concetti vicini, concetti lontani: il doppio

CONCETTI VICINI, CONCETTI LONTANI:
IL DOPPIO ESTRANEAMENTO E
L’INTERPRETAZIONE IN ANTROPOLOGIA
Cristina Zavaroni
In queste pagine intendo delineare i percorsi attraverso cui un periodo di
ricerca in Messico, connesso con il Master in Etnomedicina ed Etnopsichiatria frequentato presso l’Università degli Studi di Genova nel
2007/2008, ha ridefinito le mie categorie operative, provando ad evidenziare come i concetti vicini all’esperienza, cioè le espressioni locali di
come le categorie si articolano, si trovino in un rapporto di influenza continuo e bidirezionale con i concetti lontani dall’esperienza1, le categorie
interpretative di cui l’etnologo si arma e si ri-arma continuamente.
1. ESSERE IN MESSICO / ESSERE IN UGANDA
I miei studi, pre-master, si erano conclusi con una tesi di ricerca etnografica presso i Bakonzo del Rwenzori (Uganda) incentrata sui temi
dell’impatto della scolarità di massa sulla strutturazione dell’identità dei
bambini, sul mutamento dei meccanismi antropopoietici tradizionali e
sulla relazione tra modernità e tradizione.
Dal 2005 collaboro come consulente con un centro etnopsichiatrico, il
Centro Mamre di Torino. Qui l’esperienza con l’utenza straniera evidenzia
quanto una formazione antropologica sia utile anche in virtù della sua astrazione; concretamente, però, la mia competenza di campo limitata all’Africa
1
In un saggio del 1974 intitolato «Dal punto di vista dei nativi: sulla natura della
comprensione antropologica», incluso in seguito nel volume Antropologia Interpretativa,
Geertz (1988: p.72) propone la distinzione formulata da Hienz Kohut tra concetti vicini
all’esperienza, che esprimono i termini del soggetto, e concetti lontani dall’esperienza,
che esprimono categorie operative dello specialista che le sta applicando.
«I
FOGLI DI ORISS»,
n. 31/32, 2009, pp. 113 - 124
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CRISTINA ZAVARONI
sub-sahariana non mi consentiva di sentire risuonare l’esperienza degli
utenti non africani a partire dai loro riferimenti culturali in modo altrettanto efficace che per quelli africani. Cominciavo ad avvertire l’esigenza di
aprire il mio orizzonte etnografico ad un contesto nuovo.
All’arrivo a Toluca, 80 km a nord-ovest di Città del Messico, mi sono
accorta che il fatto stesso di “essere là” per fare qualcosa di inerente
all’antropologia (culturale) riattivava la modalità elaborata in Uganda e
me ne richiamava continuamente le sensazioni, il posizionamento, le attività e le memorie.
Dal mio diario del 18 gennaio 2008: Ho disfatto le valigie con una certa
nostalgia dell’Uganda dove il primo rito è sempre proprio quello. Salvo
che qui ho scaffali, scrivania, acqua calda e una doccia in cui si starebbe
comodamente in tre ed in cucina acqua corrente, fornelli e frigorifero. […]
Il prof. Juan Luis [il Prof. Juan Luis Ramirez Torres] non avrà campi aperti in questi mesi però mi porterà in giro per i diversi quartieri di Toluca per
prendere un po’ la mano con la variegata popolazione locale.
Ieri teneva la lezione conclusiva del suo corso a tre studenti di una laurea
specialistica in Pace e Sviluppo. Di questi uno, tale Marc, si sta occupando
di identità e processi migratori. È messicano, figlio di una famiglia emigrata negli Stati Uniti, credo che abbia fatto il college là ed ora è tornato a
studiare in Messico. Ieri parlava, tra le altre cose di bande, tatuaggi, riti
circa-iniziatici nella migrazione. Penso di cercarlo e parlargli un po’.
Parlando con Juan Luis, che ha una bisnonna materna indigena e tutti gli
altri parenti variamente campesini, mi veniva da pensare che l’appartenenza qui è veramente altra cosa rispetto all'Africa. Quali sono i loro attaccamenti? Niente clan, niente lignaggi. In cosa è iscritta la gente? Uomini
e donne come se la giocano? Cosa conta di più? E il cattolicesimo oggi
àncora a qualcosa, serve a certificare l’appartenenza alla famiglia umana?
Antropopoieticamente questi qui come la mettono?
Qui sono tutti diversi e a prima vista ciascuno appartiene fortemente a
una cosa che gli è scritta sulla pelle, negli occhi, nella lunghezza del
naso, nella corporatura. Eppure questo non sembra sancire l’appartenenza alla comunità ma delimitare la possibilità di riconoscersi veramente in
qualcosa di diverso della propria coloritura etnica.
JL mi ha parlato di un’antropologa messicana2 che ha lavorato su una prospettiva “etnopsi” e mi piacerebbe sapere qualcosa in più anche su di lei.
2
Si tratta di Araceli Colin, psicanalista, autrice di Antropolgia Y Psicoanalisis, Un
Dialogo Posible a Proposito Del Duelo Por Un Hijo En Malinalco.
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Le categorie che applico all’arrivo in Messico – identità, modernità,
rapporto con gli antenati – sono quelle che applico tra i Bakonzo, declinate secondo quella stessa esperienza, secondo la letteratura etnografica africana e anche secondo il discorso etnopsichiatrico. Cerco infatti di colmare le caselle – antenati, clan e etnicità – che la griglia interpretativa africana non mi permette di riempire immediatamente di significati messicani.
Sono armata da Uganda!
2. IL MEXICO PROFUNDO
Mi sono avvicinata alla realtà messicana con l’aiuto del Prof. Juan Luis
Torres Ramirez a partire dal testo di Guillermo Bonfil Batalla – Mexico
profundo – dove profondo è utilizzato come in “profondo sud” (con una
vaga accezione razzista, “etnicizzante”) ma anche come ricerca ed emergenza di ciò che è attivo e qualificante dell’identità messicana. Vi si afferma che la cosmologia mesoamerica ma precolombiana sia ancora attiva e
partecipi a costruire le visioni del mondo dei Messicani contemporanei e
che solo riconoscendone il peso e la permanenza si possa rendere pienamente conto delle strutturazioni sociali messicane odierne e delle loro
dinamiche.
Una tale prospettiva pone la ricerca etnografica in un orizzonte storico
molto diverso da quello impiegato da un africanista impegnato nel contesto della vita di villaggio. Come rileva Francesco Remotti3, vi è nell’antropologia culturale una tradizione di entificazione delle etnie descritte (“i
Nuer”, “i Balinesi”) che le definisce in termini atemporali. L’antropologo
torinese propone, a parziale spiegazione di tale fenomeno, un utilizzo del
concetto di cultura come informato da quello di identità, e che sia
quest’ultima a condurre nella direzione della definizione di una “sostanza”
permanente, astorica4.
3
Remotti 2008, pag. 3.
La preoccupazione che il concetto di cultura o quello di identità possano essere
fuorvianti, se non addirittura dannosi, per lo sviluppo delle discipline antropologiche, è
stata espressa da vari autori, tra questi Adam Kuper in Culture. The Anthropologists’
Account (1999) e Lila Abu-Lughod con il suo Writing Against Culture (1991) per ciò
che riguarda il concetto di cultura ed il suo uso in etnologia. Per quanto concerne la critica dell’antropologia al concetto di identità, il lavoro che più apertamente ne critica
l’uso è quello di Francesco Remotti, Contro l’identità (1996).
4
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3. UNA DIVERSA DECLINAZIONE DEL CONCETTO DI MODERNITÀ
Nel Rwenzori modernità e tradizione si pongono facilmente come termini di un contrasto che si articola su un discrimine (o su diversi discrimini)
effettivamente individuabile (la conversione al cristianesimo di un individuo o di una comunità, l’introduzione del denaro, l’uso della lingua coloniale, l’apertura della prima scuola in un distretto) e che contrappone due
sole categorie.
Il riferimento alla tradizione include cosmologia, lingua, rapporto con
le entità invisibili, ritualità, musica, rapporto con la montagna: tutto ciò
che costituiva l’esperienza dei Bakonzo prima dell’arrivo degli Inglesi.
Con l’insediamento dei missionari bianchi è cominciata la vita “di oggi”.
Nel distretto di Kasese, e in generale in Uganda, tutto questo è arrivato
simultaneamente. Dire «sono stato a scuola» implica generalmente la conversione ad una forma di cristianesimo, pur senza implicare l’effettiva frequenza di una scuola. Imparare a leggere, nel linguaggio corrente tra i
Bakonzo, la presenza dell’erisoma5, presuppongono una generica modernità nell’abbigliamento, nella professione religiosa, nella speranza in un
lavoro salariato. La maggioranza di coloro che hanno già compiuto quarant’anni ricordano il passaggio proprio o dell’intera famiglia alla modernità. L’abbandono repentino della ritualità tradizionale corrisponde
immancabilmente con l’ingresso nella comunità dei figli di Dio.
Se in Uganda il cristianesimo è avvertito da molti come il più forte elemento di rottura con la tradizione, in Messico il cattolicesimo è oggi un
pilastro della tradizione. Nonostante la religione degli Spagnoli si ponga
in discontinuità con il passato pre-ispanico, essa si pone in parziale contrasto anche con il mondo urbano contemporaneo. Negli ultimi cinquecento anni alla tradizione etnica indigena si è sovrapposta la tradizione cattolica e contadina del latifondo coloniale.
In Messico si tratta dunque non di tradizione versus modernità ma di
stratificazioni storiche di diverse tradizioni a confronto con la globalizzazione.
5
Con il vocabolo eri-soma si fa riferimento all’atto di apprendere, all’andare a
scuola ma anche all’azione di leggere un testo, in particolare le Sacre Scritture. «Siamo
cristiani» si esprime con «Abbiamo la scrittura».
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CONCETTI VICINI, CONCETTI LONTANI ...
In questa stratificazione storica ed etnica perde senso la visione del rapporto modernità/tradizione in termine di giustapposizione fra tradizione e
modernità e, forse, anche la distinzione fra ciò che è occidentale e ciò che
non lo è o non lo è ancora.
Come cercherò di mostrare più oltre, il culto della Santa Muerte ed il
culto della Virgen de Guadalupe si possono leggere come frutti contemporanei di diversi intrecci di tradizioni, a loro volta collegati tra loro da una
dinamica che permette un movimento fluido da un culto più tradizionale
ed ordinario ad uno più moderno e controverso.
Il mio uso ugandese dello strumento analitico modernità/tradizione mi
è apparso nella sua limitatezza nel confronto con la strutturazione della
società messicana proposta da Bonfil Batalla: mi sono stupita di essere
passata attraverso anni di pensieri attorno a questo tema senza intravvedere la sconcertante località della mia posizione.
Occorre riconoscere che nel contesto ugandese l’opposizione tra i due
termini corrisponde al discorso continuamente disponibile, che alimenta e
struttura la riflessione degli abitanti dei villaggi come dei legislatori e di
molti ricercatori. Da un punto di vista strettamente interpretativo, la
costruzione della categoria sulla base dei contenuti e dei significati locali
è sostanzialmente conseguente.
4. IDENTITÀ/APPARTENENZA
Oltre all’evidente inadeguatezza del mio concetto di modernità, anche
quello di appartenenza è risultato insufficiente a rendere senso della realtà
messicana. Il fatto che in Messico un individuo possa definirsi più o
meno nativo, secondo una progressione che va dall’indio di etnia precolombiana sopravvissuta allo sterminio spagnolo fino allo statunitense
WASP, si pone in assoluto contrasto con la realtà rurale africana dove tutti
sono nativi e tutti sono tenuti a conoscere la propria appartenenza etnica,
la quale è data al di là di ragionevoli dubbi, a rischio di gravi disordini
personali e sociali.
Il tema delle etnie indigene mi veniva presentato dalla maggioranza
degli interlocutori che, sapendomi etnologa in formazione, presumevano
che fossi in Messico per studiare gruppi di nativi. Da subito però le politiche indigeniste mi hanno suscitato perplessità:
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Dal diario del 20 gennaio: Non credo che l’impianto occidentale
capitalista, e di conseguenza l’analisi in termini di classi, esaurisca
la questione messicana. Anzi sento puzza di tranello. Mi sembra
che ridurre/tradurre le singole società fredde (!) a/in classi oppresse nasconda il piano etnico/culturale e al meglio lo riduca a scoria.
Quello dell’appartenenza etnica è dunque un interesse che ho avvertito
fuori di me, nei messicani, a differenza di quello relativo a modernità e tradizione, che è un tema che ha viaggiato con me fin dall’Italia: è stata la
discussione con i messicani sui loro temi a suscitare in me la curiosità classificatoria di capire “chi è cosa?”.
Dalla mia prospettiva ugandese, il fatto che molti messicani non si definiscano o non si vogliano definire all’interno della classificazione legata alla
discendenza etnica appare anomalo. La mia visione dell’appartenenza etnica, costruita sull’Africa e sul vissuto dei pazienti migranti, non ha retto al
confronto con un nuovo campo. Anche in questo caso si trattava di un concetto articolato in termini oppositivi, dove le costellazioni che prevedono
soluzioni esterne alla dualità pongono le basi per un disordine potenzialmente patologico: o sei un mukonzo, o sei un mutooro ma non essere sicuri
della propria discendenza è invariabilmente causa di enorme incertezza e
sofferenza (che si può esplicitare in modo diretto e dialogico oppure nei termini di un’afflizione che la comunità o i terapeuti ricondurranno ad
un’impropria affiliazione).
In Uganda, in effetti, l’appartenenza è un dato di fatto, niente da cui ci
si possa sottrarre; e non esiste la possibilità di non essere etnici (salvo non
essendo neppure ugandesi): se a un orticoltore mukonzo chiedo cos’è che
lo rende tale, certamente la sua risposta includerà l’essere figlio di padri
bakonzo.
Da questo punto di vista, un antropologo culturale che non sappia
indicare di quale etnia fosse la bisnonna, e che non ne risenta!, è davvero
straniante.
La visione africana dell’appartenenza etnica ha reso particolarmente evidente ai miei occhi un elemento problematico delle politiche indigeniste
(come risulta anche dal passaggio di diario del 20 gennaio citato più sopra),
dalla cui descrizione si desume una visione classicamente marxista del conflitto: si tratterebbe di equiparare le società indigene alle masse oppresse
portandole dentro alla dinamica di liberazione delle classi lavoratrici, supe118
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rando a un tempo l’oppressione e l’etnicità. Che questo approccio politico
all’etnicità potesse essere controproducente mi appariva quasi automatico:
ovvio che alcuni, la maggioranza dei giovani, scelgano di non riconoscersi
come indigeni dacché fare ciò significa riconoscersi oppressi. In seno a questa strutturazione della politica e delle politiche messicane, sembrerebbe
impossibile affermare la propria appartenenza etnica e muovere verso altre
classi sociali.
A gennaio mi era lampante che se, per liberare le masse oppresse si equiparano le battaglie dei nativi a quelle dei campesinos, nessuno può desiderare essere nativo. Eppure nel confronto con i messicani questa posizione è
difficilmente accolta, la trasformazione delle diverse etnie indigene (oppresse) in classi sociali (oppresse) è sostanzialmente discorso comune.
Per me, arrivata in Messico a respirare il fermento di una società variamente in conflitto, etnicità e politica sono temi caldi. E a me – che sono strutturata sulla base del riconoscimento dell’evidenza dell’appartenenza etnica
e sulla costruzione locale dell’identità come processo antropopoietico strettamente etnospecifico – l’equiparazione implicita tra etnicità e classe sociale ed in particolare tra essere indio, essere proletariato agricolo e lotta di classe (con implicito corollario di superamento dell’oppressione che include il
superamento dell’etnicità) suscita una reazione di sgomento, quasi come la
negazione di una naturale evidenza.
Se la mia formazione etnografica è molto relativista, è curioso che il mio
pensiero lo sia così poco: è trascorso un tempo irragionevolmente lungo di
imbarazzo6 prima che io mi emancipassi effettivamente dalle categorie
ugandesi/africane sul fronte identità e discendenza, sul fronte modernità e
sul tipo di percorsi antropopoietici disponibili.
Questa posizione temporanea ed evidentemente insostenibile ha avuto
però l’effetto di indurmi a rivedere la mia definizione operativa di appartenenza etnica. È risultato stupefacente accorgermi di quanto ugandesi, al di là
della mia consapevolezza, fossero i miei occhi e mi è servito un po’ di tempo
per rendermi conto che le domande relative al rapporto con la propria linea
di discendenza corrispondevano ad una curiosità plasmata sull’Africa.
6
In effetti poche settimane non sono, in astratto, un tempo lungo per riorganizzare
le proprie categorie conoscitive, ma lo sono a confronto con una permanenza sul
campo di soli due mesi. È faticoso essere interpretativi a tempi stretti: una descrizione
confezionata con ingredienti locali si addensa nel tempo.
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5. SANTI E MADONNE: CAMPO, METODOLOGIA E CONFERME
Il lavoro etnografico vero e proprio ha avuto a che fare con la ricerca che il
Prof. Ramirez mi ha proposto di svolgere in modo congiunto.
Condividendo l’interesse per le moderne forme di sofferenza, per le
espressioni della religiosità popolare e per la migrazione, abbiamo elaborato un progetto di ricerca dal titolo De la Virgen a la Santa Muerte: Vida
y sacrificio en un mundo de incertitumbres, che ci permettesse di raccogliere elementi relativi a tre culti di santi e porli in relazione con la situazione socio-economica messicana, che il Prof. Ramirez avvertiva come
particolarmente incerta e, a tratti, violenta.
L’ipotesi da cui muoveva il nostro lavoro era che fosse possibile individuare la connessione tra il culto alla Virgen de Guadalupe, Patrona del
Messico e madre di tutti i messicani, e la venerazione di San Giuda Taddeo, protettore delle guardie, per giungere agli adoratori della Santa Muerte. Io mi sarei occupata di raccogliere i dati sul campo attraverso la partecipazioni a riti, messe e pellegrinaggi e di raccogliere testimonianze di
seguaci cercando di indagare il tema del sacrificio personale come reazione a atti politicamente violenti, badando all’appartenenza etnica di ciascuno, al genere di richiesta avanzata al santo ed alla rosa di figure protettive
interpellate da ciascun credente; lui si sarebbe occupato di costruire
l’apparato teorico e raccogliere i dati demografici e statistici necessari.
Ancora una volta, il confronto con il campo ugandese si presentava con
toni schiaccianti: come condurre le interviste? Come individuare gli informatori? Come muoversi senza un informatore in grado di individuare le
piste più promettenti e con cui discutere, utilizzando una lingua franca che
ci ponesse in una relazione “intellettuale”?
Ero certa di avere bisogno di un informatore. Il professor Ramirez
non sembrava d’accordo ma mi ha ugualmente aiutata a contattare alcuni giovani che mi avrebbero potuta aiutare “sul campo”. Mi restava solo
da fare una selezione e determinare come compensarli per il loro lavoro: quanto un taxista o un tuttofare? Quanto una segretaria? Quanto un
professionista che applica una tariffa oraria? Nessuno sembrava in grado
di indirizzarmi.
Avendo finalmente incontrato Laura, una studentessa di sociologia
vicina alla laurea, mi sono dedicata a spiegarle quale fosse l’obiettivo della
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ricerca. A questo tentativo ha fatto seguito una nuova ondata di frustrazione: per farmi capire ero costretta ad usare termini imprecisi, a classificare
i contenuti che andavo cercando, ad affidarmi ad una giovane con poca
esperienza della capitale a cui dover infondere la sicurezza necessaria per
partire e investigare con me.
Nonostante tutto, la ricerca ha dato frutti piuttosto interessanti per
quanto riguarda la religiosità tradizionale legata al culto Mariano. Le interviste e le osservazioni svolte con Laura e le giornate di lavoro a Città del
Messico con il professore hanno prodotto buoni dati iniziali sul culto dalla
Vergine di Guadalupe e di San Giuda Taddeo, mentre il lavoro rivolto a
raccogliere dati etnografici relativi al culto della Santa Muerte ha prodotto risultati decisamente scarsi.
Tra i dati di immediata lettura vi è quello dell’appartenenza etnica e
sociale dei seguaci di diversi culti: il lavoro sul campo conferma che nella
zona di Toluca e nello Stato del Messico, il culto della Vergine Madre coinvolge in particolare donne, bambini ed anziani. Alla Vergine si chiede una
generica protezione del benessere della famiglia e più specificamente per
gravidanze, parti e prima infanzia. Non sembra però diffusa la pratica di
chiedere alla Vergine di portare fortuna economica, di danneggiare un
avversario o di proteggere dai pericoli che derivano da un’azione illecita.
Per questo è più comune rivolgersi a San Giuda Taddeo. A lui si rivolgono
gli uomini di città per ottenere la sua protezione nel lavoro e negli affari. Egli
è ritenuto in grado di proteggere anche i fuorilegge e generalmente tutti
coloro che maneggiano armi, denaro o motori. Non sembra però che San
Giuda sia il santo a cui rivolgersi quando si scelga uno stile di vita veramente pericoloso o quando si decida di sottoporsi a prove potenzialmente mortali. I narcotrafficanti che patteggiano ogni giorno con la morte, gli spacciatori e le guardie giurate sembrano propensi ad affiliarsi alla morte per mezzo
di sacrifici simbolici o reali. Dalla protezione della Santa Muerte i suoi
veneratori si aspettano denaro, amore e allontanamento della morte.
Sembra che stia crescendo il numero delle donne che si affidano alla
sua protezione al momento del parto, barattando con la Muerte un anno di
vita in cambio della protezione nel momento, massimamente liminale,
nella nascita. Anche le richieste delle donne di legare a sé il proprio amante o quella degli uomini di avere grande successo con le donne, sottraendole magari ad un rivale, sembrano decisamente in aumento. In questo
frangente né la Vergine, né San Giuda sarebbero dei buoni protettori.
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La fluidità della pratica del culto dei santi mi pare collegarsi agevolmente con una visione dell’appartenenza etnica e dell’identità altrettanto
fluide e stratificate, quasi variabili sulla base delle singole costellazioni di
relazioni ed esigenze. Allo stesso modo il rapporto tra tradizione religiosa – cristiana e precristiana – ed innovazione legata alle forme dell’economia sommersa messicana sembra corrispondere con la lettura della
stratificazione di vari livelli di tradizione e modernità nell’intera società
messicana.
6. RITORNO (SU DI ME)
Il fatto che lo spaesamento sia un processo fondamentale ma non sufficiente (che sia cioè necessario integrare lo spaesamento nella propria strutturazione quotidiana) è ormai un luogo comune dell’educazione interculturale e, dunque, anche per il processo di formazione di un etnografo: la
letteratura etnografica individua spesso lo straniamento della prima esperienza di ricerca sul campo come momento topico della professione
dell’etnografo, un rito di passaggio che produce il professionista dello
spaesamento7.
Ciò che non mi pare sia affrontato in modo profondo e chiaro è che servono andate e ritorni, uscite molteplici per permettere al ricercatore di
acquisire consapevolezza della strutturazione di sé come strumento di
ricerca, del funzionamento implicito delle categorie che, plasmatesi “vicino all’esperienza”, si trasformano in strutture conoscitive astratte, lontane.
Il mio limite principale, che il Messico mi ha obbligata a riconoscere,
si potrebbe definire proprio nei termini di una mancanza di interpretatività: stavo correndo il rischio di trasformare l’interpretazione di un campo,
quello Bakonzo, in una struttura trasferibile ad altri campi. Il “risveglio”
che ne è conseguito mi sembra un ottimo risultato, un valido richiamo
all’esigenza di interrogare continuamente il proprio orizzonte teorico.
L’utilità sul piano dell’elaborazione teorica di questo doppio (e quindi
molteplice) estraneamento mi è risultato evidente nel ritorno in Uganda,
7
Jeremy Narby offre una descrizione convincente delle aspettative riposte nella
qualità antropologo-poietica della prima esperienza di campo nei primi due capitoli di
Il serpente cosmico. Leonardo Piasere descrive nel dettaglio il rilievo dell’aspetto esperienziale del lavoro dell’etnografo nel suo L’etnografo imperfetto.
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CONCETTI VICINI, CONCETTI LONTANI ...
dopo quattro mesi dal ritorno dal Messico, allorché il concetto di modernità, rivisto alla luce dell’esperienza dell’inverno, mi ha permesso di aprire il mio l’orizzonte sull’Uganda contemporanea e sul fatto che anche là
comincia ad essere palpabile uno strato di tradizione che non è in esplicito contrasto con la modernità ma, invece, in contrasto con la contemporaneità forzata. Questa nuova articolazione mi è risultata chiara attraverso la
lente della storia del Messico coloniale e post-coloniale. Anche la rinnovata lettura dell’appartenenza etnica ha avuto un effetto positivo sul mio
modo di guardare l’Uganda, in particolare sull’interesse per il fenomeno
recentissimo che si sta verificando a Kampala negli ultimi anni, per il
quale alcuni bambini anglofoni non sono più in grado di definire la loro
identità etnica. L’esperienza messicana mi ha offerto vari spunti anche per
guardare a questi “strani” giovani africani.
Il rilievo teorico della dinamica che ho qui cercato di descrivere non
risulta evidente dall’interno di una prospettiva strettamente interpretativa.
Quest’ultima è però implicitamente ecceduta nel momento in cui si trasferiscano punti di vista locali propri di un dato contesto e con questi si cerchi
di illuminare aspetti di una realtà etnografica differente, come nel caso del
ritorno ugandese delle categorie rielaborate in Messico.
Come discute Francesco Remotti nel suo articolo «Claude Lévi-Strauss
e le somiglianze di famiglia. Con l’aiuto di Ludwig Wittgenstein» il limite
dell’approccio interpretativo Geertziano, che appiattisce l’antropologia
culturale sull’etnologia, è quello di abdicare alla possibilità di un’antropologia che parli del mondo, che sappia informare trasversalmente i contesti,
limitandosi ad approfondirli al loro interno. Al contrario il vantaggio comparativo offerto dall’analisi strutturalista alla Lévi-Strauss perde in grande
parte la capacità di mantenere la completezza dell'esperienza umana, oltre
alla ben nota difficoltà dell’approccio strutturalista di rendere conto del
cambiamento e di eccezioni alle “regole”, per quanto rilevanti.
Se nel contesto interpretativo l’etnologo è l’unico vero strumento di
indagine, e su questo punto l’antropologia europea ed americana si sono
arrovellate per gli ultimi quattro decenni, l’approccio strutturalista solleva
l’antropologo al di sopra dell’esperienza del nativo, anzi, tende a nascondere l’uno e gli altri.
La continua organizzazione e riorganizzazione dell’etnologo come suo
proprio strumento di indagine e la ricaduta di questo movimento sul livello della produzione teorica sono gli aspetti di cui spero di avere messo a
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fuoco la criticità, pur non avendone per ora, delineato i contenuti specifici. In questo duplice movimento intravedo, ma ancora non sono in grado
di cogliere, la possibilità di colmare lo iato che separa il metodo interpretativo dall’utile tensione comparativa dell’antropologia culturale.
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FRANCESCO REMOTTI, 2008
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maggio 2008 (atti non ancora pubblicati).
FRANCESCO REMOTTI, IN CORSO DI STAMPA
Claude Lévi-Strauss e le somiglianze di famiglia. Con l’aiuto di Ludwig Wittgenstein.
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