo la Novella del 1950 ed i risultati da esso somministrati mi sembra a questo punto che permettano di affrontare e risolvere il problema nei termini nuovi in cui certamente si pone dopo le recenti riforme, che hanno dettato una nuova disciplina della fase introduttiva e della fase iniziale del processo civile di cognizione, introducendo (anche dopo la vera e propria controriforma di cui ai dd.ll. n. 238, 347 e 432 (13) e alla legge n. 534/95) rilevanti novità. Per non appesantire le trattazione esaminerò il problema del raccordo direttamente con riguardo alla stesura definitiva della riforma, risultante dopo la legge n. 534/95, senza considerare, se non per accenni, il problema con riferimento alla stesura originaria della legge 353/90. Le novità che interessano ai fini del problema sono le seguenti: 1a) la previsione di un termine di venti giorni prima dell'udienza di comparizione (o di dieci, in caso di riduzione del termine a comparire) indicata in citazione, per la costituzione del convenuto (art. 166) con la comminatoria, in difetto, della decadenza dalla possibilità di proporre domanda riconvenzionale e di chiamare in causa il terzo e, quindi, di una decadenza che matura prima dell'udienza di comparizione; tale decadenza risulta per la riconvenzionale dall'espressa comminatoria dell'art. 167, mentre per la chiamata in causa dall'art. 269 secondo comma novellato, ove posti poi entrambi in relazione al secondo comma del pure novellato art. 171, che riconosce ancora la possibilità di una costituzione del convenuto anche alla prima udienza, ma stabilisce che restino ferme le decadenze di cui all'art. 167; 2a) la previsione di un termine di comparizione unitario di sessanta giorni (riducibili a trenta) per il giudizio avanti al pretore e avanti al tribunale, stabilita dall'art, 163-bis novellato e risultante dal fatto che ormai le uniche disposizioni speciali per il processo pretorile sono quelle degli artt. 314 e 315 riguardanti la fase decisoria, restando il processo pretorile interamente disapplicato ex art. 311 dalle norme sul proceso avanti al giudice monocratico del tribunale; 3a) la previsione conseguente di un ulteriore contenuto della citazione, rappresentato dall'enunciazione di un avvertimento al convenuto in ordine alla circostanza che, non costituendosi entro il termine di cui all'art. 166, incorrerà nelle decadenze di cui all'art. 167; 4a) la previsione di una scissione fra udienza di prima comparizione ed udienza di prima trattazione, risultante dalla novellazione dell'art. 180 che appunto risulta ormai disciplinare con una sorta di programma limitato ed obbligato la prima udienza di comparizione indicata nella citazione e prevede indefettibilmente che si fissi altra udienza per la prima trattazione ai sensi dell'art. 183 novellato, per l'espletamento delle numerose attività in essa contemplate, con fissazione al convenuto, anche contumace, di un termine per depositare memoria contenente le eventuali eccezioni di merito e di rito in senso stretto, cioè rilevabili solo ad istanza di parte (14); 5a) la previsione del momento di preclusione della rilevazione, sia d'ufficio che ad istanza di parte, della incompetenza per valore, territorio inderogabile e materia solo nella prima udienza di trattazione ex art. 183 c.p.c. (15), stante il riferimento dell'art. 38 novellato appunto alla prima udienza di trattazione. 10. La perdurante vigenza degli articoli 184 e 185 disp. att. c.p.c.. I. A tali profonde modifiche della fase introduttiva ed iniziale del processo di cognizione introdotto con citazione non ha fatto riscontro alcuna modificazione delle norme che disciplinano il problema del “raccordo” a proposito delle opposizioni esecutive. Tuttavia a me sembra che, se si condividono i risultati dell'indagine sopra svolta su come funzionava il “raccordo” prima della recente riforma e già nella stesura originaria del Codice, l'assenza di quella modificazione non provochi alcun problema, a condizione che si leggano gli articoli 184 e 185 delle disposizioni di attuazione con un'interpretazione adeguatrice, quanto alla prima norma al mutamento del contenuto del suo referente nella disciplina del processo introdotto con citazione e, quanto alla seconda al mutamento del suo stesso referente normativo. La ragione per cui bisogna, a mio modesto avviso, procedere ad un'interpretazione adeguatrice nel senso ora detto, risiede nel fatto che anche dopo la riforma deve reputarsi immutata l'idoneità dei ricorsi ex art. 615 secondo comma, 617 secondo comma e 619 ad introdurre essi stessi la cognizione ordinaria tramite una forma dall'atto introduttivo diversa dalla citazione. La conservazione nell'ordinamento delle norme dell'art. 184 e 185 delle disposizioni di attuazione, le quali non sono state abrogate espressamente e non possono reputarsi abrogate per tacita incompatibilità (art. 15 delle preleggi) da norme delle leggi di riforma di cui alla l. n. 353/90 e successive modifiche fino alla l. n. 534/95, rende manifesto ancora oggi che il ricorso propositivo delle opposizioni in discorso introduce esso stesso l’azione di cognizione ordinaria che costituisce l'oggetto delle stesse e comporta che ancora oggi l'eventuale traslatio iudicii al giudice competente per il merito dopo la prima fase determini la mera prosecuzione di un processo che deve reputarsi introdotto dalla domanda formulata con il ricorso (16). Che ancora oggi l'art. 184 delle disp. di att. dica, integrando la disciplina che scaturirebbe dall'applicazione dell'art. 125 c.p.c. che il ricorso introduttivo dell'opposizione deve contenere l'indicazione dei requisiti stabiliti per la citazione dai numeri 4 e 5 dell'art. 163, significa chiaramente che continuiamo a trovarci in presenza di un atto che sostanzialmente si appiattisce sulla normale citazione e suggerisce l'interrogativo sul se, a seguito dell'integrazione che la disciplina della citazione ha subito con la previsione del nuovo requisito di cui al numero 7 dell'art. 163, afferente all'avvertimento al convenuto in ordine alle decadenze in cui incorrerà in difetto di tempestiva costituzione venti giorni prima dell'udienza, non si debba reputare automaticamente integrato anche lo stesso art. 185 o meglio si debbano reputare integrati gli artt. 615 secondo comma, 618 primo comma e 619 secondo comma c.p.c. Nel contempo e comunque la permanenza della norma conferma la caratterizzazione del ricorso de quo come introduttivo di una domanda di cognizione ordinaria. Che ancora oggi l'art. 185 delle disposizioni di attuazione dica che all'udienza di comparizione fissata a seguito dei ricorsi all'esame si applica la disposizione dell'art. 183, se induce ad interrogarsi su quale debba essere l'effettivo senso di tale richiamo normativo ed in particolare sul se, in dipendenza della cessazione della connotazione dell'udienza ex art. 183 come prima udienza di comparizione, detto richiamo non si debba intendere ora fatto all'art. 180 c.p.c., tuttavia continua a rendere manifesto che la prima udienza di comparizione è udienza di un processo di cognizione piena già instaurato dal ricorso, posto che ad essa trova applicazione una norma regolatrice di tale processo e considerato quanto si deve sempre desumere e si è appena desunto dalla conservazione dell'art. 184. II. Ebbene, una volta considerato il significato della permanente vigenza delle due norme in discorso, mi sembra che, non diversamente da quanto avveniva nella stesura originaria del Codice del 1940 ed in quella risultante dalla Novella del 1950, oggi la linea interpretativa da seguire nella soluzione del problema del raccordo debba essere nel senso che la fase introduttiva avanti al giudice dell'esecuzione del processo oppositivo deve essere idonea ad assicurare lo svolgimento del processo di cognizione introdotto fin dal ricorso, con quelle stesse modalità che lo caratterizzano nell'ipotesi normale di introduzione mediante citazione. In particolare, la regolamentazione che nel processo riformato (o controriformato?) ha il formarsi delle preclusioni in ordine alle allegazioni dei fatti rilevanti per il decidere ed alle deduzioni e produzioni probatorie deve operare anche nel processo introdotto dai ricorsi ex artt. 615, 617 e 619 c.p.c.. Una diversa soluzione potrebbe accettarsi, solo se si dimostrasse che detti ricorsi non introducono direttamente l'azione di cognizione oggetto dei relativi giudizi e che essa si deve reputare introdotta in un momento successivo e precisamente dopo l'esaurimento della fase cautelare concernente l'istanza di sospensione dell’esecuzione o l'adozione de provvedimenti ex art. 618 e, quindi, con l'ordinanza che dispone la trattazione avanti allo stesso giudice dell'esecuzione o la rimessione avanti al giudice competente. Ma tale dimostrazione è preclusa dalla perdurante vigenza degli articoli 184 e 185 delle disposizioni di attuazione (17). III. La necessità che l'ordinaria disciplina in punto di preclusioni operi anche con riguardo ai giudizi introdotti con ricorso di cui si discorre esclude qualsiasi possibilità sia di ricollegare il verificarsi di preclusioni anteriormente alla prima udienza di comparizione fissata con il decreto ex secondo comma dell'art. 615, 617 e 619 a modalità e garanzie diverse da quelle stabilite per la cognizione ordinaria introdotta con citazione, sia di ricollegare all'udienza di comparizione preclusioni stabilite con riguardo a momenti precedenti ad essa, sia di ricollegare a detta udienza preclusioni che scattano normalmente dopo. Una diversa soluzione, oltre a contrastare con gli articoli 184 e 185 delle disposizioni di attuazione, sarebbe gravemente sospetta di illegittimità costituzionale, laddove stabilisse un modo di operare delle preclusioni diverso o meglio più radicale di quello previsto per il processo introdotto con citazione. In contrario, non potrebbe valere, del resto, la diversità e peculiarità della funzione dei processi di opposizione ad esecuzione già iniziata, perché questa esigenza concerne a ben vedere solo la fase di essi che si esprime nel procedimento sull'istanza di sospensione dell'esecuzione e sull'adozione dei provvedimenti in merito allo svolgimento dell'esecuzione ex art. 618. 11. Il “raccordo” nel nuovo rito. A questo punto si possono ricostruire le linee del “raccordo” alla luce delle ultime riforme. Mi pare anzitutto che debba accettarsi l'idea che il giudice dell'esecuzione, nel fissare l'udienza di comparizione ai sensi dell'art. 615 secondo comma, 618 primo comma e 619 secondo comma debba fissare l'udienza rispettando il termine di comparizione di sessanta giorni od eventualmente (su istanza di parte) quello ridotto alla metà, stabilito dal nuovo art. 163-bis c.p.c. (18). E ciò esattamente come avveniva (o doveva avvenire) nel sistema risultante dall’originario impianto del Codice del 1940 e poi nel sistema risultante dalla Novella del 1950. In secondo luogo, il convenuto opposto ed eventualmente i convenuti litisconsorti necessari (per esempio il debitore esecutato in caso di opposizione di terzo ex art. 619 c.p.c., ove voglia svolgere domanda riconvenzionale o chiamare in causa un terzo deve costituirsi venti giorni prima di detta udienza con comparsa depositata ai sensi dell'art 167. In difetto, incorrerà nella decadenza da tali attività (19). In linea preliminare a tale affermazione va, poi, ritenuto che nel decreto di fissazione dell'udienza da parte del giudice dell'esecuzione deve essere contenuto ciò che è strettamente funzionale all'operare delle preclusioni di cui all'art. 167, cioè l'avviso di cui al n. 7 dell'art. 163 c.p.c. Invero, la mancata modificazione dell'art. 184 delle disposizioni di attuazione, nel senso di prevedere che lo stesso ricorso introduttivo dell'opposizione debba contenere l'avvertimento, ben si comprende, se si riflette che tale avvertimento è un requisito della vocatio in jus, la quale nella forma della domanda giudiziale costituita al ricorso (salva qualche eccezione, che qui non stò a richiamare) è elemento che si forma a livello statico, cioè sotto il profilo contenutistico, attraverso la necessaria mediazione del giudice che fissa l'udienza di comparizione, cui segue poi la notificazione di ricorso e relativo decreto. Il legislatore non poteva, dunque, integrare l'art. 184, stabilendo che il ricorso debba contenere l'avvertimento in discorso. È il giudice dell'esecuzione che deve inserirlo nel decreto di fissazione dell'udienza, una volta considerato che il ricorso introduce una domanda di cognizione ordinaria, le cui forme di svolgimento vanno assicurate. L'inserimento nel ricorso da parte dell'opponente, d'altro canto, sarebbe inidoneo a richiamare l'attenzione dell'opposto, in quanto precederebbe la parte dell'atto formatasi con l'aggiunta del decreto di fissazione dell'udienza. Né mi pare fondato sostenere (20) che ammettendo che il giudice dell'esecuzione debba includere nel decreto l'avvertimento all'opposto che non costituendosi venti giorni prima dell'udienza incorrerà nelle decadenze di cui all'art. 167, si finirerebbe per consentire al giudice di fissare un termine perentorio, nonostante che l'art. 152, primo comma secondo inciso preveda che il giudice possa fissarne solo “se la legge lo permette espressamente”. È sufficiente replicare che non il giudice fisserebbe in tale modo il termine perentorio, ma la stessa legge, del cui adattamento alla peculiarità dell'introduzione della cognizione ordinaria il giudice deve doverosamente tener conto. Se la vocatio in jus sotto il profilo contenutistico si deve esprimere attraverso il decreto di fissazione dell'udienza e non con l'indicazione dell'udienza come nella citazione, da parte dell'attore, cui in quel caso compete farsi carico dell'avvertimento, risulta fisiologico che il giudice, nel dar corpo ad essa inserisca quel suo elemento che è l'avvertimento. La volontà del legislatore della riforma in tal senso non mi sembra discutibile e, quindi, è essa stessa che attribuisce al giudice dell'esecuzione il potere di fissazione del termine perentorio. Va poi ricordato che sul significato dell'avverbio “espressamente”, di cui al primo comma dell'art. 152 la dottrina ha avvertito da tempo che esso va inteso nel senso che il termine deve essere previsto “manifestamente”, cosa che implica che esso possa risultare non solo da un'espressa manifestazione linguistica della legge, ma anche dalla stessa qualificazione dell’atto o dagli effetti che la sua scadenza produce (21). Nella specie è appunto il requisito funzionale cui adempie il decreto di fissazione dell'udienza, che è assolutamente analogo all'indicazione dell'udienza di comparizione di cui al n. 7 dell'art. 163 che fa ritenere la sussistenza della volontà di legge attributiva al giudice dell'esecuzione dell'implicito potere di concedere il termine, risultante dall'inserzione dell'avvertimento di cui si discorre. Né potrebbe, inoltre, pensarsi che l'avvertimento sia inutile, per la ragione che il ricorso ed il decreto di fissazione dell'udienza debbano pervenire ad un soggetto “edotto delle prescrizioni normative sulla costituzione in giudizio e sulle conseguenze della sua intempestività” (22). Osservo, in proposito: 1b) che, secondo un consolidato orientamento della Suprema Corte (23), le opposizioni ad esecuzione già iniziata non possono essere notificate nel domicilio eletto ex art. 480 terzo comma in relazione all'art. 489, ma debbono notificarsi personalmente alla parte, cosa da cui consegue che la notifica del ricorso e del decreto siano ricevute da soggetto che certamente non è edotto sulla disciplina processuale dell'art. 167 c.p.c.; 2b) che la notificazione in discorso, anche se si rigettasse la tesi della Cassazione, talvolta può essere diretta a soggetto che non ha ancora difensore, come il debitore esecutato nell'opposizione ex art. 619 c.p.c.; 3b) che in generale, quando pure la notifica fosse ricevuta da legale, l'avvertimento, in quanto esprime una certezza in ordine al verificarsi della preclusione, non cessa di essere opportuno od esclude equivoci e fraintendimenti, tanto più in un sistema che viene ricostruito in via interpretativa. Dunque, la necessità che nel decreto di fissazione dell'udienza sia contenuto l'avvertimento ai sensi del n. 7 dell'art. 163 mi sembra difficilmente contestabile (24). 12. L’udienza che il giudice dell’esecuzione deve fissare nelle opposizioni esecutive. Cenni sul ricorso orale e sull’opposizione ex art. 512 c.p.c. I. Resta a questo punto da chiarire che tipo di udienza il giudice dall'esecuzione deve fissare ai sensi del secondo comma dell'art. 615, del primo comma dell'art. 617 e del secondo comma dell'art. 619 c.p.c., posto che l'art. 185 continua a dire formalmente che all'udienza fissata ai sensi di tali norme si applica l'art. 183 c.p.c. Nella stesura originaria della riforma di cui alla l. n. 353/90 la coincidenza tra udienza di prima comparizione e prima udienza di trattazione ai sensi dell'art. 183 c.p.c., alla luce della ricostruzione qui proposta rendeva automatico il raccordo, non diversamente da quanto avveniva nell'impianto originario del Codice del 1940 ed in quello risultante dopo la Novella del 1950. L'udienza fissata dal giudice dell'esecuzione era (o avrebbe dovuto essere) proprio una vera udienza ex art. 183, nella quale si dovevano svolgere le attività in essa previste e cui poteva seguire l'appendice di trattazione scritta di cui al quinto comma del testo dell'art. 183 originariamente novellato dalla legge 353/90. Solo dopo l'esaurimento delle attività previste dall'art. 183 c.p.c., non diversamente da quanto prevede l'art. 184 con l’inciso “salva l'applicazione dell'art. 187”, per le opposizioni ex secondo comma dell'art. 615 c.p.c. e per quelle ex art. 619 c.p.c. poteva avvenire la delibazione della competenza e la rimessione al giudice competente, con sentenza in caso di contrasto fra le parti e con ordinanza in caso di accordo. Non mi sembra che fosse possibile un'altra soluzione nell'ottica, che ho accolto, della introduzione da parte delle opposizioni esecutive della normale azione di cognizione ed in quella conseguente della fissazione dell'udienza nel rispetto dei termini di comparizione e con onere del convenuto di costituirsi a pena di decadenza venti giorni prima (o dieci giorni prima in caso di abbreviazione del termine a comparire), a pena di decadenza dalle attività che si precludevano con lo scadere del termine per la tempestiva costituzione, fra le quali nel sistema originario della l. 353/90 vi erano anche le eccezioni di merito e di rito in senso stretto (25). II. Nella situazione determinatasi a seguito della l. 534/95 che ha scisso la prima udienza di comparizione dalla prima udienza di trattazione, mi sembra che il coordinamento, per chi accetta l'idea qui sostenuta della instaurazione con le opposizioni esecutive di azioni di cognizione ordinaria fin dal ricorso, si debba e si possa realizzare agevolmente, ipotizzando che l'art. 185 delle disp. di att. sia stato tacitamente modificato e che il riferimento in esso formalmente contenuto all’udienza ex art. 183 si debba leggere come un riferimento all'udienza ex art. 180. Ciò, sulla base del rilievo che la funzione primaria cui assolveva l'udienza ex art. 183 nell'impianto originario del Codice, dopo la Novella del 1950 ed anche in modo effimero dal 30 aprile 1995 fino al d.l. n. 238/95 era quella di udienza di comparizione delle parti. Poiché ora l'udienza di comparizione delle parti è regolata dall'art. 180 c.p.c. mi sembra che sia consentito immaginare che il frettoloso legislatore dei dd.ll. n. 238, 347 e 432/95 e poi della l. n. 534/95 abbia semplicemente dimenticato di modificare formalmente il riferimento normativo contenuto nell'art. 185. L'udienza di comparizione fissata ai sensi dell'art. 615 secondo comma, 618 primo comma e 619 secondo comma è ora, dunque, una vera e propria udienza ex art. 180. I corollari di questa ricostruzione sono i seguenti: 1c) in tale udienza possono essere compiute (ferme le attività inerenti la pronuncia sulle istanze cautelari ex art. 624 e 618 c.p.c.) solo le attività specificamente previste dall'art. 180 primo comma; 2c) ai sensi del secondo comma dell'art. 180 il giudice dell’esecuzione deve fissare necessariamente altra udienza ai sensi dell'art. 183, dando termine al convenuto (cioè all'opposto o agli opposti, anche se contumaci) per dedurre le eccezioni di merito e di rito in senso stretto; 3c) all'udienza ex art. 183 il giudice dell'esecuzione dovrà, se del caso (cioè ove le parti compaiano) procedere al loro libero interrogatorio ed al tentativo di conciliazione e dovranno essere svolte le attività previste dal quarto comma dell'art. 183 e se del caso potrà essere chiesta la trattazione scritta ai sensi dell'art. 183 quinto comma; 4c) solo dopo l'esaurimento delle attività di cui sub 3c) e quindi nella stessa udienza ex art. 183 in caso di mancata richiesta di trattazione scritta ovvero in una successiva udienza nel caso sia stata richiesta tale trattazione, il giudice dell'esecuzione dovrà applicare l'art. 616 e l'art. 619 terzo comma, provvedendo nel caso di sussistenza della sua competenza ai sensi dell'art. 184 ovvero, nel caso di insussistenza di tale competenza alla rimessione del processo avanti al giudice competente con ordinanza in caso di accordo delle parti, con sentenza secondo le normali regole in caso di disaccordo; 5c) anche il secondo comma dell'art. 618 per la parte in cui dispone circa l'istruzione della causa deve reputarsi tacitamente modificato nel senso suddetto. Il sistema delineato nei numeri precedenti è l'unico che è coerente con la struttura che le opposizioni esecutive hanno mantenuto anche dopo la recente riforma, cioè quella di ordinarie azioni di cognizione introdotte da ricorso. Il sistema così ricostruito comporta due effetti: 1d) assicura il formarsi delle preclusioni, ricollegate alla fase introduttiva, all'art. 180 ed all'art. 183, comunque nella fase avanti al giudice dell'esecuzione avanti, rendendo veramente meramente propulsivo il provvedimento di eventuale rimessione al diverso giudice competente, laddove contrasterebbe con la cennata idoneità del ricorso ad introdurre l'azione ordinaria che esse si formino successivamente avanti a quel giudice; 2d) consente che le parti e lo stesso giudice discutano della competenza nella sede normale, che, ex art. 38 c.p.c., è la prima udienza di trattazione, cioè quella ex art. 183 ed una volta avvenuta la rimessione sull'accordo delle parti la questione di competenza, salvo che sussistano gli estremi per il conflitto d'ufficio ex art. 45 c.p.c. (che considero con buona parte della dottrina ancora in vigore) sollevabile ad istanza del giudice ad quem. III. Circa la possibilità della proposizione del ricorso in forma orale in caso di opposizione all'esecuzione ex art. 615 ed in caso di opposizione agli atti esecutivi, nel corso di un'udienza del processo esecutivo (ammessa dalla giurisprudenza), mi sembra che non potranno sorgere particolari problemi, nel senso che, ferma la possibilità di discutere immediatamente sulle istanze cautelari, occorrerà fissare l’udienza ex art. 180, ma sarà necessario – mi sembra – concedere un previo termine all'opponente per depositare memoria integrativa subordinatamente all'iscrizione a ruolo della causa, per poi rispettare la normale disciplina nel senso sopra ritenuto. IV. Non mi sono soffermato sull'opposizione ex art. 512 c.p.c., perché il tema non lo richiedeva, ma rilevo comunque che quanto appena osservato circa il ricorso orale, andrà applicato senz'altro, nel senso che occorrerà fissare un'udienza ex art. 180 c.p.c., dando termine all'attore in opposizione per depositare memoria integrativa ed ai convenuti opposti per depositare comparsa entro un termine fissato a venti giorni prima dell'udienza. 13. Il procedimento sull’istanza di sospensione dell’esecuzione e quello sui provvedimenti ex art. 618 come procedimenti cautelari in corso di causa di merito. La proposta ricostruzione ha finora volutamente ignorato le problematiche relative al procedimento ex art. 664-625 in ordine alla sospensione dell’esecuzione ed ai provvedimenti inerenti il corso dell’esecuzione di cui all’art. 618 c.p.c.. Ebbene, mi sembra che il coordinamento con tali problematiche del sistema sopra delineato sia agevole e facilmente intuibile. Al riguardo va considerato che il nuovo termine di comparizione ex art. 163-bis che il giudice dell’esecuzione deve rispettare nel fissare l’udienza di prima comparizione, se aggiunto al termine concesso per la notificazione, mal si concilia con la normale esigenza di provvedere, sia pure in contraddittorio, in tempi brevi, connaturata alle dette misure. E ciò neanche in caso di abbreviazione dei termini, sulla falsariga dell'art. 163-bis comma secondo. Allo stesso modo, ove abbia luogo con il decreto di fissazione dell'udienza di comparizione l'adozione del provvedimento di sospensione dell'esecuzione inaudita altera parte o l'adozione dei provvedimenti opportuni ex primo comma dell'art. 618 sempre inaudita altera parte, attendere l'udienza di comparizione per il riesame in contraddittorio stride con il diritto di difesa e soprattutto con la disciplina generale del procedimento cautelare uniforme di cui all'art. 669-sexies, che vuole che in tempi brevi sia fissata l'udienza per l'attivazione del contraddittorio in caso di misura cautelare concessa inaudita altera parte (26). Ma in proposito non possono che tornare utili le considerazioni che si sono ampiamente svolte in precedenza, a proposito del regime anteriore alla Novella del l950 e successivo ad essa, circa la possibilità, che per la trattazione dell'istanza di sospensione e dei provvedimenti in ordine al corso dell'esecuzione ex art. 618 c.p.c., possa farsi luogo alla fissazione di un'udienza ad hoc, anteriore all'udienza di comparizione in funzione della cognizione ordinaria, nella quale saranno trattate solo quelle questioni. La medesima cosa potrà accadere per il caso di adozione di provvedimenti urgenti ex art. 618. In tal modo si verrà a realizzare una sorta di sostanziale parificazione fra le ipotesi di cognizione cautelare in discorso e quanto può accadere in una normale ipotesi di domanda cautelare presentata in corso di causa nello stesso atto di citazione (27). E ciò in piena aderenza alla natura di domanda cautelare in corso di causa che hanno sia l'istanza di sospensione dell'esecuzione, sia l'istanza per i provvedimenti ex art. 618 c.p.c. In definiva, dunque, il giudice dell'esecuzione, adito ex secondo comma dell'art. 615 o ai sensi del secondo comma dell'art. 618 o ai sensi dell'art. 619 c.p.c., ove gliene sia fatta istanza od anche d'ufficio, potrà fissare oltre all'udienza di comparizione ex art. 180 nel rispetto del termine ex art. 163-bis c.p.c., altra udienza per la preventiva trattazione dell'istanza cautelare di sospensione o di adozione dei provvedimenti ex art. 618 c.p.c., nella quale avrà luogo la sola trattazione di tali istanze e la parte opposta non sarà tenuta a costituirsi ai fini dello svolgimento della cognizione ordinaria, ma solo ai fini della cognizione dell'istanza cautelare. A seguito della relativa trattazione, che potrà anche protrarsi ad altra udienza le parti saranno rimesse all'udienza ex art. 180, nella quale il giudizio seguirà il corso che ho descritto sopra. Analogamente, ove con il decreto di fissazione dell'udienza di comparizione ex art. 180 si sia provveduto inaudita altera parte mi sembra che si potrà fissare (come avveniva anche nella stesura originaria del Codice del 1940) un'udienza anticipata per la sola trattazione della questione della conferma o modifica del provvedimento, con successiva rimessione delle parti all'udienza ex art. 180. Ed eventualmente, per chi accolga l'idea che il procedimento cautelare uniforme possa estendersi ove compatibile anche ai procedimenti cautelari previsti dal c.p.c. fuori del capo III del titolo I del quarto libro del Codice, si potrebbe sostenere che nel fissare l'udienza di conferma il giudice del'esecuzione debba osservare i termini del secondo comma dell'art. 669-sexies. Da ultimo e per concludere, debbo rilevare che, se si accetta l'idea che l'ordinanza di sospensione dell'esecuzione sia ormai senz'altro revocabile e modificabile ai sensi dell'art. 669decies (28) dal giudice del merito si dovrebbe immaginare che nel caso di fissazione dell'udienza anticipata per la trattazione della misura cautelare e di sua concessione a seguito di essa, all'udienza ex art. 180 e fino all'eventuale rimessione al diverso giudice competente, nonché anche successivamente, qualora la rimessione non debba avvenire, un'eventuale istanza di revoca o modifica possa essere rivolta al giudice dell'esecuzione non ancora spogliatosi della causa. (1) Figura, peraltro, che, com’è noto, può assolvere nel processo civile anche a funzioni diverse da quelle della proposizione della domanda giudiziale: per un’efficace dimostrazione di questo assunto e per l’attribuzione al ricorso della connotazione più generica di atto processuale, rimando a CORDOPATRI, Ricorso (dir. proc. civ. ), voce dell’Enciclopedia del diritto, vol. XV, MILANO, 1989, pp. 740 e ss. (2) È questa l’impostazione del PROTO PISANI, Lezioni di diritto processuale civile, Napoli, 1994, 737. (3) Si veda per questa seconda impostazione E. DE FRANCISCI, I giudizi di cognizione ordinaria introdotti con ricorso, dopo l’entrata in vigore della riforma del processo civile di cui alla legge n. 353/90 e successive modificazioni: il procedimento possessorio, l’opposizione all’esecuzione ed agli atti esecutivi, i giudizi di separazione e divorzio, ecc., in Giur. It., 1995, IV, 342, testo e nota 3. (4) Per una rassegna vedi DE FRANCISCI, op. cit., 343 e ss. (5) Alludo a DE FRANCISCI, op. cit. ed a DI BENEDETTO, Giudizi civili introdotti con ricorso nella disciplina della novella, in Documenti Giustizia, 1995, 1310 e ss. (6) Per la verità nell’opposizione di terzo all’esecuzione il secondo comma dell’art. 619 c.p.c. dice che il termine per la riassunzione deve essere fissato all’opponente, apparentemente sottintendendo che solo costui può procedere alla riassunzione avanti al giudice competente: in proposito si veda SALETTI, La riassunzione del processo civile, Milano, 1981, 217. (7) Sulla questione dell’ammissibilità o meno della sospensione dell’esecuzione a seguito di opposizione agli atti esecutivi, nonché sulla spiegazione del riferimento all’adozione dei provvedimenti opportuni di cui si dice nell’art. 618 c.p.c., vedi per tutti LUISO, Sospensione dell’esecuzione, voce dell’Enciclopedia del Diritto, vol. XVIII, Milano, 1990, 65 e ss. (8) Vi erano, poi, maggiori termini per il caso che la notificazione fosse avvenuta nelle colonie, all’estero o per pubblici proclami. (9) L’art. 183 nel testo risultante dalla Novella del 1950 e rimasto in vigore fino al 29 aprile 1995, diceva: “Nella prima udienza di trattazione le parti possono precisare o, quando, occorre, modificare le domande, eccezioni e conclusioni formulate nell’atto di citazione e nella comparsa di risposta” esattamente come nel testo originario del Codice del 1940, ma, come subito notò la dottrina l’abrogazione degli originari commi secondo e quarto (il terzo comma, divenuto il secondo, era quello sulla richiesta di chiarimenti da parte del giudice), combinata al nuovo testo dell’art. 184, sanciva l’eliminazione delle preclusioni alle allegazioni e probatorie (salvi i limiti indicati nel testo) in prima udienza; si veda per tutti ANDRIOLI, Commento al codice di procedura civile, vol. II, terza ed., Napoli, 1961, su artt. 183 e 184). L’art. 184 nel testo novellato dalla riforma del 1950 stabiliva, infatti che “durante l’ulteriore corso del giudizio davanti al giudice istruttore, e finché questi non abbia rimesso la causa al collegio, le parti, salvo applicazione, se del caso, delle disposizioni dell’articolo 92 in ordine alle spese, possono modificare le domande, eccezioni e conclusioni precedentemente, formulate, produrre nuovi documenti, chiedere nuovi mezzi di prova e proporre nuove eccezioni che non siano precluse da specifiche disposizioni di legge”. (10) Si tratta di Trib. Roma, 23 gennaio 1967 (in Temi romana, 1967, 433 ed in Giust. civ., Rep. 1968, voce Esec. forzata, n. 75), secondo cui l’art. 615 u.p. c.p.c. non prevedeva che il pretore giudice dell’esecuzione, adito con opposizione all’esecuzione già iniziata, dovesse osservare, nel fissare l’udienza di comparizione il termine di comparizione ex art. 313 c.p.c., ma, in caso di omissione di fissazione di un preciso termine, si dovesse notificare entro un termine utile per osservare il termine di comparizione ex art. 313. (11) Cass. 4 ottobre 1962, n. 2806, in Foro it., 1963, I, 409 e Trib. Firenze 20 marzo 1953, in Giur. Toscana, 407 affermarono che il giudizio di cognizione, conseguente alla opposizione di terzo, iniziava solo davanti al giudice competente per valore, cui fosse stata rimessa la causa, mentre Cass. 18 maggio 1971, n. 1491, in Giust. civ., Mass. 1971, 810 affermò implicitamene il contrario, pur sostenendo erroneamente che la costituzione avvenuta nella fase avanti al giudice dell’esecuzione comportasse, a seguito della mancata sostituzione avanti al giudice del merito, una mera assenza e non una contumacia nell’ambito di tale fase processuale. Sul fatto che la riassunzione a seguito di c.d. traslatio iudicii comporti, in dipendenza del mutamento dell’organo giudicante, la necessità di una nuova costituzione avanti ad esso, si veda per tutti esaurientemente, anche per citazioni di dottrina e giurisprudenza, SALETTI, La riassunzione del processo, Milano, 1981, 193. (12) per tutti si veda autorevolmente ORIANI, Opposizione all’esecuzione, in Digesto delle discipline privatistiche, sez. Civile, vol. XIII, Torino, 1995, 603, il quale, dopo avere affermato che la fissazione dell’udienza di comparizione non doveva rispettare i termini di comparizione di cui agli articoli 163-bis e 313, giustifica tale affermazione in modo che mi sembra del tutto insufficiente, sia in sé e per sé considerato, sia perché non tiene in alcun conto il significato delle disposizioni degli articoli 184 e 185 disp. att. c.p.c. Sotto il primo aspetto il rilievo che il processo esecutivo non tollerava quei termini trascura di considerare sia le precisazioni svolte nel testo in ordine alla possibilità di una loro abbreviazione, sia la possibilità di una fissazione anticipata di un’udienza per la sola trattazione della questione di sospensione dell’esecuzione e dei provvedimenti ex art. 618 c.p.c., sia la circostanza della normale esiguità del termine per 1a comparizione avanti al pretore anche al di là della riduzione. Sotto il secondo aspetto, l’autorevole opinione non considera che l’art. 184 disp. att. c.p.c. – come si è cercato di dimostrare nel testo, già con riguardo alla stesura originaria del Codice – vuole che la domanda formulata nel ricorso introduttivo dell’opposizione abbia in buona sostanza gli stessi elementi della domanda introdotta con citazione, cosa che non può che significare, una volta posta in relazione con la previsione che l’udienza di comparizione è udienza ex art. 183, l’intenzione del legislatore di ricollegare al ricorso la funzione di atto introduttivo della stessa cognizione ordinaria. (13) Sui quali mi permetto di rinviare ai miei commenti in D’AIETTI-FRASCAMANZIMIELE, Processo Civile: la decretazione d’urgenza, Milano, Pirola, 1995. (14) Rimando al mio commento in Processo civile, etc., cit., 51 e ss. (15) Con più che probabile impedimento ad una rilevazione da parte del giudice nella prima udienza di comparizione: per la dimostrazione di tale assunto si veda ancora quanto scrivo nell’op. cit. nella nota precedente, 53 e ss. (16) Pertanto resta pienamente attuale la costruzione della riassunzione come atto meramente propulsivo di un giudizio iniziato con la formulazione della domanda fin dal ricorso: su di essa vedi SALETTI, op. cit., 214 e ss. (17) Non mi pare, invece, che possa essere d’ostacolo ad un’ipotesi ricostruttiva nel senso che la domanda introduttiva della cognizione ordinaria non sia introdotta fin dal ricorso, il rilievo che, se sorge contrasto sulla competenza, il giudice dell’esecuzione debba pronunciare con sentenza (sul punto vedi SALETTI, op. cit., 215, anche per riferimenti di dottrina e giurisprudenza): invero, si potrebbe pensare che ciò sia comunque compatible con la formulazione della domanda nella stessa udienza dopo la pronuncia dei provvedimenti sulla sospensione o sul corso dell’esecuzione. (18) In questo senso già DI BENEDETTO, op. cit., 1318. (19) Non condivido, dunque, la contraria opinione del DE FRANCISCI, op. cit., 354-356, testo e nota 79, secondo cui le dette attività potrebbero essere compiute all’udienza di comparizione. (20) Come fa il DE FRANCISCI, op. cit., 345, nota 18. (21) In termini per ragguagli si veda il Codice di procedura civile, a cura di N. Picardi, Milano, 1994, sub art. 152. (22) Le parole virgolettate nel testo sono autorevoli, anche se dettate con riguardo ai procedimeni cognitivi concorsuali introdotti con ricorso (su cui in generale vedi FABIANIPANZANI, La riforma del processo civile e le procedure concorsuali, Padova, 1994, i quali in generale reputano incompatibile l’avviso ex n. 67 del’art. 163 con i processi introdotti su ricorso). Sono, infatti, del TARZIA, Procedure concorsuali e riforma del processo civile, in Riv. dir. proc., 1992, 737. (23) Cass. 16 novembre 1989, n. 4876 per tutte. Contra la dottrina: per tutti ORIANI, op. cit., 604. (24) Le considerazioni svolte nel testo mi sembra che siano sufficienti a far reputare, attraverso un intervento meramente interpretativo, che l’avvertimento debba essere formulato nel decreto di fissazione dell’udienza e scongiurano l’eventale prospettazione di una questione di legittimità costituzionale diretta a sollecitare una pronuncia additiva della Corte Costituzionale (ipotesi per chi, invece, propendono VERDE-DI NANNI, Codice di procedura civile, Torino, 1993, 84-85). (25) Solo abbandonando l’ottica di cui nel testo si poteva sostenere che l’udienza fissata con il decreto non fosse una vera udienza ex art. 183: si veda DE FRANCISCI, op. cit., 354, nota 70, il quale ipotizza che fossero applicabili solo i primi tre commi dell’art. 183, ma non il quarto ed il quinto o che addirittura l’art. 185 c.p.c. si dovesse reputare abrogato tacitamente. (26) E ciò al di là della possibilità di estendere quella disciplina in alcuni punti alle ipotesi in discorso: su cui vedi per un primo approccio PROTO PISANI, La nuova disciplina del processo civile, Napoli, 1991, 396 e ss. (27) Sulla possibilità che possa essere fissata un’udienza anticipata rispetto a quella di cognizione ordinaria per la sola trattazione della domanda cautelare in corso di causa, proposta nella citazione mi permetto di rinviare a quanto scrivo in D’AIETTI-FRASCA-MANZI-MIELE, I provvedimenti cautelari, sec. ed. 1993, Milano, 155-156, anche per ulteriori riferimenti di dottrina. (28) In termini si veda l’ampia motivazione di Pret. di Torre Annunziata, Sez. dist. di Pompei, 25 marzo 1994, in Foro It., 1994, 1, 2269 (in senso contrario, invece, Pret. Napoli, ord. 14 gennaio 1994, ivi, 1622, non senza singolarità dello stesso estensore). In generale sulla questione della revocabilità prima della normativa sul procedimento cautelare uniforme si veda il Codice di procedura civile, a cura di PICARDI, cit., su art. 625. QUESTIONI CONTROVERSIE IN MATERIA DI PROVVEDIMENTI ANTICIPATORI Relatore: dott. Franco DE STEFANO pretore della Pretura circondariale di Salerno SOMMARIO: I cosiddetti provvedimenti anticipatori. – Il testo delle norme, con quelle di riferimento e il testo coordinato. – Premessa. – Capitolo primo: sull’ordinanza ex art. 186 bis c.p.c. - 1. Quali sono le “somme non contestate” per le quali può essere concessa? - 2. A partire da quando può essere concessa? - 3. Vi sono limiti alla discrezionalità nella concessione? - 4. Può essere concessa nei giudizi con più parti e, se sì, nei confronti di alcune solo di esse, anche quando vi è contumacia di alcune? - 5. È ammissibile in un giudizio soggetto al c.d. rito locatizio? - 6. È ammissibile in un giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo (e, in caso affermativo, a partire da quando?)? – Capitolo secondo: sull’ordinanza ex art. 186 ter c.p.c. - 1. È ammissibile in un giudizio soggetto al rito c.d. locatizio? - 2. È ammissibile in un giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo (e, in caso affermativo, a partire da quando?)? - 3. Vi sono margini o limiti di discrezionalità nella concessione? - 4. A partire da quando può essere concessa? - 5. Quali sono i presupposti della provvisoria esecuzione dell’ordinanza nei confronti del convenuto costituito? - 6. Quali sono le facoltà processuali consentite al convenuto contumace che si costituisca dopo la notifica dell’ordinanza ingiuntiva? - 7. Qual è il valore dell’ordinanza una volta che sia estinto il processo? I cosiddetti provvedimenti anticipatori (1) - Il testo delle norme (1) Relazione dei senatori Acone e Lipari in Foro it., 1990, V, 406 ss. e spec. 420. Premessa (2) I riformatori del codice di rito del 1990/1995 devono avere avuto chiara almeno un’idea: che un processo lento o un processo lungo fossero di per se stessi intollerabili. Ma deve essere apparso inumano e quindi inutile lo sforzo di recuperare la funzionalità di un processo ordinario, che si potesse concludere in tempi ragionevoli con una sentenza e quindi con una tutela piena e completa delle ragioni di tutte le parti. E, di fronte alla diagnosi di irrecuperabilità del processo ordinario, è parso preferibile introdurre meccanismi che ne rendessero in qualunque modo più rapida la definizione, a prescindere dalla pienezza della cognizione nel singolo caso: e molti sono stati gli interventi parziali, che hanno innestato nel corpo del processo strumenti di sensibile sommarizzazione. È stato studiato un sistema di preclusioni, dapprima rigido e poi un tantino attenuato, ma soprattutto sono stati introdotti un procedimento cautelare uniforme – a riprova di una tendenza a considerare la tutela cautelare come un surrogato generale di quella ordinaria – e poi una serie di istituti alternativi alla sentenza, adottabili con la forma delle ordinanze e soprattutto idonei a costituire titolo esecutivo a prescindere dall’emanazione della sentenza (3). L’avvilente conclusione è che per ridare fiato al processo è bene consentire ai giudici di fare sentenze il meno possibile: e che una pronunzia, quale che sia e non importa con quali effettive garanzie per la tutela dei diritti, sul merito della questione è meglio di niente purché sia rapida e tendenzialmente definitiva. In questo quadro si inseriscono le ordinanze di cui agli articoli 186 bis, ter e quater del codice di procedura. Le prime due – oggetto della presente trattazione – hanno sicuramente tra loro in comune la natura di titolo esecutivo e di anticipazione della sentenza di condanna (4). A dispetto della loro comunque evidente interinalità (5), non si tratta di provvedimenti cautelari, in considerazione essenzialmente: a) della loro efficacia eteroprocessuale, quale si ricava dall’ultrattività prevista per i casi di estinzione del processo in cui sono pronunziati; b) della mancanza di una loro strumentalità rispetto ad una pronunzia di merito successiva (6), visto che una statuizione di merito a cognizione piena potrebbe anche non esserci mai, senza che per questo la loro efficacia venga meno; c) della carenza della necessità di ogni valutazione del periculum in mora (7), per essere i presupposti di concedibilità ancorati sostanzialmente ad una delibazione del buon diritto della parte istante. Non si tratta, d’altro canto, di provvedimenti decisori, attesa la loro persistente revocabilità e modificabilità, che si traduce in una loro intrinseca inidoneità al giudicato; e, quanto all’ordinanza ex art. 186 bis c.p.c., nemmeno può affermarsi la natura negoziale (8), visto che la non contestazione pare operare più che altro, come si vedrà, sul piano della pacificità dei fatti e quindi del superamento dell’onere della prova in favore della parte istante. E si dubita della loro riconducibilità all’istituto della condanna con riserva, sia pure con esclusivo riguardo alla natura provvisoria dell’ordinanza (9): nonostante che, sotto questo specifico aspetto, più di uno spunto ricostruttivo potrebbe trarsi dalle contigue figure dell’ordinanza provvisoria di rilascio nel procedimento di convalida di licenza o sfratto (10) e, soprattutto, dell’ordinanza di concessione della provvisoria esecuzione nel corso dell’opposizione a decreto ingiuntivo (11). In buona sostanza, per quanto all’esito di cospicue elaborazioni dottrinali, i provvedimenti in esame possono inquadrarsi nei cc.dd. accertamenti a prevalente funzione esecutiva di chiovendiana memoria (12), ovvero nei cc.dd. provvedimenti sommari-semplificati-esecutivi (13), in quanto caratterizzati da una cognizione sommaria, mediante la quale si accertano cioè solo alcuni dei fatti e alcuni dei diritti in contesa. Anche se notevoli conseguenze sul piano ricostruttivo potrà avere l’interpretazione della norma che prevede la conservazione dell’efficacia in caso di estinzione, comunque, la funzione delle due ordinanze in esame è certamente quella di anticipare gli effetti di una pronunzia favorevole a chi chiede la condanna di controparte a specifiche prestazioni di dare (o di consegnare le cose specificamente indicate dall’art. 186ter): con questa specificazione, quindi, essi possono essere senz’altro ellitticamente definiti come procedimenti anticipatori (14). E, nonostante gravi dubbi sull’utilità concreta delle misure come disegnate dalla legge di riforma (15), si tratta di istituti di grosso rilievo teorico, la verifica del cui rilievo pratico potrà operarsi solo sulla base dell’esame delle prassi applicative (16). Capitolo primo: sull’ordinanza ex art. 186bis 1. Quali sono le “somme non contestate” per le quali può essere concessa? La possibilità di pronunziare provvedimenti giudiziali sulla base della non contestazione (17) di una delle parti non costituisce una novità nel nostro processo. Anzi, oltre all’ordinanza di pagamento di somme non contestate di cui all’art. 423 co. 1 cod. proc. civ. (18), si richiama correntemente anche l’esempio degli artt. 263 c.p.v. e 264, co. 1 e 2, in tema di rendiconti (19) e loro approvazione, nonché dell’art. 666 cod. proc. civ.., in tema di pagamento di canoni di locazione non contestati (20). È vero che la non contestazione, d’altro canto, viene indicata come presupposto per l’emanazione di altri titoli giudiziali, quali l’ordinanza di convalida di licenza o sfratto (ai sensi dell’art. 663 cod. proc. civ.) o quella contigua di cui all’art. 30 c.p.v. L. 392/78; né si può dimenticare che la non contestazione è persino il presupposto della definitività del decreto ingiuntivo, ai sensi dell’art. 647 cod. proc. civ.; e, in generale, si tratta pur sempre di un comportamento rilevante ai fini processuali, non solo come indizio o argomento di prova, ma talvolta persino come ammissione implicita. Tuttavia, la rilevanza della non contestazione non è riconducibile ad un unitario concetto. Quanto ai procedimenti di convalida di licenza o sfratto e a quelli per decreto ingiuntivo, essa opera, in virtù di un sistema rigido e ben delineato di preclusioni, nel senso della formazione di un titolo esecutivo giudiziale definitivo e con forza ed efficacia in tutto equiparate al giudicato (21); ed a diversi fini essa rileva, invece, nel procedimento di rendiconto. In definitiva, nelle ordinanze di pagamento di somme non contestate bisogna stabilire cosa abbia ad oggetto la non contestazione, al fine di stabilire il suo esatto ambito e, quindi, quello della cognizione del giudice e dell’efficacia del risultato di tale cognizione: da un lato, invero, si sostiene che a non essere contestati debbano essere i fatti costitutivi del diritto azionato dal creditore; dall’altro, che la non contestazione attenga ai diritti in sé considerati. Nel primo caso la non contestazione del convenuto costituito varrebbe come mera ammissione dei fatti costitutivi stessi ed esonererebbe l’attore dall’onere di provarli ed il giudice soltanto dalla verifica della sussistenza di prove a loro sostegno: ma non lo esimerebbe dalla verifica della legittima conseguibilità degli effetti voluti dal creditore sulla base della non contestazione dei fatti costitutivi (22). Nel secondo caso, al contrario, pur non sussistendo una vera e propria base negoziale del provvedimento, la non contestazione – fino ad un’eventuale revoca successiva, operata a seguito di una diversa valutazione in fatto e in diritto delle circostanze – darebbe luogo ad un vero e proprio riconoscimento della fondatezza della domanda (23); ed una prima conseguenza dovrebbe essere una sorta di automatismo nell’emanazione dell’ordinanza, che dovrebbe limitarsi a dare atto dell’avvenuto riconoscimento (24). Altri ancora, negando validità alla figura del riconoscimento della fondatezza dell’avversa pretesa, ammette che la non contestazione abbia valore di confessione o di ammissione dei fatti posti a base della domanda (a seconda che provenga dalla parte di persona o dal suo procuratore), poiché essa, pur riguardando il diritto, non potrebbe avere riguardo che ai fatti che lo costituiscono (25): e quindi il giudice potrà respingere la domanda se si convince che ragioni di diritto escludano l’idoneità dei fatti posti a base della domanda a dare vita al diritto azionato. Il secondo criterio interpretativo non convince. E ciò non certo per la critica secondo cui la sua adozione ridurrebbe ulteriormente l’ambito di pratica esperibilità dell’istituto: la funzione deflattiva di quest’ultimo è piuttosto un postulato ed un obiettivo, ma la sua compatibilità col dato normativo e con il sistema giuridico complessivo va pur sempre valutata. Neppure pare cogliere nel segno la critica secondo la quale il riconoscimento del diritto dovrebbe essere incompatibile con la revoca e la modifica successive: visto che queste ultime pure potrebbero aver luogo, per quanto all’esito di una nuova delibazione in iure ed in facto sulla base della contestazione stessa e delle successive repliche o attività o deduzioni istruttorie (26). Il motivo vero è che il secondo criterio interpretativo – e, in definitiva, l’identificazione dell’oggetto della non contestazione nel diritto in sé anziché nei suoi fatti costitutivi –, anche se fondato sulla letteralità dell’espressione della disposizione (che riferisce la non contestazione alle “somme” e non ai fatti costitutivi) non può essere seguito, visto che il giudice ha sempre l’obbligo, tranne le sole espresse eccezioni previste dalla legge (27), di condurre il giudizio di diritto alla stregua di una verifica di legittimità delle pretese sottoposte al suo vaglio (28). E non sarà allora il solo caso dell’obbligazione naturale, ma potrà attribuirsi rilevanza ad un’interpretazione complessiva delle difese del convenuto, anche tra loro comparate, al fine di valutare se sussista o meno la non contestazione del fatto costitutivo, la quale potrebbe essere inficiata, ad esempio, dall’adduzione di un fatto storico sicuramente incompatibile, o, comunque, dall’indicazione di circostanze che possano comportare un’incompetenza o altro impedimento in rito. Significativamente, quindi, è stata denegata l’ordinanza nel caso in cui il convenuto aveva addotto eccezioni tali da paralizzare l’efficacia fondante della causa petendi (29). Ciò posto, la contestazione non può certamente essere equivoca: peraltro, a seconda del regime processuale applicabile e, in particolare, della soggezione del singolo processo al c.d. nuovo rito, ovvero al c.d. vecchio rito, occorre valutare se il convenuto avesse o meno, dinanzi alla complessiva impostazione di controparte, un onere specifico di contestazione attiva, non assolto il quale il fatto possa ritenersi pacifico. Si è sostenuto che nelle cause soggette al c.d. vecchio rito non si potrebbe desumere una non contestazione da condotte generiche o anche dal solo silenzio del convenuto, mentre, al contrario, nelle cause soggette al c.d. nuovo rito il sistema disegnato dagli artt. 167, 183, 184 e 184 bis cod. proc. civ.. dovrebbe comportare l’abbandono dell’equazione tra silenzio e comportamento non significativo (30). Per quanto sicuramente attenuato con la c.d. controriforma del 1995, nel c.d. nuovo rito il sistema di preclusioni a carico del convenuto sussiste ancora. È ben vero che rimane ferma la possibilità, per il convenuto, di addurre meri fatti storici ovvero circostanze integranti eccezioni rilevabili di ufficio anche dopo il termine perentorio fissato ex art. 180 co. 2 ult. parte, ovvero ex art. 183 co. 5. Tuttavia, la carenza di idonea e specifica contestazione, soprattutto alla luce delle risposte rese in sede di interrogatorio ai sensi dell’art. 183 co. 1 (e, vien fatto di specificare, anche alla luce, ex art. 116 cod. proc. civ., delle risposte non rese, finanche per mancata comparizione all’udienza per l’interrogatorio) deve potersi interpretare come carenza di contestazione specifica, idonea quindi a fondare il presupposto per l’ordinanza. E ciò tanto più se si accetta l’idea della previa instaurazione del contraddittorio sull’istanza ex art. 186 bis, a qualunque rito sia soggetta la causa (31). Anzi, tale modus procedendi consentirebbe di giungere a conclusioni sostanzialmente analoghe anche per le cause soggette al rito c.d. vecchio. Infatti una volta esteso anche a tali cause il regime e lo strumento dell’art. 186 bis cod. proc. civ., se si ammette che sulla relativa istanza debba provvedersi solo dopo aver sentito al riguardo l’ingiungendo, si può bene ipotizzare un onere, in capo a colui contro cui essa è dispiegata, di puntualizzare in modo specifico la sua posizione in merito ai fatti costitutivi coinvolti dall’istanza ex art. 186 bis (32). In definitiva, ampi spazi si aprono alla qualificazione del silenzio quale presupposto su cui fondare l’ordinanza in parola. Peraltro, nonostante ciò possa sembrare un’interpretazione particolarmente severa nei confronti del convenuto, sulla base degli stessi principi può pure decisamente negarsi che possa rilevare una apparente non contestazione operata anteriormente al giudizio (33): proprio perché egli ha sì l’onere, ma al tempo stesso la piena facoltà di contestare sino ad un certo momento dello svolgimento del processo, a nulla rileverebbe – di per se stessa considerata – una sua condotta anteriore a quest’ultimo, a meno che essa non sia confermata da un’ammissione espressa o da un silenzio significativo in corso di causa e prima (ed ai fini) della pronunzia sull’istanza di ordinanza ex art. 186bis cod. proc. civ. La possibilità di una contestazione successiva all’emissione dell’ordinanza, che pure non viene esclusa, dovrà naturalmente sottostare al diverso regime previsto per le cause soggette al vecchio e al nuovo rito. Nel vecchio rito, almeno fino alla precisazione delle conclusioni, il convenuto ha ancora ampi margini di manovra. Nel nuovo, il convenuto non può, se non con riguardo ai fatti storici o a quelli integranti impedimenti processuali o eccezioni rilevabili di ufficio, modificare l’impostazione difensiva come cristallizzata all’esito della definitiva contestatio litis ex art. 183 nss. (34) cod. proc. civ., salvi i soli casi rilevanti ex art. 184 bis cod. proc. civ. Brevemente, ci si chiede se le somme non contestate possano essere limitate agli interessi (35) (o, verrebbe da dire, in generale agli accessori): ed influisce in senso negativo la risposta data dalla giurisprudenza di legittimità ad analogo quesito in tema di art. 423 cod. proc. civ. (36). Eppure, richiamata la soluzione della disputa in ordine all’ambito della non contestazione, non si coglie alcuna valida ragione per escludere dall’oggetto dell’ordinanza ex art. 186 bis cod. proc. civ. qualunque somma di denaro, a qualsiasi titolo spettante, ove non contestati ne siano i fatti costitutivi (37). Per concludere, deve accennarsi alla disputa in ordine alla necessaria parzialità della contestazione: sostenendo alcuni (38) che, ove la non contestazione fosse totale, l’ordinanza non sarebbe ammissibile per essere ormai la causa pronta per essere decisa con sentenza; e ribattendo altri che, invece, tale conclusione non è sorretta da alcun dato normativo e che, anzi, potrebbe sussistere un interesse del creditore a conseguire immediatamente, nelle agili e snelle forme dell’ordinanza, un titolo esecutivo, anziché attendere i tempi di una sentenza (39). La soluzione dipende dal ruolo che ai provvedimenti in esame si vuole attribuire. Se, come si auspica, essi non debbono tendere a rimpiazzare, come una sorta di giustizia sommaria, la tutela ordinaria che viene apprestata dall’ordinamento con la sentenza, effettivamente la discrezionalità dell’emissione dell’ordinanza andrebbe – per così dire – autolimitata dal giudice, il quale, anziché emanare subito un’ordinanza e poi una sentenza, entrambe aventi il medesimo contenuto (40), dovrebbe garantire alla parte la maggiore tutela derivante dalla sentenza e provvedere ad emetterla in tempi brevi, equivalenti a quelli dell’emissione dell’ordinanza e con un contenuto equivalente anche quanto a diffusione. In altri termini, fermo restando che non può parlarsi di preclusione dell’ordinanza, visto che la discrezionalità riconosciuta dalla norma non può essere conculcata in via di interpretazione, si tratterebbe allora di argomentare per l’inopportunità dell’emissione dell’ordinanza, in vista dell’interesse poziore della parte e dell’ordinamento a definire il processo con una pronunzia a cognizione piena (41). 2. A partire da quando può essere concessa? (42) Se il fondamento dell’ordinanza ex art. 186 bis è la non contestazione, per stabilire da qual momento essa possa essere concessa è necessario e sufficiente ricostruire, in base a quanto fin qui argomentato e a seconda della soggezione della singola causa al rito c.d. nuovo o al rito c.d. vecchio, fino a quando il convenuto abbia l’onere, ma – simmetricamente parlando – anche la possibilità, riconosciutagli dal codice di rito, di operare quelle contestazioni. In primo luogo, visto che l’ordinanza non può essere concessa che contro la parte costituita, essa sarebbe certamente inammissibile prima del termine concesso al convenuto per costituirsi (43): il quale è quello di venti – o dieci, nei casi di urgenza – giorni prima dell’udienza di comparizione indicata in citazione (ovvero da quella come differita ai sensi dell’ultimo comma dell’art. 168bis cod. proc. civ., norma certamente rimasta in vigore, anche se oramai dall’applicazione di ben difficile giustificabilità da parte del singolo giudice). Più radicalmente, peraltro, non può dimenticarsi che, persino nel nuovo codice di rito, sono sì imposte delle rigide preclusioni al convenuto, ma entro ben precisi termini: che, anzi, con la c.d. controriforma del 1995 sono stati finanche attenuati. In altri termini, se è vero che al convenuto incombe una serie di oneri processuali anche molto gravosi, è pur vero che sarebbe illegittimo privarlo dei tempi e dei modi che il codice di rito ha previsto per il loro assolvimento. Quindi, il termine di costituzione ex art. 167 cod. proc. civ. incide certamente sulla stessa ammissibilità dell’ordinanza: posto che (ferma certamente la facoltà, per la parte istante, di avanzare l’istanza sin dall’atto di citazione o persino con atto ad esso successivo ma anteriore alla prima udienza di comparizione) sino alla scadenza dei termini per la costituzione del convenuto, non si può ancora stabilire se questi sia contumace o meno e, quindi, se l’ordinanza, prevista dalla norma solo contro le parti costituite, sia ammissibile oppur no. Ma il convenuto ha la possibilità di contestare i fatti posti a base della domanda almeno sino al momento in cui liberamente interrogato, egli potrebbe, conformemente allo spirito della riforma del codice di rito, avere il contatto diretto con il suo giudice e finanche, sull’impulso e l’intervento di quest’ultimo, conciliare la causa. Non si tratta solo di sottolineare come non avrebbe alcun senso un libero interrogatorio volto a tentare di conciliare le parti una volta che sia stata emessa un’ordinanza, avente valore di titolo esecutivo, idonea a sbilanciare – per quanto temporaneamente – l’equilibrio delle parti in danno di una delle parti stesse (44). Si tratta, invece, di valutare come la contestazione possa essere del tutto legittimamente operata dal convenuto non solo fino al termine perentorio per la proposizione delle eccezioni processuali e di merito non rilevabili di ufficio (di cui al nss. testo dell’art. 180, co. 2, ult. parte, cod. proc. civ.), ma anche, con l’adduzione di meri fatti storici o altri – integranti mere difese, ma involgenti impedimenti processuali o eccezioni rilevabili di ufficio –, fino al momento in cui egli sia liberamente interrogato ai sensi del primo comma dell’art. 183, nss. t., cod. proc. civ. Anzi, a ben guardare, egli potrebbe ancora contestare le avverse pretese entro il termine perentorio, che eventualmente (con molta sagacia...) egli chiedesse ai sensi dell’ultimo comma dell’art. 183, nuovissimo testo. Ora, per quanto odiosa (e certamente deprecabile ex art. 88 cod. proc. civ., se non persino censurabile in sede di liquidazione delle spese, e non solo ex art. 96 cod. proc. civ.) o dilatoria possa apparire tale condotta, non si possono negare al convenuto le garanzie di difesa riconosciutegli dal codice: del resto, all’uso distorto delle garanzie non si risponde amputandole, ma facendole funzionare il meglio possibile. Sotto il profilo del non esaurimento della facoltà di operare validamente la contestazione della pretesa attorea (ma sempre fatta salva la valutazione del caso concreto) (45), deve escludersi che l’ordinanza ex art. 186 bis cod. proc. civ. sia concedibile prima del libero interrogatorio ex art. 183 co. 1 (46), ovvero, in caso di espressa richiesta di termine ex art. 183 ult. co. anche ai fini dell’eventuale contestazione, fino alla scadenza dei termini obbligatoriamente concessi ai sensi di tale ultima disposizione (47). Non rientra nel tema da trattare l’individuazione del termine finale per la concessione – che si individua nella precisazione delle conclusioni (48), anche in caso di intervenuta rimessione della causa dalla fase di decisione in istruttoria (49) –, né la disamina della disputa sulla concedibilità dell’ordinanza durante la sospensione o l’interruzione del processo (disputa innescata soprattutto dalla carenza, per l’ordinanza ex art. 186 bis, dell’espressa dizione, adoperata invece per quella ex art. 186 ter, della concedibilità in ogni stato e grado del processo) (50). 3. Vi sono limiti alla discrezionalità nella concessione? La questione della sussistenza della discrezionalità del giudice nella concessione o meno dell’ordinanza in esame prende generalmente le mosse dalla disamina del tenore lessicale della disposizione ed anche dalla sua comparazione con quello dell’art. 423 co. 1 cod. proc. civ.: visto che, nell’art. 186 bis, si specifica bene che il giudice può (51) disporre il pagamento, mentre il Pretore del lavoro, dal canto suo, dispone – senz’altro – il pagamento delle somme non contestate. Ora, quand’anche un’effettiva differenza vi sia tra le espressioni “può disporre” e “dispone” nei testi degli articoli 186 bis e 423 co. 1, nel senso di una sorta di obbligatorietà della concessione nel rito del lavoro, questa bene potrebbe giustificarsi per la peculiarità del rapporto dedotto in giudizio e per la delicatezza e la rilevanza che, quasi per definizione, rivestono le obbligazioni pecuniarie per un lavoratore subordinato (sia dal lato passivo che da quello attivo). Naturalmente, in nessun caso potrebbe negarsi la possibilità di un controllo del giudice sulla sussistenza dei presupposti per la concedibilità di questa ordinanza, come di qualunque altro provvedimento; e ciò nemmeno nei casi in cui si volesse ritenere che, dinanzi alla non contestazione, il giudice sia esentato dal giudizio di diritto. Ma tale controllo – o, se si vuole, tale sillogismo di sussunzione della fattispecie concreta entro il paradigma legale – non attiene in senso stretto alla discrezionalità, visto che esso non è nient’altro che la mera estrinsecazione dell’attività di decidere, propria della giurisdizione. Né attiene alla discrezionalità la necessità di una previa istanza di parte (espressamente affermata sia dall’art. 186 bis che dall’art. 423 co. 1), visto che la qualità o la struttura dell’impulso non incide necessariamente sulla natura del potere del giudice. Ora, si è più sopra visto (52) come il giudice, per poter concedere l’ordinanza in questione, debba almeno: 1. verificare che vi sia la non contestazione, da parte del convenuto costituito, dei fatti costitutivi; 2. verificare che il convenuto costituito non abbia dispiegato eccezioni di merito; 3. valutare in iure sia l’idoneità dei fatti dedotti dal creditore a produrre gli effetti da lui affermati, sia l’assenza di fatti impeditivi, modificativi od estintivi risultanti dagli atti o rilevabili di ufficio; 4. delibare l’infondatezza delle eccezioni di rito sollevate dal convenuto e l’inesistenza di impedimento di rito rilevabili d’ufficio. Ma, una volta che il giudice abbia rilevato la concedibilità della chiesta ordinanza per avere riscontrato la sussistenza, nel caso concreto, dei relativi presupposti, la sua discrezionalità può spingersi fino a negare il provvedimento (53)? La risposta, alla luce dei già svolti rilievi sulla necessità di un’interpretazione restrittiva della disciplina dei provvedimenti anticipatori di condanna, deve essere positiva: ma, naturalmente, accompagnata pure da un monito, al singolo giudicante, ad un’attenta considerazione della peculiarità del caso concreto. In definitiva, perché non valutare con attenzione se, nonostante il creditore abbia diritto a un tale titolo esecutivo giudiziale, non si possa – in relazione comunque alle esigenze di ruolo e alle condotte delle parti – puntare direttamente alla pronunzia di una sentenza, magari anche non definitiva? O, quanto meno, perché non provvedere con la più piena e garantista forma della sentenza – giova ripeterlo, anche non definitiva – nel nuovo rito pretorile, che vede l’agilissimo strumento della sentenza con motivazione contestuale di cui all’art. 315 cod. proc. civ.? Con ciò, naturalmente, non si vuol dire affatto che non debba esservi spazio per l’ordinanza ex art. 186 bis cod. proc. civ.; ma, ad esempio, la discrezionalità in ordine all’emissione certamente dovrebbe essere usata nel senso di negare il provvedimento se la non contestazione fosse totale (come già detto più sopra), oppure nel caso in cui i tempi per una pronunzia idonea a definire il giudizio di primo grado nella sua interezza siano comunque contenibili e non vi siano particolarissime ragioni di urgenza (dettate, per avventura, dalla natura del credito azionato o da altre circostanze relative alle condotte anteriori al processo). E ad analoghe conclusioni deve giungersi anche per la discrezionalità in tema di revoca e di modifica (54): l’ambito di operatività delle quali, come già detto, dipende prima di tutto dall’estensione della nozione di “somme non contestate”, ma non può escludere nemmeno una rimeditazione – anche in questo caso, sempre su istanza di parte – della sussistenza dei presupposti più su identificati; anzi, si giunge a ipotizzare persino la revoca nel caso di gravi motivi correlati alla concreta esecuzione del provvedimento (55), che finiscono per essere sostanzialmente analoghi a quelli rilevanti per l’inibitoria delle sentenze appellate o gravate di ricorso per cassazione (56). In definitiva, la discrezionalità può estrinsecarsi per adeguare la risposta giurisdizionale al caso concreto secondo la finalità propria dell’istituto, che può identificarsi nel perseguimento dell’economia dei giudizi, “allorché la pretesa, in base a criteri oggettivi, sia presumibilmente fondata, ovvero manchi una seria contestazione” (57); dovendo preferirsi, in ogni altro caso, la maggiore garanzia offerta dalle forme ordinarie di definizione del processo. 4. Può essere concessa nei giudizi con più parti e, se sì, nei confronti di alcune solo di esse, anche quando vi è contumacia di alcune? L’ordinanza ex art. 186 bis presuppone, come si è visto, la costituzione del convenuto; ma occorre valutare cosa succede nei giudizi con più parti, nel corso dei quali solo alcuni si siano costituiti: fattispecie, quest’ultima, che, a dispetto della sua grandissima rilevanza statistica (basti pensare alle innumerevoli cause per risarcimento danni da sinistro stradale), non pare fatta oggetto di adeguata attenzione da parte degli interpreti (58). Genericamente si sostiene che la contumacia di una delle parti non dovrebbe impedire l’emanazione dell’ordinanza in danno della parte costituita (59); ma, esclusa una – altrettanto generica – rilevanza impeditiva della contumacia, deve valutarsi la struttura del giudizio e la rilevanza o la configurabilità della contestazione in casi del genere. Omessa, per brevità, ogni previa ricostruzione delle problematiche in tema di processo litisconsortile e di comunicazione dell’attività processuale alle parti (60), bene si osserva che, in ragione dell’oggetto dell’ordinanza in questione (e cioè solo una somma di denaro), il processo litisconsortile che potrebbe venire in considerazione utilmente si suddivide in quello caratterizzato da litisconsorzio unitario e in quello caratterizzato da litisconsorzio facoltativo (61). A sua volta, il primo comprende i casi: a) del processo in cui sia unica o indivisibile la fonte del rapporto obbligatorio solidale dedotto in giudizio; b) del processo in cui vi sia colegittimazione congiunta, come in tema di assicurazione R.c.A. Invece, il litisconsorzio facoltativo comprende le ipotesi: c) dell’azione congiunta del creditore contro il debitore principale e contro il fideiussore; d) della chiamata in causa di un terzo da parte del debitore che ne voglia essere garantito, come ad esempio dell’assicuratore, ovvero dell’assicurato ex art. 18 L. 990/69, ovvero ancora del debitore principale (62). Ora, può convenirsi che il processo simultaneo ha per scopo la trattazione unificata in ordine ai punti comuni, al fine di produrre una sentenza omogenea a questo riguardo; e che, quindi, deve comunicarsi all’intero procedimento cumulativo l’effetto della contraddizione del fatto, qualora provenga da uno solo dei litisconsorti. In una simile evenienza, il thema probandum e quindi l’oggetto dell’accertamento da parte del giudice è il fatto unitariamente considerato ed unitariamente rilevante in tutte le cause riunite (63). Deve allora ritenersi (64) che: a) quando sia unica la fonte dell’obbligazione solidale ovvero quando si tratti di obbligazione indivisibile, si comunicano ai litisconsorti, con effetto preclusivo dell’ordinanza ex art. 186 bis, le eccezioni cc.dd. comuni (relative cioè al rapporto e incidenti sulla sua fonte, quali quelle di nullità, annullamento, pagamento, prescrizione, estinzione per impossibilità sopravvenuta) e quelle cc.dd. semplicemente personali (ad es. novazione, resmissione, compensazione, confusione) (65); b) nel caso di colegittimazione congiunta, le eccezioni comunicheranno integralmente i loro effetti a tutti i convenuti, non avendo il danneggiato azione diretta contro l’assicuratore e non potendo questi fare valere le eccezioni derivanti dal contratto di assicurazione nei confronti del danneggiato (66); c) nel caso di giudizio intentato contro debitore principale e fideiussore, si comunicano le eccezioni dispiegate da quest’ultimo, che spetterebbero pure al debitore principale, ma non quelle relative al rapporto fideiussorio; d) nel caso di chiamata in causa in garanzia, la maggiore autonomia delle cause simultanee, legate da un nesso di pregiudizialità-dipendenza, comporta l’incomunicabilità delle eccezioni e la necessità di valutare in ciascuna la sussistenza dei presupposti della non contestazione (67). 5. È ammissibile in un giudizio soggetto al rito locatizio? Non constano precedenti giurisprudenziali in termini, mentre la dottrina non pare attratta dal problema: il quale forse non esiste, se è vero che l’art. 447 bis del codice di rito stabilisce che alle cause soggette al c.d. rito locatizio si applicano numerosi articoli del codice relativi al rito del lavoro, tra cui l’art. 423, ma limitatamente al primo e al terzo comma (68), cioè proprio all’ordinanza per il pagamento di somme non contestate. La prima, immediata conclusione dovrebbe essere che, nelle controversie di cui all’art. 8, secondo comma, numero 3), del codice, il richiamo espresso alla norma dell’art. 423 co. 1 esclude l’applicabilità dell’art. 186 bis. Infatti, il richiamo alla prima norma è coevo all’entrata in vigore della seconda norma: sicché, in applicazione di elementari principi in tema di conflitto apparente di norme, la prima, che è certamente norma speciale rispetto alla seconda, deve prevalere. Nel caso in esame non può sussistere la preoccupazione di colmare le eventuali lacune del rito del lavoro rispetto a quello ordinario, di cui si dirà per affrontare il problema dell’applicabilità dell’art. 186ter al rito locatizio: né occorre ribadire che il processo del lavoro resta pur sempre un processo civile ordinario con le sole peculiarità aggiunte dalla riforma del 1973, sicché ad esso si applica, salva diversa od espressa disposizione, le norme generali del libro primo del codice di procedura civile e quelle sul processo civile di cognizione, se ed in quanto compatibili con le peculiarità strutturali del rito speciale (69). Per quanto forse semplicistica, la soluzione potrebbe essere quella della esclusiva applicabilità, al rito locatizio, dell’art. 423 co. 1 cod. proc. civ., intepretato peraltro alla stregua dell’evoluzione dottrinale che ha consentito poi di trasfondere i risultati del dibattito proprio nel testo dell’art. 186 bis. In buona sostanza, ammesso oramai che anche l’ordinanza del rito lavoristico non possa essere emanata contro la parte contumace e che vi sia comunque la possibilità di revocarla, i dubbi restano in ordine al margine di discrezionalità nella concessione del provvedimento (che, come visto, nell’ordinanza del rito lavoristico dovrebbe essere minore) e al regime di stabilità in caso di estinzione, che tuttora affaticano la dottrina processual-lavoristica (70). Ma, senza alcuna pretesa di completezza, non potrebbe escludersi che, a parte l’unica effettiva differenza lessicalmente insormontabile (cioè quella connessa all’esclusione, nel testo dell’art. 423 co. 1, di un margine di discrezionalità in senso tecnico in ordine all’emanazione), le disposizioni ora trasfuse nel testo dell’art. 186 bis cod. proc. civ. possano ritenersi criteri validi per un’interpretazione evolutiva delle disposizioni dell’art. 423 co. 1, con una sostanziale omogeneizzazione dei due istituti. E, quindi, al rito locatizio andrà sì applicata la norma del rito del lavoro invece di quella del rito ordinario, anche se poi essa andrà interpretata in modo sostanzialmente analogo, tranne il solo aspetto della discrezionalità nell’emanazione. Né sorgono problemi di astratta incompatibilità in ordine alla coesistenza dell’ordinanza ex art. 423 co. 1 e di quella ex art. 666 cod. proc. civ.: esse possono essere emanate in due momenti e con due finalità assolutamente distinti, essendo previsto invero che la seconda possa avere luogo nella fase c.d. sommaria della convalida di sfratto ed al fine precipuo di impedire l’emissione dei provvedimenti tipici conclusivi di questa, mentre la prima è possibile solo dopo che, esauritasi la fase sommaria, si sia transitati in quella ordinaria a rito lavoro con il provvedimento di mutamento del rito ex artt. 667 e 426 cod. proc. civ. e per di più a fini più generali di definizione della controversia – o di quella sua parte – avente ad oggetto il solo pagamento dei canoni. La perversa fantasia e l’impietosa multiformità della pratica potrebbe porre un astratto problema di compatibilità dell’ordinanza ex art. 186 bis e di quella ex art. 666 nella fase sommaria, cioè quando ancora non esiste, per non essere stato introdotto il rito locatizio, la preclusione dell’ordinanza ex art. 186 bis; tuttavia, la specialità della fase sommaria – che già ha condotto alla sensibile deroga, rispetto a quello ordinario, del sistema di introduzione della lite e di dispiegamento delle attività difensive da parte dell’intimato – dovrebbe indurre a ritenere inammissibile l’ordinanza ex art. 186 bis, essendo previsto che il pagamento, in costanza di opposizione, abbia luogo se del caso ex art. 666 cod. proc. (71); del resto, se la non contestazione dell’intimato fosse totale, si avrebbe la convalida e la possibilità, per l’intimante, di conseguire decreto ingiuntivo ex art. 664 cod. proc. civ. 6. È ammissibile in un giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo (72) (e, in caso affermativo, a partire da quando?)? In questa materia si impone una premessa, purtroppo non precisamente breve. Invero, il giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo è ormai ricostruito come un semplice sviluppo, meramente eventuale, della fase monitoria (73): ma, sul punto, la diatriba dottrinale sulla configurabilità o meno di una natura di impugnazione in senso stretto (74) è di recente rinfocolata da alcune sconcertanti pronunzie della Suprema Corte (75), peraltro intente alla riaffermazione della competenza funzionale del giudice dell’opposizione. Pure paiono presenti, almeno ictu oculi, alcuni profili tipici del giudizio di impugnazione in quello di opposizione a decreto ingiuntivo (76): infatti, il meccanismo di introduzione dell’opposizione è analogo a quello dell’introduzione di un’impugnazione, tanto che la sua mancata proposizione dà luogo ad effetti equiparati al giudicato. Però, le caratteristiche intrinseche dell’impugnazione vengono meno una volta instaurato il contraddittorio sull’opposizione, tanto che il giudizio si svolge poi come ordinario giudizio di primo grado (77), sia pure con alcune peculiarità dovute alla presenza di un titolo esecutivo giudiziale idoneo a conseguire efficacia anche a prescindere da una sentenza. In definitiva, nella fase di opposizione viene restaurata la piena operatività del principio del contraddittorio, per quanto all’esito dell’atto di impulso processuale di colui che riveste la qualità sostanziale di convenuto: e tanto in ordine a una domanda giudiziale, che si identifica in quella proposta dal creditore nel ricorso per decreto ingiuntivo (78). Quindi, il giudizio si svolge come un ordinario giudizio di cognizione (79) e, per di più, di primo grado (80), fatte salve alcune espresse peculiarità relative al regime di esecutività di quel provvisorio accertamento contenuto nel decreto ingiuntivo. E, ciò che conta, l’oggetto del giudizio di opposizione non è affatto limitato al controllo di validità o merito del decreto ingiuntivo opposto (81), ma involge il merito e, cioè, la fondatezza della pretesa azionata dal creditore fin dal ricorso. In altri termini, l’opposizione devolve al giudice il completo esame del rapporto giuridico controverso e non il semplice riscontro della legittimità della pronunzia del decreto (82). Di conseguenza, i due profili, per quanto certo obiettivamente connessi, vanno tenuti tendenzialmente separati: e mantengono un’irrinunziabile autonomia (83). Ciò significa che nel decreto ingiuntivo viene solo provvisoriamente accertata, sulla base di elementi probatori specifici (in genere molto meno rigorosi di quelli necessari in un giudizio ordinario), la sussistenza dei fatti costitutivi vantati dal creditore; e deriva da tale struttura l’onere, eccezionalmente addossato al convenuto, di contestare quei fatti costitutivi, sia negando validità ai peculiari mezzi probatori riconosciuti validi per l’emissione del decreto, sia adducendo fatti impeditivi, modificativi o estintivi del diritto azionato dalla sua controparte. Si può configurare il conseguimento della definitività per mancata opposizione come riconoscimento, per condotta legalmente tipizzata, ad opera della controparte del rapporto azionato, della reale sussistenza di questo e nei termini di cui in ricorso (84). Soltanto per questo e in relazione alla presenza di termini perentori per la proposizione della fase di opposizione, quindi, la carenza di opposizione produce effetti che tradizionalmente si ritengono in tutto simili o equiparabili al giudicato: in altri termini il decreto ingiuntivo non opposto nei termini acquista, al pari di una ordinaria sentenza di condanna, autorità ed efficacia di cosa giudicata sostanziale, in relazione al diritto in esso consacrato tanto in ordine ai soggetti ed alla prestazione dovuta, quanto all’inesistenza di fatti impeditivi, modificativi o estintivi. E la sua efficacia preclusiva si estende a tutte le relative questioni, impedendo che in un successivo giudizio, avente ad oggetto una domanda basata sullo stesso rapporto, si proceda ad un nuovo esame di esse (85). Il destinatario di un decreto ingiuntivo, pertanto, non ha altra scelta, per evitare la definitività della statuizione, per quanto impostata come provvisoria, dei fatti costitutivi del diritto della sua controparte, se non quella di proporre impugnazione tempestiva. Ogni altro rimedio, tranne i casi del tutto eccezionali di cui all’art. 650 cod. proc. civ., rimane precluso (86). Importanti sono le conseguenze di tale impostazione complessiva: a) attore in senso sostanziale è l’opposto, mentre il ruolo di convenuto è dell’opponente (87); b) onerato della prova dei fatti costitutivi della domanda – dedotti in ricorso – è l’opposto (88); c) l’opponente, con l’atto di citazione in opposizione, ha l’onere: c1) di sollevare eccezioni in senso proprio e di prospettare questioni o di avanzare richieste per le quali sia prevista la sanzione processuale di una decadenza o di una preclusione ancorata alla prima difesa; c2) di contestare la sussistenza dei fatti costitutivi del diritto azionato (89); c3) di dispiegare domande, che assumono la qualificazione tecnica di riconvenzionali ove esse possano fondarsi sullo stesso titolo dedotto in giudizio: e in ordine a queste riconvenzionali è l’opposto ad assumere la posizione processuale di convenuto, essendo peraltro egli stesso a sua volta facultato a dispiegare ulteriori domande nei confronti dell’opponente-attore in riconvenzionale (90); d) l’opponente, con l’atto di citazione in opposizione, ha la facoltà: d1) di limitarsi a non formulare alcuna domanda in senso tecnico, allo stesso modo di una qualunque comparsa di costituzione, visto che è comunque avanzata – se non altro implicitamente – l’istanza di rigetto della domanda attorea; d2) di chiedere la restituzione di ciò che, in forza del regime di esecutorietà del decreto opposto, sia stato costretto a versare in corso di causa (91). Tale non breve premessa serve da guida per la risoluzione di numerose problematiche sia in tema di ordinanza ex art. 186 bis, sia in tema di ordinanza ex art. 186 ter: ed anzi consente di rispondere immediatamente in senso affermativo alla questione della concedibilità di entrambe – e, per quel che qui interessa, di quella ex art. 186 bis – nel giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo. Per limitarsi, per il momento, all’ordinanza ex art. 186 bis, si obietta generalmente che la peculiarità del giudizio e soprattutto la persistente presenza di un decreto ingiuntivo, idoneo per di più a divenire definitivo in caso di estinzione del giudizio di opposizione ai sensi dell’art. 653 cod. proc. civ., impedirebbe di conseguire un ulteriore titolo esecutivo, quale l’ordinanza in esame. Eppure, l’ordinanza ex art. 186 bis (92) non è destinata a definire il processo, in luogo della sentenza, potendo semmai conseguire un risultato analogo, ma solo dal punto di vista effettuale e attraverso l’estinzione del giudizio, rimessa alla condotta – da presumersi cosciente e responsabile – delle parti; di conseguenza, l’ordinanza rimane strutturalmente destinata ad essere assorbita dalla sentenza di merito del grado in cui essa è stata pronunziata e, così, non incide e non deve incidere affatto sul decreto ingiuntivo già emanato. Quanto all’evenienza che possano venirsi a trovare coesistenti due titoli esecutivi giudiziali proprio nel caso dell’estinzione, cioè il monitorio ex artt. 653-654 e l’ordinanza ex art. 186 bis co. 3, agevolmente si può ribattere che la situazione può essere risolta in sede di eventuale azionamento congiunto dei due titoli. Come si vedrà di qui a tra breve, invero, l’efficacia delle ordinanze ex artt. 186 bis e 186 ter in caso di estinzione deve ritenersi limitata al regime di titolo esecutivo e quindi equiparata a quella di qualunque accertamento provvisorio dei fatti costitutivi della pretesa azionata dalla parte. Di conseguenza, esclusa un’attitudine al giudicato, esclusa pure un’immutabilità equiparabile a quest’ultimo (93), sarà tecnicamente possibile opporsi all’esecuzione intrapresa in forza dell’ordinanza ex art. 186 bis (94) mediante l’adduzione di quei medesimi fatti o il dispiegamento di quelle condotte processuali che potevano essere addotti o dispiegate nel prosieguo del giudizio in cui l’ordinanza è stata emessa (95). Ciò posto, peraltro non può farsi a meno di valutare se, caso per caso, sussistano tutti i presupposti di concedibilità dell’ordinanza: primo fra tutti l’interesse ad agire, che difetterebbe certamente, ad esempio, nel caso in cui il decreto ingiuntivo fosse stato già munito di provvisoria esecutività (o esecutorietà) (tanto ex art. 642, quanto ex art. 648 cod. proc. civ.) e per di più per la stessa somma per la quale si chiede l’ordinanza ex art. 186 bis (96). Ne consegue che l’interesse a conseguire quest’ultima non può sorgere che all’esito dell’eventuale rigetto della domanda – ex art. 648 cod. proc. civ. – di concessione della provvisoria esecuzione, ovvero dell’eventuale accoglimento della domanda, ex art. 649 cod. proc. civ., di sospensione della provvisoria esecuzione eventualmente già concessa al decreto stesso. Ciò consente di risolvere, infine, il problema del momento iniziale a partire dal quale concedere o meno l’ordinanza in esame: e qui occorre armonizzare i risultati già raggiunti più sopra (97) con la ricostruzione del procedimento di opposizione a decreto ingiuntivo, appena operata. Se il convenuto in senso sostanziale deve identificarsi con l’opponente (del resto, chi, se non l’opponente, potrebbe dispiegare eccezioni?) e se egli ha la facoltà di operare le contestazioni preclusive dell’ordinanza ex art. 186 bis fino al momento della definitiva contestatio litis di cui all’ult. co. dell’art. 183, nss. t., cod. proc. civ., l’ordinanza di somme non contestate non potrà comunque – una volta verificatosi il rigetto dell’istanza ex art. 648 cod. proc. civ. (98) o l’accoglimento dell’istanza ex art. 649 cod. proc. civ. – essere esaminata prima di tale momento (99). Capitolo secondo: sull’ordinanza ex art. 186 ter c.p.c. Dell’utilità dell’ordinanza ingiuntiva (100) per come è stata strutturata dalla novella si è immediatamente dubitato (101): anche se, a ben guardare, essa potrebbe svolgere certo un ruolo importante almeno in tutti quei casi in cui la prova scritta entri nella disponibilità del creditore in corso di causa (102), ovvero in cui sia già pendente la causa di accertamento negativo iniziata dal debitore (103), ovvero ancora in cui il convenuto sia residente all’estero (104). Non è invece ammessa nei casi di cui ai numeri 2 e 3 dell’art. 633, all’art. 635 e all’art. 636 cod. proc. civ. (105). Essa viene vista come una sorta di generalizzazione della tutela già offerta al creditore con la disciplina del decreto ingiuntivo: peraltro, si tratta di innestare in un procedimento ordinario, a contraddittorio già instaurato e a cognizione piena, i princìpi e la disciplina di un procedimento sommario, caratterizzato dal carattere posticipato ed eventuale del contraddittorio e dalla parzialità di una cognizione, limitata alle situazioni giuridiche prospettate da una sola delle parti. Per non creare insuperabili antinomie e per non fondare ingiustificate posizioni di privilegio processuale, occorre allora armonizzare la disciplina del decreto ingiuntivo – e soprattutto del decreto ingiuntivo nella fase monitoria – con quella del giudizio ordinario in cui essa è stata chiamata a trovare applicazione. In altri termini: nel procedimento per decreto ingiuntivo si ha un accertamento provvisorio della fondatezza dei fatti costitutivi addotti unilateralmente da una delle parti ed all’esito di una cognizione sommaria perché parziale; accertamento poi soggetto a revisione in caso sia tempestivamente presa una certa iniziativa processuale da parte dell’ingiunto. Nel procedimento per ordinanza ingiuntiva, invece, si è di fronte ad un procedimento solo in apparenza monitorio (probabilmente, a struttura monitoria), ma che si innesta in un giudizio a contraddittorio pieno, nel quale le parti hanno tutte avuto la possibilità di esporre le proprie ragioni e di svolgere le proprie difese (106). Il problema è quindi come conciliare una cognizione parziale (giustificata, nel decreto ingiuntivo in fase monitoria, appunto con l’istituzionale assenza della controparte) – e cioè limitata ad un provvisorio accertamento della sussistenza dei soli fatti costitutivi – con la circostanza che al riguardo la controparte ha già legittimamente preso posizione. O, se si vuole, il problema è di conciliare la parzialità della cognizione con il rispetto dell’effettività del contraddittorio, visto che quest’ultimo è già stato instaurato. Pare indispensabile che l’oggetto dell’accertamento del giudice sia allora di molto più completo di quello che gli si richiede nella fase monitoria del procedimento per decreto ingiuntivo. In questa egli, appunto, si deve limitare alla delibazione della sussistenza dei fatti costitutivi sulla base delle prove addotte dalla parte attrice, ma solo perché si tratta di una fase a cognizione sommaria perché parziale, in cui per legge il contraddittorio ancora non c’è e in cui, salvi casi eccezionalissimi, nulla può officiosamente rilevare (classico è il caso della prescrizione del titolo di credito: nel quale, anche ove essa sia assolutamente evidente, si è obbligati a concedere il monitorio e, secondo una certa giurisprudenza, anche a munirlo della provvisoria esecutività (o esecutorietà) ex art. 642 cod. proc. civ.). Al contrario, con l’ordinanza ingiuntiva, il giudice deliba sì la prova scritta a sostegno del diritto azionato da chi la chiede, ma non può non tenere conto dell’efficacia che, su quella prova, dispiega la legittima attività processuale svolta dalla controparte sino al momento della pronunzia. In altri termini, la prova scritta non dovrà essere contrastata, con efficacia diretta e immediata, dalle contestazioni o dalle attività istruttorie del presunto debitore: ché, altrimenti, sarà anche prova scritta, ma non idonea a dar conto della sussistenza del credito. Del resto, già per la fase monitoria del decreto ingiuntivo la valutazione del materiale probatorio, per quanto sommaria, deve comunque essere lasciata al prudente apprezzamento del giudice: tanto che, in linea generale, occorre comunque un’adeguata ponderazione dei contrapposti interessi del creditore e del debitore, almeno con riferimento alla delibazione di sufficienza, della documentazione prodotta, per la stessa attribuzione di tali qualifiche alle parti. Sulla nozione di prova scritta rilevante non può che rinviarsi alle trattazioni al riguardo operate in tema di decreto ingiuntivo; ma in questa sede può essere utile un cenno ad alcune delle problematiche lì sviluppate, ricordando, ad esempio, che: a) prova scritta può essere costituita da qualunque documento, cioè da una qualsiasi cosa atta a rappresentare fatti od eventi, quand’anche privo dell’efficacia probatoria assoluta di cui agli artt. 2700 e 2702 c.c. (107); b) la prova scritta deve riguardare in modo immediato e diretto i fatti costitutivi del diritto azionato (108); ma può essere integrata anche da un documento con scrittura non autenticata o non – in precedenza – riconosciuta, sulla base delle regole del codice di rito in ordine al riconoscimento giudiziale (109) e tenuto conto dell’onere, per colui che produce un documento da fare riconoscere, di comunicarne la produzione alla controparte contumace (110); c) la semplice fattura relativa ad una compravendita, di per sé sola, può far fede solo della spedizione della merce fatturata, ma non anche di tutti gli altri elementi del contratto di compravendita, in quanto essa attiene al solo momento esecutivo di questo; e, così, almeno nella fase monitoria (ché in quella di opposizione potrebbe non bastare nemmeno questo), per non mortificare oltremodo il diritto di difesa del debitore, occorrerebbe quanto meno – se non il versamento in atti dell’ordine, sottoscritto dall’ingiunto – la prova dell’effettuazione della consegna, ad esempio con la bolla di consegna sottoscritta da persona riferibile all’ingiunto (111); ed ancora maggiore cautela occorre nelle fatture relative a prestazioni di servizi, con riguardo alle quali non vi è, in genere, nemmeno alcun documento di riconoscimento, da parte del cliente, dell’effettiva esecuzione della prestazione dell’ingiungente; d) la prova può anche essere integrata da un documento proveniente da un terzo, purché, oltre che attendibile e meritevole di fede, sia quanto meno idoneo a dimostrare, in via almeno presuntiva, la sussistenza del debito (112): potendo le scritture formate da terzi comunque fornire materiale indiziario e presuntivo atto a fondare la decisione (113). Per rendere ancora più agevole la concessione dell’ordinanza ingiuntiva e, quindi, per conferire un trattamento ancora più privilegiato ai crediti relativi, il codice disciplina casi di efficacia legale di alcuni tipi di documenti, vale a dire gli estratti autentici delle scritture contabili; essi non devono esaurirsi nella mera fotocopia, per quanto autentica, di parti di queste ultime, visto che il notaio che li produce ne deve attestare altresì la regolare bollatura, tenuta e vidimazione; al riguardo, tale prova legale è ammessa, nei confronti di soggetti non imprenditori, non più solo per il caso di somministrazioni di merce o di denaro MA ORA (114) ANCHE PER LA PRESTAZIONE DI SERVIZI (115). Sulla certezza, liquidità ed esigibilità del credito non si ha in questa sede spazio sufficiente per una qualche sia pur minima disamina: e devesi allora far rinvio alla normativa sostanziale relativa a tali istituti (116). 1. È ammissibile in un giudizio soggetto al rito c.d. locatizio (117)? Non sussiste alcun problema nella fase sommaria della convalida di sfratto per morosità, caratterizzata, come già visto, da una spiccata specialità. In quest’ultima – che, a stretto rigore, ancora non è soggetta al rito locatizio, il quale diverrà applicabile solo dopo l’esaurimento della fase speciale, con l’ordinanza di mutamento del rito ex artt. 665-667-426 cod. proc. civ. – la possibilità di conseguire una ingiunzione di pagamento è limitata alla domanda di ingiunzione per canoni scaduti e da scadere, per quanto prevista solo per l’ipotesi della convalida; e ciò bene si spiega, se si considera che la fase sommaria stessa deve poter condurre in tempi brevissimi alla pronunzia del titolo esecutivo che sancisca la risoluzione per morosità ed eventualmente a quello che, su tale presupposto, consenta al locatore di conseguire il pagamento delle rate non pagate. Quindi, solo in caso di conseguita irretrattabilità della sussistenza della mora, come consacrata con l’ordinanza di convalida dello sfratto, può essere, senza ulteriori formalità, pronunziato quello speciale monitorio previsto dall’art. 664 cod. proc. civ. (118). Ma, a ben guardare, non si pone neppure un problema di compatibilità, in una causa ab origine o successivamente soggetta al rito locatizio, tra l’ordinanza ex art.186 ter cod. proc. civ. ed eventuali norme speciali all’uopo richiamate dal processo del lavoro, che si è visto invece sussistere per l’ordinanza ex art. 186 bis. Non vi è, infatti, nel rito del lavoro (che costituisce il riferimento di quello locatizio), un istituto analogo a quello in esame (diversi essendo i presupposti e le finalità dell’ordinanza di cui all’art.186 ter e di quella di cui all’art. 423 co. 2, avvicinabile forse molto di più all’art. 186 quater); sicché la già vista interazione (119) tra processo del lavoro e processo civile ordinario (120) consentirebbe l’operatività dell’art.186 ter anche in quello locatizio (come pure, ma ciò non interessa i pretori civili, in quello del lavoro), visto che la peculiarità di quest’ultimo non osta, in modo inequivoco, all’adozione di tale strumento. Non possono condividersi le contrarie argomentazioni (121) che fanno leva sulla specialità del rito del lavoro e sull’inutilità della misura in un processo che non necessiterebbe di misure deflazionistiche alla pari di quello ordinario: si è visto che la specialità non deve precludere l’estensione di istituti non incompatibili con la struttura processuale tipica del processo del lavoro; mentre che quest’ultimo abbia meno bisogno di misure deflazionistiche resta una petizione di principio e una scorretta sopravvalutazione del momento teleologico nel procedimento di interpretazione della compatibilità della norma col rito speciale. Certamente, ove nel caso concreto sussistesse la possibilità di conseguire in tempi rapidi, con la piena garanzia di una sentenza di merito, la definizione ordinaria del giudizio, l’ordinanza ex art. 186 ter, nei limiti in cui sussiste la discrezionalità del giudicante nella sua emissione, non dovrà essere emanata, proprio per evitare i rischi di una sommarizzazione del processo e quindi di una diminuzione delle garanzie per tutte le parti: e per far tanto potrà farsi leva sulla evidente insussistenza di un interesse ad agire ex art. 186 ter. E che poi il desolante stato della giurisprudenza di legittimità (122) dia conto di una generale inoperatività della peculiare speditezza del rito speciale non dovrebbe forse incoraggiare l’adozione degli strumenti speciali di definizione, ma sommari e alternativi alla sentenza, quanto piuttosto incitare al recupero della funzionalità di quest’ultima, soprattutto quando la sua adozione sia consentita in forme obiettivamente semplici e agili e quand’anche a prezzo di una riconsiderazione della cultura della decisione. Il tutto nell’ottica della non necessità di forme ridondanti o eccessive nella sentenza stessa e della perfetta sufficienza, anche in quest’ultima, di schemi di motivazione sostanzialmente analoghi a quelli dell’ordinanza. In tal modo, di fronte all’alternativa tra la pronunzia di un’ordinanza ex art. 186 ter e quella di una sentenza che ne abbia in sostanza gli identici contenuti e impianti argomentativi, dovrebbe compiersi ogni sforzo per privilegiare la seconda: ma ciò incide, previa attenta considerazione della singola fattispecie, non già sull’astratta ammissibilità della prima, bensì sulla sola sussistenza, nel caso concreto, di un interesse alla sua emanazione. 2. È ammissibile in un giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo (e, in caso affermativo, a partire da quando?)? Si ripropone la problematica in parte affrontata in tema di ordinanza di pagamento di somme non contestate. I sostenitori della tesi negativa insistono sul fatto che la peculiarità del giudizio iniziato con ricorso per decreto ingiuntivo già integrerebbe l’anticipazione della tutela, propria a sua volta dell’ordinanza ingiuntiva (123), sicché non potrebbe emanarsi un ulteriore provvedimento anticipatorio della condanna, con cui si duplicherebbe sia la pronunzia, sia il titolo esecutivo (qualora tanto il decreto ingiuntivo, quanto l’ordinanza ingiuntiva diventino o siano esecutivi) (124). Eppure, la già tentata ricostruzione del giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo (125) consente di qualificare quest’ultimo come un ordinario giudizio di cognizione, con la sola peculiarità della fase introduttiva e della presenza di un titolo giudiziale di accertamento provvisorio della sussistenza dei fatti costitutivi del diritto azionato dall’ingiungente; titolo giudiziale che diviene una condanna con riserva, qualora sia munito della provvisoria esecutività (o esecutorietà), in quanto questa deve conseguire alla positiva delibazione del fumus boni iuris della parte in cui favore è concessa. Pertanto, una volta esaurita la peculiarità della fase introduttiva con la disamina delle istanze ex art. 648 o 649 cod. proc. civ., il giudizio prosegue con le forme ordinarie, tranne che per quegli istituti che siano assolutamente incompatibili con la persistente presenza del decreto ingiuntivo, su cui occorre pronunziare soltanto con sentenza (126): ne consegue che, dal punto di vista della mera ammissibilità, non dovrebbe precludersi in astratto la possibilità di chiedere ed ottenere l’ordinanza ingiuntiva, a partire dal dies a quo che si vedrà di qui a tra un momento. Sotto questo profilo, del resto, gli interpreti argomentano sulla agevole resolubilità in sede esecutiva delle difficoltà eventualmente derivanti dalla compresenza di due titoli divenuti entrambi esecutivivi (127): e la soluzione (128) convince, attesa anche l’inidoneità al giudicato dell’ordinanza ex art. 186 ter anche nel caso di estinzione del processo (129). L’efficacia delle ordinanze ex artt. 186 bis e 186 ter in caso di estinzione deve ritenersi limitata al regime di titolo esecutivo e quindi equiparata a quella di qualunque accertamento provvisorio dei fatti costitutivi della pretesa azionata dalla parte. Di conseguenza, esclusa un’attitudine al giudicato, esclusa pure un’immutabilità equiparabile a quest’ultimo (130), sarà tecnicamente possibile opporsi all’esecuzione intrapresa in forza dell’ordinanza ex art. 186 ter (131) mediante l’adduzione di quei medesimi fatti o il dispiegamento di quelle condotte processuali che potevano essere addotti o dispiegate nel prosieguo del giudizio in cui l’ordinanza è stata emessa (132). Invece, occorrerà valutare se, caso per caso, sussistano tutti i presupposti di concedibilità dell’ordinanza: primo fra tutti l’interesse ad agire, che difetterebbe certamente, ad esempio, nel caso in cui il decreto ingiuntivo fosse stato già munito di provvisoria esecutività (o esecutorietà) (tanto ex art. 642, quanto ex art. 648 cod. proc. civ.) e per di più per la stessa somma per la quale si chiede l’ordinanza ex art. 186 ter (133). Anche per questo motivo, quindi, l’interesse a conseguire quest’ultima non può sorgere che all’esito dell’eventuale rigetto della domanda – ex art. 648 cod. proc. civ. – di concessione della provvisoria esecuzione, ovvero dell’eventuale accoglimento della domanda, ex art. 649 cod. proc. civ., di sospensione della provvisoria esecuzione già concessa al decreto stesso. 3. Vi sono margini o limiti di discrezionalità nella concessione? La questione è più complessa di quella della sussistenza o meno di discrezionalità nella concessione dell’ordinanza ex art. 186 bis: l’art. 186 ter non prevede, infatti, alcuna espressione equivalente a quel “può”, su cui è stata fondata la discrezionalità dell’ordinanza di pagamento di somme non contestate; e potrebbe allora sostenersi che, in presenza dei requisiti di cui all’art. 186 ter, il giudice sia obbligato (134) a concedere l’ordinanza. È ben vero che la disciplina sulla provvisoria esecutività (o esecutorietà) dell’ordinanza si ricollega direttamente alla sussistenza dei presupposti dell’art. 642 e/o dell’art. 648: ma, a parte i dubbi sulla possibilità di disporre la provvisoria esecutività (o esecutorietà) in carenza di istanza di parte specifica, il comma secondo dell’art. 186 ter sembra descrivere soltanto il regime di efficacia, per il caso che l’ordinanza sia concessa; e non pare potersene inferire l’obbligatorietà non solo e non tanto della concessione di quel particolare – ma tanto importante... – adminiculum che è la provvisoria esecutività (o esecutorietà), quanto persino dell’emissione, in sé considerata, dell’ordinanza ingiuntiva. Anzi, a ben guardare, non è nemmeno previsto, a differenza – ad esempio – dalla disposizione dell’art. 423 co. 1 cod. proc. civ., che il giudice, in presenza di quei requisiti, “dispone” tout court l’ingiunzione: e pare allora che il problema possa risolversi in applicazione dei princìpi generali in tema di pronunzie giurisdizionali, che il giudice deve sì emettere, ma all’esito del giudizio positivo di sussistenza della pretesa azionata. Con ciò vuol dirsi che certamente il giudice, destinatario di un’istanza ex art. 186 ter cod. proc. civ., dovrà valutare non solo la sussistenza della prova scritta a sostegno dei fatti costitutivi del diritto, ma anche l’inesistenza di ragioni giuridiche – rilevabili di ufficio o, altrimenti, ritualmente eccepite da colui nei cui confronti la domanda di ingiunzione è dispiegata – tali da ostare alla concessione dell’ordinanza (135). Senza necessità di coinvolgere il problema della discrezionalità nella concessione, allora, sarà nel momento di apprezzare la sussistenza o meno della prova scritta del credito che potrà essere esplicato il controllo sul merito della domanda, sotto il profilo della sussistenza delle condizioni dell’azione e dei presupposti processuali. Per quanto detto più sopra, invero, sarebbe infatti del tutto incongruo imporre o consentire l’emanazione di un’ordinanza ingiuntiva in presenza di fatti impeditivi, modificativi od estintivi certi, ovvero di contestazioni in fatto o in diritto che privino i documenti prodotti dall’ingiungente dell’efficacia probatoria che vi si vorrebbe ricondurre, o comunque della possibilità che sulla loro base si giunga ad una pronunzia favorevole all’attore. E se si aggiunge che l’ordinanza ingiuntiva è finalizzata alla vera e propria anticipazione della pronunzia di merito, si scopre allora che il giudice, nel momento in cui gli si chiede di pronunziare la prima, deve compiere anche una valutazione molto simile a quella che sarebbe chiamato a fare per la seconda: dovendo operare sì una delibazione – e quindi espletare un’attività certamente meno complessa di una decisione definitiva –, ma riguardo ai fatti addotti da tutte le parti, tra loro comparati. Correttamente, allora, si dovrebbe denegare l’ordinanza in caso di questione pregiudiziale o preliminare, di rito o merito, su cui sia stato disposto – o sia da disporre – il rinvio per l’immediata decisione, ai sensi del co. 2 e della prima parte del co. 3 dell’art. 187 cod. proc. civ.: dappoiché l’intrinseca controvertibilità della medesima questione (ma, si ricordi, a patto che la valutazione del rinvio per l’immediata decisione corrisponda, come di regola accade, ad una sorta di delibazione di fondatezza della questione e di previsione di una pronunzia in rito) rende dubbia la sussistenza della possibilità, per quel giudice, di pronunziarsi sulla domanda e, a maggior ragione, sulla domanda di ordinanza ingiuntiva, per definizione finalizzata ad anticipare una sentenza di merito che quel giudice probabilmente non potrà mai emettere. Ancora, nessun dubbio dovrebbe sussistere sulla doverosità del diniego dell’ordinanza ingiuntiva nel caso in cui la domanda sia manifestamente priva di idoneo supporto probatorio: ipotesi che si verificherebbe certamente nel caso in cui l’efficacia della scrittura privata posta a base dell’istanza di ordinanza ingiuntiva sia paralizzata da altra ed equipollente scrittura, ovvero da fatti, anche di ordine processuale, idonei (quali il disconoscimento, che pure la norma ritiene rilevante ai fini dell’esclusione della provvisoria esecutività (o esecutorietà), evidentemente presupponendo che l’ordinanza possa in tali casi essere concessa, ma priva della provvisoria esecutività (o esecutorietà) (136). L’unica delibazione che al giudice dovrebbe essere vietata, in ciò solo riconoscendosi la conseguenza dell’omissione del verbo “potere” dal tenore letterale dell’art. 186 ter, è quella della opportunità della concessione della ordinanza ingiuntiva: discrezionalità che è stata invece riconosciuta, appunto, al momento della pronunzia dell’ordinanza di pagamento di somme non contestate, soprattutto in relazione alle peculiarità del caso concreto e, quindi, anche con riguardo agli effetti concreti dell’esecuzione del titolo. Per analoghe ragioni non dovrebbe essere consentito il diniego di emissione dell’ordinanza ingiuntiva nei casi in cui essa non possa essere munita della clausola di provvisoria esecutività (o esecutorietà). È evidente che la legge prevede espressamente questo caso, disciplinando che, in caso di estinzione del processo, acquisti efficacia esecutiva l’ordinanza ingiuntiva che non sia già munita di analoga clausola, ex art. 642 o 648 cod. proc. civ.: pertanto, un interesse – in senso tecnico – della parte istante a conseguire un’ordinanza ingiuntiva anche non esecutiva sta proprio in ciò, che la stessa potrebbe divenire esecutiva in caso di estinzione del processo in cui essa è stata emessa. Rimarrebbe solo da valutare la sussistenza di un suo interesse ad agire ex art. 186 ter in presenza di altri titoli esecutivi a sostegno della stessa pretesa, come il già visto caso del dispiegamento della domanda nella fase di opposizione ad un decreto ingiuntivo già emesso. 4. A partire da quando può essere concessa? La vista ricostruzione, che mette in risalto le differenze del procedimento per ordinanza ingiuntiva rispetto a quello per decreto ingiuntivo, consente pure di stabilire il dies a quo della concedibilità del primo provvedimento: per il quale in genere si richiede quanto meno che il convenuto si sia costituito, visto che il regime di esecutività e finanche il contenuto del provvedimento sono diversi a seconda che, appunto, l’ingiunto sia o meno contumace (137). Più radicalmente, peraltro, si sostiene la necessità di fare riferimento all’udienza di comparizione (138), sul presupposto che al convenuto è consentito espletare, proprio fino a quel momento, attività rilevanti anche per escludere la concedibilità dell’ordinanza ingiuntiva, fra cui – almeno ai fini della provvisoria esecutività (o esecutorietà) – il disconoscimento della scrittura privata azionata contro di lui. E tale tesi deve essere preferita, in armonia con il sistema di preclusioni introdotto nel c.d. nuovo rito: il quale sistema, se obiettivamente comporta notevoli oneri per il convenuto, comunque gli consente ben più di uno spatium deliberandi per dispiegare tutte le sue difese, quasi per centellinarle. Sarebbe certamente contrario alla lettera della riforma, anche come controriformata nel 1995, conculcare i diritti espressamente riconosciuti alla parte, costringendola, per quanto nel suo interesse, a concentrare in udienze non all’uopo destinate le delicate e complesse attività processuali che potrebbero precludere l’emissione di un provvedimento ad essa stessa sfavorevole. Con ciò si vuol dire: • che lo scadenzamento, quasi la frantumazione dei tempi, dell’onere difensivo delle parti, brillante risultato della controriforma del 1995, esige (purtroppo!) rispetto; • che non si possono ritenere introdotti, nemmeno in via di interpretazione per incompatibilità e sia pure al limitato fine della delibazione dell’istanza ex art. 186 ter, termini più brevi di quelli ordinari per l’espletamento delle attività difensive; • che eventuali condotte dilatorie della parte andranno represse con un contenimento eccezionale dei tempi di rinvio, ma non sopprimendo arbitrariamente le garanzie comunque riconosciutele. Ne consegue che, fino alla definitiva contestatio litis quale risulti dal compiuto svolgimento dell’udienza di comparizione di cui all’art. 183 nss. t. cod. proc. civ. (e quindi, c’è da temere, anche sino alla scadenza degli eventuali termini obbligatoriamente concessi, su anche immotivata richiesta di parte, ai sensi del quinto comma di tale articolo, vale a dire per l’eventuale modifica di domanda ed eccezioni (139), non vi sia la possibilità di provvedere sulle istanze ex art. 186 ter (140). E vanno solo richiamati i risultati delle già svolte argomentazioni in tema di termine iniziale di concedibilità in caso di richiesta di ordinanza ingiuntiva nel corso di un giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo: visto che qui l’interesse ad agire non potrebbe sorgere che successivamente all’accoglimento dell’istanza ex art. 649 cod. proc. civ. ovvero al rigetto dell’istanza ex art. 648 cod. proc. civ., quando la somma richiesta sia eguale o minore di quella già resa oggetto del monitorio (141). Esula, invece, dai ristretti limiti della presente trattazione la disamina del problema relativo al termine finale per la concessione dell’ordinanza, che la norma pure individua nell’udienza di conclusioni (142), nonché di quello in ordine alla concedibilità in pendenza di sospensione o interruzione, rinfocolato dalla presenza, nel tenore testuale della norma dell’art. 186 ter e non anche in quello dell’art. 186 bis, della specificazione della concedibilità dell’ordinanza anticipatoria in ogni stato e grado del processo (143). 5. Quali sono i presupposti della provvisoria esecuzione (144) dell’ordinanza nei confronti del convenuto costituito? Se alla tecnica legislativa odierna qualche volenteroso inteprete volesse rivolgere un plauso, questo non sarebbe meritato certamente per come è stato formulato il secondo comma dell’art. 186 ter, laddove prescrive, dopo la necessità della statuizione sulle spese, che l’ordinanza ingiuntiva è dichiarata provvisoriamente esecutiva ove ricorrano i presupposti di cui all’art. 642, nonché, ove la controparte non sia rimasta contumace, quelli di cui all’art. 648, primo comma, cod. proc. civ.. In uno tra i migliori vocabolari della lingua italiana (145) alla congiunzione nonché viene attribuito un valore meramente aggiuntivo: “e anche”, “e inoltre”, “come pure”; come valore letterario si attribuisce il senso di “non solo”, “non solo non”, oppure di “oltre a”, “oltre che”. Gli interpreti hanno tuttavia già trovato il modo di dividersi su come interpretare tale norma, complicata dall’infelice (146) impiego della congiunzione “nonché”, presentando tre diverse soluzioni (147) per l’operatività della provvisoria esecutività (o esecutorietà) nel caso che la parte destinataria dell’ingiunzione non sia rimasta contumace (148): 1. devono ricorrere sia le condizioni di cui all’art. 642, sia quelle di cui all’art. 6481 cod. proc. civ. (149): cioè entrambe debbono coesistere; 2. devono ricorrere o le condizioni di cui all’art. 642, oppure quelle di cui all’art. 6481 cod. proc. civ. (150): cioè possono coesistere alternativamente; 3. devono ricorrere solo le condizioni di cui all’art. 6481 cod. proc. civ. (151). Ora, per risolvere il problema interpretativa, è necessario porre attenzione all’art. 648 e alla sua ricostruzione nella dottrina generale del decreto ingiuntivo. Tale norma prevede che l’esecuzione provvisoria non sia mai concedibile se: a) l’opponente produca una prova scritta (152); b) sia possibile una rapida definizione del giudizio (153). In tali ipotesi, il giudice istruttore non può – e quindi non deve (154) – concedere la provvisoria esecuzione, ex art. 648 c.p.c.: e tuttavia, l’insussistenza dell’una o dell’altra non deve consentire all’istruttore di concedere, per questo solo fatto, la provvisoria esecuzione. Se si ricorda che quest’ultima è un’autentica anticipazione degli effetti della pronunzia di condanna in favore del creditore, si deve ritenere assolutamente indispensabile la positiva delibazione del buon diritto di quest’ultimo, cui si voglia concedere appunto tale anticipazione, a danno della sua controparte. Ripudiata la prassi di concedere la provvisoria esecuzione sulla base della semplicistica constatazione della carenza di una prova scritta e della presumibile eccessiva lunghezza dei tempi di soluzione della causa, deve, al contrario, affermarsi la necessità, per la concessione della provvisoria esecuzione di cui all’art. 648 c.p.c., del fumus boni juris del creditore procedente, da valutarsi alla stregua delle regole generali sulla ripartizione dell’onere della prova e sulle prove proprie dell’ordinario giudizio di cognizione. A tale risultato si è giunti: – in base ad un’intepretazione sistematica dell’art. 648 c.p.c.: cioè, una volta finalmente ripristinato il contraddittorio con l’instaurazione del giudizio di opposizione, mai si potrebbe continuare a considerare fondata la domanda accolta col decreto monitorio, nemmeno e tanto più ai fini della concessione della sua provvisoria esecuzione, qualora, se la causa passasse in decisione in quel momento, la domanda stessa, stando alle ordinarie regole probatorie, risultasse totalmente sfornita di prova; – forse con maggiore coerenza sistematica, alla stregua della riconduzione dell’ordinanza prevista da quella norma nell’ambito delle condanne con riserva delle eccezioni (155); – al fine di evitare l’incostituzionalità della norma: l’ordinanza di provvisoria esecuzione avrebbe una natura anche cautelare e, quindi, “la valutazione del fumus boni juris va operata anche nei confronti della prova dedotta dall’istante opposto a base della domanda di decreto ingiuntivo”, sicché sia il fumus che il periculum “reciprocamente si influiscono” nella cognizione del giudice (156). Se il provvedimento monitorio dotato di efficacia esecutiva è una condanna con riserva, allora, deve richiedersi, per la concessione di quest’ultima (almeno nei casi in cui non sia obbligatoriamente imposta dalla legge, come nel primo comma dell’art. 642 cod. proc. civ.), che sussista il fumus boni iuris in favore di chi la chiede. Il punto centrale del discorso che qui si imposta è che la conclusione possa essere applicata sicuramente anche al caso dell’ordinanza ingiuntiva (157), visto che le differenze con il decreto qui si riducono ulteriormente, essendo in entrambe le ipotesi possibile esaminare le istanze ex art. 648 cod. proc. civ. a contraddittorio oramai instaurato (158). Certo, non ci si nasconde che osta, almeno prima facie, alla piena sussumibilità dell’ordinanza ingiuntiva esecutiva entro il paradigma della condanna con riserva il regime della libera revocabilità e modificabilità della prima (159): e tuttavia, in un sistema che ha introdotto strumenti, con aspirazioni definitorie dell’intero processo, dalla forma e dalla sostanza di una mera ordinanza, non dovrebbe dare scandalo una revisione dinamica del concetto di condanna con riserva ed arnmettere la sua estensibilità, appunto, al caso in esame. La semplificazione delle forme introdotta con le ordinanze anticipatorie, in altri termini, può interagire con la teoria generale del processo e quindi sui concetti stessi di ordinanza e sentenza. Si può, alla fine, ammettere l’estensione del regime di stabilità soltanto relativa, tipico delle ordinanze, anche al caso in cui esse abbiano la sostanza di una sentenza, ovvero di un accertamento a cognizione piena, limitata però ad una sola parte del thema decidendum (perché delle residue questioni, appunto, ci si riserva di occuparsi in un momento successivo): del resto, è conclamata tra gli interpreti l’ammissione di una sorta di atipicità dei provvedimenti anticipatori e quindi dovrebbe essere consentito applicare solo per analogia – e persino a seconda dei diversi aspetti via via coinvolti – la disciplina prevista per gli istituti che più loro si avvicinano quanto a funzione e struttura. Anche l’ordinanza ingiuntiva esecutiva potrebbe, allora, definirsi – se non altro quanto ad efficacia – una condanna con riserva. Ora, se si accetta questa premessa, le condizioni per la concessione della provvisoria esecutività (o esecutorietà) dell’ordinanza ingiuntiva si risolvono proprio nella compresenza e nella reciproca interazione di tutte quelle richiamate nell’art. 186 ter: vale a dire, nell’alternativa rilevanza di ciascuna di quelle, purché, naturalmente, non osti, in generale, alla concessione la delibazione dell’insussistenza del fumus boni iuris in capo alla parte a cui l’ordinanza possa concedersi (160). Impregiudicato il problema della necessità o meno di un’istanza di parte in merito alla concessione della provvisoria esecuzione, quindi, può concludersi che, nei confronti della parte costituita, essa può aver luogo: 1. se il credito è fondato su cambiale, assegno bancario, assegno circolare, certificato di liquidazione di borsa, o su atto ricevuto da notaio o da altro pubblico ufficiale autorizzato; 2. oppure se vi è pericolo di grave pregiudizio nel ritardo, ma potendo in questo caso il giudice imporre cauzione a colui cui concede l’ordinanza; 3. oppure se l’opposizione (161) alla concessione dell’ordinanza ingiuntiva (162) non è fondata su prova scritta; 4. oppure se la causa non è di pronta soluzione; e sempre che (in tutte tali ipotesi) sussista il fumus boni iuris in relazione al diritto azionato da colui in cui favore concedere l’ordinanza ingiuntiva (163). E tutto ciò, naturalmente, all’ovvia condizione che si sia risolta positivamente la valutazione sulla sussistenza della prova scritta del credito azionato (già da interpretarsi alla luce – per quanto detto (164) – del complessivo impianto difensivo dell’aggiungendo), indispensabile comunque per la stessa emanazione dell’ordinanza ingiuntiva. 6. Quali sono le facoltà processuali consentite al convenuto contumace che si costituisca dopo la notifica dell’ordinanza ingiuntiva? Per esclusione rispetto alle conclusioni appena raggiunte, allora, dovrà ammettersi che, nei confronti del contumace, l’ordinanza ingiuntiva potrà essere emessa all’esito della valutazione della sussistenza della prova scritta del credito azionato, stavolta da non interpretarsi alla luce del complessivo impianto difensivo dell’intimando (visto che, essendo egli rimasto contumace, non ha sviluppato alcun impianto difensivo); e che essa potrà essere dichiarata provvisoriamente esecutiva se: 1. se il credito è fondato su cambiale, assegno bancario, assegno circolare, certificato di liquidazione di borsa, o su atto ricevuto da notaio o da altro pubblico ufficiale autorizzato; 2. oppure se vi è pericolo di grave pregiudizio nel ritardo, ma potendo in questo caso il giudice imporre cauzione a colui cui concede l’ordinanza. Cosa possa fare poi l’ingiunto costituendosi dopo la notifica dell’ordinanza ingiuntiva (la quale, si ricorderà, deve contenere l’espresso avvertimento che, ove la controparte non si costituisca entro il termine di venti giorni dalla notifica, essa stessa diverrà esecutiva) si desume dal rito applicabile alla controversia nel cui corso è stato emesso il provvedimento: una volta escluso che al contumace non si applichino le decadenze già verificatesi (165), egli potrà proporre ancora solo le eccezioni – non rilevabili di ufficio – da cui non sia decaduto (salva l’operatività delle rimessioni in termini di cui agli artt. 294 e 184 bis, ove ne ricorrano i presupposti) (166), oltre ad allegare mere difese o difendersi in punto di diritto (167). Nemmeno, naturalmente, gli è preclusa l’istanza di revoca o modifica dell’ordinanza ingiuntiva, sia sotto il profilo dell’insussistenza dei presupposti per la sua concessione, sia sotto quello dell’irritualità della notifica (168), sia limitatamente alla richiesta di revoca della sola parte in cui viene disposta la provvisoria esecutività (o esecutorietà) o a peculiari clausole di quest’ultima (come quella in tema di cauzione). Quanto poi alla dispiegabilità di un’opposizione tardiva ex art. 650 cod. proc. civ., che si vuole introdurre ora in virtù del richiamo diretto operato dall’art. 647 a tale norma (169), ora in via di applicazione analogica (170), deve ritenersi che il richiamo all’art. 647 da parte del quinto comma dell’art. 186 ter sia limitato alla sola esecutività del provvedimento (l’ordinanza diviene esecutiva ai sensi dell’articolo 647). Il riferimento al giudizio di opposizione, pure contenuto nell’art. 647, invece, non può essere esteso al giudizio in cui è stata emessa l’ordinanza ingiunzione, vista la differenza di presupposti e di struttura di un giudizio a cognizione ordinaria rispetto a quello introdotto con ricorso per decreto ingiuntivo. D’altra parte, non si vede la necessità di complicare le cose ipotizzando una specifica figura di opposizione tardiva ad ordinanza ingiuntiva, sia perché non esiste un giudizio di opposizione tempestiva (visto che l’ordinanza ingiuntiva si innesta in un ordinario giudizio di cognizione già in essere e il cui oggetto non sarà mutato, per il fatto che sia stata chiesta e concessa l’ordinanza ex art. 186 ter, nella verifica del diritto provvisoriamente consacrato con quest’ultima), sia perché al contumace che si costituisca tardivamente dovrebbe potersi appunto consentire la rimessione in termini di cui alla norma generale dell’art. 294 (o, secondo altri, 184 bis), di portata più ampia (e quindi più favorevole all’ingiunto) rispetto a quella dell’art. 650 cod. proc. civ. Deve invero escludersi, non essendo specificamente previsto dalla norma, che la costituzione tardiva del contumace ingiunto determini la definizione del processo (171): ma, al riguardo, è ormai indispensabile affrontare compiutamente il problema dell’efficacia dell’ordinanza ingiuntiva in caso di estinzione del processo nel corso del quale è pronunziata. 7. Qual è il valore dell’ordinanza una volta che sia estinto il processo? Secondo la lettera della legge, l’ordinanza ingiuntiva conserva la sua efficacia in caso di estinzione del processo: e la disputa, tra gli interpreti, è in ordine alla qualificazione di tale efficacia e alla stessa individuazione della natura dell’ordinanza in esame. Da un lato, infatti, si sostiene che, in caso di estinzione, l’ordinanza ingiuntiva (alla pari dell’ordinanza di pagamento di somme non contestate) acquista una vera e propria “immutabilità”, una attitudine al giudicato (172); dall’altro, invece, si afferma che l’estinzione del processo darebbe luogo solo ad una mera “ultraattività” dell’ordinanza, che manterrebbe solo la sua peculiare attitudine a fondare un’esecuzione (173) (cioè la qualità di titolo giudiziale esecutivo). L’argomento principale dei sostenitori della prima tesi (immutabilità equiparabile al giudicato) è il richiamo alla disciplina del decreto ingiuntivo e, in particolare, all’esecutività di quest’ultimo in caso di estinzione del processo (art. 653 cod. proc. civ.) e di inattività per mancata costituzione (art. 647 cod. proc. civ.): visto che nessuno dubita che il decreto ingiuntivo, nonostante il codice gli attribuisca solo l’esecutività, diviene irretrattabile e acquista un’autorità e una forza equiparabile al giudicato, appare logico che il richiamo alla medesima disciplina comporti gli stessi effetti. L’argomento non può essere condiviso. Il decreto ingiuntivo, dichiarato esecutivo ex artt. 647 o 653 cod. proc. civ., diviene irretrattabile semplicemente in considerazione della peculiare struttura processuale in cui il codice lo inserisce, la quale consente di rimettere in discussione il provvisorio accertamento dei fatti costitutivi – in cui consiste il decreto stesso – esclusivamente entro termini perentori dalla sua notifica: termini che, non solo in ipotesi di mancata o tardiva costituzione dell’opponente, ma anche – e a maggior ragione – nel caso di estinzione del processo sono ormai definitivamente elassi. L’ordinanza ingiuntiva, invece, costituisce sì un accertamento provvisorio dei fatti costitutivi del diritto vantato dall’ingiungente, ma è un subprocedimento incidentale – e accidentale – di un ordinario giudizio di cognizione e, soprattutto, non è l’oggetto originario di un processo finalizzato istituzionalmente alla sua verifica, il quale rimanga condizionato dalla carenza di attività processuale specifica della parte ingiunta. Una volta emessa l’ordinanza ingiuntiva, infatti, il processo in cui è pronunziata non si estingue per il fatto che l’ingiunto non contesti quell’ordinanza: e ciò nemmeno per il caso in cui l’ingiunto sia contumace, visto che il codice nulla dispone sull’esito del giudizio, ma solo in ordine all’efficacia esecutiva del provvedimento; e, nelle altre ipotesi di estinzione, questa è disegnata dalla norma come la causa dell’efficacia esecutiva, non come una conseguenza di quest’ultima. D’altra parte, si è già tentato di ricostruire l’ordinanza ingiuntiva esecutiva come una condanna con riserva (174): ciò deriverebbe dalla natura di titolo esecutivo provvisorio, fondato sulla positiva delibazione della sussistenza dei fatti costitutivi del diritto dell’ingiungente. Deve allora ritenersi (175) estensibile anche a questo caso la conclusione raggiunta dalla giurisprudenza di legittimità in tema di ordinanza provvisoria di rilascio ex art. 665 cod. proc. civ. (176) e di cui pure già si è accennato per l’art. 186 bis, secondo la quale l’accertamento contenuto nel titolo esecutivo giudiziale costituito dalla condanna con riserva mantiene la sua efficacia fino ad una successiva pronunzia di merito contraria: avvenga questa, come di regola, nello stesso processo in cui è stata emanata la condanna con riserva, ovvero in altro e separato processo. Dovrebbe ammettersi, allora, un’azione di accertamento negativo – e quindi intrapresa dal presunto debitore – della pretesa momentaneamente consacrata nell’ordinanza ingiuntiva; ma anche un’opposizione all’esecuzione intrapresa sulla base di tale titolo, visto che, estinto il giudizio in cui quello si è formato ed esclusa la formazione di un giudicato, non si tratterebbe di far valere fatti oramai preclusi da quest’ultima. Non si può cioè, senza una specifica e inequivocabile disposizione, imporre all’ingiunto un vero e proprio onere di reagire per evitare un’irretrattabilità equiparabile al giudicato, non foss’altro che per la gravità delle conseguenze, anche – se non soprattutto – per il dedotto e il deducibile. Alla parte ingiunta potrebbe convenire persino subire l’esecuzione, a condizione però che non diventino indiscutibili altri fatti, contro il cui accertamento definitivo egli potrebbe avere uno specifico interesse contrario; e, comunque, sarebbe per lui ben più oneroso rimettere in discussione con un autonomo giudizio (anziché nel corso di quello in cui si è formata l’ordinanza ingiuntiva, di cui avrebbe potuto chiedere immediatamente la revoca o la modifica) quanto provvisoriamente accertato con il titolo esecutivo giudiziale oramai già pronunziato (la cui sospensione dovrebbe essere possibile solo ex art. 624 cod. proc. civ., a tutto concedere). Non ci si nasconde che l’interpretazione qui condivisa (ultraattività della sola efficacia di titolo esecutivo) corre il rischio di rendere ancora meno operante l’effetto deflattivo auspicato per questi provvedimenti anticipatori; ma il sistema pare coerente con una sorta di posticipazione, quasi di eventualizzazione della reazione della parte, che non deve escludere però la possibilità di una rimessione in discussione dell’intero tema della controversia, tranne i casi in cui ciò sia consentito o imposto da una lettera della legge chiara ed univoca. Per quanto la tesi dell’idoneità al giudicato sia conforme ad un’aspirazione di economia processuale, così, la riconquista della normalità dell’esercizio della giurisdizione passa pur sempre per il recupero della funzionalità dei meccanismi processuali a cognizione piena già esistenti e non per l’amputazione delle garanzie – per le parti e per lo stesso ordinamento – assicurate dalla vigente struttura del processo civile ordinario. BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE ATTARDI, Le nuove disposizioni sul processo civile e il progetto del Senato sul giudice di pace, Padova 1991. ATTARDI, Le ordinanze di condanna nel giudizio ordinario di cognizione di primo grado secondo la legge di riforma, in Giur. it., 1992, IV, 1 ss. BALENA, La riforma del processo civile di cognizione, Napoli 1994. BLANDINI, Le nuove norme del codice di procedura civile coordinate e commentate, a cura di BLANDINI, LOI, MARIANI, PAIARDI, Milano 1991, 35. BORGHESI, L’anticipazione dell’esecuzione forzata nella riforma del processo civile, in Riv. trim. dir. e proc. civ., 1991, 193. BUCCI, CRESCENZI, MALPICA, Manuale pratico della riforma del processo civile, Padova 191. CARPI, TARUFFO, Commentario breve al codice di procedura civile, III ed., Padova 1994. CECCHELLA, in VACCARELLA, CECCHELLA, CAPPONI, Il processo civile dopo le riforme, Torino 1992, 120 ss. CHIARLONI, Riflessioni inattuali sulla novella del processo civile (con particolare riguardo ai provvedimenti cautelari e interinali, in Foro it., 1990, V, 499 ss. CHIARLONI, Prime riflessioni sui valori sottesi alla novella del processo civile, in Riv. dir. proc., 1991, 657 ss. CIVININI, Le condanne anticipate, in Foro it., 1995, I, 332 ss. COLLIA, L’ordinanza per il pagamento di somme non contestate nel processo del lavoro, in Riv. dir. proc., 1994, 538 ss. COMOGLIO, in Le riforme della giustizia civile, a cura di TARUFFO, Torino 1993, 310 ss. COMOGLIO, Il processo di primo grado, in Riv. trim. dir. e proc. civ., 1994, 229 ss. D’AIETTI, FRASCA, MANZI, MIELE, La riforma del processo civile, Milano 199, pp. 176 ss. DEL VECCHIO, Ordinanze di pagamento. Esecutorietà della sentenza di rilascio, in Dir. e giur., 1991, 320 ss. DIDONE, Appunti sulla tutela sommaria di cui all’art. 186 bis c.p.c., in Giur. mer., 1994, IV, 764 ss. FABIANI, I provvedimenti a funzione prevalentemente deflattiva, in Foro it., 1993, I, 1993 ss. FRASCA, Provvedimenti interinali e cautelari, relazione tenuta al Seminario su tematiche civili e processuali civili per gli uditori giudiziari nominati con D.M. 1-8-91, organizzato dal C.S.M. dal 27 al 29 febbraio 1992. IMPAGNATIELLO, Commentario alla l. 26 novembre 1990 n. 353, in Le nuove leggi civili commentate, 1992, 102 ss. MANDRIOLI, Le nuove ordinanze “di pagamento” e “ingiunzionale” nel processo ordinario di cognizione, Riv. dir. proc., 1991, 644 ss. MERLIN, L’ordinanza di pagamento delle somme non contestate (dall’art. 423 all’art. 186 bis cod. proc. civ.), in Riv. dir. proc., 1994, 1009 ss. MIRENDA, Le norme anticipatorie del rito ordinario sono applicabili nel processo del lavoro? Osservazioni sparse intorno agli artt. 186 bis e ter cod. proc. civ., in Rass. loc. e cond., 1996, 247. NAVARRA, La tutela interinale: art. 186 bis e ter cod. proc. civ., prospettive “de iure condendo”, in Giur. it., 1993, IV, 73 ss. OLIVIERI, Le ordinanze anticipatorie nei giudizi davanti al Pretore, in Dir. e giur., 1991, 288 ss. PROTO PISANI, La nuova disciplina del processo civile, Napoli 1991, 234 ss. PROTO PISANI, Lezioni di diritto processuale civile, Napoli 1994, 635 ss. PROTO PISANI, I provvedimenti anticipatori di condanna, in Foro it., 1990, V, 394 ss. PROTO PISANI, Le ordinanze di pagamento di somme, in ANDRIOLI-BARONE, PEZZANO, Le controversie in materia di lavoro, Bologna-Roma 1987, 742 ss. QUATRARO, L’ordinanza e l’ingiunzione di pagamento, in Società e dir., 1994, I, 2, 343. RICCI, Per un’efficace tutela provvisoria ingiunzionale dei diritti di obbligazione nell’ordinario processo civile, in Riv. dir. proc., 1990, 1021 ss. RAMPAZZI, Commento agli artt. 20 e 21 L. 26 novembre 1990 n. 353, in Le riforme del processo civile, a cura di CHIARLONI, Bologna 1991, 232 ss. SASSANI, in La riforma del processo civile, a cura di CONSOLO, LUISO, SASSANI, Milano 1991, 114 ss., spec. 127. SCARSELLI, In difesa dell’art. 648, 1° comma, cod. proc. civ., in nota a Corte Cost. 8-3-96, in Foro it., 1996, I, 2338 ss. SCRIMA, Le ordinanze ex artt. 186-bis e ter cod. proc. civ., relazione tenuta al Corso di riconversione alle funzioni civili svoltasi in Frascati dal 28 al 31 ottobre 1996. TARUFFO, La riforma del processo civile, Torino, 1992. TARZIA, Lineamenti del nuovo processo di cognizione, Milano 1991, 130 ss. TOTARO, I provvedimenti anticipatori di condanna, in Giur. mer., 1992, 771 ss. TRISORIO LIUZZI, Sui termini per la pronunzia delle ordinanze di condanna ex artt. 186 bis e ter cod. proc. civ., in Giur. it., 1995, I/B, 334 ss. Fra tutte le trattazioni istituzionali, pare utile un richiamo a MANDRIOLI, Corso di diritto processuale civile, Torino 1993 (per la IX ed.; ma è già stata edita la successiva), vol. II, 101 ss. (2) La presente trattazione dichiaratamente non tenderà ad essere esaustiva delle ricche problematiche relative agli istituti dei provvedimenti anticipatori di cui agli artt. 186 bis e ter: e tanto per attenersi il più possibile all’impostazione del presente incontro di studi, che vuole una presentazione agile, a mo’ di introduzione generale, seguita dalla piena, ma al tempo stesso succinta, illustrazione, dei punti salienti di ogni questione. Di particolare utilità per una ricostruzione complessiva e sistematica degli istituti oggetto della presente trattazione può rivelarsi il pregevolissimo contributo della collega CIVININI, op. cit. alla nota precedente, come pure quello della collega SCRIMA, Le ordinanze ex artt. 186-bis e ter cod. proc. civ., cit. alla nota precedente. (3) Istituti analoghi a quelli di cui agli artt. 186 bis e ter erano presenti in tutte le numerose proposte di riforma anteriori a quella poi approdata alla L. 353/90: per un panorama, cfr. CIVININI: op. cit., 333, nota 2. (4) La natura dell’ordinanza ex art. 186quater viene volutamente qui lasciata impregiudicata, alla pari di qualunque questione ad essa relativa. (5) Poiché non opera il meccanismo, introdotto poi con la successiva ordinanza di cui all’art. 186quater cod. proc. civ., di sostituzione dell’ordinanza stessa alla sentenza, anche ai fini delle impugnazioni. (6) ATTARDI, op. cit., 4: MANDRIOLI, Le nuove etc., cit., p. 648: PROTO PISANI, Lezioni, cit., p. 638. (7) TARUFFO, op. cit., pp. 301 ss. (8) ATTARDI, op. loc. ult. cit.; COMOGLIO, op. cit., p. 313; MANDRIOLI, op. ult. cit., p. 647; TARZIA, op. cit., p. 132. (9) BUCCI-CRESCENZI-MALPICA, Manuale pratico della riforma del processo civile, Padova 1991, p. 167. Ma, in contrario (e con riserva di ulteriore approfondimento), v. le osservazioni di SCARSELLI, op. cit., spec. 2351 ss. (10) La giurisprudenza del Supremo Collegio qualifica oramai pacificamente l’ordinanza ex art. 665 cod. proc. civ. come condanna con riserva: per tutte, cfr. Cass. 19-7-96 n. 6522, in Rass. loc. e cond., 1996, 338, Cass. 23-3-92 n. 3589, Cass. 20-2-91 n. 1797. (11) Qualificano espressamente l’ordinanza ex art. 648 cod. proc. civ. come condanna con riserva: SCARSELLI, In difesa etc., cit., 2351; IDEM, La condanna con riserva, Milano 1989, p. 344; PROTO PISANI, Appunti sulla tutela sommaria etc., cit., 629. (12) BORGHESI, op. cit., p. 194; RAMPAZZI, op. cit., p. 244. (13) PROTO PISANI, La nuova disciplina, cit., p. 301; RAMPAZZI, op. loc. ult. cit. (14) Ma non anche tendenzialmente sostitutivi di una sentenza, a differenza dell’ordinanza ex art. 186 quater cod. proc. civ.. (15) Cfr., tra gli altri: CHIARLONI, Prime riflessioni etc., cit., 657; MANDRIOLI, Le nuove ordinanze etc., cit., 644 ss.; ATTARDI, Le ordinanze di condanna etc., cit., 1 ss.; CIVININI, op. loc. ult. cit.. (16) Così, testualmente, PROTO PISANI, op. ult. cit., 235. Non si è in possesso di dati concreti, supportati da statistiche attendibili: ma la scarsa frequenza dei provvedimenti in esame nelle riviste giuridiche potrebbe essere un segnale di una scarsa diffusione pratica; per quel che possa valere, nella Pretura Circondariale di Salerno consta l’emanazione, nell’ultimo anno e su di un carico di circa tremila pendenze, di circa dieci-quindici ordinanze ex art. 186 bis o ter c.p.c.. (17) In generale, sul ruolo della non contestazione nel processo civile, cfr. CIACCIA CAVALLARI, La contestazione nel processo civile, Milano 1992; e, per quello che qui riguarda, soprattutto pp. 46 ss. (18) È diffusissima, tra i commentatori, l’instaurazione di una sorta di parallelo tra la presente ordinanza e quella prevista dall’art. 423 cod. proc. civ., primo comma (a mente del quale il giudice, su istanza di parte in ogni stato del giudizio, dispone con ordinanza il pagamento delle somme non contestate): v., per tutti, CIVININI, op. cit., 333; MANDRIOLI, Corso cit., p. 102. Anzi, si sottolinea che l’ordinanza ex art. 186bis sia una sorta di evoluzione, positivamente salutata, della norma dell’art. 423 co. 1, che aveva dato luogo a gravi problemi interpretativi, sia in ordine alla possibilità di una sua emanazione contro la parte contumace, sia in ordine al regime di stabilità. Al riguardo, dopo accese dispute interpretative (su cui v. PROTO PISANI, Le ordinanze di pagamento etc., cit., 742 ss. e 746-), solo nel 1980 la Suprema Corte (Cass. SS.UU. 12-4-80 n. 2321, in Foro it. 1980. I, 1919) aveva qualificato il provvedimento ex art. 423 co. 1 c.p.c. come provvedimento interinale condannatorio a cognizione sommaria e ad effetto anticipatorio, intrinsecamente revocabile, non concedibile contro la parte rimasta contumace. (19) Nonostante la corrente qualificazione della natura del rendimento dei conti come istruttoria ed eventualmente decisoria: Cass. 2959/86 e 5591/83, o, in generale e per tutti, ROCCO, Rendimento dei conti, in Nss. Dig. it., XV, Torino 1968, 432 ss., oppure RAMPAZZI GONNET, Il giudizio civile di rendiconto, Milano 1990, oppure ancora MANDRIOLI, Corso cit., 232 ss. (20) In generale, cfr. GARBAGNATI, I procedimenti di ingiunzione e per convalida di sfratto, Milano 1979, pp. 325 ss. Comunque, la diversa dizione “somma non controversa” è infatti equipollente alla non contestazione, anche se rimane discutibile l’ampiezza dell’oggetto della non contestazione. (21) Per una ricostruzione complessiva ci si permette di rinviare a VALITUTTI - DE STEFANO, Le impugnazioni nel processo civile, Padova 1996, vol. I, pp. 300 ss. per il decreto ingiuntivo definitivo e pp. 314 ss. per l’ordinanza di convalida di licenza o sfratto. Si può, in tali casi, parlare di comportamento legalmente tipizzato a fini processuali – e segnatamente al fine del conseguimento della definitività del provvedimento giudiziale –: VALITUTTI - DE STEFANO, Il decreto ingiuntivo e la fase di opposizione, Padova 1994, pp. 140 ss. (22) In tal senso, PROTO PISANI, La nuova disciplina etc., cit., 238. Pertanto, secondo l’A., presupposti dell’ordinanza sarebbero: 1. la non contestazione, da parte del convenuto costituito, dei fatti costitutivi e l’omesso dispiegamento, da parte sua, di eccezioni di merito; 2. la verifica in iure, da parte del giudice, dell’idoneità dei fatti dedotti dal creditore a produrre gli effetti da lui affermati e dell’assenza di fatti impeditivi, modificativi od estintivi risultanti dagli atti o rilevabili di ufficio; 3. la delibazione dell’infondatezza delle eccezioni di rito sollevate dal convenuto e dell’inesistenza di impedimento di rito rilevabili d’ufficio. (23) Espressamente in tali sensi: TARZIA, Lineamenti etc., cit., pp. 130 ss.; SASSANI, op. cit., 131; MANDRIOLI, Le nuove ordinanze etc., cit., 646. Va notato che lo stesso MANDRIOLI, Corso etc., cit., p. 102, nota 3, precisa che la non contestazione potrebbe riguardare ANCHE le somme in sé considerate e non necessariamente i fatti costitutivi del diritto. (24) Proprio per evitare la conseguenza di un tale automatismo, precluso dall’impiego del verbo “può”, RAMPAZZI, op. cit., 236, conclude nel senso del PROTO PISANI. (25) ATTARDI, op. cit., 2. Dal canto suo, FRASCA (Provvedimenti interinali e cautelari, relazione tenuta al Seminario su tematiche civili e processuali civili per gli uditori giudiziari nominati con D.M. 1-8-91, organizzato dal C.S.M. dal 27 al 29 febbraio 1992, cit., p. 4) ritiene di potere interpretare il PROTO PISANI nel senso che anch’egli, in fondo, si riferirebbe al diritto: a sua detta, invero, anche l’illustre Autore valuterebbe la non contestazione con riferimento a fatti qualificati giuridicamente e non a fatti considerati come accadimenti fenomenici. (26) TARZIA, op. cit., p. 134. E senza considerare che pure potrebbe ammettersi una non contestazione in astratto revocabile sino al momento della definizione del thema decidendum, cioè alla precisazione delle conclusioni. (27) Anche nel caso della convalida di licenza o sfratto, invero, il giudice non ha una mera funzione notarile dell’intervenuta mancata contestazione, dovendo spingere comunque il suo controllo all’accertamento di presupposti minimi per l’accoglimento della domanda: v., per una rassegna, GARBAGNATI, op. cit., p. 317. (28) Come, con la consueta lucidità, deduce in buona sostanza CIVININI. op. cit., 335, richiamando anche FURNO, Contributo alla teoria della prova legale, 1940, pp. 124 ss. (29) Pret. Salerno-Eboli, 29-3-95, in Arch. civ., 1996, p. 492. (30) Per tutti: FABIANI, op. cit., 1997; contra, per tutti: TARZIA, op. cit., 131. (31) Sulla quale, peraltro, non vi è concordia tra gli interpreti: BUCCI-CRESCENZIMALPICA, op. cit., 161 ss., esclude la necessità di un apposito contraddittorio; contra: SCRIMA, op. cit., p. 20, che opportunamente fa leva sulla generalità del principio della previa audizione della parte contro cui si invoca una pronunzia giudiziale. A tanto si aggiunga che, in nome dell’economia processuale, non sarebbe comunque legittimo comprimere la facoltà, per la parte intimanda, di precisare se e come aveva contestato in precedenza alcunché: ma, naturalmente, la necessità di sentirla non impone affatto un previo rinvio ad altra udienza, potendo, su questo specifico punto, il giudice valutare le circostanze del caso concreto. Il fondamento normativo del potere di disporre l’interrogatorio della parte si può agevolmente rinvenire nell’art. 117 cod. proc. civ. (32) Non si tratterebbe certo dell’imposizione di un onere non previsto dalla legge, ma solo dell’interpretazione adeguatrice dell’art. 116, co. 2, ult. parte, cod. proc. civ. alla nuova disciplina dell’art. 186 bis cod. proc. civ., nella parte in cui risulta applicabile alle cause soggette al c.d. vecchio rito. (33) In tal senso veggasi Pret. Salerno-Eboli 17-12-94, in Giur. merito 1995, 715. (34) Leggasi: nuovissimo testo, vale a dire, come vigente al giorno d’oggi, a seguito delle modifiche arrecate con l’art. 5 D.L. 432/95, conv. con mod. in L. 534/95. (35) COMOGLIO, Le riforme etc., cit. 311. (36) Cfr. Cass. 17-9-91 n. 9668. (37) Cfr. FABIANI, I provvedimenti etc., cit., 2001, che distingue tra interessi legali, da un lato, e interessi convenzionali e maggior danno, dall’altro. (38) PROTO PISANI, La nuova disciplina etc., cit., p. 239; TARZIA, Lineamenti etc., cit., p. 131; COMOGLIO, Le riforme cit., p. 315. (39) RAMPAZZI, op. cit., pp. 237 s.; ATTARDI, Le ordinanze etc., cit., p. 5; FABIANI, op. cit., 1998; SCRIMA, op. cit., p. 21. (40) E tratterebbesi di una sentenza particolarmente semplice, visto che si fonderebbe sulla mancata contestazione del convenuto. (41) Con squisita sensibilità CIVININI. op. cit., 336, richiama 1’attenzione – rifacendosi alla relazione Acone-Lipari, cit., 420 – contro l’accentuazione dei rischi di sommarizzazione del processo ordinario che deriverebbero dalla seconda tesi ora esposta. (42) V., in generale, TRISORIO LIUZZI, cit. in nota 1. (43) MANDRIOLI, Corso cit., vol. II, p. 102; per l’ordinanza ex art. 186 ter, cfr.: Trib. Bari. ord. 21 (o 22-)-5-93, in Foro it. 1994, I, 259 e in Giur. it. 1995, I/B, 334 ss., con nota di TRISORIO LIUZZI, cit,; Trib. Roma, ord. 25-1-96, in Giur. mer. 1996, I, 211. (44) Espressamente nella Relazione Acone-Lipari, cit., 420, si sostiene che la pronuncia di un provvedimento anticipatorio può ammettersi solo dopo il fallimento del tentativo di conciliazione. (45) E, ad esempio, fatto salvo il caso di scuola in cui comunque la mancata contestazione si sia avuta e si sia avuta in modo espresso ed inequivoco. (46) Così espressamente SCRIMA, op. cit., 10. (47) Si può pensare al caso in cui, interrogato il convenuto in sede di interrogatorio formale o di udienza espressamente dedicata alla disamina dell’istanza ex art. 186bis cod. proc. civ., egli, interpellato sul se contesti o meno uno o più dei fatti costitutivi addotti dall’attore, risponda nel senso che si riserva di essere preciso sul punto solo all’esito del termine per modificare domande o eccezioni, ex art. 183, ult. co., nss. t. cod. proc. civ.; risulterebbe difficile, in questo caso, configurare un silenzio significativo ovvero una non contestazione, rilevante per l’emissione dell’ordinanza ex art. 186 bis; ma, per non premiare oltremodo la condotta del convenuto, i termini ex art. 183 ult. co. potrebbero essere benissimo ridotti al minimo e l’ordinanza ex art. 186bis, ove sia intervenuta la non contestazione, emessa immediatamente dopo la loro scadenza. (48) L’indicazione del momento della precisazione delle conclusioni è corrente: per tutti MANDRIOLI, Le nuove etc., cit., p. 645; CIVININI, op. cit., 337; SCRIMA, op. cit., 10. (49) V. gli Autori cit. alla nota prec.; contra: FABIANI, op. cit., 1999. (50) Escludono la concedibilità durante la sospensione o l’interruzione: ATTARDI, op. cit., 93; TARZIA, Lineamenti etc., cit., 129; RAMPAZZI, op. cit., 234 s.; la ammettono: PROTO PISANI, La nuova disciplina etc., cit., 240; CIVININI, op. loc. ult. cit.; FABIANI, op. cit., 2000. (51) Sul “può” si sofferma MANDRIOLI, Corso etc., cit., p. 102, nota 2; ATTARDI, op. ult. cit., 93; COMOGLIO, op. cit., 219; ma anche DIDONE, op. cit., 767 e TOTARO, op. cit., 773. (52) Su cui v. supra, § 1. La conclusione è quella del PROTO PISANI, di cui supra, nota 22, alla fine qui accolta. (53) Risposta negativa dà invece DIDONE, op. cit., 767, ma in modo – peraltro – invero apodittico. (54) In generale, sull’argomento, fra tutti: CIVININI, op. cit., 340; PROTO PISANI, op. ult. cit., 244; FABIANI, op. cit., 2001; TARZIA, op. cit., 135; MANDRIOLI, Corso etc., cit., 102. (55) SCRIMA, op. cit., p. 26, n. 36; IMPAGNATIELLO, op. cit., 111; FABIANI, op. cit., 2001. (56) La questione si lascia impregiudicata; ma, proprio per quanto detto nel testo, la conclusione potrebbe al limite condividersi sulla base della necessità di una valutazione della peculiarità del caso singolo, a patto che sia accompagnata da un eccezionale impegno nella definizione la più pronta possibile con i mezzi ordinari. (57) Relazione Acone-Lipari, cit., 420. (58) Se si eccettua il pregevole contributo di CIVININI, op. cit., 346 ss. (59) Cfr. SCRIMA, op. cit., 8; Trib. Taranto, ord. 30-11-94, in Foro it. 1995, I, 2342 (secondo il quale la contumacia di uno tra più coobbligati in solido non impedisce la pronunzia dell’ordinanza nei confronti dei convenuti costituiti. (60) Per il quale si rinvia a MENCHINI, Il processo litisconsortile. Struttura e poteri delle parti, Milano 1993, I, 192 ss., spec. 320. (61) PROTO PISANI, Lezioni etc., cit., 350 ss. (62) CIVININI, op. loc. ult. cit. (63) Così MENCHINI, op. cit., 320. (64) Nei sensi che seguono, espressamente CIVININI, op. ult. cit.. p. 347. (65) Resteranno irrilevanti, non impedendo l’emissione dell’ordinanza in presenza di non contestazione, le eccezioni cc.dd. strettamente personali, relative ai vizi della capacità e del consenso, alla sospensione della prescrizione, alla cessione del credito notiticata ad uno solo: CIVININI, op. loc. ult. cit. (66) È interessante ricordare che il c.d. modello di constatazione amichevole di incidente, di cui all’art. 5 L. 857/76, costituisce tra le parti una confessione stragiudiziale e, rispetto all’assicurazione, è la base di una presunzione di svolgimento del fatto secondo le modalità ivi descritte: sicché, in caso di contumacia dell’assicurato, la contestazione, idonea a precludere l’ordinanza ex art, 186 bis, deve essere specifica, mediante indicazione di prove in contrario: CIVININI, op. cit.. 348. Invece, il giuramento e la confessione esplicano l’efficacia tipica di prova legale solo nei processi con litisconsorzio facoltativo e limitatamente alla causa cumulata cui si riferiscono, mentre esplicano l’efficacia di prova libera ex art. 2733 e 2738 c.c. nei processi con litisconsorzio unitario: CIVININI. op. cit., 347; MENCHINI, op. cit., 334 ss. e 632 ss. (67) Salvo poi a ritenere che l’ordinanza emessa nella causa pregiudiziale possa costituire il presupposto per l’emissione di analoga ordinanza nella causa dipendente: CIVININI. op. cit., 347. (68) I quali recitano: 1. Il giudice, su istanza di parte, in ogni stato del giudizio, dispone con ordinanza il pagamento delle somme non contestate. 3. Le ordinanze di cui ai commi precedenti costituiscono titolo esecutivo. (69) Per tutte: Cass. 1-3-88 n. 2166, in Foro it., 1988, I, 2613; Cass. 7-3-91 n. 2366. (70) Per un generale richiamo, cfr. supra, nota 18. (71) Anche sotto il profilo della potenzialità definitoria insita nell’ordinanza ex art. 666 (visto che il mancato pagamento della somma non contestata fatta oggetto dell’ordinanza comporta la convalida e quindi la conclusione definitiva del procedimento) e non sussistente, invece, nell’ordinanza ex art. 186 bis. Ove proprio si volesse ammettere una coesistenza delle due norme nella sola fase sommaria, la discrezionalità propria della seconda dovrebbe indurre a negare l’emissione del provvedimento, per privilegiare invece l’emanazione dell’ordinanza ex art. 666, se del caso reinterpretando l’istanza dell’intimante (ove si trovasse un intimante così generoso da rinunziare all’evenienza della convalida, che segue al mancato pagamento ex art. 666). (72) In generale – e senza alcuna pretesa di completezza – si può consultare: MANDRIOLI, Corso di diritto processuale civile, vol. III, Torino 1993; SATTA-PUNZI, Diritto processuale civile, Padova 1993; GARBAGNATI, I procedimenti di ingiunzione e per convalida di sfratto, Milano 1979; GARBAGNATI, Il procedimento d’ingiunzione, Milano 1991; BALBI, Ingiunzione (procedimento di), in Enc. Giur., Roma 1989, vol. XVII; NICOLETTI, Note sul procedimento ingiuntivo nel diritto positivo, in Riv. trim. dir. e proc. civ. 1975, pp. 980 ss.; VISCO, Il procedimento per ingiunzione, Roma 1951; CIOFFI, I procedimenti per ingiunzione e per convalida di sfratto, Roma 1959; SCIACCHITANO, voce Ingiunzione (dir. proc. civ.), in Enc. dir., Milano 1971; EBNER-FILADORO, Manuale del procedimento di ingiunzione, Milano 1993; PAJARDI, Il procedimento monitorio, Milano 1991; AMBROSIO, L’opposizione a decreto ingiuntivo nei suoi momenti applicativi, Milano 1994; FRANCO, Guida al procedimento di ingiunzione: fase monitoria, fase dell’opposizione, rapporti con le procedure concorsuali, revocazione e opposizione di terzo, Milano 1994; VALITUTTI-DE STEFANO, Il decreto ingiuntivo e la fase di opposizione, Padova 1994. (73) Per limitarsi alle più recenti: Cass. sez. Lav. 26-3-91 n. 3258, nonché 26-4-93 n. 4857; esplicitamente, inoltre, sulla struttura del procedimento monitorio, Cass. 25-2-80 n. 1312, Cass. 139-77 n. 3955, Cass. 26-6-71 n. 2018, nonché le importanti Cass. SS.UU. 19-4-82 n. 2387 e Cass. SS.UU. 7-7-93 n. 7448, di recente ribadite (ma solo con riferimento al c.d. vecchio rito) da 8-3-96 1835, in FI96-6 2086, con nota di Sbaraglio. (74) Tra gli antesignani può indicarsi il CARNELUTTI, Appunti sull’opposizione all’ingiunzione, in Riv. dir. proc. 1955, II, 206; ma si confronti anche ZANZUCCHI, op. cit. in bibl., vol. II, 366 ss., nonché GARBAGNATI, op. cit. in bibl., 141 ss. Tra le poche pronunzie che esplicitamente si riferiscono ad un giudizio vero e proprio di impugnazione, cfr., di recente e soltanto per incidens, Cass. sez. Lavoro 19-6-93 n. 6838). (75) Cfr. Cass. 24-4-95 n. 4612; Cass. 23-6-95 n. 7129. (76) Per un panorama v. SCHIACCHITANO, op. cit., 521; per la presa di posizione delle SS.UU., v. Cass. SS.UU. 8-10-92 nn. 10984 e 10985, in Foro it. 1992, I, 3286, con riferimento alla natura di impugnazione del giudizio di opposizione. (77) MANDRIOLI, op. cit., ed. 1983, pp. 160 s. (78) Cass. 11-7-79 n. 4000; tra le più recenti, cfr. Cass. sez. Lavoro 8-2-92 n. 1410. (79) Tra le tante: Cass. 8-4-89 n. 1690, Cass. 28-1-85 n. 485, Cass. 12-7-75 n. 2775, Cass. 3-1083 n. 5760, per risalire sino alla remota Cass. 5-12-56 n. 4350. (80) Esclude, espressamente, la natura di giudizio di impugnazione, Cass. 9-1-95 n. 139 e 28-195 n. 1052. (81) Cass. SS.UU. 7-7-93 n. 7448, cit.; Cass. 14-9-93 n. 9512; Cass. 17-11-94 n. 9708. V. anche Cass. 8-9-95 n. 9490 e 21-12-95 n. 13027. (82) Cass. 16-11-92 n. 12278. (83) Pertanto non avrebbe alcun giuridico senso un’opposizione che intendesse limitarsi al vaglio di legittimità dell’emanazione del monitorio: infatti, in ogni caso il giudice davanti al quale l’opposizione fosse dispiegata potrebbe poi scendere nel merito della pretesa creditoria originaria, giungendo a valutazioni diverse da quelle fatte in sede monitoria. (84) Né si dimentichi la diversa ampiezza della cognizione nelle due fasi: parziale in quella monitoria, piena in quella successiva. E sarebbe certo incongruo strutturare un’impugnazione devolvendo al giudice di questa una cognizione molto più ampia del giudice che dovrebbe essere considerato di primo grado. (85) Cass. 7-10-67 n. 2326, Cass. 3-5-74 n. 2144, Cass. 6-6-77 n. 2320, relativa all’eccezione de soluto. Tale risultato viene – solitamente – ricollegato alla devoluzione della cognizione del merito della pretesa azionata con il ricorso alla sola fase di opposizione (tra le piu recenti, basti consultare Cass. 3-5-91 n. 4833; secondo Cass. 22-3-71 n. 3107, anzi, l’eccezione di “passaggio in giudicato” del decreto ingiuntivo per difetto di tempestiva opposizione può essere proposta, ai sensi dell’art. 345 c.p.v. cod. proc. civ., per la prima volta anche in sede di appello avverso la sentenza che abbia pronunziato nel merito dell’opposizione stessa). (86) Il principio è confermato anche in tema di decreti ingiuntivi emessi, contestualmente alla convalida di sfratto per morosità, ex art. 664 cod. proc. civ.: al riguardo, Cass. 17-2-94 n. 1529 esclude la proponibilità del ricorso per Cassazione, in quanto, appunto, prevista l’opposizione ex art. 645 cod. proc. civ. (87) Per tutte: Cass. 3-12-91 n. 12922, Cass. 5-11-92 n. 12000 e Cass. 3-3-94 n. 2124; si deve segnalare la – peraltro, a quanto consta, rimasta isolata – Cass. SS.UU. 18-5-94 n. 4837, che attribuisce invece al creditore opposto la qualifica, il ruolo e i poteri propri di convenuto; già dopo tale pronunzia, tuttavia, si ribadisce il consolidato insegnamento circa l’identificazione del creditore opposto come attore in senso sostanziale: Cass. 22-3-95 n. 3254 e 8-11-95 n. 11625. (88) Per limitarsi alle più recenti, cfr. ad es.: Cass. 4-5-94 n. 4286. (89) Ove la prova già fornita non sia di per sé sufficiente anche nella fase a cognizione piena. (90) Cass. 3-12-91 n. 12922; peraltro, in giurisprudenza si dubita della possibilità, per l’opposto, di dispiegare riconvenzionale. Può allora concludersi che l’opposto non dispiega mai una riconvezionale in senso tecnico (per tutte: Cass. 3-3-94 n. 2124 e Cass. 22-3-95 n. 3273); e ciò nemmeno se, nella sua comparsa di costituzione nel giudizio seguito alla citazione in opposizione, richieda altresì accessori non richiesti con il ricorso per decreto o non concessi col monitorio poi opposto, ovvero, comunque, invochi declaratorie o condanne nuove rispetto a quelle già, in modo espresso o implicito, contenute nel ricorso: tali, invero, dovrebbero qualificarsi domande accessorie, o, comunque, ulteriori dispiegate nei confronti del medesimo soggetto destinatario della prima, rispetto alle quali potrebbe poi porsi il problema della competenza: è, al riguardo, evidente che il cumulo non opera soltanto tra la domanda, dispiegata con l’atto di opposizione, e quella introdotta con il ricorso per decreto, visto che i rispettivi attori non coincidono. (91) La domanda di revoca del monitorio, a motivo della non debenza, parziale o totale, della pretesa fatta valere da chi ha lo ha richiesto e ottenuto, infatti, contiene in sé, per implicito, nel suo oggetto minimo, la domanda di restituzione della somma: Cass. 8-8-62 n. 2451. (92) A differenza dell’ordinanza ex art. 186 quater, per la concedibilità della quale in un giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo, infatti, devono nutrirsi fortissimi dubbi. (93) Immutabilità che sussiste per il decreto ingiuntivo divenuto esecutivo per estinzione del giudizio di opposizione, ma esclusivamente perché, per esso, la possibilità di contestare i fatti provvisoriamente accertati è esclusivamente e tassativamente, sulla base della lettera della legge, rimessa al giudizio di opposizione e soggetta ai rigorosissimi termini perentori per la sua proposizione. (94) Per giurisprudenza consolidata, non potrebbe invece GIAMMAI ammettersi un’opposizione all’esecuzione intrapresa sulla base del decreto ingiuntivo per fatti anteriori alla definitività del titolo esecutivo giudiziale definitivo (o comunque utilmente deducibili nel corso del giudizio in cui quel titolo ha conseguito l’irretrattabilità), in quanto il debitore aveva l’onere di dedurli nel corso del giudizio in cui (proprio in forza dell’inosservanza di tale onere) il titolo è divenuto irretrattabile. (95) Dovrebbe essere anche ammessa, ma sempre e solo nell’opposizione all’esecuzione intrapresa sulla base dell’ordinanza ex art. 186 bis, la doglianza della duplicità dell’esecuzione sic et simpliciter: in fondo, divenuto esecutivo il decreto ingiuntivo per estinzione del giudizio di opposizione, viene meno il presupposto dell’ordinanza ex art. 186 bis, consistente nell’interesse ad agire dell’ingiungente, che ha già altro titolo per la stessa pretesa. (96) In termini, espressamente anche per l’art. 186 bis, Trib. Pistoia, ord. 12-10-94, in Foro it., 1995, I, 331; tuttavia, la maggior parte delle pronunzie si riscontrano in tema di ordinanze ex art. 186 ter: su cui v. infra. (97) V. § 2. (98) L’esame della quale, comunque e come si tenterà di dimostrare, dovrebbe aver luogo proprio dopo la contestatio litis di cui nel testo. (99) Salvo – come detto – che l’opponente, invitato a precisare – anche in un momento precedente, ad es., in sede di interrogatorio libero ex art. 183 co. 1 cod. proc. civ. – se contesti o meno alcuni dei fatti costitutivi, abbia tenuto un contegno equivoco. (100) La terminologia sembra preferibile perché instaura un immediato parallelismo con il decreto ingiuntivo e non consente, almeno in prima approssimazione, alcuna contusione con l’ordinanza-ingiunzione tipica del procedimento di depenalizzazione (di cui agli artt. 18 ss. L. 689/81 o 201 ss. nuovo codice della strada) o con quella di cui all’art. 2 R.D. 14-4-1910 n. 639. (101) In generale, cfr. ATTARDI, op. cit., 1; CHIARLONI, Riflessioni inattuali, etc., in Foro it. 1990, V, 499 ss., spec. 503; SASSANI, op. cit., 127; FABIANI, op. cit.. 2002. (102) CHIARLONI, Prime riflessioni etc., cit., 663. Non può peraltro condividersi la tesi – sostenuta subito dopo dallo stesso Autore e condivisa da RAMPAZZI, op. cit., 250, ATTARDI, op. cit., 13 – dell’equiparabilità alla prova scritta sopravvenuta del verbale di prova costituenda: visto che – CIVININI, op. cit., 342 – il riferimento agli artt. 633 n. 1 e 634 cod. proc. civ. dovrebbe intendersi esclusivamente alle prove documentali. Correttamente si argomenta – v. SCRIMA, op. cit., 42 – che l’utilizzabilità, ai fini di una tutela provvisoria ingiunzionale, della prova acquisita nel corso dell’istruzione risulta ora comunque consentita ai sensi e per gli effetti dell’art. 186 quater cod. proc. civ. (103) CIVININI, op. cit., 341, esalta il rilievo pratico della fattispecie, soprattutto in considerazione dell’impostazione del Supremo Collegio in ordine all’impossibilità di una trattazione unitaria della causa proposta dal debitore e di quella introdotta con decreto ingiuntivo dal creditore, da cui discenderebbe anche l’impossibilità di emettere, nella seconda, la provvisoria esecuzione in pendenza della prima, la quale ha carattere pregiudiziale. (104) BORGHESI, op. cit., 196; SCRIMA, op. cit., 31. (105) Il dubbio di costituzionalità espresso da Pret. Torino 31-5-94 (in Giur. it. 1994, I/B, 737) per l’esclusione dalla tutela ex art. 186 ter dei crediti dello Stato o degli Enti pubblici sorretti da prova scritta, di cui all’art. 635 cod. proc. civ., è stato fugato da Corte cost. 5-7-95 n. 295, in Foro it. 1996, I, 458. (106): anzi, quanto meno nelle cause soggette al c.d. nuovo rito, le posizioni processuali dovrebbero essere di già irretrattabili, salve le poche riserve di cui si dirà; ma pure nelle cause soggette al c.d. vecchio rito deve escludersi che le parti possano fare veramente ancora tutto quello che vogliono, sol che la controparte impieghi l’opportuna diligenza e non presti acquiescenza (ad es., non accettando il contraddittorio su domande nuove, deducendo le decadenze istruttorie, eccependo la violazione del principio di unitarietà delle prove, etc.). (107) In particolare, non è necessario che la prova scritta fornisca una prova piena e diretta dell’esistenza dei fatti giuridici costitutivi del diritto azionato, attesa la possibilità di integrare nel successivo giudizio di opposizione e con efficacia retroattiva - le prove fornite nella fase monitoria (per tutte: Cass. 25-3-71 n. 845, Cass. 27-4-76 n. 1479, Cass. 27-1-79 n. 615, Cass. 14-3-95 n. 2924). (108) In tal modo, nessun problema si pone in caso di promessa di pagamento o ricognizione di debito, ovvero di dichiarazione confessoria dell’apparente obbligato, ovvero di atti di rinnovazione dell’originario documento (ex art. 2720 cod. civ.); quanto, invece, alle prove scritte contenenti non già la documentazione dei fatti costitutivi in se stessi considerati, ma solo di altri, idonei – però – a fare logicamente ritenere provati i primi, occorrerà limitare il ricorso alla prova critica entro il ristretto ambito dell’art. 2729 cod. civ., sicché potranno ritenersi provati i fatti ignoti soltanto se gli indizi gravi, precisi e concordanti – od anche un solo fatto, purché di rilevante precisione e gravità: Cass. 21-5-84 n. 3109, Cass. 4-8-82 n. 4376 – non lascino ragionevoli dubbi in ordine alla verità del fatto da accertare (Cass. 6-3-78 n. 1106. (109) Peraltro, il giudice dell’ingiunzione potra valutare l’autenticità sulla base della comune esperienza, escludendola, ad esempio, in caso di firma palesemente illeggibile o manifestamente irricondubile a colui che viene indicato come debitore – nome e cognome agevolmente leggibili, ma diversi in modo radicale da quelli del debitore – o presenza di sottoscrizioni con grafie chiaramente differenti ma attribuite alla stessa persona. Il problema si pone, naturalmente, solo per il caso di convenuto contumace. (110) L’art. 291 cod. proc. civ. è stato dichiarato incostituzionale da Corte Cost. 28-11-86 n. 250 nella parte in cui non prevede la notificazione al contumace del verbale in cui si dà atto della produzione della scrittura privata anche nei processi davanti al Pretore. L’art. 313, vecchio testo, cod. proc. civ., in tema di contenuto dell’atto introduttivo del processo dinanzi al Pretore, è stato dichiarato INCOSTITUZIONALE PER NON PREVEDERE L’OBBLIGO DI INDICARE LA SCRITTURA PRIVATA OFFERTA IN COMUNICAZIONE: Corte Cost. 24-5-91 n. 214, in Foro it. 1991, I, 2664. (111) Ritengono invece sufficiente la mera produzione della fattura, anche a prescindere dalla presentazione dell’estratto autentico delle scritture di cui all’art. 634 c.p.v. cod, proc. civ., per tutte: Cass. 26-5-79 n. 3090, Cass. 8-6-79 n. 3261, Cass. 23-7-94 n. 6879. (112) Cass. 8-5-76 n. 1625, Cass. 23-4-76 n. 1449. (113) Cass. 9-5-87 n. 4295, Cass. 5-9-84 n. 4767. (114) A seguito della modifica dell’art. 8 co. 3 D.L. 432/95, conv. con mod. in L. 534/95 e con decorrenza dal 21-12-95. (115) Rimane naturalmente ferma la possibilità, sia pure con la necessaria integrazione di ulteriore documentazione probante, di considerare il documento prodotto, per quanto non in regola con l’art. 634 c.p.v. cod. proc. civ., quale prova scritta, non privilegiata, ai sensi dell’art. 633 cod. proc. civ., ma, quindi, con libera valutazione del giudice. (116) È qui opportuno solo ricordare che, nei confronti della P.A., il ricorso per decreto ingiuntivo è sì ammesso, ma a condizione che la ragione di credito azionata sia di diritto soggettivo e che la pronunzia richiesta rientri tra quelle di condanna consentite al giudice ordinario nei confronti della P.A. (per tutte, può consultarsi Cass. SS.UU. 23-2-74 n. 542), per l’esistenza stessa del credito, d’altro canto, si ricordi che non è necessaria la previsione della posta in bilancio, ma deve risultare comunque seguita la procedura amministrativa di formazione della volontà di obbligarsi da parte dell’ente pubblico (diversamente, ove risultasse soltanto l’effettuazione della prestazione da parte del privato, ma non anche una formale assunzione di obbligazione da parte della P.A., vi sarebbe luogo soltanto per un’azione di ingiustificato arricchimento, che presupporrebbe però il riconoscimento dell’utilità dell’opera o della prestazione e che, così non sarebbe compatibile con il procedimento monitorio). (117) MIRENDA, Le norme anticipatorie etc., cit. in nota 1. (118) Su cui v. GARBAGNATI, I procedimenti etc., cit., pp. 323 ss., nonché VALITUTTI-DE STEFANO, Il decreto ingiuntivo etc., cit., pp. 25, 123 e 150 ss. (119) MIRENDA, op. cit., 249, icasticamente parla di relazione “osmotica”, che conduce a riempire i “vuoti” del processo del lavoro con le norme generali del processo civile ordinario. (120) V. supra, cap. 1, § 5. (121) Pret. Monza, ord. 29-9-95, in Rass. loc. cond. 1995, 94 e in Giur. it. 1996, II, 14 ss. (122) MIRENDA, op. cit., soprattutto in fine, ove ampi riferimenti. Del tutto inconferente pare, però, il dubbio di incostituzionalità della disciplina del rito locatizio (su cui Pret. Massa, ord. 28-895, in Foro it. 1995, I, 3014, cui plaude MIRENDA, op. loc. cit.), se interpretata nel senso dell’inestensibilità dell’istituto ex art. 186 ter c.p.c.: proprio per la presenza di strumenti definitori alternativi assai più rapidi, l’interprete deve qualificare già di per sé maggiormente tutelato il rito locatizio proprio per la possibilità di azionare quelli in luogo delle eccezionali ipotesi dell’art. 186 ter. (123) In tale specifico senso, ad es., cfr. Trib. Roma, ord. 13-4-94. in Arch. civ. 1994, 1276. (124) Cfr. Trib. Napoli, ord. 13-5-94, in Giur. it. 1995, II, 293; Pret. Civitanova Marche, ord. 15-3-96, Euromeccanica c/ Adriatica imp., inedita; Trib, Bologna, ord. 14-10-94, in Dir. proc., 1995, 1291; Trib. Bari, ord, 24-11-94, in Corr. Giur., 1996, 704; Trib. Mondovì, ord. 25-8-94, in Foro it., 1995, I, 331 ss. (125) V. supra, cap. I, § 6. (126) Visto che al giudice dell’opposizione è consentito operare con ordinanza sul decreto monitorio solo in caso di conciliazione, ai sensi dell’art. 652 cod. proc. civ. Ciò induce a ribadire i gravissimi dubbi sulla ammissibilità dell’ordinanza ex art. 186 quater nel corso del medesimo giudizio, vista la differente funzione di quest’ultima, finalizzata proprio a sostituirsi alla sentenza definitiva e quindi attesa la sua intrinseca, costituzionale inidoneità, per la natura di ordinanza e mancando un’espressa previsione legislativa, a provvedere sul decreto ingiuntivo. (127) Per tutti, cfr. SCRIMA. op. cit., 33, Trib. Milano, ord. 30-6-94. in Dir. proc. 1995, 1291. In generale, sull’ammissibilità dell’ordinanza ingiuntiva nel procedimento di opposizione a decreto ingiuntivo, cfr. Trib. Nocera Inf., ord. 4-10-95, in Arch. civ. 1996, 490; Pret. Bari, ord. 29-2-96, in Corr. giur. 1996, 704; Trib. Verona, ord. 29-3-93, per quanto in un caso assai particolare (in cui, a seguito di riconvenzionale dell’opponente, operata una compensazione fra i due controcrediti, era stata emanata ordinanza ex art. 186 ter in favore proprio dell’opponente per la differenza), in Foro it. 1993, I, 1993; Trib. Pistoia, ord. 12-10-94, in Foro it. 1994, I, 331, con la nota di CIVININI, Le condanne anticipate, più volte citata. (128) Cfr., in generale, sull’ammissibilità dell’ordinanza ingiuntiva in corso di opposizione a decreto ingiuntivo, già VALITUTTI-DE STEFANO, Il decreto etc., cit., pp. 227 e 216 (anche sotto il profilo della possibilità di riconoscere tutela monitoria, proprio con il mezzo dell’art. 186 ter, per somme inferiori a quelle recate dal decreto ingiuntivo; e stante la prevalente giurisprudenza, orientata nel senso della non concedibilità della provvisoria esecuzione ex art. 648 cod. proc. civ. per una parte della somma ingiunta: v. op. loc. ult. cit. per riferimenti); v. anche supra, cap. I, § 6. Si è evidenziato che l’ordinanza anticipatoria di cui all’art. 186 bis, come quella di cui all’art. 186 ter (ma a differenza di quella ex art. 186 quater) non è destinata a definire il processo, in luogo della sentenza, potendo semmai conseguire un risultato analogo, ma solo dal punto di vista effettuale e attraverso l’estinzione del giudizio, rimessa alla condotta – da presumersi cosciente e responsabile – delle parti; di conseguenza, l’ordinanza rimane strutturalmente destinata ad essere assorbita dalla sentenza di merito del grado in cui essa è stata pronunziata e, così, non incide e non deve incidere affatto sul decreto ingiuntivo già emanato. (129) V. infra, cap. II, § 7. (130) Immutabilità che sussiste per il decreto ingiuntivo divenuto esecutivo per estinzione del giudizio di opposizione, ma esclusivamente perché, per esso, la possibilità di contestare i fatti provvisoriamente accertati è esclusivamente e tassativamente, sulla base della lettera della legge, rimessa al giudizio di opposizione e soggetta ai rigorosissimi termini perentori per la sua proposizione. (131) Per giurisprudenza consolidata, non potrebbe invece GIAMMAI ammettersi un’opposizione all’esecuzione intrapresa sulla base del decreto ingiuntivo per fatti anteriori alla definitività del titolo esecutivo giudiziale definitivo (o comunque utilmente deducibili nel corso del giudizio in cui quel titolo ha conseguito l’irretrattabilità), in quanto il debitore aveva l’onere di dedurli nel corso del giudizio in cui (proprio in forza dell’inosservanza di tale onere) il titolo è divenuto irretrattabile. (132) Dovrebbe essere anche ammessa, ma sempre e solo nell’opposizione all’esecuzione intrapresa sulla base dell’ordinanza ex art. 186 ter, la doglianza della duplicità dell’esecuzione sic et simpliciter: in fondo, divenuto esecutivo il decreto ingiuntivo per estinzione del giudizio di opposizione, viene meno il presupposto dell’ordinanza ex art. 186 ter, consistente nell’interesse ad agire dell’ingiungente, che ha già altro titolo per la stessa pretesa. (133) In termini, per tutti in dottrina, cfr. CIVININI, in annotazione a Trib. Pistoia, ord. 12-1094, cit., col. 331; in giurisprudenza insistono sulla necessità che la somma da ingiungersi ex art. 186 ter sia diversa da quella fatta oggetto del decreto ingiuntivo: Pret. Bari, ord. 29-2-96, cit.; Trib. Nocera Inf., ord. 4-10-95, cit., Trib. Pistoia, ord. 12-10-94, cit. Dal canto suo, Trib. Napoli, ord. 112-94, Saces contro Spina, inedita, ha ritenuto insussistente l’interesse ad agire nel caso in cui il creditore non avesse possibilità di conseguire la provvisoria esecutività (o esecutorietà) ex art. 642 cod. proc. civ.: la soluzione non convince, visto che l’interesse ad agire sussiste anche in questo caso, se non altro per la possibilità che l’ordinanza ingiuntiva, in caso di estinzione del processo, diventi esecutiva. Nella pratica può verificarsi il caso, comunque, del conseguimento – dopo l’esaurimento della fase relativa alla disamina delle istanze ex artt. 648 o 649 c.p.c. in senso infausto per il creditore – di materiale probatorio scritto o documentale totalmente nuovo, incolpevolmente ignorato in precedenza: in tale ipotesi potrebbe ritenersi ammesso l’interesse ad agire per conseguire ordinanza ingiuntiva per la stessa somma posta a base del decreto, per quanto già non dichiarato esecutivo. (134) SCRIMA, op. cit., p. 46, riferisce come prevalente l’orientamento sulla doverosità della concessione; ma, negli espressi termini, consta BLANDINI, op. cit., 35. Dal canto suo ATTARDI, op. cit., 6, richiede al giudice di valutare se vi siano motivi di diritto che non consentano di ritenere fondata la pretesa del richiedente. (135) ATTARDI, op. loc. ult. cit.; SASSANI, op. cit., 123; TOTARO, op. cit., 775. (136) Molto significativamente ATTARDI, op. cit., 12, ritiene più coerente col sistema escludere, in questi casi, la stessa pronunciabilità dell’ordinanza. (137) Per tutti, cfr. Trib. Bari, ord. 21 (o 22)-5-93, cit., con nota di TRISORIO LIUZZI, pure citata; nel senso della necessità di fare riferimento al solo termine per la costituzione del convenuto, previsto dall’art. 167 cod. proc. civ., v. FABIANI, op. cit. 2003. (138) Sostengono che l’ordinanza non possa essere emessa prima dell’udienza di comparizione anche: MANDRIOLI, Le nuove ordinanze etc., cit., p. 651; TARZIA, Lineamenti etc., cit., p. 138; RAMPAZZI, op. cit., p. 252; NAVARRA, op. cit., 82; COMOGLIO, Le riforme etc., cit., p. 331; CECCHELLA, Il processo civile, cit., 128; TRISORIO LIUZZI, op. cit., p. 340; CIVININI, op. cit., 343. (139) Peraltro, non dissimilmente da quanto concluso in tema di ordinanza ex art. 186 bis, in sede di interrogatorio potrebbe espressamente chiedersi alla parte ingiungenda di prendere posizione sulla richiesta di ingiunzione: sicché la possibilità di provvedere ex art. 186 ter potrebbe sorgere subito dopo una risposta evasiva o equivoca sul punto resa dalla parte ingiungenda (come quella con cui essa chieda sì termine per la modifica di domande od eccezioni, ma in via generica, senza fare espressa riserva di porre in essere specifiche attività idonee a precludere l’emissione di un’ordinanza ingiuntiva). (140) In tal senso sembra orientarsi anche SCRIMA, op. cit., 38. Resta ferma la possibilità, naturalmente, per la parte di presentare l’istanza, finanche in uno all’atto introduttivo. La stessa parte ingiungente, d’altra parte, imputerebbe a se stessa tale ritardo, visto che una tale conseguenza deriverebbe esclusivamente dalla sua scelta di non agire con il procedimento per decreto ingiuntivo: infatti, invocare l’ordinanza ingiuntiva fin dall’atto di citazione significa agire sulla base della stessa (se non addirittura di una minore) documentazione idonea a richiedere il decreto ingiuntivo. (141) V. supra, § 2. (142) Pure si è sostenuto, in base alla necessità di un’udienza apposita per l’eventuale costituzione del convenuto contumace, che l’istanza debba essere presentata fino a tutta l’udienza immediatamente anteriore a quella di conclusioni: FABIANI, op. cit., 2003; SASSANI, op. cit., 121. In senso contrario, peraltro, la maggioranza degli interpreti, che fa leva sulla lettera della legge: per tutti, cfr. CIVININI, op. cit., 343. Resta salva la necessità, derivante peraltro da un’interpretazione adeguatrice, della fissazione di un’ulteriore udienza per la costituzione del convenuto contumace (ma sempre per conclusioni), qualora l’ordinanza ingiuntiva sia concessa all’esito dell’udienza di precisazione delle conclusioni: SCRIMA, op. cit., 39; IMPAGNATIELLO, op. cit., 115. (143) Per la concedibilità, per tutti, cfr. PROTO PISANI, Lezioni etc., cit., 639. (144) Si noti che non è prevista la possibilità di sospendere la provvisoria esecuzione già concessa ex art. 642 c.p.c.: ma è corrente l’affermazione della possibilità di invocare, in sede di revoca o modifica, proprio anche solo la clausola di provvisoria esecutività (o esecutorietà): cfr., per tutti, FABIANI, op. cit., 2005. (145) Il Nuovo Zingarelli, XI ed., Zanichelli ed., p. 1243. (146) Usa tale termine MANDRIOLI, Corso etc., cit., p. 105, nota 9. (147) Presentate sinotticamente da CIVININI, Le condanne anticipate, cit., 344. (148) È vano chiedersi perché non sia stata adoperata l’espressione “se la controparte non si è costituita”. (149) SENSALE-CACCESE, Guida alla riforma del processo civile, Napoli 1991, 49; NAVARRA, op. cit., 93. (150) ATTARDI, Le nuove disposizioni etc., cit., 95 ss.; RAMPAZZI, op. cit., 225; MANDRIOLI, Corso etc., cit., 105. In giurisprudenza, cfr. Trib. Torino, ord. 25-6-94, in Giur. it. 1995,I, 2, 89; Trib. Napoli, ord. 15-2-96, Vivese c/ Colombo, inedita. (151) PROTO PISANI, La nuova disciplina etc., cit., 247; FABIANI, op. cit., 2004; e, almeno in apparenza, TARZIA, Lineamenti etc., cit., p. 140. (152) Deve trattarsi di un documento idoneo a provare, ai sensi degli artt. 2699 ss. c.c., l’inesistenza del fatto costitutivo del credito azionato, ovvero l’esistenza di fatti modificativi, impeditivi o estintivi del medesimo: infatti, la necessaria comparazione della valenza probatoria di separate serie di documenti scritti è, in un qualunque giudizio ordinario di cognizione – quale si struttura quello di opposizione a decreto ingiuntivo –, attività tipica del momento della decisione con sentenza; peraltro, un certo margine di discrezionalità rimane sempre, se non altro nella valutazione della riferibilità diretta e immediata della prova ad un fatto impeditivo, modificativo od estintivo del credito azionato o, comunque, nella valutazione della sua pienezza: ad es., non costituiscono prova scritta di tal fatta: – le note o lettere di contestazione della qualità della merce venduta formate dal medesimo opponente; – lo stesso contratto su cui si fonda il diritto azionato, di cui però si adduca un’interpretazione diversa da quella data del creditore ingiungente (Trib, Tortona 2-12-91, in Nuova giur. civ. comm., 1992, p. 640); – una consulenza tecnica di parte, in quanto contenente valutazioni; – la quietanza di pagamento, se non sia riferita in via diretta e immediata al credito azionato: per disconoscimento della sottoscrizione da parte del creditore; ovvero perché relativa a rapporti diversi da quello per cui si agisce (come nel caso di una serie pressoché continua di forniture e di pagamento di solo alcune di esse). (153) Anche in tal caso, comunque, l’istruttore ha un buon margine discrezionale: infatti, la causa sarà matura per la decisione non soltanto quando la prova offerta dalle parti sia esclusivamente documentale o quando non comporti la necessità dell’assunzione di un mezzo di prova disciplinato dal codice, ma anche allorquando la natura delle questioni agitate sia tale da consentire una decisione senza l’espletamento di mezzi istruttori; si noti, ad ogni buon conto, che la prontezza della soluzione dovrebbe pur sempre esser considerata in relazione alla concreta attività processuale da dispiegare e non alle contingenti necessità dell’Ufficio cui appartiene il giudice, soprattutto qualora l’intervallo tra i rinvii sia notevole per il carico di lavoro: infatti, una soluzione non cessa di esser pronta se il numero delle udienze in cui può esaurirsi il processo sia particolarmente limitato, anche se l’udienza di rinvio è lontana. (154) Si ricordi, poi, che non ha più alcuna efficacia automatica, ai fini della concessione della provvisoria esecuzione, l’offerta del creditore di prestare cauzione: è stata infatti espunta dall’ordinamento, con la sentenza 137/84 della Corte Costituzionale, siccome limitativa del diritto di difesa, l’originaria disposizione dell’art 648 capoverso c.p.c., che imponeva la concessione dell’esecuzione provvisoria in caso il creditore avesse offerto cauzione. La norma va ora letta nel senso che anche qualora vi sia tale offerta il potere discrezionale del giudice di concedere o meno l’ordinanza rimane integro. Attualmente, l’offerta di una cauzione non integra certamente una prova o un principio di prova di uno dei fatti costitutivi del diritto azionato: e, per quanto più su argomentato, rimane quindi del tutto irrilevante. Peraltro, anche sulla base di un’interpretazione solo letterale della norma, il giudice può concedere l’esecuzione provvisoria se il creditore offra cauzione, ma non sembra che possa imporre la stessa al creditore che non la voglia offrire. D’altro canto, se il fumus sussiste, non si vede per qual motivo imporre una cauzione; se invece non sussiste, la concessione della provvisoria esecuzione non potrà aver luogo in toto. (155) Per tutti, se non si vuole consultare VALITUTTI-DE STEFANO, op. cit., p. 200 ss., cfr. SCARSELLI, In difesa dell’art. 648 c.p.c., cit., 2346; IDEM, La condanna con riserva, Milano 1989, p. 344; PROTO PISANI, Appunti sulla tutela sommaria etc., cit., 629. (156) Corte Cost., ord. 25-5-89 n. 295, in Foro it. 1989, I, coll. 2391 ss., con osservazione di PROTO PISANI. I giudici di merito stanno, del resto, elaborando una nozione di fumus ben precisa, mentre le persistenti gravi oscillazioni sulla contemporanea necessità del periculum in mora del creditore ingiungente potrebbero superarsi con il pieno e coerente inquadramento dell’ordinanza entro lo schema della condanna con riserva. Ciò consentirebbe di prescindere dal detto ultimo requisito, del resto di difficile configurabilità nella stragrande maggioranza dei casi di opposizione a decreto ingiuntivo, in cui oggetto del giudizio è il pagamento di una somma: e si ricorderà che il danno meramente patrimoniale, essendo adeguatamente risarcibile per equivalente, non è mai irreparabile e quindi non dà luogo a periculum in mora. (157) Non osta a tale conclusione il puntuale distinguo operato da Corte cost. 8-3-96 n. 65 (del resto ripreso in questa stessa relazione, infra, § 7), cit. (con nota di SCARSELLI, In difesa dell’art. 648 co. 1 cod. proc. civ., cit.), in quanto sviluppato essenzialmente ai fini della giustificazione della diversità del regime di stabilità delle due ordinanze. (158) Semmai, si potrebbe porre un problema di maggiore o minore approfondimento della valutazione del fumus, a seconda della fase processuale in cui il creditore richiede l’ordinanza, e quindi a seconda dell’attività istruttoria o comunque processuale già svolta, idonea a qualificare in maggiore o minor misura il fumus: ma si confida che il creditore sappia considerare da sé lo stato degli atti e quindi la convenienza, per se stesso, di avanzare o meno l’istanza di ordinanza ingiuntiva a seconda dell’intensità dello speranza di valutazione positiva del fumus. (159) V. supra, nota 9. (160) Significativamente in CARPI-TARUFFO, op. cit., p. 443, si sostiene che, ove non sussistano le ipotesi di cui agli artt. 642 e 648 co. 1 letteralmente interpretato, la provvisoria esecuzione potrà sempre, discrezionalmente, essere concessa dal giudice, sulla base del maggiore o minore grado di convincimento raggiunto circa la fondatezza del credito, attraverso il sommario apprezzamento delle prove e delle eccezioni allo stato degli atti. (161) Da intendersi formulata all’udienza in cui viene esaminata l’istanza di concessione dell’ordinanza ingiuntiva. (162) Ovvero, la contestazione dei fatti costitutivi del diritto di cui si chiede il provvisorio riconoscimento con l’ordinanza ingiuntiva. (163) Può praticamente configurarsi quale ipotesi legalmente tipizzata di insussistenza del fumus il caso di intervenuto disconoscimento della scrittura privata o della proposizione di querela di falso contro il documento ad opera della parte ingiungenda: anche se, per quanto visto più sopra, tali eventi escluderebbero in radice la possibilità di concedere l’ordinanza ingiuntiva. (164) V. supra, §§ 1 e 3. (165) Come sostiene invece SASSANI, op. cit., p. 126; espressamente criticato sul punto da MANDRIOLI, Corso etc., p. 105, nota 9b. (166) FABIANI, op. cit., 2005; PROTO PISANI, – La nuova etc., cit., 247 – richiede espressamente la sussistenza dei gravi motivi, rilevanti ex art. 649 cod. proc. civ. (167) MANDRIOLI, op. loc. ult. cit.; CIVININI, op. cit., 343; PROTO PISANI, op. loc. ult. cit.; FABIANI, op. loc. ult. cit.; SCRIMA, op. cit., 37, nota 49. (168) CIVININI, op. cit.. 345; quanto alla tardività (rispetto al termine di quaranta giorni dal deposito in cancelleria, atteso il richiamo del co. 5 dell’art. 186 ter all’art. 644 cod. proc. civ.), egli ha l’onere di costituirsi in giudizio per contestare anche la tardività della notifica ed ottenerne quindi, anche per questo solo motivo, la revoca (in tal senso RAMPAZZI, op. cit., 262). CIVININI. op. cit., 345, ritiene possibile attivare la procedura ex art. 188 disp. att. cod. proc. civ. e richiamare l’insegnamento di GARBAGNATI (op. cit., 108-109) per escludere che la costituzione possa aver luogo solo per conseguire la revoca basata sulla tardività della notifica. Tuttavia, il richiamo alla disciplina del decreto ingiuntivo non può accettarsi, vista la differente ricostruzione dell’efficacia dell’ordinanza ingiuntiva esecutiva, di cui al § che segue. (169) RAMPAZZI, op. cit., 263. (170) TARZIA, op. cit., 144; FABIANI, op. cit., 2006; CIVININI, op. cit., 346. (171) Chi la ammette – come CIVININI, op. cit., 345 ss. – è costretto poi ad ammettere che l’effetto definitorio del processo si produce solo in caso di coincidenza dell’oggetto dell’ordinanza ingiuntiva con quello del processo stesso. (172) PROTO PISANI, op. ult. cit., 249; CIVININI, op. cit., 345; TARZIA, op. ult. cit., 142 ss.; SASSANI, op. cit., 125; TAVORMINA, op, cit., 50; RAMPAZZI, op. cit., 257; FABIANI, op, cit., 2005; e forse anche, per quanto dubitativamente, TOTARO, op. cit., 776 e SCRIMA, op. cit., 51. (173) MANDRIOLI, Corso etc., cit., 103; ATTARDI, op. cit., 9-10. (174) Cfr. supra, § 5. (175) Con ciò forse eludendosi le critiche mosse agli argomenti degli illustri Autori citati alla precedente nota 172, alcuni dei quali incentrati sulla figura dei provvedimenti a “provvisorietà indefinitamente prolungata” (su cui MANDRIOLI, I provvedimenti presidenziali nel giudizio di separazione dei coniugi, Milano 1953, p. 146). (176) Cfr. supra, nota 10. ASPETTI CONTROVERSI IN MATERIA DI PROCEDIMENTO PRETORILE Relatore: dott. Antonello COSENTINO pretore della Pretura circondariale di Bologna Introduzione In apertura di questi lavori desidero sottolineare che l’intento di questa conversazione non è, né potrebbe essere, quello di una trattazione teorica e sistematica dei temi proposti alla vostra attenzione, ma, ben più modestamente, quello di sollecitare lo sviluppo di un confronto tra colleghi su alcune questioni di rilevante frequenza pratica; questioni sulle quali, a prescindere dal loro maggiore o minore interesse teorico, mi sembra necessario sforzarci di pervenire, attraverso lo scambio delle diverse possibili opinioni, a scelte interpretative che incontrino la condivisione più larga possibile nei nostri uffici. Ciò perché io credo che, specialmente in questo tempo di obbiettiva crisi della giustizia civile, uno dei contributi più importanti – e anche forse più semplici – che ciascuno di noi può dare al miglioramento dell’amministrazione della giustizia sia quello di assegnare un grado elevato, nella scala di valori che sempre è sottesa a qualunque operazione di ermenutica giuridica, al valore della uniformità della interpetrazione giurisprudenziale e quindi della prevedibilità delle decisioni giudiziarie; e che l’esigenza di uniformità interpretativa può essere perseguita – senza negare né, da un lato, l’indipendenza di ogni giudice, né, dall’altro, la funzione nomofilattica della Cassazione – proprio attraverso il confronto tra colleghi sulle diverse tesi. Questa opzione metodologica di fondo spiega la scelta degli argomenti della nostra conversazione, scelta dettata dall’intenzione di svolgere insieme una panoramica su alcune delle questioni che per prime si sono presentate all’attenzione degli operatori del processo pretorile dopo la riforma. Ciò premesso – e apparendomi ormai superfluo, a più di un anno e mezzo di distanza dall’entrata in vigore della riforma, procedere ad una ricognizione complessiva delle innovazioni introdotte nella disciplina del processo civile davanti al pretore – passerei senz’altro a delineare le tematiche su cui ci soffermeremo: a) i problemi posti dalla connessione tra cause soggette a riti diversi e, in particolare, tra cause soggette al vecchio e cause soggette al nuovo rito; b) alcun problemi connessi alla gestione della prima udienza di comparizione di cui all’art. 180 c.p.c.: b1) possibilità di pronunciare in tale sede su istanze di provvedimenti anticipatori di condanna (ordinanze ex artt. 186 bis e ter c.p.c.); b2) nei giudici di opposizione a decreto ingiuntivo, possibilità di pronunciare sulle istanze relative alla provvisoria esecuzione del decreto; b3) ancora nei giudizi di opposizione a decreto ingiuntivo, individuazione della parte – se trattisi dell’opponente o dell’opposto – a cui assegnare il termine di cui al secondo comma dell’art. 180 c.p.c.; c) applicabilità dell’art. 186 quater al procedimento pretorile. Connessione di cause e questioni di rito 1) Ambito di applicazione dell’art. 40, commi terzo, quarto e quinto, c.p.c. Prima che l’art. 5 della legge 353/90 aggiungesse al testo originario dell’art. 40 c.p.c. i commi terzo, quarto e quinto, non esisteva un criterio normativo di individuazione del rito applicabile ad un procedimento in cui fossero cumulate cause soggette a riti diversi; e per tale ragione si riteneva generalmente che la difformità di rito costituisse ostacolo insormontabile alla realizzazione del processo simultaneo. L’art. 5 della 353/90 ha quindi opportunamente disciplinato la materia, dettando un meccanismo di coordinamento tra riti diversi espressamente destinato a regolare il cumulo di cause, originario o successivo, nelle ipotesi di cui agli artt. 31 (accessorietà), 32 (garanzia), 34 (pregiudizialità), 35 (compensazione) e 36 (riconvenzione) del codice di rito. Prima ancora di passare ad esaminare la disciplina della derogabilità del rito per ragioni di connessione conviene però mettere subito in evidenza che tale disciplina, sebbene inserita, con la tecnica della novellazione, nel corpo dell’art. 40 c.p.c., opera tuttavia su una materia completamente diversa rispetto a quella regolata dai primi due commi di tale articolo, i quali regolano l’incidenza della connessione sulla competenza, assegnando al giudice della causa principale o, fuori dal caso della accessorietà, a quello preventivamente adito la competenza a conoscere della causa accessoria o della causa connessa successivamente introdotta. È peraltro utile ricordare, incidentalmente, che i primi due commi dell’art. 40 primo comma c.p.c. non consentono modifiche alle regole ordinarie di competenza se non nei limiti fissati dalle norme che appunto tali deroghe prevedono (artt. 31/36 c.p.c.); le quali, secondo l’interpretazione consolidata offertane dalla giurisprudenza, consentono la deroga alla competenza per ragioni di connessione nei seguenti termini: a) è sempre derogabile la competenza per territorio semplice; b) la competenza per valore è derogabile solo in favore del giudice superiore, eccettuati i casi di accessorietà e garanzia, per i quali gli artt. 31 e 32 prevedono la deroga anche in favore del giudice inferiore che sia competente per la causa principale o di molestia; c) la competenza per materia e quella per territorio ex art. 28 c.p.c., e comunque, in generale, le competenze funzionali non sono derogabili. Si deve quindi tenere presente che il processo simultaneo davanti al giudice della causa principale, in caso di accessorietà, o davanti al giudice preventivamente adito, negli altri casi, non è possibile se tale giudice non è dotato di competenza – originaria oppure prorogata ex artt. 31/36 – anche per la causa accessoria o successivamente introdotta. Particolare si presenta poi – e mi sembra interessante parlarne per la frequenza con cui ricorre – il caso del litisconsorzio facoltativo di cui all’art. 103 (connessione per identità di petitum, o causa petendi, o questioni): si pensi all’ipotesi di pluralità di danneggiati a seguito di un unico sinistro stradale, che agiscano contro il danneggiante chiedendo l’uno un risarcimento rientrante nella competenza per valore del pretore e l’altro un risarcimento eccedente tale competenza. In tale caso la derogabilità della competenza per valore non è prevista da alcuna delle norme dettate dagli artt. 31/36 c.p.c.; in particolare, l’art. 33 prevede la deroga solo per territorio e solo nel caso di domande proposte contro una pluralità di convenuti, non nel caso di domande proposte contro un solo convenuto da una pluralità di attori. Si ritiene peraltro che la derogabilità della competenza per valore, pur non espressamente prevista, sia tuttavia implicita nella previsione del secondo comma dell’art. 103 c.p.c., a mente del quale, in caso di separazione delle cause cumulativamente introdotte, il giudice “può rimettere al giudice inferiore le cause di sua competenza”; diversamente opinando, infatti, la disposizione contenuta in tale inciso sarebbe operativa solo nella ipotesi, del tutto residenziale, di cui all’art. 11 c.p.c.; devo peraltro segnalare che alcuni precedenti degli anni ’50 (Cass. 2890/54, Cass. 3040/52) negano la possibilità del processo simultaneo quando ciò implichi deroga alla competenza per valore per una delle cause. Peraltro, la conclusione che il litisconsorzio facoltativo può essere originariamente instaurato, proponendo le diverse domande verso lo stesso convenuto davanti al giudice competente per valore per la domanda maggiore (la maggior parte della dottrina esclude che si applichi nel caso di litisconsorzio la disciplina dell’art. 10, secondo comma, c.p.c.) lascia aperto il problema dell’individuazione del giudice competente nel caso di cumulo successivo, giacché la regola dettata dall’art. 40 primo comma, di prevalenza del forum preventionis, entra in conflitto con la regola desimibile dall’art. 103 secondo comma, di prevalenza del forum connexitatis, tutte volte in cui il giudice successivamente adito sia il giudice superiore. In tali ipotesi si ritiene debba prevalere il forum connexitatis, e quindi la connessione sposti la competenza in favore del giudice superiore, pur se successivamente adito. Tornando, dopo questa breve disgressione, ai problemi della derogabilità del rito per ragioni di connessione, conviene allora soffermarsi, in primo luogo, sulla esatta identificazione del campo di applicazione di questa disciplina. Come infatti risulta con chiarezza dal richiamo normativo contenuto all’inizio del terzo comma dell’art. 40 c.p.c., la nuova disciplina di coordinamento del rito si applica non a qualunque ipotesi di connessione in senso generico, ma alle sole ipotesi di connessione qualificata prevista dagli artt. 31/36 c.p.c., con esclusione della connessione ex art. 33 c.p.c. Il legislatore ha quindi limitato la derogabilità del rito alle sole ipotesi in cui il legame di connessione tra cause sia tale da implicare, in caso di decisioni separate, il rischio di un conflitto, e non di una mera disarmonia, tra giudicati (connessione forte, o per subordinazione, o per pregiudizialità dipendenza, secondo le diverse terminologie e classificazioni proposte dalla dottrina); mentre ha lasciato che nei casi di connessione per mera coordinazione (tipicamente quelli previsti dagli artt. 33 c.p.c., proposizione in un unico giudizio di domande contro più persone connesse per l’oggetto o per il titolo, e 104 c.p.c., cumulo di domande non connesse oggettivamente nei confronti della stessa persona), l’eventuale soggezione a riti diversi delle cause connesse impedisca il processo simultaneo. Peraltro è discusso se il richiamo ad un elenco di singole figure di connessione, contenuto all’inizio del nuovo terzo comma dell’art. 40 c.p.c., vada inteso tassativamente o secondo criteri di interpretazione sistematica. Si è infatti rilevato che non tutte le figure di connessione elencate nel suddetto richiamo costituiscono ipotesi di connessione “forte”, posto che il riferimento indiscriminato all’art. 36 c.p.c. copre anche ipotesi di connessione per coordinazione; la domanda riconvenzionale può infatti essere legata a quella principale sia da un rapporto di connessione per pregiudizialità dipendenza, sia da un rapporto di connessione per mera coordinazione. Per contro sembra indubbio che la disciplina introdotta dai commi terzo, quarto e quinto dell’art. 40 c.p.c. sia applicabile anche all’ipotesi della continenza (della quale la giurisprudenza fornisce una nozione assai ampia, ricomprendente anche le ipotesi di domande contrapposte nascenti da un unico rapporto sostanziale), pur se l’art. 39 non è tra quelli richiamati dal terzo comma dell’art. 40 c.p.c.. Le opinioni espresse al riguardo dalla dottrina sono molto diversificate, andandosi da orientamenti restrittivi, che escludono l’operatività delle norme sul coordinamento del rito nel caso di riconvenzionale fondata sul titolo dedotto quale mezzo di eccezione e nel caso di garanzia impropria (GIUSSANI, Competenze riti ed effetti della connessione, in Le riforme della giustizia civile. Commento alla legge 353 del 1990 e alla legge 347 del 1991, a cura di Taruffo, Torino, 1993, pag. 149 e seg.), ad orientamenti estensivi, che affermano l’applicabilità delle nuove norme ogni qualvolta sussista una obiettiva esigenza di coordinamento dei rapporti sul piano sostanziale, e quindi ad esempio, sebbene l’art. 33 c.p.c. non venga richiamato dal terzo comma dell’art. 40, anche in alcune ipotesi di cumulo soggettivo (garanzia impropria, litisconsorzio unitario; tra gli altri, MERLIN, Connessione di cause e pluralità di riti nel nuovo art. 40 c.p.c., in Riv. dir. proc., 1993, pag. 1038). Personalmente mi convince maggiormente la lettura del sistema che amplia al massimo l’ambito della possibilità di trattazione simultanea di cause connesse, ammettendo la deroga anche nei casi di litisconsorzio unitario o di chiamata in garanzia; devo però subito sottolineare come sia obbiettivamente vero quanto sottolineato dal collega FRASCA (Considerazioni sui nuovi artt. 5 e 40 del codice di procedura civile, in Doc. Giust., 1996, col. 1812), che cioè l’evenienza che cause connesse in ipotesi di litisconsorzio unitario o di chiamata in garanzia impropria soggiaccono a riti diversi è obbiettivamente piuttosto marginale (per la garanzia impropria è stato fatto l’esempio, effettivamente ricorrente nella pratica, del datore di lavoro che, convenuto in giudizio dall’INAIL o dal suo dipendente per rispondere delle conseguenze di un infortunio sul lavoro, chiami in causa il suo assicuratore); cosicché il problema rappresentato della impossibilità di realizzare il simultaneus processus per diversità di riti (postulando detta impossibilità non superabile attraverso l’art. 40, terzo comma, c.p.c., per la interpretazione restrittiva che di tale norma si ritenga di dover dare) presenta un rilievo pratico abbastanza modesto, se non con riferimento ai problemi, che più avanti esamineremo, di rapporto tra vecchio e nuovo rito. 2) Criteri di individuazione del rito da applicare nella trattazione delle cause cumulative proposte o successivamente riunite. Così sommariamente tratteggiato l’ambito di applicazione della disciplina dettata dai commi terzo, quarto e quinto dell’art. 40 c.p.c., con le alternative ermeneutiche che sussistono in ordine all’estensione di tale ambito, va ora esaminato quale sia il criterio di scelta del rito da applicare nel processo. Tale criterio è dettato dai commi terzo e quarto dell’art. 40: il terzo comma fissa il principio della prevalenza del rito ordinario sui riti speciali, a meno che una delle cause connesse non rientri tra quelle di cui agli artt. 409 e 442 c.p.c., nel qual caso prevale il rito del lavoro (la prevalenza è data in ragione della causa petendi e non del rito in sé per sé e quindi si applicherà il rito ordinario in caso di connessione tra causa soggetta al rito ordinario e causa in materia di locazione); il quarto comma prevede la connessione di causa soggette a diversi riti speciali, stabilendo la prevalenza del rito previsto per la causa in ragione della quale viene determinata la competenza, o, in subordine, del rito previsto per la causa di maggior valore. In relazione a tale disciplina, sono sorti diversi problemi interpretativi: A) cosa si deve intendere per rito speciale? a1) È uniforme l’orientamento secondo cui con tale espressione l’art. 40 c.p.c. si riferisce a riti speciali nelle forme ma caratterizzati da cognizione piena e ordinaria; è quindi da escludere la possibilità di trattazione simultanea, con deroga delle norme di rito, di un procedimento possessorio o cautelare e di una causa ordinaria; difetta in tale ipotesi il presupposto stesso della connessione, ossia la contemporanea pendenza di due cause, intese come procedimenti contenziosi volti all’accertamento con efficacia di giudicato delle situazioni soggettive. a2) Nelle ipotesi di procedimenti a cognizione sommaria (procedimenti per ingiunzione, per convalida di sfratto, per repressione di condotta antisindacale) la connessione con altre cause può rilevare solo dopo l’esaurimento della fase sommaria, allorquando il procedimento sia pervenuto alla fase a cognizione piena (opposizione al decreto ingiuntivo, alla convalida di sfratto o licenza, al decreto ex art. 28 stat. lav.). a3) si può ricomprendere nell’ambito di applicazione dell’art. 40 l’ipotesi di pronuncia sui diritti con rito camerale (si pensi alla domanda congiunta di divorzio, ex art. 4, u.c. l. 898/70, in ipotesi connessa con una causa locatizia)? Mi limito a porre il problema, senza nemmeno tentare di offrire una risposta, anche perché si tratta di una questione che non si dovrebbe porre in procedimenti di competenza pretorile. a4) si può parlare di riti speciali a proposito delle versioni “gemmate” dei riti (giudizio davanti al pretore e davanti al giudice di pace, rispetto al giudizio davanti al Tribunale; rito locatizio, rispetto al rito del lavoro)? Pur nella consapevolezza della problematicità della questione, opto decisamente per la soluzione negativa, ritenendo che la nozione di rito speciale si attagli solo alle ipotesi in cui vi è un autonomo corpo normativo destinato a regolare il singolo processo. Mi sembra quindi da escludere (e tale conclusione è peraltro pacifica) che si possa parlare di rito speciale a proposito del giudizio davanti al pretore o al giudice di pace (caratterizzati da una serie di norme speciali che però poggiano su un rinvio generalizzato al modello del giudizio davanti al tribunale, ex art. 311 c.p.c.). Meno pacifica è la questione del rapporto tra rito locatizio e rito del lavoro: anche in questo caso, tuttavia, escluderei che il rito locatizio possa considerarsi autonomo rispetto al rito del lavoro, giacché l’art. 447 bis c.p.c. opera in sostanza un rinvio in blocco alle norme del rito del lavoro, sebbene mediante il richiamo puntuale di tutte (o quasi) le singole disposizioni che lo disciplinano. Da ciò consegue che nel caso di connessione tra causa di lavoro e causa locatizia: 1) il simultaneus processus sarà possibile anche nei casi esclusivi dalla previsione dell’art. 40 (quindi anche in ipotesi di connessione meramente soggettiva ex art. 104 c.p.c.); 2) il processo sarà disciplinato secondo una regola di convivenza dei due riti, piuttosto che di prevalenza dell’uno sull’altro (il problema non si pone per il terzo comma dell’art. 429 c.p.c., che dispone la rivalutazione del credito di lavoro, giacché tale norma ha natura sostanziale e quindi, pur se non richiamata dall’art. 447 bis c.p.c., sarà certamente applicabile al capo di sentenza contenente condanna al pagamento di un credito da lavoro; per contro, ad esempio, l’esecutività della sentenza di primo grado sarà regolata dall’art. 447 bis e non dall’art. 431, salvo valutare la possibilità di differenziare il regime della sospensiva da parte del giudice d’appello in relazione ai diversi capi di sentenza (in materia di lavoro l’art. 431 richiede la ricorrenza del gravissimo danno della controparte per la sospensiva delle condanne in favore del lavoratore, mentre richiede la ricorrenza di gravi motivi per la sospensiva delle condanne in favore del datore di lavoro; in materia di locazione l’art. 447 bis richiede sempre, ai fini della sospensiva, la ricorrenza del gravissimo danno della controparte). B) La prevalenza del rito del lavoro, qualora una delle cause connesse rientri nella previsione degli artt. 409 e 442 c.p.c., opera solo verso il rito ordinario (secondo la previsione testuale del terzo comma) o anche (pur nel silenzio del quarto comma) verso gli altri riti speciali? Concordemente con la dottrina prevalente, ritengo che il rito del lavoro prevalga anche nei confronti degli altri riti speciali, per ragioni di logica sistematica, ma non è mancato che (ATTARDI, Le nuove disposizioni sul processo civile, Padova, 1991, p. 27), ritenendo il rito locatizio come autonomo rispetto al rito del lavoro, ha affermato che in caso di connessione tra causa locatizia e causa di lavoro prevale il rito a cui soggiace la causa di maggior valore. In pratica quindi l’ambito di applicazione del quarto comma dell’art. 40 c.p.c. (connessione tra cause soggette a riti speciali, nessuna delle quali di lavoro) si presenta molto ridotto (si è fatta l’ipotesi della connessione tra causa di accertamento del rapporto di locazione e causa di opposizione all’ordinanza ingiunzione di cui all’art. 12 d.l. 21-3-78 n. 59, concernente la violazione dell’obbligo di comunicare all’Autorità di PS la cessione di un immobile a titolo di proprietà o godimento); l’ambito di più vasto utilizzo di tale norma sarà, come vedremo, quella della connessione tra cause soggette al vecchio e cause soggette al nuovo rito. C) La disciplina dettata dal quarto comma dell’art. 40 c.p.c., di prevalenza del rito della causa in ragione della quale è stata determinata la competenza, vale solo nei casi in cui in concreto una delle due cause sia stata trasferita, in applicazione delle norme dettate dagli artt. 31/36 c.p.c., dal giudice originariamente competente al giudice dell’altra o, viceversa, opera anche come criterio astratto, idoneo a determinare il rito applicabile al processo anche nel caso in cui non vi sia stata alcuna translatio iudicii, rientrando le due cause nella competenza originaria dello stesso giudice? Al riguardo sono state prospettate sia la tesi che si deve aver riguardo alla vis attractiva astratta e potenziale di una causa sull’altra (TARZIA, Lineamenti del nuovo processo di cognizione, Milano, 1991, pag. 39), sia la opposta tesi secondo cui nell’ipotesi di cause originariamente rientranti nella competenza dello stesso giudice opera sempre il criterio del maggior valore (ATTARDI, op. cit., pag. 26, PROTO PISANI, La nuova disciplina del processo civile, Napoli, 1991, pag. 35); sia la tesi intermedia (MERLIN, op. cit., pag. 1054) – a mio avviso preferibile – secondo cui nella suddetta ipotesi si deve applicare il rito della causa principale nei casi di connessione per accessorietà e garanzia (casi nei quali, a mente degli artt. 31 e 32 c.p.c., opera una vis attractiva unidirezionale a favore della causa principale, o di molestia, suscettibile quindi di applicazione anche in astratto), mentre si deve applicare il rito della causa di maggior valore nelle ipotesi di cui agli artt. 34, 35 e 36 c.p.c. (nei quali non è predeterminabile a priori quale sia la causa attraente, perché in astratto è tale quella che rientra nella competenza per valore del giudice superiore). Completerei tale ultima ricostruzione col rilievo che, nel caso di connessione ex artt. 34, 35 o 36 c.p.c., se il criterio del maggior valore non possa operare perché le cause sono di valore indeterminato (o identico), può farsi ricorso, del tutto empiricamente, al criterio della prevenzione. 3) Il meccanismo di coordinamento tra i riti applicabili alle cause trattate simultaneamente. Va sottolineato che, per espressa precisazione dettata dal terzo comma dell’art. 40 c.p.c., la disciplina che prevede la derogabilità del rito per ragioni di connessione qualificata si applica a tutti i casi di trattazione simultanea di cause connesse, siano esse state proposte in un unico processo ab origine (“cumulativamente proposte”), siano esse state cumulate in un unico processo in tempi successivi (“successivamente riunite”) e, in quest’ultimo caso, sia nella ipotesi di cause connesse proposte davanti a giudici diversi, sia nell’ipotesi di cause connesse proposte dinanzi allo stesso giudice in procedimenti separati. Per tutte tali ipotesi il quinto comma dell’art. 40 prevede l’adozione, da parte del giudice, dei provvedimenti di mutamento del rito di cui agli artt. 426, 427 e 439 c.p.c.. La formulazione della norma non è felicissima: “Se la causa è stata tratta con un rito diverso da quello divenuto applicabile ai sensi del comma terzo”; tuttavia è pacifico che il mancato richiamo al comma quarto non impedisce di ritenere applicabile il quinto comma anche nelle ipotesi di riunione di cause soggette a diversi riti speciali, così come il riferimento alla causa “trattata” non impedisce di ritenere applicabile la disposizione in esame non solo ai casi di cumulo successivo ma anche a quelli di cumulo originario. Qualche problema ricostruttivo può porsi in relazione alle attività processuali che debbono essere compiute in determinate fasi processuali, dalle parti o dal giudice, e il cui omesso compimento implichi il verificarsi di preclusioni. Nessuna particolare questione dovrebbe porsi nell’ipotesi in cui più cause siano state introdotte in un unico processo, penda esso davanti al giudice adito per la domanda principale oppure davanti al giudice superiore a cui la causa sia stata eventualmente rimessa ai sensi degli articoli 34, 35 e 36 c.p.c.. In tali ipotesi si applicherà il rito con cui deve essere conosciuta la domanda principale (in definitiva, il rito secondo il quale risulta modellato l’atto introduttivo proveniente dall’attore) fino al momento in cui il giudice non provveda a disporre il mutamento di rito; tale ipotesi non differisce quindi da quella ordinariamente regolata dagli articoli 426 e 427 c.p.c.. Quando deve essere disposto il mutamento di rito? L’interpretazione formatasi sugli artt. 426 e 427 è concorde nell’affermare che non esistono momenti preclusivi per tale incombente e che detta ordinanza (peraltro ritenuta revocabile e non impugnabile) può essere adottata anche all’esito dell’istruttoria, sempre però garantendo il contraddittorio delle parti sul punto. Mi sembra peraltro che, nell’ipotesi di cui al quinto comma dell’art. 40 c.p.c., in cui la necessità di cambiamento del rito dovrebbe normalmente emergere de plano della mera constatazione del cumulo di domande soggette a riti diversi, il mutamento di rito debba essere disposto non appena il giudice operi detta constatazione. Consideriamo partitamente l’ipotesi di cui all’art. 426 e quella di cui all’art. 427 del codice di procedura. Il passaggio dal rito speciale (che nella maggior parte dei casi sarà quello locatizio) al rito ordinario verrà normalmente disposto all’udienza di discussione ex art. 420 c.p.c.; e quindi il pretore (ove non debba rimettere il fascicolo al dirigente per nuova assegnazione) effettuerà (per non perdere tempo e non costringere le parti a ritornare di persona) l’interrogatorio libero e il tentativo di conciliazione, assegnando poi, con la stessa ordinanza con cui dispone la regolarizzazione fiscale degli atti, il termine, eventualmente richiestogli, per deduzioni istruttorie ex art. 184 c.p.c.. Per l’ipotesi di chiamata in causa del terzo a domanda del convenuto, sulla quale il giudice deve pronunciare all’udienza di discussione ex art. 420 c.p.c., fissando una nuova udienza ai sensi del nono comma di detto articolo, riterrei che il mutamento di rito vada disposto a tale nuova udienza. Tale conclusione pare inevitabile quando la necessità di mutamento del rito derivi dalla connessione tra la causa principale e la domanda spiegata verso il terzo (si pensi, ove si ritenga ammissibile la deroga al rito nei casi di garanzia impropria, alla chiamata in causa dell’assicuratore da parte del conduttore che sia stato convenuto in giudizio dal locatore per i danni verificatisi nell’immobile locato); in tale ipotesi infatti non vi è cumulo di cause fino a quando la chiamata non sia stata effettuata con la notifica al terzo degli atti indicati nel comma nono dell’art. 420 c.p.c.. Ma la suddetta conclusione mi sembra da accogliere anche per il caso in cui già prima della chiamata del terzo nel processo siano cumulate più cause soggette a riti diversi (si ipotizzi, per restare all’esempio precedente, che il conduttore, oltre a chiedere la chiamata dell’assicuratore, spieghi anche una domanda riconvenzionale contro il locatore, fondata su un titolo diverso dal rapporto locatizio); anche se i presupposti per il mutamento di rito sussistono indipendentemente dalla effettuazione della chiamata del terzo, mi sembra tuttavia necessario che il provvedimento sul mutamento di rito venga adottato a contraddittorio integro, a garanzia del diritto di difesa del chiamato. Passando ad esaminare il passaggio dal rito ordinario al rito speciale si rileva che esso, proprio perché l’esame della relativa questione può essere svolto senza necessità di trattazione di merito delle cause, dovrebbe essere disposto già all’udienza di comparizione ex art. 180 c.p.c., salva tuttavia la possibilità di disporlo anche all’udienza di trattazione di cui all’art. 183 c.p.c., o ancora successivamente. Nell’ipotesi di chiamata in causa del terzo non dovrebbero presentarsi particolari problemi quando questa sia stata effettuata dal convenuto, in quanto la stessa, secondo la disciplina dettata dall’art. 269, secondo comma, c.p.c., dovrebbe essere già perfezionata al momento dell’udienza di comparizione ex art. 180 c.p.c.; in caso di chiamata a richiesta dell’attore, prevista dal terzo comma dello stesso articolo 269, si deve invece fissare una nuova udienza di comparizione; per tale riferimento al passaggio dal rito speciale a quello ordinario e quindi il mutamento di rito dovrebbe essere disposto nella udienza fissata per la citazione del terzo. Per concludere sui problemi procedurali che concretamente possono porsi nel mutamento di rito mi sembra utile ricordare che, per concorde opinione della dottrina, nel passaggio dal rito ordinario al rito del lavoro non vengono sanate le decadenze già intervenute con il rito ordinario (in giurisprudenza, conf. Cass. 1978/81, Cass. 8256/87); mentre nel passaggio dal rito speciale a quello ordinario le preclusioni maturate sotto il più severo rito del lavoro cadono se non trovano riscontro negli artt. 183 e 184 c.p.c.; pertanto, ad esempio, introdotta con rito locatizio una domanda di pagamento di canoni, il conduttore convenuto che non abbia provato l’eccezione di inadempimento del locatore in comparsa di risposta, incorrendo quindi nella decadenza di cui all’art. 416 terzo comma, e che deduca in via riconvenzionale un proprio controcredito nei confronti del locatore fondato su titolo diverso rispetto al rapporto locatizio, imponendo quindi il passaggio dal rito speciale al rito ordinario, potrà provare tali eccezioni nel termine di cui all’art. 184 c.p.c. assegnatogli con l’ordinanza di mutamento di rito. Giova da ultimo sottolineare, che, per il principio di ultrattività del rito, gli atti compiuti prima del mutamento di rito vanno valutati secondo il rito precedentemente osservato; cfr., al riguardo, Cass. 5122/85, con riferimento ad una domanda riconvenzionale proposta prima del mutamento dal rito ordinario a quello di lavoro, nelle forme di cui agli artt. 166 e 167 c.p.c. e quindi senza il rispetto dell’art. 418 c.p.c.; egualmente è a dirsi per la forma dell’atto introduttivo, la chiamata in causa del terzo etc.. Nel caso di cumulo successivo – quando cioè la trattazione simultanea di cause connesse soggetta a riti diversi sia stata realizzata in base all’art. 40, primo comma, c.p.c., dopo che le stesse erano state introdotte davanti a giudici diversi, oppure in base all’art. 274 c.p.c., dopo che le stesse erano state introdotte separatamente davanti allo stesso giudice – possono porsi maggiori problemi di coordinamento. Innanzi tutto è da sottolineare che, mentre la connessione tra cause proposte davanti a giudici diversi può essere eccepita o rilevata entro la prima udienza (da intendere come la prima udienza di trattazione di cui all’art. 183 c.p.c., argomentando dal rilievo che la incompetenza per territorio inderogabile, materia e valore può essere eccepita o rilevata fino a detta udienza, ai sensi del primo comma dell’art. 38 c.p.c.), la riunione di cause connesse pendenti davanti allo stesso giudice è ammessa in qualunque fase; con la conseguenza che effettivamente possono trovarsi riunite in un unico procedimento due cause in una delle quali sia maturata una preclusione non ancora maturata nell’altra. Tale problema, peraltro, non riguarda specificamente l’ipotesi in cui le cause riunite soggiacciono a riti diversi, poiché esso si presenta anche quando le cause siano tutte soggette allo stesso rito; mi sembra interessante tuttavia tratteggiarne i termini. Quando si tratta di connessione debole (per oggetto, titolo, o identità di questioni) ex art. 103 c.p.c. i problemi sono relativamente semplici, giacché ogni causa mantiene la sua autonomia; per esempio, mi è capitato di avere due cause di risoluzione del medesimo contratto di locazione, introdotte con due procedimenti per convalida di sfratto per morosità, relativi a due diverse mensilità; in ognuno di tali procedimenti l’intimato si era opposto alla convalida, sollevando un’eccezione di inadempimento del locatore, e, all’esito del mutamento di rito ex art. 667 c.p.c., era stata disposta, nell’udienza di discussione ex art. 420 c.p.c., la riunione; in una di tali cause l’intimato disconobbe la propria firma su un documento allegato in entrambe le cause dall’attore, mentre nell’altra, forse per disguido, omise il disconoscimento, decadendo dalla possibilità di effettuarlo ai sensi dell’art. 215 n. 2; in tale ipotesi non mi sembra difficile sostenere che, nonostante la riunione, si dovrà differenziare la pronuncia in relazione alle due distinte domande di risoluzione, tenendo conto del documento solo per la decisione della causa in cui esso non è stato infatti disconosciuto; non vi è infatti alcuna connessione forte tra due domande di risoluzione per morosità fondate sul mancato pagamento di due diverse mensilità di canone. Più problematica si presenta però la questione quando il nesso tra le cause sia di pregiudizialitàdipendenza (che peraltro, come sopra si è visto, è l’unico che consente la deroga al rito e quindi la trattazione simultanea di cause soggette a riti diversi): si pensi, nell’ambito del rito ordinario, all’ipotesi della causa relativa alla domanda di pagamento del prezzo della vendita in cui il compratore convenuto abbia eccepito in compensazione il proprio credito per il risarcimento dei danni derivati da asseriti vizi della merce, omettendo di svolgere tempestivamente (cioè nel termine di cui all’art. 184 c.p.c.) le richieste istruttorie necessarie per provare la sussistenza dei pretesi vizi; in tale ipotesi potrebbe il compratore introdurre in via principale una causa di risoluzione del contratto di vendita e, radicato il contraddittorio, chiederne la riunione a quella in cui egli è convenuto per il pagamento del prezzo della vendita, offrendo quindi la prova, ai fini della pronuncia sulla domanda risolutoria, di quei vizi che non può più provare ai fini della pronuncia sulla domanda risarcitoria? La risposta affermativa, cui mi pare si debba giungere in considerazione della natura forte della connessione tra tali cause (secondo la Cassazione si tratterebbe anzi di continenza), lascia tuttavia perplessi per il facile aggiramento delle preclusioni processuali che così si realizza. 4) La connessione tra cause soggette al vecchio rito e cause soggette al nuovo rito. La problematicità della riunione di cause alcune delle quali già pendenti alla data del 30-4-95 ed altre introdotte successivamente a tale data sorge dalla scelta compiuta dal d.l. 121 del 21-4-95 (successivamente reiterato fino al d.l. 432/95, convertito con la legge 534/95) di mantenere le cause già pendenti alla data del 30-4-95 soggette alla disciplina procedurale previgente; scelta – esattamente opposta rispetto a quella originaria della legge 353/93 – in conseguenza della quale per molti anni nel nostro ordinamento continueranno a convivere due riti civili ordinari. La questione che si pone è quindi quella di stabilire quale rito sia applicabile quando si debbano riunire una causa “vecchia” ed una “nuova”. In primo luogo si deve valutare se la disciplina dettata dall’art. 40, fino ad ora esaminata, sia utilizzabile per la soluzione del problema del coordinamento tra cause soggette al vecchio rito e cause soggette al nuovo rito. Potrebbe infatti dubitarsi della utilizzabilità di tale disciplina per risolvere il problema del coordinamento tra vecchio e nuovo rito, per il rilievo che tanto il vecchio quanto il nuovo rito devono essere considerati riti ordinari, cosicché il tema del loro coordinamento esula dalla previsione dei commi terzo/quinto dell’art. 40 c.p.c., i quali si occupano dei rapporti tra rito ordinario e rito speciale o tra riti speciali fra di loro. Necessaria conseguenza di tale impostazione sarebbe allora la pura e semplice esclusione della possibilità della riunione di cause che, per essere state proposte alcune prima ed altre dopo il 30-4-95, siano soggette a riti (ordinari) diversi; infatti, come si è visto, non esistono fuori dell’art. 40 c.p.c. norme che prevedono la deroga del rito per ragioni di connessione e, d’altra parte, le stesse norme di cui ai commi terzo/quinto dell’art. 40 c.p.c. dovrebbero essere ritenute insuscettibili di interpretazione analogica, data la natura eccezionale delle previsioni di modificazione del rito (in questo senso, Trib. Bari, 28-12-95, in Giur. It., 1966, I, 2, 403, che nega la possibilità di trattazione simultanea di una causa soggetta al vecchio rito e di una soggetta al nuovo rito, trattandosi di riti entrambi ordinari; la pronuncia è peraltro resa in ipotesi di connessione debole). A mio avviso peraltro una così radicale conclusione non potrebbe condividersi. Se infatti è vero che la natura eccezionale delle previsioni di deroga al rito impone grande cautela nelle interpretazioni estensive delle stesse (cft. NELA, in CHIARLONI, Le riforme del processo civile, Bologna, 1992, pag. 56) non va tuttavia sottovalutata la portata sistematica della modifica dell’art. 40 c.p.c. recata dalla legge 353/90; se per talune ipotesi di connessione l’ordinamento consente la realizzazione del simultaneus processus pur in deroga (non solo alla competenza ma anche) al rito, quando la diversità di riti discenda da diversità di materia, e quindi si connetta a differenziate esigenze di tutela, mi sembrerebbe contrastante con la ratio del nuovo testo dell’art. 40 escludere, per le medesime ipotesi di connessione, la possibilità del simultaneus processus quando la diversità di riti applicabili alle diverse cause connesse discenda semplicemente dalla differente epoca di introduzione delle stesse. Riterrei quindi che la riunione di cause che siano soggette, ratione temporis, a riti diversi sia preclusa al di fuori delle ipotesi di connessione richiamate dal terzo comma dell’art. 40 c.p.c., per mancanza di una norma che autorizzi la deroga al rito, ma debba invece ammettersi per le ipotesi di connessione contemplate da tali casi. In concreto peraltro mi pare preferibile fissare il discrimine tra i casi di possibilità e quelli di impossibilità di riunione di cause vecchie con cause nuove riferendosi non all’elenco degli articoli del codice richiamati dal terzo comma dell’art. 40 c.p.c. ma alla idoneità/inidoneità del legame di connessione esistente tra le cause a determinare il rischio di conflitto di giudicati. In definitiva riterrei quindi di escludere la possibilità di riunione tra cause vecchie e nuove quando il nesso di connessione tra le stesse non implichi il rischio di un conflitto di giudicati (si pensi all’ipotesi, tipicamente riconducibile allo schema della connessione per coordinazione, della identità di fatto costitutivo da cui sorgono più rapporti intercorrenti tra soggetti diversi, come nel caso di più danneggiati in un sinistro stradale che agiscano contro il medesimo danneggiante); ammettendo invece tale possibilità nei casi di connessione per pregiudizialità dipendenza, si tratti di pregiudizialità logica (la quale descrive la relazione sussistente tra un singolo effetto giuridico e il rapporto obbligatorio complesso o il diritto reale su cui l’effetto si fonda) o pregiudizialità tecnica (la quale comprende le ipotesi in cui un diritto o un rapporto giuridico costituisce parte della fattispecie costitutiva, o impeditiva o modificativa o estintiva, di un altro diritto o rapporto). Così definito l’ambito di realizzabilità del simultaneus processus tra cause introdotte prima del 30-4-95 e cause introdotte dopo tale data, resta da stabilire quale debba essere il rito da applicare, essendo da escludere che riti diversi possano convivere nello stesso processo. Al riguardo si osserva che – nell’assenza di indicazioni normative – le opzioni interpretative possibili sono molteplici; da un lato si è affermato, con un ragionamento del tutto svincolato dalla disciplina dettata dall’art. 40 c.p.c., che prevale sempre il vecchio rito (Trib. Milano 6-5-96, in Foro It. 1966, I, 3219, che argomenta dalla preferenza per la collegialità, letta come preferenza per il vecchio rito, espressa dall’art. 274 bis c.p.c.); d’altro lato si è cercato un criterio nell’art. 40 c.p.c., e quindi nel quarto o nel quinto comma dello stesso. Il prof. PROTO PISANI, proprio in questa sede, nell’incontro del marzo 1996, suggerì di considerare ordinario, nell’attuale assetto normativo, il nuovo rito, assegnandogli quindi la prevalenza sulla base del quarto comma dell’art. 40 c.p.c.; tale opzione ha indubbiamente il pregio di semplificare molto la materia, ma a tutt’ora non sembra aver trovato adesione nella dottrina che si è occupata del problema (in senso critico, vedi CONSOLO, Al modo di postilla: prevale il rito vecchio o quello nuovo in caso di riunione?, in Giur. It. 1966, IV, 123). Sembra quindi prevalere l’orientamento secondo il quale, in applicazione analogica del quarto comma dell’art. 40 c.p.c., si deve applicare al processo il rito previsto per la causa in ragione della quale viene determinata la competenza o, in subordine, quello previsto per la causa di maggior valore. Naturalmente valgono anche per le ipotesi di connessione tra cause soggette a riti diversi ratione temporis le osservazioni svolte sopra (par. 2, C) sull’interpretazione del ripetuto comma quarto dell’art. 40 c.p.c.; pertanto nella scelta tra vecchio e nuovo rito prevarrà il rito della causa in ragione della quale si è determinata in concreto la competenza e, quando tutte le cause rientrano nella competenza originaria dello stesso giudice, quello della causa di molestia o principale o, fuori dai casi degli artt. 31 e 32 c.p.c., quello della causa di maggior valore (o, nell’ipotesi di cause di valore indeterminato o uguale il rito vecchio in quanto quello a cui soggiace la causa preveniente). Per concludere, mi soffermerò brevemente sul meccanismo di trasformazione del rito conseguente alla riunione delle cause soggette ai riti diversi ratione temporis. Mi sembra necessario che il mutamento di rito sia esplicitato con una pronuncia ordinaria del giudice, preceduta dal contraddittorio delle parti sul punto, in analogia con le previsioni degli artt. 426 e 427 c.p.c.: si dovrà quindi adottare una ordinanza di mutamento di rito. Poiché, peraltro, il rito nuovo è caratterizzato da un regime di decadenza e preclusioni molto più severo del rito vecchio, non mi sembra si possa porre alcun problema nel passaggio dal rito nuovo a quello vecchio, mentre nel caso opposto è necessario adottare un meccanismo di coordinamento che consenta alle parti di adeguare le proprie difese alla struttura del nuovo rito. A questo scopo mi sembra che la soluzione più semplice sia quella di interpretare analogicamente l’art. 426 c.p.c. e fissare l’udienza di trattazione ex art. 183 c.p.c., assegnando alle parti un termine per integrare le difese; salve restando le preclusioni già anteriormente maturate nella causa attraente secondo il nuovo rito e nella causa attratta secondo il vecchio rito. Alcuni rilievi sulle attività che è possibile svolgere in sede di udienza di prima comparizione ex art. 180 c.p.c. Considerazioni sull’ammissibilità dell’ordinanza ex art. 186 quater c.p.c. nel giudizio davanti al pretore. È osservazione comune che con la scelta di distinguere tra udienza di prima comparizione (art. 180 c.p.c.) e prima udienza di trattazione (art. 183 c.p.c.) il legislatore ha inteso raccogliere le sollecitazioni, da più parti levatesi durante la lunga gestazione della riforma, che sottolineavano l’opportunità di suddividere la fase introduttiva del processo in due udienze, delle quali la prima destinata a verificare la regolarità e completezza del contraddittorio e la seconda destinata alla compiuta e definitiva fissazione del tema del decidere. Tale scelta, fortemente caldeggiata dal ceto forense, presenta peraltro alcuni vantaggi pratici per lo svolgimento del lavoro giudiziario; infatti, da un lato, la concentrazione in una udienza, che si può considerare preliminare, delle sole attività di verifica della regolare introduzione del procedimento elimina quei problemi di programmazione dei tempi di lavoro del giudice per i quali era stata introdotta la previsione dell’art. 168 bis ultimo comma, c.p.c., in quanto dette attività normalmente richiedono poco tempo e quindi sono compatibili con la fissazione all’udienza di un numero di cause anche rilevante, e comunque non programmato; d’altro lato, la concentrazione in una successiva udienza dell’attività di trattazione vera e propria consente di riservare le udienze di trattazione solo a quelle cause che effettivamente saranno trattate, essendo state già superate le questioni preliminari concernenti la costituzione del rapporto processuale. Ampiamente dibattuto è peraltro il tema della definizione delle attività che possono legittimamente essere compiute in sede di udienza di prima comparizione. Al riguardo si sono infatti delineati, nel dibattito svoltosi fino ad ora, un orientamento che interpreta il catalogo delle attività indicate nel primo comma dell’art. 180 c.p.c. come (tendenzialmente) esaustivo dei contenuti della udienza di prima comparizione, ed un altro che invece individua come unico limite alle attività esplicabili in detta udienza quello rappresentato – per dirlo con la felice ironia di Bruno CAPPONI (Note sui nuovi artt. 180 e 183 c.p.c., in Foro It. 1966, I, 1074) – dalla garanzia che la causa non sia effettivamente trattata nel merito. Nell’ambito di questa dialettica si collocano i temi della adottabilità in sede di udienza di prima comparizione dei provvedimenti di concessione o sospensione della provvisoria esecuzione del decreto ingiuntivo opposto, ovvero di emanazione delle ordinanze anticipatorie di condanna ex artt. 186 bis, ter e quater c.p.c.. 1) L’udienza di prima comparizione nel giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo: possibilità di adottare ordinanze di concessione e sospensione della provvisoria esecuzione del decreto; individuazione della parte a cui assegnare il termine per la proposizione di eccezioni ex art. 180 c.p.c.. Cominciando dalla questione della possibilità di concedere in udienza di prima comparizione la provvisoria esecuzione del decreto opposto, si osserva che la tesi che nega detta possibilità si fonda sostanzialmente su questi argomenti: 1) tendenziale tassatività dell’elenco delle attività da svolgere nell’udienza di prima comparizione; 2) considerazione del debitore opponente come convenuto in senso sostanziale; da tale presupposto (in sé del tutto pacifico) si trae la conseguenza (tutt’altro che pacifica) che sia l’opponente la parte a cui deve essere assegnato il termine per la deduzione delle eccezioni in senso stretto previsto dall’art. 180 c.p.c.; con la conseguenza ulteriore che non si potrebbe conoscere dell’istanza di provvisoria esecuzione del decreto prima che sia spirato il termine entro cui l’opponente ha il diritto di sollevare le proprie eccezioni; 3) la pronuncia sulla provvisoria esecuzione del decreto prima dello svolgimento delle attività di trattazione previste dall’art. 183 c.p.c. rischia di pregiudicare le possibilità di successo del tentativo di conciliazione e di formare un titolo esecutivo prima che lo stesso tema del decidere sia compiutamente definito. L’orientamento che mi pare prevalga, ed al quale personalmente aderisco, è peraltro nel senso della ammissibilità della pronuncia di concessione della provvisoria esecuzione del decreto opposto nell’udienza di cui all’art. 180 c.p.c. Se infatti non mi sembra decisivo il rilievo che l’art. 648 c.p.c. non contiene previsioni che ancorino a determinati momenti o fasi processuali l’esercizio del potere del giudice di concedere la provvisoria esecuzione del decreto – poiché proprio l’assenza di tali previsioni potrebbe imporre di coordinare il disposto di tale norma con la disciplina dettata in via generale per lo sviluppo del procedimento (a tacer del rilievo che potrebbe sostenersi la prevalenza del limite posto dall’art. 180, sulla mancanza di limite posto dall’art. 648, per la prevalenza della legge posteriore) – decisiva mi pare invece la considerazione, di ordine sistematico, che il sub-procedimento incidentale tendente alla pronuncia sulla provvisoria esecuzione del decreto costituisce una prosecuzione della fase monitoria (cfr. Cass. 1410/92), e che il profilo che caratterizza la pronuncia sulla istanza di concessione della provvisoria esecuzione del decreto opposto è l’avvenuta instaurazione del contraddittorio (con la conseguente possibilità per l’opponente di dedurre prove scritte a sostegno dell’opposizione, allegandole alla citazione), non la trattazione di merito della causa di opposizione (in questi termini, ACIERNO, Gli adempimenti del giudice e le decadenze delle parti ex art. 180 e 183 c.p.c., in Doc. Giust. 1966, pag. 1756). Non mi pare, infine, si debba dare eccessivo peso ai possibili effetti negativi che la eventuale concessione della provvisoria esecuzione abbia a determinare sulle possibilità di successo del tentativo di conciliazione: si tratta di un rilievo del tutto empirico, inidoneo a condizionare l’interpretazione delle norma. Sottolineo che la questione della concedibilità in prima udienza della provvisoria esecuzione del decreto opposto non è pregiudicata dalla questione dell’individuazione della parte a cui assegnare termine di cui al secondo inciso del comma 1 bis dell’art. 180 c.p.c.. Anche ammettendo infatti, ma ne parleremo tra un attimo, che sia l’opponente il soggetto a cui deve assegnarsi il suddetto termine, nulla vieta all’opponente medesimo di sollevare nella citazione in opposizione le eccezioni fornite di prova scritta e produrre tale prova scritta entro l’udienza di prima comparizione; dovendosi anzi ritenere che tale attività difensiva costituisca un onere per l’opponente che voglia evitare il rischio della provvisoria esecuzione del decreto, salvo peraltro il suo diritto a dedurre ulteriori eccezioni nel termine di cui all’art. 180 c.p.c., ove si ritenga che detto termine vada assegnato all’opponente. Tale ultima questione è peraltro ora necessario esaminare. Al riguardo si è sostenuto che, trattandosi di un termine relativo all’esercizio di poteri processuali, si deve aver riguardo alla posizione formale delle parti, con la conseguenza che il termine vada assegnato all’opposto; tale tesi non mi convince, in quanto, trattandosi di un termine per la proposizione di eccezioni (oltre che processuali anche) di merito, e quindi di un termine entro cui si possono allegare fatti impeditivi, modificativi o estintivi del diritto di credito azionato in giudizio, mi sembra incongrua l’assegnazione di tale termine al creditore. Per contro, anche l’assegnazione del termine all’opponente mi lascia perplesso; a prescindere dal rilievo della obbiettiva inutilità di una sorte di “citazione bis”, mi pare che l’assegnazione del termine all’opponente sia in contrasto con la natura (anche) impugnatoria della opposizione a decreto ingiuntivo; natura da cui discende l’obbligo, almeno tendenziale, di completezza dell’esposizione dei motivi nell’atto di impugnazione. La strada interpretativa che a questo punto mi pare possa aprirsi, e che offro al dibattito, è quella di assegnare il termine all’opposto, ma solo per la proposizione delle eccezioni volte a paralizzare le pretese eventualmente spiegate dall’opponente, in via riconvenzionale, nell’atto di citazione (tornando quindi alla funzione originaria di tale termine, cioè di consentire una comparsa bis); non assegnando il termine a nessuna delle parti quando l’opponente non abbia spiegato riconvenzionali e, peraltro, considerando tardive le eccezioni dell’opponente non dedotte nell’atto di opposizione; se infatti è vero che il secondo comma dell’art. 645 c.p.c. prevede che il giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo si svolge “secondo le norme del procedimento ordinario davanti al giudice adito”, e pur vero che in tale richiamo, come in tutti i richiami di questo genere, può ritenersi implicita la clausola “in quanto applicabile”. Pochissime parole sulla sospensione della provvisoria esecuzione ex art. 649 c.p.c.. Non solo è ovvio che la pronuncia sull’istanza di sospensiva debba ritenersi possibile in udienza di prima comparizione da parte di chi ritiene ammissibile in tale udienza la concessione della provvisoria esecuzione. Ma riterrei che, anche non ammettendo la possibilità di concedere la provvisoria esecuzione in prima udienza, sia invece da ammettere la possibilità della sospensiva ex art. 649 c.p.c., attesa la natura chiaramente cautelare di detto provvedimento (e ciò a prescindere dalla questione della soggezione, o meno, del sub-procedimento di cui all’art. 649 c.p.c. alla disciplina del rito cautelare uniforme, in base all’art. 669 quaterdecies c.p.c.). 2) Possibilità di adottare i provvedimenti di cui agli artt. 186 bis e 186 ter nella udienza di prima comparizione. A differenza di quanto argomentato nella ordinanza Pret. Monza 29-9-95 (in Foro It., I, 3298) – nella quale uno degli argomenti addotti a favore della possibilità di concedere la provvisoria esecuzione del decreto opposto nell’udienza di prima comparizione è rappresentato dall’analogia tra tale provvedimento e l’emanazione di una ordinanza ex art. 186 ter c.p.c., sul presupposto della sicura possibilità di emettere tale ultimo provvedimento nell’udienza di prima comparizione – ritengo che le differenze tra l’ordinanza ex art. 186 ter e l’ordinanza ex art. 648 c.p.c. siano tali da non consentire argomentazioni fondate sull’analogia, in relazione al problema che stiamo esaminando; e che peraltro gli argomenti addotti in quella sentenza, a conferma della possibilità di emettere l’ordinanza ingiunzionale nell’udienza di prima comparizione, non siano tali da fugare ogni dubbio al riguardo. Se infatti è vero che lo stesso legislatore della riforma è quello che ha introdotto l’art. 186 ter, nel quale è previsto che l’ordinanza ingiunzionale può essere richiesta “in ogni stato del processo”, entro la precisazione delle conclusioni, il che vuol dire che può essere richiesta fin da quando sia stato designato l’istruttore (competente ad emettere l’ordinanza) e sia stata verificata la contumacia o la costituzione del convenuto, è pure vero che la riforma dell’art. 180 c.p.c. risale al 1995, (d.l. 238/95, non convertito e poi reiterato fino alla legge 534/95) ed è quindi posteriore all’introduzione dell’art. 186 ter; con la conseguenza che la lettura di tale articolo, in relazione alla fase procedimentale in cui possono essere emanate le ordinanze in esso previste, non può prescindere dal contenuto dell’art. 180, nuovo testo, c.p.c. (in tal senso, vedi Trib. Roma 25-1-96 in Giur. merito, 1996, I, 211). Ciò premesso, a me pare che le stesse argomentazioni utilizzate per affermare la possibilità di concedere nell’udienza di prima comparizione la provvisoria esecuzione del decreto opposto debbano indurre ad escludere la concedibilità, in detta fase, delle ordinanze previste dagli articoli 186 bis e ter c.p.c.. Se infatti la concessione in prima udienza della provvisoria esecuzione del decreto ingiuntivo opposto deve ritenersi possibile, perché tale provvedimento si limita ad attribuire efficacia esecutiva ad un titolo formatosi prima e fuori del giudizio, in un procedimento tipicamente strutturato proprio sulla mancanza di contraddittorio, diverso appare il discorso per le ordinanze di cui agli artt. 186 bis e 186 ter c.p.c., ove si tratta di creare ex novo un titolo condannatorio. In tali ipotesi mi sembra che la trattazione di merito della causa costituisca un antecedente necessario per l’emanazione delle ordinanze in parola. Quanto all’ordinanza ex art. 186 bis, lo svolgimento dell’udienza di trattazione appare indispensabile per verificare, tramite l’interrogatorio libero delle parti e all’esito della precisazione e modificazioni delle domande ed eccezioni, in tale sede possibili, l’effettiva portata della non contestazione. Quanto all’ordinanza ex art. 186 ter, mi pare che, nel procedimento ordinario, non possa imporsi al convenuto l’onere – che si è invece visto gravare sull’opponente nel giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo – di anticipare alla prima udienza lo svolgimento delle proprie eccezioni, per le quali ha termine fino a venti giorni prima dell’udienza di trattazione, per evitare il rischio di subire una ordinanza ingiunzionale; e quindi non possa essere vagliata, fino all’udienza di trattazione, una istanza di emanazione di ordinanza ex art. 186 ter c.p.c.; istanza che – ove il convenuto sia costituito (e si tenga presente che il convenuto che non intenda proporre riconvenzionali, chiamare terzi in causa o eccepire l’incompetenza per territorio derogabile ben può utilmente costituirsi anche dopo l’udienza di prima comparizione, purché entro il termine assegnato ai sensi dell’art. 180, comma 1 bis, c.p.c.) – è suscettibile di accoglimento solo in mancanza di eccezioni fondate su prova scritta. 3) L’ordinanza ex art. 186 quater nel giudizio davanti al pretore. Tra le moltissime questioni interpretative che sono state sollevate dall’art. 186 quater, e sulle quali si è già formato un vivace dibattito di dottrina e giurisprudenza, mi sembra interessante discutere, in un incontro destinato a pretori, proprio il problema della applicabilità di tale disposizione nel giudizio pretorile. È stato infatti sostenuto in dottrina (COSTANTINO, La lunga agonia del processo civile, in Foro It., 1995, V, 330; SCARSELLI, Rilievi problematici sull’ordinanza successiva alla chiusura dell’istruzione, in Foro It., 1995, I, 3306) che nei procedimenti destinati a concludersi con la pronuncia immediata della sentenza non vi sarebbe spazio per l’ordinanza ex art. 186 quater. Al riguardo credo che si debba convenire sul rilievo che tanto nel rito del lavoro, e quindi nelle controversie di lavoro, previdenziali, agrarie e locatizie, quanto nel giudizio di opposizione alle ordinanze ingiunzione, non sia possibile applicare l’art. 186 quater. Per il rito del lavoro, stante la (almeno tendenziale) concentrazione nell’udienza ex art. 420 c.p.c. di tutta la attività processuale (trattazione, istruzione e decisione della causa), dopo l’esaurimento dell’istruttoria il pretore deve senz’altro invitare le parti a discutere e pronunciare la sentenza. Non vi è quindi, a mio parere, alcun luogo processuale per l’applicazione dell’art. 186 quater (ammessa invece, nel rito del lavoro, da Pret. Massa 28-8-95, in Foro It., 1995, I, 3014). Può capitare, e in effetti spesso accade, che, specialmente quando l’istruttoria è stata frazionata in più udienze, le parti chiedono un rinvio per poter rileggere i verbali di causa e prepararsi con calma alla discussione, magari depositando note scritte; secondo una prassi diffusa (ma probabilmente contrastante col divieto di udienze di mero rinvio sancito dall’ultimo comma dell’art. 420 c.p.c.) il pretore concede tale rinvio; si tratta però di prassi che si collocano al di fuori del modello normativo del processo del lavoro, mentre è con tale modello che va valutata, e quindi esclusa, la compatibilità dell’art. 186 quater. Va comunque aggiunto che, anche quando venga concesso un rinvio per discussione, si dovrebbe trattare normalmente di un rinvio estremamente contenuto, cosicché non dovrebbe nemmeno sorgere l’esigenza pratica dell’ordinanza ex art. 186 quater (se una parte la richieda, il pretore dovrebbe dichiararla inammissibile e contestualmente invitare le parti a discutere e pronunciare sentenza). Le stesse conclusioni valgono per il giudizio di opposizione all’ordinanza ingiunzione. A prescindere dal rilievo che una domanda di condanna al pagamento di somme o alla consegna o rilascio di beni che debba essere conosciuta col rito di cui all’art. 23 l. 689/81 può concepirsi solo in caso di connessione tra una causa ordinaria ed una di opposizione all’ordinanza ingiunzione, ex art. 40, quarto comma, c.p.c., è comunque da escludere che con tale rito sia ammissibile la pronuncia dell’ordinanza ex art. 186 quater, alla stregua del chiaro disposto del settimo comma del suddetto articolo 23 l. 689/81 (“Appena terminata l’istruttoria il pretore invita le parti a precisare le conclusioni ed a procedere nella stessa udienza alla discussione, pronunciando subito dopo la sentenza mediante lettura del dispositivo”). Passando al rito ordinario, non vedo alcuna difficoltà nell’applicazione dell’art. 186 quater nei giudizi soggetti al vecchio rito (in questo senso, Pret. Salerno-Eboli, 2-11-95, in Foro It., 1996, I, 1053). Quanto al nuovo rito, escludersi – per le medesime considerazioni già svolte a proposito del rito del lavoro – l’applicabilità dell’art. 186 quater in tutti i casi in cui il pretore scelga di decidere la causa nelle forme della discussione orale, la quale impone la immediata lettura della sentenza, ex art. 315 c.p.c.. Residua invece un margine di applicabilità della disposizione in esame nel caso in cui la fase decisoria si svolga nelle forme della decisione a seguito di trattazione scritta, ex art. 314 c.p.c.; si tratta peraltro di un margine praticamente abbastanza residuale, tenuto anche conto del fatto che il termine per il deposito di conclusionali può essere fissato anche a venti giorni, ai sensi del secondo comma dell’art. 190 c.p.c.. In ultima ipotesi, infine, mi pare si possa riconoscere la possibilità, peraltro di modestissimo rilievo pratico, della emanazione dell’ordinanza ex art. 186 quater nell’udienza di prima comparizione ex art. 180 c.p.c., nel caso in cui le parti concordemente chiedano e il giudice, trattandosi di controversia di mero diritto o comunque documentalmente già istruita con le produzioni allegate agli atti introduttivi, autorizzi l’omissione della fase di trattazione e passi senz’altro alla fase decisoria nei modi di cui all’art. 314 c.p.c.. ASPETTI CONTROVERSI IN MATERIA DI PROCEDIMENTO PRETORILE Relatore: dott. Francesco RIZZI pretore della Pretura circondariale di Torino SOMMARIO: 1. Fissazione di apposita udienza ai fini dell’ammissione dei mezzi di prova: necessità, opportunità, esclusione. – 2. Utilizzabilità del termine assegnato dal giudice entro il quale le parti possono produrre documenti ed indicare nuovi mezzi di prova al fine di: a) dedurre mezzi di prova in caso di mancata indicazione negli atti introduttivi; b) riformulare i capitoli di prova già dedotti; c) integrare le liste testimoniali. – 3. Il termine successivo per l’indicazione di prova contraria: necessità della sua assegnazione al contumace. – 4. Rilevabilità d’ufficio delle decadenze istruttorie. – 5. Potere del pretore di disporre d’ufficio l’esame dei testi ex art. 312 c.p.c.: a) anche dopo l’udienza di cui all’art. 184 c.p.c.; b) in relazione a circostanze in ordine alle quali la parte sia decaduta dall’assunzione della prova ammessa. 1) Fissazione di apposita udienza ai fini dell’ammissione dei mezzi di prova: necessità, opportunità, esclusione Nell’affrontare una tematica relativa a specifiche questioni attinenti alla fase delle deduzioni istruttorie, così come delineata dalla riforma del processo civile operata dalla L. n. 353/90, il tema attinente all’individuazione dell’udienza nella quale il pretore deve provvedere sulle istanze probatorie delle parti in causa non appare di scarso rilievo. Il sistema delle preclusioni, la differenziazione del procedimento in fasi distinte, l’impossibilità di regresso alle fasi precedenti, la stretta dipendenza del “thema probandum” dal “thema decidendum” maturato nella fase delle deduzioni di merito, sono tutte circostanze che impongono una chiara individuazione del momento processuale nel quale il giudice deve provvedere sulle istanze di parte, radicando così le preclusioni istruttorie. Il primo problema che dev’essere affrontato è se la netta separazione delineata dalla normativa tra la fase preparatoria di trattazione e quella di istruzione deve o meno comportare una separazione della prima udienza di trattazione da quella in cui il giudice provvede sulle istanze istruttorie delle parti (disponendo, eventualmente, ex art. 202 c.p.c., per l’assunzione alla stessa udienza). In tre casi (e si parla solo degli specifici casi relativi ai rapporti trattazione-istruzione) non vi è dubbio che sia così. La prima ipotesi è contemplata dall’art. 183, 5° comma, c.p.c., che prevede come, concessi i termini per l’appendice di trattazione scritta, il giudice, con la stessa ordinanza, fissa l’udienza per i provvedimenti di cui all’art. 184 c.p.c.: udienza che viene definita come di “prosecuzione della prima udienza” dal PROTO PISANI (1). A tale udienza, ex art. 184 c.p.c., secondo l’autore, il giudice provvederà o a rimettere la causa al collegio ex art. 187 c.p.c., o a concedere il termine per le definitive richieste istruttorie o ad emettere il giudizio di ammissibilità e rilevanza relativo ai mezzi di prova già proposti. La seconda ipotesi riguarda, appunto, l’assegnazione del termine, previsto dall’art. 184 c.p.c., per produrre documenti ed indicare nuovi mezzi di prova, da concedersi su istanza di parte. Anche in questo caso la prima udienza di trattazione non potrà coincidere con quella in cui il pretore provvede sulle istanze istruttorie, così come nel terzo caso, offerto dalla circostanza che vengano dedotte prove d’ufficio ex art. 184 , 3° comma, c.p.c. (nel caso, ovviamente che ciò avvenga alla prima udienza di trattazione), che si accompagnano alla concessione alle parti del termine per dedurre i mezzi di prova che si rendano correlativamente necessari. Secondo il PROTO PISANI (2) è unicamente nella prima udienza di trattazione, ai termini dell’art. 184 c.p.c., che le parti possono proporre istanza di assegnazione del termine entro cui poter, a pena di decadenza, produrre documenti ed indicare nuovi mezzi di prova, con la conseguenza che la mancata istanza di parte entro la prima udienza (da intendersi, ai sensi della modifica dell’art. 180 c.p.c., operata dalla L. n. 534/95, quale prima udienza di trattazione) “determina la definitiva preclusione dei poteri processuali istruttori delle parti nel corso del giudizio di primo grado”. Questa soluzione deriverebbe, oltre che dalla lettera dell’art. 184 c.p.c., dal sistema delineato dalla novella n. 353/90, che nel distinguere la fase preparatoria da quella istruttoria individua quale cerniera tra le due fasi la preclusione definitiva in tema di deduzioni istruttorie ricollegata al momento immediatamente successivo alla chiusura della fase preparatoria in senso stretto. In sostanza, a prescindere dalle ipotesi di assegnazione dei termini conseguenti all’esercizio delle facoltà previste dagli art. 183, 5° comma (per le allegazioni), e 184 c.p.c. (per le offerte di prove e produzioni), i provvedimenti istruttori del giudice dovrebbero essere pronunciati nella prima udienza di trattazione anche secondo MANDRIOLI, MONTESANO-ARIETA, OBERTO e TARZIA (3). Il COSTANTINO (4) , poi, sottolinea come, in teoria, l’ipotesi fisiologica, ex combinato disposto degli art. 184 e 202 c.p.c., dovrebbe essere anzi quella dell’immediata assunzione dei mezzi di prova nella prima udienza di trattazione ( nella quale sono stati ammessi) , giacché l’art. 202 c.p.c. prevede il rinvio delll’udienza solo in caso di impossibilità di procedere all’assunzione. D’altra parte lo stesso autore sottolinea come l’ipotesi più probabile sarà quella del rinvio dell’assunzione anche nel caso le parti definiscano in prima udienza di trattazione il thema decidendum ed il thema probandum, giacché “una corretta gestione delle prime udienze di trattazione implica che esse siano dedicate esclusivamente alle attività che necessariamente debbono svolgersi in tale occasione” dovendosi tener conto delle esigenze dell’ufficio giudiziario e considerato, d’altra parte, che l’art. 80 disp. att. c.p.c., prevede che le prime udienze di trattazione sono espressamente distinte dalle altre e, in particolare, dalle udienze istruttorie (non si può però, non rilevare che l’art. 80 disp. att. c.p.c., si riferisce all’udienza di prima comparizione che, a seguito della nuova formulazione dell’art. 180 c.p.c. ad opera della L. n. 534/95, si differenzia dall’udienza di trattazione). In linea di principio sulla base delle stesse posizioni suvviste, ma più elasticamente, il BALENA (5) sottolinea che, tanto in considerazione della significativa mancata previsione del divieto delle udienze di mero rinvio (al contrario di quanto previsto dall’art. 420, ult. comma c.p.c. per il rito del lavoro), quanto perché le attività contemplate dall’art. 183 c.p.c. (come l’interrogatorio libero) potrebbero richiedere più di un’udienza, le preclusioni relative all’offerta di mezzi di prova, alle produzioni od alla richiesta di un termine per provvedervi, si produrranno solo in quell’udienza in cui il giudice, conclusa la trattazione ex art. 183 c.p.c., passerà ad esaminare le istanze istruttorie delle parti. Con ancora più flessibilità TARUFFO (6) avverte, d’altra parte, che l’ipotesi in cui il giudice pronunci ordinanza sull’ammissibilità dei mezzi di prova a conclusione della prima udienza di trattazione è quanto mai improbabile, oltre che per i motivi suddetti, anche perché l’eventuale deduzione probatoria effettuata proprio in prima udienza di trattazione può suggerire un rinvio della decisione qualora appaia opportuno uno spazio di riflessione. Su un’opposta linea di pensiero si trova quella dottrina universitaria rappresentata dal SASSANI (7) che rileva come il combinato disposto degli art. 183 e 184 c.p.c. renda “in ogni caso necessario mantenere distante l’udienza destinata alla fissazione della materia del contendere e l’udienza destinata alle attività probatorie”. Sulla stessa linea, più recentemente, MONTELEONE (8) per il quale lo schema tipico del nuovo processo, dopo l’udienza di prima comparizione e quella di trattazione, prevede una terza udienza nella quale dovrà stabilirsi se e quali mezzi istruttori ammettere. Ad avviso di altro autorevole pensiero, il giudice dovrebbe provvedere sulle deduzioni istruttorie in un’udienza che, di regola , è successiva a quella in cui sono state definitivamente fissate le deduzioni di merito: è questa l’opinione di CARPI-TARUFFO (9), già parzialmente anticipata dal secondo autore nel lavoro cui si è fatto riferimento. Difatti, anche nel caso che, all’udienza di trattazione, non sia stato concesso il termine di cui al 5° comma per le repliche, modifiche e precisazioni, nondimeno il giudice stesso potrebbe aver bisogno di una pausa di riflessione, di fronte alle modifiche apportate all’udienza, che potrebbe spingerlo a richiedere chiarimenti sulle deduzioni o a indicare questioni rilevabili d’ufficio prima di pronunciarsi sulle prove. In caso contrario nulla vieta al giudice di pronunciarsi immediatamente. Anche l’ATTARDI (10), d’altra parte, spiega che le deduzioni istruttorie dovrebbero completarsi all’udienza successiva rispetto a quella che esaurisce le deduzioni di merito ed in tale udienza il giudice dovrebbe provvedere alla loro ammissione: la fase dedicata all’integrazione delle deduzioni istruttorie, infatti, è successiva a quella che chiude le deduzioni di merito. A sommesso avviso di chi scrive, non si può ritenere che alla conclusione della prima udienza di trattazione (in caso di mancata concessione dei termini su istanza di parte ex art. 183, 5° comma, e 184 c.p.c. o in caso di mancata disposizione di mezzi di prova d’ufficio) scattino le preclusioni istruttorie a carico delle parti in causa. In pratica, sarà possibile (anche se certo non obbligatorio) e, in molti casi, opportuno, che il giudice, al termine della prima udienza di trattazione, fissi l’udienza per i provvedimenti di cui all’art. 184 c.p.c.: udienza nella quale le parti ben potranno ancora chiedere il termine per produrre documenti ed indicare nuovi mezzi di prova. Difatti, innanzi tutto, come evidenzia lo stesso PROTO PISANI (11) l’art. 184 c.p.c., se prevede come perentori i termini concessi dal giudice ai sensi del primo comma, non prevede affatto che le parti debbano richiedere tali termini entro la prima udienza di trattazione. Inoltre, il rigido sistema di divisione del procedimento in fasi, introdotto dalla novella, non può che trovare conferma nella separazione materiale dell’udienza di trattazione, che definisce il thema decidendum nel momento in cui si completano le deduzioni di merito, dall’udienza deputata alla definizione del thema probandum attraverso il giudizio di ammissibilità e rilevanza delle deduzioni istruttorie (o la concessione del termine per integrarle). D’altra parte, mentre l’art. 180 c.p.c. prende in considerazione la prima udienza del giudizio (di comparizione), l’art.183 c.p.c. si riferisce (anche in epigrafe) alla “prima” udienza di trattazione indicando quali sono le specifiche attività (attinenti alla fase delle deduzioni di merito del giudizio) che nella stessa debbono essere compiute. Appare coerente con la logica sistematica della riforma, quindi, che vi sia una successiva (seconda) udienza (di trattazione) deputata all’assunzione di quei provvedimenti, previsti dall’art. 184 c.p.c., finalizzati alla cristallizzazione del thema probandum. Nei lavori preparatori, d’altra parte, come ricordano VERDE-DI NANNI (12) la cosiddetta udienza d’istruzione costituiva un segmento a sé stante. Non pare inutile sottolineare che separare l’udienza ex art. 183 c.p.c., che individua le deduzioni di merito, da quella successiva, che definisce le deduzioni istruttorie (e chiude, così, la fase preparatoria) appare quanto mai opportuno in relazione alle attività da svolgere nella prima udienza di trattazione. Dopo l’esperimento dell’interrogatorio libero, del tentativo di conciliazione, dopo la richiesta di chiarimenti del giudice e l’indicazione delle questioni rilevabili d’ufficio, l’eventuale precisazione e modificazione delle domande ed eccezioni, a buona ragione le parti ed il giudice possono ritenere quanto mai opportuno il rinvio dell’udienza per i provvedimenti ex art. 184 c.p.c., giacché proprio in base alla valutazione complessiva delle suddette risultanze d’udienza, le parti stesse potranno decidere se richiedere alla successiva udienza o meno l’ammissione dei mezzi di prova già proposti od il termine per l’integrazione delle deduzioni e produzioni. Infine, l’applicazione concreta che della riforma è già stata fatta da chi scrive, conduce a rilevare come, in prima udienza di trattazione, il tentativo di conciliazione difficilmente si conclude con la redazione del verbale ex art. 185 c.p.c.. Le parti, infatti, anche se il tentativo è ben avviato (e praticamente concluso) preferiscono (probabilmente anche per non dover sopportare le spese di registro, che ultimamente sono molto aumentate) chiudere la vertenza con un accordo stragiudiziale, lasciando cancellare la causa dal ruolo ex art. 309 c.p.c.. In tal caso, quanto mai opportuno appare un rinvio ex art. 184 c.p.c. all’udienza deputata all’emissione dei provvedimenti istruttori, soprattutto nel caso che le parti debbano ancora definire i dettagli della conciliazione e si ripromettano di farlo prima dell’udienza successiva. In tal modo il giudice potrà fissare un congruo numero di rinvii di cause di questo tipo ad un’udienza unica, senza dover rinviare ogni causa a singole udienze private, soddisfando così evidenti esigenze di gestione del ruolo. Se, poi, all’udienza ex art. 184 c.p.c., le parti non si saranno ancora conciliate, ma la vertenza sia in via di risolutiva definizione (come spesso succede), ben potrà essere concesso, su richiesta (e solo allora sarà opportuno farlo, sia per non precludere un’ulteriore possibilità di rinvio, sia per non imporre immediatamente termini perentori alle parti che stanno tentando di conciliare la vertenza) il termine di cui all’art.184, 1° comma, c.p.c.. All’udienza successiva, infine, o si provvederà ex art. 309 c.p.c. o si emetteranno (eventualmente a seguito di riserva) i provvedimenti istruttori del caso. Né mi pare esatto sostenere che lo stesso risultato si raggiunge concedendo i termini ex art. 180, 2° comma, c.p.c., per la comunicazione di comparse. Difatti, innanzi tutto, a parere di chi scrive, il principio di oralità dovrebbe divenire, anche da un punto di vista formale, uno dei cardini intorno ai quali impostare la gestione di un processo improntato a canoni di concentrazione, immediatezza ed economia processuale e, di conseguenza, del tutto inopportuna apparirebbe la scelta di concedere alle parti la facoltà strumentale di depositare memorie (per le quali, tra l’altro, non è previsto un limite). Più coerente con i principi suddetti appare, invece, la concessione di specifici e finalizzati rinvii che rispettino la sequela procedimentale prevista dalla riforma impedendo al giudizio di invischiarsi in uno stato di totale inerzia che può durare anni. Le parti, invece, devono essere stimolate a trovare la conciliazione nel limite stabilito dalle due successive fissazioni d’udienza previste ex art. 184 c.p.c. al termine delle quali si dovrà provvedere ad istruire la causa. D’altra parte, la stessa Corte Costituzionale, con ordinanza n. 302 del 1986, pur in riferimento al rito del lavoro, rispetto al quale l’art. 420, 12° comma, vieta espressamente le udienze di mero rinvio, ha spiegato che la pendenza di trattative stragiudiziali costituisce motivo che giustifica il rinvio non mero dell’udienza di discussione. 2) Utilizzabilità del termine assegnato dal giudice entro il quale le parti possono produrre documenti ed indicare nuovi mezzi di prova al fine di: a) dedurre mezzi di prova in caso di mancata indicazione negli atti introduttivi; b) riformulare i capitoli di prova già dedotti; c) integrare le liste testimoniali. Per poter rispondere al quesito relativo all’utilizzabilità del termine ex art. 184, 1° comma, c.p.c., ai fini di cui in epigrafe, è necessario interrogarsi sul significato dell’espressione “nuovi mezzi di prova” che, appunto, possono essere indicati dalle parti previa assegnazione del termine de quo. La risposta al quesito suddetto non potrebbe che essere negativa se si ritenesse che la locuzione “nuovo mezzo di prova” stia necessariamente ad indicare l’esistenza di altre prove già precedentemente indicate dalle parti. In tal caso la conseguenza sarebbe che il termine ad integrazione potrebbe essere assegnato solo in caso che mezzi di prova siano già stati dedotti in precedenza (preferibilmente, ma non necessariamente, negli atti introduttivi, come previsto dagli art. 163, 3° comma, n. 5 e 167 c.p.c.) e che quelli da dedursi siano qualificabili come “nuovi” (e, cioè, che non siano già stati proposti, che siano di tipo diverso da quelli proposti o che, almeno, siano destinati a provare fatti del tutto distinti). In senso ancora diverso (e, parzialmente, più restrittivo) VERDE-DI NANNI (13) spiegano come la disposizione dovrebbe intendersi nel senso che i documenti ed i nuovi mezzi di prova sono solo quelli che si sono resi necessari a seguito delle attività consentite alle parti dal 4° comma, dell’art. 183 c.p.c. Non è però, questa l’interpretazione che il pensiero maggioritario ha offerto della norma in questione. TARUFFO (14) ha infatti sottolineato che nessuna sanzione di nullità o decadenza è prevista per la mancata indicazione negli atti introduttivi dei mezzi di prova. Deve, inoltre, sottolinearsi che, a differenza di quanto avviene nel rito del lavoro ex art. 420, 5° comma, che specifica come le parti possono proporre all’udienza solo i nuovi mezzi di prova “che non abbiano potuto proporre prima”, nessuna restrizione del genere sussiste nell’art. 184 c.p.c., per cui pare di poter concludere che le parti si possano ritenere libere di integrare od anche di effettuare totalmente le loro richieste istruttorie non oltre il termine concesso all’udienza ex art. 184 c.p.c., valevole anche per le produzioni documentali. È questa la posizione della dottrina maggioritaria (15). Incidentalmente, pare opportuno sottolineare che la concessione del termine è un obbligo per il giudice (che “assegna” il termine); che la durata massima del termine che il giudice concede non è indicata dall’art. 184 c.p.c.; che nulla vieta alle parti di dedurre le prove (e di produrre i documenti) alla stessa udienza, senza bisogno di chiedere alcun termine (giacché il giudice, ex art. 184, 1° comma, c.p.c., ammette i mezzi di prova “proposti”). Per quanto riguarda, quindi, i limiti di utilizzabilità del termine ex art. 184, 1° comma, c.p.c., ATTARDI (16) specifica che le parti possono liberamente avanzare nuove richieste istruttorie integrando quelle contenute negli atti difensivi: in pratica, possono liberamente avanzare altre deduzioni istruttorie. Venendo più in particolar modo a trattare della prova testimoniale, si può sottolineare che l’abrogazione dei commi 2° e 3° dell’art. 244 c.p.c. ha ricondotto la normativa particolare in tema di modalidà di deduzione e controdeduzione della prova testimoniale al regime generale delle preclusioni che riguarda tutti i mezzi di prova. OBERTO (17), affrontando specificamente l’argomento, ha sottolineato che il potere del giudice di concedere alle parti un termine per l’indicazione di nuovi mezzi di prova consente alle stesse la possibilità di formulare ex novo capitoli di prova, la possibilità (argomentando a fortiori dalla prima) di riformulare i capi già dedotti e di integrare le indicazioni testimoniali; tutto ciò subordinatamente all’istanza di parte. Anche BALENA e TARZIA (18) sottolineano che la disposizione dell’art. 184 , 1° comma, c.p.c. che prevede la concessione del termine perentorio entro il quale le parti possono indicare nuovi mezzi di prova ha sostanzialmente assorbito quelle, specificamente concernenti la prova testimoniale, già contenute nei commi 2° e 3° dell’art. 244 c.p.c.. Detto questo, alcune ulteriori notazioni appaiono pertinenti a chi scrive. Ritenere che le parti possano utilizzare il termine ex art. 184, 1° comma, c.p.c., al fine di dedurre ex novo capi di prova o di riformulare quelli già dedotti consente di offrire una coerente interpretazione sistematica del combinato disposto degli artt. 163, 3° comma, n. 5, 167 e 184 c.p.c. Le prime due disposizioni prevedono, rispettivamente in relazione all’atto di citazione ed alla comparsa di risposta, come gli atti introduttivi “debbano” contenere l’indicazione specifica dei mezzi di prova e dei documenti offerti in comunicazione. Tutto ciò, peraltro, senza prevedere, come già sottolineato, alcuna decadenza o nullità in caso che ciò non avvenga (come si evince dal combinato disposto degli artt. 163, 164, 167 e 171 c.p.c. che individuando specificamente i casi di nullità e decadenza non fanno cenno alcuno alla mancanza delle deduzioni istruttorie negli atti introduttivi) nonostante che la deduzione delle prove si inserisca nella fase preparatoria al fine di consentire un concentrato svolgimento delle fasi processuali e che la previsione di una loro indicazione negli atti introduttivi sia in linea con il principio di eventualità che permea la riforma. Tali disposizioni però, assumono una concreta rilevanza proprio in relazione alla norma dell’art. 184, 1° comma c.p.c.. Difatti, se l’attore od il convenuto non deducono i rispettivi strumenti istruttori negli atti introduttivi, saranno costretti, in linea di massima, appunto, ad utilizzare il termine concesso dal giudice all’udienza ex art. 184 c.p.c. per (ad es.) capitolare le prove testimoniali, con la conseguenza che, in caso di capitolazioni (ad es.) generiche, le loro istanze dovranno essere dichiarate “tout court” inammissibili, senza che il giudice possa concedere loro il termine per riformulare i capitoli; cosa che, invece, ben potrà fare (su richiesta, eventualmente subordinata in caso di riserva del giudice, che ben può avvisare le parti, in caso di riserva, della possibilità di tale richiesta subordinata) se i capitoli di prova inammissibili siano già stati formulati in atto di citazione od in comparsa di risposta e ne sia stata chiesta l’ammissione. In pratica, l’inerzia delle parti rispetto alle previsioni di cui agli artt. 163, 3° comma, n. 5 e 167 c.p.c. le espone al rischio della pronuncia di inammissibilità (od irrilevanza) delle deduzioni istruttorie, senza che il giudice possa loro concedere il termine per riformulare i capitoli. Tutto quanto suddetto opera sia in relazione alla prova diretta che alla prova contraria, per l’indicazione della quale l’art. 184, 1° comma, c.p.c. prevede la concessione di altro termine successivo. Le relative preclusioni condizionate alla scadenza del termine ulteriore operano, poi, tanto per la prova contraria diretta che per la prova contraria indiretta, vertente cioè su fatti diversi dai quali possa dedursi la insussistenza dei fatti così come allegati dal deducente (19). È da notare che il termine per la deduzione della prova contraria ben potrà essere richiesto, ai sensi dell’art. 184, 1° comma, c.p.c., anche se l’attore si limita a chiedere l’ammissione della prova diretta già dedotta in precedenza nell’atto introduttivo. Un’ulteriore notazione appare opportuna in relazione alla possibilità (che, come detto, risulta pienamente sussistente) che il giudice conceda il termine di cui sopra ai fini di consentire semplicemente l’integrazione della lista testimoniale. Vigente l’art. 244 c.p.c. nella vecchia formulazione, si consentiva (20) l’indicazione dei testi anche successivamente al momento di ammissione della prova testimoniale, fissando un termine perentorio per tale indicazione (solitamente coincidente temporalmente con l’udienza di assunzione). A parere di chi scrive, la formulazione del combinato disposto degli artt. 244 e 184, 1° comma, c.p.c. non consente più la possibilità di ammettere le prove testimoniali delle parti concedendo l’ulteriore termine per l’indicazione dei testi. L’art. 244 c.p.c., infatti, recita che la prova per testimoni dev’essere dedotta mediante indicazione specifica delle persone da interrogare: ciò vuol dire che se le persone da interrogare non sono indicate la deduzione testimoniale risulta inammissibile e come tale dev’essere dichiarata dal giudice. Né, d’altra parte, il disposto dell’art. 184 c.p.c. può essere utilizzato per la concessione di un termine per indicare i testi, o anche semplicemente per integrare le indicazioni, dopo il provvedimento d’ammissione. Difatti, la norma dispone che il giudice “ammette” i mezzi di prova proposti; “ovvero... rinvia ad altra udienza”, assegnando un termine (utilizzabile, come detto, anche al fine di indicare i testi). Come specifica il PROTO PISANI (21) quando la parte chiede il termine ex art. 184 c.p.c. (bisogna sottolineare, a prescindere dalle specifiche finalità istruttorie per cui lo chiede) il giudice non provvede sull’ammissione, ma rinvia ad altra udienza nella quale provvederà alle valutazioni di ammissibilità e rilevanza e disporrà per l’assunzione ai sensi degli artt. 202 c.p.c. e 81, 2° comma, disp. att. c.p.c.. La necessità che il giudice ammetta le prove solo quando le stesse sono definite nella loro integralità non solo è previsto, come detto, dall’art. 184 c.p.c., ma consente al giudice, ex art. 245, 1° comma c.p.c., non solo di ridurre preventivamente le liste sovrabbondanti, ma anche di evitare che vengano ammesse prove testimoniali che risulteranno in seguito inammissibili nel caso che la parte cui sia stato concesso il termine non indichi alcun teste (fattispecie che talvolta capitava nella vigenza del vecchio rito) o indichi uno o più testi tutti incapaci a deporre. D’altra parte, ad avviso di chi scrive, una completa ed esaustiva definizione del thema probandum non può prescindere dell’individuazione complessiva dei testi e, di conseguenza, solo di fronte ad una deduzione istruttoria compiuta ed integrale il giudice potrà emettere, al termine della fase preparatoria, i provvedimenti ammissivi dei mezzi di prova. 3) Il termine successivo per l’indicazione di prova contraria: necessità della sua assegnazione al contumace L’interprete, nell’esegesi dell’art. 184, 1° comma, c.p.c., nella parte in cui specifica che il giudice, su istanza di parte, rinvia ad altra udienza assegnando un termine alle parti per produrre ed indicare (nuovi) mezzi di prova “nonché altro termine per l’eventuale indicazione di prova contraria” può essere colto dal dubbio che il giudicante, una volta sollecitato da una parte a concedere il primo termine, sia poi tenuto, d’ufficio, a concedere “l’altro” termine per l’indicazione di prova contraria e, quindi, sia tenuto a concederlo anche al contumace. Analogo problema di concessione di termini al contumace, infatti, si prospetta, seppur per una fattispecie del tutto diversa (e con soluzione non necessariamente simile), in relazione all’art. 180, 2° comma, c.p.c.. Ad avviso di chi scrive, una interpretazione sistematica dell’art. 184 c.p.c. dovrebbe condurre ad ammettere una tale eventualità. MANDRIOLI, al contrario, (22) specifica che “l’altro termine” previsto dall’art. 184 c.p.c., e che dev’essere deputato alla deduzione della prova contraria, potrà essere “chiesto” dall’altra parte. Non dovrà, quindi, essere assegnato d’ufficio dal giudice. D’altra parte, si potrebbe argomentare, il primo periodo del 1° comma dell’art. 184 specifica che il giudice ammette i mezzi di prova “proposti” dalle parti, il che potrebbe valere anche per la prova contraria. Nel caso, poi, in cui venga concesso il termine ad integrazione delle deduzioni (e produzioni) la norma chiarisce che il rinvio ad altra udienza (con relativa assegnazione del termine per dedurre nonché di altro termine per l’indicazione di prova contraria) avviene su “istanza di parte” (e non certo d’ufficio), dove l’istanza di parte condiziona e sostiene, si potrebbe affermare, non solo la concessione del primo termine, ma anche quella del secondo per la deduzione della prova contraria (definita, tra l’altro, “eventuale”). D’altra parte, anche sotto la vigenza dell’abrogato terzo comma dell’art. 244 c.p.c., che consentiva al giudice di assegnare un termine per formulare o integrare le indicazioni relative alla prova (diretta e) contraria, si specificava (23) che tale potere presupponeva che l’istante avesse richiesto l’ammissione della prova (diretta o) contraria non potendo il giudice violare il principio di disponibilità delle prove differendo la decisione (in questo caso, relativamente all’ulteriore termine da concedersi al contumace) al fine di consentire la deduzione di una prova testimoniale non richiesta. La dottrina maggioritaria è però, di parere opposto. TARZIA (24) sostiene che se anche una sola delle parti ritiene di dover integrare le proprie deduzioni istruttorie ex art. 184, 1° comma, c.p.c., il giudice dovrà concedere eguale termine ad “entrambe” le parti per questo adempimento “nonché il termine, sempre comune alle parti, per l’indicazione di prova contraria”. Anche MONTELEONE e MONTESANO-ARIETA sono sulla stessa linea interpretativa (25) così come CAPUTO (26) che, appuntandosi espressamente sul secondo termine ex art. 184 c.p.c., specifica che “per venire incontro alle esigenze della difesa, la norma poi dispone che il giudice, nell’assegnare il detto termine, concede alle parti un secondo termine per l’eventuale indicazione di prove contrarie”. Tale interpretazione appare a chi scrive preferibile, sulla base della stessa lettera della legge. L’art. 184, 1° comma, seconda parte, c.p.c., infatti, recita che il giudice ... su istanza di “parte”, rinvia ad altra udienza, assegnando un termine entro il quale “le parti” possono produrre documenti ed indicare nuovi mezzi di prova, nonché altro termine per l’indicazione di prova contraria. Dal che si desume come sia sufficiente l’istanza di una sola parte perché il termine sia assegnato ad entrambe. Ora, su tali basi, anche in caso di contumacia, si può certamente sostenere che il termine per l’indicazione di prova contraria (il termine per indicare nuovi mezzi di prova pone il problema, cui si accenna infra, relativo alle ormai formatesi preclusioni del “thema decidendum” ex art. 183 c.p.c.) debba essere concesso al convenuto giacché l’esigenza di “controdedurre” nasce dalla richiesta del termine effettuata dalla parte costituita e perché “l’eventualità” (contemplata dalla norma) di indicare la prova contraria non può che valutarsi sulla base della prova che sarà dedotta entro il termine perentorio assegnato al richiedente. Ne discende che il contumace deve vedersi assegnato il termine (anche se non richiesto) per l’indicazione di prova contraria (che, sia detto per inciso, vale anche per le produzioni documentali). D’altra parte, sotto un profilo sistematico, il secondo comma dell’art. 244 c.p.c., ormai abrogato, ben prevedeva che la parte contro la quale la prova veniva proposta potesse indicare, nella prima risposta, la prova contraria e nessuno dubitava che il convenuto contumace, costituitosi prima che intervenisse il provvedimento di ammissione della prova diretta, avesse la facoltà di articolare la prova contraria diretta od indiretta che fosse. Come detto, le disposizioni del secondo e terzo comma dell’art. 244 c.p.c. si ritengono assorbite dalla nuova formulazione dell’art. 184 c.p.c.. In altra e più approfondita prospettiva, poi, appare opportuno sottolineare che un’eventuale termine per dedurre la prova contraria può essere concesso al contumace, ovviamente, solo nei limiti in cui è compatibile con le preclusioni di merito radicatesi con la definizione del thema decidendum e condizionanti il thema probandum. Questo è il motivo, sia detto tra parentesi e per inciso, per cui lo stabilire se al contumace possa essere concesso anche il termine per indicare nuovi mezzi di prova (una volta che la parte costituita abbia avanzato tale richiesta al giudice) dipende essenzialmente dalla posizione che si intende assumere circa la possibilità, una volta ultimata la fase preparatoria in senso stretto ex art. 183 c.p.c., di allegare nuovi fatti, di sollevare eccezioni processuali e di merito rilevabili d’ufficio, di allegare fatti secondari. L’interpretazione che, a giudizio di chi scrive, è condivisibile, e che limita il rilievo d’ufficio ai soli fatti tempestivamente allegati esclude la possibilità di dedurre capi di prova su fatti non introdotti (ancora) nel giudizio dal contumace e, quindi gli preclude la possibilità di dedurre. Le posizioni della dottrina, comunque, sono divise (27). Riprendendo il discorso sulla prova contraria, il PROTO PISANI (28) specifica con molta chiarezza che, in ipotesi di contumacia del convenuto, non dandosi corpo a fattispecie di non contestazione, l’attore sarà onerato della prova dei fatti costitutivi posti a fondamento della sua azione. Il contumace costituitosi tardivamente, quindi, potrà liberamente prendere posizione sui tali fatti costitutivi poiché più che contestarli non potrà fare (confermando il loro bisogno di essere provati), ma non potrà articolare prova contraria se non verrà rimesso in termini ai sensi dell’art. 294 c.p.c.. A parere di chi scrive, tale tesi va parzialmente condivisa, ma ampliata nel senso e nel limite che non potendo (a mio avviso, sulla falsariga di autorevole dottrina) più proporre eccezioni in senso stretto, né domande riconvenzionali, né chiamate in causa di terzi e, soprattutto, neppure potendo allegare “ex novo” “fatti” fondanti un’eccezione impropria (e, cioè, fatti estintivi, impeditivi o modificativi del diritto di controparte) rilevabile d’ufficio (come l’eccezione di pagamento) il convenuto costituitosi tardivamente, oltre i termini ex art. 183, 5° comma, c.p.c., non potrà (essendo ormai limitato il thema decidendum) chiedere l’ammissione di prove testimoniali contrarie indirette (che devono essere autonomamente articolate, sulla base di fatti nuovi e diversi, rispetto alla prova diretta), ma potrà essere ammesso alla prova contraria diretta (articolata, a contrario, sugli stessi capitoli di controparte) e, quindi, il termine per “controdedurre” gli dovrà essere concesso. 4) Rilevabilità d’ufficio delle decadenze istruttorie Dopo che sono state definitivamente fissate le deduzioni di merito, il giudice provvede sulle deduzioni istruttorie delle parti: il thema decidendum condiziona il thema probandum. Ai sensi dell’art. 184 c.p.c., quindi, il giudice o ammette le prove già dedotte oppure concede il richiesto termine per le integrazioni istruttorie (anche documentali) con relativo termine ulteriore per l’indicazione di prova contraria. Se le parti non fanno richiesta del termine (ed il giudice provvede sulle richieste avanzate) o se lo stesso è scaduto, le preclusioni scattano, come fa notare l’ATTARDI (29). Ovviamente anche per le prove documentali. D’altra parte, come sottolinea il PROTO PISANI (30) la novella ha introdotto un processo suddiviso per fasi e caratterizzato dalla netta (seppur a volte tendenziale) distinzione tra la fase preparatoria e la fase istruttoria con la previsione di una preclusione definitiva in tema di deduzioni istruttorie ricollegata al momento immediatamente successivo alla chiusura della fase preparatoria. Una volta maturate, tali preclusioni sono rilevabili d’ufficio dal giudice ad avviso di chi scrive, sulla falsariga di quanto avviene per le deduzioni di merito, giacché le preclusioni relative sono poste a tutela dell’interesse pubblico (che caratterizza l’intera riforma) ad un sollecito ed ordinato svolgimento del processo che, evitando sovrapposizioni tra le diverse fasi processuali, eluda situazioni di confusione ed impedisca quegli atteggiamenti dilatori che contribuivano a ritardare sine die la soluzione della vertenza processuale. La tesi della rilevabilità d’ufficio delle decadenze istruttorie trova conforto nella previsione dell’art. 184, 2° comma, c.p.c., che individua come perentori i termini per integrare le deduzioni istruttorie e nella tesi che nel caso di violazione di termini perentori scorge una fattispecie di nullità insanabile, che si combina con il fenomeno della decadenza, riconducibile alla categoria dell’inammissibilità e rilevabile anche in difetto d’istanza di parte: così PICARDI (31). È appunto sul presupposto della perentorietà dei termini che BUCCI-CRESCENZI-MALPICA reputano facoltà del giudice rilevarne d’ufficio l’eventuale inosservanza (32). D’altra parte si deve sottolineare che tali rilievi, seppur pregnanti, non sono decisivi, giacché il nostro ordinamento conosce casi di termini perentori cui ricollega anche effetti estintivi che non sono rilevabili d’ufficio dal giudice pur operando ipso iure: paradigmatico è il caso dei termini perentori di cui all’art. 307, 1° e 3° comma c.p.c., relativi alla riassunzione del giudizio, rispetto alla rilevabilità dell’estinzione del processo in caso di mancato rispetto dei termini stessi (che dev’essere eccepita dalla parte interessata). Non si può non sottolineare, inoltre, che la prassi nella vigenza del terzo comma dell’art. 244 c.p.c., che consentiva al giudice di assegnare un termine perentorio alle parti per integrare le indicazioni istruttorie, era nel senso di ritenere sanata per acquiescenza la decadenza relativa al mancato rispetto del termine stesso, trattandosi di decadenza stabilita a tutela esclusiva degli interessi delle parti (33). Difatti, TARUFFO (34) si limita ad auspicare un’interpretazione giurisprudenziale rigorosa, ma non si nasconde che tale esito non si ricava indiscutibilmente dalla disciplina della fase preliminare. Decisive, invece, sono le considerazioni, svolte dal CHIARLONI (35), relative al fatto che un sistema processuale imperniato sulle preclusioni non può funzionare se non si affida al giudice per garantirne l’osservanza. La normativa in tema di preclusioni, quindi, è dettata dall’interesse pubblicistico al corretto, razionale ed efficiente funzionamento del nuovo giudizio civile e, quindi, le sue violazioni sono rilevabili d’ufficio, come conviene anche il MANDRIOLI (36). PROTO PISANI (37) pur condividendo la tesi che a livello di regola generale le preclusioni sono rilevabili d’ufficio, spiega che tale potere d’ufficio troverebbe un limite invalicabile in un esplicito accordo delle parti volto a consentire il superamento delle preclusioni che però, deve necessariamente avvenire nel rispetto delle forme indicate dall’art. 306, 2° comma, c.p.c. per la rinuncia agli atti del giudizio e, cioè, o a mezzo di procuratore speciale o personalmente. Critico è il CHIARLONI (38) nei confronti di questa estrema possibilità lasciata alle parti di disporre delle preclusioni, giacché l’art. 306 consente alle parti di disporre del “se” del processo, ma non del “come” dello stesso e poiché in caso di contumacia del convenuto, non essendo necessaria la rinuncia agli atti del giudizio, simmetricamente l’attore dovrebbe poter disporre unilateralmente delle preclusioni, conclusione che si reputa inaccettabile. I motivi di ordine generale che sottendono la riforma del codice mi sembra che tendano ad escludere che le parti (pur potendo disporre del giudizio ponendovi fine ed accordandosi sui diritti controversi) possano influenzare le specifiche modalità attraverso le quali il processo deve svolgersi per poter rappresentare, nei confronti della generalità dei consociati, uno strumento di razionale e celere soluzione dei conflitti sociali, atto, quindi, a soddisfare compiutamente quel diritto alla tutela giurisdizionale sancito dall’art. 24 della Costituzione. 5) Potere del pretore di disporre d’ufficio l’esame dei testi ex art. 312 c.p.c.: a) anche dopo l’udienza di cui all’art.184 c.p.c.; b) in relazione a circostanze in ordine alle quali la parte sia decaduta dall’assunzione della prova ammessa. Per poter rispondere ai quesiti di cui in epigrate è opportuno inquadrare i poteri istruttori del pretore ex art. 312 c.p.c., relativi alla formulazione d’ufficio della prova testimoniale, nell’ambito del sistema normativo processuale. Il mezzo di cui sopra è ricompreso nella fattispecie generale dei mezzi di prova disponibili d’ufficio cui fa riferimento l’art. 184, 3° comma, c.p.c. nello statuire che, in caso uno di tali mezzi di prova sia disposto dal giudice, questi dovrà assegnare alle parti un termine perentorio per dedurre gli strumenti istruttori che si rendano necessari in relazione ai primi. PROTO PISANI (39) individua tali mezzi di prova nell’ispezione di persone e cose ex art. 118 c.p.c., nella testimonianza di riferimento ex art. 257 c.p.c., nel giuramento suppletorio ed estimatorio ex art. 240 e 241 c.p.c., nella consulenza tecnica ex art. 191 c.p.c. (nei limiti in cui vengano demandate ispezioni) e, appunto, nella prova testimoniale disposta d’ufficio dal pretore ex art. 312 c.p.c.. Sotto la vigenza del vecchio rito era stato genericamente affermato (40) che il regime di decadenza dei poteri istruttori ufficiosi vincolerebbe il giudice allo stesso modo e negli stessi termini in cui vincola le parti, ma l’opinione maggioritaria (41) è sempre stata dell’avviso che i poteri del giudice ex art. 317 c.p.c. (ora 312) sono esercitabili senza limiti temporali e, addirittura, dopo il passaggio in decisione della causa. Una parte della dottrina che si è espressa sull’argomento in relazione alla riformata fase istruttoria è dell’avviso che le preclusioni istruttorie vincolino anche la disposizione d’ufficio di mezzi istruttori, non più ammissibile oltre la prima udienza di trattazione per MONTESANOARIETA, od oltre l’udienza successiva per CAPPONI (42), che si riferisce espressamente al potere ex art. 312 c.p.c. PROTO PISANI (43), pronunciandosi in relazione alla disciplina vigente dopo la novella, spiega che il potere istruttorio d’ufficio non è subordinato agli stessi termini di decadenza previsti per le deduzioni istruttorie delle parti. Specifica, inoltre, giustamente, che la previsione nel rito ordinario di poteri istruttori d’ufficio non soggetti a decadenza non è destinata a porre grossi problemi, sia per il carattere quantitativamente limitato di tali poteri, sia perché la maggioranza di essi (il giuramento suppletorio, quello estimatorio, la testimonianza di riferimento e spesso la consulenza tecnica) presuppongono che le prove su istanza di parte siano state non solo già richieste, ma anche già acquisite. Non vi è motivo per ritenere che la fattispecie di cui all’art. 312 c.p.c. faccia eccezione alla regola. Della stessa opinione si dimostra BALENA (44) il quale individua come ordinaria l’ipotesi in cui il giudice, ex art. 184, 3° comma, c.p.c., disporrà d’ufficio ulteriori mezzi di prova dopo l’assunzione delle prove dedotte dalle parti. Anche TARZIA e CAPUTO (45) sottolineano che il giudice può sollecitare l’ammissione ufficiosa di prove in qualunque momento del processo e che tale potere non è soggetto a termini di decadenza. Credo, inoltre, che si possa rilevare come il dettato dell’art. 184 c.p.c. sia chiaro nel riferire le decadenze istruttorie (con relativo richiamo ai termini perentori per la deduzione) alle fattispecie del primo e secondo comma e, cioè, alle prove “proposte” dalle parti, e non alla fattispecie di cui al terzo comma, relativa ai mezzi di prova disposti d’ufficio. Essendo pienamente inquadrabile l’art. 312 nella fattispecie generale dei mezzi di prova disponibili d’ufficio, allo stesso si applicherà integralmente il disposto dell’art.184, 3° comma, c.p.c., relativo alla concessione alle parti del termine per dedurre a loro volta i mezzi di prova che si rendano correlativamente necessari. PROTO PISANI (46), spiegando come tale facoltà vada intesa come possibilità, per le parti, di articolare la prova contraria, asserisce che la stessa facoltà sussiste anche se per tale prova sono già maturate le preclusioni di cui all’art.184, 1° e 2° comma, c.p.c.. È possibile, poi, che il pretore disponga d’ufficio la prova testimoniale in ordine a circostanze rispetto alle quali la parte, ex art. 208 c.p.c., sia decaduta dall’assunzione della prova ammessa in precedenza, appunto perché non presentatasi all’udienza di assunzione? (pare opportuno sottolineare che l’art. 104 disp. att. c.p.c. parla di “decadenza dalla prova” anche nel caso di mancata intimazione di testimoni). LEONE, in specifico riferimento alla fattispecie ex art. 208 c.p.c. (47), riporta il pensiero della giurisprudenza in base al quale, in caso di mezzo di prova richiesto dalla parte, ma astrattamente disponibile anche dal giudice, questi può ordinare la prova dalla cui assunzione la parte è decaduta. La giurisprudenza (48), appunto, ha fatto uso di tale principio, con specifico riferimento alla fattispecie di cui all’art. 257 c.p.c., asserendo che il potere di disporre la testimonianza di riferimento è configurabile anche in ordine a quei testi il cui esame non sia più possibile per effetto dell’avvenuta decadenza dall’assunzione. Non avrebbe rilievo il fatto che, in tal modo, la parte si salvi da una decadenza nella quale era incorsa (49). La “ratio” dell’art. 257 c.p.c. consiste nel consentire l’escussione testimoniale di soggetti (cui si siano riferiti i testi) che possano fornire elementi per la formazione del convincimento del giudice. Essendo questo lo “scopo” della fattispecie in esame, nulla vieta che “un effetto” dell’assunzione sia quello che la parte eviti una decadenza nella quale era incorsa: ma questo, appunto, è un semplice effetto della norma la cui causa, che viene in concreto perseguita, è, come detto, tutt’altra. Ora, i poteri istruttori del pretore ex art. 317 c.p.c. (ora 312) costituiscono, come già sottolineava ANDRIOLI (50) un ulteriore sviluppo dell’art. 257 c.p.c. e, più precisamente, secondo SATTA (51), un’estensione di tale fattispecie fino a consentire al giudice la formulazione di nuovi capitoli. Analogo alla fattispecie ex art. 257 c.p.c., quindi, ad avviso di chi scrive, è il caso dell’art. 312 c.p.c.. Qui lo scopo della norma è quello di integrare le acquisizioni probatorie tramite la formulazione apposita di una prova testimoniale d’ufficio basata sui “fatti” che le parti hanno esposto (e, cioè, basata sulle “allegazioni” di parte) quando queste si sono riferite a “persone in grado di conoscere la verità”, categoria nella quale non possono ricomprendersi, all’evidenza, i testi indicati dalle parti (52), e che, quindi, divengono autonomo strumento (ulteriore rispetto alle deduzioni di parte) nell’iter che conduce alla formazione del convincimento del giudice. Ora, se in tali casi il pretore può formulare autonomamente i capitoli di prova, non si può certo escludere che intenda ascoltare tali persone sulle stesse circostanze dedotte nei capi di prova delle parti (decadute dall’assunzione) giacché egli ha un autonomo potere di dedurre i capi di prova (che prescinde, quindi, dalle decadenze di parte). Le decadenze istruttorie delle parti sulle circostanze dedotte, quindi, non dovrebbe impedire al pretore di ascoltare i soggetti da lui individuati (ma che, si ribadisce, non possono essere i testi indicati dalle parti dalla cui assunzione le stesse siano decadute) sulla base delle allegazioni, intorno alle stesse o consimili circostanze dedotte dalle parti decadute dall’assunzione, così come la decadenza relativa all’assunzione del teste non impedisce al giudice di ascoltare lo stesso teste cui altri testimoni si siano riferiti: anche nel primo caso, “l’elusione” della decadenza è un semplice effetto dell’utilizzo della fattispecie della prova d’ufficio. D’altra parte, è opportuno però, specificare che sotto la vigenza della vecchia formulazione dell’art. 317 c.p.c., la giurisprudenza di merito (53) aveva asserito come il potere concesso al pretore ex art. 317, 1° comma, c.p.c., di disporre d’ufficio la prova per testi non può essere esercitato quando vi sia stata decadenza per mancata comparizione all’udienza. Specificamente (54) è stata dichiarata l’impossibilità, per il pretore, ex art. 317 c.p.c. (ora 312), di assumere la prova testimoniale dello stesso teste dalla cui assunzione la parte era decaduta ex art. 208 c.p.c.. In relazione alla riforma introdotta con la novella, d’altronde, anche CAPUTO (55) sostiene che il potere istruttorio del giudice non può essere esercitato in relazione a mezzi di prova per i quali siano intervenute delle decadenze. Come detto però, innanzi tutto, le “persone che appaiono in grado di conoscere la verità”, di cui all’art. 312 c.p.c., non sono i soggetti indicati come testi dalle parti e, quindi, nessuna decadenza circa la loro assunzione può configurarsi. Secondariamente, poi, ed anche a voler prescindere dalle motivazioni che precedono, la decadenza ex art. 208 c.p.c. è relativa al diritto di “assumere” la prova, non alla prova di per sé. Ne discende che la decadenza non può riferirsi che alla fattispecie concreta dell’assunzione (in questo caso) dei testimoni specificamente indicati dalle parti (giacché è tramite loro che la prova, materialmente, si assume), con la conseguenza che non si riflette sulle circostanze oggetto di prova rispetto alle quali verranno escusse le persone indicate dal pretore ex art. 312 c.p.c.. L’opinione espressa da chi scrive, comunque, data la natura e la funzione suvvisti dell’art. 312 c.p.c., non dovrebbe essere inficiata dalla giusta considerazione di FRASCA (56) relativa al fatto che i poteri istruttori del pretore non trovano più fondamento nell’art. 316 c.p.c., vecchio testo, secondo il quale al pretore era sempre dato di indicare alle parti le lacune istruttorie ravvisate. L’opinione contraria a quella sostenuta nel testo, d’altronde, sarebbe preferibile, invece, se si ritenesse (57) che condizione richiesta per l’esercizio del potere ex art. 312 c.p.c. sia la mancata capitolazione di parte dei fatti posti a base della domanda poiché, ovviamente, in tal caso il pretore non potrebbe disporre prova d’ufficio in presenza di capitolazioni di parte sull’oggetto relativo, anche se le parti nell’esposizione dei fatti abbiano fatto riferimento a persone non indicate come testi. Se, invece, il potere di cui all’art. 312 c.p.c. di disporre d’ufficio la prova testimoniale deve ritenersi condizionato solo al “riferimento” a persone che appaiono in grado di conoscere la verità (“il pretore... può disporre d’ufficio la prova testimoniale... quando le parti... si sono riferite”) la formulazione dei capitoli di prova (diversi) non può che essere intesa come facoltà del giudice e non come un’ulteriore condizione e, quindi, in definitiva, le decadenze di cui all’art. 208 c.p.c., nel caso oggetto del presente paragrafo, non dovrebbero trovare applicazione poiché in tal caso il pretore dovrebbe poter utilizzare le capitolazioni già dedotte o, comunque, dovrebbe poter interrogare i testi su circostanze già oggetto delle precedenti capitolazioni. BIBLIOGRAFIA 1) ANDRIOLI, “Commento al codice di procedura civile”, Napoli, 1957, II. 2) ATTARDI, “Le preclusioni nel giudizio di primo grado”, in Foro It., 1990, V, 385 ss. 3) BALENA, “Commento agli art. 184-184 bis c.p.c.”, in Provvedimenti urgenti per il processo civile, in NLCC, 1992, p. 91 ss. 4) BALENA, “La riforma del processo di cognizione”, Napoli, 1994. 5) BUCCI-CRESCENZI-MALPICA, “Manuale pratico della riforma del processo civile”, Padova, 1995. 6) CAPPONI, in VACCARELLA-CAPPONI-CECCHELLA, “Il processo civile dopo le riforme”, Torino, 1992. 7) CAPUTO, “La nuova normativa sul processo civile”, Padova, 1996. 8) CARPI-TARUFFO, commento all’art. 184 c.p.c. in “Commentario breve al codice di procedura civile”, Padova, 1994. 9) CHIARLONI, “Le riforme del processo civile”, Bologna, 1992. 10) COSTANTINO, Commento agli art. 181-183 c.p.c. in “Provvedimenti urgenti per il processo civile’’, in NLCC, 1992, p. 70 ss. 11) FRASCA, commento all’art. 317 c.p.c., in D’AIETTI, FRASCA, MANZI, MIELE, “La riforma del processo civile”, Milano, 1991. 12) LEONE, voce “Istruzione della causa”, in Enciclopedia del diritto, 148. 13) MANDRIOLI, “Corso di diritto processuale civile”, Torino, 1991, II. 14) MONTELEONE, “Diritto processuale civile”, Padova, 1995, II. 15) MONTESANO-ARIETA, “Il nuovo processo civile”, Napoli, 1991. 16) OBERTO, “Il giudizio di primo grado dopo la riforma del processo civile”, in Giur. It., 1994, IV, 313 ss. 17) PICARDI, “Dei termini”, commento all’art. 152 c.p.c., in “Commentario del codice di procedura civile” diretto da E. Allorio, Torino, 1973, I, II, 1546 ss. 18) PROTO PISANI, “Lezioni di diritto processuale civile”, Napoli, 1994. 19) PROTO PISANI, “La nuova disciplina del processo ordinario di cognizione di primo grado e d’appello” in Foro It., 1991, V, 249 ss. 20) SASSANI, in CONSOLO, LUISO e SASSANI, “La riforma del processo civile”, Milano, 1991, p. 105 ss. 21) SATTA, “Commentario al codice di procedura civile”, Milano, 1966. 22) TARUFFO, “Le riforme della giustizia Civile”, Torino, 1993. 23) TARZIA, “Lineamenti del nuovo processo di cognizione”, Milano, 1991. 24) VERDE-DI NANNI, “Codice di procedura civile”, Torino, 1991. (1) PROTO PISANI, “Lezioni di diritto processuale civile”, Napoli, 1994, p. 114. (2) PROTO PISANI, op. cit., p. 118. (3) MANDRIOLI, “Corso di diritto processuale civile”, Torino, 1991, II, p. 83; MONTESANO-ARIETA, “Il nuovo processo civile”, Napoli, 1991, p. 49; OBERTO, “Il giudizio di primo grado dopo la riforma del processo civile” in Giur. It., 1991, IV, 315; TARZIA, “Lineamenti del nuovo processo di cognizione”, Milano, 1991, p. 109. (4) COSTANTINO, “Commento agli art. 181-183” in “Provvedimenti urgenti per il processo civile”, in NLCC, 1992, p. 85. (5) BALENA, “Commento agli art. 184-184 bis” in “Provvedimenti urgenti per il processo civile”, in NLCC, 1992, p. 93. (6) TARUFFO, “Le Riforme della giustizia civile”, Torino, 1993, p. 270 ss. (7) SASSANI, in CONSOLO, LUISO e SASSANI “La riforma del processo civile”, Milano, 1991, p. 107. (8) MONTELEONE, “Diritto processuale civile”, Padova, 1995, II, p. 60; il combinato disposto degli art. 175 c.p.c. (sui poteri di direzione del procedimento) e 183, ultimo comma, c.p.c., portano a tale conclusione. Incoerente con la realtà dello svolgimento delle udienze civili, in cui vengono trattate decine di cause contemporaneamente, sarebbero soluzioni diverse: sempre fatta salva la facoltà del giudice di provvedere, se voglia farlo, in prima udienza di trattazione. (9) CARPI-TARUFFO, in “Commentario Breve al Codice di procedura Civile”, Padova, 1994, comm. art. 184. (10) ATTARDI, “Le preclusioni nel giudizio di primo grado”, in Foro It., 1990, V, 386 s. (11) PROTO PISANI, op. cit, p. 118. (12) VERDE-DI NANNI, “Codice di procedura civile”, Torino, 1991, p. 89, che si riferiscono ai progetti redatti da FABBRINI, PROTO PISANI e VERDE, alle bozze predisposte dal C.S.M. e da Magistratura Democratica, al d.d.l. n. 732/S/X. (13) VERDE-DI NANNI, op. cit., p. 93 s. (14) TARUFFO, op. cit., p. 271. (15) TARZIA, op. cit., p. 110, che fa espresso riferimento al principio di libertà delle deduzioni istruttorie; SASSANI, op. cit., p. 106. (16) ATTARDI, op. cit., p. 388. (17) OBERTO, op. cit., IV, 316. (18) BALENA, op. cit., p. 92; TARZIA, op. cit., p. 120. (19) Cass. 1994 n. 1163; Cass. 1987 n. 3672. (20) Cass. 1981 n. 611. (21) PROTO PISANI, op. cit., p. 117. (22) MANDRIOLI, op. cit., appendice, p. 3. (23) Cass. 1991 n. 5406; Cass. 1977 n. 2030. (24) TARZIA, op. cit., p. 109. (25) MONTELEONE, op. cit., p. 62; MONTESANO-ARIETA, op. cit., p. 49. (26) CAPUTO, “La nuova normativa sul processo civile”, Padova, 1996, p. 118. (27) BALENA, “La riforma del processo di cognizione”, Napoli, 1994, p. 186 ss.; ivi per un’accurata disamina delle varie posizioni dottrinarie. (28) PROTO PISANI, op. cit., p. 122 s. (29) ATTARDI, op. cit., p. 388. (30) PROTO PISANI, op. cit., p. 118. (31) PICARDI, “Dei Termini”, commento all’art. 152 c.p.c., in “Commentario del codice di procedura civile” diretto da E. Allorio, Torino, 1973, I, 2, 1547. (32) BUCCI-CRESCENZI-MALPICA, “Manuale pratico della riforma del processo civile”, Padova, 1995, p. 112 s., che fanno riferimento anche all’art. 208 c.p.c. che prevede il rilievo d’ufficio della decadenza dall’assunzione della prova per mancata presentazione della parte. (33) Cass. 1991 n. 7205. (34) TARUFFO, op. cit., p. 276 s. (35) CHIARLONI, “Le riforme del processo civile”, Bologna, 1992, p. 205 s. (36) MANDRIOLI, op. cit., p. 82. (37) PROTO PISANI, “La nuova disciplina del processo ordinario di cognizione di primo grado e d’appello”, in Foro It., 1991, V, 330. (38) CHIARLONI, op. cit., p. 205 s. (39) PROTO PISANI, op. cit., p. 119. (40) Cass. 1986 n. 1882; conf. dottrina minoritaria, v. rif. in CARPI-TARUFFO, op. cit., comm. art. 312. (41) Cass. 1982 n. 121; e, per il diritto del lavoro, Cass. 1989 n. 2588, Cass. 1986 n. 7244; Cass. 1984 n. 5123; Cass. 1984 n. 3009; per la dottrina conf., v. rif. nota precedente. (42) MONTESANO-ARIETA, op. cit., p. 49; CAPPONI, op. cit., p. 256, che argomenta ex art. 320, IV, c., c.p.c., e dal fatto che l’art. 312 c.p.c. non riproduce l’inciso dell’art. 421 c.p.c. “ in qualsiasi momento”. (43) PROTO PISANI, op. cit., p. 119 s. (44) BALENA, “Commento...”, cit., p. 93. (45) TARZIA, op. cit., p. 115; CAPUTO, op. cit., p. 119. (46) PROTO PISANI, op. cit., p. 120. (47) LEONE, voce “Istruzione della causa” in Enciclopedia del diritto, 148. (48) Cass. 1986 n. 1882; Cass. 1983 n. 6558. (49) Cass. 20-4-1963 n. 974 in Giur. It., 1964, I, I, 471 ss., con specifico riferimento alla possibilità di escutere, ex art. 257 c.p.c., lo stesso teste rispetto al quale la parte sia decaduta dall’assunzione. (50) ANDRIOLI, “Commento al codice di procedura civile”, Napoli, 1957, II, 361. (51) SATTA, “Commentario al codice di procedura civile”, Milano, 1966, 459. (52) BALENA, “La riforma...”, cit., p.342. (53) Pretura Castellamare di Stabia 30.3.1956, in Rep. Giur. It., 1957, voce Prova testimoniale civile, n. 178. (54) Pret. Cortona, ord. 29-3-1952, in Nuovo Diritto, 1953, 568 ss., con nota però, contraria di PAGLICCI-BROZZI; Pret. Roma, 6-4-1968, in Il Nuovo Diritto, 1969, 75 ss. (55) CAPUTO, op cit., p. 119. (56) FRASCA, in D’AIETTI, FRASCA, MANZI, MIELE, “La riforma del processo civile”, Milano, 1991, p. 280 s. (57) Cass. 1964, n. 678. PRINCIPALI PROBLEMI IN MATERIA DI PROCEDIMENTO PRETORILE CON RIFERIMENTO ALLA FASE DECISORIA Relatore: dott. Andrea MIRENDA pretore della Pretura circondariale di Verona SOMMARIO: 1. Inquadramento generale delle modifiche apportate dalla novella al giudizio pretorile. – 2. La decisione a seguito di trattazione scritta. – 3. La decisione a seguito di trattazione orale: 3.1. Discrezionalità della scelta del modulo decisorio; 3.2. La necessità del preavviso ai difensori; 3.3. Le modalità di pubblicazione della sentenza; 3.4. Conseguenze della mancata lettura immediata del dispositivo e della motivazione e revocabilità della scelta del modulo decisorio all’esito della discussione orale). 1. La riforma del processo civile ha modellato il procedimento avanti al pretore sulla falsariga di quello avanti al giudice istruttore del tribunale in funzione di giudice unico. Oggi, difatti, diversamente dal passato (ove il rito pretorile e quello del conciliatore erano sostanzialmente coincidenti) le disposizioni comuni al pretore e al giudice di pace si riducono ai soli artt. 311 (rinvio alle norme per il tribunale), 312 (poteri istruttori del giudice) e 313 (querela di falso). Si è così acutamente osservato (1) che l’unificazione del rito avanti al giudici togati, come pure la monocraticità sempre più ampia del giudice di primo grado ed il progressivo ampliamento della competenza per materia e valore del pretore (che parimenti evidenzia lo scarso senso della sopravvivenza del giudice di tribunale monocratico) costituiscono oramai la testa di ponte per la conquista – reclamata oramai da ampi settori della dottrina e delle istituzioni – del giudice unico di primo grado (2). La cennata coincidenza tra rito pretorile e rito avanti al giudice istruttore del tribunale in funzione di giudice unico non è però assoluta (3). La riforma, difatti, innova profondamente rispetto al passato, introducendo per la prima volta una specifico capo volto a disciplinare – con elementi di assoluta originalità – la fase della decisione pretorile (artt. 314-315 c.p.c.). Vediamo, dunque, di cogliere gli aspetti salienti della innovazione. Emerge, innanzitutto, un primo dato: diversamente da quanto prevede l’art. 190 bis c.p.c. per la decisione del giudice istruttore (che giunge, di regola, all’esito della trattazione scritta, salvo il temperamento dell’eventuale discussione orale a richiesta), la decisione del pretore può seguire due strade alternative: quella, per così dire, tradizionale, della decisione a seguito di trattazione scritta (art. 314), ovvero quella (densa di elementi evolutivi sui quali torneremo meglio) della decisione a seguito di trattazione orale (art. 315). Già questi primi cenni bastano per intravedere in filigrana la tendenziale anelasticità dei due modelli decisori: invero, una volta adottato il rito di cui all’art. 314 c.p.c. viene meno ogni possibilità di introdurre elementi di oralità, neppure – si badi – ad istanza di parte, come invece prevede l’art. 190 bis, comma 2, c.p.c.. La scelta del legislatore – di non agevole comprensione sul piano della coerenza sistematica – appare inoltre criticabile in quanto, a mio avviso, espone ad uno sterile impoverimento della fase decisoria (che per essere il momento culminante del processo meriterebbe invece l’adozione di ampie cautele) senza peraltro giovare alla celerità della decisione (4). 2. L’art. 314 recita: “il pretore, quando ritiene la causa matura per la decisione, invita le parti a precisare le conclusioni, dispone lo scambio delle comparse conclusionali e delle memorie di replica ai sensi dell’art. 190 e, quindi, deposita la sentenza in cancelleria entro trenta giorni dalla scadenza del termine per il deposito delle memorie di replica”. La norma ricalca, nella sostanza, la formula dell’art. 190 bis c.p.c. per la decisione della causa di fronte al giudice istruttore del tribunale in funzione di giudice unico. Se ne discosta, però, per alcuni elementi non marginali: 1) il termine assegnato per il deposito della sentenza è dimezzato rispetto a quello previsto per il Tribunale: la diversità di regime, già discutibile nella premessa (lì dove sottintende, del tutto aprioristicamente, la maggiore semplicità delle cause pretorili) (5), appare oggi ancor meno condivisibile dopo il sostanzioso (e, come si è fatto notare, per molti versi azzardato) (6) aumento della competenza per valore introdotto con la legge di conversione 20-12-1995 n. 534; 2) una volta eletta la via della decisione a seguito di trattazione scritta, non è contemplata la possibilità di una fase orale ad istanza di parte, sulla falsariga dell’art. 190 bis. Difetta, dunque, in radice la possibilità della discussione orale dopo il deposito delle comparse conclusionali. Il pretore dovrà pertanto decidere, a seconda dell’opzione esercitata, o dopo trattazione completamente scritta (art. 314) ovvero – come si vedrà – dopo una fase di trattazione completamente orale (art. 315 c.p.c.) (7); 3) la decisione a seguito di trattazione scritta, diversamente dall’art.190 bis (che nulla dice al riguardo), viene subordinata alla “maturità della causa per la decisione”: sulla scorta di questo dato testuale una dottrina ha dubitato, in prima lettura, che il Pretore possa pronunciare sentenze non definitive su questioni preliminari o pregiudiziali (8). Si è fatto tuttavia osservare che tale facoltà è contemplata espressamente persino nel rito del lavoro, caratterizzato (almeno sulla carta) da celerità, oralità, concentrazione ed immediatezza, giusta la disposizione di cui all’art. 420, comma 5, c.p.c. (9). L’obiezione, a mio avviso, coglie nel segno; pertanto, in difetto di espresso divieto o, comunque, di valide indicazioni di segno contrario, ritengo che la medesima facoltà vada riconosciuta anche al pretore del rito ordinario novellato (10). 3. L’art. 315 c.p.c. recita a sua volta: “Il pretore, se non dispone a norma dell’art. 314, può ordinare l’immediata discussione orale della causa. Al termine della discussione pronuncia sentenza dando lettura del dispositivo e della concisa esposizione delle ragioni di fatto e di diritto della decisione. In questo caso la sentenza si intende pubblicata con la sottoscrizione da parte del giudice del verbale che la contiene ed è immediatamente depositata in cancelleria”. Come si è osservato da più parti (11), si tratta di una previsione profondamente innovativa, ancorché non ignota al sistema previgente che, come si è ricordato, già conosceva il modulo decisorio di cui all’art. 23, comma 8, della L. 689/1991. In effetti, nel giudizio di opposizione all’ingiunzione di pagamento di sanzioni amministrative il pretore ha facoltà “di redigere e leggere unitamente al dispositivo la motivazione della sentenza che è subito depositata in cancelleria”. Nondimeno, la novella mostra importanti segni evolutivi rispetto alla disciplina menzionata, nella quale la lettura immediata della motivazione costituisce una semplice facoltà e la pubblicazione della sentenza, contrariamente a quanto previsto dall’art. 315 cit., segue sempre le regole ordinarie. Ebbene, non sfuggirà ad un vigile interprete come attraverso l’art. 315 si assista, finalmente, al primo timido ingresso nel rito ordinario dei principi chiovendiani dell’immediatezza, dell’oralità e della concentrazione, ancorché confinati al solo giudizio pretorile. A questo riguardo la Risoluzione del Consiglio Superiore della Magistratura (v. nota 2) – poi recepita nella Relazione governativa e in quella Acone-Lipari della 2ª Commissione permanente del Senato (punto 8.1.) – ha giustamente rimarcato l’intrinseco valore “culturale” della norma, posto che se il processo si svolge in applicazione dei cennati principi, “...non è impensabile che il giudice sia in grado non solo di pronunciare il dispositivo, ma anche di corredarlo di una motivazione, succinta come vuole la legge”. 3.1. Gli artt. 314 e 315 non indicano i criteri-guida in base ai quali optare per l’uno o l’altro modulo decisorio. La scelta viene dunque rimessa all’esclusiva discrezionalità del giudicante che valuterà, caso per caso, quando sia necessario ottenere dalle parti ulteriori ragguagli critici a mezzo degli scritti difensivi contemplati dall’art. 314 e quando, invece, per la natura delle questioni prospettate, la causa possa essere immediatamente decisa. In altre parole, l’opzione tra la decisione a seguito di trattazione scritta ovvero orale dovrà basarsi sulla maggiore idoneità dell’uno o dell’altro modulo a fornire una risposta processuale ad un tempo giuridicamente adeguata e sollecita, avuto riguardo al più o meno elevato tasso di giuridicità della decisione (12). Per esemplificare, è ragionevole affermare che il naturale esito: A) delle controversie contumaciali; B) di quelle definibili su questioni preliminari (o pregiudiziali) a carattere elementare; C) di quelle di modesto valore economico, sarà presumibilmente quello della decisione immediata ex art. 315. 3.2. L’amplissima discrezionalità riconosciuta al pretore nella scelta del modello decisorio risulta ancora più evidente se comparata con la ben diversa disciplina prevista per il giudice istruttore in funzione di giudice unico (art. 190 bis, comma due, c.p.c.). In quest’ultimo caso, come si è più volte ripetuto, la possibilità di accedere alla discussione orale non dipende affatto dalla conforme volontà del giudice istruttore, essendo rimessa all’esclusiva volontà del difensore che ne faccia richiesta. Ora, si è detto della tendenziale anelasticità dei moduli decisori pretorili, sia per la loro rigida alternatività (che non si presta a soluzioni mediate), che per l’assoluta discrezionalità della scelta rimessa al giudicante. Ebbene, questo contesto – di per sé critico – mostra, a mio avviso, ulteriori segni di fibrillazione sotto il peso di altro delicatissimo problema, prontamente segnalato dalla dottrina: l’art. 315 c.p.c. non prevede, difatti, che le parti siano preavvertite dell’intenzione del giudicante di avvalersi dell’iter orale. Ciò pone intuibili problemi di compressione dei diritti della difesa (13), esposta – in difetto di una quanto mai urgente interpretazione adeguatrice – al rischio della repentinità della decisione, non bilanciata da una adeguata preparazione della discussione orale. A ciò si aggiunga l’inconveniente (non secondario nell’economia del processo) dell’impossibilità per i difensori di predisporre la notula delle spese (ancorché essa costituisca un adempimento obbligatorio ex art. 75 disp. att. c.p.c.), con l’inevitabile esito di incidere negativamente sulla possibilità di effettivo ristoro della parte vittoriosa. Va quindi condivisa la prevalente opinione secondo cui il pretore dovrà far precedere la discussione da congruo preavviso, anche facendo leva sul meccanismo di differimento dell’udienza contemplato dall’ancora vigente art. 62 disp. att. c.p.c. (14). Nondimeno, è del tutto inutile nascondersi che, de iure condito, la soluzione indicata, lungi dall’essere vincolante, è rimessa ancora una volta alla mera discrezionalità – o, per meglio dire, alla sensibilità – del giudicante; pertanto, laddove essa – per la sua natura marcatamente “onoraria” – non dovesse trovare piede sarà inevitabile – a mio sommesso avviso – investire della questione il Giudice delle leggi, per sospetta violazione dei parametri di cui agli artt. 3 e 24, comma 2, Cost. 3.3. Le modalità di pubblicazione della sentenza. Si è aperto un acceso dibattito intorno alle modalità di pubblicazione della sentenza resa a seguito di trattazione orale. Il tenore letterale della norma (art. 315: “omissis... In questo caso la sentenza si intende pubblicata con la sottoscrizione da parte del giudice del verbale che la contiene ed è immediatamente depositata in cancelleria”) non dovrebbe lasciare spazio a dubbi: il pretore deve procedere alla stesura della sentenza (dispositivo e motivazione) nello stesso verbale d’udienza (15). Il provvedimento nel disegno del legislatore della riforma – segue, così, senza soluzione di continuità, le conclusioni delle parti (pure precisate a verbale) (16), che per questa ragione non andranno ovviamente ripetute nell’epigrafe della sentenza. Pertanto, una volta che il giudice abbia redatto e firmato il provvedimento, si completa ed esaurisce il procedimento di pubblicazione. Parte della dottrina (17) ha tuttavia sollevato importanti rilievi che osterebbero al menzionato iter di pubblicazione in forma semplificata. Si è cosi ricordato: A) che l’art. 35 disp. att. c.p.c. impone al cancelliere di riunire annualmente in volumi separati gli originali delle sentenze, dei decreti ingiuntivi e dei verbali di conciliazione, mentre diversa sorte tocca al fascicolo dell’ufficio (a cui è unito il verbale d’udienza) per il quale è prevista una distinta forma di archiviazione; B) che gli artt. 347, comma 3, c.p.c., e 123 bis disp. att. c.p.c. fanno obbligo alla cancelleria del giudice a quo di trasmettere al giudice dell’impugnazione il fascicolo dell’ufficio, sicché – ove fossero pedissequamente eseguite le disposizioni dell’art. 315 – verrebbe inevitabilmente trasmesso, unitamente al primo, anche l’originale della sentenza, in contrasto con il citato art. 35 disp. att. c.p.c.. Per ovviare a tali inconvenienti si è quindi proposto di redigere la sentenza su foglio separato dal verbale di causa (ancorché costituente parte integrante di esso), e di autorizzare contestualmente la cancelleria a prelevare l’originale così formato per destinarlo alla raccolta di cui all’art. 35 disp. att. c.p.c., cit., previa estrazione di copia autentica da inserire nel fascicolo d’ufficio. L’indicazione mira a superare lo scoperto imbarazzo delle Cancellerie ad inserire nella raccolta degli originali delle sentenze anche parte del verbale di causa, come avverrebbe giusta la lettera della norma in eseme. Ritengo, peraltro, che debba essere privilegiata la volontà del legislatore non solo per banale ossequio alla forma ma pure per ragioni sostanziali. Quanto alla prima, è innegabile la chiarezza del dato letterale della norma. Pertanto, se da un lato si impone lo sforzo di armonizzare le antinomie di questo quadro normativo, dall’altro va evitata con fermezza la vanificazione del contenuto della norma più recente, anche alla luce dei principi in materia di successione delle leggi nel tempo, evincibili dagli artt, 11 e 14 disp. prel. cod. civ.. Quanto alle seconde, è agevole osservare che con lo strumento della sentenza resa nel verbale d’udienza si è voluta abbandonare quella che taluno, con splendida sintesi, ha definito la concezione “tolemaica’’ della motivazione (concezione che, di regola, si risolve – secondo l’id quod plerumque accidit – nella razionalizzazione “ex post” del decisum, il più delle volte attraverso un uso barocco di argomenti logico-giuridici che, a ben vedere, non hanno giocato un vero ruolo nel momento intuizionistico della decisione) (18). L’immediata dettatura a verbale della motivazione costituisce, perciò, una formidabile spinta verso la formazione di una più moderna (e più snella) concezione della fase decisoria. Essa, inoltre, attenua fortemente il rischio – paventato da ampi settori della dottrina (19) – della c.d. “predecisione”: difatti, seguendo questa via, sarà assai difficile che il pretore giunga all’udienza di discussione con la sentenza già pronta, da “allegare” comodamente a verbale. Evitato questo rischio, ragioni di tempo materiale imporranno al giudicante di “deformalizzare” il contenuto del provvedimento che, potrà così alleggerirsi, oltre che dello svolgimento del processo (come si ricava dal raffronto tra l’art. 315 e l’art. 132, n. 4, c.p.c.), anche delle conclusioni (alle quali segue la sentenza senza soluzione di continuità) e dell’indicazione dei nomi delle parti e dei procuratori (già indicati nell’epigrafe del verbale dell’udienza di prima comparizione di cui all’art. 180 c.p.c.). Peraltro, a mio avviso, i benefici della pubblicazione nella forma predetta si vedranno anche in termini di “contenuto della motivazione” (20), giacché essa agevolerà il sobrio richiamo critico delle prove orali raccolte nei verbali precedenti (dei quali quello che contiene la sentenza altro non è che il prosieguo), mediante la tecnica del semplice rinvio. In questa prima fase applicativa è dunque doveroso insistere per la piena affermazione della pubblicazione in forma semplificata i cui vantaggi, come si vede, sono molteplici. Non ci si vuole tuttavia sottrarre al tentativo di armonizzare la tesi propugnata con il quadro normativo previgente: ritengo, a questo riguardo, che nulla osti a che il giudice autorizzi il cancelliere: A) ad inserire il verbale contenente l’originale della sentenza nella raccolta di cui all’art. 35 disp. att. c.p.c.; B) ad estrarne copia conforme da inserire nel fascicolo d’ufficio. In tal modo – a mio avviso – sarebbero assicurate tanto l’esigenza di conservazione separata del titolo giudiziario presso l’ufficio del giudice che l’ha emesso, quanto quella della integrità e completezza del verbale di causa, come pure gli inconvenienti di cui agli artt. 347, comma 3, c.p.c., e 123 bis disp. att. c.p.c. (v. sub n. 14). Si osserva, poi, che quanto proposto (ciò è a dire il diretto inserimento nella raccolta predetta del verbale d’udienza contenente l’originale del titolo giudiziale) è già – a ben vedere – pratica concreta di molti uffici giudiziari (ad es., della Pretura di Verona), per i casi delle ordinanze esecutive ex artt. 186 bis e ter c.p.c.. Partendo, difatti, dalla assimilazione fiscale di questi provvedimenti a quello monitorio (pure inserito nella raccolta di cui all’art. 35 più volte citato), se ne è tratta, per analogia, la necessità di inserirli (ovviamente in originale) in quella stessa raccolta; di fronte poi al problema di come eseguire detto inserimento, si è ritenuto, a mio avviso esattamente, di seguire ancora una volta le forme previste per il decreto ingiuntivo, ciò è a dire inserendo non solo l’originale del provvedimento ma pure dell’istanza (che nel caso degli artt. 186 bis e ter, diversamente da quello di cui all’art. 633 c.p.c., viene svolta direttamente a verbale). 3.4. Qualora il pretore opti per la discussione orale, sembra ovvio che la pronuncia della sentenza dovrà seguire la via dell’art. 315. Il giudice dovrà dare, perciò, immediata lettura non solo del dispositivo ma pure della motivazione. L’omissione di tali incombenti, facendo venire meno il “tipo” stesso di provvedimento per come voluto dal legislatore, esporrà – temo – alla sanzione della nullità insanabile della sentenza, sulla scorta della giurisprudenza formatasi nel processo del lavoro per il caso dell’omessa lettura del dispositivo (21). Il pretore, peraltro, ove all’esito della discussione orale dovesse ritenere che la complessità delle questioni evidenziate dai difensori meritino una meditata ed approfondita disamina preclusa dalla naturale semplicità della sentenza immediata, potrà – a mio avviso legittimamente revocare l’ordinanza ex art. 315 c.p.c. e disporre ai sensi dell’art. 314 c.p.c. (22). (1) TARZIA, Lineamenti del nuovo processo di cognizione, Milano, 1991, 189, che individua in questo disegno un indice della tendenziale direzione verso il giudice unico (professionale) di primo grado. (2) Si veda, al riguardo, la significativa Risoluzione del C.S.M. sul d.d.l. n. 2214/S/IX, approvata il 18 maggio 1988, est. Borrè. (3) Sul punto si leggano gli interessanti spunti comparatistici di GLENDI, in Corr. Giur., n. 1/1991, 55 e ss. (4) Su di essa si appuntano giustamente le critiche del TARZIA, in Riv. Dir. Proc. Civ., 1989, 130. (5) In arg. cfr. CONSOLO-LUISO-SASSANI, La riforma del processo civile, Milano, sub art. 341, p. 224 e ss. (6) CIPRIANI, Il problema dell’arretrato, in Foro it., 1995, V, 276 e ss.; v. anche, sull’argomento, le ordinanze di non manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale dell’art. 2 del D.L. 238/1995, pronunciate rispettivamente dai Pretori di Verona e di Salerno, nella parte in cui eleva la competenza per valore del Pretore a L. 50.000.000 (in Foro it., 1995, I, 3016 e ss.). (7) Critico sul punto è il TARZIA, in Riv. dir. proc. civ., 1989, 130; v., peraltro, in senso opposto, C. BESSO, La riforma del processo civile, a cura di S. Chiarloni, Bologna, 370 e ss., che pur riconoscendo le limitazioni che possono derivarne all’effettività del contraddittorio, condivide la scelta del legislatore, tenuto conto sia del potere riconosciuto al pretore ex art. 315 c.p.c., che dei limiti comunque posti alle repliche dall’art. 117 disp. att. c.p.c. anche nel caso della discussione orale. (8) Così ATTARDI, Le nuove disposizioni sul processo civile, Padova, 1991, 129 e ss., che peraltro, in seguito, ha mutato opinione. (9) La giurisprudenza interpreta estensivamente questa norma, ammettendo anche l’emanazione di sentenze non definitive relativamente a questioni preliminari di merito: cfr. Cass. 10-10-1991 n. 10628. (10) Così TARZIA, Lineamenti, op. cit., 199; PROTO-PISANI, La nuova disciplina, op. cit., 187; C. BESSO, in Le riforme del processo civile, a cura di Chiarloni, p. 371. (11) CARPI, in Riv. Trim. Dir. Proc. Civ., 1989, 482, 484; CAPPONI, in Foro It., 1989, V, 130; dello stesso autore, v. anche in Corr. Giur., 1990, 503 e in Doc. Giustizia, 1990, 4, 47 e 48; COSTANTINO, Appunti sulle proposte di riforma urgente del processo civile, in Doc. Giustizia, 1988, n. 10, p. 42 e ss. (12) Così CONSOLO, op. cit., 227; v. anche TARZIA, in Riv. dir. proc., 1989, 130; CARPI, ibid., 483; GLENDI, Corr. giur., 1991, 59; CAPPONI, Le proposte di riforma urgente del processo civile, in Foro it., 1989, V, 130, secondo cui “anche se elettivamente destinato alle controversie di minore impegno (per il valore modesto o per la semplicità delle questioni dibatture), il modello decisorio proposto dall’art. 22 del d.d.l. n. 1288 va salutato come una novità positiva e, per il suo carattere immediato ed antinformalistico (anche rispetto al precedente costituito dall’art. 23 della L. 689/1981) sarebbe auspicabile che il pretore vi faccia sempre più frequente ricorso, assumendo così, sia pure per gradi, una diversa mentalità ed un diverso atteggiamento nei confronti della stesura delle motivazioni, che rappresenta attualmente il vero ‘collo di bottiglia’ che vanifica i possibili, positivi risultati anche di un’istruttoria compiuta con impegno e tempestività”. (13) In argomento, GLENDI, op. cit., 60, il quale peraltro, intravede “... una sorta di opportuno bilanciamento di preparazione e impegno, specie sul piano della immediatezza, fra giudice e parti o loro difensori” nel dovere del giudicante di procedere alla decisione e alla motivazione contestuale, “... senza poter più riservare quest’ultima ad una successiva stesura”. (14) CARPI, “È sempre tempo di riforme urgenti del processo civile”, in Riv. Trim. Dir. Proc. Civ., 1989, 483; LUISO in CONSOLO-LUISO-SASSANI, La riforma del processo civile, 227; ANDRIOLI, Sulla riforma del processo civile, in Riv. Dir. Civ., 1991, II, 218, rileva, con il solito acume, che la disposizione dell’art. 315 c.p.c., per come congegnata, presuppone “rapidità di ideazione e di esposizione che non è appannaggio comune dei mortali”. (15) In questo senso CAPPONI, La proposta di riforma urgente del processo civile, in Foro it., 1989, V, 130; COSTANTINO, Appunti sulla riforma urgente del processo civile, in Documenti Giustizia, 1988, n. 10, 44, che nel salutare positivamente questa previsione deformalizzante osserva “che, a ben vedere, essa non implica un’estensione del meccanismo previsto dall’art. 23, ult. c.p.v., della legge 24-11-1981 n. 689, perché non richiede al giudice la formazione di un autonomo documento, ma la semplice redazione e sottoscrizione del verbale d’udienza”; v. altresì, GLENDI, op. cit., 60-61, il quale giustamente osserva: “Posto che la pubblicazione della sentenza si ha con la sola sottoscrizione da parte del giudice del verbale di causa e che a tale momento deve farsi riferimento, ad esempio, per la decorrenza del c.d. termine lungo per impugnare, quale resta la funzione del deposito in cancelleria che la norma riferisce alla sentenza e non al verbale che la contiene e che la stessa norma impone come immediato, ma non contestuale? E che cosa dovrà essere precisamente prodotto in appello? La copia autentica di tutto il verbale? O un estratto contenente la sola sentenza? O potrà addirittura farsi a meno di tale produzione bastando l’acquisizione agli atti del fascicolo d’ufficio del primo grado nel quale si contiene quale parte integrante la sentenza stessa?” – per poi concludere – a mio avviso condivisibilmente – che “potrebbe essere quest’ultima la soluzione migliore, con non indifferenti conseguenze anche sotto molti profili e con ben prevedibili complicazioni, peraltro, ove si ammetta, ad esempio, l’eventualità di sentenze non definitive nell’ambito dello stesso processo pretorile”. (16) Ancorché l’art. 315 c.p.c. taccia sul punto, la dottrina ritiene che il pretore, anche in quel caso, debba previamente invitare le parti a precisare le conclusioni ai sensi del tuttora vigente art. 62 disp. att. c.p.c.: in termini, C. BESSO, op. cit., p. 375. (17) LUISO, in CONSOLO-LUISO-SASSANI, op. cit., 228 e ss. (18) Nella citata Risoluzione del C.S.M. del 18 maggio 1988 (sub nota 2) si è acutamente indicata “la concezione di ciò che la sentenza deve essere: non un documento avulso dal processo, vivente di vita propria, e nel quale, quindi, tutto deve essere raccontato e analizzato anche indipendentemente dalle reali necessità argomentative sulle quali il giudice ha finito per puntare: e soprattutto non una difesa (sorretta da tutti i motivi possibili, come deve fare l’avvocato che non sa quale tra essi sarà più gradito o meglio compreso) della decisione presa, ma un ‘rendiconto’ di ciò che si è pensato per giungere a tale decisione”, sicché sarà sufficiente allo scopo “uno stile sobrio e discorsivo, articolato in proposizioni semplici perché essenziali e convinte”, che può dunque concretarsi nell’immediata “dettatura a verbale”. (19) Prospettano tale pericolo CARPI, op. cit., 483, e ATTARDI, in Giur. It., 1989, IV, 294. (20) La dottrina unanime è peraltro dell’avviso che la motivazione di cui all’art. 315 c.p.c. non si differenzi da quella prevista in via generale per tutte le sentenze dall’art. 132 n. 4 (che richiede “la concisa esposizione dello svolgimento del processo e dei motivi in fatto e in diritto della decisione”). (21) Cfr. Cass. 11-4-1990 n. 3062; Cass. S.U. 16-1-1987 n. 299, in Foro it., 1987, I, 1065; v. altresì, quanto all’omessa lettura del dispositivo nel procedimento di opposizione all’ordinanzaingiunzione, Cass. S.U. 10-2-1992 n. 1457. (22) Così GLENDI, in Corr. Giur., 1991, 60, il quale, nel considerare il caso in esame, osserva: “Non si può tuttavia escludere che, pur avendo il pretore ritenuta la causa matura per la decisione, anche a seguito della discussione orale, emerga la necessità di un completamento istruttorio, nel qual caso, naturalmente, non sapremmo come negare la legittimità di una ordinanza che disponga in tal senso”; analogamente BESSO, op. cit., 376. ASPETTI CONTROVERSI IN MATERIA DI ORDINANZA SUCCESSIVA ALLA CHIUSURA DELL’ISTRUZIONE (art. 186 quater c.p.c.) Relatore: prof. Sergio CHIARLONI (*) ordinario di procedura civile nell’Università di Torino SOMMARIO: 1. Premessa – 2. L’anima doppia e contraddittoria della legge 20 dicembre 1995, n. 994. – 3. L’inopportunità della via di fuga tracciata con l’ordinanza ex art. 186 quater c.p.c. – 4. Un’alternativa migliore: la sentenza con motivazione a richiesta. – 5. La struttura, da ordinanza istruttoria, del provvedimento ex art. 186 quater c.p.c. – 6. Gli ostacoli nei confronti dell’obbiettivo di tagliare i tempi del processo tramite l’ordinanza. – 7. Alcuni problemi esegetici. – 7.1. L’oggetto del provvedimento. – 7.1.1. La non sezionabilità della domanda originaria per il tramite di un’istanza “parziale”. – 7.1.2. Il provvedimento nei suoi rapporti con le forme di tutela che non ne costituiscono il possibile oggetto. – 7.1.3. Il provvedimento di rigetto nel merito. – 7.1.4. Il provvedimento di accoglimento parziale. – 7.1.5. Il provvedimento di non liquet. – 7.1.5.1. È possibile un non liquet “discrezionale”? – 7.1.5.2. È possibile un non liquet “obbligatorio”? (l’istanza e le eccezioni processuali). – 7.2. Qualche nota sulla revocabilità dell’ordinanza. – 7.3. I tempi dell’istanza e del provvedimento. – 7.3.1. Il dies a quo dell’istanza non coincide con il dies a quo del provvedimento. – 7.3.2. Il dies a quo e ... – 7.3.3. Il dies ad quem per l’emanazione del provvedimento - differenze tra il nuovo e il vecchio rito. – 7.4. Il provvedimento e il contraddittorio: basta la fissazione di una udienza di trattazione orale. – 7.5. Quasi una conclusione: alcuni problemi relativi all’acquisto dell’efficacia di sentenza. – 7.5.1. Da quando decorrono i termini per l’appello in caso di estinzione del processo? – 7.5.2. La motivazione “succinta” e i “motivi specifici dell’impugnazione” ex art. 342 c.p.c. 1. Nella cultura giuridica italiana circola uno stereotipo che il processualista civile è costretto oggi a contestare, di fronte alle vicende della c.d. “riforma della riforma” e al loro esito, sperabilmente provvisorio (1). Fin dai tempi della sua infanzia accademica, all’aspirante studioso viene insegnata la non scientificità di un qualsiasi sindacato nei confronti delle norme vigenti. Una volta che un disegno legislativo sia compiuto, il giurista positivo ha il compito di analizzare i dati a sua disposizione, di risolvere problemi interpretativi, di ricostruire e concettualizzare il sistema. Ma non gli è consentito di sottoporre al vaglio dello spirito critico il c.d. jus quo utimur, a pena di abbandonare il rifugio sicuro della scienza per avventurarsi nel terreno infido della politica. Lascio da parte l’errore metodico e il pregiudizio ideologico che si annidano in questo modo di vedere le cose. Lascio anche da parte il rilievo che, almeno per il processualista, simili parole d’ordine si adattano forse alla stanchezza degli epigoni, ma certamente non al lavoro dei padri fondatori. Mi limito a sottolineare che, se un nocciolo di ragionevolezza può venir riconosciuto all’actio finium regundorum appena ricordata, occorre quanto meno che il prodotto legislativo sia frutto di una situazione di normalità istituzionale. Quando si tratti di por mano a discipline estremamente delicate, come sicuramente sono le discipline afferenti al processo civile, i cittadini si aspettano di assistere ad una serie di eventi politico-culturali, tramandati da una tradizione di buona fattura dei testi legislativi. Purtroppo, la tradizione è stata tradita. È mancato un dibattito articolato e consapevole sulle diverse alternative disponibili rispetto ai fini perseguiti. In sua vece, anche a causa di una diffusa disinformazione tra gli avvocati sui reali contenuti della Novella del 1990, qualche volta alimentata da interpretazioni distorte dei contenuti più innovativi ad opera di enti esponenziali del ceto (2), è stata organizzata un’attività lobbistica di contrasto, destinata ad un notevole successo. Non appare al riguardo affatto esagerato il rilievo che si è finito con il pagare il prezzo di una “prevaricazione su un Parlamento riluttante, ma timoroso della preoccupante intransigenza di una corporazione incurante del cattivo esempio offerto di totale sfiducia verso lo Stato quale garante dell’interesse generale” (3). È mancata un’ampia e ufficiale consultazione, con richiesta di pareri alle Università, alle Associazioni e agli Ordini professionali, anche nelle articolazioni periferiche, che sarebbe stato agevole organizzare negli oltre cinque anni di durata del tormentatissimo iter della “riforma della riforma”. In sua vece, sono semplicemente cambiati i consiglieri del principe di turno: come è stato argutamente osservato, il codice di procedura civile è venuto somigliando “ad una sorta di cantiere, nel quale chiunque riesca ad avere un aggancio con il direttore dei lavori può mettere mano” (4). È soprattutto mancato un normale e ordinato andamento degli itinera legislativi, con un apporto meditato dei diversi organi competenti, prima della discussione in aula. In sua vece, l’interprete attonito ha dovuto assistere alla danza senza fine di una decina di decreti legge emanati in continuata inosservanza dei presupposti tracciati dalla Costituzione, che vuole confinata l’emanabilità di questi provvedimenti ai casi di straordinaria necessità e urgenza. Cum ira et studio, sul filo dei rinvii a catena dell’entrata in vigore, i contenuti originari della Novella sono stati depotenziati e in qualche caso stravolti, senza che ad essi si sostituisse una concezione alternativa capace di rivendicare una sua autonoma dignità. Il processo civile è una tra le tante vittime delle difficoltà della politica durante la c.d. transizione tra la prima e la seconda Repubblica. E’ difficile pensare che la partita sia chiusa con la recente conversione in legge dell’ultimo decreto ad opera di un Parlamento oltremodo distratto. 2. La legge 20 dicembre 1995, n. 994 ha una doppia anima che la fa entrare in contraddizione con se stessa. Da un lato, essa incide sulla originaria disciplina delle preclusioni spostandole in avanti ben dentro la fase introduttiva, oltre a risuscitare la necessità della reiterata diserzione dell’udienza ai fini della cancellazione della causa dal ruolo. D’altro lato, immette un istituto affatto nuovo, l’ordinanza successiva alla chiusura dell’istruzione, secondo quanto recita la rubrica dell’art. 186 quater nel quale viene collocato. Con questo provvedimento, emanabile su istanza dell’interessato, il giudice può disporre il pagamento di somme di denaro ovvero la consegna o il rilascio di beni, nei limiti per cui ritiene già raggiunta la prova, disponendo altresì sulle spese. L’ordinanza è revocabile con la sentenza che decide la causa. Ma la sentenza non verrà emanata se la parte intimata dichiari di rinunciarvi, nonché se il processo si estingue. In tali casi essa verrà sostituita a tutti gli effetti dall’ordinanza. La contraddizione tra i due appena ricordati aspetti principali della legge che ha riformato la riforma non si percepisce subito. Occorre un approfondimento. Bisogna riflettere prima di tutto sul significato da ascrivere alla modifica della disciplina delle preclusioni. Non è particolarmente preoccupante il loro slittamento in avanti, visto in sé e per sé. Di fronte alle siderali durate del processo, l’incidenza di un rinvio che può essere opportunamente breve è di sicuro scarsa. Preoccupa, invece, e molto, il segnale che viene così lanciato, in grave contrasto con la filosofia ispiratrice della Novella, eminentemente indirizzata verso l’abolizione dei tempi morti della trattazione (5). Il nuovo testo dell’art. 180 suggerisce, molto semplicemente, che si può continuare nella prassi dell’inconcludenza, dove gli operatori si illudono di lavorare, ma sovente sono costretti ad affannarsi in attività futili, facendo rotolare da un’udienza all’altra la massa dei processi pendenti, nel giuoco di specchi dei successivi rinvii e delle code davanti alla stanza del giudice per ottenerli. Il novantacinque per cento almeno delle prime udienze di comparizione avranno il solo scopo di fissare il rinvio per trattazione, poiché è già ottimistico pensare che nel cinque per cento di esse si abbiano verifiche negative della regolarità del contraddittorio o la necessità di emanare altri tipi di provvedimenti che occupino il tempo dell’udienza (6). Anche l’obbligatorio rinvio della causa ai sensi del ripristinato testo dell’art. 181, per venir incontro alle esigenze dell’avvocato distratto o ritardatario, cospira nell’accreditare l’idea di una totale rinuncia all’obbiettivo della concentrazione processuale. Come si colloca il provvedimento immediato di condanna all’interno di un processo che continuerà ad essere strutturato nella pratica secondo i moduli antichi, grazie ai ripensamenti dell’ultima ora ed ai significati simbolici pesantemente restaurativi che vi sono implicati? Male, purtroppo. Vedremo tra breve analiticamente il perché. Ma fin d’ora possiamo enunciare la tesi: l’abbattimento dei tempi necessari alla decisione per il tramite di un provvedimento immediato di condanna (che non sia da emanare al costo di ulteriori dilatazioni delle durate nei casi per i quali non è previsto) esige una conoscenza dei fatti del processo al momento del passaggio alla fase decisoria che il giudice può possedere solo all’interno di una cornice normativa ispirata ai canoni dell’immediatezza e della concentrazione. 3. Facciamo un passo indietro. Domandiamoci se sia stata opportuna la scelta di inserire, all’interno del processo ordinario a cognizione piena, un provvedimento di merito, che è stato acutamente oltre che ironicamente definito “a decisione sommaria”, per denotare il fatto che “è preso senza contraddittorio, con un provvedimento che non esonera il giudice dall’emettere la sentenza” (7). Si profila qui un problema di ordine generale piuttosto importante. A quanto pare nessuno dubita più, neppure nel nostro Paese, della necessità di affrontare con spirito pragmatico la crisi della giustizia civile, introducendo dove possibile strutture di “fast lane procedure” (8) che consentano di arrivare in tempi ragionevoli alla decisione. Ma l’innesto di queste strutture può avvenire secondo modalità diverse. Si può trascinare sul tavolo operatorio il processo ordinario, per sottoporlo a manipolazioni ortopediche piuttosto dolorose e di prognosi incerta. Oppure si può ampliare l’ambito della cognizione sommaria, introducendo un nuovo procedimento, basato su un rapido giudizio di probabilità circa la fondatezza della domanda, che consenta, grazie al provvedimento esecutivo ma inidoneo al giudicato che lo conclude, di incidere velocemente sui rapporti tra le parti, e consenta altresì al soccombente che lo desideri di riaprire la lite davanti al giudice della cognizione piena. L’alternativa è stata presentata in modo fazioso per far capire immediatamente al lettore la netta preferenza per la seconda. Già da molto tempo e in numerose occasioni (9) avevo lamentato che la ristrutturazione del procedimento cautelare non avvenisse approfittando delle peculiarità dei provvedimenti di urgenza rispetto ai provvedimenti cautelari in senso proprio per separarli da questi ultimi, trasformandoli, sul modello francese del référé, in provvedimenti in grado di sopravvivere indipendentemente dal radicamento (o dalla prosecuzione) del giudizio di merito, così da ribaltare sul soccombente l’onere di domandare un provvedimento a cognizione piena che si sostituisse al provvedimento di anticipazione sommaria. Questo punto di vista è caduto nel più totale disinteresse. Solo recentemente si è sottratto al destino della vox clamantis in deserto, avendo trovato l’adesione di uno studioso acuto come Giorgio COSTANTINO (10). Guarda caso, ciò avviene proprio nel contesto di un’analisi fortemente critica, anzi come vedremo per certi aspetti troppo critica, dell’art. 186 quater c.p.c.. La commistione dei modelli non offende soltanto il senso del dogmatico vecchia maniera, ma è anche fonte di applicativi che non è esagerato definire difficilissimi, oltre che di inconvenienti di cui non si sentiva proprio il bisogno: la nuova norma è entrata nella trama delicata e complessa del processo ordinario con la grazia proverbiale dell’elefante nella cristalleria. Per mettere ordine e incollare i cocci si capisce fin d’ora che sarà necessario molto lavoro. 4. Vi è di più. L’art. 186 quater è fonte di un pauroso guazzabuglio di complicazioni perché racchiude una timida e per certi aspetti ipocrita soluzione di compromesso. Queste complicazioni sarebbero state facili da evitare, se il legislatore avesse avuto un po’ più di coraggio, e di fantasia. In vista dell’abbreviazione delle durate processuali tramite la semplificazione della fase decisoria, un risultato identico a quello perseguito con l’ordinanza ad istruzione esaurita si sarebbe potuto molto più semplicemente ottenere introducendo la motivazione a richiesta delle sentenze di merito di primo grado, magari collegandola all’esercizio del potere di impugnazione (11). È facile immaginare il florilegio delle obbiezioni. Bisognerà tenerne accuratamente conto, anche perché una di esse incide direttamente sulla ricostruzione dello stesso provvedimento ex art. 186 quater. Cominciamo dall’obiezione più scontata. L’emanazione di una sentenza limitata al solo dispositivo è vietata dall’art. 111 comma 1° Cost., ai cui sensi “tutti i provvedimenti giurisdizionali devono essere motivati’’ (12). Riflettiamo però sul fatto che nell’ipotesi prospettata non si è in presenza di un provvedimento non motivato, bensì di un provvedimento a motivazione successiva. Anche eventuale, certo, ma secondo l’arbitrio dell’interessato. Chiediamoci allora quale sia la funzione della garanzia costituzionale nel caso particolare delle sentenze civili di primo grado. Con tutta franchezza, non credo che, per queste sentenze, la motivazione delle decisioni rappresenti una garanzia irrinunciabile, in quanto consentirebbe al pubblico in generale il controllo ‘’democratico’’ dell’attività giurisdizionale Il pubblico in generale non è generalmente interessato ai contenuti dell’attività giurisdizionale civile di primo grado e i volumi che contengono le sentenze, tra l’altro consultabili solo su autorizzazione ministeriale, giacciono negli archivi esposti soltanto alla critica roditrice dei topi e, rarissimamente, alle curiosità scientifico statistiche di qualche ricercatore dotato di pazienza e buona volontà. L’eventuale interesse del pubblico, che può nascere in specifici casi dove vengano all’esame questioni nuove, sarebbe senz’altro soddisfatto, per dir così in seconda battuta, dalla possibilità di conoscere le motivazioni delle sentenze grazie ai gravami proposti dalle parti. La garanzia costituzionale ha qui una funzione più ristretta in confronto a quella che la motivazione assolve, assieme alla pubblicità, nel processo penale o, nel processo civile, nei gradi superiori di giudizio e in particolare nel giudizio di cassazione. La conoscenza degli argomenti di fatto e di diritto che sorreggono una decisione serve qui essenzialmente alle parti, e in modo particolare al soccombente, interessato a soppesarli, nel momento in cui decide di portare la sua critica alla sentenza. Se così stanno le cose, la garanzia costituzionale appare perfettamente soddisfatta anche se la sua concreta operatività è lasciata alla scelta di coloro che essa è indirizzata a proteggere. Ma, ulteriormente si obietta, “se non si scrive la motivazione si rischia di non decidere bene la causa”; il dovere motivatorio va in ogni caso assolto, “a garanzia della ricerca di decisioni giuste” (13), insistendosi che “l’approfondimento del giudizio e la stesura accurata della sua motivazione non formano nella realtà entità tra loro scindibili e non si può preservare il primo se non si lascia un posto centrale anche alla seconda”. Si dovesse accedere a questo punto di vista, avremmo non solo un irresistibile argomento contro la costituzionalità della motivazione a richiesta, che dunque sarebbe sbagliato tentar di accreditare. Saremmo anche costretti a ricostruire il nuovo provvedimento ex art. 186 quater in modo che il risparmio di tempi processuali da esso assicurato diventerebbe irrisorio e incomprensibili le ragioni della sua previsione, oltretutto a rischio del prevedibilissimo e puntualmente avviato corteo di malumori e censure. Proprio a questo modo ricostruisce il nostro provvedimento Claudio CONSOLO, proclamando che l’ordinanza deve contenere “la compiuta motivazione dell’iter logico-giuridico seguito”, cosicché i tempi di lavoro richiesti per la redazione... “non saranno – e soprattutto non dovranno essere – in media molto più rapidi di quelli della corrispondente sentenza” (14), e aggiungendo che occorre soddisfare l’esigenza che prima della pronuncia dell’ordinanza siano scambiate memorie illustrative (nella sostanza comparse conclusionali, magari esse pure più concise)” (15). Per lo più sono d’accordo con le acute analisi di CONSOLO. Questa volta accade eccezionalmente il contrario. In verità, la motivazione non ha nulla a che fare con la bontà del giudizio. Ha a che fare con la sua razionalizzazione a posteriori, che è tutt’altra cosa, come ben sanno gli studiosi delle attività decisorie e come soprattutto risulta dalla disciplina positiva. Lasciamo da parte i giudizi monocratici, dove la consecuzione temporale tra dispositivo e motivazione non è percepibile (con la rilevante eccezione del processo del lavoro) e dove in un caso – giudizi ordinari davanti al pretore – vi può essere contestualità tra i due elementi se il giudice sceglie la modalità decisoria della lettura in udienza. Per il processo tipo, quello davanti al tribunale, l’art. 276 c.p.c. ci fa sapere che prima il collegio decide e poi l’estensore motiva, anche se – a differenza di quanto, comunque, accade nel processo penale e in sede civile nel processo del lavoro – il dispositivo non acquista esistenza giuridica fino a che non venga depositato, in una con la motivazione ed è dunque possibile (anche se nella realtà molto raro) che fino a quel momento la camera di consiglio venga riconvocata su richiesta del giudice estensore per una nuova deliberazione. 5. Abbiamo ora a disposizione qualche elemento per cominciare a scendere di quota e osservare più da vicino l’oggetto della nostra indagine. Possiamo intanto prendere posizione su una fondamentale questione di struttura. L’ordinanza ex art. 186 quater non ha i medesimi requisiti di motivazione della sentenza. Non servirebbe osservare in contrario che, siccome l’ordinanza è succintamente motivata (art. 134) e la sentenza contiene la concisa esposizione dei motivi in fatto e in diritto (art. 132, n. 4) e siccome non si sa vedere la differenza tra ciò che è conciso e ciò che è succinto, i requisiti di motivazione dei due provvedimenti devono essere identici. Dobbiamo rifiutarci di soggiacere alla tentazione di giuocare con le parole. La volontà del legislatore è chiarissima nel senso di disegnare una motivazione dell’ordinanza in tutto analoga alle motivazioni che la prassi conosce per le ordinanze istruttorie, dove è sufficiente che il giudice si limiti a spendere qualche parola circa l’esistenza dei presupposti per l’emanazione del provvedimento. Al riguardo vi è solo da rilevare che, nel nostro caso bisognerà tener conto della probabile maggiore complessità del giudizio: il giudice dovrà dire nel suo provvedimento quale soluzione viene data a tutte le questioni dotate di valenza decisoria che si sono presentate. Se davvero ordinanza e sentenza dovessero essere analogamente motivate, non si capisce perché, in linea di principio, il giudice dovrebbe poi emanare la sentenza, al mancato verificarsi dei due casi, estinzione e rinuncia, costruiti come eccezioni (alquanto ipocritamente, ma tant’è: hoc jure utimur). Forse per la differenza dei nomi? In buona sostanza, ha ragione chi ritiene che il giudice non è affatto tenuto, nel pronunciare il provvedimento di condanna ad istruzione esaurita a motivare compiutamente l’iter logico-giuridico che lo ha portato ad accogliere la relativa istanza (16). La situazione è tutto sommato analoga quella che si sarebbe avuta con la motivazione a richiesta. Solo, ci si è arrivati in modo più tortuoso, e con tante complicazioni in più. 6. Dobbiamo ora interrogarci più a fondo circa i reali vantaggi in termini di abbreviazione delle durate, che sono ricollegabili alla semplificazione della fase decisoria implicata dal nuovo provvedimento. O, il che è lo stesso dal nostro punto di vista ricostruttivo, dobbiamo domandarci quali sarebbero stati i vantaggi ove si fosse introdotta la motivazione a richiesta delle sentenze. Apparentemente, la risposta è facile ed è stata data. Con l’art. 186 quater sarebbe possibile “ottenere un titolo esecutivo immediatamente alla chiusura dell’istruttoria, di contenuti pressoché identici alla decisione di primo grado” (17). Analogamente, si è osservato che il provvedimento, nell’ottica di chi lo ha escogitato, serve a rimediare alle durate del processo, tenuto conto che “oramai da anni, e in quasi tutti gli uffici giudiziari del territorio nazionale, i tempi della decisione (ovvero i tempi che servono ai giudici per scrivere le sentenze - corsivo mio) sono più lunghi dei tempi necessari alla stessa istruzione e trattazione delle controversie” (18). Nello stesso ordine di idee e allo scopo di sostenere l’opportunità di introdurre la sentenza con motivazione riservata chi scrive aveva rilevato che il giudice italiano spende, sia pure nell’intimità della casa, gran parte del proprio tempo di lavoro nella stesura della motivazione delle sentenze, grazie ad un’abitudine culturale, per cui la motivazione non viene intesa, alla francese, come la secca enumerazione delle ragioni che giustificano l’emanazione di un atto dell’autorità, ma piuttosto, alla tedesca, come una tribuna per la manifestazione del pensiero di un libero giurista (19). Re melius perpensa, questi punti di vista debbono essere corretti, fortemente al ribasso. Con l’attuale struttura del processo, non è affatto pensabile che la sostanziale e magari anche formale abolizione del dovere della motivazione dimezzi le durate, anche se è vero che oltre la metà di queste durate è oggi occupata dalla fase decisoria. La necessità dell’autocritica rispetto a quanto mi è accaduto alquanto superficialmente di sostenere nasce dalla seguente riflessione. Il giudice istruttore non è affatto in grado (come invece lo è il pretore nel processo del lavoro) di emanare un dispositivo immediato al termine dell’istruzione della causa. Ammettiamo pure che il giudice istruttore non si sia limitato a seguire passivamente le attività delle parti, assistendo come un convitato di pietra all’assunzione delle prove verbalizzate dai difensori e fissando burocraticamente i successivi rinvii, come generalmente accade. In ogni caso, al termine dell’istruzione egli ha la necessità di studiarsi una causa di cui non sa nulla, perché ha ormai dimenticato tutto quello che ha appreso, come inevitabile effetto del semplice trascorrere del tempo e del sovrapporsi dei diversi incombenti relativi alle centinaia o più spesso migliaia di cause che giacciono sul suo ruolo. È questo un tributo inevitabile da pagare sull’altare di un processo scritto e non concentrato, anzi così diluito che, ad esempio, per sciogliere la questione di fatto, il giudice sarà costretto a studiarsi i verbali allo scopo di apprezzare le dichiarazioni di testimoni che lui stesso ha ascoltato mesi o magari anni prima e che sono ormai cancellate dalla sua memoria. La conseguenza è che il nuovo istituto porterà ad un abbreviamento delle durate, ma non così miracoloso come alcuni osservatori mostrano di credere. Il giudice dovrà comunque impadronirsi di una causa di cui non è affatto padrone, prima di poterla decidere. A meno che non si acconci a tirare i dadi, come il giudice Briglialoca di rabelaisiana memoria. Certo, malgrado che il tempo di studio per la scelta del dispositivo sia probabilmente più ampio, nel nostro processo scritto e diluito, del tempo da dedicare alla stesura dei motivi, può darsi benissimo che, soprattutto nei primi tempi di applicazione della legge vengano emanate molte ordinanze di condanna immediatamente a ridosso della chiusura dell’istruzione. Ma, se questo succedesse e se quanto appena osservato è esatto, ci sarebbe, paradossalmente, da essere preoccupati anziché soddisfatti. Di fronte all’istanza di parte per la condanna sommaria, i giudici si concentreranno a studiare i processi nei quali è stata proposta, allo scopo di soddisfarla prontamente. Saranno così costretti a ulteriormente dilazionare la decisione per i processi nei quali l’istanza non è stata proposta o non è proponibile. Naturalmente, il paradosso e la relativa preoccupazione nascono con riferimento a questi ultimi. I processi nei quali il legislatore non consente l’ordinanza di condanna sono infatti i più delicati e/o i più importanti. 7. Esamineremo ora alcuni problemi esegetici relativi all’ordinanza ex art. 186 quater. Non tutti, per le seguenti ragioni: perché il catalogo è ben lungi dall’essere completo e la fantasia casistica non basta, occorre una lunga elaborazione ad opera del diritto vivente; perché i problemi già venuti all’attenzione degli studiosi e della giurisprudenza sono così numerosi (ne ho contati una cinquantina) che sarebbe già necessario una libro intero per affrontarli esaurientemente. Due rilievi preliminari si impongono. In primo luogo, voglio ribadire che nessuno dei problemi, a volte molto complicati, che saranno affrontati nelle prossime pagine avrebbero impegnato l’esprit de finesse degli interpreti se il legislatore avesse scelto la strada piana e semplice della motivazione riservata per le sentenze civili di primo grado. Ma in secondo luogo voglio sottolineare l’inopportunità di un atteggiamento che è dato cogliere in alcuni dei primi interventi di commento. Intendo l’atteggiamento che, probabilmente a cagione di un’antipatia di principio, magari giustificata, nei confronti delle scelte operate dal legislatore, approfitta dei lati ambigui o delle lacune nella normativa per proporre interpretazioni che conducano a complicare inestricabilmente la situazione processuale, scartando quelle che conducono invece a ricostruirla in modo ragionevole, sia pure talora a prezzo di qualche forzatura. 7.1. Cominciamo dall’analisi del possibile oggetto del provvedimento. 7.1.1. Un primo problema al riguardo nasce in quanto da parte di alcuni si è sostenuto che, nell’emanare l’ordinanza, il giudice non è vincolato all’osservanza della necessaria coincidenza tra il chiesto e il pronunciato ex artt. 112 e 277 c.p.c. (20). Per fare un esempio banale, di fronte ad una domanda di cento, il giudice istruttore potrebbe emanare una condanna per i quaranta chiesti dalla parte, riservandosi di emanare successivamente la sentenza in ordine ai rimanenti sessanta. È facile immaginare le terribili complicazioni cui può dar luogo questa ricostruzione della disciplina, a cominciare dai possibili contrasti teorici di giudicati tra le due pronunce qualora la prima acquisti efficacia di sentenza e a finire con le difficoltà inerenti alla possibile contemporanea pendenza in gradi diversi di giudizio di una causa avente per oggetto originario la medesima domanda, qualora l’intimato rinunci alla sentenza e impugni l’ordinanza, mentre la causa prosegue in primo grado per la parte non ancora decisa. Queste complicazioni sono state difatti puntualmente denunciate da chi aderisce a questa ricostruzione della normativa (21). Ma una simile ricostruzione non è accettabile. Non si riesce assolutamente a capire cosa dovrà fare il giudice con la “parte di domanda” che non ha formato oggetto dell’istanza, se non mandarla immediatamente a decisione. Ora, è mai possibile che il legislatore abbia voluto concedere alla parte di frazionare la sua domanda, indirizzandone contemporaneamente i due tronconi a due diverse modalita di decisione? Ed è mai possibile concepire un qualsiasi interesse di parte per un comportamento così irrazionale? L’interpretazione che porta a questo risultato si basa, è vero, su due aspetti assai infelici dell’art. 186 quater c.p.c., là dove dice che il giudice istruttore può emanare l’ordinanza di condanna “nei limiti in cui ritiene già raggiunta la prova” (primo comma) e dove precisa, per le due ipotesi ivi previste, che l’efficacia della sentenza impugnabile è acquistata “sull’oggetto dell’istanza” (terzo e quarto comma). Tuttavia, la limitazione della efficacia della sentenza all’oggetto dell’istanza non significa affatto che l’istanza possa avere un oggetto più ristretto dell’oggetto della domanda introduttiva del giudizio. Molto semplicemente (e senza necessità di farlo, donde gli equivoci interpretativi) il legislatore ha voluto ricordare che l’eventuale autorità di cosa giudicata per mancata proposizione dell’impugnazione ordinaria copre solo i possibili oggetti di istanza circoscritti al primo comma (condanna al pagamento di una somma o alla consegna o rilascio di beni), mentre non può coprire le eventuali questioni pregiudiziali che il giudice abbia dovuto risolvere per emanare l’ordinanza. Quanto all’argomento che si vuol trarre dalla formula del primo comma, “nei limiti per cui ritiene già raggiunta la prova” cominciamo con il notare che essa è il frutto di un vero e proprio infortunio semantico, visto che il legislatore sta parlando di un provvedimento ad istruzione esaurita, che non ha natura interinale, e con riferimento al quale non può pertanto pensarsi ad ulteriori prove da assumere. In realtà si tratta di un’espressione superflua e riassertiva. Andrà letta come se recitasse: “nella misura in cui ritiene l’istruzione esaurita”, a ribadire che il giudice, se si accorge che è necessaria un’ulteriore istruttoria (su qualunque categoria di probanda, costitutivi, modificativi o estintivi) non può emanare il provvedimento. Al riguardo è stata offerta un’altra possibile interpretazione, forse più stiracchiata, ma almeno innocua sul piano ricostruttivo come quella appena offerta. Viene suggerito che il legislatore, “alludendo ai limiti della prova ‘già raggiunta’, abbia inteso (infelicemente) riferirsi al caso in cui l’istruzione sia stata esaurita... solo rispetto a talune delle più domande cumulate... e il giudice disponga la separazione delle cause, ordini la precisazione delle conclusioni solo rispetto a quelle già completamente istruite, e provveda per queste ultime a norma dell’art. 186 quater” (22). Certo è che, per quanti peccati si vogliano ascrivere al nuovo provvedimento, è esagerato pensare che con la sua introduzione il legislatore abbia voluto stravolgere un principio fondamentale del processo civile, come quello della corrispondenza tra il chiesto (con la domanda introduttiva) e il pronunciato (con qualsiasi provvedimento capace di definire il processo). Padronissimo l’istante di proporre un’istanza per una somma inferiore rispetto a quella domandata: vorrà dire che egli ha ridotto il petitum. 7.1.2. Capita spesso che una condanna al pagamento di una somma di denaro o alla consegna o al rilascio di beni sia condizionata dalla previa decisione di una causa pregiudiziale avente natura costitutiva o di mero accertamento. Il problema di come si collochi in questa ipotesi l’ordinanza ex art. 186 quater ha subito attirato l’attenzione della dottrina, anche perché coinvolge una problematica di intensa complicazione ed eleganza concettuale. Dal punto di vista dell’ordinanza, le cose sono peraltro abbastanza semplici. Essa è sicuramente emanabile se la sentenza di accoglimento sull’azione costitutiva o di accertamento è stata previamente emessa da un giudice che per qualsiasi ragione non si è ancora pronunciato sulla correlata azione di condanna (ad esempio, per la sussistenza di esigenze istruttorie da soddisfare). Altrettanto sicuramente non potrà, invece, venire emanata cumulando nell’ordinanza la decisione sull’azione costitutiva e quella sull’azione di condanna, per l’elementare motivo che un provvedimento che non può venire ad esistenza isolatamente non può neppure nascere in simbiosi con altro provvedimento consentito (23). Se poi, relativamente alla questione che può formare oggetto di una separata domanda di accertamento o costitutiva, è anche consentito un accertamento incidenter tantum ad opera del giudice, questo accertamento insuscettibile di giudicato potrà ovviamente essere contenuto all’interno dell’ordinanza di condanna ex art. 186 quater, né più e né meno di come può essere contenuto all’interno di una sentenza emanata da un giudice che sarebbe incompetente per materia a conoscerne in via principale (24). 7.1.3. Quid, se il giudice si convince che l’istanza sia infondata nel merito? certamente emanerà un’ordinanza di rigetto. Ma lo statuto di questo provvedimento è oscuro. Il legislatore non ne parla e qualcuno potrebbe essere indotto a pensare che ci troviamo di fronte ad una situazione analoga al caso di rigetto di un’istanza avanzata per ottenere un provvedimento interinale ai sensi degli artt. 186 bis e ter. Niente condanna alle spese e nessuna influenza sul futuro andamento del processo (25). A mio giudizio occorre peraltro impegnarsi in una ricostruzione diversa, che tenga conto del fatto che il provvedimento viene emanato, a differenza degli altri due, a seguito di una cognizione piena e completa. Colui che si è visto respingere l’istanza sa benissimo che, novantanove su cento, identico sarà il contenuto della sentenza. Forse è inopportuno che, in attesa di poter proporre l’impugnazione, egli sia costretto a schiumare di rabbia, sicuramente a lungo e magari per anni perché il giudice, che ormai ha deciso, sarà incline a privilegiare la definizione di altri processi sul suo ruolo. Non mi accontenterei della tesi secondo cui l’efficacia di sentenza del provvedimento di rigetto nel merito può essere acquistata solo nel caso di estinzione del processo (26), qualora si dovesse ritenere che essa possa conseguire, oltre che all’inattività delle parti, ad una rinuncia agli atti che sia accettata dalla controparte. L’istante si troverebbe comunque alla mercé del suo avversario, “interessato” a coltivare il giudizio di primo grado allo scopo di procrastinare quello di gravame. L’istante deve essere messo in grado di tagliare il nodo gordiano di un processo il cui esito in primo grado è ormai scontato. Possiamo arrivarci per due strade. La prima: forzare la lettera dell’art. 186 quater alla luce delle osservazioni sistematiche e di valore appena compiute, osservando che “intimato” ai sensi del comma è anche l’istante soccombente, condannato alle spese. Questa soluzione non è tuttavia a perfetta tenuta. Quando il giudice si sia avvalso del potere di compensare le spese ai sensi dell’art. 92, comma secondo c.p.c., l’istante non potrebbe in alcun modo acquistare la qualità di intimato. Scegliamo allora anche la seconda strada e diciamo che l’istante totalmente soccombente può comunque ottenere l’estinzione del processo rinunciando agli atti del giudizio, in quanto il suo avversario, che ha vinto la causa in primo grado, non ha alcun interesse meritevole di tutela alla prosecuzione, visto che l’efficacia di sentenza a suo favore, invece di aspettarla per chissà quanto, la ottiene subito, grazie alla rinuncia agli atti compiuta dall’attore. Inutile dire che ritenendo che sia percorribile anche questa strada, non siamo ugualmente riusciti a comprendere tutte le possibili ipotesi. Rimane fuori, ad esempio, il caso in cui, compensando le spese, il giudice abbia pronunciato, respingendola, sulla domanda riconvenzionale del convenuto non incompatibile con la domanda principale. 7.1.4. Quando l’istanza sia parzialmente accolta non esistono acrobazie interpretative capaci di condurre alla conclusione che anche l’istante possa rinunciare all’emanazione della sentenza. Giorgio COSTANTINO si è immediatamente reso conto dell’incongruenza di un provvedimento costruito in modo tale da lasciare in talune ipotesi solo all’intimato la scelta sovrana di trasformarlo in sentenza. Chieste mille e ottenute dieci, l’intimato sarà piacevolmente tentato dall’idea di inchiodare l’istante al tempo lungo per l’emanazione della sentenza, così da rinviare ad un futuro non tanto vicino il controllo del giudice superiore circa l’esistenza, magari evidente, di un grossolano errore di valutazione. È difficile sottrarsi al dubbio di una illegittimità costituzionale della normativa per violazione della parità di trattamento. Il ragionamento di LUISO (27), riferito ad un dubbio diverso, non tiene nel nostro caso. Viene osservato che la logica del meccanismo è simile a quella del giuramento decisorio, dove chi lo deferisce sa a quali rischi si espone e sa come evitarli non procedendo al deferimento. Questa somiglianza si profila in ordine all’alea per l’istante di vedersi sottrarre la pronuncia motivata, visto che per essere sicuri di ottenerla basta non proporre l’istanza. Non riesco a vederla in ordine all’impossibilità per l’istante di sottoporre ad immediato controllo un provvedimento ingiusto che lo pregiudica più gravemente dell’intimato, come nell’esempio fatto. Pare, invero, comunque irragionevole che solo a costui sia concesso di ottenere l’immediata efficacia di sentenza, mentre il primo è costretto ad attendere passivamente la sentenza successiva che sarà quasi sempre riproduttiva dell’ordinanza. 7.1.5. In presenza dei requisiti richiesti dalla legge (domanda rientrante nella tipologia prevista, esaurimento dell’istruzione) dovrà il giudice in ogni caso decidere sul merito dell’istanza? Oppure si profilano ipotesi nelle guali gli è consentito, o addirittura gli è imposto, di emanare un provvedimento di non liquet? 7.1.5.1. Sotto il primo profilo troviamo un precedente pubblicato del tribunale di Roma (28) che afferma in termini alquanto apodittici l’esistenza di un potere discrezionale ricavandolo dalla lettera della norma ove dice che “il giudice istruttore può disporre” e usa di questo asserito potere per negare l’emanazione dell’ordinanza, in quanto si rende opportuna “la verifica in sede collegiale delle prove acquisite”. La dottrina che si è occupata del problema sembra invece orientata in senso contrario, facendo leva sul classico argomento inteso a delegittimare il valore semantico ascrivibile all’indicativo “può”, interpretandolo come manifestazione di un potere-dovere del giudice (29). La soluzione del problema non è agevole, poiché abbiamo argomenti a favore di ambedue le opposte soluzioni. Per l’esistenza di un dovere del giudice di emanare il provvedimento una volta che ne abbia acclarato i presupposti milita la sua inserzione all’interno di un grappolo di norme che disciplinano altri provvedimenti di condanna (l’ordinanza di pagamento delle somme non contestate e l’ordinanza ingiunzionale) per i quali, malgrado l’uso ricorrente dell’espressione “il giudice può”, non vi è dubbio che il giudice deve emanarli se ritiene fondata la relativa istanza. Contro l’esistenza del suddetto dovere non sta soltanto l’argomento escogitato dal giudice istruttore di Roma, relativo alla particolare complessità della causa che può indurre il giudice istruttore a ricercare il conforto del collegio. Anzi, questo è un argomento debole, prima di tutto perché varrebbe soltanto nelle ipotesi di riserva di collegialità e non quando il giudice decide come giudice unico. Vi è piuttosto da valutare quanto già osservato ad altri fini e cioè che l’emanazione dell’ordinanza immediata di condanna, se dovuta in ogni caso, può avere un effetto di disturbo sulla regolarità dell’amministrazione della giustizia da parte del giudice invocato. Questi può trovarsi nella situazione di gestire il proprio ruolo in modo fortemente irrazionale, emanando a getto continuo le ordinanze ex art. 186 quater di cui sia richiesto e trovandosi così costretto a trascurare le cause più complesse e più delicate di cui è investito. Un risultato che il legislatore non può certamente aver voluto. 7.1.5.2. Appare comunque più interessante speculare circa la configurabilità di un non liquet necessario. Il problema si pone tutte le volte che si profili una questione pregiudiziale attinente al processo. Si potrebbe essere tentati di ragionare nel modo seguente. Se, ad esempio, il convenuto ha sollevato nei termini una questione di incompetenza per territorio su cui il giudice istruttore non ha rimesso immediatamente in decisione la causa e poi a istruzione esaurita viene proposta l’istanza ex art. 186 quater, il giudice non può decidere sull’istanza perché prima viene la decisione sulla questione di competenza, che deve essere data necessariamente con sentenza. D’altra parte, una volta effettuata la rimessione totale per la decisione della questione di competenza, il giudice è nella pienezza dei suoi poteri per decidere anche nel merito, qualora ritenga la questione di incompetenza non fondata. Non c’è dunque spazio, in casi del genere, per decidere sull’istanza indirizzata ad ottenere l’ordinanza di condanna ad istruzione esaurita. Va osservato che l’adesione ad un orientamento del genere comporta la conseguenza di lasciare nelle mani del controinteressato l’emanabilità del nuovo provvedimento di condanna. Questi potrebbe sempre paralizzarla sollevando una qualunque questione processuale idonea in astratto a definire il giudizio e, pertanto, da decidersi in linea di principio con sentenza. È questa una conclusione ovviamente inaccettabile, ma anche facile da schivare. Basta far perno sul potere di delibazione riconosciuto al giudice istruttore dall’art. 187 comma 3° c.p.c. in ordine alla fondatezza delle questioni processuali che gli vengono avanzate. Un potere che ha giusto la funzione di orientarne i comportamenti in vista della decisione. Se intendiamo l’estensione di questo potere alla luce del nuovo provvedimento sembra ragionevole pensare che, di fronte all’istanza ex art. 186 quater, il giudice rifiuterà di deciderlo nel merito con un non liquet (esplicito o implicito, non importa) se e solo se ritenga fondata la questione pregiudiziale attinente al processo. In tal caso egli dovrà rimettere la causa in decisione per l’emanazione della sentenza assolutoria dell’osservanza in giudizio. Nel caso contrario, invece, la delibazione di infondatezza della questione lo orienterà a decidere nel merito l’istanza per l’ordinanza di condanna. Vedremo dove si indirizzeranno al riguardo le prassi, ma è da ritenere che non sia necessario (e forse neppure opportuno) che il provvedimento dichiari infondata l’eccezione processuale. A questo punto sorge una piccola difficoltà. Dobbiamo domandarci quale sorte subirà l’eccezione processuale nel caso che l’ordinanza assuma efficacia di sentenza. La risposta ha da essere nel senso che il convenuto soccombente potrà riproporla in sede di gravame con i mezzi consentiti. Se si tratta, come nell’esempio fatto, di un’eccezione di competenza, egli potrà, a sua scelta, impugnare il provvedimento con l’appello oppure con il regolamento facoltativo di competenza. La decisione sul merito dell’ordinanza comporta, infatti, una implicita decisione di infondatezza della eccezione processuale anche se di essa non viene dato conto nella motivazione. 7.2. A norma del secondo comma dell’art. 186 quater la nostra ordinanza “è revocabile con la sentenza che decide la causa”. Se si riflette sulla struttura e sulla funzione del provvedimento è facile cadere nella tentazione di offrire una lettura molto restrittiva di questa revocabilità. Verrebbe voglia di sostenere che il legislatore intende semplicemente segnalare che l’ordinanza è sostituita dalla sentenza, con una motivazione articolata al posto di quella succinta, ma con dispositivo identico per quanto attiene all’ “oggetto dell’istanza”. Andare in contrario avviso, ritenere cioè che il giudice istruttore in funzione di giudice unico oppure il collegio possono emanare una sentenza con un dispositivo diverso rispetto a quello dell’ordinanza vuol dire riconoscere l’esistenza di una doppia singolarità. Siccome l’ordinanza viene emanata, come abbiamo dianzi veduto, a seguito di una cognizione completa alla fine dell’istruzione (a differenza di quanto accade per gli altri provvedimenti anticipatori, pure revocabili, in questo caso opportunamente) (30), la revocabilità in senso proprio di essa significa istituzione di una sorta di gravame all’interno del primo grado di cognizione. La revoca nascerà, invero, all’esito dell’esercizio di un jus poenitendi del giudice istruttore o del controllo operato dal collegio in ordine medesimo, materiale preso in esame al momento dell’emanazione dell’ordinanza, senza che, in linea di principio (31), venga estesa l’area della cognizione nel passaggio dall’uno all’altro provvedimento. Una seconda stranezza, che pure non trova riscontro, nasce dal fatto che un mero atto di volontà dell’intimato, la rinuncia alla sentenza, trasforma la natura dell’ordinanza, da provvedimento provvisorio a provvedimento definitivo del grado, sottraendo al giudice un potere di riesame di cui è originariamente investito e sottraendo all’istante (in ipotesi di soccombenza parziale) la possibilità di godere i frutti dell’esercizio di quel potere, ottenendo fin dal primo grado di giudizio un provvedimento di accoglimento totale della sua domanda. Comunque, per quanto disinvolti siano ultimamente diventati i costumi interpretativi dei processualisti, non si può soggiacere alla tentazione di leggere “l’ordinanza è revocabile dalla sentenza” come se recitasse “l’ordinanza è revocata (id est assorbita) dalla sentenza”. Non si può dubitare che il legislatore, vuoi per timidazza nei confronti dei provvedimenti di anticipazione, voluti sempre come provvisori, vuoi per fatale attrazione esercitata dalla disciplina dei provvedimenti già da qualche anno assestati negli artt. 186 bis e tris c.p.c., ha proprio inteso attribuire al giudice il potere di “riformare”, re melius perpensa, il proprio provvedimento. Piuttosto, vi è da dire che a fronte della declamata revocabilità, ci saranno, nella realtà della prassi, ben poche revoche. Intanto, revocare l’ordinanza significa per il giudice ammettere di aver commesso un errore e sappiamo bene che l’animo umano è poco portato all’autocritica. In secondo luogo, va ricordato che il nostro provvedimento è stato inventato non per introdurre una doppia decisione in primo grado e cioè un fattore di grossa oltreché inutile complicazione, ma, tutto al contrario, per semplificare drasticamente la fase decisoria. La disciplina complessiva malgrado la sua struttura apparente, alquanto venata di ipocrisia, è indirizzata all’acquisto dell’efficacia di sentenza da parte dell’ordinanza, con una serie di stimoli per l’intimato (primo fra tutti la possibilità di ottenere l’inibitoria dall’esecuzione forzata soltanto dal giudice di appello) a rinunciare alla sentenza o ad accordarsi con l’avversario per l’estinzione. Un norma destinata a rimanere inapplicata, dunque, la nostra. Ma non sempre le norme inapplicate sono anche inutili. Qualche volta l’astuzia del legislatore persegue scopi obliqui. Nel nostro caso possiamo pensare che la ribadita provvisorietà di un provvedimento decisorio che incide su diritti ha lo scopo di diffondere tra gli interpreti la certezza che il provvedimento non è impugnabile con il ricorso straordinario ai sensi dell’art. 111 Cost., che tanto ha contribuito a inflazionare i ruoli della nostra Corte suprema. 7.3. Un problema molto dibattuto riguarda i tempi per la proposizione dell’istanza e per l’emanazione del provvedimento. Siccome la norma dice che “esaurita l’istruzione, il giudice istruttore, su istanza della parte..., può disporre....” la maggioranza della dottrina si è fatta l’idea che il dies a quo per la proposizione dell’istanza e quello per l’emanazione del provvedimento siano necessariamente coincidenti. Il dissenso riguarda soltanto l’individuazione di questo comune punto di partenza. 7.3.1. In verità, non sembra esistere una ragione al mondo contraria alla legittimazione della parte interessata a proporre l’istanza (naturalmente senza bisogno di procura speciale) in qualunque momento anteriore alla precisazione delle conclusioni, che vedremo rappresentare – almeno con riferimento al nuovo rito – il dies ad quem. L’istanza potrà dunque essere presentata anche nell’atto di citazione o nella comparsa di risposta in caso di domanda riconvenzionale (32). Naturalmente sarà opportuno, quando il giudice istruttore non abbia risposto in un momento anteriore (v. infra), che l’istanza venga ripetuta in sede di precisazione delle conclusioni, affinché non sorga il dubbio che ad essa la parte abbia implicitamente rinunciato. 7.3.2. Quanto al dies a quo per l’emanazione del provvedimento, il legislatore usa un’espressione ambigua anche perché ellittica. La dottrina pressoché unanime ha già chiarito che, per via di interpretazione estensiva, accanto all’istruzione esaurita va collocata l’istruzione superflua (33), cosicché il provvedimento può venire emanato fin dalla prima udienza di trattazione (o magari, nel caso di improbabile accordo delle parti o di contumacia del convenuto, fin dalla prima udienza di comparizione ex art. 80 bis disp. att. c.p.c.) (34) quando si verifichi una concreta situazione processuale che consenta, fin da queste udienze, la fissazione dell’udienza di precisazione delle conclusioni e la rimessione in decisione per il merito (non essendo possibile, come abbiamo visto, l’emanazione del nostro provvedimento quando la rimessione avvenga per la decisione di questioni pregiudiziali o preliminari). Sembra comunque certo che il provvedimento può venir emanato anche prima dell’udienza di precisazione delle conclusioni (che continueremo a veder fissata, malgrado l’abrogazione dell’art. 110 disp. att. c.p.c.) (35). Cerchiamo di definire meglio. Prendiamo il caso in cui l’istruttoria si è svolta. Il provvedimento potrà venire emanato al termine dell’assunzione delle prove e nell’intervallo tra questo momento e l’udienza di precisazione delle conclusioni, oltre che, naturalmente, in questa stessa udienza. Al riguardo, si impone qualche avvertenza. L’emanazione del provvedimento fa scattare anche nei confronti del giudice la preclusione nei confronti della ammissione di mezzi istruttori di ufficio – che normalmente si colloca all’udienza di precisazione. Se il giudice “ritiene già raggiunta la prova”, non può evidentemente assumere di ufficio ulteriori prove. Per quanto riguarda le parti, già decadute dalle istanze istruttorie ai sensi dell’art. 184, primo e secondo comma, un problema si presenta con riguardo alla querela di falso, incidente istruttorio proponibile in qualunque stato e grado del giudizio, e con riguardo all’istanza di restituzione in termini per la deduzione di prove, sicuramente proponibile in linea di principio fino all’udienza di precisazione. Si potrebbe essere tentati di pensare che l’emanazione del provvedimento ex art. 186 quater c.p.c., data la sua natura decisoria e la sua idoneità a trasformarsi in sentenza anticipa il momento finale entro cui, nel processo di primo grado, sono avanzabili le suddette istanze, che rimarranno comunque proponibili in appello. Ma forse la conclusione è troppo drastica. Certo, optando a favore dell’opposta soluzione per cui tali istanze sono comunque proponibili all’udienza di precisazione, dovremmo poi chiederci se la loro proposizione fa venir meno nella parte intimata il potere di rinunciare alla sentenza. 7.3.3. È quasi superfluo osservare che, per i processi sottoposti al nuovo rito, il nostro provvedimento non è emanabile dopo la precisazione delle conclusioni. La rimessione in decisione fa scattare in automatismo una serie combinata di termini che devono condurre entro un lasso di tempo piuttosto breve alla decisione della causa: dentro lo scorrere dei termini per la trattazione scritta in fase decisoria e per la successiva emanazione della sentenza non c’è evidentemente spazio per l’ordinanza del giudice istruttore. A diversa conclusione ritengo si debba pervenire in ordine ai processi disciplinati dal vecchio rito. Il legislatore ha voluto che anche ad essi fosse applicabile l’art. 186 quater, perché, evidentemente, ha pensato all’efficacia deflazionatrice del provvedimento sui ruoli. Tutti sanno che la fissazione dell’udienza di discussione spesso a distanza grandissima dall’udienza di precisazione delle conclusioni ha avuto la funzione di filtro che d’ora innanzi spetterà a quest’ultima. Sembra allora opportuno pensare che il momento finale per richiedere ed emanare il provvedimento sia dato dalla suddetta udienza di discussione. Non vale, per obiettare in contrario, il ricorso alla metafora secondo cui, con la rimessione al collegio, il giudice istruttore si sarebbe “spogliato” della causa (36). È una metafora che contiene in sé, nascosta dal più alto livello di astrazione, proprio la conclusione che intende comprovare. D’altronde non si dubita più, grazie all’intervento nomofilattico delle sezioni unite (37), circa la competenza del giudice istruttore, spogliato o vestito che sia, ad emanare provvedimenti cautelari dopo la rimessione della causa al collegio. Analogamente, non c’è da dubitare in ordine alla sua competenza anche dopo quel momento ad emanare il provvedimento ex art. 186 quater c.p.c. (38) che, se non ha funzione cautelare, ha per lo meno la funzione di svegliare con una pronta decisione una causa magari destinata a dormire per anni in attesa della camera di consiglio. 7.4. Il lettore ricorderà che la definizione del provvedimento come a cognizione piena, ma a decisione sommaria è stata motivata anche in base al rilievo che esso sarebbe preso senza contraddittorio. L’icastica definizione di LUISO va mantenuta. Ma a connotare la “sommarietà” della motivazione, non la mancanza del contraddittorio. Trattandosi di un’ordinanza essa va, direi quasi per definizione, data nel contraddittorio delle parti. Non solo, genericamente, nel senso che essa si situa all’interno di un procedimento in contraddittorio, ma più precisamente con riguardo al suo contenuto. Secondo alcuni autori ciò starebbe a significare che il giudice, di fronte all’istanza di parte dovrebbe fissare termini per lo scambio di memorie (39). Non sono d’accordo. Diritto al contraddittorio non significa di necessità diritto al contraddittorio scritto. Al giudice spetterà la scelta ai sensi del secondo comma dell’art. 180 c.p.c., magari privilegiando la regola fortunosamente reintrodotta all’ultimo minuto, secondo cui la trattazione della causa è orale. Di fronte all’istanza dell’interessato, l’istruttore potrà dunque tranquillamente invitare l’avversario a discuterla in udienza, prima di pronunciare il provvedimento. 7.5. Nella scelta compiuta in ordine all’analisi di pochi tra i numerosissimi problemi interpretativi posti dall’art. 186 quater c.p.c. rimane ancora da dire qualcosa sulla mirabolante capacità di trasformazione di cui il nostro provvedimento è stato opportunamente investito: l’acquisto della efficacia di sentenza impugnabile sull’oggetto dell’istanza. Al riguardo occorrerà attenersi ad un principio informatore che dovrebbe essere riguardato come fondamentale e al quale ci siamo ispirati per negare che l’art. 186 quater violi la corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato. I singoli problemi andranno sempre risolti rispettando la regola per cui non debbono entrare in contraddizione poteri di cognizione e provvedimenti del giudice di appello con poteri di cognizione e provvedimenti del giudice di primo grado o di altri giudici. 7.5.1. Il principio appena nominato consente di prendere posizione in ordine al momento a partire dal quale il provvedimento acquista efficacia di sentenza nel caso di estinzione del processo. Secondo alcuni tale momento va identificato con il verificarsi della fattispecie estintiva (40). Secondo altri, invece, tale momento va identificato, analogamente a quanto dispone l’art. 129 comma 3° disp. att. c.p.c. in materia di decorrenza del termine per l’impugnazione delle sentenze non definitive pronunciate nel processo estinto, con il giorno in cui diventa irrevocabile l’ordinanza o passa in giudicato la sentenza che dichiara l’estinzione del processo (41). Ovviamente, in base alle premesse, ci dobbiamo orientare verso quest’ultima soluzione, che non crea problemi di coordinamento tra il giudizio di appello e il giudizio concernente l’avvenuta o no estinzione in primo grado. È stato obiettato che questa soluzione porta con sé un inconveniente piuttosto grave. Essa implicherebbe la paralisi dei poteri di impugnazione sino a quando non sia stata accertata in via definitiva l’estinzione del processo, cosicché la parte intimata dovrebbe nel frattempo ‘’subire gli effetti dell’ordinanza’’ (42). Immagino che l’allusione sia agli effetti esecutivi, non paralizzabili chiedendo, l’inibitoria al giudice di secondo grado. È un’obiezione che non preoccupa. Si tratta di un esempio del classico telus imbelle sine ictu. Se l’intimato desidera impugnare l’ordinanza e poterne veder sospesa l’efficacia esecutiva o l’esecuzione non ha che da rinunciare all’emanazione della sentenza prima di lasciar estinguere il processo. Se così non ha operato, e anzi litiga a lungo sulla questione dell’estinzione portandola davanti ai giudici superiori, ciò non può che significare che egli – eventualità a dire il vero romanzesca, ma da non escludere ad opera della fantasia casistica, obbligata a razionalizzare la disciplina anche di fronte alle ipotesi più cervellotiche – non vuole che l’ordinanza diventi sentenza, ma vuole che l’ordinanza sia sostituita dalla sentenza. 7.5.2. Uno dei primi commentatori del nuovo istituto (43) ne ha ravvisato una stretta correlazione con il giudizio di appello, nel senso che quest’ultimo non può strutturarsi qui come revisio prioris instantiae. La critica della decisione impugnata diventerebbe impossibile quando manchi la compiuta esposizione dell’iter logico giuridico che ha condotto al dispositivo. Di conseguenza, “l’appello si configura come un trasferimento del giudizio, una prosecuzione del processo dinanzi ad altro giudice. Riacquistano così vigore le opinioni che vedono nell’appello ‘la prosecuzione del procedimento di primo grado ripreso nella condizione in cui si trovava prima della chiusura della discussione’ ”(44). Ora, è certamente vero che i motivi della citazione di appello, di fronte all’ordinanza succintamente motivata secondo i criteri visti più sopra non possono articolarsi come controargomenti nei confronti di argomenti rimasti inespressi, chiusi nel foro interno del giudicante. Ma ciò non significa vedersi costretti a riaccreditare le antiche concezioni dell’appello sopra menzionate. Si tratta invero di concezioni ispirate dall’idea che il giudizio di secondo grado sia informato dall’effetto devolutivo inteso nella sua massima estensione, come riemersione automatica, davanti al giudice del gravame, di tutto il materiale di cognizione portato in primo grado, indipendentemente dall’iniziativa di parte. Questa riemersione non si verifica nell’appello come disciplinato dal nostro legislatore, neppure se si tratta di appello contro un’ordinanza ex art. 186 quater c.p.c. È vero che l’ordinanza non dà conto, nella ricostruzione accolta, degli argomenti che sorreggono una determinata soluzione prescelta in ordine alle eccezioni o alle ragioni delle domande portate in primo grado. Essa deve, però, ovviamente, partitamente risolvere tutte le questioni di tal tipo che si sono ivi profilate. L’appellante dovrà di conseguenza, per il tramite dei motivi, lamentare, una per una, le soluzioni sfavorevoli che intende portare al riesame (e lo stesso deve fare l’appellato vittorioso), in ordine alle (ragioni delle) domande ed alle eccezioni non accolte ex art. 346 c.p.c. Facciamo un esempio banale. Se di fronte alla domanda di condanna al pagamento di un credito il convenuto ha eccepito la prescrizione e contestato i fatti costitutivi, l’ordinanza di condanna dovrà sia respingere espressamente l’eccezione di prescrizione (senza invece dover argomentare le ragioni del rigetto) che dare per esistenti i fatti costitutivi. Ma se il convenuto appellante lamenta in secondo grado soltanto la ritenuta esistenza dei fatti costitutivi, egli non potrà ottenere la riforma dell’ordinanza-sentenza in base ad una declaratoria di prescrizione del credito, ciò che dovrebbe poter avvenire, invece, in base alle antiche e superate concezioni dell’appello per cui esso consisterebbe nella “prosecuzione del procedimento di primo grado ripreso nella condizione in cui si trovava prima della chiusura della discussione’’, cosicché davanti al giudice ad quem riemerga automaticamente, in virtù dell’effetto devolutivo, tutto il materiale di cognizione portato dinnanzi al giudice a quo. (*) Relazione al Convegno di Studi organizzato dal C.S.M. a Frascati dal 12 al 15 marzo 1996, destinata agli Scritti in onore di Giuseppe Ragusa Maggiore. (1) Anche se va condiviso l’auspicio di SCHLESINGER, Convertito in tempo il decreto-legge sul processo civile, in Corr. giur., 1996, 5 ss. per un pausa di quiete che consenta al diritto vivente di operare gli aggiustamenti possibili, mentre che, come chiede CONSOLO, Il processo civile si emancipa (con qualche acciacco) dalla decretazione d’urgenza, in Gazz. giur., Giuffré-ItaliaOggi, 1996 n. 2, 3 ss. si pone mano, con calma e giudizio, a riforme più meditate. (2) Cfr. COSTANTINO, Il processo incivile nel 1995 (note sull’applicazione dimezzata della riforma), in Foro it., 1995, V, c. 230, il quale ricorda una deliberazione del Consiglio dell’ordine degli avvocati e procuratori di Roma dove si afferma che le preclusioni connesse agli atti introduttivi riguardano anche le deduzioni istruttorie. (3) SCHLESINGER, La riforma della riforma. Giustizia civile: ancora un decreto, Editoriale in Corr. giur., n. 9/1995. (4) VERDE, Ma la colpa non è dei rinvii, in Foro it., 1995, V, c. 270. (5) Ma non dell’istruzione probatoria. Cfr., al riguardo, la critica di TARUFFO, Le preclusioni nella riforma del processo civile, in Riv. dir. proc., 1992, p. 299 s. (6) Cfr., al riguardo, i rilievi di COSTANTINO, La lunga agonia del processo civile (Note sul d.l. 21 giugno 1995 n. 238), in Foro it., 1995, V, 326. (7) LUISO, Il D. L. n. 238/1995 sul processo civile, in Giur. it., 1995, IV, 246. (8) In Inghilterra il dibattito in proposito ferve da qualche tempo. Cfr., al riguardo, ZUCKERMAN, Interlocutory Remedies in Quest of Procedural Fairness, in Modern Law Review, 1993, (56), 325 ss; Mareva Injunctions and Security for Judgment in a Framework of Interlocutory Remedies, in Law Quarterly Review, 1993, (109), 432 ss. (9) Cfr., ad esempio, Considerazioni inattuali sulla novella del processo civile (con particolare riguardo ai provvedimenti cautelari e interinali in Foro it., 1990, V, 499 ss.; Prime riflessioni sui valori sottesi alla novella del processo civile, in Riv. dir proc., 1991, 657 ss. (10) La lunga agonia del processo civile, cit., 332. (11) Avevo avanzato questo suggerimento in Accesso alla giustizia e uscita dalla giustizia, in Doc. giust., 1995, n. 1-2, 23 ss. (12) Così, da ultimo, SPERA, I provvedimenti interinali ex artt. 186 bis e 186 ter c.p.c. L’ordinanza successiva alla chiusura dell’istruzione ex art. 186 quater c.p.c., Relazione all’incontro di studio organizzato dal C.S.M. e tenutosi a Frascati dal 25 al 27 gennaio 1996; CONTE, Appunti sull’ordinanza ex art. 186 quater c.p.c.: primi orientamenti, in Corr. giur., 1996, 234 s. (13) CONSOLO, Attese e problemi sul nuovo art. 186 quater (fra condanna interinale e sentenza abbreviata), in Corr. giur., 1995, 1416, nota 26 e 1417. (14) Op. cit., 1416. (15) Op. cit., 1417. (16) Cfr. gli autori citati alla nota 17. (17) BUCCI, L’art 186 quater: una norma “grimaldello”?, in Giust. civ., 1995, II, 303. (18) SCARSELLI, Osservazioni sparse sul nuovo art. 186 quater c.p.c., in Foro it., 1995, V, 390, e v. anche BALENA, Ancora “interventi urgenti” sulla riforma del processo civile, in Giur. it., 1995, IV, 329. (19) Accesso alla giustizia e uscita dalla giustizia, cit., 40. (20) COSTANTINO, La lunga agonia, cit., 330; NAPPI, Rilievi problematici sull’ordinanza successiva alla chiusura dell’ istruzione (art. 186 quater c.p.c.), in Foro it., 1995, I, 3313, ove si parla di una “sentenza che può condannare al pagamento delle somme o alla consegna o al rilascio di quei beni, per i quali, al momento della chiusura dell’istruzione, il giudice non aveva ancora ritenuto raggiunta la prova (o che non erano stati chiesti con l’istanza)” – per quanto, vien da osservare, se la prova non è stata ritenuta raggiunta, l’istruzione non può considerarsi esaurita; CARRATTA, voce Ordinanza anticipatorie di condanna (dir. proc. civ.), in Enc. giur., Vol., Roma, 1996, 22. Contra LUISO, Op. cit., 248; CONSOLO, Op. cit., 1413. (21) SCARSELLI, Osservazioni sparse, cit., 394 e 397. (22) BALENA, Op. cit., 331. (23) Cfr. Trib. Chiavari 7 luglio 1965, in Foro it., 1995, I, 3306, con riferimento alla domanda di condanna che sia conseguenza di un’azione diretta ad ottenere una sentenza produttiva degli effetti di un contratto non concluso; CONSOLO, Attese e problemi, cit., 1412, con riferimento alla revocatoria fallimentare. (24) Nello stesso senso cfr. SCARSELLI, Osservazioni sparse, cit., 393, ove opportunamente viene ricordato che gli orientamenti giurisprudenziali e dottrinari più recenti circa l’estensione del giudicato (e la correlativa restrizione dell’ambito degli accertamenti incidenter tantum) hanno di fatto ridotto la possibilità di tal genere di accertamenti all’interno dell’ordinanza di condanna, come di qualsiasi altro tipo di provvedimento decisorio. (25) BUCCI, Op. cit., 302. (26) È la tesi di SCARSELLI, Op. cit., 398. (27) Op. cit., 247. (28) Ord. 12 agosto 1995, in Foro it., 1995, I, 3307. (29) Da ultimo CAMPESE, L’ordinanza successiva all’istruzione di cui all’art. 186 quater c.p.c., in Corr. giur., 1996, 112. (30) Perché si tratta di provvedimenti anticipatori basati su una cognizione sia sommaria che parziale, i cui risultati possono facilmente venir contraddetti dall’evoluzione del processo successiva alla loro emanazione. Ben si comprende, allora, come mai la mancata previsione della revocabilità del decreto ingiuntivo nel corso del giudizio di opposizione abbia dato luogo al rilievo di una questione di legittimità costituzionale (cfr. Trib. Salerno ord. 13 aprile 1995, in Gazz. Uff., 1° serie speciale, 14 giugno 1995, n. 25) per violazione del diritto di difesa dell’intimato, nonché del principio di uguaglianza con riferimento alla prevista revocabilità dell’ordinanza ingiunzionale di cui all’art. 186 ter c.p.c. (31) Un’eccezione è rappresentata dal jus superveniens. Peraltro, si tratta di un’eccezione apparente, come è dimostrato dall’applicabilità del’ ius superveniens anche in sede di gravame. (32) Così CARRATTA, Op.cit., 20. (33) CONSOLO, Attese e problemi, cit., 1407. CONTE, Appunti, cit., 226; Contra, isolatamente, CAPPONI, Commento al d.l. n. 238/1995, in Corr. giur., 1995, 778 s. a cui parere l’ordinanza “non sembra che... possa trovare applicazione allorché un’istruttoria non sia stata richiesta ovvero non sia stata ritenuta necessaria”. (34) Molto opportunamente, viene fatto notare dal TARZIA, in Il Sole 24 Ore del 17 febbraio 1996 che il convenuto contumace non ha diritto allo sdoppiamento tra udienza di prima comparizione e prima udienza di trattazione, né alla fissazione del termine di cui al secondo comma del nuovissimo art. 180 comma secondo c.p.c.. (35) Contra, CARRATTA, Op. loc. cit. È nostra opinione che l’udienza di precisazione delle conclusioni acquisterà un’importanza fondamentale nel processo riformato, poiché essa costituirà, per così dire, il filtro organizzatorio capace di consentire, attraverso una fissazione più o meno lontana a seconda del più o meno gravoso carico di lavoro del giudice, il rispetto dei tempi per la decisione imposti dall’art. 275 quarto comma e 190 bis secondo comma c.p.c.. (36) Così, invece, CAMPESE, Op. cit., 110. Analogamente COSTANTINO, La lunga agonia, cit., 329; BALENA, Ancora “interventi urgenti”, cit., 331. (37) Cass. 14 dicembre 1981, n. 6594, in Giust. civ. Mass. 1981. (38) Nello stesso senso LUISO, Op cit., 246; CONSOLO, Op cit., 1407; DI GIOVANNI e NIUTTA, Competente il g.i. ad emettere ordinanza ex art. 186 quater c.p.c. anche dopo la rimessione della causa al collegio, in Corr. giur., 1996, 85 ss.. (39) Cfr., a titolo di esempio, CONSOLO, Attese e problemi, cit., 1417, che, già lo abbiamo ricordato, parla dell’esigenza di scambiare “memorie illustrative (nella sostanza comparse conclusionali), magari esse pure più concise”, nel contesto di una ricostruzione generale del provvedimento che, comprendendo l’obbligo della compiuta motivazione dell’iter logico giuridico seguito, rende difficile comprendere l’utilità della recente escogitazione legislativa. (40) BALENA, Op. cit., 332, in base ad un argomento ricavato dalla regola, in verità alquanto misteriosa, per cui, ai sensi dell’art. 307 ult. comma c.p.c., “l’estinzione opera di diritto”. Analogamente, BUCCI, Op. cit., 301; CALIFANO, Il nuovo art. 186 quater c.p.c., in Giust. civ., 1995, II, 569. (41) LUISO, Op. cit., 246; CAMPESE, Op. cit., 113; CONTE, Op. cit., 229. (42) COSTANTINO, La lunga agonia, cit., 334. (43) LUISO, Op. cit., 247. (44) È la nota enunciazione di CHIOVENDA, Principii di diritto processuale civile, Napoli, 1912, 977. L’ESECUZIONE MOBILIARE Relatore: dott. Silvio BOZZI consigliere pretore di Firenze Premessa Non mancano certamente in materia di espropriazione mobiliare (e presso terzi) questioni sulle quali sono aperti contrasti interpretativi delle norme, in dottrina e in giurisprudenza; ma, se anche ad alcune di tali questioni sarà fatto cenno, ho ritenuto senza ombra di dubbio più utile ed opportuno affrontare un discorso di prassi giudiziaria, in un materia dove non si pongono al momento problemi applicativi di novità legislative (salvo quanto sarà accennato in tema di conversione del pignoramento), mentre mi pare evidente l’esistenza di una generalizzata distonia tra quantità – sicuramente molto rilevante – del “lavoro giudiziario” in materia di processi esecutivi, e puntualità, rigore, adeguatezza delle prassi giudiziarie sia sotto il profilo di una sufficiente ottemperanza al principio di legalità, sia con riguardo alla congruità della risposta giudiziaria alla “domanda di giustizia”, sempre più articolata e complessa, che la società attualmente pone in materia di esecuzione forzata per espropriazione. Specialmente nei grandi uffici, operanti in realtà socio-economiche dinamiche e complesse, per giunta fortemente investite dalla situazione attuale di crisi o di difficoltà economica e sociale, si impone una sorta di adattamento della legalità meramente formale (duttilità, ampio ricorso alle grandissime possibilità di sanatoria di atti formalmente irregolari) unita ad una strenua difesa della legalità di fondo, quella dei principi e delle norme fondamentali; della tensione al raggiungimento concreto dello scopo del processo espropriativo. Negli uffici minori, in alcune sezioni distaccate di Preture Circondariali, mi risulta che spesso le funzioni del giudice dell’esecuzione siano affidate ai vice pretori onorari, con notevole documento per il servizio; ed anche magistrati togati spesso “sbrigano” il lavoro esecutivo. Il foro, d’altra parte, ovunque non costituisce, se non occasionalmente e sporadicamente, un momento di controllo della legalità, e si adatta alle diverse prassi, addirittura – qualche volta – a clamorose illegalità. I “punti” indicati nello schema di questo incontro sono soltanto alcuni tra quelli importanti; a qualche altro sarà fatto cenno, per altri ancora non c’era assolutamente spazio. I. Richiamo dei caratteri, principi normativi essenziali, istituti fondamentali del processo esecutivo, con specifico riguardo al processo di espropriazione e a quello di espropriazione mobiliare in particolare. La disamina approfondita dei singoli temi richiederebbe una esposizione teorica tanto lunga quanto non necessaria in questa sede. Mi limito perciò a fornire uno schema, meramente indicativo di punti di riferimento essenziali. – Processo “unilaterale”, disancorato dal “principio del contraddittorio”, ispirato soltanto al principio (se di principio si possa parlare) della “audizione”. – La “direzione” giudiziale del processo (art. 484 c.p.p.). La immutabilità del giudice dell’esecuzione nel singolo processo (richiamo del citato art. 484 all’art. 174 c.p.c.) e la violazione della norma nella prassi. – Il controllo di legalità sugli atti del processo e il conseguimento dello scopo. – Rilievo d’ufficio sull’esistenza del titolo esecutivo in senso formale, ed opposizioni all’esecuzione. – Revocabilità e modificabilità delle ordinanze del giudice dell’esecuzione, anche d’ufficio e anche senza previa audizione delle parti o dell’altra parte. – Opposizione agli atti esecutivi come strumento generale di controllo di legalità degli atti del processo, in particolare dei provvedimenti del giudice dell’esecuzione. Risvolti positivi (mancanza di ostacoli dilatori allo svolgimento del processo) e negativi (difetto di controllo di legalità) dello scarso ricorso delle parti a tale opposizione. II. Espropriazione mobiliare – Problematiche connesse alla ordinaria, rilevante insufficienza della garanzia patrimoniale costituita dai beni pignorati. 1) - La situazione in generale. Lo “scopo” del processo esecutivo. Il rinvio della vendita dei beni pignorati. Il “nodo” è il conseguimento dello scopo del processo nonostante l’insufficienza della garanzia patrimoniale. Lo schema normativo del processo di espropriazione si fonda sull’implicito presupposto della sufficienza della garanzia patrimoniale, che determini un effetto sufficientemente satisfattivo della distribuzione del ricavato della vendita dei beni pignorati, o della loro assegnazione. Oggi, per la consueta insufficienza della garanzia, la stragrande maggioranza dei processi non si conclude con la vendita dei beni pignorati e la conseguente distribuzione del ricavato, ma, ove addirittura non produca alcun risultato per sottrazione dei beni pignorati o a seguito di opposizione di terzo, si conclude, positivamente per il creditore, con la rinuncia all’esecuzione per avvenuto pagamento del debito, dopo rinvii della vendita per pagamenti in conto. Quando il processo perviene alla vendita dei beni pignorati, quasi sempre il risultato è largamente insufficiente. La situazione non cambierebbe in modo rilevante anche sei i pignoramenti fossero fatti con maggior diligenza e rigore, e – in alcune sedi – se fossero meglio organizzate e curate le vendite giudiziarie. È l’economia attuale che determina l’assunzione di obbligazioni di valore fortemente superiore a quello della garanzia patrimoniale di cui dispone il debitore. Quindi il processo di espropriazione diviene satisfattivo non con il suo svolgimento (teoricamente) patologico; non è quasi mai satisfattiva l’effettiva espropriazione, spesso porta a soddisfazione la sola minaccia dell’espropriazione. Si rende necessaria, conseguentemente, una rimeditazione – o meglio, una presa di coscienza con precise implicazioni comportamentali – dello “scopo” del processo esecutivo, che è la soddifazione del creditore nel singolo processo, non certamente il più rigoroso e rapido espletamento dei processi, a prescindere dal loro risultato; e tanto meno una ipotetica funzione “esemplare” di tale rigore e rapidità. I giudici dell’esecuzione devono quindi “gestire” i processi espropriativi perché sia raggiunto, se possibile, il loro scopo. Per questo ho messo in evidenza il tema dei “rinvii” della vendita mobiliare, normalmente consentiti dal creditore eccezionalmente – e brevissimi – concessi dal giudice su istanza del debitore, finalizzati a rendere possibile il pagamento del debito (è singolare che per molti ispettori ministeriali, alquanto ignari delle norme processuali, il rinvio della vendita non sarebbe “previsto dalla legge”; come se la legge non prevedesse la direzione giudiziale del processo e la revocabilità e modificabilità delle ordinanze del giudice dell’esecuzione). Risvolto tecnico giuridico (alquanto teorico per il rilevato adattarsi del foro ai “gusti” dei singoli giudici): il rigetto dell’istanza del creditore per il rinvio della vendita, in una situazione di insufficienza dei beni pignorati, motivato da esigenze di celerità nella definizione del processo (in realtà di smaltimento dei processi) sarebbe frutto di cattivo uso del potere discrezionale del giudice, e sarebbe quindi suscettibile di costituire oggetto di opposizione – fondata – “agli atti esecutivi” (è ormai jus recptum” che la “irregolarità formale dell’atto del processo esecutivo, che legittima l’opposizione, può consistere anche nella sua inopportunità, incongruenza, anche a prescindere dalla violazione di specifiche regole formali). 2) - La “par condicio creditorum” nel processo di espropriazione singolare. Il tema è strettamente collegato alle problematiche – già esposte – connesse all’insufficienza della garanzia patrimoniale. È frequentissimo il caso ove si concedano rinvii della vendita dei beni pignorati, che un debitore, pur avendo quei beni un valore di realizzo neppure sufficiente a soddisfare uno solo dei creditori concorrenti, se intenda pagare e produca un reddito, riesca a soddisfare tutti i creditori concorrenti. E poiché la pluralità di debiti di un solo soggetto verso creditori diversi è frequente, specie se il debitore eserciti un’attività a qualunque livello imprenditoriale, ne deriva che favorire la possibilità di realizzazione del concorso di creditori, in situazione di “par condicio”, nel processo di espropriazione singolare, è cosa utile, perché idonea a determinare il raggiungimento dello scopo del processo esecutivo molto più della frantumazione dell’aggressione al debitore attraverso una pluralità di processi esecutivi, con l’attuazione di privilegi sostanziali determinati da preclusioni di carattere processuale. Viceversa, ultimamente la dottrina processualistica – che è poi il soggetto sociale autore esclusivo e solitario delle riforme processuali legislative – ha accentuato programmaticamente una tendenza ad evitare il concorso di creditori nell’espropriazione singolare mobiliare, fra l’altro non dimenticando di ripetere che il principio della “par condicio” non avrebbe rilievo costituzionale. Questa scuola di pensiero ha determinato una delle due sole modificazioni del codice di rito in materia di processi di esecuzione, subito entrate in vigore, cioè la modificazione del terzo comma dell’art. 525, e del suo combinato disposto con il quinto comma dell’art. 530: la elevazione da cinquantamila lire a dieci milioni di lire del valore dei beni pignorati che esclude l’udienza per disporre la vendita dei beni pignorati, e pone il limite per la tempestività dei pignoramenti successivi, e degli interventi nell’espropriazione, al momento della presentazione del primo ricorso per ottenere la vendita anziché al momento dell’udienza, così infliggendo un colpo durissimo al concorso dei creditori e quindi alla realizzazione della “par condicio”. Non insisto oltre su questo discorso, che forse è un mio “pallino”, pur determinato da una lunghissima esperienza, se non per segnalare due problemi, uno di diritto e uno di prassi degli uffici giudiziari. Il primo concerne la possibilità di verificare se la lesione “processuale della “par condicio”, in una situazione di diffusa insufficienza della garanzia patrimoniale, nonostante il teorico livello non “costituzionale” del principio della “par condicio”, non determini irragionevoli e dannose disparità di trattamento per i creditori, con lesione del più generale principio di uguaglienza e, soprattutto, della concretezza del diritto alla difesa in giudizio. Il secondo concerne l’ottemperanza, che mi risulta non diffusa, da parte delle cancellerie dei giudici dell’esecuzione, al dovere di operare – prima che vi provveda il giudice se in qualunque modo il problema in concreto gli si ponga – alle riunioni di pignoramenti in unico processo previste dal secondo comma e dalla prima parte del terzo comma dell’art. 524 c.p.c. e alla indicazione del limitato oggetto del “separato processo” di cui all’ultima parte del citato III comma dell’art. 524. 3) - La conversione del pignoramento. L’istituto ha formato oggetto dell’altra delle due uniche innovazioni in materia di processo esecutivo. L’innovazione, ispirata alla solita esigenza di rendere più rapido il processo esecutivo, di sottrarlo a espedienti dilatori del debitore, e alla solita indifferenza per il risultato concreto del processo stesso, consiste: a) nella previsione (saggia, a parte l’assurdità della modalità prevista) dell’onere di deposito di una quota della somma dovuta contestualmente all’istanza di conversione; b) nella abrogazione della conversione “rateale”, che era stata introdotta dalla legge 10 maggio 1976 n. 358: abrogazione voluta nonostante la manifestata contrarietà di quasi tutti i giudici impegnati in processi di espropriazione mobiliare nelle più importanti sedi giudiziarie. Sulle prassi giudiziarie da adottare in materia pongo due problemi. Il primo riguarda la – per me sicuramente esistente – concreta possibilità tecnico-giuridica di realizzare, sull’accordo (anche tacito) delle parti la conversione “rateale”. Il secondo riguarda l’opportunità, sempre mediante la pre-organizzata mancata reazione delle parti al provvedimento del giudice, di realizzare la conversione rateale con versamento delle rate direttamente al creditore, e non nel libretto bancario con assegnazione finale dell’intera somma (la semplice prassi instaurata in proposito nella Pretura di Firenze verrà oralmente descritta in dettaglio). III. Espropriazione presso terzi. Problemi connessi al pignoramento di crediti di lavoro, con particolare riguardo, per taluni aspetti, a quelli dei dipendenti pubblici. Il ricorso dei creditori all’espropriazione presso terzi ha avuto, negli ultimi anni, un incremento addirittura enorme, specialmente per quanto riguarda il pignoramento del “quinto” delle retribuzioni di lavoro subordinato, privato e – dopo le sentenze 89/1987 e 878/1988 della Corte Costituzionale – pubblico. Il problemi tecnico-giuridici in materia di espropriazione presso terzi sono tanti, e di notevole spessore.Non è questa la sede per illustrarli, e mi limito perciò a segnalarne alcuni che quotidianamente investono – o dovrebbero investire – le prassi giudiziarie in un grandissimo numero di procedimenti. In primo luogo potrebbe essere utile una ricerca comune sull’essere e il dover essere in punto di modalità di raccolta della dichiarazione del terzo, sulla sua interpretazione al fine di considerarla “positiva” o meno, sul modo di uscire da situazioni processuali di “impasse” in caso di dichiarazione mancata o negativa non seguite da domanda di accertamento dell’obbligo del terzo, sulla opportunità di consentire integrazioni successive di dichiarazioni “interlocutorie», sulla strutturazione e la precisione di contenuti dell’ordinanza di assegnazione di crediti pignorati. Per quanto riguarda in particolare il pignoramento di crediti retributivi sono da segnalare: – il problema (secondo me insussistente ma talvolta enfatizzato nella prassi) del concorso tra pignoramento e precedenti cessioni convenzionali (le c.d. cessioni del quinto); – i pignoramenti successivi, le assegnazioni “in coda”, ad altre precedenti, l’organizzazione di cancelleria per il rilevamento dei “precedenti” a prescindere dagli obblighi di menzione imposti al terzo dall’art. 550 c.p.c.; – la finalità della “chiamata nel processo” del sequestrante precedente (problema che non riguarda soltanto il pignoramento di crediti retributivi); – l’individuazione del terzo legittimato a rendere la dichiarazione, e a fondare la competenza territoriale inderogabile (art. 26 e 28 c.p.c.) quando il terzo pignorato sia una società con sedi secondarie, o sia lo Stato, per l’esigenza fondamentale che un determinato credito venga pignorato – e sia ritenuto pignorabile – davanti ad un solo giudice, anche per la regolarità dell’eventuale concorso di creditori (v. anche C. Cost. 6-10 giugno 1994 n. 231); – l’ordinanza dichiarativa dell’incompetenza territoriale e la sua impugnabilità con opposizione “agli atti esecutivi”. L’UTILIZZAZIONE DEGLI STRUMENTI INFORMATICI NELLA “GESTIONE” DEL PROCESSO ESECUTIVO MOBILIARE Relatore: dott. Gianfranco D’AIETTI consigliere della Corte d’Appello di Milano SOMMARIO: 1. La gestione del processo esecutivo. - 2. Il processo esecutivo e la “filosofia” del suo aspetto organizzativo. - 3. Gestione del fattore umano. - 4. L’analisi delle procedure e la loro formalizzazione. - 5. La individuazione dei “colli di bottiglia” dei processi. - 6. La modulistica. - 7. L’utilizzo di procedure informatiche. - 8. Le modifiche del processo esecutivo introdotte dalla riforma. - 9. Conclusioni. – Allegati. 1. La gestione del processo esecutivo Il processo esecutivo mobiliare è, generalmente, caratterizzato da una limitata presenza di questioni squisitamente giuridiche e da una elevata quantità, invece, di problemi gestionaliorganizzativi la cui soluzione è condizionata dalle regole dettate dal codice di procedura civile. Le norme del processo esecutivo sono state solo “sfiorate” dalla riforma processuale del 1990, sotto ridotti e marginali profili. Ben altri potevano e dovevano essere gli “interventi urgenti” per ridare un serio spazio operativo al processo esecutivo le cui norme, come è ampiamente riconosciuto, furono redatte, fin dall’origine, con una certa trascuratezza. Il quadro normativo del processo esecutivo appare ormai troppo “datato”, collegato ad una generica ed arcaica concezione della “responsabilità patrimoniale”, senza tener adeguato conto della reale dinamica dei fenomeni economici del giorno d’oggi. Un efficace approccio metodologico ai problemi del processo esecutivo potrebbe, comunque, consistere (senza il ricorso a modifiche legislative, pur necessarie) nell’ottimale utilizzo di tutte le più efficaci tecniche di organizzazione volte al conseguimento dello scopo (la piena soddisfazione esecutiva del credito) e nella valorizzazione di tutti gli elementi interpretativi che siano più funzionali ad un rapido svolgimento dell’iter procedurale. L’esperienza maturata presso la Pretura circondariale di Monza mette in evidenza che risultati ampiamente soddisfacenti possono essere raggiunti attraverso: 1) un attento utilizzo delle risorse umane; 2) l’individuazione di sequenze procedurali ben chiare e collaudate, rese disponibili attravero strumenti di raffigurazione grafica; 3) un affinamento dei passaggi del processo tale da “allargare i colli di bottiglia” 4) l’adozione di modulistica moderna ed efficace, 5) l’adozione di opportune procedure informatiche dotate di un grado adeguato di flessibilità e di “intelligenza”. 2. Il processo esecutivo e la “filosofia” del suo aspetto organizzativo La “filosofia” di fondo di una gestione organizzativa “aziendalistica” del processo esecutivo è basata sulla considerazione che le numerose fasi del procedimento debbono ricevere un trattamento che consenta un “ciclo produttivo” il più possibile standardizzato e nel quale tutte le ipotesi di “varianze” del procedimento (ossia le anomalie rispetto all’iter prefissato) siano preventivamente codificate e previste; in tal modo si realizza una struttura organizzativa che tratta anche i casi anomali inserendoli nella gestione programmata dei processi. I casi anomali non sono tali, in quanto in loro presenza la struttura della Cancelleria esecuzioni possiede già gli strumenti concettuali (regole prefissate) ed operativi (modulistica e computer) per il trattamento. Anche l'anomalia (prevista!), quindi, viene ricondotta allo “standard” con un aumento della “produttività” dell’organizzazione. La Cancelleria, quindi, lavora in base a sequenze operative prefissate (codificate, formalizzate e tali da costituire la memoria storica dell’organizzazione), con la drastica riduzione di interruzioni del “ciclo produttivo” e senza il coinvolgimento decisionale del giudice dell’esecuzione. Solo l’anomalia non prevista, l’unica ad essere trattata, estemporaneamente, costituisce l’eccezione, in tal caso, però, il “caso” viene esaminato in una riunione di gruppo (giudice dell’esecuzione, cancelliere direttore della sezione ed altro personale interessato) e viene studiata una soluzione che tenga conto sia della normativa in materia che degli aspetti organizzativi funzionali. Tra possibili soluzioni interpretative viene quasi sempre privilegiata quella che procuri il minor disagio agli utenti del servizio. 3. Gestione del fattore umano Vi è una moderna tendenza degli economisti a quantificare il valore dei prodotti con riferimento non tanto al valore intrinseco dei materiali di cui è composto, ma, piuttosto, con riferimento al tempo-uomo impegnatovi. Oggi il concetto del tempo-uomo costituisce l’elemento di più alto valore aggiunto. I costi materiali, fisici, dei prodotti sono, nel mondo occidentale industrializzato, enormemente più bassi rispetto al costo del lavoro umano. Tale considerazione è maggiormente valida nel sistema processuale, in quanto i costi del prodotto finale sono quasi tutti costi umani, ed appunto come tali essi vanno temporizzati adeguatamente e quantificati. Un processo costa, alla fin fine, la quantità di unità di tempo che si sono rese necessarie dai vari interventori nel processo. Di tutti gli aspetti organizzativi-gestionali, quindi, il profilo relativo ai rapporti tra giudici dell’esecuzione, tra questi ed il personale di Cancelleria ed ai rapporti interni di tale personale è sicuramente quello più delicato per poter impostare uno “spirito di gruppo” che è il presupposto per qualsiasi discorso sugli aspetti aziendali-organizzativi. Sicuramente trascende i limiti della presente trattazione l’analizzare i contenuti di una corretta gestione dell’aspetto umano all’interno di una organizzazione complessa, dal momento che i costi del processo sono rappresentati per la quasi totalità, da impiego delle risorse umane è evidente, comunque, che la massima attenzione va riservata proprio alle “persone” coinvolte operativamente nell’organizzazione. Vanno, indicativamente, segnalati i problemi fondamentali: la creazione di un “gruppo” con obbiettivi individuati e conosciuti; il coinvolgimento decisionale del personale ai vari livelli a cui collabora, la individuazione di forme di promozione professionale tali da costituire un incentivo al raggiungimento dei risultati; la risoluzione o, comunque, la gestione controllata degli inevitabili conflitti interpersonali ed intra-gruppo; la nascita negli appartenenti al servizio del “gusto” di appartenere ad una organizzazione i cui fini diventano l’obbiettivo del gruppo; l’adozione di tecniche di lavoro innovative che valorizzino le singole funzioni ed evitino di far valutare come inadeguate le modalità del lavoro (con conseguenti frustrazioni). 4. L’analisi delle procedure e la loro formalizzazione Esistono tecniche molto raffinate che permettono di qualificare attività e processi. Ogni impresa dotata di un certo grado di complessità organizzativa utilizza strumenti adeguati per determinare la sequenza ragionata (e preventivata) degli interventi di un certo ciclo produttivo. L’analisi delle procedure e la loro formalizzazione attraverso i più progrediti strumenti di gestione aziendalistica costituisce, quindi, una indefettibile condizione per una razionale modernizzazione delle finzioni giudiziarie. Laraffigurazione grafica delle procedure costituisce, nella moderna metodologia della cultura di , un potente ed efficace strumento per un rapido apprendimento, in una visione sinottica complessiva, della intera struttura di un processo (produttivo o organizzativo). La diagrammazione a blocchi (altrimenti detta “flow-chart” o, italianizzando l’espressione originale, “carta o diagramma di flusso”) consiste, difatti, nella rappresentazione grafica di procedure e di sequenze operative attraverso figure simboliche di semplice intuitività, collegate tra di loro in una struttura ad albero rovesciato. Tali simboli sono in grado di visualizzare sinotticamente lo svolgersi di una procedura attraverso il tempo ovvero anche solamente nelle sue fasi logiche. Ciascun simbolo (trapezio, rombo, rettangolo ecc.) costituisce una forma convenzionale ed univoca di un elemento o di una fase di una procedura. L’insieme di tali figure ed i loro collegamenti (linee e frecce orientate) permettono di raffigurare graficamente complesse attività procedurali, i presupposti che le contraddistinguono, le condizioni a cui sono sottoposte e le diramazioni nelle quali si sviluppano. Essere in grado di formalizzare in uno schema a blocchi una procedura giuridica significa (al di là delle metodiche tecniche da utilizzare), inevitabilmente, doverne mettere a fuoco ogni aspetto, sintetizzarne gli elementi peculiari, analizzarne i collegamenti funzionali e la logica interna, scoprirne le lacune o, addirittura, taluni imprevisti sviluppi. L’operatore che si impegni a formalizzare una procedura (tale termine è inteso in senso ampio, comprendendo anche lo sviluppo logico di un problema non strettamente procedurale) è inevitabilmente costretto ad approfondire e mettere in luce, in una visione sinottica, i vari profili e momenti logici in cui si viene a snodare la procedura con la conseguente acquisizione di un notevole arricchimento nel chiarimento del problema. È inevitabile, infatti, che nel formalizzare graficamente i concetti l’operatore debba fare innanzitutto opera di chiarezza in se stesso: i benefici si traducono soprattutto a livello divulgativo in quanto ogni sia pur complessa procedura potrà essere appresa nei suoi aspetti fondamentali da qualsiasi operatore pratico, sia pur frettoloso, che voglia rendersi conto della sequenza dei momenti e degli sviluppi logici di un problema di cui non conosca bene gli aspetti qualificanti. La diagrammazione delle procedure risulta utilissimo nella razionalizzazione dei processi organizzativi. Fin dal 1985 presso la Pretura di Monza sono state messe a punto talune metodologie di formalizzazione documentaria delle procedure correnti e si è tentato di costituire una sorta di memoria storica dei processi organizzativi, non più affidati al tradizionale uso dei precedenti ma fondati su una consapevole formalizzazione dello svolgimento e della sequenza delle operazioni. Si sono concentrate, innanzitutto, le energie nella creazione di una organica e moderna modulistica; è stato osservato che prospetti chiari ed articolati costituiscono una guida sicura per chi è poco pratico e consentono di uniformare efficacemente i comportamenti da parte del personale che si avvicenda negli uffici. Si è, infatti, notato che spesso il personale amministrativo che lascia l’ufficio al quale era addetto spesso porta via, quasi come un patrimonio personale, le circolari e la documentazione accumulate nei cassetti durante il proprio servizio. Troppo spesso le procedure operative sono collaudate e messe a punto da una sola persona il cui trasferimento ad altro ufficio comporta la totale perdita di tutta l’esperienza accumulata senza che vengano predisposti degli strumenti organici per il trasferimento ad altri di tale patrimonio informativo; della procedura rimane solo la riproduzione meccanicistica degli aspetti formali (i cosiddetti “precedenti documentari”). Alla Cancelleria della Pretura di Monza già da molti anni sono utilizzate flow-charts per la esemplificazione e chiarimento di taluni aspetti delle procedure giudiziarie, ed in particolare, esecutive. Nei diagrammi allegati alla presente relazione sono raffigurati alcuni aspetti dell’iter del processo esecutivo ed in essi viene messa in luce la struttura procedimentale ed i problemi connessi. È evidente che i simboli scelti non sempre riescono a rappresentare in maniera del tutto esaustiva la procedura, ed in certi punti la raffigurazione grafica non dà conto in modo adeguato di alcune sottigliezze del fenomeno giuridico. In molti casi lo svolgimento di una fattispecie giuridica comporta soluzioni complesse e non univoche, sulle quali Autori giuridici hanno svolto complesse indagini; in tali casi sopperisce una nota di rinvio ad un ulteriore diagramma ove il fenomeno può essere sviluppato in maggior dettaglio. Una rappresentazione più particolareggiata è tale da mostrare momenti conclusivi di scelte decisionali, anche complesse, o addirittura le prassi utilizzate localmente da un certo ufficio giudiziario. Occorre chiarire che i simboli che vengono adottati sono tratti dalla tradizionale tecnica della diagrammazione a blocchi dei processi produttivi. Questi simboli la cui scelta è fondata su convenzioni comunemente accettate, sono in genere sufficienti per ottenere, soprattutto attraverso una oculata utilizzazione del simbolo della scelta (definita attraverso il rombo: = ), una diagrammazione di massima di quasi ogni problema giuridico; tale diagrammazione, se non eccessivamente approfondita viene definita di 1° livello. Una maggiore precisazione delle condizioni e presupposti porta ad una schematizzazione di 2°, 3°, ed anche 4° livello. Si suole dire che, quando si sia raggiunto un tale ultimo livello di approfondimento, la procedura è stata talmente delineata in tutti i suoi più minuti aspetti, da poter essere addirittura tramutata in linguaggio di programmazione elaborabile elettronicamente.Altri strumenti più raffinati potrebbero essere efficacemente utilizzati per l’analisi di quei processi organizzativi in cui la “tempificazione” appare l’elemento più critico. Mi riferisco ai diagrammi di GANTT (che prendono il nome da un ingegnere che nel corso della guerra di secessione americana mise a punto un metodo grafico per programmare gli interventi logistici per gli approvvigionamenti) ed ai processi di PERT. 5. La individuazione dei “colli di bottiglia” dei processi Proprio attraverso l’analisi funzionale delle procedure e la loro comparazione con gli obbiettivi di razionalizzazione e di funzionalità dell’intero processo possono essere individuate quelle soluzioni (anche sofisticate) per consentire la massima “fluidità” dell’iter procedimentale e la riduzione drastica dei tempi tra un’attività e quella successiva. Alla Pretura di Monza sono state messe a punto una serie di tecniche che hanno permesso di ridurre drasticamente i “tempi morti” e di produrre un benefico effetto sui tempi complessivi della procedura. Fissazione delle vendite. Negli scorsi anni, allorquando il sistema della “piccola espropriazione” era inapplicabile per la irrisoria entità del limite di valore (L. 50.000), in accordo con il locale Ordine degli Avvocati e procuratori fu ideato un meccanismo procedurale che consentisse, pur rispettando tutti gli adempimenti ed i diritti di tutte le parti coinvolte nel processo, di evitare la drammatica perdita di tempo costituita dalla udienza per la fissazione della vendita. Alcune Preture avevano ritenuto di applicare la “piccola espropriazione” a tutte le procedure esecutive che, pur superiori alle lire 50.000, rientravano, però, nella competenza per valore del Pretore, interpretando la cifra di lire 50.000 (fissato quando la competenza per valore del Pretore era, appunto, di lire 50.000) come un valore “mobile” collegato alla competenza per valore; in tal modo avevano abolito direttamente l’udienza prevista dall’art. 530 c.p.c. ritenendo applicabile la “piccola espropriazione”. Ai vantaggi di snellimento dell’attività (fissazione della vendita con decreto ed elusione dell’udienza di fissazione della vendita) corrispondevano, però, conseguenze giuridiche che creavano profonde disparità di trattamento tra i creditori. La più rilevante era rappresentata dal fatto che, non essendo fissata l’udienza ex art. 530 il termine per gli interventi tempestivi era rappresentato dalla data in cui il creditore pignorante aveva depositato all’istanza di fissazione della vendita. Una soluzione operativa che ha dato eccellenti frutti, senza però creare disparità processuali di trattamento è stata quella di fissare preventivamente TUTTI gli elementi del provvedimento di vendita dei beni pignorati con lo stesso decreto con il quale le parti venivano convocate per l’udienza. Tale udienza veniva tenuta solo se taluna delle parti del processo intendesse far valere una qualche sua ragiane. La data dell’udienza era quella utile per gli interventi tempestivi e per l’opposizione agli atti esecutivi. In caso contrario (ed era questa la regola, ormai “metabolizzata” dalla quasi totalità degli operatori e dei “debitori abituali”) all’udienza non si presentava nessuno. Qui interveniva l’unica vera “omissione” del giudice dell’esecuzione. In presenza di una data di vendita ormai già fissata e comunicata a tutti gli interessati e di un incarico all’I.V.G. già trasmesso, il giudice dell’esecuzione evitava di valutare la mancata presenza degli interessati e non effettuava alcuna comunicazione ex art. 631. Tutto qui. Con il massimo rispetto dei diritti e delle esigenze e della dignità delle parti (il non perdere inutilmente tempo in un’affollata stanzetta di udienza in attesa di una “chiamata” che forse non verrà mai ascoltata, costituisce un diritto “civico” di ogni cittadino che deve essere rispettato) si è realizzata un accrescimento della funzionalità del processo con una drastica riduzione dei tempi e dell’impiego delle risorse umane. – incarichi all’I.V.G.. La capacità operativa dell’I.V.G. è correlata ad una serie di “risorse” umane e di mezzi sulle quali il giudice dell’esecuzione può influire solo limitatamente. Sotto questo profilo può essere interessante valutare i carichi di lavoro delle preture che fanno parte dello stesso Distretto e svolgere eventuali osservazioni, circa l’inadeguatezza delle risorse (personale e mezzi di trasporto) al Presidente della Corte di Appello che esercita la vigilanza sugli istituti incaricati delle vendite giudiziarie. Un elemento fondamentale del “ciclo produttivo” degli Istituti è rappresentato dall’evitare la dispersione delle energie. Va considerato che le vendite con “asporto del bene” comportano innanzitutto una previa “visita” dell’incaricato dell’I.V.G. ed in tutti i casi in cui occorre effettivamente procedere all’asporto (e non vi sia stato un rinvio concordato) un impegno di energie non indifferente. Le vendite da tenersi “in luogo” (ovverosia dove si trovano i beni) impongono un “percorso” del banditore che si deve spostare in varie località. La produttività può essere adeguatamente accresciuta se il giudice dell’esecuzione, sensibile alle esigenze della logistica provvede a fissare tutte le vendite di una giornata raggruppandole per aree geografiche omogenee. In tal modo sia i banditori che gli asportatori si trovano ad operare per ciascun giorno in una medesima zona e gli spostamenti tra un luogo ed un altro avvengono in tempi ridotti. Una tale organizzazione del lavoro ha consentito di aumentare la produttività, aumentando, a parità di condizioni, il numero degli incarichi affidati per ogni giornata di circa il 20% per quelle con asporto e del 30% quelle da tenersi “in luogo”. – le conversioni dei pignoramenti. La conversione del pignoramento, prevista dalla precedente formulazione dell’art. 495 c.p.c., era consentita in forma rateizzata. La nuova normativa in tema di conversioni del pignoramento, (art. 495 cod. proc. civ. modificato dalla legge 393/90) nella parte in cui non consente più la rateazione mensile del pagamento del debito introduce una disciplina apparentemente rigorosa, ma in concreto pregiudizievole degli interessi sia dei creditori che dei debitori. L’inopportunità di una tale scelta legislativa (presa in base alla opinabile considerazione che l’istituto aveva dato “cattiva prova”) è stata evidente dal momento che da numerosissimi avvocati del foro di Monza è venuto l’invito di disattendere la volontà legislativa attraverso l’utilizzo della rateizzazione “su istanza del creditore”. Infatti l’esperienza maturata negli anni di applicazione della conversione rateizzata ha mostrato la notevole efficacia di questo istituto che ha consentito un efficace contemperamento degli interessi contrapposti, evitando in molti casi la vendita dei beni pignorati che si concreta in ricavati quasi sempre infimi. Infatti la conversione rateizzata ha rappresentato per l’ufficio esecuzione di Monza (ma, per quel che ho appreso, anche di Milano e di Firenze) una fondamentale modalità per la soddisfacente conclusione del processo esecutivo in un elevato numero di procedure espropriative. In conseguenza di un accordo preso con il locale Ordine degli avvocati ogni procuratore che presenta la istanza di vendita autorizza preventivamente ed esplicitamente il Pretore ad ammettere il debitore (se questi lo richiederà) alla conversione in forma “rateizzata” per un periodo non eccedente i sei mesi senza necessità di disporre una comparizione delle parti. In tal modo, con il consenso esplicito dei creditori, viene omessa la udienza per la audizione delle parti e, dopo il versamento di un quinto del precetto, vengono fissate altre 5 rate (in misura forfettizzata); solo dopo il puntuale adempimento del pagamento di sei rate il pretore provvede alla comparizione parti per all’esatta determinazione della “somma da versare” con la conseguente determinazione precisa dell’ultima rata. In tal modo l’audizione delle parti è limitata ai soli casi “positivi” in cui il debitore ha dimostrato (fattivamente, col pagamento di sei rate) di voler adempiere la sua obbligazione. La procedura è ormai collaudata e dà garanzie di funzionalità ed efficacia. I conteggi della conversione sono realizzati attraverso un programma per personal computer messo a punto alla Pretura di Monza. – i pignoramenti presso terzi. È stata adottato un apposito verbale di udienza nel quale è predisposto lo schema della più usuale forma di pignoramento presso terzi (pignoramento delle retribuzioni). In sede di udienza tale verbale costituisce, con le sue parti predisposte una efficace guida alla facile dichiarazione del terzo i cui contenuti variabili vengono trascritti con garanzie di uniformità della tecnica di assunzione delle dichiarazioni. Dopo la dichiarazione positiva il pretore si riserva e predispone un provvedimento di assegnazione utilizzando un apposito programma per personal computer. Questo programma agisce in quattro fasi, analiticamente descritte nel paragrafo “l’utilizzo delle procedure informatiche”. 6. La modulistica Una modulistica ben studiata e funzionale, esteticamente gradevole costituisce spesso uno strumento di straordinaria efficacia per la funzionalità di un ufficio giudiziario. Non bisogna affatto dimenticare che non è affatto vero che la rapidità della gestione dei processi sia un effetto dell’informatica. Occorre prendere consapevolezza che spesso l’informatica, applicata in talune procedure non strategiche, crea solo un inutile rallentamento di attività; in molti casi l’utilizzo di una modulistica moderna e funzionale produce effetti molto più “pratici” di una (inutilmente) laboriosa e costosa procedura informatica. Una cospicua parte della modulistica può essere elaborata direttamente dagli uffici mediante il sistema di videoscrittura di un personal computer con il vantaggio di una elasticità della gestione (riduzione delle spese per la stampa, eliminazione di necessità di immagazzinamento di inutili scorte, possibilità di riadattare la modulistica a nuove esigenze senza dover “buttar via” i pacchi inutilizzati della vecchia modulistica). Sarebbe, anche in tal caso, opportuno che il Ministero fornisse (come è accaduto in occasione della introduzione del nuovo processo penale) una modulistica informatizzata da adoperarsi negli uffici giudiziari italiani. Val la pena evidenziare che risultati eccellenti sono stati ottenuti attraverso una modulistica plurifoglio a carta chimica colorata. In tale dossier (composto di 7 fogli) sono stati concentrati (ogni foglio ha un diverso colore) l’ordinanza di vendita, gli avvisi agli interessati, il “bando” e l’incarico all’I.V.G. Con una unica scritturazione (a mano e senza carta carbone) il collaboratore di cancelleria compila TUTTI gli atti per la fissazione della vendita. L’incremento di produttività è stato semplicemente sbalorditivo. La capacità di produzione dei documenti è aumentata del 400% e la soddisfazione del personale (frustrato da una banale ripetitività di scrittura dei medesimi dati su più documenti) ha giovato al buon clima dell’ambiente di lavoro. 7. L’utilizzo di procedure informatiche Con un attento uso del personal computer ci si è sforzati di ampliare il collo di bottiglia della capacità decisionale del magistrato, attraverso la creazione di vari programmi che facilitassero taluni dei compiti più gravosi che impegnano il giudice dell’esecuzione civile. Si è concentrato lo sforzo sull’elaborazione di procedure tipiche del giudice, mentre si è evitato di impegnarsi in attività di automazione dei servizi di cancelleria che comportano la messa a punto di un programma di elaborazione gestionale complessa e che presuppone la dotazione di un “hardware” adeguato e collegamenti di più postazioni di lavoro in rete. Programmi “gestionali” del processo esecutivo (per le cancellerie) sono stati messi a punto in esperimenti pilota presso la pretura di Castrovillari, la pretura di Borgomanero e (limitato ad alcuni profili) alla pretura di Torino. L’elaboratore è davvero insuperabile soprattutto nella esecuzione di conteggi, anche molto complessi, e l’attività del giudice dell’esecuzione civile comporta proprio una gran quantità di calcoli di non semplice esecuzione; i conteggi sono, poi, strettamente correlati con la soluzione di problemi giuridici, non delegabili a personale delle cancellerie o alle parti private interessate al processo esecutivo; si è rilevato, inoltre, che nella preparazione tradizionale del giurista non rientra l’abilità matematico-contabile. Si è cercato, quindi, di permettere al giudice di colloquiare in maniera amichevole con l’elaboratore, in modo tale da consentirgli di inserire soltanto i dati elementari ed obbiettivi rilevabili dagli atti del processo esecutivo così da ricavarne (attraverso una serie di calcoli eseguiti poi dall’elaboratore) risultati utilizzabili direttamente nel provvedimento finale. Il computer è stato programmato in modo tale da porgere al giudice, in un normale linguaggio letterario (sia pur stringato) una serie incalzante di domande e/o di opzioni così da riprodurre (salvo che per casi limite che fuoriescono dalla normalità) l’intero iter del ragionamento e dei conteggi. Nella stesura dei programmi ci si è avvalsi di una rappresentazione simbolica (carta di flusso o flow-chart) sviluppando, in una struttura grafica, l’intera serie di passaggi logici e dei collegamenti funzionali tra i diversi momenti della procedura ed i dati relativi. La distribuzione delle somme tra i creditori. – Per prima si è realizzata una procedura di ausilio al giudice che lo guidasse nella elaborazione dei conteggi relativi alla distribuzione delle somme ricavate dalla vendita dei beni pignorati. La scelta di tale priorità è stata giustificata dal fatto che, nella esperienza del sottoscritto quale giudice dell’esecuzione, non vi è altra operazione più noiosa e banalmente ripetitiva di questa. Vanno evidenziati eventuali diritti di prelazione; vanno, poi, eseguite tante moltiplicazioni e divisioni per quanti sono i creditori ai quali va attribuita una quota del ricavato. Più in dettaglio le operazioni sono le seguenti: Il computer, richiede di inserire, attraverso la tastiera, l’importo totale della somma da distribuire. Il messaggio che si legge sul video è “INSERISCI LA SOMMA DA DISTRIBUIRE”. L’operatore immette con i tasti numerici l’importo ed il computer, attraverso una formula inserita nella sua memoria, calcola immediatamente l’importo delle spese di registrazione (se dovute). Tale importo è posto in prededuzione, assieme con le spese legali sostenute dal creditore primo pignorante (che vanno inserite normalmente ma che possono pure essere automaticamente rilevate da una tabella per scaglioni, concordata preventivamente con l’ordine degli Avvocati in relazione all’importo precettato). È possibile inoltre attuare ulteriori prededuzioni per crediti privilegiati. Attuata questa prededuzione, il computer fornisce l’esatto importo della somma residua e richiede di specificare l’importo integrale di ciascuno dei crediti che partecipano alla distribuzione per ciascun creditore. Il video suggerisce: “CREDITORE N. 1 ?” ed attende l’immissione delle cifre; poi “CREDITORE N.2 ?” e così di seguito. Terminata questa operazione, sul video immediatamente compaiono le cifre attribuite a ciascuno dei creditori con l’indicazione della percentuale spettantegli nella ripartizione, nonché l’importo delle spese legali liquidate a ciascuno (sempre utilizzando la tabella standard delle spese, diritti ed onorari memorizzata una volta per tutte dall’elaboratore). In tal modo una attività del giudice dell’esecuzione non difficile, ma noiosa e laboriosa, viene resa agevole e precisa. Il sistema è stato programmato in maniera non banale cosicché le somme distribuite a ciascun creditore, vengono arrotondate tutte alle 1000 lire e tutti gli spiccioli residui vengono caricati su una sola delle ripartizioni in modo tale da permettere poi alla cancelleria una più agevole attività nella emissiome dei mandati di pagamento. Il programma consente di stampare, addirittura l’intero provvedimento di distribuzione con tutti i dati sia originari che calcolati. L’apparire di questo computer nel grigiore di un’udienza pretorile di distribuzione delle somme ha suscitato curiosità, interesse ed approvazione tra gli avvocati che hanno apprezzato l’enorme sveltimento delle operazioni, rese ancor più agevoli dalla predisposizione di un modulo prestampato del tutto adeguato ad ospitare i dati previsti dal programma elettronico. Qualità elevata del provvedimento e notevole risparmio di tempo sono i risultati più notevoli nell’uso di questa procedura. L’operazione tradizionale occupava (con 3 o 4 creditori partecipanti alla distribuzione) circa una quindicina di minuti per i soli conteggi (e con rischio di errori), con l’uso del computer è ormai ridotta a non più di due minuti e con risultati assolutamente affidabili. La conversione rateizzata del pignoramento. – Ai sensi dell’art. 495 codice di procedura civile il debitore, che ha subìto una esecuzione mobiliare, può richiedere che il Pretore sostituisca al bene pignorato una somma di denaro “pari all’importo delle spese e dei crediti del creditore pignorante e dei creditori intervenuti”. L’importo complessivo è “determinato con ordinanza dal giudice” (art. 495 secondo comma) e l’operazione manuale (assistita da una semplice calcolatrice) comporta la esecuzione di una lunga serie di calcoli. Devono essere computati gli interessi (legali o convenzionali) e/o la rivalutazione monetaria eventualmente prevista nel titolo esecutivo. Vanno detratti gli acconti versati dal debitore nelle more del processo esecutivo, vanno aggiunte le spese del creditore (esborsi, diritti ed onorari, IVA e contributi del 2% per i professionisti legali), vanno aggiunti gli interessi a scalare sul capitale relativo alla (eventuale) rateizzazione. Tutti i dati numerici vanno sommati tra loro ed il risultato diviso per le mensilità di rateizzazione. Nella prassi giudiziaria tali operazioni vengono eseguite non di rado con una certa approssimazione per la concreta impossibilità di dedicarvi il tempo necessario. Infatti, una serie di calcoli sequenziali, quali quelli sopra indicati, impegnano il giudice dell’esecuzione in almeno 1520 minuti per ciascuna conversione, tenendo conto che nella procedura non vi sia più di un creditore. L’intera sequenza delle operazioni più comunemente prevedibili compiute dal giudice è stata sviluppata in ogni sua prevedibile articolazione logica (c.d. algoritmo) e formalizzata in una serie di rappresentazioni grafiche simboliche (c.d. carte di flusso) via via più particolareggiate. La procedura è stata, poi, tradotta in linguaggio di programmazione ed inserita nel computer. È il sistema stesso che propone all’utente via via i dati (numerici ed alfabetici) da inserire: 1) l’importo del precetto non contestato (con possibilità di decurtare de plano eventuali somme non dovute); 2) eventuali acconti (in deduzione); 3) l’importo del capitale puro (su cui il computer calcolerà automaticamente interessi e/o rivalutazione); 4) gli eventuali interventi; 5) se è prevista o meno la rivalutazione (SI o NO); 6) la data di decorrenza da cui si calcolano interessi e/o rivalutazione. Attraverso una complessa serie di formule logiche giuridiche (ideate e scritte dal giurista) immagazzinate nella memoria del programma, il computer elabora i dati immessi ricavandone altri derivati. Tra questi ultimi si possono evidenziare: il calcolo automatico del numero di giorni tra due date inserite dall’operatore; la rivalutazione monetaria dalla decorrenza indicata fino ad oggi (sulla base di una completa tabella di indici ISTAT dal 1957 ad oggi ed i relativi coefficienti di raccordo); gli interessi maturati (al tasso legale o convenzionale) sul capitale puro; spese legali, diritti, onorari, IVA e contributo previdenziale sulla base di scaglioni tariffari variabili in relazione all’importo precettato (l’intera tabella delle spese legali a scaglioni è immagazzinata nella memoria del computer). L’assegnazioni dei crediti. – Particolarmente interessante è un programma per la assegnazione dei crediti ed, in particolare, della quota pignorabile delle retribuzioni di lavoro del debitore. Troppo spesso nella prassi operativa degli Uffici giudiziari si adottano formule ed espressioni oscure ed equivoche, tali da lasciare agli interessati il problema in termini pressocché eguali a quelli che si avevano prima di adire il giudice. Il programma informatico è così strutturato: – in primo luogo il pretore inserisce i dati variabili del verbale di udienza all’interno di una sorta di scheda elettronica. In occasione di tale inserimento il pretore inserisce anche i dati relativi alle soluzioni giuridiche che vuole adottare (il programma consente le relative scelte decisionali); – subito dopo il programma elabora i dati derivati (calcoli di rivalutazione monetaria, interessi legali o convenzionali, spese legali ed onorari, numero di mesi necessari per la estinzione del debito) e genera una serie di frasi (conseguenza delle scelte predisposte del giudice); – il giudice sceglie, nell’ambito di una biblioteca di provvedimenti elettronici da lui predisposti in videoscrittura il provvedimento che più si adatta al caso da decidere; – il programma provvede, poi, a fondere i dati originari, quelli elaborati dal computer ed il modello scelto dal magistrato in un provvedimento stampato in cui la precisione dei contenuti si associa ad un non trascurabile (sotto il profilo dell’immagine della giustizia) elemento di gradevolezza estetica. Le espressioni adoperate sono chiare (non si perde certo tempo a scriverle!) ed i calcoli dotati di una esattezza difficilmente raggiungibile per altra via. Il vantaggio di tale programma consiste nella precisione della determinazione della pretesa creditoria. In caso di assegnazione di una somma fissa mensile il programma è in grado di calcolare, attraverso una complessa formula finanziaria gli interessi a scalare fino all’esaurimento dell’intero debito (compresi gli accessori), la esatta durata del periodo alla fine del quale il debito potrà considerarsi estinto. Tale risultato, in una funzione di effettività del “servizio” è un elemento decisivo per evitare ulteriori controversie e contestazioni tra creditore, debitore e terzo realizzando una grande chiarezza e trasparenza, quantomai necessaria in situazioni di questo tipo. L’uso di tale provvedimento, i cui dati sono elaborati analiticamente, ha avuto un unanime riconoscimento; gli adempimenti delle varie aziende datrici di lavoro e dei relativi uffici del personale sono stati resi agevoli dal momento che dal provvedimento si ricava (senza equivoci!) la somma che essi dovranno complessivamente pagare, a chi e per un periodo di tempo esattamente determinato. In tali programmi sono state messe a punto anche delle tecniche di elaborazione automatica di frasi da parte del medesimo sistema il quale, in relazione al risultato dei calcoli eseguiti, inserisce nel provvedimento finale alcune frasi o certe altre. Si prenda il caso in cui la assegnazione del credito avvenga per una cifra (capitale, interessi rivalutazione, spese ecc...) inferiore a quella in cui il terzo si è dichiarato debitore. In tal caso il computer, sulla base di un confronto tra la cifra assegnata e quella indicata dal terzo, inserisce in un certo punto del testo del provvedimento una frase con la quale si dispone che la cifra residua (risultante dalla differenza) sia liberata a favore del debitore. Nel caso contrario, inserisce, invece, una espressione nella quale si rileva che la somma assegnata non copre l’intero debito ed il debitore rimane obbligato ancora per la differenza (indicata esplicitamente in una cifra ben precisa). Il programma per la determinazione del calcolo degli interessi e/o della rivalutazione monetaria. – Dopo molti anni di messa a punto e di utilizzo “sul campo” (pretura civile di Monza) ho realizzato e pubblicato con l’Editore Giuffrè un sistema esperto (denominato ReMIDA) che assiste il giurista nella elaborazione della rivalutazione monetaria e degli interessi. Il programma svolge le funzione di “consulente legale elettronico” capace di impostare i problemi legali e di risolverli. Le sue prestazioni simulano un colloquio tra l’utente (che ha dei problemi legali e vuole conoscere come deve essere rivalutato il suo credito) ed il giurista (che conosce le regole di diritto applicabili al caso concreto). Il suo uso, infatti, “emula” le sequenze del ragionamento mentale del giurista e guida l’utente attraverso le scelte e le soluzioni giuridiche (anche alternative e contrastanti tra loro: lascia così libero il giurista di scegliere la tesi che egli ritiene preferibile). Successivamente elabora tutti i dati fornitigli dall’utente ed, attraverso una complessa sintesi delle regole di diritto presenti nel programma, elabora i risultati e fornisce la soluzione del problema ed i relativi conteggi. L’opera è composta da un programma per personal computer (IBM compatibile) e da una monografia di 250 pagine divisa in tre sezioni (sezione dottrinale, sezione giurisprudenziale e sezione manuale di istruzione). Il programma permette al giurista o all’operatore economico, attraverso il semplice inserimento delle date iniziali e finali, di calcolare la rivalutazione monetaria secondo gli indici dell’ISTAT (quelli cosiddetti del costo della vita) oppure, a scelta dell’utente, secondo quelli diversi della scala mobile (per i crediti di lavoro: art. 150 disp. att. c.p.c.). Il programma esegue anche il calcolo a scalare degli interessi e rivalutazione tenendo conto di eventuali pagamenti parziali del debitore e di eventuali altre somme maturate nel frattempo (per le imputazioni vengono applicate le regole del codice civile: art. 1193). Il programma è in grado di calcolare, senza alcun intervento dell’utente, il saggio legale degli interessi distinguendo automaticamente il periodo da calcolare al 5% (fino al 15-12-1990) da quello successivo al 10% (legge 26 novembre 1990 n. 353) ovvero, sempre automaticamente, il tasso prime-rate A.B.I., il tasso ufficiale di sconto, lo speciale tasso di differimento per mora nei crediti previdenziali nonché quello per il calcolo della mora nei pagamenti delle opere pubbliche. I conteggi sono eseguiti applicando per ciascuna frazione di tempo il tasso storicamente in vigore in quel periodo (aumentato o diminuito di n punti a scelta dell’utente). Gli interessi possono, poi, essere calcolati sulla cifra capitale ovvero su quella rivalutata interamente (Cass. Sez. Un. 6-9-90 n. 9205) oppure via via rivalutata (Cass. 20-6-90 n. 6209), potendosi applicare in alternativa tutte le varie soluzioni elaborate dalla giurisprudenza. È possibile anche il calcolo anatocistico (la capitalizzazione trimestrale con tassi variabili: prime rate e tasso ufficiale sconto). Una operazione di calcolo di interessi e rivalutazione con due o tre versamenti parziali che, in genere occupa, manualmente, per il giudice dell’esecuzione un tempo di circa 15-20 minuti, viene eseguito in 2 minuti, con la stampa completa (o sintetica) di tutti i passaggi e la indicazione degli indici ISTAT via via applicati. Il risparmio di tempo è nell’ordine del 500-700% e la qualità del risultato non è neppure lontanamente paragonabile con quello eseguito manualmente. L’utilizzatore può inserire direttamente i nuovi indici ISTAT mensili ed i tassi speciali dell’anno in corso. Per gli anni successivi i nuovi indici ISTAT possono essere variati solo attraverso l’edizione di aggiornamento pubblicata annualmente dell’Editore. Il programma viene utilizzato correntemente da diversi magistrati ai quali è stato concesso in uso gratuito in una versione b-test, personalizzata con il proprio nome (ossia completa e con il solo onere di segnalarne eventuali difficoltà di utilizzo, potenziali miglioramenti, lacune od errori). 8. Le modifiche al processo esecutivo introdotte dalla riforma Il limitato intervento del legislatore ha toccato solo alcuni istituti. La conversione del pignoramento (art. 495 c.p.c.), l’ampliamento della piccola espropriazione mobiliare (art. 525), la conversione del sequestro conservativo in pignoramento e la disciplina dei compensi degli Istituti delle vendite giudiziarie. Della conversione del pignoramento abbiamo già trattato sopra. La opportuna imposizione del previo versamento di un quinto del precetto a pena di inammissibilità appare in linea con l’esperienza che era stata collaudata presso molte preture italiane (la cui legittimità era stata finalmente – ma troppo tardi – confermata da Cass. Sez. Un. 19-7-1990 n. 7378). Va, invece, decisamente disapprovata la eliminazione della conversione rateizzata che aveva dato buona prova in tutti quei casi in cui l’ufficio del giudice dell’esecuzione avesse attentamente curato l’aspetto organizzativo gestionale dell’istituto processuale. Inoltre appare del tutto fuor di luogo la previsione di un maneggio di denaro da parte del cancelliere; la poca avvedutezza della norma può essere rimediata attraverso un ordine di servizio del capo dell’ufficio giudiziario che disciplini la modalità di versamento da parte del debitore disponendo che il cancelliere, in via ordinaria, accetti solo ricevute di versamento effettuato direttamente sull’istituto bancario designato dal giudice e che la ricezione delle somme possa avvenire solo in ipotesi esplicitamente previste (es. chiusura o scioperi delle banche). La rivitalizzazione dell’istituto della piccola espropriazione mobiliare (ora ricollegata ad un valore del compendio pignorato non superiore a 10 milioni di lire) è destinata ad accelerare buona parte delle espropriazioni mobiliari ed al contempo a realizzare una compressione del concorso tra i creditori. La circostanza che il termine ultimo per l’intervento coincida con la presentazione della istanza di vendita rende, di fatto, impossibile per gli altri creditori non pignoranti l’intervento tempestivo nel processo. Anche i pignoramenti successivi sui medesimi beni sono equiparati ad interventi tardivi con pregiudizio della par condicio. Sorgerà il problema dei criteri di valutazione del valore dei beni da parte dell’ufficiale giudiziario procedente e dei mezzi giuridici per la loro contestazione. Su tali problematiche si prospetta, quindi, il rimedio della opposizione agli atti esecutivi, con un indubbio appesantimento di un processo che si voleva, invece, più agile. Nelle disposizioni di attuazione al c.p.c. che sono state modificate dalla riforma del 1990 vi è l’art. 159. Tale modifica ufficialmente è volta a “razionalizzare” i criteri di determinazione dei compensi da attribuire agli Istituti delle vendite giudiziarie. Le società che gestiscono tali istituti si sono, difatti spesso lamentate della eccessiva varietà dei criteri seguiti dai giudici dell’esecuzione nell’adeguamento della misura dei compensi fissati col regolamento ministeriale del 1960. Tale disparità di trattamento impedirebbe loro di informatizzare il servizio che non potrebbe adeguatamente tener dietro a tabelle di liquidazione (troppo numerose) fissate da ciascun giudice dell’esecuzione in base a criteri che non hanno il pregio della uniformità. La modifica appare, nei suoi fini istituzionali, da condividersi, fermo rimanendo il potere di liquidazione del giudice dell’esecuzione per le prestazioni effettivamente svolte dall’istituto. 9. Conclusioni Occorre che sulle metodologie gestionali del processo venga intrapresa, sia dal Consiglio Superiore della Magistratura che dal Ministero di Grazia e Giustizia, un’adeguata opera di promozione, informazione e formazione: l’informazione sulle moderne tecnologie sia organizzative che strumentali deve diventare prioritaria per la modernizzazione (assolutamente indispensabile) dell’apparato giudiziario. In tale ottica avevamo già tentato di parlare di metodologie aziendali nella Commissione “Azienda giustizia” presieduta dal Presidente Beria di Argentine (in occasione della Conferenza Nazionale della Giustizia nel lontano novembre del 1986) e della quale mi onoro di aver fatto parte. Ricordo che allora non fummo ben capiti. Spero che si cominci a riparlarne per introdurre nel processo civile, finalmente, quegli elementi di funzionalità organizzativa, senza i quali ogni opzione ideologica relativa alla struttura del processo civile è destinata al fallimento. *** Allegati: quattro flow-chart illlustrative della sequenza delle operazioni del processo esecutivo. PROBLEMI IN TEMA DI COMPETENZA E DI SCELTA DEL RITO NEL PROCEDIMENTO LOCATIZIO E NEL PROCEDIMENTO DI CONVALIDA DOPO LA LEGGE 353/90 Relatore: dott. Marco MARULLI pretore della Pretura circondariale di Bologna SOMMARIO: 1. Il contenzioso delle locazioni e la novella del processo civile. Note preliminari. – 2. Competenza e rito nel “sistema” processuale delle locazioni. – 3.1. La competenza per materia nella previsione dell’art. 8, secondo comma, n. 3, c.p.c. – 3.2. Il concetto di “causa” in relazione all’opposizione a decreto ingiuntivo, all’opposizione tardiva alla convalida, all’opposizione di terzo ... – 3.3. ... in relazione alle opposizioni all’esecuzione ... – 3.4. ... e in relazione alle controversie in tema di assegnazione di alloggi di edilizia residenziale pubblica. – 4.1. La specie dei “rapporti di locazione ... di immobili urbani” e i suoi limiti. – 4.2. La nozione di immobile urbano. – 4.3. Profili della competenza in ordine alle controversie inerenti beni mobili ed immobili extraurbani. – 4.4. Le controversie locatizie. – 4.5. Ancora sulle controversie in tema di assegnazione di edilizia residenziale pubblica. Le ipotesi della revoca e dell’occupazione sine titulo. – 4.6. Le controversie in tema di assegnazione in favore di soci di cooperativa. – 5. La specie dei “rapporti di comodato” e la questione della tassatività. – 6.1. Fase sommaria e cognizione piena del giudizio di locazione tra luci ed ombre dell’art. 667. – 6.2. Presupposti dell’ordinanza ed evoluzione della controversia al giudice competente. – 6.3. Casi di applicazione. – 6.4. Contenuto dell’ordinanza. – 6.5. Domande riconvenzionali. 1. Il contenzioso delle locazioni e la novella del processo civile. Note preliminari Con la novellazione dell’art. 8, secondo comma, n. 3, c.p.c. e con l’introduzione dell’art. 447bis c.p.c., nonché con alcune altre norme minori, il legislatore ha colto l’occasione della riforma a largo raggio del processo civile realizzata dalla l. 26 novembre 1990 n. 353 per porre mano anche ad una non secondaria riforma del contenzioso in materia di locazioni. L’accusa di “insipienza tecnica” (1), levatasi con ragione contro le disposizioni processuali della l. 27 luglio 1978, n. 392, specie laddove esse si erano risolte nel mettere capo ad un’“irrazionale frammentazione” dei riti e delle competenze in materia, non meno della preoccupazione manifestatasi da più parti per le inevitabili distorsioni processuali indotte dal ricorso, talora inevitabile, all’istituto della sospensione per pregiudizialità (2), avevano infatti già da tempo contribuito a rendere evidente, insieme alle crescenti difficoltà della pratica, l’urgenza di una rimeditazione in sede legislativa dei nodi fondamentali del processo locatizio. L’auspicio de jure condendo, attorno al quale, in nome di una preliminare richiesta di chiarezza, era andato perciò raccogliendosi un esteso consenso in dottrina (3), e che aveva registrato fin dai primi passi della riforma la convinta adesione del governo (4), ha ora trovato una prima, incisiva risposta nelle disposizioni che la novella del ’90 espressamente dedica a questo importante settore del contenzioso civile. Le linee portanti dell’intervento riformatore, malgrado il silenzio al riguardo dei lavori preparatori – quasi ad indiretta testimonianza di quanto la sua necessità fosse sedimentata nella coscienza dei conditores – a chi abbia cura di gettare uno sguardo d’assieme sui suoi contenuti, appaiono fin da subito di immediata percezione, avendo invero il legislatore mostrato di puntare con decisione al cuore delle principali questioni che si ponevano in argomento (5). Da un lato, perciò, nel solco di una tendenza che si era già preannunciata con l’approvazione dell’art. 6 l. 30 luglio 1984, n. 399 (6) – e che in pratica aveva decretato la fine della giurisdizione del conciliatore in materia di locazioni – si è infatti impresso rinnovato vigore al processo di concentrazione in capo al pretore di tutto il contenzioso locatizio in tema di immobili, con ciò, di fatto, rimuovendo alla radice il presupposto stesso di quelle speciose questione in tema di riparto delle competenze tra tribunale e pretura, che da sempre avevano costituito il punctum dolens della disciplina previgente e che, com’è noto, toccavano talora drammaticamente punte di particolare acutezza allorché il conduttore, convenuto per morosità, nell’opporsi al rilascio, era solito chiedere riconvenzionalmente che fosse accertata la legalità del canone (7). Parimenti, ma in senso opposto, ed anche qui, per vero, nel solco di una felice intuizione che già aveva consentito di sperimentarne favorevolmente la naturale vis expansiva in rapporto al carattere di massa di talune controversie (8), si è poi mirato a dare sbocco alle esigenze di razionalizzazione che il sistema, con altrettanta forza, reclamava anche in punto di rito, in questa guisa risultando appunto perfettamente funzionale la scelta di generalizzare il rito del lavoro quale rito tipico del giudizio di locazione. Peraltro la tecnica della novellazione, adottata nella circostanza, se appare innegabilmente più rispondente alle finalità di urgenza asseritamente perseguite dal provvedimento, impone d’altro canto, con riguardo all’effetto di naturale interpolazione, che n’è normativamente il risvolto pratico di maggior portata, di misurare l’impatto di questi principi su un corpus normativo estremamente vitale, quale, pur tra incongruenze di ogni sorta, doveva comunque giudicarsi il previgente ordinamento processuale delle locazioni. Ora, non è ovviamente qui il caso di indagare nei dettagli quale fosse l’assetto di questo sistema al momento dell’entrata in vigore della l. 353/90 (9). Basterà, piuttosto, osservare come, rispetto a questo sistema – ovvero, come meglio si è detto, rispetto a questo “schema dei riti e delle competenze” – la riforma del ’90 appaia aver prodotto un triplice ordine di conseguenze. Perché, invero, accanto agli aspetti più propriamente innovativi, non possono esserne infatti taciuti, nella prospettiva di una valutazione intesa a coglierne la rilevanza sistematica, anche quelli che si risolvono, in modo solo apparentemente più modesto, in un effetto meramente abrogativo ovvero di pura conservazione del tessuto normativo preesistente. In breve, quel che deve essere fin d’ora chiaro è che il legislatore, per quanto nei limiti imposti dalla natura dell’intervento realizzato nell’occasione, e sia pure attraverso poche norme, non ha voluto tuttavia minimamente sottrarsi al compito di imprimere dignità e valenze sistematiche al processo delle locazioni; e, dunque, in questa consapevolezza, sarebbe errore interpretativo indubbiamente grave, perdere di vista la dimensione sostanzialmente unitaria del disegno riformatore in materia o, peggio, ignorare la ratio comune che fa da guida alle singole innovazioni e che, almeno in linea di principio, non mancando affatto le aporie, com’è naturale, permette di identificare, nel reticolo delle loro possibili relazioni, la volontà inconfondibile di dar vita ad un autonomo “sistema” processuale delle locazioni. È innegabile, cioè, che, di primo acchito, si sarà quindi istintivamente portati a mettere l’accento sulla riformulazione dell’art. 8, secondo comma, n. 3 e sulla previsione dell’art. 447-bis, giacché in essi si compendiano, com’è chiaro, i tratti salienti della novella, l’uno dando attuazione al principio tendenziale del giudice unico delle locazioni, l’altro promuovendo l’omologazione, altrettanto tendenziale, del processo locatizio al processo del lavoro. Ma in questa cornice non risulteranno certamente meno significative, tanto da poter essere passate sotto silenzio, da un lato, la sopravvivenza che si è inteso assicurare al procedimento speciale di convalida, rimasto immutato nelle sue linee essenziali, ma rivisto, anche qui riformulando l’art. 667 c.p.c., nel momento decisivo del raccordo col procedimento ordinario, del quale, in relazione a talune possibili vicende del rapporto di locazione, continua comunque a costituire per celerità e snellezza lo sbocco processuale più adeguato; dall’altro, l’abrogazione, a naturale coronamento di un’opera di generale riordino normativo, per mezzo del suo art. 89, delle disposizioni processuali della l. 392/78 e dell’art. 12, comma secondo, c.p.c.. Sicché si può ben dire che l’ordinamento del processo locatizio, per come emerge dalla novella processuale del ’90, viene ora a poggiare su due norme fondamentali (artt. 8. secondo comma, n. 3 e 447-bis), regolanti rispettivamente la competenza ed il rito, e su una disposizione di raccordo tra fase sommaria e fase ordinaria della cognizione (art. 667), alle quali si affiancano, in funzione di garanzia della sua completezza, le norme di abrogazione (art. 89) (10). Su alcune di queste disposizione e, principalmente sulle questioni che solleva la nuova lettera dell’art. 8, secondo comma, n. 3, nonché sulla disciplina del passaggio dal procedimento di convalida al giudizio ordinario, s’incentrerà l’indagine che cercherò di svolgere nei paragrafi successivi. 2. Competenza e rito nel “sistema” processuale delle locazioni Prima di procedere oltre, due precisazione mi sembrano ancora necessarie. Si è detto, infatti, a proposito degli artt. 8, secondo comma, n. 3 e 447-bis, che il giudizio locatizio, a seguito della novella, è ora organizzato in base a due norme fondamentali. L’affermazione, lungi dal dover esser qui rettificata, merita tuttavia, ad un più attento esame, di esser meglio ponderata, poiché il raffronto testuale tra le due disposizioni (art. 8, secondo comma, n. 3: “Il pretore ... è competente ... per le cause relative a rapporti di locazione e di comodato di immobili urbani e per quelle di affitto di azienda, in quanto non siano di competenza delle sezioni specializzate agrarie”; art. 447-bis, primo comma: “le controversie di cui all’articolo 8, secondo comma, numero 3 sono disciplinate ...”) mette subito in chiaro che, se si eccettuano le norme integrative contenute negli altri commi, il primo comma dell’art. 447-bis, che è quello che qui ci interessa, è privo di un contenuto precettivo suo proprio. Questo, è ovvio, non vale a svuotare di importanza la funzione che la norma adempie nella concreta economia del giudizio locatizio. È però vero che la norma non si limita solo a richiamare alcune disposizioni del rito del lavoro, ma definisce per relationem anche il campo delle controversie in cui quel richiamo è destinato a rivelarsi efficace. Essa, in pratica, agisce quasi fosse il vertice di un’immaginaria triangolazione, che consente agli altri due estremi, costituiti rispettivamente dal rito del lavoro e dal contenzioso delle locazioni, di entrare in relazione tra loro ovvero, più propriamente, al primo di estendersi al secondo e al secondo di divenire soggetto al primo. In questo modo, è sì eliminato ogni problema interpretativo, giacché non si danno altre controversie in materia, cui applicare il rito speciale, oltre quelle indicate nell’art. 8, secondo comma, n. 3, ma si consegue pure il risultato di ridurre ogni questione di rito ad una questione di competenza, nel senso, cioè, che se le controversie soggette al rito speciale sono solo quelle previste dall’art. 8, secondo comma, n. 3, queste, a ben vedere, sono solo quelle di competenza del pretore. Donde, un primo postulato, e cioè che tutte le controversie in materia di locazione, di comodato e di affitto di competenza del pretore sono soggette all’adozione del rito speciale. Quanto appena detto aiuta ad introdurre pure la seconda precisazione. Anche qui può essere utile muovere da un dato testuale. Infatti, se si raffronta la disposizione dell’art. 8, secondo comma, n. 3, dettata evidentemente per il giudizio di locazione che ha luogo in sede di cognizione ordinaria, con quelle che regolano il medesimo giudizio, ma in sede di cognizione sommaria (artt. 657-658), ossia colle norme sul procedimento di convalida, nessuno pare in grado di poter negare che, al di là di un’iniziale convergenza, tra l’una e le altre disposizioni vi è in realtà più di una discrepanza (11). E, ciò, perché, malgrado si fosse proceduto a riformare il giudizio ordinario, non si è ritenuto di dover pure intervenire su quello che si svolge nelle forme speciali del libro quarto, sicché, fatto salvo il raccordo operato dall’art. 667, manca, in pratica, ogni coordinamento normativo tra procedimento ordinario e procedimento speciale. Questo significa che, rispetto al fascio di controversie astrattamente riconducibili alla previsione dell’art. 8, secondo comma, n. 3, il procedimento di convalida, da un lato, mostra di aver una portata decisamente più ampia, risultando esso applicabile a rapporti, per i quali, già a prima vista, si può certamente escludere che rientrino tra quelli previsti dall’art. 8, secondo comma, n. 3, mentre, dall’altro, ha una portata, altrettanto decisamente, più ristretta, giacché con la convalida si può agire solo per far dichiarare la cessazione degli effetti legali del contratto ovvero la morosità del conduttore. Ora, se si considera che, almeno per effetto dell’opposizione dell’intimato, il procedimento di convalida si trasforma in un ordinario giudizio contenzioso e che, per converso, non vi è una coincidenza assoluta tra le controversie suscettibili di essere definite in sede di procedimento speciale e le controversie rientranti nella previsione dell’art. 8, secondo comma, n. 3, la conclusione che si può trarre è che non tutte le controversie introdotte col procedimento di convalida, come tali di competenza del pretore ai sensi dell’art. 661, appartengono pure alla competenza del pretore, una volta che si trasformino in ordinario giudizio di cognizione. Il che, per quanto visto sopra, è, come dire venendo così a formalizzare un secondo postulato – che non tutte le controversie introdotte col procedimento di convalida, quando si debba far seguito alla loro trattazione in sede ordinaria, sono soggette ad essere trattate e decise col rito speciale dell’art. 447-bis. Con ciò, che consente anche di affermare che le controversie in materia di locazione, di comodato e di affitto soggiacciono all’applicazione del rito speciale, solo se siano di competenza del pretore in sede di ordinaria cognizione, l’indagine può senz’altro proseguire oltre. 3.1. La competenza per materia nella previsione dell’art. 8, secondo comma, n. 3, c.p.c. La ricerca che mi accingo a compiere non può prendere le mosse che dalla sua naturale sedes materiae ossia dall’art. 8, secondo comma, n. 3. Recita la norma, come visto, che “il pretore ... è competente qualunque ne sia il valore ... per le cause relative a rapporti di locazione e di comodato di immobili urbani e per quelle di affitto di aziende, in quanto non siano di competenza delle sezioni specializzate agrarie.” Attenendosi al principio informatore dell’individuazione del pretore quale giudice unico delle locazioni, la norma ne ha, dunque, inteso promuovere l’attuazione, organizzando la competenza in materia del pretore – secondo peraltro una precisa indicazione di fonte dottrinale (12) – per gruppi omogenei di rapporti piuttosto che per singoli gruppi di controversie, richiamando cioè, come si è notato, “tutte le controversie inerenti ad un determinato rapporto e non soltanto controversie ‘tipiche’ ” (13). 3.2. Il concetto di “causa” in relazione all’opposizione a decreto ingiuntivo, all’opposizione tardiva alla convalida, all’opposizione di terzo ... Prima però di vedere quali importanti ricadute conseguano sul piano del petitum dall’adozione di questo criterio, è doveroso chiedersi, proprio traendo spunto dalla sua lettera iniziale, a quali “cause” del variegato pianeta del contenzioso locatizio l’art. 8, secondo comma, n. 3 abbia voluto riferirsi. La domanda, solo in apparenza, può giudicarsi oziosa. È, infatti, evidente, per intuitive ragioni, che la norma alluda al processo di ordinaria cognizione del libro secondo del codice, e, cioè, a quel processo che, in conformità al rito speciale ad esso applicabile, si introduce ordinariamente avanti al pretore con ricorso. Ma se si fa tanto da allargare lo sguardo oltre lo steccato del libro secondo ovvero, anche restando nello stesso libro secondo, oltre la specie dell’ordinario giudizio di cognizione, non è difficile rinvenire talune fattispecie procedimentali, che, ancorché innegabilmente di competenza pretorile quando la res judicanda in esse dedotta attenga alla materia locatizia, soggiacciono tuttavia alla regola della loro introduzione con citazione. Si pensi, tanto per fare qualche esempio, tra i più ovvi, all’opposizione a decreto ingiuntivo, per il quale l’art. 645, primo comma, stabilisce che si proponga “avanti all’ufficio giudiziario al quale appartiene il giudice che ha emesso il decreto, con atto di citazione ...”; oppure all’opposizione tardiva alla convalida dell’art. 668, il cui terzo comma rimanda alle “forme prescritte per l’opposizione al decreto di ingiunzione”; o ancora all’opposizione di terzo ordinaria, che alla stregua del secondo comma dell’art. 405, ove si prevede che “la citazione deve contenere ...”, è indubbio che debba essere introdotta in questo modo. Qui, pare chiaro, la domanda che ho posto, ha tutt’altra consistenza, se nel richiamo all’atto di citazione, come si potrebbe supporre, è da vedersi un implicito rinvio al rito della cognizione ordinaria, di cui l’atto di citazione è per l’appunto la peculiare forma di introduzione, e se, soprattutto, come è largamente noto, le norme sul rito, diversamente da quelle sulla competenza, sono norme sul procedimento, come tali destinate a riflettersi sul contenuto della decisione di merito (14). È, peraltro, vero che in rapporto a queste fattispecie sarebbe più corretto parlare di un problema di rito che non di competenza. Ma se, come abbiamo visto a proposito della relazione tra l’art. 8, secondo comma, n. 3 e l’art. 447-bis, si conviene sul fatto che nella norma che devolve al pretore la competenza in questa materia è indirettamente racchiusa anche una statuizione sul rito, ecco allora che la locuzione di “causa”, di cui si legge nell’art. 8, secondo comma, n. 3 si colora naturalmente anche di un altro significato, rilevante non solo sul terreno della competenza. E dunque, tornando a chiedersi se anche queste cause, nonostante sia per esse stabilita la forma della citazione, debbano invece introdursi, in quanto di competenza per materia del pretore, con ricorso, un primo indizio di risposta va certamente scorto in quanto si è appena finito di dire, vero, in altre parole, che se la controversia è devoluta alla cognizione del pretore per ragioni di materia, necessariamente la sua trattazione deve aver luogo col rito ordinariamente applicabile per quelle controversie ossia, trattandosi di controversia in materia di locazione, con il rito speciale previsto dall’art. 447-bis. E se anche in ciò si volesse ravvisare solo un’opzione di carattere generale, come tale inidonea a contrastare il difforme tenore letterale delle norme richiamate, di certo più sicuri elementi di giudizio in questa direzione si possono ravvisare, almeno per quel che concerne l’opposizione a decreto ingiuntivo e, di riflesso, l’opposizione tardiva alla convalida, su un piano esegetico, nello stesso art. 645, il cui secondo comma, precisando che “in seguito all’opposizione il giudizio si svolge secondo le norme del procedimento ordinario davanti al giudice adito”, non lascia infatti margini di dubbio sul fatto che tra le norme procedimentali siano ricomprese anche quelle che regolano la forma dell’atto introduttivo (15); e su un piano sistematico nel fatto, altrettanto indiscusso, in dottrina e giurisprudenza (16), che nell’affine settore delle controversie in materia di lavoro, l’opposizione a decreto ingiuntivo, benché nulla si disponga in proposito dalle norme sul procedimento d’ingiunzione, è comunque pur sempre soggetta all’osservanza del rito speciale e all’adozione del ricorso quale forma introduttiva. Non diverse sembrano poi le considerazioni (17) che suscita l’opposizione ordinaria di terzo, posto che, se sul piano sistematico, pur in difetto di precedenti giurisprudenziali specifici, l’obbligatorietà del ricorso in materia di controversie del lavoro trova praticamente concorde la dottrina (18), sul piano normativo va senz’altro escluso che l’inciso conclusivo dell’art. 406 (“... in quanto non derogate dal presente capo”) valga a far salvo, anche ai fini del successivo svolgimento del giudizio, il richiamo alla forma della citazione contenuto nel secondo comma dell’art. 405; e ciò, intanto, perché sia lo stesso art. 406 sia il primo comma dell’art. 405 risultano del tutto univoci nell’affermare che l’opposizione si propone e si svolge in conformità alle norme che regolano il procedimento davanti al giudice adito, e poi perché il detto inciso è, per evidenti ragioni funzionali e di collocazione, essenzialmente riferibile alle disposizioni, effettivamente derogatorie, degli artt. 407 e 408. Conclusione, questa, che con riguardo all’opposizione di terzo, è inoltre rafforzata sotto un profilo razionale anche dalla considerazione che, se presupposto imprescindibile di essa è, come si legge in giurisprudenza (19), “la sussistenza in capo all’opponente di un diritto autonomo incompatibile con la situazione giuridica accertata e costituita dalla sentenza”, non si può consentire al terzo – che certo potrebbe agire a tutela di quel diritto in via ordinaria e che in quella guisa dovrebbe dar forma alla propria pretesa unicamente con ricorso – di sottrarsi in via straordinaria, legittimandone appunto la domanda a mezzo di citazione, a quel più intenso sbarramento preclusivo che ancora adesso, come si riconosce (20), può derivare alla domanda dal dover essere proposta con ricorso piuttosto che con citazione. 3.3. ... in relazione alle opposizioni all’esecuzione ... Qualche problema in più lo stesso quesito è invece destinato a sollevare, sempre in relazione a fattispecie procedimentali di estrazione codicistica, in tema di opposizione all’esecuzione. Invero, prim’ancora che un problema di rito qui si configura diversamente dalle ipotesi esaminate in precedenza, pure una questione di competenza, tanto che taluno, rilevando la mancanza per le opposizioni all’esecuzione in materia locatizia di una disposizione analoga a quella che l’art. 618-bis, espressamente dedica alle corrispondenti opposizioni in materia di lavoro e di previdenza ed assistenza obbligatorie, si è sentito in obbligo di negare che nella competenza per materia del pretore di cui all’art. 8, secondo comma, n. 3 possano farsi rientrare “le opposizioni a precetto con le quali il conduttore contesti il diritto del locatore a procedere ad esecuzione” (21). La tesi – oltre ad essere foriera di un non lieve problema interpretativo, laddove si risolve nel riaffermare pure una competenza per valore del giudice dell’opposizione, ancorché l’art. 12, secondo comma, che questo profilo più generalmente disciplinava, sia stato abrogato (22) – è tuttavia scarsamente persuasiva. Intanto, è seriamente discutibile che l’argomento tratto dall’art. 618-bis, quantunque di forte impatto, specie se raffrontato all’assoluto silenzio del legislatore della novella, sia univocamente valutabile nel senso qui adombrato. Un esame (23), anche in breve, dei lavori preparatori porta infatti a concludere come l’art. 618-bis non è stato precipuamente concepito per colmare un vuoto normativo che andava profilandosi in sede di opposizione all’esecuzione a seguito della previsione in sede ordinaria di una competenza esclusiva per materia del pretore. Del resto, a conferma di questo rilievo, si può aggiungere che l’utilità pratica della previsione era parsa piuttosto dubbia anche ai suoi primi commentatori (24), dato che alla determinazione della competenza in materia del pretore in funzione di giudice del lavoro si sarebbe potuti ragionevolmente pervenire anche in applicazione delle norme di diritto comune. È non meno significativo è in questo senso il fatto che, in materia di controversie agrarie, la mancanza di ogni richiamo all’art. 618-bis non abbia minimamente impedito di ritenere che le opposizioni all’esecuzione per rilascio di fondo rustico spettino comunque alla competenza delle sezioni specializzate agrarie (25). Piuttosto, proprio facendo tesoro di questi rilievi, non sarà forse superfluo sottolineare, a conforto della devoluzione al pretore ex art. 8, secondo comma, n. 3 anche di queste controversie, come l’art. 615, primo comma, preveda che l’opposizione a precetto, prima che sia iniziata l’esecuzione, debba essere proposta “davanti al giudice competente per materia o valore e per territorio a norma dell’art. 27”. Ora se, come pare, fatta salva la riserva prevista per quella per territorio, la competenza negli altri casi deve determinarsi in base ai principi ordinari (26) e se, d’altro canto, la competenza del pretore in materia locatizia è stabilita dall’art. 8, secondo comma, n. 3, qualunque sia il valore della controversia, non si vede perché, visto pure il richiamo fattovi dall’art. 615, primo comma in alternativa a quello del valore, un analogo criterio di determinazione della competenza, unicamente, cioè, per ragioni di materia, non debba valere anche in sede di opposizione al precetto (27). Né è poi trascurabile, sotto una diversa angolazione, l’intervenuta abrogazione, a mente del primo comma dell’art. 89 l. 353/90, dell’art. 12, secondo comma. È vero che si è rimproverato al legislatore di essere stato al riguardo troppo affrettato (28), ma il valore indiziario di questa abrogazione, in quanto espressiva dell’intendimento del legislatore di rafforzare, anche per questa via, e cioè attraverso l’abrogazione di ogni competenza per valore in materia, la scelta compiuta con l’art. 8, secondo comma, n. 3, è in ogni caso fuori discussione e non sembra che se ne possa perciò negare a priori ogni significato nella ricerca di una soluzione per quegli aspetti problematici ove la determinazione della competenza sia quanto meno dubbia. Fin qui, dunque, l’opposizione a precetto ai sensi dell’art. 615, primo comma. Circa le altre opposizioni all’esecuzione, è da credere che esse, invece, in mancanza di una norma di raccordo come quella dell’art. 618-bis, continueranno invece ad essere regolate dalle norme ordinarie. Ciò, sintetizzando, vale a dire, quanto alle opposizioni dell’art. 615, secondo comma, che esse si proporranno con ricorso al giudice dell’esecuzione, con la conseguenza che, se giudice dell’esecuzione, ai sensi dell’art. 16, primo comma, è il pretore, il pretore, ai sensi dell’art. 616, prima parte, sarà pure competente per il merito in forza della riserva di competenza dell’art. 8, secondo comma, n. 3, e, quindi, previa ordinanza di mutamento del rito ai sensi dell’art. 426, tratterà la causa e provvederà alla sua decisione in conformità alle norme del rito speciale. Se invece il giudice dell’esecuzione, ai sensi dell’art. 16, secondo comma, è da identificarsi nel tribunale, questo, non essendo competente per il merito per quanto disposto dall’art. 8, secondo comma, n. 3, dovrà rimettere le parti avanti al pretore competente, pronunciando all’uopo ordinanza e assegnando un termine perentorio per la riassunzione a mente dell’art. 616, seconda parte. Quanto poi alle opposizioni agli atti esecutivi, tanto quelle di cui al primo comma che quelle di cui al secondo comma dell’art. 617, andranno proposte al giudice dell’esecuzione, le prime con citazione e le seconde con ricorso e saranno soggette, per ciò che attiene ai successivi svolgimenti processuali, alla disciplina dell’art. 618. 3.4. ... e in relazione alle controversie in tema di assegnazione di alloggi di edilizia residenziale pubblica Sempre nel quadro di queste riflessioni sulla nozione di causa accolta dall’art. 8, secondo comma, n. 3, ci si può infine chiedere se le norme del rito speciale debbano osservarsi anche in relazione a talune controversie in tema di assegnazione di alloggi di edilizia residenziale pubblica (29). Dico talune, perché, a stretto rigore, di fronte dell’esercizio dei poteri autoritativi consentiti dal d.p.r. 30 dicembre 1972, n. 1035, – ed ora dalla legislazione regionale adottata a seguito del d.p.r. 616/77 – è solo l’art. 11, tredicesimo comma a legittimare l’interessato nell’ipotesi di decadenza dall’assegnazione, all’opposizione avanti al pretore, mentre, malgrado regolino rispettivamente le ipotesi affini dell’annullamento e della revoca dell’assegnazione e del rilascio decretato a carico dell’occupante senza titolo, nulla dispongono in proposito i successivi artt. 16, 17 e 18 del citato d.p.r., che dell’art. 11 si limitano infatti a richiamare solo il dodicesimo comma, concernente l’efficacia esecutiva del provvedimento adottato. Ciononostante, che un’analoga forma di reazione sia consentita anche in queste ipotesi è un fatto assolutamente pacifico. E di esso, la prima a rendersene conto è certamente la giurisprudenza, tanto quella ordinaria che quella amministrativa, entrambe per vero concordi nel distinguere, nel complesso rapporto inerente l’assegnazione di alloggi di edilizia residenziale pubblica, tra una prima fase di natura eminentemente pubblicistica costituita dal procedimento amministrativo ed una seconda fase avente connotazioni privatistiche concernente l’esecuzione dell’assegnazione (30). È però altrettanto incontrovertibile che l’unità di intenti che in principio si realizza su questo punto si spezzi poi immediatamente all’atto pratico, poiché, se su queste basi si registra pure una sostanziale convergenza di vedute nell’espungere dall’area della tutelabilità avanti al giudice ordinario l’opposizione al provvedimento di annullamento (31) – mentre vi dovrebbe rientrare l’opposizione al provvedimento che intima il rilascio all’occupante senza titolo (32) – giudici ordinari e giudici amministrativi sono invece divisi da un aspro contrasto di giurisdizione quanto alla residua ipotesi della revoca (33). Cercando allora di tirare le fila di questo discoroso, se si tralascia per il momento l’esame delle ipotesi dell’occupazione sine titulo e, se si riconosca la giurisdizione del giudice ordinario, della revoca – che sollevano in parte problemi diversi e sulle quali avremo occasione di tornare in seguito – è evidente che l’interrogativo premesso possa prendere legittimamente corpo soltanto in relazione all’ipotesi della decadenza dell’assegnazione, giacché, come visto, solo in questa ipotesi il tredicesimo comma dell’art. 11 prevede la competenza del pretore. Se è così, la risposta, nel senso della piena applicabilità alla specie del rito speciale, è presto data. E ciò non già perché il relativo giudizio, ancora a mente dall’art. 11 tredicesimo comma, debba essere introdotto con ricorso piuttosto che con citazione, vero che se un tale rilievo non era in grado di autorizzare alcuna deduzione in punto di rito sotto il vigore del regime processuale antenovellare, men che meno lo potrà essere adesso, ove il ricorso si ammanta di una funzione identificativa del rito. Deve invece aversi riguardo, in questa direzione, al fatto, esplicitamente avallato da quanto poc’anzi ricordato a proposito della complessità del procedimento di assegnazione, che all’adozione del relativo provvedimento segue la stipulazione con l’assegnatario di un contratto di locazione e che il diritto che quest’ultimo quindi matura in ordine al godimento dell’alloggio in nulla differisce da quello di un qualsiasi conduttore. È perciò perfettamente ragionevole che, se il rapporto che consegue all’assegnazione dell’alloggio è riconducibile allo schema della locazione conduzione, nell’ipotesi considerata, non solo l’atto introduttivo del giudizio, ma l’intero suo corso debba essere regolato dalle norme del contenzioso locatizio, al pari cioè di una comune controversia in materia di locazione di beni immobili, cui siano applicabili gli artt. 8, secondo comma, n. 3 e 447-bis. 4.1. La specie dei “rapporti di locazione ... di immobili urbani” e i suoi limiti Ho già più volte avuto occasione di ricordare come alla devoluzione in favore del pretore del contenzioso locatizio concernente gli immobili la novella del ’90 sia essenzialmente pervenuta attraverso una globale riformulazione dell’art. 8, secondo comma, n. 3. Mentre, in vigenza del testo ora abrogato, la competenza ratione materiae del pretore, in armonia del resto con la previsione della sua inderogabilità da parte dell’art. 661, trovava, infatti, radicamento solo in rapporto alla fase sommaria che il giudizio locatizio poteva eventualmente conoscere a seguito dell’intimazione di licenza o di sfratto per finita locazione, il testo varato con l’art. 3 della legge 353/90 rende invece il pretore più generalmente competente “per le cause relative a rapporti di locazione ... di immobili urbani”. È questa, certo, in tema di competenza, come si è detto con espressione indubbiamente felice (34), “la più rilevante innovazione in crescendo apportata dalla legge n. 353”, della quale mi pare doveroso rimarcare qui la pregnanza sotto un duplice angolo di osservazione. Perché se, per spiegarmi, in prima approssimazione, si è indiscutibilmente indotti a soffermarsi sulla scelta di principio in favore del pretore quale giudice unico delle locazioni che in essa vi si trova rispecchiata, nondimeno, nell’allargamento della competenza pretorile, che è attestato dal raffronto tra vecchio e nuovo testo dell’art. 8, secondo comma, n. 3, non si può non vedere tutta la portata di una voluntas legis, non solo lucidamente orientata rispetto agli obiettivi di fondo del disegno riformatore, ma del pari utilmente fruibile dall’interprete quale prezioso sussidio nell’inquadramento delle singole innovazioni normative. Peraltro, pur tenendo fede a questo dettame, che mi pare imprescindibile, va detto che quella compiuta dal legislatore in questa direzione è una scelta solo tendenziale. E ciò perché la competenza del pretore in materia conosce, già a partire dalla stessa lettera dell’art. 8, secondo comma, n. 3, due importanti limitazioni, quantunque fortunatamente non incidenti sugli aspetti di precipua connotazione immobiliare che avevano in passato contribuito a rendere “caldo” il fronte del contenzioso locatizio. Stabilendo infatti che il pretore è competente, qualunque ne sia il valore, per le cause relative a rapporti di locazione concernenti beni immobili urbani, l’art. 8, secondo comma, n. 3 implicitamente sottrae alla sua cognizione le controversie locatizie riguardanti, innanzitutto, i beni mobili e, quindi, gli immobili extraurbani (35). Ora, com’è noto, la nozione di bene mobile, per quanto disposto dall’ultimo comma dell’art. 812 codice civile, si ricava pacificamente per esclusione da quella di bene immobile risultante dai primi due commi di questa norma; di modo che, quando il bene locato non sia qualificabile come immobile, la competenza del pretore andrà naturalmente esclusa, salvo, ben’inteso, che non si tratti di locazione di un’universitas rerum produttiva ovvero dell’affitto di un’azienda, giacché in tal caso la competenza del pretore tornerebbe nuovamente in vita in forza della diretta attribuzione di queste controversie da parte delll’art. 8, secondo comma, n. 3. 4.2. La nozione di immobile urbano Apparentemente più difficoltosa potrebbe rivelarsi, in ordine alla seconda limitazione, l’identificazione della categoria, altrimenti rilevante, degli immobili extraurbani, che, almeno prima facie, necessita di essere messa a fuoco sia in rapporto a quella dei fondi rustici, sia, soprattutto, in rapporto alla ricostruzione in chiave riduttiva dell’opposta categoria di immobili urbani, che, nel vigore della cessata legislazione vincolistica, era invalsa, specie in giurisprudenza. anche per effetto dell’obiettiva suggestione esercitata dal titolo premesso agli art. 1607 e segg. codice civile (36). Quanto al primo aspetto, si era, per vero, già chiarito prima della l. 392/78 (37) – e a ciò si è consapevolmente adeguata la giurisprudenza successiva (38) – che l’ubicazione fuori dall’agglomerato cittadino dell’immobile non valesse a privarlo della qualifica di “urbano”, quando la sua utilizzazione fosse risultata indipendente da un fondo rustico ossia da un terreno adibito a produzione agricola, rilevante palesandosi, in questa guisa, unicamente il criterio della sua destinazione o meno a servizio di un’attivita di natura agraria. Perciò, dovendosi tuttora aver riguardo a questo criterio, la competenza in materia del pretore, giusta il dettato dell’art. 8, secondo comma, n. 3, non potrà ritenersi derogata, laddove, nonostante l’ubicazione in ambito extracittadino del bene locato, sussistano comunque le condizioni per poterlo annoverare tra gli immobili urbani. Più recente è invece il chiarimento maturato in merito al secondo aspetto, vero che, una volta venute meno le esigenze che avevano consigliato, sul rilievo della loro eccezionalità, un’interpretazione limitativa delle norme della previgente legislazione vincolistica e che, nell’economia di questa legislazione, avevano indotto ad equiparare la nozione di immobile urbano a quella di edificio o di costruzione, non dovrebbero esservi più ostacoli a ricomprendere nella categoria degli immobili urbani – e ad estendere, perciò, alla loro locazione la competenza del pretore – non solo la “casa dell’uomo”, come si diceva un tempo, ma, più genericamente, tutti gli immobili di qualunque specie in cui si eserciti una delle attività contemplate nell’art. 27 l. 392/78, ivi comprese le aree non oggetto di edificazione o altrimenti nude (39). 4.3. Profili della competenza in ordine alle controversie inerenti beni mobili ed immobili extraurbani Va da sé, poi, che, quando, in sorte del carattere mobiliare della locazione ovvero della sua inerenza ad un immobile extraurbano, vengano meno le ragioni per conservare al pretore la cognizione delle relative controversie, la competenza debba essere determinata nei modi ordinari, sempreché, naturalmente, per gli immobili extraurbani, non debba riconoscersi la competenza delle sezioni specializzate agrarie, vista la riserva che all’uopo figura formulata in chiusa dello stesso art. 8, secondo comma, n. 3. Ma quid juris, in queste ipotesi, quando la competenza per valore per l’intervenuta sua abrogazione non possa essere più determinata a mente dell’art. 12, secondo comma, che espressamente era deputato a regolare questo profilo? In astratto, poiché non mi constano allo stato riscontri diversi – anche se non è inimmaginabile che la questione possa assumere concreta rilevanza, ad esempio, in ordine alla locazione di un veicolo o di un macchinario – le soluzioni possibili sono molteplici. Si può, cioè, pensare alla reviviscenza in parte qua della norma abrogata, salvo però osservare che in tal caso si verrebbe inammissibilmente a contrastare la manifesta volontà abrogatrice dalla legge (40). Ma si potrebbe pure pensare che, in luogo del criterio cessato, si renda più generalmente applicabile, ancorché non senza qualche trascurabile sforzo letterale, il primo comma dell’art. 12; ovvero, se la controversia cada su beni mobili, che la determinazione in parola potrebbe avvenire ricorrendo analogicamente al criterio dettato dall’art. 14 per le cause relative alle somme di denaro e ai beni mobili (41), se in esso non dovesse più attendibilmente ravvisarsi una norma di carattere eccezionale. Ancora, si è fatto leva (42) sul combinato disposto degli artt. 657, 658, 667 per trarne la conclusione che, almeno per le cause concernenti i beni immobili extraurbani, quelle per finita locazione e quelle di risoluzione per morosità sarebbero comunque riconducibili alla competenza per materia del pretore, e ciò, a prescindere dalla sua tassatività, malgrado l’inevitabile forzatura cui così si verrebbe a sottoporre il dettato dell’art. 8, secondo comma, n. 3. E si è infine pensato (43) che dette controversie, allorché la competenza non sia altrimenti determinabile, siano tutte di valore indeterminato e quindi tutte di competenza del tribunale, anche a dispetto della pochezza economica che esse possono talora presentare. 4.4. Le controversie locatizie. Fuori da questi limiti, la competenza in materia del pretore, vista l’ampia dizione dell’art. 8, secondo comma, n. 3 ed attesa la ratio che indubbiamente ne ha ispirato la formulazione, è per il resto da intendersi in modo piuttosto esteso. Senza alcuna pretesa di esaustività, vi rientreranno, perciò, sul più generale rilievo (44) che la detta competenza si estende a tutte le azioni aventi ad oggetto controversie insorte per l’accertamento, l’esecuzione e lo scioglimento dei rapporti locativi inerenti immobili urbani, le cause di accertamento, nullità e annullamento del rapporto, le cause di risoluzione del rapporto e quelle conseguenziali, tra le quali quelle per la restituzione del deposito cauzionale, per il ripristino delle condizioni dell’immobile e per la determinazione dell’indennità di avviamento; ed ancora le cause concernenti il canone e le spese accessorie, quelle concernenti il diniego di rinnovazione e quelle concernenti il ripristino del contratto a titolo di sanzione. È poi da credere che appartengano alla competenza del pretore anche le controversie in tema di prelazione e riscatto (45) e, verosimilmente (46), pure quelle per l’impugnazione delle delibere assembleari nei limiti in cui ciò è consentito al conduttore a norma dell’art. 10 l. 392/78. 4.5. Ancora sulle controversie in tema di assegnazione di edilizia residenziale pubblica. Le ipotesi della revoca e dell’occupazione sine titulo Presupposto imprescindibile per la sussistenza di questa competenza è però che la controversia investa un rapporto di locazione conduzione. Sicché, prima di affrontare il nodo della natura tassativa o meno della previsione contenuta nell’art. 8, secondo comma, n. 3, occorre riaprire il discorso in ordine a quelle controversie in tema di assegnazione di alloggi di edilizia residenziale pubblica per le quali possa dirsi sostanzialmente incontroversa, almeno secondo la giurisprudenza ordinaria, la giurisdizione dell’a.g.o. (47), ma per le quali manchi, d’altra parte, una disposizione analoga a quella del già ricordato art. 11, tredicesimo comma, del D.p.r. 1035/72. In breve, si tratta di stabilire, se la competenza del pretore e, di riflesso, l’osservanza del rito speciale per la loro trattazione – che già, come si è visto, mi è sembrato di poter affermare in relazione alla specie della decadenza – si impongano anche nelle ipotesi in cui l’ente proprietario ai sensi dell’art. 16 D.p.r. 1035/72 decreti la revoca dell’assegnazione ovvero, a mente dell’art. 18 D.p.r. 1035/72, intimi all’occupante il rilascio dell’alloggio occupato senza titolo. Ancorché in apparenza accomunate dalla medesima radice normativa, le ipotesi in parola coprono tuttavia, già ad una prima osservazione, ambiti alquanto differenti, giacché l’occupazione sine titulo, com’è noto, quantunque trovi proprio in questo contesto occasione per manifestarsi con più ricorrente frequenza, non è peculiare al settore dell’edilizia residenziale pubblica, ben potendo realizzarsi intuitivamente anche in danno di un immobile privo di questa caratterizzazione. Da qui, perciò, l’opportunità di procedere al loro esame in modo separato. Cominciando, allora, dalla revoca, gioverà rammentare, sulla falsariga della distinzione, cui si è fatto cenno sopra, a proposito di una prima fase di natura pubblicistica ed una seconda fase di natura privatistica nel procedimento di assegnazione di alloggi residenziali pubblici, che l’assegnazione, nel mentre pone termine alla prima fase, costituisce anche la fonte per l’attribuzione all’assegnatario di un diritto soggettivo perfetto ovvero, più esattamente, di un diritto personale di godimento, destinato a trovare formale consacrazione nella stipula di un ordinario contratto di locazione (48). Se le cose stanno così, ferma più in generale, come avvertito, la giurisdizione del giudice ordinario ove il provvedimento di revoca non sia dettato da ragioni di discrezionalità inerenti al rapporto pubblicistico, ma si ricolleghi a vicende del rapporto locativo, – come quando, ad esempio l’alloggio sia stato abbandonato dal locatario (49) –, non credo che sia possibile contestare che anche le relative controversie debbano essere affidate alla cognizione del pretore ai sensi dell’art. 8, secondo comma, n. 3. In pratica, proprio perché, come s’è notato (50), esse rifletterebbero “cause sopravvenute di estinzione e di risoluzione direttamente inerenti al rapporto locatizio e sottratto al discrezionale apprezzamento dell’amministrazione”, l’affermazione della competenza pretorile e, per ovvia estensione, l’applicazione del rito speciale dell’art. 447-bis, non rappresentano nulla di più che un naturale corollario del fatto di ritenere che il rapporto che ha vita di seguito all’assegnazione è una normale locazione, di modo che non vi è perciò alcuna ragione perché delle vicende in chiave patologica che il rapporto può conoscere durante il suo svolgimento non debba essere investito chi – e nel modo ritenuto più idoneo – delle locazioni è il giudice designato per legge. Riscuote viceversa un consenso pressoché unanime tra i commentatori l’opinione secondo cui la competenza ratione materiae del pretore in tema di locazione non si estenderebbe alla fattispecie dell’occupazione “sine titulo” (51). Assorbente, in questo ragionamento, si rivela, infatti, la considerazione che nella specie in esame “l’assenza di un contratto non consente in linea di stretta teoria di fondare l’obbligo di restituzione dell’occupante senza titolo se non sul diritto di proprietà” (52). Affermazione, che suona indubbiamente vera, specie laddove tende ad attribuire un fondamento di realità all’azione di rilascio; ma che solleva, d’altro canto, qualche perplessità, quando, nella giurisprudenza in argomento (53), Si rinviene l’affermazione – altrettanto incontestata – che l’azione in parola, qualora l’opponente non impugni il diritto di proprietà dell’attore, ha pacificamente natura di azione personale. Come uscire, dunque, da questo impasse? Una via potrebbe essere quella suggerita da un recente provvedimento (54) di far leva sull’estrema eterogeneità delle situazioni soggettive che emergono dalle controversie individuate come tali ed, insieme, sulla innata vocazione espansiva che la linea tendenziale della concentrazione presso un unico giudice delle controversie in materia di godimento impone di conferire all’art. 8, secondo comma, n. 3. Posto, infatti, che le dette controversie “solo a costo di distorsive generalizzazioni si possono classificare una volta per tutte all’interno dello schema della realità o dei diritti personali” e che la definizione ampia dell’art. 8, secondo comma, n. 3 “può ritenersi comprensiva di tutte quelle situazioni definite in dottrina come diritti personali di godimento”, inferirne la competenza del pretore per ragioni di materia mi sembra una conclusione assolutamente da condividere. Rafforzerei tuttavia la seconda proposizione, poiché non si può ignorare che, ancorché comunque motivato, ogni allargamento della competenza pretorile si risolve, per la particolare relazione tra l’art. 8, secondo comma, n. 3 e l’art. 447-bis, pure in un’estensione del rito, con l’effetto, come si è visto, che, incidendo le norme sul rito sulla potestas judicandi del giudice, né può risultare in definitiva influenzato dall’applicazione di un rito in luogo di un altro il contenuto concreto della decisione. Donde, allora, l’esigenza, anche per quanto in seguito si avrà occasione di dire in ordine alla questione della sua tassatività, di integrare l’interpretazione dell’art. 8, secondo comma, n. 3 con il criterio della qualificazione causale del rapporto oggetto di giudizio. Del che traendo le debite conseguenze in ordine al rapporto in esame, credo che si potrà parimenti argomentare la competenza esclusiva del pretore ogni qualvolta la pretesa dell’occupante abbia titolo in un diritto personale di godimento ovvero, meglio, quando la causa di esso persegua eminentemente una finalità satisfattoria del godimento, come, ad esempio nel precedente citato, allorché il diritto tragga origine da una cessione c.d. di fatto del godimento attuata contra legem. Al contrario, la controversia andrà devoluta al giudice competente per valore, ai sensi dell’art 15, in tutti quei casi in cui il godimento opposto dall’occupante costituisca la manifestazione di un diritto reale quale l’usufrutto, l’uso o l’abitazione ovvero quando, più semplicemente, l’occupante intenda solo contestare il diritto di proprietà di chi agisce per il rilascio. 4.6. Le controversie in tema di assegnazione in favore di soci di cooperativa Ad una siffatta problematica non sembra invece dare adito l’assegnazione di alloggi di edilizia economico-popolare in favore dei soci di cooperativa fruenti di contributo erariale. Ancorché, a causa della quantità dei provvedimenti normativi regolanti il settore, ogni schematizzazione in proposito possa risultare obiettivamente rischiosa, può senz’altro convenirsi sulla premessa che il godimento, che al socio consegua in questa cornice dall’assegnazione, è essenzialmente riconducibile o alla specie della cooperativa a proprietà individuale od a quella della cooperativa a proprietà indivisa. Va inoltre aggiunto, a miglior intelligenza del tutto, che l’art. 131 del R.d. 28 aprile 1938, n. 1165, che del settore è tuttora il testo normativo portante, prevede la costituzione di un giudice speciale con un’ampia competenza per materia, riferita, oltre che alle controversie attinenti alla prenotazione e all’assegnazione degli alloggi, alla qualità di socio od aspirante socio, anche a tutte le controversie tra soci e a quelle tra socio e cooperativa in quanto riguardanti il rapporto sociale. Questo rilievo è particolarmente significativo, perché, anche quando fosse altrimenti azionabile la leva di un interpretazione lata della competenza pretorile in materia locatizia, porta comunque a valorizzare in senso ineludibilmente ostativo la deroga che in esso trova sanzione alla giurisdizione del giudice ordinario. Non si può infatti non osservare con la giurisprudenza largamente dominante (55) che, se le controversie previste dall’art. 131 cit. sono devolute alla cognizione di un giudice speciale fino alla stipulazione da parte del socio del contratto di mutuo individuale, che segna nello stesso tempo il conseguimento delle finalità di interesse pubblico e l’acquisto della proprietà dell’alloggio in capo al socio stesso, questo effetto è verosimilmente destinato pure a prodursi – ed ogni relativa controversia ne resterà ovviamente assorbita – qualunque sia il regime negoziale in dipendenza del quale il socio abbia conseguito il godimento dell’alloggio. E, dunque, se prima della stipulazione del mutuo individuale, non determina la devoluzione delle relative controversie al pretore la circostanza che il bene sia stato assegnato in locazione con patto di futura vendita o con patto di riscatto (56), perché prim’ancora che la competenza in capo al pretore difetta la sua stessa giurisdizione in quanto giudice ordinario, dopo la stipulazione del detto negozio, l’attribuzione in proprietà del bene – ancorché le controversie relative al medesimo divengano per questa via pacificamente soggette alla giurisdizione del giudice ordinario – esclude altrettanto pacificamente che possa ipotizzarsi una riserva di competenza per ragioni di materia in favore del pretore. Né ad un discorso diverso è da credere che si presti la specie della cooperativa a proprietà indivisa, vero che, seppur si opponesse in questo caso, sulla scorta di una distinzione tra l’uno e l’altro proflio partecipativo - che si faticherebbe comunque a rinvenire nella giurisprudenza in materia – l’inefficacia dell’indicato criterio di demarcazione, non si potrebbe poi non tener conto della tendenza, affiorata sia pur ad altri fini, a considerare la fruizione dell’alloggio da parte del socio di cooperativa a proprietà indivisa come frutto dell’esercizio di un diritto di abitazione (57) – di un diritto reale, cioè – piuttosto che di un diritto di godimento nascente da un contratto di locazione. Con il che, in ogni caso, resterebbe di nuovo esclusa la competenza del pretore ratione materiae. 5. La specie dei “rapporti di comodato” e la questione della tassatività Oltre che per le cause relative a rapporti di locazione, sempre a mente dell’art. 8, secondo comma, n. 3, il pretore è competente in via esclusiva, qualunque ne sia il valore, anche per le controversie concernenti il comodato di beni immobili urbani. Come si apprende dalla relazione accompagnatoria al disegno di legge approvato dal Senato (58), la norma deve le ragioni della sua introduzione “al fine di evitare che la individuazione del giudice competente possa dipendere dalla qualificazione giuridica del rapporto controverso”. Ciò, perché, trattandosi all’evidenza di un modo di godimento assimilabile alla locazione, se se ne fosse sottratta la cognizione al pretore, già competente per la materia locatizia, sarebbe stato senz’altro vanificato l’intento razionalizzatore della novella, posto che in pratica non è sempre agevole distinguere tra l’uno e l’altro rapporto, determinando, come si è rilevato (59), tanto l’uno che l’altro “situazioni di sostanziale identità nell’uso e nella disposizione dell’immobile”. La norma, per il resto, non solleva problemi specifici rispetto a quelli che già hanno formato oggetto di esame a proposito della parallela competenza in materia di locazione. Sicché, nel ribadire le note limitazioni che la competenza del pretore incontra in tema di comodato di beni mobili e di comodato di immobili extraurbani, andrà qui pure ricordato quanto in quella sede s’ebbe modo di dire in ordine al criterio regolatore della competenza per valore da adottarsi in tali casi, vero che anche per le cause in materia di comodato il valore andava determinato in applicazione analogica delle norme sulla locazione e, dunque, dell’ora abrogato art. 12, comma secondo. Piuttosto la speciale competenza che la norma tributa sul punto al pretore solleva un altro ordine di problemi, dovendosi chiedere, se per il fatto di essere competente nello stesso tempo per le locazioni ed il comodato, il pretore non debba essere più generalmente considerato come “l’organo competente a decidere tutte le controversie che possono sorgere dall’utilizzazione di immobili urbani fondata su titolo diverso” (60). In breve, il quesito che intendo porre è se la previsione dell’art. 8, secondo comma, n. 3 abbia natura tassativa ovvero se, sul presupposto della comune radice costituita dal godimento del bene, essa non sia invece suscettibile di estensione ad altre fattispecie negoziali di analogo contenuto. La realtà è in questo senso indubbiamente ricca di stimoli: basti pensare, se non alle ipotesi in cui la detenzione dell’immobile sia imputabile ad un contratto di appalto, a quelle in cui più credibilmente essa dipenda da un contratto atipico come l’alloggio o la pensione (61). È innegabile come in tutte queste ipotesi la detenzione si possa risolvere in un godimento non dissimile da quello che il conduttore o il comodatario traggono dalla detenzione della cosa datagli in locazione o concessagli in comodato. Di fronte ad esse, però, l’orientamento prevalso in dottrina è che la competenza attribuita al pretore dall’art. 8, secondo comma, n. 3 non sia estensibile oltre i casi strettamente considerati. Si è infatti notato (62) che la norma avrebbe omesso di raccogliere il suggerimento volto ad includere tra i rapporti negoziali in essa menzionati il deposito e, poiché il detto suggerimento era stato dettato dall’intento di devolvere alla cognizione del pretore ogni controversia in cui sia discusso il diritto a ritenere la cosa sulla base di un rapporto personale o comunque precario, l’omissione andrebbe valutata come un’implicita conferma della natura tassativa del suo dettato. Sempre nella stessa direzione si è poi osservato (63) come, a causa dell’assetto normativo impresso alla materia, risolvendosi ogni modificazione della competenza in un mutamento del rito ed influendo notoriamente il rito sul contenuto della decisione, la tassatività che occorre perciò riconoscere ai criteri di scelta di quest’ultimo non potrebbe non riflettersi sull’interpretazione dei criteri di competenza, nel senso cioè che solo i rapporti per i quali è espressamente applicabile il rito speciale rientrano nella competenza per ragioni di materia del pretore. Il primo argomento, per quanto ammantato di verità, non è propriamente irresistibile. La preterizione, tra quelli previsti, di un determinato rapporto, per di più non esattamente provvisto di una funzione satisfattiva del godimento, non impedisce che l’intendimento, che cosi si vorrebbe negare, non possa del pari realizzarsi nella menzione degli altri rapporti che una finalità di godimento tendono invece propriamente a soddisfare. Più pregnante, ed in qualche misura decisivo in favore della tassatività del dettato normativo dell’art. 8, secondo comma, n. 3, penso si debba invece giudicare l’altro argomento. Anche a me pare, come in effetti ho più sopra rilevato, che il fatto che l’art. 447-bis si serva, per così dire, dell’art. 8, secondo comma, n. 3 per delimitare il proprio raggio di azione non possa non essere interpretato come un tacito invito in via di principio ad applicare le norme del rito speciale solo a quei rapporti oggetto di espressa determinazione. Aggiungerei, poi, che in chiave analogamente ostativa, gioca indubbiamente – ed in modo inversamente opposto a quanto lo stesso rilievo conduce a ritenere per l’occupazione sine titulo (64) – la diversa natura causale che separa le speci della locazione e del comodato da quelle ad esse affini o che ad esse si vorrebbero accostare, giacché solo le prime sono tipicamente connotate da una causa del godimento o al godimento riconducibile che nelle altre speci o è totalmente assente o si realizza, dando più frequentemente vita a fenomeni di atipicità, nel concorso di altre cause (65). 6.1. Fase sommaria e cognizione piena del giudizio di locazione tra luci ed ombre dell’art. 667 La novella processuale del ’90, lo si è già detto, ha solo parzialmente interessato il procedimento di convalida del libro quarto. Se si eccettua l’intervento integrativo, cui, a tempo oramai scaduto, è stato sottoposto l’art. 660 (66), l’unica modifica apportata dalla legge 353/90 al procedimento di convalida è consistita infatti nella novellazione, ad opera del suo art. 73, dell’art. 667, in forza del quale, sotto la rinnovata rubrica intitolata al “mutamento di rito”, si legge ora che “pronunciati i provvedimenti previsti dagli articoli 665 e 666, il giudizio prosegue nelle forme del rito speciale, previa ordinanza di mutamento di rito ai sensi dell’articolo 426”. La norma, pur nel lodevole intento di completare la disciplina processuale, che riguardo al settore delle controversie locatizie andava definendosi su un piano più generale per effetto degli artt. 8, secondo comma, n. 3 e 447-bis, anche con la regolazione del momento del passaggio del giudizio da una fase a cognizione sommaria ed un fase a cognizione piena (67), ha tuttavia fin da subito messo in chiara luce tutti i limiti dell’impostazione accolta dal legislatore. In particolare, la scelta di fermarsi ai margini del procedimento di convalida e di evitarne così ogni più sostanziosa revisione si è risolta nel dar vita, prim’ancora che a non pochi problemi di adattamento interpretativo, cui ha in parte posto rimedio la novella dell’art. 660, ad una serie di vistose aporie sul piano sistematico, forse più gravi delle lacune che l’art. 667 lascia intravedere dietro il suo scarno dettato. In ciò, per intenderci, non si può, intanto, che aver riguardo alla diversità dei presupposti che rendono possibile, d’un canto, il giudizio ordinario e, dall’altro, quello di convalida, all’uopo bastando per vero un modesto esercizio di lettura: ma è del pari agevole vedere, quantunque meno tangibilmente suffragato da un diretto riscontro testuale, pure un segno di attenzione per il carattere riduttivo della previsione recata dall’art. 667, nonché per alcune delle diverse questioni interpretative che la norma lascia tuttora aperte. 6.2. Presupposti dell’ordinanza ed evoluzione della controversia al giudice competente. Come ho appena ho finito di dire, un primo ordine di questioni che l’immutata disciplina del procedimento di convalida è destinata a sollevare di fronte alla riformulazione dell’art. 8, secondo comma, n. 3 – e che l’art. 667, nella chiara presunzione del contrario (68), ha visibilmente omesso di considerare – riguarda i diversi presupposti che legittimano l’instaurazione del giudizio ordinario rispetto a quelli che ne legittimano la promozione in via sommaria ai sensi degli artt. 657, 658 e 659. È invero di immediata, innegabile evidenza che le norme in questione, quantunque suscettibili di regolare in astratto aspetti complementari della stessa controversia, scontino tuttavia all’atto pratico, per quanto si è detto poc’anzi, l’inconveniente del loro mancato coordinamento, potendosene riconoscere appunto la specularità solo in relazione a determinate categorie di rapporti. E ciò perché se, per un verso, l’art. 8, secondo comma, n. 3 abbraccia un campo di applicazione indubbiamente più largo, prevedendo che possa adirsi il pretore in sede ordinaria, oltre che per le cause relative a rapporti di locazione, pure per i rapporti di comodato e per l’affitto di azienda, mentre gli artt. 657 e 658 consentono, a loro volta di agire, per il rilascio in relazione alla sola fattispecie della locazione, con esclusione dunque del comodato e dell’affitto di azienda, per l’altro, esulano dalla cognizione del pretore ex art. 8, secondo comma, n. 3 le locazioni concernenti gli immobili extraurbani e le controversie di competenza delle sezioni specializzate agrarie, che gli artt. 657 e 658, alle quali va associata pure la specie regolata dall’art. 659, rendono, almeno in principio, deducibili come res del procedimento di convalida. L’esigenza di un coordinamento è dunque in re ipsa, stante, come detto, anche l’assoluta incongruità che rispetto a queste controversie affligge la previsione dell’art. 667, laddove essa si limita a prevedere la pronuncia dell’ordinanza di mutamento del rito ai sensi dell’art. 426, mentre per alcune di esse si dovrebbe più esattamente discorrere di una determinazione inerente alla competenza che non al rito (69). Sicché volendo tentare questa via (70), si può intanto iniziare col dire, sul rilievo che il procedimento di convalida è, giusta il disposto dell’art. 661, inderogabilmente affidato alla competenza del pretore del luogo in cui si trova la cosa locata, che, se il pretore non può essere attinto in questa sede per il rilascio della cosa data in comodato ovvero per quello dell’azienda affittata, l’art. 667 risulterà invece pienamente applicabile in caso di locazione di beni immobili urbani, giacché è solo per questa ipotesi, senz’altro quella più frequente nella pratica, che l’ambito di applicazione degli art. 657 e 658 coincide con quello dell’art. 8, secondo comma, n. 3. Ma già le cose si fanno indiscutibilmente più complicate se solo l’immobile oggetto della locazione non sia qualificabile come bene urbano, dato che in tal caso, arrestandosi la competenza del pretore ex art. 8, secondo comma, n. 3 alle sole controversie concernenti immobili di questo tipo, non si potrà far luogo alla pronuncia dell’ordinanza ex art. 667, non essendovi infatti alcun mutamento di rito da disporre, se anche la cognizione in sede non sommaria della controversia debba seguire le forme del rito ordinario. Di conseguenza, in questo caso, all’esito del procedimento speciale, si possono profilare essenzialmente due alternative. Se il pretore sarà competente a conoscere del merito – il che si è visto apre, per la determinazione della competenza per valore, un diverso problema attesa l’abrogazione dell’art. 12, secondo comma egli, all’esito della fase sommaria, si limiterà a fissare l’udienza di trattazione ex art. 183 avanti a sé stesso, questa soluzione rivelandosi in ogni caso più coerente di quella consistente nella pronuncia di ordinanza ai sensi dell’art. 427 (71), cui mi sembra si oppone la natura pur sempre ordinaria del procedimento speciale. Qualora invece il pretore debba spogliarsi della controversia, perché essa è di competenza del tribunale, sarà allora ragionevole ipotizzare che, in luogo dell’ordinanza ex art. 427 – cui pure si è fatto per questa ipotesi richiamo e alla cui pronunzia si oppongono le medesime ragioni di cui sopra – il pretore pronunci o ordinanza di remissione delle parti avanti al giudice competente, in estensione analogica dell’art. 669 octies (72) ovvero, come ritengo preferibile, ordinanza di declaratoria della competenza nel merito del tribunale, con contestuale termine alle parti per la riassunzione ex art. 50 (73). Ed è questo il paradigma a cui il pretore dovrà verosimilmente attenersi tutte le volte in cui la sua competenza per la fase sommaria è destinata a venire meno per la fase di ordinaria trattazione. Dunque, esso troverà applicazione anche in relazione alla licenza o allo sfratto per finita locazione o per morosità intimati nei confronti dell’aff¦ttuario coltivatore diretto, del mezzadro o del colono, sempreché ben’inteso si ritenga, di contro al diverso indirizzo della giurisprudenza (74), che il relativo procedimento di convalida sia tuttora di competenza del pretore. Ed ancora ad esso si uniformerà la definizione del procedimento, allorché il giudizio sia devoluto alla cognizione di un collegio arbitrale (75), che non potrà conoscere di esso in sede di convalida, attesa la cogenza che riveste ai sensi dell’art. 661 l’attribuzione della competenza operata al riguardo in favore del pretore, ma potrà esserne investito in sede di ordinaria trattazione, giacché la relativa competenza, con il solo limite dell’art. 447 comma secondo, è al contrario certamente derogabile. Ed infine vi sarà pure soggetta, quando non ne sia competente lo stesso pretore adito in sede di convalida (76), la cognizione nel merito della locazione d’opera ex art. 659, se il rapporto di lavoro in corrispettivo del quale è pattuito il godimento dell’immobile rientri tra quelli per i quali ai sensi degli artt. 409 e 413 sia competente un pretore territorialmente diverso da quello adito col procedimento speciale ovvero, esulando il detto rapporto da un siffatto inquadramento (per esempio, perché la cessione dell’immobile sia convenuta con un professionista intellettuale o con un prestatore d’opera non subordinato) (77), se la controversia ecceda la competenza del pretore. 6.3. Casi di applicazione Altra questione, sulla quale l’art. 667 si rivela parimenti lacunoso riflette le condizioni alle quali è soggetta l’adozione dell’ordinanza di mutamento del rito, stabilendo la norma che vi si possa infatti procedere solo allorché siano stati pronunciati i provvedimenti previsti dagli artt. 665 e 666. Ciò sembra presupporre, ad un primo esame, oltre ad una pronuncia in positivo dei detti provvedimenti, senz’altro l’opposizione da parte dell’intimato. Viceversa va osservato che il richiamo ai provvedimenti degli artt. 665 e 666 va più rettamente inteso (78), fuori cioè da ogni condizionamento letterale, nel senso che la conversione del rito deve essere disposta quando sia esaurita la fase processuale per la pronuncia di detti provvedimenti, donde ad essa si farà luogo non solo quando i detti provvedimenti, pure richiesti, siano stati negati, ma anche se, nonostante l’opposizione dell’intimato, nessuna loro richiesta sia stata avanzata dall’intimante. Ma neppure la seconda condizione può ritenersi indefettibile, essendo pacificamente ammesso che il pretore, vincolato al principio jura novit curia, possa rilevare d’ufficio la carenza dei presupposti di merito o di rito che impediscono di pronunciare la convalida (79), indipendentemente cioè dall’atteggiamento processuale dell’intimato e, dunque, a prescindere dalla sua opposizione. In questa ipotesi, quando il rigetto della convalida non si ritenga pronunciabile con un’ordinanza (80), andrà perciò disposta, sul presupposto che la controversia appartenga ovviamente alla competenza ratione materiae del pretore, la conversione del rito ai sensi dell’art. 667 ed il giudizio susseguente dovrà essere definito con sentenza (81). Al mutamento del rito è poi da credere che si debba inoltre procedere, per chi reputa che il giudizio in tal caso non si estingua (82), quando l’intimante non compaia all’udienza fissata nell’atto di citazione e, ai sensi dell’art. 662, vengano meno gli effetti dell’intimazione (83); ed, ancora, per chi del pari reputi che non vi sia incompatibilità tra opposizione e richiesta del termine “di grazia” (84), se l’intimato, costituendosi chieda il termine per sanare la morosità ai sensi dell’art. 55 l. 392/78 e, nel contempo, opponendosi, si riservi di ripetere nel giudizio di merito la somma corrisposta a questo titolo (85). 6.4. Contenuto dell’ordinanza Anche sul contenuto dell’ordinanza l’art. 667 è povero di suggerimenti. Salvo, infatti, precisarne la forma, la norma, per il resto, è del tutto silente, sicché, dovendo ricostruirne il contenuto in via di interpretazione, occorrerà tener conto, da un lato, della norma generale dell’art. 134 e del rinvio all’art. 426, dall’altro, del fatto che, come si è detto (86), l’ordinanza segna il passaggio del giudizio da una fase di cognizione speciale ad una fase di cognizione piena. Sotto una prima angolazione è perciò ragionevole supporre che l’ordinanza debba essere succintamente motivata, in pratica facendo cenno alla sussistenza dell’opposizione dell’intimato ovvero, quando si convenga che il giudizio possa aver un seguito anche in difetto di opposizione, ai motivi che ne abbiano impedito la definizione in sede di convalida. Più significativo è poi che l’ordinanza debba contenere la prefissione di un termine perentorio onde consentire alle parti, come si esprime l’art. 426, “l’eventuale integrazione degli atti introduttivi mediante deposito di memoria e documenti in cancelleria”. Qui, però, il discorso interseca il secondo piano di considerazioni, perché, se a mente dell’art. 667 “il giudizio prosegue (87) nelle forme del rito speciale”, il richiamo alle memorie dell’art. 426, nondimeno, esalta il momento del “passaggio” che si riflette nella pronuncia dell’ordinanza e mira in questo senso a consentire alle parti una compiuta articolazione in fatto e in via istruttoria delle rispettive difese (88). Donde, ai fini in esame, l’opportunità (89), che non si ritiene affatto impedita dal difforme dettato normativo, e che anzi si sposa perfettamente con un esigenza di rispetto del contraddittorio, di assegnare alle parti un termine distinto per ciascuna di esse, e cioè un primo termine all’intimante, che diviene attore, ed un secondo termine all’intimato, che diviene convenuto. Termini, per la cui quantificazione, naturalmente, si potrà guardare al combinato disposto degli art. 415 e 416, ancorché la circostanza che l’intimante abbia già formalizzato la domanda all’atto della convalida possa rendere discutibile che tra la data del deposito della sua memoria e quella dell’intimato debba essere garantito lo spatium deliberandi di cui al terzo comma dell’art. 415. In ogni caso quel che pare certo, in vista dell’esigenza di concentrazione che il rito speciale è chiamato a soddisfare, consentendo nello specifico che l’attore non giunga impreparato all’udienza, è che il termine concesso al convenuto non dovrebbe discostarsi da quello di dieci giorni previsto dall’art. 416 per la sua costituzione nel giudizio promosso in via ordinaria. E sempre in materia di termini va pure favorevolmente apprezzato il suggerimento a completare il contenuto dell’ordinanza con l’avvertenza concernente le domande riconvenzionali che, ove si ritengono ammissibili – e salvo, quanto si dirà più sotto –, dovranno essere formalizzate nei modi dell’art. 418 ovvero sarà onere all’intimato che abbia tempestivamente agito in riconvenzionale chiedere al giudice, a pena di decadenza, il differimento dell’udienza già fissata (90). Sin qui il contenuto, per così dire, “necessario” dell’ordinanza ex art. 667. Quanto ad un suo contenuto, destinato ad integrare le prescrizioni delle quali ho detto – e che definirò perciò “eventuale” – credo che si debba parlare principalmente in relazione all’ipotesi in cui l’intimato, consentendoglielo l’art. 663 – e vieppiù l’ora novellato art. 660 – non si sia costituito a mezzo di un difensore tecnico e sia comparso all’udienza di convalida personalmente. Qui, invero, la considerazione che nel giudizio avanti al pretore non sia più concesso alla parte di difendersi personalmente, salvo che non ricorra la rara eventualità dell’art. 417, impone che in sede di mutamento del rito l’ordinanza rechi anche l’invito all’intimato, che ne sia sprovvisto, a munirsi di un idoneo difensore, in difetto non potendo che dichiararsene la contumacia (91). Altra prescrizione che potrà infine figurare nell’ordinanza riguarda la cancelleria, cui, sul rilievo che il procedimento può, come visto, proseguire anche in questo caso, deve essere impartito l’ordine di notificare il provvedimento (92) all’intimato non comparso (93). Ciò in applicazione del noto dictum di costituzionalità in tema di mutamento del rito pronunciato per le controversie di lavoro pendenti all’entrata in vigore della l. 11 giugno 1973, n. 533 e del conforme insegnamento di legittimità che su di esso ha trovato modo di consolidarsi in relazione a tutte le controversie di questa natura. 6.5. Domande riconvenzionali Da ultimo vorrei accennare alla possibilità per l’intimato di proporre, di seguito alla pronuncia dell’ordinanza di mutamento del rito ex art 667, un’eventuale domanda riconvenzionale. La questione e, meglio, l’interesse che ad essa si annetteva – e che sulle prime era stato causa di un vivace contenzioso dottrinale (94) – sembra, per la verità, essere in grande misura rientrato, dopo che l’art. 8, comma terzo ter, della l. 534/95, integrando l’art. 660, ha definitivamente chiarito che nel procedimento di convalida l’intimato, per svolgere le attività processuali connesse alla sua comparizione e alla sua eventuale opposizione, non abbisogna dell’assistenza di un difensore tecnico, potendo provvedervi di persona (95). Con ciò è certamente venuto meno il principale motivo che aveva condotto i fautori della tesi contraria a sostenere l’inammissibilità nel giudizio ordinario della riconvenzionale che non fosse stata già proposta in sede di convalida, sul presupposto che, dovendo l’intimato costituirsi anche in questa sede a mezzo di difensore abilitato e con il deposito di una comparsa ex art. 167, la mera sua comparizione personale non avrebbe impedito che maturassero le preclusioni più generalmente vigenti a livello di ordinaria cognizione (96). Sicché, come detto, la questione conserva ora perciò un rilievo di mero “antiquariato”, non dovendo esservi infatti più alcun impedimento a che l’intimato, sebbene personalmente comparso nel procedimento di convalida, all’atto di formalizzare le proprie difese con la memoria di cui all’art. 426, proponga – ovviamente nel rispetto dei modi richiesti dall’art. 418 – pure una sua domanda riconvenzionale. Vorrei solo aggiungere, a chiusura dell’argomento, che la circostanza che lo sbarramento preclusivo si concretizzi solo a seguito della pronuncia dell’ordinanza ex art. 667 ha indotto qualche autore a ipotizzare che la riconvenzionale proposta in sede di convalida si debba intendere abbandonata se non reiterata nella memoria integrativa, poiché si è notato “ciò che rileva ai fini del giudizio di merito .. è unicamente il contenuto della memoria integrativa” (97). Io non sarei esattamente di questo avviso o, per lo meno non sarei propenso a credere che la domanda debba intendersi abbandonata se l’intimato ometta il deposito della memoria. Intanto perché la memoria dell’art. 426 ha funzione integrativa degli atti già versati nel giudizio, di modo che se la riconvenzionale sia già stata proposta non vi è alcuna integrazione da fare. Inoltre, perché le preclusioni operano evidentemente con efficacia ex nunc, ossia tendono ad impedire determinate attività processuali per il futuro, ma non cancellano le attività processuali già compiute, e, dunque, se l’intimato, costituendosi nel procedimento di convalida, svolga formalmente una domanda riconvenzionale, non mi pare che in linea di principio si possa dire che egli decada dalla riconvenzionale proposta se ometta di depositare la memoria di cui all’art. 426 (98). (1) Il giudizio, reiterato più volte tra i commentatori, si può leggere, tra gli altri, in PROTO PISANI, Rapporti fra competenza, rito e merito nella legge n. 392 del 1978 (e nel rito speciale del lavoro), in Foro it., 1981, V, 185. (2) Sul punto, v., espressamente, TARZIA, Lineamenti del nuovo processo di cognizione, Milano, 1991, 18, ove richiami. Paventa come “una sorta di denegatio di tutela’’ la sospensione necessaria, MERLIN, Le linee generali della legge 26 novembre 1990, n. 353; gli interventi in materia di giurisdizione, di competenza e di connessione, anche con riferimento alla normativa sul giudice di pace, in Quaderni del C.S.M., 1994, n. 73, I, 137. Ma per un’ampia rassegna di opinioni critiche sull’istituto cfr. GIUSSANI, Competenze, riti ed effetti della connessione, in Le riforme della giustizia civile a cura di Taruffo, Torino, 1993, 126 nota 4. (3) Un primo abbozzo di queste posizioni ancora in PROTO PISANI, Rapporti fra competenza, rito e merito, cit., 199 e segg., cui adde per una sintesi di maggior respiro, ID., Le controversie in materia di locazione in ANDRIOLI, BARONE, PEZZANO, PROTO PISANI, Le controversie in materia di lavoro2, Bologna-Roma, 1987, 201 nota 5. (4) Cfr. la relazione al disegno di legge del governo n. 1288/S/X, ora in Documenti Giustizia, 1991, 10, che della l. 353/90 costituisce notoriamente l’archetipo, alla cui pagina 3 si legge che “in tema di competenza la proposta contenuta negli articoli 1 e 2 è di concentrare – come da più parti auspicato – nel pretore quella relativa ai rapporti di locazione ed agli altri diritti aventi ad oggetto immobili”. (5) PROTO PISANI, La nuova disciplina del processo civile, Napoli, 1991, 3; ATTARDI, Le nuove disposizioni sul processo civile, Padova, 1991, 8 e segg.; MONTESANO-ARIETA, Il nuovo processo civile, Napoli, 1991, 7; GIANCOTTI, Competenza del pretore, in Le riforme del processo civile a cura di Chiarloni, Bologna-Roma, 1992, 28; CAPPONI, Competenza del pretore e del conciliatore, in VACCARELLA, CAPPONI, CECCHELLA, Il processo civile dopo le riforme, Torino, 1992, 22 e segg.; BALENA, La riforma del processo civile, Napoli, 1994, 26; MANDRIOLI, Corso di diritto processualecivile10, III, Torino, 1995, 543. (6) Sul punto, fra gli altri, CECCHELLA, I riti speciali, in VACCARELLA, CAPPONI, CECCHELLA, Il processo civile dopo le riforme, cit., 192. Anche le innovazioni introdotte in materia dalla l. 399/84 – sulle quali, in sintesi, SANTULLI e ACONE, voce “Competenza (diritto processuale civile)”, in Enc. giur. Treccani, VII, Roma, 1988, 17 e segg. – erano state accolte da un coro di critiche, delle quali ora riferisce sommariamente GIANCOTTI, Competenza del pretore, cit., 26 nota 11. (7) Emblematica al riguardo la notazione di GIUSSANI, in CARPI, COLESANTI, TARUFFO, Commentario breve al codice di procedura civile. Appendice di aggiornamento, Padova 1991, 14: “Innanzitutto si tratta di risolvere l’annoso problema del caos del rapporto fra competenza, connessione e scelta del rito nella materia delle locazioni urbane, con un intervento coordinato mirante a favorire il simultaneus processus restringendo la sfera d’applicazione dell’istituto della sospensione necessaria: quest’ultima, infatti, operando nei casi di connessione per pregiudizialità fra cause ricadenti in competenze inderogabili diverse o soggette a riti inconciliabili, comportava la possibilità per il convenuto di bloccare con estrema facilità l’iniziativa dell’attore richiedendo l’accertamento con efficacia di giudicato di una questione pregiudiziale anche se infondata”. (8) Per un analisi di questo fenomeno – su cui si sofferma, fra gli altri, anche CECCHELLA, I riti speciali, cit., 187 e segg. – TOMMASEO, L’espansione del rito del lavoro nelle leggi processuali speciali, in Riv. dir. civ., 1987, II, 70 e segg. (9) Per una compiuta ricognizione si può v. PROTO PISANI, Le controversie in materia di locazione, cit., 189 e segg. (10) Questo approccio, pressoché comune a buona parte dei commenti apparsi sulla riforma, è fatto proprio, tra gli altri, da GIUSSANI, in CARPI, COLESANTI, TARUFFO, Commentario breve al codice di procedura civile, cit., 15 e segg.; NICITA, Appunti sulla competenza nel nuovo rito civile, in Giust. civ. 1991, II, 249; ACONE, in Provvedimenti urgenti per il processo civile a cura di Cipriani e Tarzia, in Nuove leggi civ., 1992, 14; VERDE e DI NANNI, Codice di procedura civile, Torino, 1993, 18; GIUSSANI, Competenze, riti ed effetti della connessione, cit., 131; COSTANTINO, L’individuazione del giudice nella riforma del processo civile, in Quaderni del C.S.M., 1994, n. 73, I, 101; BALENA, La riforma del processo civile, cit., 28; BARTOLINI, Nuovo codice di procedura civile: il regime delle competenze con riferimento alla locazione ed al condominio, in Arc. loc., 1995, 281. (11) Con riserva di riprendere a mano il discorso a suo tempo si veda fin d’ora per questi rilievi, GIUSSANI, Il rito delle locazioni, in Le riforme della giustizia civile a cura di Taruffo, Torino, 1993, 472. (12) In questa direzione si era infatti già espresso PROTO PISANI, Rapporti fra competenza, rito e merito, cit., 189, invitando il legislatore ad introdurre il rito speciale con riferimento “a controversie relative a rapporti chiaramente individuati” e con riferimento a tutte le controversie relative a rapporti chiaramente individuati”. (13) Così ACONE, in Provvedimenti urgenti per il processo civile, cit., 15. Ma sul punto v. conformemente, tra gli altri, BALENA, La riforma del processo civile, cit., 25. (14) L’argomento è ampiamente sviluppato da PROTO PISANI, Questioni di rito, in ANDRIOLI, BARONE, PEZZANO, PROTO PISANI, Le controversie in materia di lavoro2, cit., 348 e segg. (15) In questi termini, v., ultimamente, in relazione all’opposizione a decreto ingiuntivo, VALITUTTI e DE STEFANO, Il decreto ingiuntivo e la fase dell’opposizione, Padova, 1994, 151, quantunque con la precisazione che radicandosi la competenza in materia del pretore “esclusivamente dopo la proposizione della opposizione, questa deve seguire appunto con la forma ordinaria della citazione e non con ricorso: solo una volta introdotto il giudizio di opposizione il giudice provvederà, se competente ... a mutare il rito”; ed in relazione all’opposizione tardiva alla convalida, PANICO, Il nuovo procedimento avanti al pretore, in Quaderni del C.S.M., 1994, n. 75, III, 108. (16) Vedi, per la prima, GARBAGNATI, I procedimenti di ingiunzione e di convalida di sfratto5, Milano, 1979, 266 e segg. e PEZZANO, Procedimento d’ingiunzione, in ANDRIOLI, BARONE, PEZZANO, PROTO PISANI, Le controversie in materia di lavoro2, cit., 1047 e segg.; per la seconda, ex plurimis, Cass., Sez. Un., 19 ottobre 1983, n. 6128, in Foro it., 1983, I, 3024, cui adde, più di recente, ancorché in motivazione, Cass., 16 novembre 1994, n. 9675 e Cass., 26 aprile 1993, n. 4867, in Giur. it., 1995, I, 1, 759, con nota di RANA, Proposizione mediante citazione di opposizione a ingiunzione in materia di lavoro: mutamento di rotta o incidente di percorso?, ove altre indicazioni. (17) Per le quali v., in giurisprudenza, Pret. Bologna, ord. 20 novembre 1995, in corso di pubblicazione su Giust. civ.. (18) Così, per tutti, TARZIA, Manuale del processo del lavoro3, Milano, 1987, 250. (19) Cfr., fra le altre, Cass., 10 febbraio 1984, n. 1026, in Mass. CED, 433196 e Cass., 1° marzo 1988, n. 2145, ivi, 457991. (20) Ancora così, infatti, ultimamente BALENA, Le preclusioni nel processo di primo grado, in Giur. it., 1996, I, IV, 273. (21) VERDE e DI NANNI, Codice di procedura civile, cit., 19. (22) Sul punto, v., meglio, infra. (23) Per il quale v., amplius, PEZZANO, Le opposizioni in sede esecutiva, in ANDRIOLI, BARONE, PEZZANO, PROTO PISANI, Le controversie in materia di lavoro2, cit., 1104 e segg. (24) Così, fra gli altri, DENTI e SIMONESCHI, Il nuovo processo del lavoro, Milano, 1974, 235. (25) Giurisprudenza conforme: cfr., in ultimo, Cass., 11 ottobre 1995, n. 10602, in Mass. CED, 494201 e Cass., 10 gennaio 1994, n. 195, ivi, 484969. (26) Anche qui mi riporto alla giurisprudenza di legittimità, per la quale v., oltre a Cass., 1° agosto 1994, n. 7173, in Mass. CED, 487615, che si richiama però ai soli criteri per materia, in modo più completo Cass., 18 gennaio 1988, n. 336, ivi, 456904; Cass., 7 aprile 1987, n. 3359, ivi, 452399; Cass., 7 luglio 1984, n. 3977, ivi, 435951. (27) Così infatti BALENA, La riforma, cit., 28. (28) Il giudizio è di GIUSSANI, in CARPI, COLESANTI, TARUFFO, Commentario breve al codice di procedura civile, cit., 16. (29) Incidentalmente osservo, anche se l’osservazione potrà apparire ovvia alla stregua di quel che dirà più avanti, anche qui rifacendomi ad un consolidato indirizzo di legittimità, che, come ritenuto, per esempio, da Cass., 4 febbraio 1986, n. 685, in Mass. CED., 444243 o da Cass., 18 ottobre 1984, n. 5249, ivi, n. 436976, “in tema di edilizia economica e popolare la natura privatistica del rapporto di locazione, con o senza patto di futura a vendita, a mezzo del quale viene attuato il provvedimento di assegnazione dell’alloggio, comporta che il rapporto stesso resta soggetto alla normale disciplina della risoluzione della locazione”. (30) Così da ultimo, ex plurimis, Cass., 17 novembre 1994, n. 9794, in Giur. it., 1995, 1, 1200. Ma questo aspetto è ancor meglio lumeggiato dal Cons. Stato, 5 settembre 1995, n. 28, in Foro it., 1996, III, 87, ad avviso del quale occorre distinguere “tra una prima fase di natura pubblicistica caratterizzata dall’esercizio di poteri direttamente finalizzati all’interesse pubblico da parte dell’ente assegnante e, correlativamente, da posizioni di interesse legittimo, dei richiedente l’assegnazione, ed una seconda fase di natura privatistica relativa all’esecuzione del contratto scaturito dall’assegnazione e caratterizzata da posizioni di diritto soggettivo perfetto e da correlativi obblighi a carico di entrambi i contraenti”. (31) Cfr., tra le decisioni del S.C., da ultimo, Cass., 3 novembre 1993, n. 10829, in Mass. CED, 484149, – cui si riporta, tra i giudici di merito, Pret. Firenze, 30 settembre 1993, in Foro it., 1995, I, 722, ove richiami – a tenore della quale, “sussiste la competenza del giudice amministrativo ove venga in discussione il disposto annullamento dell’assegnazione a causa dei vizi incidenti sulla fase del procedimento amministrativo strumentale all’assegnazione stessa e caratterizzata dall’assenza di diritti soggettivi”. (32) Così, ancora recentemente, Cass., 10 febbraio 1996, n. 1029, in Mass. CED, 495790 e Cass., 24 gennaio 1995, n. 821, ivi, 489907. (33) Rinfocolato, per vero, dalla recente pronuncia dell’Adunanza plenaria del Cons. Stato, 5 settembre 1995, n. 28, cit., cui la questione era stata rimessa da Cons. Stato, 30 agosto 1994, n. 666, in Giur. it., 1995, III, 170. Quanto alla giurisprudenza della S.C., ricordo ultimamente Cass., 27 novembre 1995, n. 12242, in Mass. CED, 494830; Cass., 29 luglio 1995, n. 8297, in Foro it. Mass., 1995, 937; Cass., 17 novembre 1994, n. 9794, cit.; Cass., 14 giugno 1994, n. 5778, in Mass. CED, 487061. (34) da TARZIA, Lineamenti del nuovo processo di cognizione, cit. 18. (35) Su questi aspetti cfr., più generalmente, in dottrina, GIUSSANI, in CARPI, COLESANTI, TARUFFO, Commentario breve al codice di procedura civile, cit., 17; GIANCOTTI, Competenza del pretore, cit., 28; VERDE e DI NANNI, Codice di procedura civile, cit., 20; GIUSSANI, Competenze, riti ed effetti della connessione, cit., 132; BALENA, La riforma del processo civile, cit., 28. (36 ) Per lo stato della questione si rimanda alla puntuale disamina di PIOMBO, Legge dell’equo canone, locazione di aree non edificate ed incertezza sulla nozione di immobile urbano, in Foro it., 1986, I, 690 e segg. (37) Così, fra le altre, Cass., 10 aprile 1978, n. 1646, in Foro it., Rep., 1979, voce “Locazione”, n. 392. (38) Da ultimo in questo senso Cass., 19 aprile 1986, n. 2775, in Mass. CED, 445815, cui adde non meno significativamente, in relazione alla locazione di un terreno comprensivo di uno specchio d’acqua adibito all’esercizio di un impianto di pesca sportiva, Cass., 19 aprile 1990, n. 3230, ivi, 466710. L’attendibilità di questo insegnamento non sembra sminuita da Corte Cost., 22 febbraio 1984, n. 40, in Foro it., 1984, I, 910, che ha ritenuto compresi nella previsione dell’art. 27 l. 392/78 gli immobili adibiti all’esercizio di un’attività agricola, trattandosi di una decisione evidentemente ispirata, come si è notato da PIOMBO, Legge dell’equo canone, cit., 694, dall’intento di “garantire ... la tutela dello svolgimento di qualsiasi attività produttiva ... senza alcuna distinzione circa il tipo di produzione cui l’attività è diretta”. (39) Il punto, vivamente dibattuto, come ancora ricorda PIOMBO, Osservazioni a Cass., 12 marzo 1985, n. 1942 e a Trib. Milano, 17 ottobre 1985, in Foro it., 1986, I, 197, cui si rimanda per i precedenti di segno contrario, sembra ora potersi considerare risolto in modo definitivo: cfr., dopo Cass., 16 dicembre 1985, n. 6384 e Cass., 29 novembre 1985, n. 5930, in Foro it., 1986, I, 690, tra le pronunce più recenti, Cass., 2 giugno 1995, n. 6200, in Mass. CED, 492641; Cass., 9 luglio 1992, n. 8386, ivi, 478118; Cass., 9 maggio 1991, n. 5157, ivi, 472069; Cass., 7 marzo 1991, n. 2390, ivi, 471176. (40) Della questione si occupano in particolare GIANCOTTI, Competenza del pretore, cit., 29 e GIUSSANI, Competenze, riti ed effetti della connessione, cit., 133. (41) Così NICITA, Appunti sulla competenza, cit., 253. Ma critico al riguardo è GIUSSANI, loc. ult. cit.. (42) Da BALENA, La riforma del processo civile, cit., 29. (43) È questa la soluzione seguita da GIUSSANI, in CARPI, COLESANTI, TARUFFO, Commentario breve al codice di procedura civile, cit., 17 e, amplius, ID., Competenze, riti ed effetti della connessione, cit., 133 e segg. (44) Che si legge in BARTOLINI, Nuovo codice di procedura civile, cit., 282, da cui è tratto anche l’elenco delle controversie che cito nel testo. Concordano nell’attribuire al pretore le controversie relative ai depositi cauzionali e gli oneri accessori VERDE e DI NANNI, Codice di procedura civile, cit., 19. (45) PROTO PISANI, La nuova disciplina, cit., 4, che aggiunge, per il contrario precedente costituito dalla giurisprudenza agraria, “le quali trovino origine in uno dei rapporti indicati dall’art. 8, 2 comma, n. 3”, cui si riporta anche ACONE, in Provvedimenti urgenti per il processo civile, cit., 13. (46) Secondo GIANCOTTI, Norme applicabili alle controversie in materia di locazione, comodato ed affitto, in Le riforme del processo civile a cura di Chiarloni, cit., 573 nota 8. (47) Per riferimenti, supra, alle note 31, 32 e 33. (48) Così, da ultimo, Cass., 14 giugno 1994, n. 5778, cit. Di “un diritto personale, non reale, del quale è esclusivo titolare l’assegnatario medesimo” quale effetto del provvedimento di assegnazione in locazione di un’edilizia residenziale pubblica parla apertamente Cass., 23 luglio 1987, n. 6424, ivi, 454705. (49) Giurisprudenza conforme: cfr., tra le altre, Cass., 27 novembre 1995, n. 12242, cit.; Cass., 27 aprile 1993, n. 4913, in Foro it. Rep., 1993, Voce “Edilizia popolare”, n. 112; Cass., 10 gennaio 1991, 159, ivi, 1991, voce “Edilizia popolare”, n. 109. Di segno contrario è invece la prevalente giurisprudenza amministrativa, per la quale cfr., da ultimo, Cons. Stato, 5 settembre 1995, n. 28, cit. (50) L’affermazione è contenuta in Cons. Stato, 30 marzo 1994, n. 191, in Foro it., 1995, III, 12. (51) Così, fra gli altri, VERDE e DI NANNI, Codice di procedura civile, cit., 20; GIUSSANI, Competenze, riti ed effetti della connessione, cit., 131; BALENA, La riforma del processo civile, cit., 28: SATTA e PUNZI, Diritto processuale civile12, Padova, 1996, 43; nonché, con qualche temperamento indotto dalla considerazione delle norme in materia di edilizia residenziale pubblica, PROTO PISANI, La nuova disciplina, cit., 3. (52) PROTO PISANI, loc. ult. cit., cui si riporta pure ACONE, in Provvedimenti urgenti per il processo civile, cit., 13. (53) Da ultimo in questo senso, Cass., 26 luglio 1994, n. 6959, in Mass. CED, 487629, che da questa premessa, come già in modo più esplicito Cass., 25 novembre 1986, n. 6931, in Giust. civ. Rep., 1986, Voce “Competenza civile”, n. 45, argomenta non a caso che la competenza per valore deve essere determinata in applicazione analogica dell’art. 12, secondo comma, ossia in base all’ammontare dei fitti presumibilmente dovuti per un anno. Ma per una ricognizione della giurisprudenza sul tema si rinvia a TASSONI, Azione di rilascio di immobile detenuto in comodato o senza titolo: competenza, in Giust. civ., 1990, I, 1897. (54) Entrambi questi rilievi in Pret. Bologna, 14 novembre 1995, in Giur. it., 1996, I, 2, 153. (55) Cfr., fra le altre, Cass., 26 aprile 1993, n. 4902, in Mass. CED, 482052; Cass., 9 luglio 1992, n. 8390, ivi, 478120; Cass., 1° febbraio 1991, n. 950, ivi, 470726. (56) Così, ad esempio, Cass., 17 maggio 1984, n. 3051, in Mass. CED, 435094. (57) Da ultimo, in questo senso, Cass., 19 agosto 1994, n. 7455, in Mass. CED, 487751. (58) Ora in Documenti Giustizia, 1991, 10. (59) Da BARTOLINI, Nuovo codice di procedura civile, cit., 282. (60) Così, ad esempio, si orientano MONTESANO-ARIETA, Il nuovo processo civile, cit., 7. (61) Cenni sull’argomento in GIUSSANI, Competenze, riti ed effetti della connessione, cit., 131 e segg. (62) VERDE e DI NANNI, Codice di procedura civile, cit., 19, ai quali sembra conformarsi ACONE, in Provvedimenti urgenti per il processo civile, cit., 13. (63) GIUSSANI, Competenze, riti ed effetti della connessione, cit., 132. (64) E v., infatti, supra. (65) Per l’atipicità del contratto di residence, cfr. esplicitamente Cass., 12 giugno 1984, n. 3493, in Mass. CED, 435504. Significativo mi sembra inoltre quanto a proposito del contratto di locazione di immobile collegato ad un rapporto di lavoro ha modo di affermare Cass., 21 ottobre 1982, n. 5474, ivi, 423244, dell’avviso che in questo caso “nella struttura normale della locazione si innesta un’ulteriore causa contrahendi per la quale il rapporto locatizio assume carattere di atipicità”. (66) Le modifiche all’art. 660 introdotte in sede di conversione del D.l. 18 ottobre 1995, n. 432 dall’art. 8, comma terzo ter, della l. 20 dicembre 1995, n. 534, quando la novella era già entrata in vigore, sono state in genere accolte favorevolmente dai commentatori: cfr., fra gli altri, COSTANTINO, La giustizia civile e Biancaneve (note sulla l. 20 dicembre 1995 n. 534), in Foro it., 1996, IV, 7; LAZZARO, Il procedimento di convalida dopo la riforma del processo civile, in Rass. loc., 1996, 118. (67) PROTO PISANI, La nuova disciplina, cit, 11; CONSOLO, LUISO, SASSANI, La riforma del processo civile, Milano 1991, 416; MONTESANO-ARIETA, Il nuovo processo civile, cit., 110; SALETTI, in Provvedimenti urgenti per il processo civile a cura di Cipriani e Tarzia, cit., 291; CECCHELLA, I riti speciali, cit., 193. Giudica “ridondante” la disposizione – guadagnandosi però il rimprovero di un “eccesso di zelo critico” da VERDE e DI NANNI, Codice di procedura civile, cit., 430 –, stante la diretta applicabilità delle norme del rito speciale previste dall’art. 447-bis, NELA, Mutamento del rito, in Le riforme del processo civile a cura di Chiarloni, cit., 601, a cui si conforma ACIERNO, Il procedimento di convalida e la novella del processo civile, in Documenti Giustizia, 1995, 1982; contra FRASCA, Brevi note sul procedimento di convalida di sfratto prima e dopo la riforma del processo civile, in Foro it., 1995, I, 2937. (68) LAZZARO, Il procedimento di convalida, cit., 121. (69) Per questo rilievo, v., segnatamente, NELA. Mutamento, cit., 602. (70) Un’accurata ricognizione della materia si rinviene in FRASCA, Brevi note, cit., 2937 e segg. Ma ragguagli parimenti esaustivi in LAZZARO, Il procedimento di convalida, cit., 121 e segg. (71) PROTO PISANI, La nuova disciplina, cit., 12, cui si affianca, nelle conclusioni, GIUSSANI, Competenze, riti ed effetti della connessione, cit., 132. Critico, per le ragioni che indico nel testo, è però NELA, Mutamento, cit., 602 nota 12. (72) NELA. Mutamento, cit., 602. (73) Così FRASCA, Brevi note, cit., 2938, da cui non mi sembrano discostarsi CECCHELLA, I riti speciali, cit., 194 e, forse, VERDE e DI NANNI, Codice di procedura civile, cit., 431. (74) Nel solco di Cass., 16 novembre 1977, n. 5003, in Foro it., 1978, I, 660, e specie dopo la l. 14 febbraio 1990, n. 29, il cui art. 9 ha devoluto alla competenza delle sezioni specializzate agrarie tutte le controversie in materia, è infatti insegnamento giurisprudenziale corrente – per il quale v., da ultimo, Cass., 27 febbraio 1995, n. 2236, in Mass. CED, 490746 – che il giudice ordinario non possa essere adito in relazione a rapporti di natura agraria con il procedimento di convalida. Di avviso contrario è però la dottrina, per le cui motivazione, cfr. GARBAGNATI, I procedimenti, cit., 301 e segg. (75) Per questa ipotesi v. LAZZARO, Il procedimento di convalida, cit., 122. Sui limiti di derogabilità dell’art. 447-bis, secondo comma cfr. GIANCOTTI, Norme applicabili alle controversie, cit., 576 e segg. (76) In tal caso, il pretore o pronuncerà ordinanza ex art. 667 e tratterrà la causa presso di sé per deciderla nel merito con le forme del rito del lavoro, ovvero, nel caso in cui presso l’ufficio di pretura sia costituita una sezione per le controversie del lavoro, senza pronunciare l’ordinanza di mutamento del rito, rimetterà il procedimento al dirigente per l’assegnazione al magistrato tabellarmente incaricato della trattazione di quelle controversie; sul punto cfr., comunque, FRASCA, Brevi note, cit., 2939. (77) Per questa ipotesi v. ancora LAZZARO, Il procedimento di convalida, cit., 122. (78) Come ha notato puntualmente MANDRIOLI, Le modifiche del processo civile, Torino, 1991, 172. (79) Così dottrina e giurisprudenza dominanti, per le quali si rimanda a BUCCI, MALPICA, REDIVO, Manuale delle locazioni, Padova 1989, 610. Osservo incidentalmente che tra i presupposti di rito è certo da annoverarsi (cfr., per tutti GARBAGNATI, I procedimenti, cit., 320) l’incompetenza per territorio del giudice adito per la convalida. In questo caso, la soluzione preferibile, per la quale v. SALETTI, in Provvedimenti urgenti per il processo civile, cit., 293 e FRASCA, Brevi note, cit., 2939, è nel senso di ritenere che il pretore, previa ordinanza di mutamento del rito ex 667 dichiari la propria incompetenza con sentenza. (80) Per questa opinione, fra gli altri, ANDRIOLI, Commento al codice di procedura civile3, IV, Napoli, 1964, 131. (81) SALETTI, in Provvedimenti urgenti per il processo civile, cit., 291; LAZZARO, Il procedimento di convalida, cit. 122; e mi pare anche FRASCA, Brevi note, cit., 2939, che alle ipotesi in cui il pretore sia stato attinto in sede di convalida per un rapporto di comodato o di affitto di azienda aggiunge quella in cui l’intimato sia stato notificato ai sensi dell’art. 143. (82) Così GARBAGNATI, I procedimenti, cit., 312. (83) SALETTI, in Provvedimenti urgenti per il processo civile, cit., 291; LAZZARO, Il procedimento di convalida, cit. 122. (84) La tesi, in dottrina, è sostenuta in particolare – ed in aperto contrasto con la giurisprudenza: cfr. Cass., 23 maggio 1990, n. 4646, in Mass. CED, 467352 – da GUARINO, in DRAGOTTO, GUARINO, OLIVIERI, VARRONE, VERDE, Le locazioni di fronte al giudice, Milano, 223 e segg. (85) Ancora così SALETTI, in Provvedimenti urgenti per il processo civile, cit., 291; LAZZARO, Il procedimento di convalida, cit., 123. (86) FRASCA, Brevi note, cit., 2940. Ma il rilievo è condiviso dalla generalità dei commentatori: cfr., fra gli altri, LAZZARO, Il procedimento di convalida, cit., 123. (87) La locuzione ha dato il là a non poche interpretazione restrittive sulla facoltà dell’attoreintimante di emendare in prosieguo di giudizio la domanda introdotta col procedimento di convalida: cfr., al riguardo, per tutti SALETTI, in Provvedimenti urgenti per il processo civile, cit., 292. È noto, peraltro, che in vigenza del vecchio art. 667, la giurisprudenza era concorde nell’ammettere la possibilità di una domanda diversa; riferimenti in proposito in LAZZARO, Il procedimento di convalida, cit., 123 nota 12. (88) SALETTI, in Provvedimenti urgenti per il processo civile, cit., 292; FRASCA, Brevi note, cit., 2940. (89) Sottolineata tra gli altri da ACIERNO, Il procedimento di convalida, cit., 1985; FRASCA, Brevi note, cit., 2940; LAZZARO, Il procedimento di convalida, cit., 123; contrario sembra essere invece SALETTI, in Provvedimenti urgenti per il processo civile, cit., 292, che, anzi, proprio dall’unicità del termine, argomenta il divieto per l’intimante di modificare la domanda introduttiva. (90) Opinione pressoché unanime, per quale v., segnatamente, ACIERNO, Il procedimento di convalida, cit., 1985. (91) FRASCA, Brevi note, cit., 2940. (92 ) Altrimenti, in quanto ordinanza, oggetto di mera comunicazione ai sensi dell’art. 134, quando non se ne debba presumere la conoscenza per essere stato pronunciato in udienza ex art. 176, comma secondo: sul punto, comunque, ampi ragguagli in FRASCA, Brevi note, cit., 2940, (93) ACIERNO, Il procedimento di convalida, cit., 1985; FRASCA, Brevi note, cit., 2940; LAZZARO, Il procedimento di convalida, cit., 125. Secondo MONTESANO-ARIETA, Diritto processuale civile, Torino, 1995, 176 in questo caso l’ordinanza dovrebbe essere notificata nel rispetto del termine minimo di trenta giorni stabilito dall’art. 415 quinto comma. (94) Per riferimenti intorno al quale si rinvia a LAZZARO, Il procedimento di convalida, cit., 124, cui adde BALENA, Ancora “interventi urgenti” sulla riforma del processo civile, in Giur. it., 1995, IV, 335 nota 60. (95) Sul che mi sembra, se non ho male inteso, è d’accordo anche LAZZARO, Il procedimento di convalida, cit., 124. (96) La tesi, ancorché con qualche riserva per il caso della comparizione personale, è sostenuta in particolare da NELA, Mutamento, cit., 600 nota 6. Ma, già prima delle recenti modifiche all’art. 660, si era persuasivamente obiettato da PROTO PISANI, La nuova disciplina, cit., 11 come dal richiamo all’art. 426 fosse possibile desumere “senza alcuna possibilità di dubbio che alla notificazione della intimazione e della citazione ex art. 657 ss. non segue una fase preparatoria soggetta alle preclusioni di cui agli artt. 167 e 183: la fase preparatoria del giudizio a cognizione piena si perfezionerà solo a seguito della ordinanza di mutamento del rito, prima tramite l’integrazione degli atti introduttivi (integrazione del tutto libera, giacché nessuna decadenza è ricollegata alla fase speciale della convalida) e poi nel corso dell’udienza di cui all’art. 420”. (97) Così LAZZARO, Il procedimento di convalida, cit., 125. (98) Conforme, quantunque in una diversa chiave valutativa, NELA, Mutamento, cit., 600 nota 6, ove adesivi richiami di giurisprudenza in tema di controversie del lavoro. IL PROCEDIMENTO DI CONVALIDA DOPO LA RIFORMA DEL PROCESSO CIVILE Relatore: dr.ssa Antonella MAGARAGGIA pretore presso la Pretura circondariale di Venezia SOMMARIO: I. Introduzione. – II. Disciplina del procedimento – 1. Atto introduttivo. – 2. Termine a comparire. – 3. Costituzione delle parti. – 4. Udienza di convalida. – 5 Conclusione del procedimento; 5.a. ipotesi in cui non va emessa l’ordinanza ex art. 667 c.p.c.; 5.b. ipotesi in cui va emessa l’ordinanza ex art. 667 c.p.c.; 5.b.1. funzioni e contenuto dell’ordinanza di mutamenti di rito; 5.b.2. modelli di provvedimento. I. - Introduzione. Il legislatore del 1990 non è intervenuto nel procedimento di convalida se non con la norma dell’art. 73 l. n. 353/1990 che ha modificato l’art. 667 c.p.c.. Tale silenzio, che meglio, forse, può definirsi dimenticanza, ha posto non pochi problemi di coordinamento tra la disciplina del procedimento di convalida pur fatta salva dal legislatore della novella – e quella dell’ordinario giudizio di cognizione, soprattutto relativamente all’atto introduttivo del giudizio (art. 163 c.p.c.), alla costituzione del convenuto (artt. 166 e 167 c.p.c.) e alle relative preclusioni. Tutte le questioni che gli interpreti si erano poste in via teorica in attesa dell’entrata in vigore della novella (si rammenta che alcuni ritenevano applicabile in toto la disciplina ordinaria al procedimento di convalida, che altri (1) propendevano per tesi intermedie e che altri (2) ancora facevano salva la specialità del procedimento), sono emerse con tutta evidenza quando la riforma è diventata operativa. La prima e più evidente incongruenza è apparsa la lunghezza del termine a comparire (di 60 giorni), che, soprattutto in relazione agli sfratti per morosità, sembrava eccessivamente penalizzante (in questi casi ho applicato in maniera automatica l’abbreviazione dei termini a metà ex art. 163 bis comma secondo c.p.c. argomentando semplicemente dalla “feriabilità” della causa ex art. 92 R.D. 30-1-1941 n. 12). Sono quindi intervenuti il d.l. 21-6-1995 n. 238 (decaduto), il d.l. 9-8-1995 n. 347 (decaduto) e, quindi, il d.l. 18-10-1995 n. 432 (poi convertito con modifiche nella l. 20-121995 n. 534), che, all’art. 8 comma terzo – modificante l’art. 660 comma primo c.p.c. –, stabilivano la riduzione di due terzi del termine a comparire diversificandolo da quello ordinario onde salvaguardare la specialità del procedimento e lasciando, quindi, intendere – semplicemente, ma efficacemente – che, come già riteneva parte degli interpreti, per il convenuto intimato non valevano né il termine di costituzione di cui all’art. 167 c.p.c. né le relative preclusioni. Successivamente è intervenuta la l. 20-12-1995 n. 534 (di conversione del d.l. 18-10-1995 n. 432), che, con l’art. 8 comma 3 ter (aggiunto in sede di conversione), ha aggiunto all’art. 660 c.p.c. un terzo, un quarto, un quinto e un sesto comma che forniscono una microdisciplina, difforme da quella ordinaria, sempre in ossequio alla specialità del procedimento, che viene definitivamente sancita. Risultano, quindi, superate le questioni più rilevanti che si erano poste in precedenza avendo il legislatore della decretazione d’urgenza nonché quello della l.n. 534/1995 risolto quelle più problematiche. La presente relazione che, inizialmente, doveva affrontare tali questioni, vista la recente “novella della novella”, si limiterà ad una ricognizione della normativa applicabile soffermandosi su quei pochi profili che ancora presentano qualche aspetto di problematicità. Premessa la natura speciale del procedimento di convalida, è evidente che la sua disciplina sarà quella stabilita espressamente per lo stesso con l’integrazione di quella prevista per l’ordinario procedimento di cognizione, che andrà applicata purché: 1) il caso non sia già disciplinato dalla normativa speciale; 2) non vi siano elementi di incompatibilità con la specialità del procedimento. Nel prosieguo si esamineranno le norme applicabili al procedimento di convalida sottoponendo al doppio vaglio suindicato quelle di cui agli artt. 163 e ss. c.p.c.. II. - Disciplina del procedimento. 1. Atto introduttivo. Il comma terzo dell’art. 660 c.p.c. chiarisce che l’atto introduttivo del procedimento di convalida è un atto di citazione (peraltro ciò era già deducibile dall’art. 657 c.p.c. che espressamente menziona la “citazione per la convalida”) e, quindi, viene definitivamente a cadere quell’orientamento – peraltro minoritario – che riteneva si dovesse introdurre la causa con ricorso, conformemente a quanto previsto nella disciplina di cui all’art. 447 bis c.p.c., applicabile alle controversie relative a locazioni di immobili urbani. Viene inoltre previsto che la citazione debba avere i requisiti di cui all’art. 125 c.p.c.. Il richiamare tale articolo potrebbe apparire superfluo in quanto, avendo chiarito il legislatore che l’atto introduttivo è un atto di citazione, la norma applicabile dovrebbe essere quella dell’art. 163 c.p.c., che viene, d’altro canto, espressamente menzionata quando si stabilisce l’esclusione del requisito di cui al n. 7. Il richiamo fatto all’art. 125 c.p.c. (che, come è noto, descrive il contenuto minimo di ogni atto di parte, che va integrato con i requisiti eventualmente indicati nelle disposizioni dettate per ciascun atto) può, peraltro, voler solamente rammentare all’interprete che l’atto di citazione per la convalida è estremamente semplificato in quanto non introduce un ordinario giudizio di cognizione, ma un procedimento speciale. È, quindi, sufficiente che la citazione per la convalida contenga quel minimum che consenta al giudice il “controllo di legalità”, che gli compete sempre, pure in caso di mancata presenza o mancata opposizione dell’intimato, e che riguarda sia il merito (domanda proposta fuori dai limiti posti dall’art. 657 c.p.c. come ad esempio intimazione di sfratto di un immobile oggetto di comodato – o fuori dai limiti dell’art. 658 c.p.c. – come ad esempio intimazione di sfratto per inadempienza diversa dalla morosità –) che il processo (questioni di giurisdizione, di competenza, di capacità processuale, di regolarità della rappresentanza in giudizio). Altro requisito che l’atto di citazione deve avere, ex art. 660 comma terzo c.p.c., è “l’invito a comparire nell’udienza indicata, l’avvertimento che se non comparisce o, comparendo, non si oppone, il giudice convalida la licenza o lo sfratto ai sensi dell’art. 663”. Segnalo innanzi tutto che tale obbligo, riguardando l’instaurazione del contraddittorio, non dovrebbe essere necessario per i procedimenti la cui notifica dell’atto introduttivo sia anteriore all’entrata in vigore della l. n. 534/1995. La presenza di tale avvertimento – abitualmente già inserito nell’atto introduttivo – viene ora testualmente resa necessaria e ciò, direi, a pena di nullità, ex art. 164 comma primo c.p.c. argomentandosi dalla identica funzione che ha tale avvertimento rispetto a quello dell’ordinaria citazione e dal fatto che, proprio testualmente, l’uno sostituisce l’altro. Sul punto si segnala una recentissima pronuncia del pretore di Bologna (ordinanza del 6-2-1996), il quale, evidenziando che l’art.164 c.p.c. prevede la nullità della citazione per l’ipotesi di mancanza dell’avviso di cui all’art. 163 n. 7 c.p.c. e che, quindi, è cosiderato elemento essenziale dell’atto l’avvertimento che la mancata costituzione nei termini comporta per il convenuto preclusioni e decadenze, rileva come, “a maggior ragione dovrà considerarsi essenziale, nel procedimento di convalida, l’avviso che l’inattività dell’intimato può comportare immediatamente la formazione di un titolo esecutivo nei suoi confronti. Dalla identità di funzione assegnata ai due “avvertimenti”, nell’ambito dei procedimenti cui essi rispettivamente afferiscono, attinenti alla tutela del convenuto, deriva, quindi, la possibilità di applicare estensivamente all’uno la disciplina prevista per l’altro”. Sul punto è da osservare come il comma terzo dell’art. 164 c.p.c. imponga al giudice la fissazione di una nuova udienza nel rispetto dei termini. Ritengo che nel caso di specie non sia sufficiente fissare una nuova udienza in quanto non vi è un’inosservanza di termini, ma una carenza della citazione che va, quindi, rinnovata con l’inserimento dell’avvertimento di cui al comma terzo dell’art. 660 c.p.c. È da evidenziare, altresì, che l’art. 164 c.p.c. risulta in toto applicabile in quanto gli elementi dell’atto di citazione la cui assenza o assoluta incertezza importa nullità sono contenuti pure nella citazione per la convalida, tenendo, peraltro, presente quanto sopra si è detto circa l’estrema semplificazione che connota il secondo atto rispetto al primo. È evidente che l’applicazione del sistema di rinnovazione, integrazione e sanatoria introdotto dalla novella, che sostanzialmente vuol far evitare, per quanto è possibile, una pronuncia di rigetto in rito, assume una particolare importanza nel procedimento di cui si discute ove impedirebbe una pronuncia di rigetto della convalida cui dovrebbe in ogni caso seguire il procedimento di cognizione piena che, a propria volta, dovrebbe sfociare necessariamente in una sentenza. Va solamente precisato che riterrei prodotto l’effetto sanante previsto dall’art. 164 comma terzo c.p.c. non solo in caso di costituzione, ma anche in caso di comparizione dell’intimato, dovendosi tali situazioni, ai fini che ci occupa, essere equiparate. E così dicasi, in relazione al comma quinto dell’art. 164 c.p.c., sulla necessità della semplice integrazione e non della rinnovazione qualora l’intimato si sia costituito o anche sia solo comparso personalmente. È da ricordare, infine, che ai casi di rinnovazione della citazione previsti dall’art. 164 c.p.c. vanno aggiunti quelli della disciplina speciale e cioè quelli previsti dall’art. 663 c.p.c. (quando risulta o appare probabile che l’intimato non abbia avuto conoscenza della citazione o non sia potuto comparire per caso fortuito o forza maggiore). 2. Termine a comparire. Si è definitivamente stabilito che il termine a comparire è di venti giorni, specificandosi che lo stesso deve essere “libero” e cioè conteggiato senza il dies a quo e senza il dies ad quem. Si è anche chiarito – opportunamente poiché nella vigenza dei d.l. n. 238/1995, 347/1995 e 432/1995 se ne era dubitato – che tale termine può essere abbreviato dal pretore fino alla metà (e cioè fino a non meno di dieci giorni), con decreto motivato, nelle “cause che richiedono pronta spedizione”. La formulazione di tale norma ricalca quella dell’art. 163 bis comma secondo c.p.c. e quindi ci si può rifare alla giurisprudenza che si è formata e si formerà sulla stessa, con l’avvertenza, peraltro, che, essendo già stati notevolmente abbreviati i termini di comparizione nel procedimento che ci occupa, il ricorso ad una ulteriore riduzione va valutato caso per caso e, riterrei, con un certo rigore stante l’opportunità che, qualora l’intimato opti per la difesa tecnica, questa possa svolgersi nella maniera migliore. 3. Costituzione delle parti. Il comma quinto dell’art. 660 c.p.c. detta una disciplina speciale quanto alla costituzione delle parti reintroducendo il disposto dell’abrogato art. 314 c.p.c.. Si è prevista una “difesa tecnica” (la costituzione può avvenire fuori udienza “depositando in cancelleria l’intimazione con la relazione di notificazione o la comparsa di risposta” – o in udienza, e quindi fino a tale udienza, – presentando tali atti al giudice –) e anche una “difesa atecnica”. consistente nella semplice comparizione personale dell’intimato “ai fini dell’opposizione e del compimento delle attività previste negli articoli da 663 a 666”. Si è quindi definitivamente chiarito che il convenuto intimato, se intende costituirsi, non deve osservare il termine di cui all’art. 166 c.p.c. (inapplicabile al procedimento de quo) e, comunque, può comparire personalmente e compiere le attività summenzionate. Tale ultima ipotesi rientra, quindi, tra le eccezioni che l’art. 82 comma terzo c.p.c. consente (“Salvi i casi in cui la legge dispone altrimenti…”) alla obbligatoria assistenza del procuratore, prevista dal legislatore del 1990 come regola pure nel procedimento in pretura. Che, comunque, l’intimato potesse comparire personalmente era interpretazione che si era già formata, indipendentemente dall’espressa previsione legislativa, visto che non era stato abrogato né modificato l’art. 663 c.p.c. e valutata la specialità del procedimento, destinato solo eventualmente a sfociare in un procedimento a cognizione piena, nel quale solamente ha senso imporre la “difesa tecnica”. La norma di cui all’art. 660 comma quinto c.p.c., tuttavia, non è meno importante nella parte in cui prevede le modalità di costituzione dell’attore in quanto, prima della modifica operata dalla l. n. 534/1995, vi erano dei dubbi sulla applicabilità dell’art. 165 c.p.c., che deve, ormai, ritenersi definitivamente esclusa. Una puntualizzazione è da fare sull’art. 660 comma sesto c.p.c. in quanto il legislatore sembra aver voluto tassativamente indicare i casi in cui è ammessa la difesa personale e cioè l’opposizione e il compimento delle attività di cui all’art 663 c.p.c. (Mancata comparizione o mancata opposizione dell’intimato), all’art. 664 c.p.c. (Pagamento dei canoni), all’art. 665 c.p.c. (Opposizione, provvedimenti del giudice) e all’art. 666 c.p.c. (Contestazione sull’ammontare dei canoni). Non ritengo che tale individuazione effettuata dalla legge possa escludere la possibilità per l’intimato di chiedere personalmente il cosiddetto “termine di grazia” di cui all’art. 55 l. n. 392/1978 stante la natura sostanziale dell’istanza (è, infatti, una richiesta di adempimento tardivo) e valutato anche il fatto che il pagamento porta alla conclusione del procedimento. 4. Udienza di convalida. Essendosi ripristinato il vecchio sistema che consente al convenuto intimato di comparire personalmente e limitare la propria difesa solamente alla opposizione o non opposizione, è evidente come nel procedimento di convalida non possa trovare applicazione l’art. 180 c.p.c., anche nella novellata redazione che prevede lo sdoppiamento tra udienza di comparizione e udienza di trattazione. L’udienza di convalida costituisce, infatti, il fulcro del procedimento di cui si tratta realizzandosi in tale sede gli effetti tipici del procedimento e cioè l’ottenimento di una pronuncia avente efficacia di giudicato costituita dalla convalida, qualora l’intimato non compaia o non si opponga oppure, ricorrendone i presupposti, di un titolo esecutivo costituito dalla ordinanza di rilascio. E la previsione espressa degli effetti di natura sostanziale conseguenti al comportamento delle parti fa sì che non si possa ipotizzare lo sdoppiamento dell’udienza, che è funzionale al procedere “per fasi” dell’ordinario giudizio di cognizione (“fasi” che sono prive di significato nel procedimento che ci occupa ove vi è solamente l’udienza di convalida, che, praticamente, esaurisce il procedimento) e al progressivo maturarsi delle preclusioni (che, per quanto avanti si dirà, non esistono nel giudizio di convalida). Se, quindi, quella appena menzionata è la struttura dell’udienza, è anche vero che nella stessa il giudice può trovarsi a dover prendere i provvedimenti richiamati nell’art. 180 comma primo c.p.c. (escluso, evidentemente, quello di cui all’art. 167 c.p.c.), che, quindi, potrà trovare applicazione – ciò va evidenziato perché potrà utilizzarsi la giurisprudenza che si è formata e si formerà sulla norma – sempre tenendo conto che, pur dopo il compimento di tali attività, la causa sarà sempre nella fase della convalida. Nulla osta, inoltre, all’applicabilità della prima parte del secondo comma dell’art. 180 c.p.c. quanto alla possibilità di concedere termini per il deposito di memorie qualora la complessità delle questioni lo renda necessario rimanendo, comunque, la causa, pure dopo il rinvio, sempre nella fase della convalida. Un’ultima puntualizzazione è da far riguardo alla prima udienza e cioè alla possibilità di differimento ex art. 168 bis ultimo comma c.p.c.. Difformemente da quanto da altri sostenuto (3), ritengo evidente l’incompatibilità di tale norma con il procedimento di convalida atteso che lo scopo della stessa è quella di consentire al giudice di organizzare il proprio lavoro nel modo migliore e, quindi, di poter scaglionare le udienze a seconda dei relativi incombenti e al fine di un loro adempimento effettivo. Ma nel caso di specie ciò non è necessario atteso che la struttura dell’udienza di comparizione è estremamente semplice e, quindi, limitato il compito del giudice, il quale deve emettere un provvedimento di convalida o, al più, deliberare la fondatezza della opposizione dell’intimato. 5. Conclusione del procedimento. La norma di cui all’art. 667 c.p.c., ritenuta da alcuni interpreti (4) ridondante, per come è formulata (“Pronunciati i provvedimenti previsti dagli artt. 665 e 666, il giudizio prosegue nelle forme del rito speciale, previa ordinanza di mutamento di rito ai sensi dell’art. 426”), sembra prevedere un passaggio obbligato alla fase di merito disciplinata dal rito di cui all’art. 447 bis c.p.c. per tutti i procedimenti di convalida. Ciò perché il legislatore del 1990, nel formulare la norma, si è rappresentato solo le cause previste dall’art. 8 comma secondo n. 3 c.p.c. (che, peraltro, costituiscono la maggioranza) e cioè quelle rientranti nella competenza funzionale del pretore. È tuttavia da precisare che il procedimento di convalida ha una sfera di applicazione più ampia di quella prevista dall’art. 8 comma secondo n. 3 c.p.c.. Ne consegue che l’ordinanza di cui all’art. 667 c.p.c. potrà essere – e normalmente lo sarà – lo sbocco del procedimento di convalida, ma residueranno delle ipotesi che richiederanno l’emanazione di altri provvedimenti. 5.a. Ipotesi in cui non va emessa l’ordinanza ex art. 667 c.p.c.. 1) controversie aventi ad oggetto beni immobili non urbani (es. aree agricole) (5). Tali controversie sono soggette al rito ordinario e all’ordinaria competenza per valore. Come si attua il passaggio al giudice competente? Per alcuni (6) previo mutamento di rito in forma analoga a quella prevista dall’art. 427 c.p.c. (dal rito speciale, ex art. 657 c.p.c., al rito ordinario) con la conseguenza che la causa sarà trattenuta avanti al pretore se questo è competente oppure andrà rimessa al tribunale. Altri (7) non ritengono applicabile l’art. 427 c.p.c. in quanto tale norma è dettata per il passaggio dal rito speciale al rito ordinario e non per quello da un procedimento speciale (ma ordinario) ad un rito ordinario di cognizione. Non potendo l’art. 667 c.p.c. essere applicato alla lettera, “il passaggio alla fase di merito deve avvenire o con il semplice procedere dell’istruttoria (quando il pretore sia al riguardo competente per valore) ovvero con il meccanismo della rimessione avanti al tribunale competente, da effettuare in un termine perentorio, in estensione analogica, a quanto previsto dall’art. 669 octies c.p.c. per l’inizio del giudizio di merito susseguente all’emanazione del provvedimento cautelare”. Per altri ancora (8), nel caso in cui sia competente il pretore, questi disporrà con ordinanza la prosecuzione del giudizio secondo le regole del processo di cognizione ordinario adeguando lo stato processuale al regime delle preclusioni per quel tipo di processo stabilito e dovrà fissare l’udienza ex art. 183 c.p.c. prevedendo che in relazione ad essa le parti possano mettersi in regola con le preclusioni. Qualora, invece, vi sia la competenza del tribunale, vi sarà la rimessione a quest’ultimo con ordinanza che dichiarerà la competenza dello stesso e fisserà termine per la riassunzione ex art. 50 c.p.c. avanti a detto giudice. 2) licenza o sfratto per finito affitto a coltivatore diretto, colono, mezzadro e sfratto per morosità relativa all’affitto a coltivatore diretto. È noto, peraltro, come la giurisprudenza, in contrasto con la dottrina, ritenga che il pretore difetti di competenza anche riguardo alla procedura ex art. 657 c.p.c., che spetterebbe alla sezione speciale (vedi Cass., 13 gennaio 1987, n. 155 in Foro It., Rep. 1987, voce Sfratto, n. 7; Cass., 16 novembre 1977, n. 5003, 1978, I, c. 660) con la conseguenza che, per l’ipotesi in cui venga adito il pretore, questi dovrebbe dichiarare la propria incompetenza e rimettere la causa alla sezione agraria. Qualora si ammetta la possibilità del rito speciale anche per le cause agrarie, in caso di opposizione, per alcuni (9) “il giudice dovrà disporre ad un tempo la rimessione della causa alla sezione specializzata di tribunale e il mutamento di rito ai sensi dell’art. 426” mentre per altri (10) si dovrà provvedere in modo analogo a quanto ipotizzato per l’ipotesi di rimessione al tribunale cui si è fatto riferimento sub 1) e, quindi, il pretore dichiarerà, con ordinanza, la competenza della sezione specializzata agraria e rimetterà avanti ad essa le parti per la prosecuzione secondo il rito del lavoro (applicabile ex art. 47 l. n. 203/1982). 3) controversie compromesse in arbitri. Anche in questi casi è fatta salva la possibilità per il pretore di emettere i provvedimenti ex artt. 665, 666 c.p.c. (vedi Cass., n. 387/1981), ma sulla opposizione decideranno gli arbitri. 4) rapporti ex art. 659 c.p.c.. L’art. 667 c.p.c. non riproduce più il comma terzo della vecchia norma che imponeva la riassunzione innanzi al pretore del lavoro. Tuttavia è da ritenere che il giudizio vada trasferito a tale giudice, per cui il procedimento proseguirà avanti il pretore, se questo può trattenere la causa di lavoro, o, altrimenti, andrà trasferito a quest’ultimo previa rimessione al pretore dirigente per l’assegnazione del fascicolo. Ciò non avviene quando si tratta di rapporti inclusi nell’art. 659 c.p.c., ma non rientranti nell’art. 409 c.p.c. (in quest’ultimo caso non vi è trasformazione nel rito speciale e l’opposizione prosegue con il rito ordinario). 5.b. Ipotesi in cui viene emessa l’ordinanza ex art. 667 c.p.c. 1) quando l’intimato proponga opposizione (per Cass., n. 295/1985 a prescindere dai limiti più o meno ampi dell’opposizione stessa). La norma parrebbe prevedere tale possibilità solo in caso di pronuncia positiva dei provvedimenti previsti dagli artt. 665 e 666 c.p.c.. Nonostante la lettera della legge, il momento in cui si muta il rito è quello della esaurita possibilità di pronuncia dei provvedimenti e non quello della loro effettiva pronuncia; 2) inesistenza dei presupposti generali per la convalida, rilevabili d’ufficio anche in caso di mancata comparizione o mancata opposizione dell’intimato. Su tali questioni, infatti, ritengo si debba decidere con sentenza previo mutamento di rito essendo questa interpretazione più ossequiosa della lettera della legge (comporta che la decisione venga presa osservando gli artt. 420, 429 primo e secondo comma e 430 c.p.c.) e più celere; 3) nel caso di cui all’art. 662 c.p.c. per chi ritenga che la mancata comparizione del locatore non determini l’estinzione del procedimento. Sul punto si rammenta che secondo alcuni interpreti la mancata comparizione comporta la cessazione di tutti gli effetti – sostanziali e processuali – dell’atto introduttivo, secondo altri rimangono gli effetti della disdetta ma vengono meno gli effetti processuali e vi sarebbe una sorta di improcedibilità cui consegue l’impossibilità per l’intimato di chiedere che la causa continui, anche in via ordinaria, al fine di ottenere il rigetto della domanda e secondo altri ancora rimangono fermi gli effetti processuali e sostanziali e il processo può continuare, peraltro non nelle forme speciali, ma in quelle ordinarie, previo mutamento di rito. 4) nel caso dell’art. 666 c.p.c. quando l’intimato paghi le somme non contestate; 5) la norma non menziona l’art. 55 l. n. 392/1978, il che parrebbe confermare la tesi per la quale vi è incompatibilità tra opposizione alla convalida e sanatoria della morosità. Tuttavia, se si ritiene che l’intimato possa sanare la morosità proponendo opposizione e richiedendo la restituzione di quanto pagato, è evidente che anche in questi casi si dovrà effettuare il mutamento di rito. E così pure, qualora si ammetta la possibilità di proporre opposizione e, in subordine, di richiedere il termine di grazia, per il caso che questo non venga concesso dal giudice oppure, una volta dato, il conduttore non paghi. 5.b.1. Funzioni e contenuto dell’ordinanza di mutamento di rito. La rubrica dell’art. 667 c.p.c. (“Mutamento di rito”) parrebbe attribuire alla relativa ordinanza l’unico scopo di far “proseguire il giudizio nelle forme del rito speciale”. Tuttavia, bisogna tenere presente che il provvedimento ex art. 667 c.p.c. segna pure il passaggio della causa da una fase a cognizione sommaria a una fase a cognizione piena. È evidente, quindi, che solo successivamente all’emanazione dell’ordinanza di cui si discute si potranno maturare le preclusioni, non concepibili nel procedimento di convalida, per una serie di ragioni (11). Innanzi tutto perché le preclusioni sono funzionali ad un giudizio a cognizione piena e non a un giudizio a cognizione speciale. In secondo luogo perché il “meccanismo” delle preclusioni è strettamente collegato alla costituzione delle parti mentre nel procedimento di convalida è espressamente prevista la possibilità per una parte di non costituirsi e di opporsi in maniera generica e immotivata. Inoltre il suindicato “meccanismo” – anche nel nuovo sistema che ha spostato in avanti alcune decadenze – intanto può funzionare in quanto l’attore e il convenuto si costituiscano nei tempi previsti dagli artt. 165 e 166 c.p.c. e non all’udienza (termine ultimo che la legge prevede per l’attore/intimante e il convenuto/intimato). In terzo luogo perché, optando per la tesi opposta a quella che qui si sostiene, nell’intero procedimento (comprensivo di fase a cognizione speciale e di fase a cognizione piena) opererebbero, contro ogni logica, due sistemi di preclusioni, l’uno del giudizio ordinario e l’altro del giudizio speciale ex art. 447 bis c.p.c.. Infine è da osservare che non si comprenderebbe l’espressa previsione (art. 667 c.p.c.) di un termine di integrazione degli atti qualora le preclusioni fossero già maturate. Le funzioni cui adempie l’ordinanza comportano necessariamente che la stessa, al di là della semplicistica formulazione della norma di cui all’art. 667 c.p.c., contenga tutti quegli elementi che: 1) consentano alle parti di poter predisporre le proprie difese in vista dell’instaurazione di un procedimento a cognizione piena; 2) consentano al giudizio di passare alla disciplina speciale di cui all’art. 447 bis c.p.c.. Relativamente alla predisposizione delle difese, è da evidenziare come l’ordinanza, opportunamente, non dovrà contenere un solo termine, ma un doppio termine (non vi sono, infatti, ragioni ostative alla previsione di una differenziazione, secondo una prassi ormai consolidata), il primo all’intimante, che diventa attore, e il secondo all’intimato, che diventa convenuto. Il primo termine va dato all’attore in quanto lo stesso, con la memoria integrativa, può reimpostare la lite con le ampie facoltà che gli riconosce la giurisprudenza formatasi fino ad oggi (12), che – indipendentemente dal fatto che sia condivisibile o meno – ritengo non possa non essere applicata in quanto l’orientamento della Corte di Cassazione che riconosce completa autonomia al procedimento che si instaura dopo l’emissione dell’ordinanza ex art. 667 c.p.c. vale a fortiori per il procedimento di convalida così come disciplinato dalla l. n. 534/1995, che ha definitivamente sancito la specialità dello stesso differenziandolo in maniera consistente da quello ordinario. Né si può sostenere che la formulazione della legge (“…il giudizio prosegue…”) impedisca di sostenere la tesi suesposta in quanto pure la norma sostituita si esprimeva in termini di “prosecuzione” del giudizio. Sull’argomento la dottrina che si è formata dopo la novella del 1990 è pervenuta a soluzioni contrastanti (13). Quanto al convenuto, è da osservare come lo stesso potrà proporre eccezioni e domande riconvenzionali poiché sulle stesse, come si è detto, non si è formata alcuna preclusione. Anche su tale argomento richiamo la giurisprudenza ante riforma (14). Quanto alla dottrina, peraltro formatasi anteriormente all’ultimo intervento legislativo del 1995, è da rilevare che vi sono varie interpretazioni in quanto accanto a chi ritiene possibile per il convenuto proporre la riconvenzionale (15), vi è chi è di parere contrario (16). Quanto alle modalità con cui possono attuarsi queste integrazioni e quanto ai termini da concedere, non vi è alcuna previsione espressa nella legge, ma l’esigenza che “il giudizio prosegua nelle forme del rito speciale”, come si esprime la norma di cui all’art. 667 c.p.c., suggerisce di fare riferimento alle norme richiamate dall’art. 447 bis c.p.c. (che tal rito speciale governa) e, in particolare, a quella dell’art. 414 c.p.c. quanto all’attore – e a quella dell’art. 416 c.p.c. – quanto al convenuto – nonché a quella di cui all’art. 418 c.p.c. per l’ipotesi in cui vi sia proposizione di domanda riconvenzionale. In quest’ultimo caso, quindi, il giudice deve spostare la data d’udienza stabilita nell’ordinanza ex art. 667 c.p.c. e tale provvedimento deve essere notificato all’attore, a cura dell’ufficio, unitamente alla memoria difensiva. Sul punto è da osservare che, molto opportunamente, si è consigliato (17) di inserire nell’ordinanza l’avvertimento che la proposizione di domanda riconvenzionale da parte dell’intimato dovrà avvenire nel rispetto degli artt. 416 e 418 c. p. c.. È evidente che, così costituendo il contenuto dell’ordinanza, la stessa si riempie di elementi che non sono indicati nella lettera della norma di cui all’art. 667 c.p.c.. Ritengo, tuttavia, che il loro inserimento non possa essere contra legem (costituendo, semmai, un quid pluris) e che la loro presenza non possa avere conseguenze di sorta atteso tale integrazione appare rispettosa del rito speciale che governa il giudizio successivamente all’emissione dell’ordinanza e fa sì che la fase di merito venga correttamente instaurata. Poiché, peraltro, la norma di cui all’art. 667 c.p.c. richiama semplicemente l’art. 426 c.p.c., non può ritenersi scorretta la scelta di non sdoppiare il termine, visto che la legge ne indica uno solo (scelta questa che mi sentirei vivamente di sconsigliare perché non consente un’opportuno articolarsi delle difese) né la concessione di termini non rispettosi del disposto degli articoli 416 e 418 c.p.c.. Tuttavia, quando la sequenza dei termini impedisce l’esercizio del diritto di difesa, la parte che si trova in tale situazione potrà essere ammessa a valersi delle facoltà di cui all’art. 420 c.p.c. primo, quinto e sesto comma c.p.c., ovviamente nei limiti consentiti dalla norma. Il contenuto dell’ordinanza di mutamento di rito sarà ancora più articolato quando l’intimato nella precedente fase di giudizio sia comparso solo personalmente. In questo caso, fermo restando quanto sopra indicato, l’ordinanza de qua, che, come si è detto, segna il passaggio della causa da una fase a cognizione speciale a una fase a cognizione piena, dovrà consentire all’intimato di munirsi di difensore e anche in questo caso, come sopra si è detto, suggerirei di inserire un opportuno avvertimento. Va aggiunto che l’ordinanza di mutamento di rito, qualora venga emessa fuori udienza – nel caso venga emanata in udienza si deve intendere comunicata senz’altro alle parti presenti o che dovevano essere presenti ex artt. 134 comma primo e 176 comma secondo c.p.c. – deve essere notificata. Sul punto si ricorda la sentenza della Corte Costituzionale del 14 gennaio 1977, n. 14, che ha dichiarato l’illegittimità del combinato disposto dell’art. 426 c.p.c. e dell’art. 20 l. n. 533/1973 “nella parte in cui con riguardo alle cause pendenti al momento dell’entrata in vigore della legge non è prevista la comunicazione alla parte contumace dell’ordinanza che fissa l’udienza di discussione ed il termine perentorio per l’integrazione degli atti” e tale principio è stato ritenuto applicabile anche alle controversie individuali di lavoro promosse dopo l’entrata in vigore della l. n. 533/1973 relativamente alle quali non troverebbe applicazione la pronuncia di incostituzionalità “in applicazione di una regola che, sebbene non espressamente sancita per tale caso, costituisce, tuttavia, un principio generale del nostro ordinamento e perciò anche un criterio legittimo di ermeneutica conformemente al disposto dell’art. 14 delle disposizioni sulla legge in generale” (Cass., 13 febbraio 1985, n. 1209) (18). Non essendovi una espressa disposizione di legge, nel provvedimento vi deve essere l’espresso ordine alla cancelleria in quanto l’art. 420 comma undicesimo c.p.c. prevede l’obbligo solo per le notificazioni e comunicazioni previste dalla legge. Un’ultima precisazione è da fare riguardo al fatto che – come si evince dalla presente esposizione – non ho distinto la situazione dell’intimato comparso personalmente da quella dell’intimato costituito se non in relazione al contenuto più articolato che deve avere l’ordinanza di mutamento di rito nel primo caso. Ciò vale anche ai fini delle preclusioni che, a mio parere, scattano in ogni caso dopo l’ordinanza di mutamento di rito sia per l’intimato comparso personalmente che per quello costituito, e pure nell’ipotesi in cui quest’ultimo si sia già completamente difeso (proponendo eccezioni e domande riconvenzionali). E questo per due ordini di ragioni. La prima, attinente al merito, è che, ammettendo per l’attore la possibilità di reimpostare la lite con le ampie facoltà cui sopra si è accennato, il convenuto deve essere posto in grado di difendersi adeguatamente. La seconda, riguardante il processo, è che, optando per la tesi opposta a quella che si sostiene, si ammetterebbe l’esistenza di un doppio regime decadenziale, collegato alla costituzione o non costituzione dell’intimato, che, oltre ad apparire irragionevole, non ha alcun fondamento né nella legge né nel sistema. Quanto sopra affermato vale pure per i casi in cui l’intimato si sia costituito e abbia proposto domanda riconvenzionale e poi con la memoria ex art. 426 c.p.c. l’abbandoni o lo modifichi o, ancora, ne aggiunga delle altre poiché ciò che rileva ai fini del giudizio di merito che segue l’ordinanza di cui all’art. 667 c.p.c. è unicamente il contenuto della memoria integrativa. 5.b.2. Modelli di provvedimento. IPOTESI IN CUI NEL PROCEDIMENTO DI CONVALIDA L’INTIMATO SIA COMPARSO PERSONALMENTE ……provvedimenti sub 5.b…… Visto l’art. 667 c.p.c; fissa l’udienza di cui all’art. 420 c.p.c. al…… dando termine, onde provvedere all’eventuale integrazione degli atti introduttivi, fino al …… all’intimante per il deposito di memoria ai sensi dell’art. 414 c.p.c. (relativamente alla proposizione di domande e di istanze istruttorie) e fino al…… all’intimato per il deposito di memoria ai sensi degli artt. 416 e 418 c.p.c. (relativamente alla proposizione di eccezioni, domande riconvenzionali e istanze istruttorie), avvertendo quest’ultimo che ha l’onere di munirsi di difensore, pena la dichiarazione di contumacia, salvo che non ricorrano le ipotesi di cui all’art. 417 c.p.c.. Si comunichi alla parte costituita e si notifichi a quella comparsa personalmente. IPOTESI IN CUI NEL PROCEDIMENTO DI CONVALIDA L’INTIMATO SI SIA COSTITUITO ……provvedimenti sub 5.b…… Visto l’art. 667 c.p.c; fissa l’udienza di cui all’art. 420 c.p.c. al…… dando termine, onde provvedere all’eventuale integrazione degli atti introduttivi, fino al…… all’intimante per il deposito di memoria ai sensi dell’art. 414 c.p.c. (relativamente alla proposizione di domande e di istanze istruttorie) e fino al…… all’intimato per il deposito di memoria ai sensi degli artt. 416 e 418 c.p.c. (relativamente alla proposizione di eccezioni, domande riconvenzionali e istanze istruttorie). Si comunichi. (1) vedi A. BUCCI, M. CRESCENZI e E. MALPICA, “Il processo delle locazioni dopo la riforma”, in “Manuale della riforma del processo civile”, 1991, p. 203 e ss. (2) M. ACIERNO, “Il procedimento di convalida e la novella del processo civile” in Documenti Giustizia, 1995, 12, 1997 e ss.; A. MIRENDA, “Brevi riflessioni sul procedimento per convalida dopo la riforma del processo civile”, in Rass. Loc. e Cond., 1995, 3, p. 323 e ss. (3) Dissentono da tale opinione A. BUCCI, M. CRESCENZI e E. MALPICA, op. cit., p. 207 e ss.: “la soluzione è discutibile in quanto da un lato, l’importanza della comparizione del convenuto all’udienza fissata ai fini dell’opposizione, in relazione alle conseguenze che derivano da un comportamento omissivo, può far ritenere l’impossibilità di ipotizzare la legittimità di un’udienza diversa da quella indicata nella citazione (o rinviata automaticamente secondo quanto previsto dagli artt. 56 e 57 disp. attuaz.), in assenza di un sistema che assicuri al convenuto non costituito la conoscenza dell’udienza stessa. D’altro canto deve osservarsi (e tale soluzione ci sembra preferibile) che la norma di cui al quinto comma dell’art. 168 bis non appare del tutto incompatibile con la procedura di convalida, per la considerazione che l’onere che deriverebbe all’intimato non costituito di accertare in cancelleria la nuova data della comparizione (stabilita dal pretore) è in sostanza del tutto simile (e non più gravoso) di quello che deriva nel caso di uno slittamento automatico dell’udienza in virtù dell’applicazione degli artt. 56 e 57 delle disp. att.”. (4) P. L. NELA, in “Le riforme del processo civile” a cura di S. CHIARLONI, 1992, p. 601 e ss., il quale sostiene: che il giudizio di merito debba proseguire nelle forme del rito speciale è ricavabile dall’art. 447 bis c.p.c. ove si prevede che il giudizio di cognizione delle locazioni; deve comunque svolgersi secondo tale rito. Che il passaggio dall’uno all’altro rito sia regolato dall’art. 426 c.p.c. è ricavabile dallo stesso art. 447 bis c.p.c. che richiama tra le norme applicabili l’art. 426 c.p.c.… Né senza il nuovo art. 667 c.p.c. si sarebbe potuto invocare la mancanza di una norma che imponesse l’instaurazione del giudizio di merito posto che già nel codice precedente alla riforma tale norma difettava e nessuno poneva in dubbio la necessità del giudizio di merito”. Sulla critica a tale tesi vedi R. FRASCA, “Brevi note sul procedimento per convalida di sfratto prima e dopo la riforma del processo civile”, nota a Cass., 29-7-1994, n. 7088, in Foro It., I, 2937 e ss., il quale sostiene che “in assenza di una norma come il novellato art. 667 c.p.c. neppure sarebbe risultata prevista la indefettibilità della cognizione ordinaria a seguito dell’opposizione dell’intimato (o del verificarsi di una situazione di esclusione della convalida nel caso previsto dall’art. 666 c.p.c. a seguito del pagamento delle somme non contestate oggetto della morosità”) e “inoltre la norma dell’art. 426 c.p.c. di per sé è dettata per le cause proposte con le “forme ordinarie”, mentre la citazione per convalida introduce tuttora un “procedimento speciale” e “tale peculiarità rende l’ipotesi del passaggio della fase sommaria del procedimento per convalida a quella di cognizione piena non scevra di una certa peculiarità che rivelerà la non integrale assimilabilità del provvedimento del cambiamento di rito a quello dell’art. 426 c.p.c.”. (5) Per G. GABRIELLI e F. PADOVINI, in “La locazione di immobili urbani”, 1994, p. 8 e ss. “immobile urbano” è quello avente ad oggetto immobili diversi da quelli “rustici” (adibiti cioè ad attività agricola o strettamente connessa) indipendentemente dall’ubicazione dell’immobile fuori della cinta cittadina (Cass., 14 dicembre 1985, n. 6344) e indipendentemente dalle caratteristiche dell’immobile, che può essere un edificio o un’“area nuda” (si pensi ad esempio al caso di un proprietario che dà in locazione un fondo ad una associazione perché venga utilizzato come campo per l’attività sportiva o al caso che all’interno del perimetro urbano venga locato un terreno inedificato a chi ne ha bisogno per accatastare materiale o a chi mantiene un deposito di roulotte e caravan). (6) A. PROTO PISANI, “La nuova disciplina del processo civile”, 1991, p.12. (7) P. L. NELA, op.cit., p. 602. (11) A. PROTO PISANI, op. cit., p. 11 e ss. dal richiamo esplicito fatto dall’art. 667 c.p.c. all’art. 426 c.p.c. “desume senza alcuna possibilità di dubbio che alla notificazione della intimazione o della citazione non segue una fase preparatoria soggetta alle preclusioni di cui agli artt. 167 e 183: la fase preparatoria del giudizio a cognizione piena si perfezionerà solo a seguito dell’ordinanza di mutamento di rito prima tramite l’integrazione degli atti introduttivi (integrazione del tutto libera, giacché nessuna decadenza è ricollegata alla fase speciale della convalida) e poi nel corso dell’udienza di cui all’art. 420”. (12) Ammettono la possibilità di proporre una diversa causa petendi Cass., 18 giugno 1993, n. 6806 e Cass., 11 giugno 1983, n. 4023. Ammettono la possibilità proporre una diversa causa petendi e una domanda nuova Cass., 25 giugno 1993, n. 7066; Cass., 5 luglio 1984, n. 3930 che ritiene possibile domandare, nel processo seguito all’opposizione alla convalida di sfratto per morosità, la risoluzione della locazione per mutamento di destinazione della res locata; Cass. 10 febbraio 1981, n. 828 che ritiene possibile domandare, nel giudizio seguito alla opposizione alla convalida di sfratto per finita locazione, il rilascio dell’immobile per la necessità di disporne a norma dell’art. 2 della l. n. 253/1950; Cass., 13 gennaio 1981, n. 282; Cass., 25 giugno 1993, n.7066; Cass., 23 ottobre 1979, n. 5541: Cass., 2 aprile 1975, n. 1186. Ammettono la possibilità di domanda nuova Cass. 23 marzo 1991, n. 3154 che ritiene possibile proporre domanda di risoluzione del contratto di locazione per inadempimento e di risarcimento dei danni; Cass., 14 novembre 1986, n. 6700; Cass. 21 novembre 1981, n. 6221.Sulla questione se in questi casi vi siano delle vere e proprie domande nuove vedi P. D’ASCOLA Osservazioni in tema di domanda nuova, modificazione della domanda e procedimento per convalida di sfratto”, nota a Pretura Trento, Sez. di Cles, 26 luglio 1993, in Giur It., 1994, 899 e ss. (13) Per A. SALETTI, in “Le nuove leggi civili commentate”, 1992, p. 292 “Le memorie previste dall’art. 426 mirano a permettere alle parti di completare le loro difese sia dal punto di vista dell’allegazione dei fatti sia da quello delle istanze istruttorie: sicché – essendo il termine unico per tutte le parti – un tale risultato sarebbe palesemente impossibile, se fosse consentito introdurre domande totalmente nuove rispetto a quelle oggetto del procedimento speciale”. L’autore quindi ritiene, anche in sintonia con la nozione di conversione del rito, che postula la continuazione di un procedimento già in corso, che la domanda originariamente proposta dall’intimante/attore non possa essere mutata né ad essa aggiunte altre. Per F. P. LUISO in CONSOLO-LUISO-SASSANI, “La riforma del processo civile”, 1991, p. 417 non sono ammissibili nuove domande che le parti possono formulare non oltre la prima udienza del procedimento di convalida. Per A. BUCCI, M. CRESCENZI e E. MALPICA, op. cit., p. 211 e ss. non vi è possibilità di introdurre domande nuove. “Ove infatti si consideri lo stretto nesso di continuazione sicuramente stabilito dal nuovo art. 667 tra fase sommaria e procedimento ordinario, nonché il meccanismo previsto per il ‘passaggio’ dal rito ordinario a quello speciale (con l’art. 426, che determina la fissazione dell’udienza di discussione di cui all’art. 420), se ne deve dedurre che il giudizio che prosegue debba rimanere immutato nei termini fissati dalla originaria contestazione di cui all’intimazione-citazione” per cui l’attore potrà essere ammesso a quelle attività previste dall’art. 420 c.p.c.. Né si può sostenere che la proposizione di domande nuove sia consentita attraverso l’integrazione ex art. 426 c.p.c. che “si riduce in pratica nella formulazione completa dei mezzi istruttori e nella produzione di tutti i documenti di cui attore e convenuto intendono avvalersi, ma “non può consentire la sanatoria di decadenze o di preclusioni già verificatesi” risultando “evidente come una comparsa, depositata a giudizio avanzato, non possa assolvere in alcun modo a quella funzione di contestazione preventiva che è l’assenza dell’ammissibilità di qualsiasi domanda”. (14) Ammettono la possibilità per il convenuto di dedurre nuove eccezioni e/o di proporre domande riconvenzionali (Cass., 18 giugno 1993, n. 6806; Cass., 11 giugno 1983, n. 4023; Cass., 13 gennaio 1981, n. 282; Cass., 21 novembre 1981, n. 6221; Cass., 23 ottobre 1979, n. 5541; Cass., 2 aprile 1975, n. 1186). (15) BALENA, “Ancora interventi urgenti sulla riforma del processo civile” in Corr. Giur, la risposta è affermativa, perché, stante la natura del procedimento ora considerato, sembra lecito fare comunque riferimento, a questo riguardo, alla disciplina del procedimento ordinario. A. SALETTI, op. cit., p. 292 sostiene che l’intimato/convenuto potrà addurre eccezioni prima non formulate, giacché l’opposizione non necessita di essere motivata e quindi non sono configurabili preclusioni in proposito. In questi casi per permettere la realizzazione del contenzioso l’intimante/attore sarà ammesso a valersi delle facoltà di cui agli artt. 420, comm. 1°, 5°, 6° c.p.p. richiamato dal nuovo art. 447 c.p.c.. L’informalità cui è improntato il giudizio speciale, tale da consentire all’intimato un’opposizione priva di formule sacramentali ed immotivata induce a ritenere che non sia configurabile un obbligo di introdurre la riconvenzionale fin dalla opposizione e la circostanza sarebbe confermata dalla struttura del giudizio speciale, che è finalizzato alla formazione semplificata di un titolo esecutivo, non certo ad una completa formazione del thema decidendum del successivo eventuale giudizio ordinario. (16) Per P. L. NELA, op. cit., pag. 600 e ss.: “la presentazione di domande riconvenzionali è consentita all’opponente nella comparsa con cui egli si sia eventualmente costituito, ed è successivamente preclusa, ex art. 167 c.p.c, senza che la possibilità di integrare l’atto introduttivo si risolva in una vera e propria sanatoria della decadenza. Né l’opponente dovrà dotare la memoria integrativa della istanza di fissazione di nuova udienza, prevista dall’art. 418 c.p.c., poiché, al momento della fissazione d’udienza ex art. 426, essendo già stata presentata la riconvenzionale, tanto il giudice quanto la controparte ne sono a conoscenza, ed il primo ha provveduto alla fissazione tenendone già conto. La risposta al quesito è forse meno facile, allorché l’opponente si sia semplicemente presentato all’udienza, senza costituirsi o comunque limitandosi a dichiarare di volersi opporre… Parrebbe che anche in questo caso l’attesa dell’intimato nel proporre la domanda riconvenzionale non possa essere premiata, ma risulta piuttosto gravoso per la sua posizione, ammetterlo alla comparizione persone innanzi al pretore, e poi comminargli la decadenza della riconvenzionale”. (17) R. FRASCA, op. cit., 2940. (18) Sul punto vedi l’articolata e parzialmente diversa ricostruzione di R. FRASCA, op.cit., 2940. CONNESSIONE E RITO NELLE CONTROVERSIE LOCATIZIE. IL PROCEDIMENTO PER CONVALIDA DI SFRATTO Relatore: dr.ssa Maria Giuliana CIVININI giudice del Tribunale di Pistoia SOMMARIO: 1. Premessa. – 2. Cause pendenti alla data del 1° gennaio 1993: il sistema introdotto dalla l. n. 392/1978 e succ. mod. – 2.1. Segue. In particolare: le controversie relative alla determinazione, aggiornamento e adeguamento del canone. – 2.1.1. Segue. In particolare: il tentativo obbligatorio di conciliazione. – 2.2. Competenza e rito. – 2.3. Cause connesse soggette a riti differenti. – 3. Cause introdotte dopo il 1° gennaio 1993. L’entrata in vigore dei commi 3°, 4°, 5° dell’art. 40 c.p.c.. – 3.1. Effetti della nuova disciplina sulle controversie in materia di locazione. – 3.2. La nozione di rito speciale. – 3.3. Problemi di costituzionalità. – 4. Cause introdotte dopo le cause pendenti alla data dell’entrata in vigore integrale della l. n. 353/1990. In particolare: l’ntrata in vigore dell’art. 447 bis c.p.c.. – 4.1. Il problema del cumulo di più domande attribuite alla competenza di giudici diversi. – 5. Il mutamento di rito nel procedimento per convalida di sfratto. DIBATTITO SU ALCUNI PUNTI CONTROVERSI: A) Cause iniziate prima del 1° gennaio 1993: aa) quali controversie rientrano nella nozione di “controversie relative alla determinazione, all’aggiornamento e all’adeguamento del canone”? ab) quando la domanda di “equo canone” è introdotta in via riconvenzionale o in sede di opposizione a decreto ingiuntivo deve farsi luogo al tentativo obbligatorio di conciliazione ai sensi degli artt. 43 e 44 l. n. 392/78? ac) è possibile realizzare il “simultaneus processus” quando in un giudizio di competenza del tribunale è proposta in via riconvenzionale la domanda c.d. di “equo canone”? in caso positivo, innanzi al giudice superiore o al giudice inferiore? ad) è possibile realizzare il “simultaneus processus” quando le domande cumulate soggiacciono a riti differenti? af) formatasi una preclusione in punto di competenza, la questione di rito può ancora essere messa in discussione? B) cause introdotte dopo il 1° gennaio 1993 (data di entrata in vigore dei commi 3°, 4° e 5° dell’art. 40 c.p.c., aggiunti dall’art. 51. n. 353/1990): b1) rito lavoro e rito locatizio sono riti speciali differenti ai fini del verificarsi della “vis actractiva” dell’uno rispetto all’altro? b2) è costituzionalmente legittima la previsione della prevalenza del rito speciale sul rito ordinario solo per il rito lavoro in senso stretto e non anche per il rito locatizio? b3) la norma si applica anche in caso di cumulo soggettivo? b4) come deve essere interpretato il criterio della prevalenza del rito della causa in ragione della quale viene determinata la competenza? C) cause che saranno introdotte (o risulteranno pendenti) dopo l’entrata in vigore degli artt. 38, 667 (come sostituiti dalla l. n. 353/1990) e 447 bis c.p.c.: c1) è possibile il cumulo di domande di competenza del tribunale soggette al rito ordinario e domande di competenza del pretore soggette al rito speciale? e la realizzazione del “simultaneus processus” è possibile davanti al giudice inferiore? c2) disposto il mutamento di rito ai sensi dell’art. 667 c.p.c., si apre una nuova fase preparatoria? quando si formano le preclusioni? 1. Premessa. La l. n. 353/1990 ha operato un intervento razionalizzatore della disciplina processuale in materia di locazione di immobili urbani. Preso atto della situazione di “vero e proprio caos processuale” (1) cui aveva dato luogo la l. 27 luglio 1978, n. 392, con la frammentazione dei riti (ordinario, speciali c.d. a cognizione piena, sommari) e dei giudici competenti in primo grado (conciliatore, pretore, tribunale) ivi prevista (2) (situazione ulteriormente complicata dalla l. n. 399/1984), il legislatore del 1990 da un lato ha sottoposto alla competenza per materia del pretore e al rito lavoro tutte le controversie relative ai rapporti di locazione e di comodato di immobili urbani e di affitto di aziende (v. art. 8 n. 3 nuovo testo e art. 447 bis), dall’altro lato “assoggettando le controversie in materia di comodato di immobili urbani e di affitto di azienda alle stesse scelte effettuate in punto di competenza per materia e di rito per le controversie in materia di locazione di immobili urbani” ha evitato “che l’individuazione del giudice competente per materia e del rito dipendano da complesse qualificazioni giuridiche del rapporto (rilevanti anche ai fini della decisione di merito..)” (3). Se, dunque, la nuova disciplina è destinata a far venir meno pressoché tutti i problemi insorti nella vigenza del sistema attuato dalla l. n. 392/1978 e succ. mod. (4), i plurimi e rinnovati rinvii dell’entrata in vigore dell’intera riforma (v. l. n. 447/1992, d.l. 14-2-1994, 14-4-1994) spostano nel futuro tale risoluzione e rendono tuttora attuali i problemi medesimi. D’altro lato l’entrata in vigore, a far data dal 1-1-1993, dei commi 3°, 4° e 5° dell’art. 40 c.p.c. (aggiunti dall’art. 5 l. n. 353/1990), che disciplinano il cumulo di cause soggette a riti differenti, e la previsione (contenuta nell’art. 92, 1° comma, l. n. 353/90 mod. dall’art. 2, 5° comma l. n. 477/1992) che tale disposizione non si applica ai giudizi pendenti al 1-1-1993 (ai quali, fino alla data di entrata in vigore dell’intera riforma, “si applicano … le disposizioni anteriormente vigenti”), dà luogo oggi all’esistenza di un doppio regime processuale (ordinario-preriforma e transitorio o “di transizione”), destinato ad essere superato dalla completa vigenza della riforma. Tenteremo nel prosieguo di dar conto delle principali questioni legate ai temi dei rapporti tra competenza e rito e della cumulabilità di cause soggette a riti differenti e attribuite alla competenza di giudici diversi; tenuto conto di quanto si è detto sopra sull’esistenza di più regimi processuali, nel far ciò distingueremo per gruppi di controversie identificate in base al criterio temporale dell’epoca di introduzione. 2. Cause pendenti alla data del 1° gennaio 1993: il sistema introdotto dalla l. n. 392/1978 e succ. mod.. Lo schema dei riti e delle competenze relativi alle controversie in materia di locazione di immobili urbani, in base alla disciplina di cui alla l. n. 392/78 e 399/84, è il seguente: a) rito speciale ex artt. 46-53 l. n. 392/78 per le controversie: aa) relative alla determinazione, aggiornamento ed adeguamento del canone; ab) relative alle opere di conservazione ex art. 23, all’indennità di avviamento ex art. 34 e all’indennità per i miglioramenti apportati dal conduttore col consenso del locatore devolute alla competenza per materia del pretore; b) procedimento speciale ex art. 30 e 46 per le controversie relative al diritto di recesso nei casi previsti dagli artt. 29, 59 e 73 devolute alla competenza per materia del pretore; c) procedimento per convalida di sfratto ex art. 657 ss. c.p.c. devoluto alla competenza per materia del pretore; d) rito ordinario per ogni altra controversia e in particolare per quelle: da) sulla cessazione del rapporto di locazione per cause diverse da quelle indicate negli artt. 29, 59 e 73 l. n. 392/78, 657, 658, 659 c.p.c. o per finita locazione o morosità quando vi sia stata opposizione da parte del conduttore; db) sul diritto di riscatto e di prelazione ex artt. 38, 39 e 40 l. cit.; dc) sul diritto al ripristino ex art. 31; dd) sugli obblighi di manutenzione la competenza a conoscere le quali è ripartita secondo gli ordinari criteri di competenza per valore. 2.1. Segue. In particolare: le controversie relative alla determinazione, aggiornamento e adeguamento del canone. La formula di cui agli artt. 43-45 l. n. 392/78 (“controversie relative alla determinazione, all’aggiornamento e all’adeguamento del canone”) ha fatto sorgere problemi interpretativi, la cui risoluzione è di particolare rilievo dipendendo dalla qualificazione della controversia l’individuazione del giudice competente e del rito applicabile (5). Gli orientamenti della giurisprudenza possono così riassumersi: A) è pacifico che rientrino nella categoria di controversie in esame quelle riguardanti la misura del canone da determinarsi o aggiornarsi secondo la precedente legislazione vincolistica, in riferimento sia alla richiesta del locatore di ottenere l’ammontare del corrispettivo dovuto sia alla richiesta del conduttore di restituzione di somme indebitamente pagate, e anche se aventi ad oggetto la validità ed efficacia delle clausole ISTAT; v. Cass., 4 luglio 1981, n. 4397 in FI, 1982, I , 2126; Cass., 1 settembre 1982, n. 4771, in FI, 1983, I, 76; 8 marzo 1983, n. 1712, in Rass. Equo Can., 1983, 119; Cass., 26 aprile 1983, n. 2873 e Cass., 29 marzo 1983, n. 2285, ibid., 1983, 116 ss.; Cass., 25 giugno 1985, n. 3816 (sulla clausola ISTAT); Cass., 27 febbraio 1987, n. 2120; Cass., 10 agosto 1988, n. 4916, ibid., 1990, 136 (le ultime due specificano che sussiste la competenza ratione materiae del pretore anche quando la controversia abbia ad oggetto canoni di locazioni in corso al momento dell’entrata in vigore della legge e relativi al periodo ad essa antecedente); B) costante è anche l’indirizzo secondo cui rientrano tra le controversie in esame quelle aventi ad oggetto la restituzione delle somme che il conduttore assume corrisposte al locatore oltre la misura del canone legalmente dovuto; v. Cass., n. 4771/82, cit.; n. 1712/83, cit., che espressamente qualifica controversia sulla misura dei canoni la causa avente “per oggetto la pretesa dell’attore alla restituzione di somme che sostiene essere state indebitamente percepite dalla locatrice per aumenti illegittimi del canone”; Cass., 10 agosto 1988, n. 4916, secondo cui la competenza funzionale e inderogabile del giudice monocratico “si estende alla domanda di pagamento di canoni rimasti insoluti ed alla riconvenzionale di restituzione delle somme pagate in più per (pretesi) aumenti illegittimi del canone, le quali, in quanto accessorie rispetto a quella principale (per manifesta priorità logica e giuridica) di determinazione del canone, vanno devolute allo stesso giudice per ragioni di concentrazione e di economia processuale” (la massima è ripetitiva; v. anche Cass., 16 dicembre 1988, n. 6860; 18 febbraio 1986, n. 967; 6 settembre 1985, n. 5452; Cass., 26 agosto 1983, n. 5484; Cass., 25 giugno 1985, n. 3816); Cass., 9 aprile 1993, n. 4334, in Arch. loc., 1993, 482, secondo cui “l’azione di ripetizione delle somme pagate dal conduttore al locatore in più del dovuto nel corso del rapporto per effetto di illegittimo aumento del canone può anche essere proposta, congiuntamente alla domanda di accertamento del canone di locazione dovuto, al pretore competente su quest’ultima domanda, rispettato alla quale quella di ripetizione è accessoria, atteso che, ai sensi dell’art. 31 comma 2 c.p.c., al giudice competente per materia sulla causa principale possono essere proposte domande accessorie anche se eccedenti la sua competenza per valore”; Cass., 10 febbraio 1990 n. 972, in FI, 1991, I, 1203 in cui si afferma che “le controversie sulla misura dei canoni di locazione devolute alla competenza esclusiva del pretore non sono soltanto quelle dirette a stabilire quale percentuale di aumento vada applicata, sul canone iniziale, ma per il principio della concentrazione processuale, anche quelle aventi ad oggetto le conseguenti statuizioni circa il pagamento delle somme dovute (o la ripetizione di quanto indebitamente corrisposto)”; per la giur. di merito si v. Pret. Napoli, 7 febbraio 1986, n. 296 in Arch. Loc., 1987, 747, secondo cui rientra nella competenza pretorile di cui all’art. 45 l. n. 392/78 la domanda di ripetizione di somme pagate in più; Pret. Ventimiglia, 16 febbraio 89, secondo cui anche la domanda di ripetizione di canoni indebitamente corrisposti, che postula la domanda di adeguamento del canone, deve essere preceduta dal tentativo obbligatorio di conciliazione. Come dimostra l’esame delle citate pronunce, la giurisprudenza ricomprende le controversie in materia di rivalsa tra quelle di cui all’art. 45 cit. o direttamente o in quanto consequenziali rispetto a quelle di determinazione del canone, rinvenendo il diritto alle restituzioni di cui all’art. 79 l. n. 392/78 fondamento nella violazione degli artt. 12 ss. l. cit. (6). La ratio decidendi maggiormente ricorrente appare essere quella relativa al nesso di accessorietà che lega la domanda di restituzione alla domanda di accertamento del canone, con conseguente applicazione dell’art. 31 c.p.c. (e deroga alla competenza per valore in favore del giudice della causa principale competente per materia). Perquanto non vengano indicate esplicitamente le scelte dogmatiche sottese a tale soluzione, la costante affermazione secondo cui la domanda di ripetizione di canoni indebitamente corrisposti “postula concettualmente le operazioni di adeguamento del canone”; il fatto che in nessun caso venga posta la questione della realizzabilità della trattazione simultanea nonostante la diversità dei riti (non ricomprendendosi la causa di restituzione direttamente tra quelle di cui all’art. 45 cit., la medesima dovrebbe ritenersi soggetta al rito ordinario di cognizione); la circostanza, infine, che si affermi la competenza per materia del pretore anche allorquando non vengono proposte due distinte domande – una pregiudiziale di accertamento del canone e l’altra dipendente di restituzione – ma una sola avente ad oggetto il diritto alla rivalsa, inducono a ritenere che la giurisprudenza nei casi in esame accolga una nozione di accessorietà nel senso di “pregiudizialità logica o interna allo stesso rapporto” (7). Consegue a tale ricostruzione che domanda principale e domanda accessoria risultano inserite in un medesimo rapporto e, quand’anche sia dedotta in giudizio esclusivamente la coppia pretesaobbligo relativa al diritto di rivalsa, l’oggetto del processo (e del giudicato) non è limitato alla stesso ma si estende direttamente all’intero rapporto giuridico complesso e in particolare all’accertamento del canone (8). Significativa in tal senso è Cass., 13 luglio 1992, n. 8495 (in Rass., 1993, 145); nel caso di specie la corte d’appello aveva respinto l’eccezione di incompetenza in materia del tribunale affermando che oggetto del giudizio era lo sfratto per morosità e che il convenuto non aveva espressamente richiesto la determinazione del canone; la S.C. osserva che la corte di merito “non ha considerato che la domanda riconvenzionale proposta dalla conduttrice per la restituzione delle somme che asseriva di aver corrisposto in precedenza rispetto all’ammontare legalmente dovuto per i canoni, postulava il preliminare accertamento della misura del canone e dei successivi aumenti legali…Se la corte d’appello avesse tenuto conto della sostanziale volontà della conduttrice – la cui domanda di restituzione delle somme che avrebbe corrisposto alla locatrice in eccedenza rispetto a quelle dovute, non avrebbe avuto alcun senso senza l’accertamento e la determinazione del canone legalmente avuto – avrebbe dovuto ritenere … che la domanda di restituzione non poteva non contenere quella di accertamento e determinazione del canone …”. C) la giurisprudenza di legittimità è costante nell’affermare che la domanda di risoluzione del contratto di locazione per morosità sia retta dagli ordinari criteri di competenza per valore (e nel negare che la medesima sia legata da un nesso di accessorietà alla domanda riconvenzionale con cui il convenuto, contestata la morosità, chieda la determinazione legale del canone); v. Cass., 24 novembre 1982, n. 6362, in FI, 1983, I, 335 con n. di PIOMBO; 21 agosto 1985, n. 4470, id., 1986, I, 2266; 28 marzo 1986, n. 2209; 27 febbraio 1987, n. 2113; gli ordinari criteri di competenza per valore si ritengono applicabili anche alle controversie di mero accertamento sulla durata del rapporto, sulla disciplina ad esso applicabile e in genere sul contenuto del negozio; v. Cass., 18 aprile 88, n. 3061, in FI, 1989, I, 1915 ed ivi ult. rif.; Cass., 28 novembre 1992, n. 12716 in Arch. loc., 1993, 271; Cass., 18 giugno 1992, n. 7542; in senso contr., v. Cass., 29 maggio 1991, n. 6053 (in Giust. civ., 1992, I, 141), secondo cui “le controversie relative alla determinazione, all’aggiornamento e all’adeguamento del canone ai sensi dell’art. 45 …comprendendo anche quelle consistenti nello stabilire l’esistenza, la validità e la liceità degli accordi intervenuti tra le parti circa la determinazione del canone e quindi anche l’eventuale simulazione di essi in violazione della disposizione dell’art. 79 … che dichiara la nullità di ogni pattuizione diretta, tra l’altro, ad attribuire al locatore un canone maggiore rispetto a quello previsto dalla stessa o altro vantaggio sempre in contrasto con tale legge”; Pret. Monza 18 febbraio 1989 (in FI, 1989, I, 1915), il quale fa espresso riferimento ai principi in materia di pregiudizialità in senso logico di cui sopra al fine di attrarre nella competenza funzionale del pretore le domande pregiudiziali rispetto all’accertamento del canone: rilevato che la competenza per materia non prevista con riferimento al rapporto fondamentale (locazione) ma a “un rapporto giuridico-effetto del contratto di locazione, id est il diritto soggettivo di una delle parti del contratto locatizio a ottenere l’accertamento di un determinato modo di essere del contratto stesso, costituito dal canone”, sulla base di una analisi delle fattispecie in cui in concreto può rilevare la determinazione del canone e del cumulo di azioni prospettabili, conclude ritenendo che l’art. 43 cit. disciplina un’ipotesi di competenza che “non è relativa solo alle controversie concernenti il rapporto giuridico-effetto del rapporto giuridico fondamentale di locazione, costituito dal modo di essere di quest’ultimo quoad canone, bensì involge tutti quegli accertamenti che possono definirsi afferenti a un modo di essere del rapporto fondamentale giustificativo dell’applicazione della disciplina dell’equo canone. Detti accertamenti possono concernere rapporti giuridici effetto della fattispecie locazione che di quella applicazione sono il presupposto” (9). D) in giur. si è ritenuto che appartengano alla competenza per materia del pretore ex artt. 43-45 l. cit. anche le controversie: – relative alla determinazione del corrispettivo dovuto ex art. 1591 c.c. dal conduttore in mora nella restituzione dell’immobile locato, poiché quel corrispettivo “mantiene … tutte le caratteristiche del normale canone di locazione, anche in ordine alle norme applicabili alla sua determinazione” (Cass., 13 luglio 1992, n. 8499 in FI, 1993, I, 122 ed ivi ampi riferimenti); – relative all’accertamento della legittimità degli aumenti del canone richiesti e pagati nel corso di rapporto di locazione di immobile destinato ad uso non locativo, in quanto per i relativi contratti il canone può subire aumenti solo nei modi di cui all’art. 32 l. cit. (Cass., 9 aprile 1993, n. 4334, in Arch. loc., 1993, 482). 2.1.1. Segue. In particolare: il tentativo obbligatorio di conciliazione. L’inquadramento di una determinata controversia tra quelle di cui all’art. 45 l. n. 392/78 implica che l’introduzione della medesima deve essere preceduta dal tentativo obbligatorio di conciliazione ex artt. 43 e 44 l. cit. (10). In giur., v. Pret. Ventimiglia, 16 febbraio 89, cit., che ha affermato il principio con riferimento ad una domanda di ripetizione di canoni indebitamente corrisposti. La giurisprudenza di merito ritiene che ricorra la necessità del tentativo di conciliazione solo allorquando la domanda sia proposta in via principale e non anche in via riconvenzionale; v. Pret. Pisa, 18 febbraio 1986, n. 27 in Arch. loc., 1988, 207; Pret. Foggia, 7 dicembre 1985, in FI, 1987, I, 1147; Pret. Firenze, 9 ottobre 1986, in Arch. Loc., 1987, 174; contra: Cass., 13 gennaio 1993, n. 353, in cui ritenuta l’improcedibilità della domanda riconvenzionale non preceduta dal tentativo di conciliazione, si afferma: “tuttavia, se il tentativo di conciliazione sia stato esperito dal locatore in relazione ad una sua pretesa inerente alla misura del canone, il conduttore non ha l’onere di rinnovare il tentativo medesimo per la proposizione della domanda riconvenzionale perché quello esperito dal locatore ha realizzato lo scopo di promuovere un confronto fra le parti sulle rispettive posizioni in sede non contenziosa, perseguito dal citato art. 44”. Nel primo senso in dottrina: PAPARO-PROTO PISANI (11), argomentando dal fatto che “l’art. 48, comma 1°, disciplinando esplicitamente l’ipotesi di passaggio dal rito ordinario al rito speciale (diversamente dal testo originario del primo comma dell’art. 445) non fa menzione alcuna della necessità di sperimentare previamente il tentativo di conciliazione ove si sia alla presenza di una controversia relativa alla determinazione, aggiornamento o adeguamento del canone”; VERDE (12); CEA (13), che argomenta tra l’altro dall’inutilità dell’istituto, finalizzato ad evitare che i contrasti sfocino in sede contenziosa, allorquando tale evento siasi già verificato (14); contra TARZIA (15), il quale ritiene che il tentativo di conciliazione possa essere instaurato dopo che la questione sul canone è sorta. 2.2. Competenza e rito. Si è già osservato come nel sistema della l. n. 392/1978 i problemi più rilevanti sorgano con riferimento alla previsione del rito speciale del lavoro per alcune soltanto delle controversie inerenti al rapporto di locazione cui si accompagnano ipotesi di competenza per materia (16). Pur rinviando agli studi in materia (17), è opportuno riassumere brevemente i risultati cui è pervenuta la dottrina in ordine: alla individuazione della nozione di rito, alle conseguenze dell’errore sul rito, all’intreccio tra questioni di rito e questioni di competenza (18): a) il rito non è un requisito di validità della domanda giudiziale e l’errore sul rito “non determina la conclusione del processo con un provvedimento di rigetto per motivi di mera forma, ma è solo causa di rilievo d’ufficio e di un provvedimento ordinatorio di mutamento di rito allo scopo di consentire che il processo, anche se iniziato con rito erroneo, si concluda secondo il rito prescritto con una sentenza di merito che decida chi ha ragione e chi ha torto”; b) le questioni di rito sono rilevabili d’ufficio dal giudice sia in primo grado che in appello; gli atti posti in essere secondo le regole di un rito errato non sono affetti da nullità e possono essere utilizzati nel prosieguo del procedimento purché non incompatibili col rito esatto; c) le questioni di rito sono risolte dal giudice con provvedimento avente forma di ordinanza, inidoneo quindi a pregiudicare la risoluzione della controversia e soggetto al regime di stabilità di cui all’art. 177 c.p.c.; d) le norme sul rito, a differenza delle norme sulla competenza, “sono norme sul procedimento e come tali possono (anche se non necessariamente) per definizione condizionare il contenuto della decisione di merito”; tali norme devono essere rispettate al momento della decisione di merito e pertanto (e come indicano l’assenza di un regime di preclusioni sulla rilevabilità della questione e la normale revocabilità dell’ordinanza di mutamento di rito) il rito deve essere “individuato anche sulla base della qualificazione giuridica dell’oggetto della controversia così come emerge al termine dell’istruzione”; e) il controllo da parte del giudice sulla scelta del rito deve essere effettuato in limine litis sulla base degli atti e ad istruzione esaurita sulla base della valutazione globale delle risultanze dell’istruttoria; f) quando le questioni di competenza e di rito dipendono dai medesimi presupposti, dato il diverso regime di preclusione cui sottoposto il rilievo di tali questioni, possono darsi i seguenti casi: fa) se al momento del rilievo dell’erroneità del rito la questione di competenza non è preclusa, il giudice che a seguito di mutamento di rito divenga incompetente deve, secondo la giurisprudenza con sentenza impugnabile con regolamento ex art. 42 c.p.c. (secondo parte della dottrina con ordinanza non impugnabile con regolamento), dichiarare la propria incompetenza, rimettere le parti al giudice competente e fissare un termine per la riassunzione col rito prescritto; fb) se la questione di competenza è preclusa, il giudice deve disporre il mutamento di rito con ordinanza “indipendentemente da qualsiasi indagine in ordine al se, senza la intervenuta preclusione sulla competenza, sarebbe stato competente ad applicare il rito speciale in quel grado di giudizio”. 2.3. Cause connesse soggette a riti differenti. Il problema del cumulo nello stesso processo di domande soggette a riti diversi – già sorto con riferimento alla connessione tra cause civili e cause commerciali e tra cause soggette al rito del lavoro e cause soggette a rito ordinario – si è posto in tutta la sua gravità dopo l’entrata in vigore della l. n. 392/78 (19). Tale problema si presenta come duplice, articolandosi nelle due questioni: a) se, rientrando le cause connesse nella competenza del pretore, la differenza di rito sia di ostacolo alla trattazione simultanea; b) se, rientrando le cause connesse l’una – quella soggetta al rito ordinario – nella competenza per valore del tribunale e l’altra – soggetta al rito speciale – nella competenza per materia del pretore, possa farsi luogo al cumulo (e innanzi a quale giudice). È evidente che la risposta alla seconda questione implica che la prima sia stata positivamente risolta. Ancora evidente è che il problema si configura come più o meno grave a seconda del tipo di nesso che lega le cause che si intendono cumulare. Infatti: A) qualora le cause siano connesse per identità di causa petendi (es.: domanda di rilascio dell’immobile e domanda di risarcimento del danno per inadempienze contrattuali; domanda di rilascio per finita locazione e domanda di ripetizione di somme corrisposte oltre il canone legalmente determinato), le differenze di rito e di competenza non danno luogo a difficoltà, ben potendo farsi luogo a separazione (20); B) qualora le cause siano legate da un nesso di pregiudizialità dipendenza (es.: domanda di risoluzione del contratto per morosità e – previa contestazione della morosità – domanda di determinazione del canone; domanda di rilascio dell’immobile locato e domanda di determinazione dell’indennità di avviamento), le conseguenze dell’impossibilità di realizzazione della trattazione simultanea sono assai più gravi, laddove si ritenga che debba farsi luogo a sospensione necessaria della causa pregiudicata. Poiché tormentatissimo tema della realizzabilità della trattazione unitaria di cause soggette a riti differenti è stato oggi risolto positivamente dal legislatore (art. 40, comma 3°, 4°, 5° c.p.c. in vigore dal 1 gennaio 1993 di modo che il relativo problema non si presenta per le cause di nuova introduzione), appare superflua una sua specifica trattazione, limitandoci qui a ricordare come la dottrina più attenta alle esigenze di effettività della tutela giurisdizionale avesse tentato di enucleare – dagli artt. 416, 2° comma, 418 e 420, 9° comma c.p.c. richiamati dall’art. 46 l. n. 392/78 – un principio generale secondo cui, ove due cause soggette a riti diversi, ne sarebbe possibile la simultaneità di trattazione nelle forme del rito speciale (21). La seconda delle prospettate questioni si è posta soprattutto con riferimento all’ipotesi in cui il conduttore, convenuto innanzi al tribunale competente per valore in un giudizio di risoluzione del contratto per morosità, non si limiti ad eccepire che la morosità non sussiste ma proponga domanda riconvenzionale di determinazione del canone. La giurisprudenza ritiene ormai pacificamente che il “simultaneus processus” non può essere attuato, a ciò ostando le norme sulla competenza – “essendo inutilizzabile il criterio dell’accessorietà di cui all’art. 31 c.p.c., sia per la maggiore importanza della domanda di risoluzione (incidente sull’intero rapporto) rispetto a quella di determinazione del canone (attinente ad una sola delle prestazioni corrispettive), sia per la non configurabilità di un tale criterio nel caso in cui detta determinazione sia richiesta in via riconvenzionale” (Cass., n. 5484/1983) –, e che deve farsi luogo a sospensione ex art. 295 c.p.c. della causa dipendente di risoluzione del contratto (v. Cass., 9 ottobre 1980, n. 5411 in FI, 1981, I, 433; Cass., SU, 11 febbraio 1982, n. 839, id., 1982, I, 1955; Cass., 14 aprile 1983, n. 2622 in Giur. it., 1985, I, 1, 1128; 23 agosto 1983, n. 5484; 6 ottobre 1988, n. 5373 in Arch. loc., 1989, 293; 7 maggio 1988, n. 3387 e altre) (22). Tale soluzione è stata contrastata da una parte della dottrina (23) affermandosi la possibilità della trattazione simultanea innanzi al giudice inferiore, competente per materia sulla causa pregiudiziale, sulla base di una lettura correttiva dell’art. 34 c.p.c. alla luce del disposto dell’art. 31, 2° comma c.p.c. fondata “sulla strutturale identità quanto meno fra alcune ipotesi di accessorietà e pregiudizialità, e sull’art. 107, 3° comma Cost.” (oltre che sulla base della ritenuta vis actractiva del rito speciale) (24); ove questa soluzione non si ritenesse accoglibile si è affermato che “non resterebbe … che interpretare l’art. 34 alla luce del canone ermeneutico fondamentale della effettività della tutela giurisdizionale …, e conseguentemente ritenere che ove una domanda (proposta in via riconvenzionale o ex art. 34 c.p.c.) comporti un accertamento che si pone come pregiudiziale rispetto alla domanda principale e non possa essere trattata simultaneamente a questa per motivi di competenza (o di giurisdizione) o di rito, in tal caso …le questioni che stanno alla base della domanda riconvenzionale dovranno pur sempre essere conosciute, ma solo incidenter tantum, dal giudice della domanda originaria, garantendo così in modo pieno il diritto di difesa del convenuto senza pregiudicare l’effettività del diritto d’azione dell’attore…” (25). 3. Cause introdotte dopo il 1° gennaio 1993. L’entrata in vigore dei commi 3°, 4°, 5° dell’art. 40 c.p.c.. I commi 3°, 4° e 5° dell’art. 40 c.p.c., introdotti dalla l. n. 353/1990, risolvono il problema della trattazione simultanea di cause connesse soggette a riti differenti, individuando in quali ipotesi è possibile la trattazione simultanea e quali sono i criteri in base ai quali stabilire il rito applicabile. Niente dice la norma sulla realizzazione del simultaneus processus allorquando le cause appartengano alla competenza di giudici diversi e deve ritenersi che la sua applicazione presupponga risolto l’altro problema della competenza (originaria o prorogata ex art. 31 ss. c.p.c.) del giudice innanzi al quale il cumulo si realizzi ab origine o a seguito di riunione (ex artt. 39, 40, 1° comma, 274, 274 bis c.p.c.). Per quanto concerne le ipotesi di connessione in cui è possibile la trattazione simultanea, l’art. 40, 3° comma richiama espressamente solo “i casi previsti dagli artt. 31, 32, 34, 35 e 36” (26), esclusi i casi previsiti dall’art. 33 in tema di cumulo soggettivo (27). I criteri tramite cui risolvere i conflitti tra riti di domande connesse sono schematicamente i seguenti: a) nel conflitto tra rito ordinario e rito speciale prevale il rito ordinario, salvo che la domanda soggetta a rito speciale non rientri tra quelle di cui agli artt. 409 e 442 nel qual caso prevale il rito del lavoro; b) nel conflitto tra rito speciale del lavoro in senso stretto e altro rito speciale prevale il primo, in forza “dell’argomento a fortiori agevolmente desumibile dal nuovo testo del terzo comma dell’art. 40” (28); c) nel conflitto tra rito speciale del lavoro in senso lato (fuori dai casi di cui agli artt. 409 e 442 c.p.c.) e altro rito speciale, se le cause sono soggette alla competenza di giudici diversi prevale il rito relativo alla domanda “in ragione della quale viene determinata la competenza”, se le cause sono soggette alla competenza dello stesso giudice prevale il rito previsto per la causa di maggior valore (29). Secondo alcuni Autori il criterio della prevalenza del rito speciale della causa in ragione della quale viene determinata la competenza trova applicazione anche quando le cause appartengono fin dall’origine alla competenza dello stesso giudice, dovendo in tal caso farsi riferimento al rito della causa che astrattamente attratto l’altra causa (30). Il 5° comma dell’art. 40 rinvia per il mutamento di rito alle regole dettate per il processo del lavoro, artt. 426, 427, 439 (31). 3.1. Effetti della nuova disciplina sulle controversie in materia di locazione. Come già si è osservato, la disciplina dettata all’art. 40, 3°, 4°, 5° comma trova applicazione per le cause introdotte a partire dal 1 gennaio 1993, col che – almeno per queste ultime – potrebbero ritenersi risolte le questioni in tema di trattazione simultanea di cause soggette a riti differenti permanendo il problema del cumulo tra cause attribuite alla competenza di giudici diversi. Peraltro, l’entrata in vigore della nuova disciplina su connessione e rito indipendentemente dalle norme su competenza e rito in materia di locazione (art. 8 n. 3 e 447 bis) rischia di creare un effetto perverso e sicuramente contrario all’intento perseguito dal legislatore. Infatti, la novella del 1990 aveva previsto la competenza per materia del pretore e il rito del lavoro per tutte le controversie in materia di locazione, comodato di immobili urbani e affitto di azienda (32) e, se il corpus normativo fosse entrato unitariamente in vigore, l’art. 40, 3°, 4° e 5° comma avrebbe giocato un ruolo affatto residuale con riferimento al settore che qui interessa, nel senso che non avrebbe mai potuto porsi un problema di rito tra cause di locazione ma solo nelle rare ipotesi di cumulo tra una causa di locazione e una causa fuoriuscente da detta materia (es.: domanda di pagamento canoni e eccezione in compensazione di un credito fondato su un titolo diverso da quello su cui si fonda il credito principale). Solo in queste ultime ipotesi, dunque, il rito speciale sarebbe stato derogato in favore del rito ordinario, restando nella quasi totalità dei casi a regolare il procedimento delle controversie locatizie. La discrasia nell’entrata in vigore dell’art. 40, 3°, 4° e 5° comma da un lato e degli artt. 8 e 447 bis dall’altro rischia di provocare l’effetto opposto: essendo tutt’oggi numerose le ipotesi di controversie locatizie soggette a rito ordinario (v. supra sub 2), ogniqualvolta risultano cumulate una di tali cause e una di quelle di cui agli artt. 43 e 45 l. n. 392/78 il rito da applicare è quello ordinario in deroga a quello speciale (33). Tenuto conto di quello che era l‘intento perseguito dal legislatore e del fatto che il meccanismo che si è appena descritto è il frutto più che di una scelta ragionata di un irrazionale frazionamento della riforma, appare lecito tentare una interpretazione che, ampliando al massimo l’attuale competenza per materia del pretore, riduca conseguentemente l’ambito di applicazione dell’art. 40 (34). Si tratta del resto di ripercorrere una strada già battuta, cogliendo e valorizzando gli spunti già fortemente presenti nella giurisprudenza e indirizzati nel senso di offrire una definizione ampia di controversia sul canone, quale comprendente anche gli antecedenti logici necessari (ad es. esistenza e validità del contratto) e i vari effetti del rapporto complesso (v. supra sub 2.1.). 3.2. La nozione di rito speciale. In ordine ai rapporti tra rito lavoro e rito locatizio (cioè quel rito speciale disciplinato mediante richiamo di singole disposizioni sul rito del lavoro ma in modo da dar luogo ad un rinvio pressoché globale) si è negato in dottrina che la controversia locatizia possa considerarsi diversa dal rito del lavoro in senso stretto, potendo parlarsi di rito speciale “solo nei casi di vera e propria autonomia del corpo normativo destinato a disciplinare il singolo processo, e non invece dove, accanto a una serie di disposizioni speciali, vi sia poi un rinvio residuale alle norme del modello originario, oppure ancora vi sia un rinvio nella sostanza “globale” ancorché concepito come selettivo rispetto ad un modello originario chiaramente identificato” (35). Le conseguenze dell’esclusione del caso in esame dalla fattispecie del concorso di riti diversi sarebbero da un lato la realizzabilità del cumulo indipendentemente dalla tipologia della connessione, dall’altro lato una possibilità di convivenza dei due modelli, per cui potrebbe “affermarsi, anziché la prevalenza tout court del rito della causa di lavoro, la possibilità che all’interno del medesimo processo e nella convivenza dei due modelli contigui, si assicuri …il rispetto di quelle norme che attengono al piano della tutela” (36). 3.3. Problemi di costituzionalità. Viene prospettata in dottrina “l’illegittimità della norma” in esame “per l’irragionevole discriminazione tra le cause di lavoro e previdenziali (che, in funzione della rilevanza degli interessi ad essi sottesi, sono state sottoposte al rito speciale), e le altre cause che, per un’analoga valutazione di interessi, il legislatore ha assoggettato al medesimo rito del lavoro o ad un rito affine, e per le quali viceversa prevarrebbe, in caso di connessione, il rito ordinario” (37). In merito si osser-va come un tale dubbio può risultare fondato solo laddove la specialità del rito risponda a specifiche e particolari esigenze di tutela delle situazioni sostanziali tutelate mediante quelle forme e non anche laddove si sia solo inteso perseguire un obbiettivo di efficienza dell’amministrazione della giustizia in un determinato settore di controversie (come nel caso di specie sembrerebbe). Si aggiunga che, una volta entrata in vigore per l’intero la riforma, la deroga al rito speciale locatizio dovrebbe configurarsi come ipotesi del tutto residuale e che tale deroga avverrebbe in favore del rito ordinario, così come razionalizzato dal legislatore del 1990. 4. Cause introdotte dopo le cause pendenti alla data dell’entrata in vigore integrale della l. n. 353/1990. In particolare: l’entrata in vigore dell’art. 447 bis c.p.c.. L’entrata in vigore dell’art. 447 bis c.p.c., che prevede l’applicazione di un unico rito speciale ricalcato pressoché interamente sul rito speciale del lavoro per tutte le controversie di cui all’art. 8, 2° comma n. 3 (locazione, comodato, affitto), porrà definitivamente fine alle questioni di rito, venendo meno anche i problemi che l’art. 40 c.p.c. pone nella fase transitoria (o di transizione). Quella disposizione trova infatti applicazione anche nei giudizi pendenti “previa ordinanza di mutamento di rito ai sensi dell’art. 426” (art. 90, 7° comma l. n. 353/90 e succ. mod.), mentre il cumulo tra le cause pendenti al 1-1-1993, e che non fossero definite, potrà essere attuato attraverso la riunione. 4.1. Il problema del cumulo di più domande attribuite alla competenza di giudici diversi. L’unica ipotesi problematica resta quella della connessione tra una controversia locatizia, attribuita pertanto alla competenza per materia del pretore, e una controversia rientrante secondo il criterio del valore nella competenza del tribunale. Quanto si è detto sull’estensione della competenza pretorile (ricomprendente tutta la materia delle locazioni, del comodato, dell’affitto) indica come la questione sarà molto meno grave, dopo l’entrata in vigore degli artt. 8 e 447 bis c.p.c., di quanto non lo sia oggi, trovando soluzione i casi che più frequentemente si sono presentati nella pratica (riconvenzionale di equo canone nel giudizio di risoluzione del contratto per morosità; domanda di determinazione dell’indennità di avviamento nel giudizio di risoluzione del contratto). Sulla risoluzione della anzidetta questione un’influenza decisiva sarà esercitata dalle conseguenze che dottrina e giurisprudenza ritrarranno in ordine alla modificazione della competenza per ragioni di connessione dalla nuova disciplina sul rilievo dell’incompetenza di cui all’art. 38, 1° comma. Tale disposizione prevede che “l’incompetenza per materia, quella per valore e quella per territorio nei casi previsti nell’art. 28, sono rilevate, anche d’ufficio, non oltre la prima udienza di trattazione”, così assimilando la disciplina della competenza per valore a quella della competenza per materia e per territorio inderogabile. Sulla base di tale assimilazione – la quale scardina le fondamenta della lettura tradizionale degli artt. 31 ss. (38) – si è giustamente osservato che “ove si vadano oggi a rileggere gli artt. 31 ss. alla luce del nuovo testo dell’art. 38, 1° comma …ne dovrebbe discendere in modo piano la seguente conseguenza: ogni qual volta il legislatore prevede la deroga alla competenza per valore, è da dedurne la derogabilità anche della competenza per materia e per territorio inderogabile sulla base dell’argomento a simili, nonché della competenza per territorio derogabile sulla base dell’argomento a fortiori. Ne segue che nelle ipotesi di connessione previste dagli artt. 31, 32, 34, 35 e 36 (cioè in tutte le ipotesi di domande connesse tra le stesse parti o tra parti diverse per ragioni di pregiudizialità-dipendenza) la simultaneità di trattazione sarebbe sempre possibile ove le due domande pendano nello stesso grado di giudizio” (39). Quanto al giudice davanti al quale realizzare la simultaneità di trattazione, lo stesso per quanto qui interessa andrà individuato: a) “nel giudice ‘inferiore’ competente per materia sulla domanda principale o pregiudiziale ove la domanda accessoria o dipendente rientri nella competenza per valore del giudice superiore e sia proposta ab initio dall’attore cumulativamente alla domanda principale o pregiudiziale: e ciò in forza della regola emergente dall’art. 31”; b) nel giudice originariamente adito ove la domanda originaria sia la domanda pregiudiziale o principale e nel corso del processo sia proposta (in via riconvenzionale o di chiamata in garanzia) domanda dipendente: e ciò in forza di quanto è da desumere dagli art. 31 e soprattutto 32”; c) “nel giudice ‘superiore’ competente per valore o per materia sulla causa dipendente, ove la domanda originaria sia la domanda dipendente e nel corso del processo sia proposta (in via riconvenzionale di accertamento ex art. 34 o di eccezione in compensazione di controcredito che sia contestato) domanda pregiudiziale che rientri nella competenza per materia o per valore del giudice inferiore: e ciò in forza di quanto si desume implicitamente dall’art. 34 (e 35, 36) che prevede solo spostamenti a favore del giudice superiore e non verso il giudice inferiore…” (40). Seguendo tale interpretazione anche quell’ultimo problema può trovare infine soluzione. 5. Il mutamento di rito nel procedimento per convalida di sfratto. Trattando delle questioni di rito nelle controversie in materia di locazione un ultimo cenno merita l’art. 667 c.p.c. nel testo sostituito dalla l. n. 353/90 (non ancora in vigore), secondo cui “Pronunciati i provvedimenti previsti dagli articoli 665 e 666, il giudizio prosegue nelle forme del rito speciale, previa ordinanza di mutamento di rito ai sensi dell’art. 426”, previsione che si è resa necessaria a seguito delle modifiche introdotte dagli artt. 8 e 447 bis in tema di competenza e rito (41). Dal richiamo di cui all’art. 426, 1° comma “si desume senza alcuna possibilità di dubbio che alla notificazione della intimazione e della citazione ex art. 657 ss. non segue una fase preparatoria soggetta alle preclusioni di cui agli artt. 167 e 183: la fase preparatoria del giudizio a cognizione piena si perfezionerà solo a seguito dell’ordinanza di mutamento di rito prima tramite l’integrazione degli atti introduttivi (integrazione del tutto libera, giacché nessuna decadenza è ricollegata alla fase speciale della convalida) e poi nel corso della udienza di cui all’art. 420” (42). In particolare non sembra che possano estendersi al mutamento di rito in esame le conclusioni cui erano pervenute dottrina e giurisprudenza per l’ipotesi prevista dall’art. 426 c.p.c., di causa di lavoro introdotta con rito ordinario innanzi al pretore territorialmente competente a conoscerla; si affermava, infatti, che qualora si fossero verificate delle preclusioni secondo le regole del rito erroneamente adottato – nella specie quello ordinario –, queste dovevano permanere a seguito del mutamento di rito (43). Tale soluzione non appare riproponibile con riferimento all’art. 667, sia perché – come già rilevato – non epressamente prevista alcuna decadenza ricollegata alla fase della convalida, sia perché non paiono estensibili le preclusioni di cui all’art. 167 c.p.c. (preclusioni collegate alla costituzione in giudizio mediante comparsa di risposta, cioè un atto della difesa tecnica) con riferimento ad una udienza per la quale l’ordinamento consente al convenuto di comparire e difendersi personalmente. (1) L’espressione è di PROTO PISANI, Le controversie in materia di locazione, in ANDRIOLI, BARONE, PROTO PISANI, PEZZANO, Le controversie in materia di lavoro, Bologna-Roma, 1987, 183. (2) Sul tema, v. PROTO PISANI o.u.c., 183 ss; ID., Rapporti fra competenza, rito e merito nella legge n. 392 del 1978 (e nel rito speciale del lavoro, in FI, 1981, V. 185 ss.; COSTANTINO, Controversie in materia di locazione di immobili urbani, voce del N. ss. Dig. It., App., Torino, 1981, 759 ss.; TARZIA, Sulla tutela giurisdizionale nelle locazioni urbane, in Riv. Trim. Dir. Proc. Civ. 1979, 102 ss.; SALETTI, in Equo canone. Commentario a cura di BIANCA, IRTI, LIPARI, PROTO PISANI, TARZIA, Padova, 1980, 529 ss.; GUARINO S., Aspetti processuali della nuova disciplina delle locazioni di immobili urbani, in Riv. trim. dir. proc. civ.; GARBAGNATI, I procedimenti d’inquinazione e per convalida di sfratto, Milano, 1979, 291 ss.; CEA, I procedimenti locativi, in FI, 1985, V, 353 ss. (3) PROTO PISANI, La nuova disciplina del processo civile, Napoli, 1991, 3; sul tema v. TARZIA, Lineamenti del nuovo processo di cognizione, Milano, 1991, 18; LUISO, in CONSOLO, LUISO, SASSANI, La riforma del processo civile, Milano, 1991, sub artt. 3, 5, 70; NELA, in Le riforme del processo civile a cura di CHIARLONI, 48 ss.; GIANCOTTI, ibidem, 568 ss.; CARBONE, in Corriere giur., 1991, 1, 85 ss.; ATTARDI, Le nuove disposizioni sul processo civile, Padova, 1991, 219 ss. (4) Detti problemi riguardavano essenzialmente: a) l’individuazione delle controversie soggette a rito speciale; b) la possibilità di realizzazione del cumulo tra cause soggette a riti differenti; c) la possibilità di realizzazione del cumulo tra cause soggette a riti differenti e attribuite l’una alla competenza per valore del tribunale e l’altra alla competenza per materia del pretore; per un’illustrazione dei medesimi, oltre agli A. cit. alla nota precedente, v. infra. (5) V.PROTO PISANI, Le controversie in materia di locazione, cit., 189 ss.; TARZIA, in Equo canone. Commentario, cit., 495 ss. (6) Cfr. PROTO PISANI, Le controversie, cit., 189-190. (7) Sul tema v. MENCHINI, Il giudicato civile, Torino, 1988, 43 ss., spec. 55 ss. ed ivi ult. rif. di dottor. e giur.; ID., I limiti oggettivi del giudicato, Milano, 1987, 59 ss., spec. 87 ss.; tale A.così tratteggia la distinzione tra ‘pregiudizialità logica’ e ‘pregiudizialità tecnica’: “punto di partenza è il riconoscimento di una differenza, sul piano strutturale, tra il nesso che collega il rapporto complesso ai suoi singoli effetti (c.d. pregiudizialità logica) e quello riscontrabile nei casi di incompatibilità oppure di dipendenza tra rapporti giuridici distinti (c.d. pregiudizialità tecnica). In particolare, mentre nella pregiudizialità tecnica vengono in considerazione più rapporti giuridici eterogenei, giacché l’effetto che rappresenta un elemento della fattispecie del diritto controverso trova origine da un rapporto distinto rispetto a quello costitutivo di questo …, nella pregiudizialità logica si è in presenza di un nesso tra un rapporto ed un suo effetto, ossia di una relazione tra la parte ed il tutto, esprimendo il rapporto fondamentale l’aggregato, il complesso dei diritti da esso nascenti; si ha cioè un collegamento tra entità omogenee, l’una delle quali è mera irradiazione dell’altra…”; sul tema v. anche PROTO PISANI, Appunti sul giudicato civile e sui suoi limiti oggettivi, in Riv. Dir. Proc., 1990, 386 ss., spec. 393 ss. (8) Cfr. PROTO PISANI, o.u.c., 395 ss. (9) Risolto nel modo di cui nel testo il problema della competenza, discende che il rito applicabile è sempre quello speciale cfr. ANDRIOLI, in ANDRIOLI, BARONE, PEZZANO, PROTO PISANI,Le controversie in materia di lavoro, Bologna-Roma, 1ª edizione, 1974, 153 ss: constatata la tendenziale inconciliabilità tra rito ordinario e rito speciale osservava l’illustre A.: “a proposito dell’accessorietà è da ricordare il contrasto tra chi ritiene sufficiente il nesso logico di dipendenza e finisce con il confonderlo con la pregiudizialità, e chi stima migliore il partito di affiancare all’or ricordato nesso logico l’accessorietà sostanziale tra le due domande (ANDRIOLI, Commento, I, sub art. 31). Se viene accettata la tesi più rigorosa, la connessione per l’oggetto o per il titolo comporta la inserzione della domanda principale ed accessoria nello stesso rapporto e, pertanto, l’assoggettamento dell’una e dell’altra allo stesso rito, ma, se si segue la tesi meno rigorosa, l’inammissibilità della trattazione simultanea si verifica le quante volte l’unico collegamento tra le due domande è dato dal nesso logico”. Nella sentenza citata nel testo, il Pretore di Monza precisa, peraltro, “che la ricomprensione nella competenza per materia secondo il rito speciale di cui all’art. 46 delle controversie in ordine alla soggezione del contratto all’equo canone sussiste se ed in quanto le relative domande vengono proposte congiuntamente alla domanda volta a sollecitare l’inserzione nel contratto del canone di legge. Così, ad es., se il conduttore è interessato solo a che si accerti che il contratto apparentemente stipulato per soddisfare esigenze abitative transitorie ex art. 26, lett. a), dissimula in realtà un contratto destinato a soddisfare esigenze abitative primarie, dovrà proporre le domande secondo il rito ordinario. (10) Cfr. PIOMBO, n. a Cass., n. 8499/92, in FI, 1993, 123. (11) PAPARO-PROTO PISANI, in Equo canone. Commentario, cit., 595 n. 27; v. anche PROTO PISANI, Rapporti fra competenza, rito e merito, cit., 196, n. 50; COSTANTINO, o.c., 763, secondo cui, introdotta con rito ordinario innanzi a giudice incompetente una delle cause soggette a rito speciale, la riassunzione non deve essere preceduta dal tentativo di conciliazione. (12) VERDE, Aspetti processuali della legge 27 luglio 1978, n. 382 (c.d. sull’equo canone), in Rass. dir. Civ., 1980, 135. (13) CEA, Tentativo obbligatorio di conciliazione e domanda riconvenzionale di ‘equo canone’ proposta in sede di opposizione a decreto ingiuntivo, in FI, 1987, I, 978. (14) L’argomento è presente nella rel. min. ex art. 83 l. n. 392/78: “il sussistere di una lite giudiziaria in atto, nella quale le parti si sono già impegnate, farebbe ritenere la frustraneità di un formale tentativo di conciliazione, che, fra l’altro, produrrebbe il negativo effetto di un inutile ritardo nella definizione del processo; resterebbe salvo, comunque, il tentativo di conciliazione che il giudice è sempre chiamato ad esperire ai sensi degli artt. 420 e 185 c.p.c.”. (15) TARZIA, Sulla tutela, cit., 116. (16) Su questi temi, v. PROTO PISANI, oo.cc.; ID., Questioni di rito, in ANDRIOLI, BARONE, PEZZANO, PROTO PISANI, Le controversie, cit., 348 ss.; ID., Sulla tutela giurisdizionale differenziata, in Riv. Dir. Proc., 1979, 536 ss; COSTANTINO, o.c.; VERDEOLIVIERI, Le questioni di rito e di competenza, in Le locazioni di fronte al giudice, Milano, 1981. (17) PROTO PISANI, oo.cc. e ivi ult. riferimenti. (18) V. in particolare, PROTO PISANI, Questioni di rito, cit., 350. (19) Per una “storia” del problema di cui nel testo, v. PROTO PISANI, Questioni, cit., 377 ss.; ID., Sulla tutela giurisdizionale, cit., spec. 546 ss. (20) PROTO PISANI, Rapporti tra competenza, cit., 188; ID., Questioni, cit., 382 ss. (21) V. PROTO PISANI, oo.uu.cc.; v. anche TARZIA, Sulla tutela, cit.; LUISO, Procedimento per convalida di sfratto ed esecutività delle pronunce secondo la legge 392/1978, in Giust. civ., 1982, II, 71 ss., i quali deducono la possibilità della trattazione cumulativa con rito speciale dagli artt. 659 e 667, 3° comma c.p.c. (22) V. però anche Cass., 12 aprile 86, n. 2809; 13 luglio 1992, n. 8495 (in Rass. loc., 1993, 142) in cui si afferma – in motivazione – che “l’accertamento del canone dovuto alla stregua della legge n. 392 del 1978 appartiene al giudice competente secondo i criteri di valore stabiliti dal codice di rito per la domanda di risoluzione del contratto di locazione per morosità, allorché siffatto accertamento non formi oggetto di specifica domanda proposta in via principale o riconvenzionale, potendo la questione relativa all’ammontare del canone essere conosciuta e risolta, in via puramente mediata e strumentale, dal giudice competente per la domanda di risoluzione del contratto”. (23) PROTO PISANI, Questioni di rito, cit., 386; ID, Sulla tutela, cit., 564; CONSOLO, n. a Cassazione, n. 839/82 in Giur. it., 1983, I, 1, 637. (24) PROTO PISANI, o.u.c., 387. (25) PROTO PISANI, o.u.c., 387-388. (26) È diffusa in dottrina l’affermazione secondo cui il legislatore avrebbe recepito la distinzione dottrinale tra connessione ‘per coordinazione’ e connessione ‘per subordinazione’ – v. NELA, in Le riforme del processo civile cit. sub art. 40, 56; LUISO, La riforma del processo civile, cit., 23; MERLIN, Le innovazioni in tema di connessione di cause nelle leggi 353/1990 e 374/1991, relazione all’incontro di studio C.S.M Frascati 28-6/2-7-1993; TARZIA, Lineamenti, cit. 33, al quale A. si deve in particolare la relativa elaborazione (Connessione di cause e processo simultaneo, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1988, 427 ss.; v. anche FABBRINI, Connessione, in Scritti giuridici, Milano, 1989, I) –; peraltro, come osserva PROTO PISANI, La nuova disciplina, cit., 32-33, i casi di cui agli artt. 31, 32, 34, 35, 36 sono per un verso più ampi della connessione per pregiudizialità (ricomprendendo il fenomeno della compensazione ed essendosi effettuato un richiamo non discretivo all’art. 36, quindi comprensivo anche della riconvenzionale compatibile) per altro verso più ristretti “ove la giurisprudenza continui ad escludere dall’art. 32 il fenomeno della garanzia impropria); v. anche le osservazioni di MERLIN, cit. (27) È problematico se il rinvio operato dalla norma sia tassativo o solo indicativo; v. NELA, o.c., 56-57; PROTO PISANI, o.u.c., 33, il quale rileva come l’esclusione dell’art. 33 non ponga particolari problemi, in quanto, nel caso di domande connesse per mera identità di titolo, potrà farsi luogo a separazione; nel caso di litisconsorzio c.d. unitario, le cause poiché inerenti ad un unico rapporto saranno di regola soggette al medesimo rito; MERLIN, o.c., 14 ss., la quale – rilevato che le definizioni di connessione di cui agli artt. 31 ss. presuppongono il cumulo ab initio mentre la norma in esame si applica anche in ipotesi di cumulo successivo, che vi sono ipotesi di domande contrapposte incompatibili o interdipendenti che non rientrano nel concetto di riconvenzione e pongono un problema di pronunce inconciliabili, che nell’ambito del litisconsorzio facoltativo ricorrono casi in cui emerge l’esigenza di coordinamento tra le discipline sostanziali dei rapporti – propone di interpretare “i richiami (agli artt. 31-32-34-35-36) in senso non letterale e tassativo, e così facendo applicazione delle nuove norme in tutti i casi in cui il processo simultaneo risulti opportuno per la presenza di una obiettiva esigenza di coordinamento dei rapporti sul piano sostanziale, che renda non meramente teorica o logica la inconciliabilità delle pronunce. …Punto di riferimento logico e funzionale di siffatta interpretazione potrebbe essere dato dalla nozione di connessione che positivamente fornisce la Convenzione di Bruxelles del 1968 al fine di consentire la riunione delle cause: assai pragmaticamente infatti l’art. 22 della Convenzione definisce come connesse “le cause aventi tra loro un legame così stretto da rendere opportuna una trattazione e decisioni uniche per evitare soluzioni tra di loro incompatibili ove le cause fossero trattate separatamente”. (28) PROTO PISANI, o.u.c.; 34. (29) Cfr. PROTO PISANI, o.u.c.; 35; ritengono che il criterio della causa di maggior valore operi sempre quando le cause sono di competenza dello stesso giudice: COSTANTINO, Appunti sulle proposte di riforma urgente del processo civile, in Doc. giust., 1988, X, 22 ss.; ATTARDI, Le nuove disposizioni sul processo civile, Padova, 1991, 26-27. (30) TARZIA, o.u.c., 39; MERLIN, o.c. 34 ss., la quale specifica che il criterio della “prevalenza astratta e potenziale” – che implica debba farsi riferimento alla vis actractiva della causa in senso astratto cioè indipendentemente dal fatto che si esplichi in concreto – trova applicazione nel caso in cui la forza attrattiva operi a senso unico nel senso che solo una delle cause può esplicarla (artt. 31 e 32) e non negli altri casi di connessione in cui si ha una potenzialità attrattiva a doppio senso. (31) V. PROTO PISANI, Questioni di rito, cit.. (32) Di modo che problemi residuano solo riguardo all’esclusione dalla soggezione alla competenza per materia del pretore e al rito lavoro delle azioni di rilascio per occupazione senza titolo e all’individuazione della nozione di immobile urbano; cfr. PROTO PISANI, La nuova disciplina, cit., 3. (33) Sul tema v. MIRENDA, Connessione e rito nelle controversie locative, dopo la novella dell’art. 40, comma 3 c.p.c.: addio al rito speciale, in Arch. loc., 1994, 218 ss., il quale osserva: “è solare la contraddittorietà degli effetti prodotti dall’infelice scelta di anticipare la vigenza e dell’art. 40 c.p.c.: da un lato viene tradita la ratio propulsiva e promozionale che sta alla base della applicabilità del rito speciale alla delicata materia della determinazione/aggiornamento/adeguamento del canone ex art. 43 della l. n. 392/78 (la cui ‘strategicità’ – nel quadro della legge citata – è palese, sol che si pensi, ad es., agli importanti effetti sostanziali nel rapporto negoziale fra locatore e conduttore che l’art. 45 u.c., riconosce alla mera pendenza del giudizio); dall’altro …ci si muove in direzione diametralmente opposta a quella percorsa dalla riforma”. (221). (34) Nello stesso senso, MIRENDA, o.c., 221-222, il quale prende atto che “nell’art. 43 la competenza per materia del pretore …viene espressamente confinata nell’ambito dell’azione di mero accertamento delle componenti del canone”, e, con riferimento alle materie di cui all’art. 45 afferma: “che ogni qualvolta la causa petendi sia riconducibile ad una delle materie ivi elencate, ricorre … la competenza funzionale, con rito speciale, del pretore delle locazioni, non limitata al mero accertamento di quelle situazioni sostanziali ma estesa, altresì, a tutte le pronunce connesse, comprese le domande di condanna”. (35) MERLIN, o.c., 30-31. (36) MERLIN, o.c., 31-32 che così esemplifica: “per la causa locatizia cumulata con la causa di lavoro la disciplina dell’esecutorietà della sentenza dovrebbe comunque ritrovarsi nell’art. 447 bis ult. comma, e non nell’art. 431”. (37) TARZIA, Lineamenti, cit., 36; v. VERDE, in VERDE DI NANNI, Codice di procedura civile. Legge 26 novembre 1990, n. 353, Torino, 1991, il quale in generale pone il dubbio se sia ragionevole far dipendere la scelta del rito (le norme relative al quale in quanto norme sul procedimento possono condizionare la decisione di merito) da vicende “occasionali ed estrinseche” di connessione, pur ritenendo che solo una visione eccessivamente garantistica potrebbe far propendere per l’incostituzionalità. (38) Tale lettura “era nel senso che la previsione della deroga alla competenza per valore comportasse a fortiori l’ammissibilità della deroga alla competenza per territorio derogabile (assoggettata dall’art. 38 ad una disciplina più blanda), e a contrariis l’inammissibilità della deroga alla competenza per materia e per territorio inderogabile (assoggettate dal testo originario del primo comma dell’art. 38 ad una disciplina più forte di quella della competenza per valore)” (così PROTO PISANI, La nuova disciplina, cit., 20-21. (39) PROTO PISANI, o.u.c., 21. (40) PROTO PISANI, o.u.c., 22. (41) Per i casi in cui il procedimento si applica a controversie che non rientrano tra quelle di cui all’art. 8 n. 3 c.p.c. (locazioni di immobili non urbani e controversie attribuite alla competenza delle sezioni specializzate agrarie) v. PROTO PISANI, o.u.c., 12; NELA, in Le riforme del processo civile, cit., sub art. 667, 602. (42) PROTO PISANI, o.u.c., 11-12. (43) Cfr. PROTO PISANI, Questioni di rito, cit., 374; FABBRINI, Diritto processuale del lavoro, 1974, 51, 55, il quale formula l’ipotesi di preclusione della domanda riconvenzionale, non espressa nella comparsa di risposta; TARZIA, Manuale del processo del lavoro, Milano, 1980, 152; perquanto non esplicitata, deve ritenersi che tale interpertazione sia valida per il caso in esame per LUISO, in CONSOLO, LUISO, SASSANI, La riforma, cit., 417, il quale ritiene dubbio che l’opponente possa proporre, con gli atti integrativi, domande riconvenzionali che dovrebbero essere proposte nell’udienza fissata per la convalida (entrambe le parti potrebbero invece allegare nuovi fatti (44) liberamente); nello stesso senso NELA, in Le riforme, cit., sub art. 667, 600 n. 6, secondo cui “la presentazione di domande riconvenzioanli è consentita all’opponente nella comparsa con cui egli si sia eventualmente costituito, ed è successivamente preclusa, ex art. 167 c.p.c., senza che la possibilità di integrare l’atto introduttivo si risolva in una vera e propria sanatoria delle decadenze; l’A. dubita peraltro che tale soluzione sia valida anche per il caso in cui il conduttore sia comparso personalmente all’udienza senza costituirsi. LA SANATORIA DELLA MOROSITÀ EX ART. 55 LEGGE 392/78 IN MATERIA DI LOCAZIONE Relatore: avv. Sergio PAPARO avvocato del Foro di Firenze SOMMARIO: 1. La sanatoria della morosità ex art. 55 legge 392/78 in relazione ai contratti aventi ad oggetto gli immobili destinati ad uso non abitativo. – 2. La sanatoria della morosità ex art. 55 legge 393/78 in relazione all’ipotesi di contestazione parziale del canone (rapporto fra l’art. 55 legge 392/78 e l’art. 666 c.p.c.) ed alla possibilità di chiedere la sanatoria in via subordinata rispetto all’opposizione proposta in via principale. – 3. La sanatoria della morosità ex art. 55 legge 393/78 nel rito ordinario. – 4. La sanatoria della morosità ex art. 55 legge 393/78 in caso di opposizione tardiva (artt. 55 legge 392/78 e 668 c.p.c.). – 5. La condanna alle spese nel procedimento di convalida di sfratto dopo il recente intervento della Suprema Corte (sentenza 5720/1994). – 6. Nella locazione per esigenze abitative transitorie ex art. 26 lett. a) della legge 392/1978 le esigenze oggettive del conduttore rilevano indipendentemente dalla conoscenza che di esse abbia il locatore? 1. La sanatoria della morosità ex art. 55 legge 392/78 in relazione ai contratti aventi ad oggetto gli immobili destinati ad uso non abitativo. La soluzione del quesito se l’art. 55 della legge 392/78 sia o meno applicabile alle locazioni disciplinate dall’art. 27 della stessa (locazioni ad uso non abitativo) non è certamente agevolata dall’evoluzione dell’interpretazione che della norma è stata proposta dalla giurisprudenza di legittimità, soprattutto negli ultimi anni. L’iniziale orientamento del Supremo Collegio fu assolutamente costante in senso affermativo. La Corte infatti ebbe ad affermare più volte: • che dai lavori preparatori era possibile ricavare la volontà del legislatore di rendere applicabile gli artt. da 43 a 57 ad ogni locazione di immobili urbani, a prescindere dalla loro destinazione; • che quella soluzione era l’unica rispondente alla “necessità di una interpretazione unitaria della complessiva ratio legis”. La massima ricavabile da quelle decisioni fu dunque nel senso che “le disposizioni dell’art. 55 primo comma della legge 392/78 in tema di sanatoria in sede giudiziale della morosità del conduttore nel pagamento dei canoni o degli oneri accessori trovano applicazione, in mancanza di espresse limitazioni risultanti dal dato normativo nonchè di qualsivoglia incompatibilità di ordine logico, anche con riguardo alle locazioni di immobili adibiti ad uso diverso da quello abitativo”. Successivamente le Sezioni Unite, con la sentenza 12210/1990, confermarono quel precedente indirizzo con una decisione che, seppur riferita alla questione (risolta in senso negativo) se alle locazioni non abitative sia applicabile la predeterminazione legale della gravità dell’inadempimento di cui all’art. 5, ribadì incidentalmente l’inesistenza di qualunque nesso di interdipendenza fra l’art. 5 e l’art. 55 e dunque negò che il richiamo dell’art. 5 operato dal primo comma dell’art. 55 potesse valere a condizionare (o, peggio, ad escludere) la piena operatività dell’istituto della sanatoria della morosità anche per le locazioni non abitative. Solo con la sentenza 2496/1992 il S.C. (Sezione Terza) mutò orientamento valorizzando, a fondamento della sua decisione: – il richiamo contenuto nell’art. 55 ai canoni ed agli oneri di cui all’art. 5 e dunque il riferimento espresso ad una disposizione collocata nell’ambito delle locazioni abitative ed espressamente esclusa, dall’art. 41, per le locazioni non abitative stipulate in regime ordinario; – l’impianto stesso della legge, laddove nel regime ordinario non è stata riproposta una norma del tenore dell’art. 74 che invece, nel regime transitorio, espressamente rende applicabile l’art. 55 anche alle locazioni non abitative. Nei due anni successivi peraltro la stessa Terza Sezione (con le sentenze 659/1993, 7702/1993, 10202/1994, 2232/1995 e 6023/1995) modificò nuovamente orientamento dichiarando la possibilità per il conduttore di immobile urbano adibito ad uso non abitativo di avvalersi della facoltà di sanare la morosità in udienza e/o di richiedere apposito termine di grazia ex art. 55. Tali affermazioni, peraltro, furono fatte sempre “in limine litis” in quanto le fattispecie sostanziali decise dalle pronunzie di merito sottoposte a censura attenevano esclusivamente all’ambito di operatività della predeterminazione della gravità dell’inadempimento del conduttore operata dall’art. 5. Sulla questione ha avuto occasione di “intervenire” anche la Corte Costituzionale con l’ordinanza 461/1993 con la quale – chiamata dal Pretore di Verona a pronunziarsi sulla questione di legittimità costituzionale dell’art. 55 della legge 392/1978 nella parte in cui (a parere del giudice di merito) esclude che l’istituto della sanatoria della morosità si applichi anche alle locazioni non abitative – ha negato la sussistenza del denunziato vizio di legittimità implicitamente avallando, sotto il profilo quantomeno della corretteza costituzionale, l’interpretazione fornita dal Supremo Collegio con la ricordata sentenza 2496/1992. GIURISPRUDENZA • Corte Costituzionale 1. È manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 55 l. 27 luglio 1978 n. 392, sollevata con riferimento all’art. 3 cost., in base all’interpretazione, dibattuta in giurisprudenza, che il citato articolo escluda la sanatoria della morosità del canone per le locazioni di immobili urbani ad uso non abitativo, stipulate successivamente all’entrata in vigore della citata legge, poiché la limitazione, in via transitoria, della facoltà di sanatoria della morosità per le locazioni stipulate anteriormente, si giustifica con il fatto che il mutamento legislativo incide sulla posizione delle parti contrattualmente stabilite per le locazioni in corso, e rende quindi opportuno consentire al conduttore di sanare la morosità in sede giudiziale. Corte costituzionale 23 dicembre 1993, n. 461 Cons. Stato 1993, II, 2106 (s.m.) Giur. cost. 1993, fasc., Giust. civ. 1994, I, 593 nota (IZZO) Arch. locazioni 1994, 51 Foro it. 1994, I, 330, 6. • Cassazione 2. In tema di disciplina transitoria delle locazioni d’immobili urbani – come stabilita dal titolo secondo della l. 27 luglio 1978 n. 392 (cosiddetta sull’equo canone) – la mancanza di qualsivoglia incompatibilità di ordine logico-concettuale tra la sanatoria della morosità come regolata dalla norma processuale dell’art. 55 e le locazioni non abitative come richiamate dalla norma, anch’essa di natura processuale, di cui all’art. 74; la perentorietà di tale richiamo, senza riserve o limitazioni; la corrispondenza tra la lettera e la “ratio” della norma, escludono una interpretazione riduttiva dell’istituto della sanatoria della morosità, come descritto all’art. 55; esso, di conseguenza, è applicabile anche con riferimento alle locazioni di immobili adibiti ad uso diverso da quello di abitazione. Cassazione civile, sez. III, 24 aprile 1981 n. 2469, Giust. civ. Mass. 1981, fasc. 4.; Riv. giur. edilizia 1983, I, 196. 3. In tema di disciplina transitoria delle locazioni d’immobili urbani – come stabilita dal titolo secondo della l. 27 luglio 1978 n. 392 (cosiddetta sull’equo canone) – la mancanza di qualsivoglia incompatibilità di ordine logico-concettuale tra la sanatoria della morosità come regola dalla norma processuale dell’art. 55 e le locazioni non abitative come richiamate dalla norma, anch’essa di natura processuale, di cui all’art. 74; la perentorietà di tale richiamo, senza riserve o limitazioni; la corrispondenza tra la lettera e la ratio della norma, escludono un’interpretazione riduttiva dell’istituto della sanatoria della morosità, come descritto all’art. 55; esso, di conseguenza, è applicabile anche con riferimento alle locazioni d’immobili adibiti ad uso diverso da quello di abitazione. Cassazione civile, sez. III, 25 giugno 1983 n. 4371, Giust. civ. Mass. 1983, fasc. 6. 4. In tema di concessione di un termine per il pagamento dei canoni locatizi scaduti, previsto dall’art. 55 della l. 27 luglio 1978 n. 392, la perentorietà del richiamo operato a detta norma dal successivo art. 74; la mancanza di qualsivoglia incompatibilità di ordine logico concettuale tra la sanatoria della morosità, come regolata dal citato art. 55 e le locazioni non abitative come richiamate dalla norma, anch’essa di natura processuale, di cui all’art. 74; la corrispondenza tra la lettera e la ratio della norma, escludono una interpretazione riduttiva dell’istituto che, di conseguenza, è applicabile anche con riferimento alla locazione di immobile adibito ad uso diverso da quello di abitazione. Cassazione civile, sez. III, 20 aprile 1984 n. 2594 Giust. civ. Mass.1984 fasc. 3-4. 5. A norma dell’art. 1188 comma 1 c.c., il procuratore “ad litem” del locatore è legittimato a ricevere il pagamento dei canoni arretrati (e/o degli oneri accessori) offerto ai sensi dell’art. 55 legge n. 392 del 1978 del conduttore di immobile urbano convenuto in giudizio per morosità e di conseguenza, ove egli rifiuti il pagamento, si determina una situazione di oggettivo inadempimento non ascrivibile a colpa del conduttore e non può, quindi, procedersi alla risoluzione del rapporto. Cassazione civile, sez. III, 27 gennaio 1986 n. 524, Giur. it. 1986, I, 1, 724 (nota). 6. In tema di concessione di un termine per il pagamento dei canoni locatizi scaduti, previsto dall’art. 55 della legge n. 392 del 1978, la mancanza di espresse limitazioni all’applicabilità di tale norma nonché di qualsivoglia incompatibilità di ordine logico-concettuale tra la sanatoria della morosità come da essa regolata e le locazioni non abitative, escludono una interpretazione riduttiva dell’istituto e comportano la sua applicabilità anche con riferimento alla locazione di immobile adibito ad uso diverso da quello di abitazione, stipulata successivamente all’entrata in vigore della richiamata legge (nella specie, il 20 gennaio 1979). Cassazione civile, sez. III, 26 luglio 1986 n. 4799, Giust. civ. Mass. 1986, fasc. 7; Riv. giur. edilizia 1983, I, 196. 7. In tema di disciplina transitoria delle locazioni d’immobili urbani – come stabilita dal titolo secondo della l. 27 luglio 1978 n. 392 (cosiddetta sull’equo canone) – la mancanza di qualsivoglia incompatibilità di ordine logico-concettuale tra la sanatoria della morosità come regolata dalla norma processuale dell’art. 55 e le locazioni non abitative come richiamate dalla norma, anch’essa di natura processuale, di cui all’art. 74; la perentorietà di tale richiamo, senza riserve o limitazioni; la corrispondenza tra la lettera e la “ratio” della norma, escludono una interpretazione riduttiva dell’istituto della sanatoria della morosità, come descritto all’art. 55; esso, di conseguenza, è applicabile anche con riferimento alle locazioni di immobili adibiti ad uso diverso da quello di abitazione. Cassazione civile, sez. III, 27 novembre 1986 n. 6995, Giust. civ. Mass. 1986, fasc. 11; Giur. it. 1987, I, 1, 1396. 8. In tema di disciplina transitoria delle locazioni d’immobili urbani – come stabilita dal titolo secondo della l. 27 luglio 1978 n. 392 (cosiddetta sull’equo canone) – la mancanza di qualsivoglia incompatibilità di ordine logico-concettuale tra la sanatoria della morosità come regolata dalla norma processuale dell’art. 55 e le locazioni non abitative come richiamate dalla norma, anch’essa di natura processuale, di cui all’art. 74; la perentorietà di tale richiamo, senza riserve o limitazioni; la corrispondenza tra la lettera e la ratio della norma, escludono una interpretazione riduttiva dell’istituto della sanatoria della morosità, come descritto all’art. 55; esso, di conseguenza, è applicabile anche con riferimento alle locazioni di immobili adibiti ad uso diverso da quello di abitazione. Cassazione civile, sez. III, 17 aprile 1987 n. 3791, Giust. civ. Mass. 1987, fasc. 4. 9. Il disposto dell’art. 5 della legge n. 392 del 1978, per il quale il mancato pagamento del canone costituisce motivo di risoluzione del contratto di locazione, ai sensi dell’art. 1455 c.c., soltanto se siano decorsi venti giorni dalla scadenza prevista – operando così una predeterminazione legale della gravità od importanza dell’inadempimento sottratta alla valutazione discrezionale del giudice – trova applicazione anche con riguardo alle locazioni di immobili destinati ad uso diverso da quello abitativo, stante il richiamo anche operativo della disciplina dell’art. 55 della citata legge per l’istituto della sanatoria della morosità applicabile ad ambedue le categorie di locazioni. Cassazione civile, sez. III, 23 novembre 1987 n. 8605, Giust. civ. Mass. 1987, fasc. 11. 10.Le disposizioni dell’art. 55, comma 1, della legge n. 392 del 1978 in tema di sanatoria in sede giudiziale della morosità del conduttore nel pagamento dei canoni o degli oneri accessori, trovano applicazione, in mancanza di espresse limitazioni risultanti dal dato normativo nonché di qualsivoglia incompatibilità di ordine logico, anche con riguardo alle locazioni di immobili adibiti ad uso diverso da quello abitativo. Cassazione civile, sez. III, 21 settembre 1988 n. 5182, Giust. civ. Mass. 1988, fasc. 8/9. 11.In tema di disciplina transitoria delle locazioni degli immobili urbani, la sanatoria della morosità prevista dall’art. 55 l. 27 luglio 1978 n. 392 è applicabile anche alle locazioni di immobili destinati ad uso diverso da quello di abitazione, in considerazione della mancanza di qualsivoglia incompatibilità di ordine concettuale, del richiamo senza riserve da parte dell’art. 74 della citata legge agli art. da 43 e 57, in corrispondenza tra la lettera e la “ratio” della norma. Cassazione civile, sez. III, 27 novembre 1990 n. 11397 Giust. civ. Mass. 1990, fasc. 11. 12.In tema di locazione di immobili urbani, l’art. 5 l. 27 luglio 1978 n. 392, sulla “predeterminazione” della gravità dell’inadempimento, al fine della risoluzione del rapporto, non trova applicazione per le locazioni ad uso non abitativo, atteso che tale norma è specificamente dettata per le locazioni ad uso abitativo, non è richiamata nella disciplina di quelle non abitative, ed altresì si correla alle peculiari regole, anche sulla determinazione del canone, che operano per le locazioni del primo tipo. Ne consegue che, per le locazioni non abitative, ferma restando l’operatività dell’art. 55 della citata legge con riguardo alla possibilità di sanare la mora, la valutazione dell’importanza dell’inadempimento del conduttore resta affidata ai comuni criteri di cui all’art. 1455 c.c. (salva la facoltà del giudice di utilizzare come parametro orientativo il principio di cui al menzionato art. 5, alla stregua delle particolarità del caso concreto). Cassazione civile, sez. un., 28 dicembre 1990 n. 12210, Giust. civ. Mass. 1990, fasc. 12. 13.In virtù dell’art. 74 della legge sull’equo canone, a norma del quale le norme processuali degli artt. da 43 a 57 della stessa legge sono applicabili alle locazioni previste dai capi I e II, le disposizioni dell’art. 55 comma 1, della legge n. 392 del 1978, in tema di sanatoria in sede giudiziale della morosità del conduttore nel pagamento dei canoni e degli oneri accessori, trovano applicazione, in mancanza di espresse limitazioni risultanti dal dato normativo, nonché di qualsivoglia incompatibilità di ordine logico, anche per le locazioni di immobili adibiti ad uso diverso da quello abitativo. Cassazione civile sez. III, 15 marzo 1991 n. 2772, Giust. civ. Mass. 1991, fasc. 3. Riv. giur. edilizia 1991, I, 574. Vita not. 1991, 573. Arch. locazioni 1992, 334. 14.L’art. 5 della legge sull’equo canone, per il quale il mancato pagamento del canone, decorsi i 20 giorni dalla scadenza prevista, o degli oneri accessori, quando l’importo non pagato superi quello di due mensilità, è causa di risoluzione del contratto, si riferisce alle locazioni abitative e non può essere applicato, quindi, alle locazioni non abitative per le quali l’inadempimento del conduttore, ai sensi dell’art. 1455 c.c., può essere causa di risoluzione del contratto solo quando il giudice accerti che non ha scarsa importanza, avuto riguardo all’interesse del locatore, a meno che il conduttore, avvalendosi della facoltà di purgare la mora nei termini stabiliti dall’art. 55, che è in ogni caso applicabile sia alle locazioni abitative che a quelle per uso diverso, non abbia escluso la possibilità della risoluzione impedendo, così, l’accoglimento della domanda. Cassazione civile sez. III, 17 dicembre 1991 n. 13575, Giust. civ. Mass. 1991, fasc. 12 – Conforme – Cassazione civile sez. un., 28 dicembre 1990 n. 12210, Nuova giur. civ. commentata 1991, I, 660 (nota). 15.A differenza del regime transitorio delle locazioni urbane disposto dalla l. 27 luglio 1978 n. 392 (art. 74), nel regime ordinario, in mancanza di un onnicomprensivo richiamo, l’art. 55 della detta legge – senza porsi in contrasto con il principio di eguaglianza ex art. 3 cost. – consente al conduttore di sanare la morosità dei canoni soltanto con riguardo alle locazioni per uso abitativo indicate dall’art. 5 della stessa legge e non è, quindi, applicabile alle locazioni per uso non abitativo che sono assoggettate ad una autonoma disciplina alla quale possono essere estese solo le norme sulle locazioni abitative espressamente richiamate, tra le quali non rientra quella del citato articolo. Cassazione civile sez. III, 28 febbraio 1992, n. 2496 Giust. civ. 1994, I, 593 nota (IZZO), Giust. civ. Mass. 1992, fasc. 2 Foro it. 1992, I, 3015. Vita not. 1992, 1195 Arch. locazioni 1992, 787. 16.In tema di locazione di immobili urbani, l’art. 5 l. 27 luglio 1978 n. 392, sulla “predeterminazione” della gravità dell’inadempimento, al fine della risoluzione del rapporto, non trova applicazione per le locazioni ad uso non abitativo, atteso che tale norma è specificamente dettata per le locazioni ad uso abitativo, non è richiamata nella disciplina di quelle non abitative, ed altresì si correla alle peculiari regole, anche sulla determinazione del canone, che operano per le locazioni del primo tipo. Ne consegue che, per le locazioni non abitative, ferma restando l’operatività dell’art. 55 della citata legge con riguardo alla possibilità di sanare la mora, la valutazione dell’importanza dell’inadempimento del conduttore resta affidata ai comuni criteri di cui all’art. 1455 c.c. salva la facoltà del giudice di utilizzare come parametro orientativo il principio di cui al menzionato art. 5, alla stregua delle particolarità del caso concreto. Cassazione civile sez III, 20 gennaio 1993, n. 659 Giust. civ. Mass. 1993, 90 (s.m.) – Conforme – Cassazione civile sez. III, 24 giugno 1993, n. 7002 Giust. civ. Mass. 1993, 1077 (s.m.). 17.In tema di locazione di immobili urbani l’art. 5 della legge sull’equo canone sulla predeterminazione della gravità dell’inadempimento al fine della risoluzione del rapporto non trova applicazione per le locazioni ad uso non abitativo, per le quali, ferma restando l’operatività dell’art. 55 legge cit., con riguardo alla possibilità di sanare la mora, la valutazione dell’importanza dell’inadempimento del conduttore resta affidata ai comuni criteri di cui all’art. 1455 c.c., salva la facoltà del giudice di utilizzare come parametro orientativo il principio di cui al menzionato art. 5 alla stregua della particolarità del caso concreto. Cassazione civile sez. III, 29 novembre 1994, n. 10202 Giust. civ. Mass. 1994, fasc. 11. 18.In tema di locazione di immobili urbani, l’art. 5 l. 27 luglio 1978 n. 392, sulla “predeterminazione” della gravità dell’inadempimento, al fine della risoluzione del rapporto, non trova applicazione per le locazioni ad uso non abitativo, atteso che tale norma è specificatamente dettata per le locazioni ad uso abitativo, non è richiamata nella disciplina di quelle non abitative, ed altresì si correla alle peculiari regole, anche sulla determinazione del canone, che operano per le locazioni del primo tipo. Ne consegue che, per le locazioni non abitative, ferma restando l’operatività dell’art. 55 della citata legge con riguardo alla possibilità di sanare la mora, la valutazione dell’importanza dell’inadempimento del conduttore resta affidata ai comuni criteri di cui all’art. 145 c.c., salva la facoltà affidata del giudice di utilizzare come parametro orientativo il principio di cui al menzionato art. 5, alla stregua delle particolarità del caso concreto). Cassazione civile sez. III, 27 febbraio 1995, n. 2232 Giust. civ. Mass. 1995, 457. 19.L’art. 5 della l. 27 luglio 1978 n. 392 sulla “predeterminazione” della gravità dell’inadempimento, ai fini della risoluzione del rapporto, correlandosi alle peculiari regole sulla determinazione del canone dettate per le locazioni ad uso abitativo, non può essere applicato alle locazioni non abitative, la cui disciplina non richiama la disposizione del citato art. 5, alle predette locazioni non abitative è, invece applicabile l’art. 55 della stessa legge, relativo alla possibilità di sanare la mora, che, benché inserito nel complesso di norme dettate per le locazioni abitative prevede una disciplina limitatrice della risoluzione del contratto che, per la “ratio” che la ispira, è di carattere generale e rientra, per di più, tra le disposizioni processuali richiamate in tema di locazioni non abitative dagli art. 42 e 74 della legge n. 392 del 1978. Cassazione civile sez. III, 29 maggio 1995, n. 6023 Giust. civ. Mass. 1995, 182. • Merito 20.Lo speciale termine di grazia previsto dall’art. 55 l. 27 luglio 1978 n. 392 per sanare la morosità nel pagamento del canone è applicabile ad ogni tipo di locazione e quindi anche a quelle afferenti ad usi non abitativi, essendo evidente la “ratio” della norma stessa, che è appunto quella di agevolare tutti i conduttori morosi e non soltanto quelli di case di abitazione. Pretura Acireale 15 gennaio 1979, Nuovo dir. 1980, 422 (nota). – Conforme – Pretura Saluzzo 24 settembre 1979, Nuovo dir. 1980, 50 (nota). 21.La disciplina contenuta nell’art. 55 legge 392/1978, che accorda al conduttore la facoltà di sanare la morosità nel pagamento dei canoni in sede giudiziale, è applicabile soltanto ai contratti relativi ad immobili adibiti ad abitazione. Pretura Legnano 16 marzo 1979, Giust. civ. 1979, 1130, I; Riv. dir. civ. 1980, II, 186, 496 (note). Foro it. 1980, I, 539. 22.Le disposizioni sul termine per il pagamento dei canoni scaduti, contenute nell’art. 55 l. 392/1978, sono applicabili ai soli contratti relativi ad immobili destinati ad abitazione stipulati successivamente al 30 luglio 1978. Pretura Bassano Grappa 4 maggio 1979, Foro it. 1979, 1573, I; Riv. giur. edilizia 1979, I, 816; Giur. merito 1979, 817 (nota). 23.La speciale sanatoria della morosità contemplata dall’art. 55 legge n. 392/1978 è applicabile soltanto ai contratti di locazione relativi ad immobili destinati ad usi abitativi. L’art. 5 della legge stessa è parimenti applicabile solo a tali contratti, onde in tema di gravità dell’inadempimento, riprende vigore – relativamente alle locazioni di immobili non adibiti ad abitazione – il generale principio espresso dall’art. 1455 c.c. Con riferimento a tali ultimi contratti è altresì applicabile l’ulteriore generale principio di cui all’art. 1453 c.c., onde la loro risoluzione non è evitata per avere il conduttore sanato la propria morosità soltanto dopo la richiesta giudiziale di risoluzione dello stesso rapporto locatizio. Pretura Bassano Grappa 31 ottobre 1979, Nuovo dir. 1980, 45 (nota). Giur. merito 1981, 30 (nota). 24.Non è applicabile alle locazioni di immobili adibiti ad uso diverso dall’abitazione la norma che consente al conduttore di sanare in sede giudiziale la morosità nel pagamento dei canoni scaduti. Pretura Bassano Grappa 9 novembre 1979, Giur. it. 1980, I, 2, 585. 25.L’istituto della sanatoria della morosità, previsto dall’art. 55 della legge sull’equo canone, non è applicabile alle locazioni di immobili adibiti ad uso diverso da quello di abitazione. Pretura Bassano Grappa 1 dicembre 1981, Giur. it. 1983, I, 2, 129. 26.La disposizione di cui all’art. 55 l. 27 luglio 1978 n. 392 che consente al conduttore moroso di sanare la morosità in sede giudiziale o di ottenere il c.d. termine di grazia per sanare la morosità è applicabile anche alle locazioni di immobili adibiti ad uso diverso dall’abitazione. Pretura Viareggio 6 febbraio 1982, Dir. giur. 1982, 406 (nota). 27.La disciplina della sanatoria della morosità mediante il pagamento dei canoni scaduti in sede giudiziale ex art. 55 l. n. 392 del 1978 (“Equo canone”) non è applicabile alle locazioni di immobili adibiti ad uso non abitativo già in corso, ovvero successive all’entrata in vigore della predetta legge. Tribunale Messina 3 luglio 1982, Giur. merito 1982, 1103. 28.L’art. 55 l. 27 luglio 1978 n. 392, riservando la facoltà di sanare la morosità esclusivamente al conduttore di immobile adibito ad uso abitazione non può trovare applicazione nei confronti di locazione di immobile destinato ad uso diverso in virtù di contratto non soggetto a regime transitorio. Pretura Roma 9 febbraio 1983, Temi romana 1983, 137. 29.La sanatoria della morosità prevista dall’art. 55 l. n. 392 del 1978 è applicabile anche con riferimento alle locazioni di immobili adibiti ad uso diverso da quello di abitazione. Tribunale Torino 28 ottobre 1983, Riv. giur. edilizia 1984, I, 516. 30. Il pagamento avvenuto dopo l’intimazione di sfratto in udienza o nel termine fissato dal giudice non esclude la risoluzione del contratto in materia di locazioni non abitative, in quanto a queste non è applicabile l’art. 55 legge n. 392 del 1978. Tribunale Lucca 24 marzo 1990, Arch. locazioni 1990, 534. 31.L’art. 55 della legge n. 392 del 1978, riguardante la sanatoria in sede giudiziale della morosità del conduttore nel pagamento del canone (e degli oneri accessori), è applicabile anche per le locazioni di immobili adibiti ad uso diverso da quello abitativo nel regime ordinario. Pretura Napoli, 20 novembre 1992 Arch. locazioni 1993, 156. 32. La sanatoria della morosità nel pagamento del canone di locazione – prevista dall’art. 55 della legge n. 392 del 1978, è applicabile – nel regime ordinario – soltanto alle locazioni per uso abitativo indicate dall’art. 5 della predetta legge e non riguarda, pertanto, le locazioni stipulate per uso non abitativo, che sono assoggettate ad una autonoma disciplina alla quale possono essere estese solo le norme sulle locazioni abitative espressamente richiamate tra le quali non rientra quella del citato art. 55. Pretura Verona, 26 febbraio 1994, Arch. locazioni 1995, 186. 2. La sanatoria della morosità ex art. 55 legge 393/78 in relazione 1) all’ipotesi di contestazione parziale del canone (rapporto fra l’art. 55 legge 392/78 e l’art. 666 c.p.c.) 2) alla possibilità di chiedere la sanatoria in via subordinata rispetto all’opposizione proposta in via principale (1) In via preliminare pare necessario domandarsi se l’art. 666 c.p.c. sia norma tuttora vigente o se essa debba dirsi abrogata ai sensi dell’art. 84 della legge 392/1978. La soluzione favorevole alla tesi della persistente operatività della disposizione del codice di rito è stata ritenuta, seppure implicitamente, sia dalla dottrina che dalla giurisprudenza (entrambe, in verità, alquanto scarse sotto il profilo quantitativo) che hanno individuato differenti ambiti operativi delle due disposizioni in quanto destinate a disciplinare fattispecie del tutto diverse fra loro: • l’art. 666 c.p.c. ipotizza che il conduttore intimato neghi la morosità solo in ordine al quantum assunto dal locatore contestando l’ammontare del maggior importo preteso; • l’art. 55 legge 392/1978 è tipicizzato sulla differente fattispecie dell’assenza assoluta di eccezioni da parte del conduttore circa la sussistenza della mora e l’ammontare dell’importo dovuto. Sia la giurisprudenza di merito che quella di legittimità hanno affrontato il problema del rapporto fra le due differenti ipotesi sostanziali considerate dalle norme in questione ritenendo che se il conduttore nel costituirsi in giudizio si oppone alla convalida contestando la morosità allegata dal locatore ma ammettendone la sussistenza in misura inferiore, deve farsi applicazione non già dell’art. 55 della legge 392/1978 bensì della norma del codice di rito. Le differenze fondamentali fra i due istituti possono individuarsi: a) nei presupposti per la concedibilità al conduttore del termine per sanare: • ex art. 55 legge 392/78: solo su richiesta di parte, previo accertamento della sussistenza delle condizioni (soggettive ed oggettive) di difficoltà del conduttore, di cui ai commi 2 e 4; • ex art. 666 c.p.c.: anche d’ufficio ed a prescindere dalla sussistenza di condizioni di difficoltà del conduttore; b) nei limiti di concedibilità del termine per sanare: • ex art. 55 legge 392/78: per non più di tre volte (che possono diventare quattro nei casi di maggiori comprovate difficoltà del conduttore) nel corso di un quadriennio; • ex art. 666 c.p.c.: senza alcuna restrizione; c) negli effetti della sanatoria: • ex art. 55 legge 392/78: è esclusa la possibilità per il giudice di pronunziare la risoluzione del contratto; • ex art. 666 c.p.c.: al giudice compete comunque la valutazione ex artt. 1455 cod. civ. della gravità dell’inadempimento del conduttore relativamente alla parte di canone non contestato. Un precedente giurisprudenziale (Pretura Milano 10 maggio 1983) ha ritenuto che “il diverso campo di operatività delle due menzionate disposizioni le rende perfettamente compatibili tra loro, tanto che appare possibile concedere alternativamente all’intimato i termini da esse rispettivamente previsti”, rimettendosi poi alla scelta del conduttore di decidere di quale delle due facoltà avvalersi nel concreto, con i conseguenti effetti in ordine alla possibilità che il giudizio prosegua nel merito per la valutazione della gravità dell’inadempimento (nel caso in cui opti per la sanatoria parziale ex art. 666 c.p.c.). Questa soluzione, certamente apprezzabile per la finalità di ampliare le possibilità di difesa sostanziale della parte intimata di sfratto per morosità, non indica però le soluzioni necessarie da adottarsi sul piano più squisitamente processuale relativamente alla prosecuzione del processo. Infatti: • i termini di sanatoria indicati dalle due disposizioni sono nettamente diversi fra di loro (non più di 20 giorni ex art. 666 c.p.c.; fino a 90 – ed in casi eccezionali anche fino a 120 – ex art. 5 legge 392/78); pertanto il giudice dovrebbe differire comunque l’udienza in applicazione del terzo comma dell’art. 55 legge 392/78 onde armonizzare il procedimento con la possibilità che successivamente il conduttore decida di avvalersi della facoltà della legge c.d. di equo canone piuttosto che di quella del codice di rito: in tal caso appare evidente il rischio che l’intimato pur non avendo alcuna intenzione di sanare integralmente la morosità possa formulare entrambe le istanze al solo fine strumentale di dilatare i tempi processuali, optando poi per la sanatoria nel termine di cui all’art. 666 c.p.c. della sola mora non contestata; • mentre la previsione dell’art. 55 della legge 392/78 mira alla definizione del giudizio (con l’estinzione in caso di sanatoria o con la convalida in caso di mancato pagamento nel termine assegnato) quella di cui all’art. 666 c.p.c. presuppone comunque non solo il giudizio di merito – oggi da svolgersi nelle forme di cui all’art. 447 bis c.p.c. previa ordinanza di conversione del rito di cui all’art. 667 c.p.c. – ma anche la possibilità che il locatore faccia richiesta al giudice di pronunziare ordinanza di rilascio ex art. 665 c.p.c. ove l’eccezione del convenuto relativamente alla morosità contestata non sia fondata su prova scritta e non sussistano gravi motivi in contrario alla sua emanazione: l’interesse del locatore a che la decisione sulla sua istanza di emanazione dell’ordinanza di rilascio non sia rinviata oltre il termine di cui al secondo comma dell’art. 666 c.p.c. verrebbe significativamente, e gravemente, compromesso. (2) La giurisprudenza ha avuto occasione di esaminare l’ipotesi in cui il conduttore, nel costituirsi in giudizio per convalida di sfratto per morosità, in via principale ne contesti la sussistenza proponendo formale opposizione, ma in via subordinata chieda di potersi avvalere del termine di grazia per sanare la morosità intimatagli. La Suprema Corte ha ritenuto compatibile tale comportamento processuale del conduttore affermando il principio di diritto secondo cui “la contestazione della morosita”, da parte del conduttore cui sia stato intimato sfratto ex art. 658 c.p.c., qualora sia diretta ad opporsi alla convalida ed all’ordinanza di rilascio di cui all’art. 665 c.p.c., esaurisce in tali limiti la sua efficacia e, quindi, non preclude né rende incompatibile il ricorso alla sanatoria di cui all’art. 55 della legge n. 392 del 1978, introdotta a completamento più dettagliato della procedura di convalida dettata dal codice di rito per la possibilità offerta al conduttore di sanare la morosità e la cui utilizzazione comporta implicitamente, ma necessariamente, la manifestazione della prevalente volontà solutoria del conduttore, che va autonomamente valutata e regolamentata in aderenza alla ratio legis di componimento della lite”. Per “l’incompatibilità logica” fra la opposizione alla convalida e la richiesta di termine di grazia per sanare, si è invece pronunziato il Pretore di Reggio Emilia (ordinanza 21-12-1983) il quale ha ritenuto che in presenza di tali contrapposte istanze del convenuto competa al giudice di valutare in concreto quale sia l’effettiva volontà della parte anche alla luce del complessivo comportamento processuale da lui assunto in relazione alla domanda dell’attore. La soluzione favorevole alla ammissibilità dell’istanza per la concessione del termine di grazia in via subordinata alla principale opposizione, propone – sotto il profilo della gestione ulteriore del processo – le stesse questioni in precedenza indicate con riguardo all’ipotesi sub (1), cui dunque deve rimandarsi. Nota. - È doveroso segnalare, per la compiutezza delle analisi e per la novità di alcune soluzioni interpretative proposte, l’intervento, in dottrina, di A. CARRATO (La sanatoria della morosità tra l’art. 55 della legge 392 del 1978 e l’art. 666 c.p.c.) in Rassegna delle Locazioni e del Condominio, Cedam, 1995, 2, 193 e seg.. GIURISPRUDENZA (1) • Cassazione 1. In tema di procedimento per convalida di sfratto per morosità, qualora il conduttore, costituendosi in giudizio e opponendosi alla convalida, contesti la morosità quale allegata dal locatore intimante, ammettendone tuttavia l’esistenza in misura inferiore, può trovare applicazione non già l’art. 55 legge n. 392 del 1978, ma l’art. 666 c.p.c.; con la conseguenza che l’ottemperanza del conduttore all’ordine di pagamento della somma non controversa, emesso dal pretore ai sensi di quest’ultima norma, pur avendo l’effetto di impedire la convalida dello sfratto per morosità, non esclude la risolubilità del contratto all’esito del giudizio proseguito nelle vie ordinarie. Cassazione civile sez. III, 12 maggio 1993, n. 5414 Foro it. 1994, I, 1074. • Merito 2. Ove il conduttore, cui sia stato intimato sfratto per morosità, contesti in parte il debito e chieda un termine per sanare la morosità relativamente alle somme che non contesta di dovere, non può concedersi il termine di grazia previsto dal secondo comma dell’art. 55 della legge 392/78 bensì quello di cui all’art. 666 c.p.c.. Peraltro qualora lo stesso conduttore abbia chiesto in subordine il termine di cui all’art. 55 citato per pagare l’intera somma richiesta dal locatore può concedersi questo termine alternativamente a quello previsto dall’art. 666 c.p.c.; con la conseguenza che se il conduttore versa entro tale ultimo termine il canone non contestato, lo sfratto nei suoi confronti non può essere convalidato, ma egli può essere condannato al rilascio se nel prosieguo del giudizio si accerti l’infondatezza delle sue eccezioni, laddove la sanatoria della morosità prevista dall’art. 55 esclude senz’altro la risoluzione del contratto per inadempimento del conduttore. Pretura Milano, ord. 10 maggio 1983 Arch. Loc. Cond. 1983, 534. (2) • Cassazione 1. La contestazione della morosità da parte del conduttore – cui sia stato intimato sfratto ex art. 658 c.p.c. – qualora sia inequivocabilmente diretta ad opporsi alla convalida ed all’ordinanza di rilascio di cui all’art. 665 c.p.c., esaurisce in tali limiti la sua efficacia e, quindi, non preclude, né rende incompatibile il ricorso alla sanatoria di cui all’art. 55 della l. 27 luglio 1978 n. 392, introdotta a completamento più dettagliato della procedura di convalida dettata dal codice di rito per la possibilità offerta al conduttore di sanare la morosità e la cui utilizzazione comporta implicitamente – ma necessariamente – la manifestazione della prevalente volontà solutoria del conduttore, che va autonomamente valutata e regolamentata in aderenza alla ratio legis di componimento della lite. Cassazione civile, sez. III, 22 maggio 1982 n. 3132, Giust. civ. Mass. 1982, fasc. 5. Giust. civ. 1982, I, 3082. 2. La contestazione della morosità, da parte del conduttore cui sia stato intimato sfratto ex art. 658 c.p.c., qualora sia diretta ad opporsi alla convalida ed all’ordinanza di rilascio di cui all’art. 665 c.p.c., esaurisce in tali limiti la sua efficacia e, quindi, non preclude né rende incompatibile il ricorso alla sanatoria di cui all’art. 55 della legge n. 392 del 1978, introdotta a completamento più dettagliato della procedura di convalida dettata dal codice di rito per la possibilità offerta al conduttore di sanare la morosità e la cui utilizzazione comporta implicitamente, ma necessariamente, la manifestazione della prevalente volontà solutoria del conduttore, che va autonomamente valutata e regolamentata in aderenza alla ratio legis di componimento della lite. Cassazione civile, sez. III, 21 agosto 1985 n. 4474, Giust. civ. Mass. 1985, fasc. 8-9. 3. In tema di locazione d’immobili urbani, qualora il conduttore cui sia stato intimato lo sfratto per morosità nel pagamento del canone, pur opponendosi alla convalida per l’eccepita inesistenza della morosità affermata dal locatore, provveda a corrispondere i canoni dovuti e chieda termine per il pagamento delle spese processuali, previa liquidazione delle stesse da parte del giudice, dimostra con tale comportamento una volontà incompatibile con l’opposizione alla convalida, per cui ove egli non adempia al pagamento delle spese nel termine fissato dal giudice, questi, ai sensi dell’art. 663 c.p.c. deve pronunciare ordinanza di convalida di sfratto, senza possibilità di rinvio della causa per un’ulteriore trattazione del merito; detta ordinanza non è impugnabile né con l’appello né con il ricorso per cassazione ex art. 111 cost. ma soltanto con l’opposizione tardiva ai sensi dell’art. 668 c.p.c., tranne nelle ipotesi in cui si sostenga che essa sia stata emessa fuori o contro le condizioni previste dagli art. 55 e 56 legge n. 392 del 1978 e 663 c.p.c. nel qual caso è impugnabile con l’appello e non direttamente con il ricorso per cassazione. Cassazione civile sez. III, 23 maggio 1990 n. 4646, Arch. locazioni 1991, 86. Giust. civ. 1991, I, 2129 (nota). • Merito 4. L’art. 55 legge n. 392 del 1978 non è applicabile nel caso in cui il conduttore, al quale sia stato intimato lo sfratto per morosità, si opponga alla convalida, in quanto sussiste una incompatibilità logica e giuridica tra la opposizione alla intimazione di sfratto per morosità e la contestuale proposizione della istanza volta ad ottenere la concessione del termine di grazia di cui al precitato art. 55. Pretura Reggio Emilia, 21 dicembre 1993 Arch. locazioni 1994, 140. 5. Una volta manifestata dal conduttore l’opposizione alla convalida di sfratto, la subordinata richiesta del termine di grazia deve essere interpretata quale istanza diretta a scongiurare, comunque, l’emissione del titolo esecutivo costituito dall’ordinanza di rilascio ex art. 665 c.p.c. Tribunale Bologna, 22 aprile 1994 Arch. locazioni 1994, 586. 3. Sanatoria della morosità ex art. 55 legge 393/78 nel rito ordinario. Secondo l’indirizzo costante della Suprema Corte l’operatività dell’istituto della sanatoria della morosità è limitata alle sole ipotesi in cui la contestazione giudiziale della morosità del conduttore sia effettuata da parte del locatore mediante lo strumento del procedimento speciale ex art. 658 c.p.c. e non anche allorché sia proposto ordinario giudizio di risoluzione del contratto per inadempimento nelle forme del processo ordinario di cognizione (oggi ex art. 447 bis, c.p.c.). Ad avallare questa interpretazione concorre anche la Corte Costituzionale che con la sua ordinanza 2/1992 ha dichiarato non fondata – in riferimento all’art. 3 cost. – la questione di legittimità costituzionale dell’art. 55 l. 27 luglio 1978 n. 392, concernente la sanatoria della morosità nel procedimento di convalida di sfratto, ove interpretata nel senso della sua inapplicabilità all’ordinario giudizio di risoluzione del contratto di locazione. Il principale – ma a ben vedere unico – argomento utilizzato dal S.C. nei suoi iniziali interventi (successivamente si è sempre limitato a richiamare “per relationem” i suoi propri precedenti “confortati” dalla statuzione della Consulta) è quello che si ricava dall’applicazione del terzo comma dell’art. 1453 cod. civ. laddove è statuita l’impossibilità per l’inadempiente di adempiere la propria obbligazione successivamente alla proposizione ad opera dell’altra parte del contratto dell’azione di risoluzione. Decisamente contraria all’orientamento della Corte di Cassazione è quasi tutta la dottrina che ha ripetutamente contestato la pochezza, al limite dell’inconsistenza, di quella “motivazione” soprattutto (ma non esclusivamente) sul rilievo che anche il giudizio speciale ex art. 658 c.p.c. mira, sostanzialmente, alla risoluzione del contratto previa esplicita dichiarazione della sussistenza dell’inadempimento contestato al conduttore con la notifica dell’intimazione di sfratto e la contestuale citazione per convalida. Nota Rende esaurientemente conto dello stato attuale della dottrina A. CARRATO (Il procedimento di purgazione della morosità di cui all’art. 55 della legge 27 luglio del 1978 n. 392 ed il suo ambito di applicazione) in Rassegna delle Locazioni e del Condominio,1994, 1, 59 e seg.. GIURISPRUDENZA • Corte Costituzionale 1. Non è fondata – in riferimento all’art. 3 cost. – la questione di legittimità costituzionale dell’art. 55 l. 27 luglio 1978 n. 392, concernente la sanatoria della morosità nel procedimento di convalida di sfratto, interpretata nel senso della sua inapplicabilità all’ordinario giudizio di risoluzione del contratto di locazione. Corte costituzionale 22 gennaio 1992 n. 2, Giust. civ. 1992, 575. Riv. giur. edilizia 1992, I, 275. Arch. locazioni 1992, 28. Cons. Stato 1992, II, 19. Foro it. 1992, I, 1363. Giur. cost. 1992, 5 (nota). • Cassazione 2. La sanatoria prevista dall’art. 55 della l. 27 luglio 1978 n. 392 è applicabile solo nel procedimento sommario di convalida dell’intimazione di sfratto per morosità ex art. 658 e ss. c.p.c. e non nel giudizio ordinario di cognizione per la risoluzione per inadempimento del contratto ex art. 1453 e ss. c.c. Ne consegue che, dopo la proposizione della domanda di risoluzione del contratto da parte del locatore, per il mancato pagamento dei canoni di locazione e degli oneri accessori, il conduttore inadempiente non può più adempiere alla propria obbligazione ed il suo comportamento non si sottrae alla valutazione del giudice di merito in ordine alla gravità dell’inadempimento ai fini del giudizio di risoluzione. Cassazione civile, sez. III, 5 luglio 1985 n. 4057, Giust. civ. 1986, I, 835 (nota). Foro it. 1986, I, 134; Giust. civ. Mass. 1985 fasc. 7. 3. La particolare sanatoria della morosità nel pagamento del canone di locazione stabilita dall’art. 55 della legge n. 392 del 1978 trova applicazione soltanto nel procedimento di convalida di sfratto per morosità di cui all’art. 658 c.p.c. e non pure qualora sia introdotto con citazione un ordinario giudizio di risoluzione del contratto per inadempimento, nel qual caso non è consentito al conduttore adempiere la propria obbligazione dopo la proposizione della domanda ai sensi del comma 3 dell’art. 1453 c.c.. Cassazione civile, sez. III, 23 ottobre 1989 n. 4292, Giust. civ. Mass. 1989, fasc. 10. 4. La particolare sanatoria della morosità nel pagamento del canone di locazione stabilita dall’art. 55 della l. 27 luglio 1978 n. 392 trova applicazione soltanto nel procedimento di convalida di sfratto per morosità di cui all’art. 658 c.p.c. e non pure qualora sia introdotto, con citazione, un ordinario giudizio di risoluzione del contratto per inadempimento, nel qual caso, ai sensi del comma 3 dell’art. 1453 c.c., non è consentito al conduttore adempiere la propria obbligazione dopo la proposizione della domanda. Cassazione civile, sez. III, 12 febbraio 1991 n. 1451, Giust. civ. Mass. 1991, fasc. 2, Nuova giur. civ. commentata 1991, I, 760. 5. La particolare sanatoria della morosità nel pagamento del canone di locazione stabilita dall’art. 55 della legge 27 luglio 1978 n. 392, trova applicazione soltanto nel procedimento di convalida di sfratto per morosità di cui all’art. 658 c.p.c. e non pure qualora sia introdotto, con citazione, un ordinario giudizio di risoluzione del contratto per inadempimento, nel qual caso, ai sensi del terzo comma dell’art. 1453 cod. civ., non è consentito al conduttore adempiere la propria obbbligazione dopo la proposizione della domanda. Cassazione civile, III, sez., 10 marzo 1993, n. 2883, Rass. Loc. Cond. 1994, 59. 6. La particolare sanatoria della morosità nel pagamento del canone di locazione e degli oneri accessori stabilita dall’art. 55 legge n. 392 del 1978 è applicabile soltanto nel procedimento di convalida di sfratto per morosità di cui all’art. 658 c.p.c., e non pure qualora sia introdotto con citazione un ordinario giudizio di risoluzione del contratto per inadempimento, nel qual caso non è consentito al conduttore adempiere la propria obbligazione dopo la proposizione della domanda ai sensi del comma 3 art. 1453 c.c.. Cassazione civile, sez. III, 19 novembre 1994, n. 9805 Arch. locazioni 1995, 69. 7. La particolare sanatoria della morosità del pagamento del canone di locazione stabilita dall’art. 55 della legge sull’equo canone trova applicazione soltanto nel procedimento di convalida di sfratto per morosità di cui all’art. 658 c.p.c. e non pure qualora sia introdotto, con citazione un ordinario giudizio di risoluzione del contratto per inadempimento, nel qual caso, ai sensi del comma 3 dell’art. 1453 c.c., non è consentito al conduttore di adempiere la propria obbligazione dopo la proposizione della domanda. Cassazione civile sez. III, 29 novembre 1994, n.10202 Giust. civ. Mass. 1994, fasc. 11. • Merito 8. Nei procedimenti di convalida di sfratto per morosità – come in tutti gli altri procedimenti di cognizione ordinaria attinenti alla mora del conducente – il giudice può concedere il termine di grazia di cui all’art. 55, comma 2 l. 27 luglio 1978 n. 392 pur in assenza dell’intimato e anche d’ufficio. Tribunale Cagliari 8 marzo 1985, Riv. giur. Sarda, 1986, 815 (nota). 9. La sanatoria della morosità nel pagamento del canone di locazione stabilita dall’art. 55 legge n. 392 del 1978, trova applicazione soltanto nel procedimento di convalida di sfratto per morosità di cui all’art. 658 c.p.c. e non anche qualora sia introdotto con citazione un ordinario giudizio di risoluzione del contratto per inadempimento, nel qual caso non è consentito al conduttore adempiere la propria obbligazione dopo la proposizione della domanda ex art. 1453 c.c.. Tribunale Catanzaro 12 marzo 1987, Arch. locazioni 1989, 118. 4. Sanatoria della morosità ex art. 55 legge 393/78 in caso di opposizione tardiva (artt. 55 legge 392/1978 e 668 c.p.c.). Con ordinanza 572 del 1987 la Corte Costituzionale ha dichiarato manifestamente infondata, in riferimento agli art. 3 e 24 cost., la questione di legittimità costituzionale, esaminata per la prima volta, dell’art. 668 c.p.c., dedotta sul rilievo che al conduttore che non abbia avuto conoscenza della notifica dell’intimazione per caso fortuito o forza maggiore sarebbe riservato un trattamento deteriore rispetto a colui che, tempestivamente presentatosi all’udienza, avrebbe la facoltà di chiedere di poter sanare la morosità, facoltà che invece non sarebbe possibile – secondo l’ordinanza di rimessione del giudice di merito – nell’ambito del procedimento di opposizione tardiva a convalida. Ha rilevato la Corte che: • l’opposizione dopo la convalida, di cui all’art. 668 c.p.c., è rimedio dato a tutela di chi, per irregolarità della notifica, caso fortuito o forza maggiore non abbia avuto conoscenza dell’intimazione, ovvero (secondo quanto sancito dalla stessa Corte Cost. con la sentenza 89/1972) di chi, per gli ultimi due motivi, non sia potuto comparire all’udienza di convalida pur avendo avuto conoscenza dell’intimazione stessa; • una volta accertati i presupposti di ammissibilità dell’opposizione tardiva viene meno l’ordinanza di convalida e si dà luogo ad un ordinario giudizio di cognizione; • nell’ambito dell’ordinario giudizio di cognizione il conduttore può “in limine litis” avvalersi della facoltà di sanare la morosità di cui all’art. 55 della legge 392/78. Adeguandosi alla decisione del Giudice delle leggi, la Corte di Cassazione ha pronunziato la sentenza 11923 del 2-12-1993 con la quale ha così testualmente motivato: “La procedura della sanatoria della morosità, di cui all’art. 55 della legge 27 luglio 1978 n. 392, è stata ritenuta compatibile con l’opposizione dopo la convalida, di cui all’art. 668 c.p.c., dalla Corte Costituzionale con ordinanza n. 572 del 18 dicembre 1987. La ritenuta compatibilità dei due istituti comporta la necessità di stabilire come l’uno si inserisca nell’altro, poiché l’art. 55 è stato scritto in previsione dell’ordinario procedimento di convalida e non del procedimento di opposizione dopo la convalida, il quale si presenta con diverse caratteristiche rispetto al primo. Il procedimento di sanatoria di cui all’art. 55, nel procedimento di convalida, può avere due possibili modalità di attuazione. La prima si realizza mediante il pagamento da parte del conduttore, alla prima udienza, dell’importo dovuto per tutti i canoni scaduti e per gli oneri accessori maturati sino a tale data, maggiorato degli interessi legali e delle spese processuali liquidate in tal sede dal giudice. La seconda si realizza, invece, allorquando, in mancanza del pagamento in udienza, il giudice, dinanzi a comprovate condizioni di difficoltà del conduttore, assegni a quest’ultimo un termine per provvedervi, e, in detto termine, il conduttore adempia. In entrambi i casi l’avvenuto pagamento esclude la risoluzione del contratto e, quindi, il procedimento di convalida si conclude. Nel procedimento di opposizione dopo la convalida, invece, l’avvenuto pagamento alla prima udienza, da parte del conduttore, delle somme dovute, non può automaticamente comportare la chiusura del procedimento, perché, dovrà, comunque, essere accertata l’ammissibilità della opposizione e solo dopo tale accertamento, se positivo, potranno verificarsi gli effetti sananti del pagamento. Nell’ipotesi in cui, invece, il pagamento non avvenga alla prima udienza potrà essere concesso il termine di grazia. Tale concessione non presuppone che venga preventivamente accertata l’ammissibilità dell’opposizione, perché, come dimostra l’ipotesi di pagamento alla prima udienza, i fatti idonei ad escludere la risoluzione del contratto, e cioè il pagamento corrispettivo dovuto, degli interessi e delle spese, possono verificarsi, senza che sia pregiudicato il giudizio sull’inammissibilità dell’opposizione. La legittimità di tale ricostruzione e, quindi, dell’affermazione secondo cui il giudice competente per la convalida, investito dalla opposizione non debba preventivamente pronunziarsi sull’ammissibilità della opposizione e poi dar corso alla procedura di sanatoria, trova conferma nel fatto che, in ipotesi, può non esservi coincidenza tra detto giudice, sempre competente in ordine alla procedura di sanatoria, ed il giudice competente a giudicare del merito e, quindi, anche della ammissibilità dell’opposizione. È, in proposito, da ricordare come questa Corte abbia già altra volta avuto occasione di affermare che, “per la disciplina dell’opposizione dopo la convalida (cosiddetta opposizione tardiva), il richiamo contenuto nell’art. 668 c.p.c. alle forme prescritte per l’opposizione al decreto d’ingiunzione (in quanto applicabili) limitato alle modalità dell’introduzione di detta opposizione ed alla individuazione del giudice davanti al quale va proposta, con la conseguenza che nel giudizio che ne consegue dopo la fase a cognizione sommaria, nell’ambito della quale il pretore od il conciliatore aditi possono emettere i provvedimenti sulla sospensione del processo esecutivo, previsti nell’ultimo comma del cit. art. 668, nella seconda fase a cognizione piena, sul merito dell’opposizione, qualora le questioni sollevate siano tali da allargare la materia oltre i limiti della competenza per valore del giudice adito, questi deve rimettere le parti davanti al giudice competente per valore, non diversamente da quanto avviene nell’ipotesi di opposizione tempestiva alla convalida (art. 665 e 667 c.p.c.)” (v. in tal senso Sez. III, 27 marzo 1984 n. 2024), e che “nel caso di opposizione tardiva ai sensi dell’art. 668 c.p.c., la competenza a decidere sulla relativa ammissibilità spetta al giudice competente per il merito con la conseguenza che, ove la competenza al riguardo spetti, secondo le regole ordinarie, al tribunale, è a questo giudice e non al pretore che abbia convalidato la licenza o lo sfratto che compete la decisione dell’ammissibilità di quella opposizione” (v. in tal senso Sez. III, 9 luglio 1983 n. 4641; Sez. III, 2 aprile 1992 n. 4002). È ancora da considerare che già l’art. 668 c.p.c. prevede un’ipotesi in cui il Pretore, prima ancora di pronunciarsi sull’ammissibilità e sul merito dell’opposizione, emetta dei provvedimenti che, teoricamente, detta ammissibilità presuppongono, come è quello con il quale viene disposta la sospensione dell’esecutorietà dell’ordinanza di convalida, ai sensi dell’ultimo comma dell’articolo citato. E non può certo negarsi che dopo l’emissione del provvedimento di sospensione, lo stesso giudice che lo ha emesso, ovvero il giudice competente per il merito, possano dichiarare l’inammissibilità dell’opposizione dopo la convalida. Il vero è che così come la sospensione di cui all’ultimo comma dell’art. 668 c.p.c., che tende a ricondurre le parti nelle condizioni di fatto anteriori alla emanazione del provvedimento di convalida, anche la procedura di sanatoria di cui all’art. 55 della legge n. 392 del 1978, si inserisce nella fase sommaria del procedimento di opposizione dopo la convalida, nella quale tutti i provvedimenti vengono emessi senza pregiudizio dell’accertamento conclusivo cui il procedimento è diretto e che ha ad oggetto l’ammissibilità dell’opposizione ed il merito della controversia, con la conseguenza che la delibazione fatta dal pretore, in quella fase sommaria, sull’ammissibilità dell’opposizione ha di necessità carattere provvisorio, nel senso che è diretta non a decidere la causa ma a consentire che il processo giunga alla sua conclusione, attraverso quei passaggi che la legge prevede. Alla natura non definitiva di tale provvedimento, nel senso che esso non è idoneo a decidere la causa per le sue caratteristiche di strumentalità, consegue la sua revocabilità con la sentenza che decide la controversia; né, come si è già prima rilevato – e ciò attiene specificamente al secondo motivo di censura – l’avvenuta sanatoria, sia che avvenga per effetto del pagamento delle somme dovute alla prima udienza, sia che avvenga nel termine fissato dal giudice, comporta automaticamente la chiusura del procedimento, così come accade nell’ordinario procedimento di convalida, perché in quello di opposizione dopo la convalida, l’avvenuta sanatoria non pregiudica l’accertamento dell’ammissibilità dell’opposizione. Non merita pertanto censura la sentenza impugnata, laddove ha ritenuto che il provvedimento con il quale il pretore, rilevata l’ammissibilità dell’opposizione, aveva concesso al conduttore il termine di grazia per sanare la morosità, avesse oltre che forma, anche natura di ordinanza e potesse quindi essere revocato dallo stesso giudice, nella specie competente, con la decisione definitiva di merito, con la conseguente irrilevanza, una volta affermata l’inammissibilità dell’opposizione, del mancato completamento della procedura di sanatoria.” In assenza di giurisprudenza di merito utile a verificare l’attuazione nel concreto del principio affermato dal Supremo Collegio, è necessario dar conto delle critiche – puntualissime – articolate dai primi commentatori di quella decisione [in particolare vanno segnalati i lavori di A. CARRATO (Opposizione tardiva a convalida di sfratto e concessione del termine per la purgazione della morosità) in Rassegna delle Locazioni e del Condominio, 1995, 2, 237 e seg.; C. CAVALLINI (In tema di decisione sull’ammissibilità dell’opposizione tardiva alla convalida dello sfratto) in Giurisprudenza Italiana, 1995, I, 1, 1121; A. SCHERMI (La sanatoria della morosità del conduttore a norma dell’art. 55 legge n. 392 del 1978 nel processo di opposizione dopo la convalida di sfratto) in Giustizia Civile, 1994, I, 2285] i quali – seppure con toni ed argomentazioni diverse – hanno posto in rilievo alcune evidenti incongruenze insite in quella decisione, ed in particolare che: • l’eventuale pagamento da parte del conduttore (opponente tardivo) dell’importo dovuto per sanare la morosità (alla prima udienza del giudizio di opposizione tardiva o nel termine di cui all’art. 55 della legge 392/78 assegnatogli dal giudice di quella procedura) non sarebbe idoneo a determinare l’immediata conclusione del processo poiché rimarrebbe impregiudicata la valutazione circa l’ammissibilità dell’opposizione, demandata all’esito del giudizio di merito da svolgersi nelle forme ordinarie; con la conseguente obbligata revoca del provvedimento inizialmente concesso ex art. 55 legge 392/78 ove l’opposizione tardiva fosse poi dichiarata inammissibile; in sostanza: la facoltà di cui all’art. 55 della legge 392/78 essendo finalizzata, con l’adempimento dell’obbligazione di pagamento, alla definizione del giudizio di convalida dovrebbe poterne caducarne immediatamente gli effetti il che invece non è – per le stesse esplicite motivazioni della Suprema Corte – che rinvia tale eventuale effetto solo all’esito del giudizio sull’ammissibilità dell’opposizione tardiva, da pronunziarsi con sentenza; • anche ove fosse concesso da parte del giudice del giudizio ex art. 668 c.p.c. l’eventuale provvedimento di sospensione dell’esecuzione dell’ordinanza di convalida “impugnata”, la natura comunque provvisoria di esso provvedimento di sospensione non consentirebbe di far “retrocedere” le parti al momento anteriore all’emissione dell’ordinanza di convalida né la farebbe venir meno; • la motivazione della Suprema Corte: a) ipotizza che il giudizio ex art. 668 c.p.c. possa svolgersi in due fasi: – la prima, nelle forme del procedimento sommario, finalizzata solo alla valutazione dei presupposti di ammissibilità dell’opposizione ed alla emanazione dell’eventuale provvedimento di sospensione dell’esecuzione; – la seconda nelle forme del giudizio ordinario di cognizione alla prima udienza del quale il conduttore potrebbe essere ammesso alla facoltà di sanare; b) ma non considera – da un lato che la sua stessa giurisprudenza ha sempre negato la applicabilità dell’art. 55 della legge 392/78 al giudizio ordinario di cognizione riferendola esclusivamente al giudizio speciale ex artt. 657 e 658 c.p.c.; – dall’altro che il rito locativo conseguente all’entrata in vigore della novella del 1990 (art. 447 bis c.p.c.) non prevede la possibilità di enucleare un’udienza preliminare diversa da quella di trattazione e decisione di cui all’art. 420 c.p.c.. Volendo rendere compatibile la decisione del Supremo Collegio (senz’altro condivisibile nella volontà di uniformarsi al corretto indirizzo della Corte Costituzionale relativo alla tutela del conduttore che senza sua colpa sia destinatario del provvedimento per convalida di sfratto) con la struttura del nuovo processo delle locazioni di cui all’art. 447 bis c.p.c. e, soprattutto, dovendosi ricercare soluzioni che siano coerenti con i principi dell’ordinamento e risolvano positivamente i rilievi critici di cui sopra si è fatto cenno, l’unica soluzione interpretativa che pare ipotizzabile è quella che si fondi: • sulla applicabilità dell’istituto della sanatoria di cui all’art. 55 della legge 392/78 anche al giudizio ordinario e non solo a quello di convalida (superando il contrario orientamento della Corte di Cassazione oppure, e comunque, valorizzando il rilievo che nel giudizio ex art. 668 c.p.c. il petitum centrale è costituito dalla “impugnazione” da parte del conduttore del provvedimento di convalida e non già dalla domanda del locatore per la risoluzione del contratto per inadempimento); • sul potere-dovere del giudice di risolvere la pregiudiziale questione circa l’ammissibilità dell’opposizione tardiva (preliminare rispetto alla concessione al conduttore opponente della facoltà di sanare) mediante sentenza ex art. 420, comma 5. GIURISPRUDENZA • Corte Costituzionale 1. È manifestamente infondata, in riferimento agli art. 3 e 24 cost., la questione di legittimità costituzionale, esaminata per la prima volta, dell’art. 668 c.p.c., dedotta rilevando che al conduttore che non abbia avuto conoscenza della notifica dell’intimazione per caso fortuito o forza maggiore, è riservato un trattamento deteriore rispetto a colui che, tempestivamente presentatosi all’udienza, ha facoltà di chiedere di poter sanare la morosità. Il primo, intimato, infatti, a parere del giudice rimettente, non può avvalersi, in sede di opposizione tardiva, dell’art. 551 l. 27 luglio 1978 n. 392. Ma tale opinione non è condivisibile. L’opposizione dopo la convalida, di cui all’art. 668 c.p.c., è rimedio dato a tutela di chi, per irregolarità della notifica, caso fortuito o forza maggiore non abbia avuto conoscenza dell’intimazione, ovvero (secondo quanto sancito dalla Corte cost. con la sent. n. 89 del 1972) di chi, per gli ultimi due motivi, non sia potuto comparire all’udienza di convalida pur avendo avuto conoscenza dell’intimazione stessa. Una volta accertati i presupposti di ammissibilità dell’opposizione tardiva e venuta meno l’ordinanza di convalida, si dà luogo ad un ordinario giudizio di cognizione nel quale il conduttore ben può “in limine litis” avvalersi della facoltà di sanare la morosità. Corte costituzionale 18 dicembre 1987 n. 572, Giur. cost., 1987, fasc. 12. • Cassazione 2. Nel caso di opposizione all’intimazione di sfratto per morosità dopo la convalida, la procedura di sanatoria a norma dell’art. 55 della l. 27 luglio 1978 n. 392, non richiede la preventiva decisione in ordine all’ammissibilità dell’opposizione, non comportando automaticamente la chiusura del procedimento, così come accade nell’ordinario procedimento di convalida, ma restando l’avvenuta sanatoria condizionata al successivo accertamento dell’ammissibilità dell’opposizione di spettanza del giudice competente per il merito. Ne consegue che la deliberazione fatta al pretore, in quella fase sommaria, sull’ammissibilità dell’opposizione ha carattere provvisorio ed è sempre revocabile con la sentenza che decide la controversia. Cassazione civile, sez. III, 2 dicembre 1993, n. 11923 Giur. it. 1995, I, 1, 1121; Foro It. 1994, I, 1074; Arch. locazioni, 1994, 306; Giust. Civ. 1994, I, 2285; Rass. Loc. Cond., 1995, 2, 237. 5. La condanna alle spese nel procedimento di convalida di sfratto dopo il recente intervento della Suprema Corte (sentenza 5720/1994). Con la sentenza 13-6-1994 n. 5720 la Corte di Cassazione (Sezione Terza) afferma l’ammissibilità della condanna del conduttore intimato alla refusione in favore del locatore intimante, ex art. 91 c.p.c., di onorari, competenze e spese del giudizio. Ha statuito il S.C. che l’ordinanza pronunciata a norma dell’art. 663 comma 1 c.p.c., con cui lo sfratto è convalidato, deve contenere la condanna dell’intimato al rimborso delle spese sostenute dal locatore per gli atti del procedimento. Il precedente orientamento della giurisprudenza – sia di legittimità che di merito– riconosceva il diritto del locatore di ottenere la condanna del conduttore al pagamento delle spese del procedimento di convalida ma solo in separato giudizio. Con la sentenza in questione, invece la Suprema Corte fa proprio il prevalente precedente orientamento dottrinario affermando la competenza funzionale del giudice della convalida ex art. 663 c.p.c. alla statuizione in punto di spese ex art. 91 c.p.c. negando legittimità a quell’originario indirizzo. La motivazione della sentenza 5720/1994 muove dalla valorizzazione del principio – conseguente anche alla sentenza delle Sezioni Unite 6066/1983 – che l’art. 91 c.p.c. sia applicabile “con riguardo ad ogni provvedimento, tanto a cognizione piena che sommaria o cautelare e ancorché reso in forma di ordinanza o decreto, che nel risolvere contrapposte posizioni elimini il procedimento davanti al giudice che lo emette quando si renda necessario ristorare la parte vittoriosa degli oneri inerenti al dispendio di attività processuale legata da nesso causale con l’iniziativa dell’avversario”. Gli argomenti sviluppati dal S.C. considerano: • la possibilità di leggere estensivamente il termine “sentenza” adoperato dall’art. 91 c.p.c., interpretandolo sostanzialmente, ed a prescindere dalla forma, quale “provvedimento che definisce il giudizio”; • il carattere “definitivo” del provvedimento di convalida ex art. 663 c.p.c.; • il nesso di causalità esistente fra il comportamento inadempiente del conduttore e l’iniziativa giudiziale del locatore, con la conseguente “soccombenza” dell’intimato insita nel provvedimento di convalida; • le ragioni di economia processuale giacché il giudice della convalida è l’unico in condizione di valutare il comportamento anche processuale delle parti, di rilievo ai fini dell’applicazione – ovviamente dichiarata ammissibile – del disposto dell’art. 92 c.p.c. in punto di eventuale compensazione, totale e/o parziale, delle spese di soccombenza. Non v’è dubbio – e del resto la stessa sentenza ne fa riferimento – che la presa di posizione della Suprema Corte è stata orientata anche dalla riforma dei procedimenti cautelari contenuta nella novella della legge 353/1990 laddove, con l’art. 669 septies, si è tradotto in dato normativo positivo l’orientamento oramai dominante (tanto in dottrina quanto in giurisprudenza) che voleva che il giudice della procedura cautelare condannasse il soccombente alla refusione delle spese di lite ogni qual volta che, rigettando l’istanza, definiva il giudizio. Del resto, se quell’orientamento valeva (e vale oggi, per effetto della nuova disposizione) in ipotesi nelle quali il provvedimento del giudice non aveva alcuna attitudine al giudicato, a maggior ragione era ragionevole che se ne facesse applicazione nei casi in cui – come è per la convalida ex art. 663 c.p.c. – il provvedimento giudiziale è idoneo a produrre – sotto il profilo della res iudicata – gli effetti tipici della sentenza di condanna. I primi commenti alla sentenza in oggetto hanno evidenziato il pericolo che l’applicazione in concreto del principio affermato dal S.C. – laddove esclude che la statuizione sulla condanna dell’intimato alla refusione delle spese di lite possa essere posta a fondamento di autonoma domanda in separato giudizio anche ove il locatore ne faccia espressa riserva nell’ambito del giudizio di convalida – possa determinare l’interesse del conduttore intimato ad opporsi alla convalida, con la conseguente necessità del giudizio di merito, anche se la opposizione fosse riferita alla sola domanda dell’attore in punto di applicazione dell’art. 91 c.p.c.. Il timore potrebbe ritenersi fondato solo ove si ritenesse ammissibile che l’opposizione del conduttore intimato possa involgere, anticipatamente, l’an ed il quantum della statuizione del giudice ai sensi dell’art. 91 c.p.c.; il che non pare plausibile atteso che, proprio per le considerazioni che hanno orientato il S.C., la decisione del Pretore in ordine alla condanna dell’intimato alle spese di lite e/o alla compensazione delle stesse è capo obbligato della decisione e dunque, in quanto tale, sottratto alle conseguenze “impeditive” conseguenti alla opposizione della parte intimata. In tale prospettiva interpretativa potrebbe forse giovare la considerazione che l’opposizione del conduttore alla eventuale richiesta del locatore in punto di quantificazione nel minimo del termine per il rilascio ex art. 56 della legge 392/78 non ha mai costituito impedimento alla emanazione dell’ordinanza di convalida di cui all’art. 663 c.p.c. Il principio affermato dalla Corte con la sentenza 5720/1994 impone che si dia soluzione ai quesiti se sia ammissibile e quale sia, il rimedio “impugnatorio” esperibile avverso il capo del provvedimento giudiziale con il quale il Pretore abbia statuito ex art. 91 e/o 92 c.p.c. oppure abbia omesso di provvedere. Dando per scontata la risposta affermativa alla prima domanda (e ciò sia in forza dei principi generali dell’ordinamento processuale sia in base all’orientamento dottrinario e giurisprudenziale sulle analoghe fattispecie in tema di impugnabilità della statuizione sulle spese di lite nelle ipotesi di emanazione di provvedimenti di rigetto delle istanze cautelari antecedentemente alla entrata in vigore della novella del 1990) quanto alla seconda l’opzione possibile è, ovviamente, fra l’appello ed il ricorso per Cassazione ex art. 111 Cost.. Parrebbe doversi preferire questa seconda soluzione (il ricorso per Cassazione) in considerazione della forma del provvedimento (ordinanza piuttosto che sentenza), come ritenuto proprio dalla qui sopra ricordata giurisprudenza in materia di impugnazione dei provvedimenti cautelari di rigetto contenenti statuizione in punto di spese ex art. 91 c.p.c.. Le motivazioni della sentenza in esame escludono – a contrariis, ma del tutto logicamente – che debba (rectius: possa) farsi applicazione dell’art. 91 e/o 92 c.p.c. nelle ipotesi di convalida di licenza per finita locazione, qui essendo del tutto esclusa ogni ipotesi di soccombenza dell’intimato conduttore, attesa la chiara natura di “condanna in futuro” del relativo provvedimento giudiziale. GIURISPRUDENZA • Cassazione 1. Il locatore ha facoltà di chiedere nell’intimazione di sfratto la condanna del conduttore alle spese processuali, che ben possono essere richieste in separata sede. Cassazione civile, sez. III, 24 novembre 1994, n. 9987 Giust. civ. Mass. 1994, fasc. 11. 2. Il principio secondo cui la pronuncia sulle spese del giudizio compete esclusivamente al giudice della causa, il quale, ai sensi dell’art. 91 c.p.c. deve provvedervi anche d’ufficio con il provvedimento che chiude il processo avanti a sé – con la conseguenza che se tale statuizione non contenga esso deve essere impugnato dall’interessato onde impedire il formarsi di un giudicato negativo sul diritto al rimborso – trova applicazione anche nel procedimento per convalida di sfratto per finita locazione, nel senso che l’ordinanza pronunciata a norma dell’art. 663 comma 1 c.p.c., con cui lo sfratto è convalidato, deve contenere la condanna dell’intimato al rimborso delle spese sostenute dal locatore per gli atti del procedimento. Cassazione civile, sez. III, 13 giugno 1994, n. 5720 Giust. civ. Mass. 1994, fasc. 6 (s.m.) Arch. locazioni 1994, 763 nota (BEONI); Rassegna delle locazioni e del Condominio,1995, 24 nota (MIRENDA). • Merito 3. A seguito di ordinanza di convalida di sfratto per finita locazione e per morosità, ben può il locatore ottenere la condanna dell’intimato al ristoro delle spese della procedura di convalida. Pretura Verona, 3 giugno 1993, Arch. locazioni, 1993, 575. 6. Nella locazione per esigenze abitative transitorie ex art. 26 lett. a) della legge 392/1978 le esigenze oggettive del conduttore rilevano indipendentemente dalla conoscenza che di esse abbia il locatore? Nell’affrontare il quesito in questione può essere utile premettere qualche breve cenno in merito al concetto di transitorietà della locazione, alla luce degli insegnamenti che si ricavano dalla giurisprudenza (soprattutto del Supremo Collegio). È stato infatti ritenuto che: • la natura transitoria delle esigenze abitative del conduttore ricorre solo “nelle ipotesi in cui l’abitazione del conduttore, in quanto eccezionale e temporanea, comporti una sua permanenza soltanto precaria o sussidiaria nell’immobile locato” mentre va esclusa nel caso in cui l’immobile rappresenti la normale e continuativa dimora del locatario; • la transitorietà può essere affermata sussistente nei rapporti nei quali l’aspirante conduttore, disponendo di propria stabile ordinaria abitazione, voglia trasferire altrove la dimora per soddisfare bisogni di carattere contingente, tali da non comportare, nemmeno sotto il profilo intenzionale, un cambiamento di residenza; • non è la maggiore o minor durata del contratto rispetto alla previsione tipica quadriennale dell’art. 1 della legge 392/1978 a poter operare quale elemento qualificante della stabilità e/o transitorietà della locazione bensì il “rapporto” stabile e/o continuativo che il conduttore faccia, per uso di sua abitazione, dell’appartamento oggetto della locazione. Due orientamenti si contrappongono circa i criteri da utilizzare per individuare nel caso concreto se la locazione debba qualificarsi o meno come “transitoria”: • da un lato si privilegia la verifica delle effettive esigenze abitative del conduttore a prescindere da quelle indicate nel testo contrattuale; “compensandosi” la posizione del locatore mediante il riconoscimento del suo diritto di proporre azione di annullamento del contratto per dolo o errore quale strumento di reazione alla domanda del conduttore diretta alla declaratoria di soggezione del contratto al disposto degli artt. da 1 a 25 della legge 392/1978; • dall’altro si dà priorità e rilevanza decisiva alle dichiarazioni contrattuali delle parti ed in particolare alla destinazione dell’immobile prospettata dal conduttore in sede contrattuale; conseguentemente il conduttore in tanto potrà impugnare con successo il contratto ex art. 79 legge 392/1978 solo ove riesca a dimostrare che la transitorietà della locazione risultante dal testo contrattuale è conseguente alla simulazione della sua effettiva e contraria volontà di condurre stabilmente l’immobile. Originariamente, e per anni, la Corte di Cassazione ha fatto proprio il primo indirizzo allorché ha affermato, ripetutamente, che: • “la natura transitoria delle esigenze abitative del conduttore va accertata con riferimento agli specifici bisogni del conduttore che l’immobile locato è destinato a soddisfare al momento della conclusione del contratto... (omissis)...; l’indagine diretta ad accertare quale delle due ipotesi ricorra nel caso concreto va compiuta avendo riguardo all’effettiva destinazione dell’immobile e con riferimento alla natura dell’esigenza abitativa del conduttore (desunta ad esempio dal sistema di vita di costui, dalla sua attività lavorativa nel luogo in cui è situato l’immobile, dalla disponibilità o non di un alloggio nel luogo di residenza anagrafica, ecc.) e non alle espressioni letterali del contratto fatto sottoscrivere dal locatore al conduttore allorquando la dichiarata transitorietà – smentita dalla situazione di fatto – abbia costituito il mezzo, vietato dall’art. 79 della l. 27 luglio 1978 n. 392, per eludere l’applicazione della normativa sull’equo canone”; • “la natura transitoria delle esigenze abitative del conduttore va accertata con riferimento agli specifici bisogni del conduttore al momento della stipulazione del contratto, a nulla rilevando che le parti abbiano contrattualmente esplicitato il carattere transitorio”; • “la natura transitoria delle esigenze abitative del conduttore deve essere accertata con riguardo alla natura dell’esigenza abitativa in relazione agli specifici bisogni del conduttore al momento della conclusione del contratto e non solo alle dichiarazioni di una o di entrambe le parti, né alle circostanze che il contratto sia stato stipulato per una durata inferiore al quinquennio o ad un canone superiore a quello ritenuto equo dalla legge”. Nel 1993 però il Supremo Collegio (con la sentenza 12947/1993) ha radicalmente mutato orientamento affermando che “per qualificare come transitoria, o meno, l’esigenza abitativa del conduttore, ai fini dell’applicazione al rapporto di locazione del regime giuridico c.d. dell’equo canone, non è sufficiente il requisito obiettivo della reale situazione di fatto desunta dall’effettiva destinazione dell’immobile locato (a prescindere dalle espressioni letterali adoperate nel contratto), ma occorre anche la consapevoleza del locatore di tale effettiva destinazione; sicché, presumendosi l’altrui buona fede, nel caso di un contratto di locazione ad uso abitativo stipulato con la previsione di un uso transitorio, il conduttore che assume la nullità di tale clausola, ai sensi dell’art. 79 legge n. 392 del 1978, per inesistenza in concreto della dedotta natura transitoria delle esigenze abitative, ha l’onere di dimostrare che questa inesistenza era ragionevolmente apprezzabile dal locatore, in base alla obiettiva situazione di fatto da lui conosciuta al momento del contratto”. Alla sentenza qui sopra riferita ha poi fatto seguito quella n. 5722 del 1994 che pare rinnovare il precedente indirizzo allorché sostiene che “la natura transitoria delle esigenze abitative del conduttore che esclude la locazione dell’immobile urbano per uso abitativo dall’ambito di applicabilità della l. 27 luglio 1978 n. 392 deve essere accertata con riguardo alla natura dell’esigenza abitativa in relazione agli specifici bisogni del conduttore al momento della conclusione del contratto e non solo alle dichiarazioni di una o di entrambe le parti, né alle circostanze che il contratto sia stato stipulato per una durata inferiore al quinquennio ad un canone superiore a quello ritenuto ‘equo’ dalla legge”. È però da dire che questa pronunzia è successiva a quella 12947/1993 solo con riferimento alla data di pubblicazione giacché in realtà si tratta di decisione assunta all’esito di udienza tenutasi in data anteriore. Ed infatti con la decisione n. 4001 del 5 aprile 1995 la Corte ha riconfermato il suo mutato orientamento affermando che “quando un contratto di locazione abitativa sia stipulato con la previsione di un uso transitorio, il conduttore, che assuma la nullità ex art. 79 l. 27 luglio 1978 n. 392 di tale clausola per inesistenza in concreto della dedotta natura transitoria delle esigenze abitative, deve dimostrare che questa inesistenza era ragionevolmente apprezzabile dal locatore in base alla obiettiva situazione di fatto da quest’ultimo conosciuta al momento del contratto, non potendo altrimenti rilevare contro il locatore né situazioni di fatto occultate dal conduttore, né la riserva mentale di costui di non accettare la clausola”. GIURISPRUDENZA • Cassazione 1. Poiché la normativa sull’equo canone – salva l’ipotesi particolare (prevista dall’art. 26, lett. a) della l. n. 392 del 1978) del conduttore che, pur avendo esigenze di natura transitoria, abiti stabilmente nell’immobile per motivi di lavoro o di studio, dettata dalla opportunità di offrire tutela ad una categoria di bisogni del tutto particolari – ha inteso tutelare l’abitazione quando essa si presenta come esigenza primaria e normale ed abbia, quindi, carattere di stabilità e continuatività, i contratti concernenti appartamenti per la sola villeggiatura o per soggiorni saltuari, nei quali manchi una dimora continuativa e stabile, rientrano fra le locazioni stipulate per soddisfare esigenze abitative di natura transitoria, con conseguente inapplicabilità della legge n. 392 del 1978, indipendentemente dalla durata del contratto, essendo la transitorietà riferita non a tale durata, bensì alla natura dell’esigenza abitativa. Cassazione civile, sez. III, 1° dicembre 1983 n. 7200, Giust. civ. Mass. 1983, fasc. 11. 2. Poiché la normativa sull’equo canone – salva l’ipotesi particolare del conduttore, pur avendo esigenze di natura transitoria, abiti stabilmente nell’immobile per motivi di lavoro o di studio (art. 26, lett. a) della legge n. 392 del 1978), dettata dall’opportunità di riconoscere una categoria di bisogni del tutto particolari, meritevoli di tutela – ha inteso tutelare l’abitazione quando essa si presenta come esigenza primaria e normale ed abbia, quindi, carattere di stabilità, l’espressione “esigenze abitative di natura transitoria” contenuta negli art. 1 (comma 2) e 26 della richiamata legge non sia riferita alla durata della locazione, bensì alla natura dell’esigenza abitativa, a quei rapporti cioè in cui l’abitazione del conduttore, in quanto eccezionale e temporanea, comporti una sua permanenza precaria o sussidiaria, diversa dalla normale e continuativa dimora. Cassazione civile, sez. III, 26 giugno 1984 n. 3730, Giust. civ. Mass. 1984 fasc. 6. 3. La disciplina dei contratti di locazione di immobili ad uso di abitazione contenuta nella l. 27 luglio 1978 n. 392 si applica esclusivamente ai rapporti afferenti alle necessità primarie di alloggio di un nucleo familiare, mentre ne rimangono escluse tutte quelle ipotesi in cui la locazione, anche se determinata da un bisogno abitativo, non sopperisce a tali necessità, salvo che la locazione, secondo l’espressa previsione dell’art. 26 lett. a) della legge, pur se stipulata per esigenze abitative di natura transitoria, sia determinata da motivi di lavoro o di studio del conduttore. La indicazione di queste ultime ipotesi è da qualificarsi tassativa, e non consente di estendere la disciplina della legge ad altri rapporti di carattere transitorio, determinati da esigenze diverse, come quella della salute, non contemplate dalla norma. Cassazione civile, sez. III, 3 settembre 1984 n. 4742, Giust. civ. Mass. 1984, fasc. 8. 4. La natura transitoria delle esigenze abitative va accertata con un apprezzamento di fatto degli specifici bisogni che il locatario intende soddisfare con la punibilità dell’immobile urbano locato e non può essere desunto solo dagli elementi obiettivi delle particolari destinazioni e ubicazioni degli immobili oggetto del contratto di locazione. Cassazione civile, sez. III, 23 novembre 1984 n. 6078, Giust. civ. Mass. 1984, fasc. 11. 5. La natura transitoria delle esigenze abitative – che l’art. 26 della l. 27 luglio 1978 n. 392 esclude dall’ambito di applicabilità della nuova disciplina – va accertata con riferimento agli specifici bisogni che il conduttore intende soddisfare e soddisfi con la disponibilità dell’immobile locatogli, e non può essere esclusa solo perché la durata convenzionale risulta superiore ad un periodo stagionale (nella specie: un anno) o perché nel contratto non risulta specificata quale esigenza abitativa si intende soddisfare, normale e continuativa, ovvero saltuaria e transitoria. Cassazione civile, sez. III, 11 luglio 1987 n. 6078, Giust. civ. Mass. 1987, fasc. 7. 6. La natura transitoria delle esigenze abitative del conduttore che esclude la locazione dall’ambito di applicabilità della legge n. 392 del 1978 (art. 1 e 26 della legge cosiddetta dell’equo canone), va accertata con riguardo non alla durata della locazione ma alla natura dell’esigenza abitativa in relazione agli specifici bisogni del conduttore al momento della conclusione del contratto, restando senza rilevanza i successivi mutamenti delle esigenze abitative del conduttore medesimo (nella specie, per separazione dal coniuge), inidonei a far venir meno la natura transitoria del rapporto, prevista dalle parti all’inizio della locazione. Cassazione civile, sez. III, 20 giugno 1988 n. 4211, Giust. civ. Mass. 1988, fasc. 6. 7. La transitorietà delle esigenze abitative del conduttore (art. 1 e 26 legge n. 392 del 1978), da accertarsi dal giudice con riferimento al momento della conclusione del contratto senza tener conto di eventi cronologicamente successivi i quali possono aver reso stabile una esigenza inizialmente insorta come contingente e precaria va riferita tra l’altro a quei rapporti nei quali l’aspirante conduttore, pur disponendo di propria stabile ordinaria abitazione, voglia trasferire altrove la dimora per soddisfare bisogni di carattere contingente, tali da non comportare nemmeno sotto il profilo intenzionale un cambiamento di residenza. Le ragioni più o meno oggettivamente cogenti o soggettivamente pressanti che possono essere all’origine delle suddette esigenze abitative non incidono sul quadro della loro transitorietà quando, secondo un giudizio “ex ante” affidato ad un criterio di normale prevedibilità, esse si palesino all’atto della stipulazione dell’accordo destinate ad esaurirsi entro un tempo breve, segnatamente inferiore comunque alla durata minima quadriennale previsto nel comma 1 dell’art. 1 legge n. 392 del 1978 (fattispecie in cui il contratto dedotto in lite era stato stipulato dal conduttore per fronteggiare una situazione di emergenza venutasi a creare a seguito di eventi sismici che avevano interessato la località ove egli aveva l’abitazione e ne avevano consigliato il temporaneo, prudenziale allontanamento. Cassazione civile 23 ottobre 1989 n. 4291, Giust. civ. Mass. 1989, fasc. 10. 8. La natura transitoria delle esigenze abitative del conduttore – che comporta l’esclusione della locazione dall’ambito di applicabilità della l. 27 luglio 1978 n. 392 ai sensi dell’art. 26 lett. a) della stessa legge – va accertata con riferimento agli specifici bisogni del conduttore che l’immobile locato è destinato a soddisfare al momento della conclusione del contratto; nel senso che la suddetta natura transitoria va riconosciuta nell’ipotesi in cui l’abitazione del conduttore, in quanto eccezionale e temporanea, comporti una sua permanenza soltanto precaria o sussidiaria nell’immobile locato, mentre va esclusa nel caso in cui l’immobile rappresenti la normale e continuativa dimora del conduttore. L’indagine diretta ad accertare quale delle due ipotesi ricorra nel caso concreto va compiuta avendo riguardo all’effettiva destinazione dell’immobile e con riferimento alla natura dell’esigenza abitativa del conduttore (desunta ad esempio dal sistema di vita di costui, dalla sua attività lavorativa nel luogo in cui è situato l’immobile, dalla disponibilità o non di un alloggio nel luogo di residenza anagrafica, ecc.) e non alle espressioni letterali del contratto fatto sottoscrivere dal locatore al conduttore allorquando la dichiarata transitorietà smentita dalla situazione di fatto – abbia costituito il mezzo, vietato dall’art. 79 della l. 27 luglio 1978 n. 392, per eludere l’applicazione della normativa sull’equo canone. Cassazione civile sez. III, 18 dicembre 1990 n. 11984, Giust. civ. 1991, I, 1783. Arch. locazioni 1991, 41. 9. La natura transitoria delle esigenze abitative del conduttore, che esclude la locazione dell’immobile urbano per uso abitativo dell’ambito di applicabilità della l. 27 luglio 1978 n. 392, deve essere accertata con riguardo alla natura dell’esigenza abitativa in relazione agli specifici bisogni del conduttore al momento della conclusione del contratto e non solo dalle dichiarazioni di una o di entrambe le parti. La carenza del predetto requisito, imposto da una necessità di tutela assoluta del conduttore, in considerazione della natura primaria dell’esigenza abitativa, determina la nullità della clausola sulla durata del contratto di locazione, rilevabile dal giudice di ufficio, anche prescindendo dalle allegazioni delle parti e dalla prova della simulazione (relativa) della clausola predetta. Cassazione civile sez. III, 11 ottobre 1991 n. 10676, Giust. civ. Mass. 1991, fasc. 10. 10.La natura transitoria delle esigenze abitative del conduttore, che comporta l’esclusione della locazione dalla sfera di applicazione delle norme della l. 27 luglio 1978 n. 392, deve essere desunta non dal termine di durata della locazione stabilito dalle parti, ma dalla natura della esigenza abitativa che, nelle locazioni transitorie, in quanto diversa da quella della normale e continuativa dimora, comporta una permanenza solo precaria e saltuaria del conduttore nell’immobile, assumendo carattere eccezionale e temporaneo (nella specie, trattavasi di locazione di appartamento utilizzato da una coppia per incontri saltuari che il giudice di merito aveva ritenuto non transitoria solo a causa del termine quinquennale di durata convenzionalmente stabilito). Cassazione civile sez. III, 26 febbraio 1992 n. 2371, Giust. civ. Mass. 1992, fasc. 2. Riv. giur. edilizia 1992, I, 596. Riv. giur. edilizia 1992, fasc. 6. 11.La natura transitoria delle esigenze abitative del conduttore – che comporta l’esclusione della locazione dall’ambito di applicabilità della l. 27 luglio 1978 n. 392 ai sensi dell’art. 26 lett. A della stessa legge – va accertata con riferimento agli specifici bisogni del conduttore che l’immobile locato è destinato a soddisfare al momento della conclusione del contratto; nel senso che la suddetta natura transitoria va riconosciuta nell’ipotesi in cui l’abitazione del conduttore, in quanto eccezionale e temporanea, comporti una sua permanenza soltanto precaria o sussidiaria nell’immobile locato, mentre va esclusa nel caso in cui l’immobile rappresenti la normale e continuativa dimora del conduttore. L’indagine diretta ad accertare quale delle due ipotesi ricorra nel caso concreto va compiuta avendo riguardo all’effettiva destinazione dell’immobile e con riferimento alla natura della esigenza abitativa del conduttore (desunta ad esempio dalla sua attività lavorativa nel luogo in cui è situato l’immobile, dalla disponibilità o non di un alloggio nel luogo di residenza anagrafica) e non alle espressioni letterali del contratto fatto sottoscrivere dal locatore al conduttore allorquando la dichiarata transitorietà – smentita dalla situazione di fatto – abbia costituito il mezzo, vietato dall’art. 79 l. 27 luglio 1978 n. 392, per eludere l’applicazione della normativa sull’equo canone. Cassazione civile sez. III, 3 giugno 1992 n. 6777, Giust. civ. Mass. 1992, fasc. 6 – Conforme – Cassazione civile 11 ottobre 1991 n. 10676, Riv. giur. edilizia 1992, I, 353. 12.Poiché le disposizioni della l. 27 luglio 1978 n. 392 sulla determinazione del canone di locazione degli immobili per uso abitativo si applicano anche alle locazioni stipulate per esigenze abitative transitorie solo se, ai sensi dell’art. 26 della citata legge, l’immobile sia stabilmente abitato per motivi di studio o di lavoro, il conduttore che intende sostenere di essere tenuto al pagamento del canone equo, piuttosto che di quello contrattualmente stabilito, ha l’onere di provare non solo la ragione dell’occupazione (motivi di studio o di lavoro), ma anche il carattere di stabilità di questa occupazione e tale prova può, però, desumersi anche da elementi indiziari. Cassazione civile sez. III, 16 giugno 1992 n. 7410, Giust. civ. Mass. 1992, fasc. 6. 13.Qualora la stipulazione di un contratto di locazione per esigenze abitative transitorie sia stata il mezzo per sottrarsi alla disciplina legale in tema di durata e canone, il contratto simulato è illecito, ed al fine di far valere la nullità delle relative clausole e l’operatività del contratto dissimulato il conduttore è ammesso a provare per testi la simulazione relativa. Cassazione civile sez. III, 13 luglio 1992, n. 8501 Foro it. 1993, I, 1134, Arch. locazioni 1993, 306. 14.Per qualificare come transitoria o meno l’esigenza abitativa del conduttore non è sufficiente considerare l’effettiva destinazione dell’immobile locato, anche se contrastante con le previsioni contrattuali, ma occorre invece la consapevolezza del locatore di tale effettiva destinazione, di conseguenza, il condutore che assuma la nullità delle clausole contrastanti con la disciplina del c.d. equo canone ha l’onere di dimostrare non solo l’inesistenza in concreto della natura transitoria delle esigenze abitative, ma anche che tale inesistenza era ragionevolmente apprezzabile dal locatore, in base alla obiettiva situazione di fatto da lui conosciuta al momento del contratto. Cassazione civile sez. III, 29 dicembre 1993, n. 12947, Giust. civ. 1995, I, 1603 nota (IZZO) – Foro it. 1994, I, 1440, Arch. locazioni 1994, 299, Corriere giuridico 1994, 741 nota (DE TILLA) – Conforme – Tribunale Milano, 30 gennaio 1995 Gius. 1995, 954 – Conforme – Tribunale Milano, 12 gennaio 1995 Gius. 1995, 954. 15.La natura transitoria delle esigenze abitative del conduttore che esclude la locazione dell’immobile urbano per uso abitativo dall’ambito di applicabilità della l. 27 luglio 1978 n. 392 deve essere accertata con riguardo alla natura dell’esigenza abitativa in relazione agli specifici bisogni del conduttore al momento della conclusione del contratto e non solo alle dichiarazioni di una o di entrambe le parti, né alle circostanze che il contratto sia stato stipulato per una durata inferiore al quinquennio ad un canone superiore a quello ritenuto “equo” dalla legge. Cassazione civile sez. III, 13 giugno 1994, n. 5722, Giust. civ. 1995, I, 1603 nota (IZZO) – Conforme – Tribunale Verona, 29 ottobre 1993, Gius. 1994, fasc. 11, 169 (s.m.) – Conforme – Tribunale Firenze, 7 dicembre 1993, Gius. 1994, fasc. 12, 207 (s.m.). 16.Quando un contratto di locazione abitativa sia stipulato con la previsione di un uso transitorio, il conduttore, che assuma la nullità ex art. 79 l. 27 luglio 1978 n. 392 di tale clausola per inesistenza in concreto della dedotta natura transitoria delle esigenze abitative, deve dimostrare che questa inesistenza era ragionevolmente apprezzabile dal locatore in base alla obiettiva situazione di fatto da quest’ultimo conosciuta al momento del contratto, non potendo altrimenti rilevare contro il locatore né situazioni di fatto occultate dal conduttore, né la riserva mentale di costui di non accettare la clausola. Cassazione civile sez. III, 5 aprile 1995, n. 4001 Giust. civ. Mass. 1995, 774. • Merito 17.Ai sensi dell’art. 26, lett. a), l. 27 luglio 1978 n. 392, la deroga alle norme sulla durata della locazione e sulla misura del canone è consentita solo quando le esigenze abitative di natura transitoria non solo esistono effettivamente, ma sono anche specificamente contemplate nel contratto, che ad esse deve fare chiaro riferimento, pur senza formule solenni sacramentali, onde possa esserne apprezzata la particolarità della causa rispetto a quella generica del tipo negoziale. Tribunale Firenze 18 aprile 1980, Vita not. 1980, 889. 18.Ha natura transitoria ed è sottratta alla disciplina dettata dal capo I della legge n. 392/1978 la locazione di un immobile urbano stipulata per uso abitativo da uno studente iscritto fuori corso presso l’università della città in cui è sito l’immobile e residente altrove, a meno che il conduttore dimostri di dovere occupare stabilmente l’unità immobiliare per seguire corsi di pratica professionale. Pretura Parma 18 ottobre 1980, Foro it. 1981, I, 2302. Dir. giur. 1982, 127 (nota). 19.La prova della simulazione di una locazione transitoria è ammissibile senza limiti (e quindi anche a mezzo testimoni e presunzioni), anche se proposta da una parte (nella specie, il conduttore), in quanto diretta a far valere l’illiceità del contratto dissimilato (ovvero di un contratto di locazione per il quale artificiosamente si è aggirata la normativa legale in tema di canone). Tribunale Firenze 16 maggio 1990, Giur. merito 1992, 841. 20.L’esigenza transitoria rilevante ai fini dell’esclusione del contratto di locazione dalla tutela della legge n. 392 del 1978 deve essere espressamente evidenziata dalle parti al momento della stipula, mediante riferimento a fatti concreti relativi alle esigenze abitative del conduttore, a nulla rilevando la qualificazione del rapporto come transitorio o la pattuizione della sua durata infraquinquennale. Tribunale Milano 8 ottobre 1990, Arch. locazioni 1990, 739. 21.Spetta al conduttore, che deduca essere stato dissimulato un contratto soggetto alla disciplina legale sotto l’apparenza di locazione transitoria, di darne la prova. Tribunale Firenze 6 novembre 1990, Giur. merito 1992, 840. 22.La transitorietà delle esigenze abitative del conduttore che esclude la locazione dall’ambito di applicabilità della legge n. 392 del 1978 (art. 1 e 26 della suddetta legge) non è meramente riferibile alla durata della locazione, né va automaticamente desunta da locuzioni o formule genericamente espressive di tali esigenze adottate dalle parti in seno alla convenzione locatizia, ma deve essere accertata in concreto con riguardo agli specifici bisogni che il conduttore ha inteso soddisfare ed ha, in realtà, soddisfatto con la disponibilità dell’immobile locatogli. (Nella specie la clausola relativa alla durata biennale del rapporto e le espressioni concementi il carattere provvisorio ed eccezionale della convenzione locatizia, nonché l’uso dell’abitazione come seconda casa, contenute in contratto, in assenza di concreto riferimento a reali necessità del conduttore idonee a giustificare e a spiegare la precarietà dell’uso abitativo inerente all’appartamento locato, sono state ritenute insufficienti ad attribuire il carattere della transitorietà ad una esigenza abitativa atteggiantesi, di fatto, con i connotati tali della primarietà e della stabilità). Tribunale Milano 27 dicembre 1990, Arch. locazioni 1990, 739. 23.Ai fini della qualificazione della natura transitoria del rapporto di locazione ai sensi dell’art. 26 legge n. 392 del 1978, non deve farsi riferimento alla pura e semplice volontà dei soggetti contraenti, bensì alla obiettiva natura dell’esigenza abitativa del conduttore, che comporti una permanenza precaria o sussidiaria nell’immobile, diversa dalla normale e continuativa dimora, in base alle complessive risultanze del suo sistema di vita ed attività lavorativa. Tribunale Firenze 21 gennaio 1991, Arch. locazioni 1992, 159. 24.Perché un contratto di locazione possa ritenersi sottratto alla disciplina dell’equo canone, ai sensi dell’art. 26 lett. a) legge n. 392 del 1978, in quanto stipulato per soddisfare esigenze abitative transitorie del conduttore, occorre che siffatte esigenze siano realmente esistenti al momento della stipulazione, non essendo sufficiente una dichiarazione di intenti in tal senso del conduttore ovvero il generico richiamo nel contratto ad esigenze di natura transitoria (nella specie, in presenza di un generico riferimento del contratto all’ “uso esclusivamente abitativo di natura meramente transitoria” dell’immobile, e in difetto di prova circa la effettiva transitorietà delle esigenze abitative del conduttore, il tribunale ha ritenuto corretto presumere la ordinarietà delle stesse). Tribunale Milano, 24 maggio 1993, Gius. 1994, fasc. 7, 155 (s.m.). 25.Considerato che il principio della preminenza della situazione soggettiva ha subito un radicale ridimensionamento per effetto della sent. 18 febbraio 1988 n. 185 della Corte cost. che ha condizionato la decadenza dall’azione di risoluzione all’effettiva conoscenza – da parte del locatore – della mutata utilizzazione dell’immobile locato, per qualificare come transitoria, o meno, l’esigenza abitativa del conduttore, ai fini dell’applicazione al rapporto di locazione del regime giuridico c.d. dell’equo canone, non è sufficiente il requisito obiettivo della reale situazione di fatto desunta dall’effettiva destinazione dell’immobile locato, ma occorre anche la consapevolezza del locatore di tale effettiva utilizzazione, con il conseguente onere probatorio a carico del conduttore. Tribunale Milano, 12 gennaio 1995, Giust. civ. 1995, I, 1603 nota (IZZO). ASPETTI CONTROVERSI IN TEMA DI COMPETENZA E RITO LOCATIZIO (artt. 8, comma 2, n. 3 e 447 bis c.p.c.) Relatore: dott. Fortunato LAZZARO presidente di sezione del Tribunale di Roma Il legislatore del 1990, in considerazione del positivo esito dell’esperimento iniziato nella vigenza della disciplina vincolistica (art. 29 della legge 23 maggio 1950, n. 253 e art. 6 della legge 1° maggio 1955, n. 368) e continuato con la legge 27 luglio 1978, n. 329 (artt. 30 e 45), ha individuato nel pretore il giudice competente “per le cause relative a rapporti di locazione e di comodato di immobili urbani e per quelle di affitto delle aziende, in quanto non siano di competenza delle sezioni specializzate agrarie”. 1. Opportunità e ratio della scelta L’attribuzione a detto giudice delle controversie in tema di concordato e di affitto di aziende denota chiaramente la ratio della norma, che va identificata nella ricerca di chiarezza e di riduzione delle questioni sulla individuazione del giudice competente, nonché nell’intento di evitare (attraverso le devoluzione al pretore di materie tradizionalmente contermini alla locazione) che siffatta individuazione possa dipendere dalla qualificazione giuridica del rapporto controverso (cfr. in tal senso, la Relazione dei sen.ri Acone e Lipari alla 2 Commissione del Senato). Il criterio (molto opportunamente) adottato elimina così ogni problema di ripartizione di competenza tra pretore e tribunale in relazione al valore – che si determinava cumulando i fitti o le pigioni rela