Paolo Parrini Quale congedo da Kant? Replica a una replica di Ferraris 0 - Premessa. Nel volumetto Congedarsi da Kant? Interventi sul Good-bye Kant di Ferraris (a c. di A. Ferrarin, Ets, Pisa, 2006) Maurizio Ferraris replica ai quattro interventi sul suo libro (Goodbye Kant, Bompiani, Milano, 2004; in seguito citato con la sigla GK). Il volume curato da Ferrarin nasce da una giornata di studi che si è svolta all’Università di Pisa ed è dedicato alla memoria di Silvestro Marcucci. I cinque scritti che lo compongono sono, oltre al mio e alla risposta di Ferraris, quelli di Alfredo Ferrarin (pp. 13-35), Claudio La Rocca (pp. 37-68) e Massimo Barale (pp. 101-139). La replica di Ferraris si intitola "Kant fuori dagli schemi", occupa le pp. 141-162 e si sofferma sul mio contributo ("Quale congedo da Kant?", pp. 69-100) alle pp. 149-153. In quel che segue mi occuperò esclusivamente della sua risposta alle mie osservazioni e farò riferimento ai contributi degli altri co-autori solo in quei pochi casi in cui esiste una chiara intersezione tra i loro interventi e le mie precisazioni. La ragione di questa scelta è presto detta. In linea di massima sono d'accordo con quanto il curatore del libro dice nella Prefazione, ossia che il giudizio sulle critiche e sulle risposte «va in ogni caso […] rimesso al lettore» (p. 10). Non vorrei quindi fare delle pagine che seguono qualcosa che assomigli, anche solo lontanamente, a un bilancio della discussione. Anzi, avrei preferito non intervenire neppure per le parti che mi riguardano se Ferraris, proprio ad apertura della sua replica, non mi avesse accusato di aver commesso delle «sviste» riguardanti il suo testo, sviste che, pur non essendo «in sé grandi», sarebbero nondimeno «significative di un modo un po' nervoso di rapportarsi al [suo] libro» (p. 149 - sì, parla proprio di nervosismo, nemmeno fossimo in una di quelle trasmissioni televisive ridicolizzate da Paola Cortellesi in cui vari personaggi politici si lanciano reciprocamente l'accusa di essere “un po’ nervosi”). Ebbene: io penso di non aver commesso quelle sviste e ritengo, per giunta, che nel caso di una di esse sia assai significativo che Ferraris sostenga che io sia incorso in una formulazione inesatta, e che tale presunta inesattezza sarebbe di scarsa rilevanza. Muoverò da questo chiarimento per ricapitolare che cosa non mi convince del suo Goodbye Kant e anche della risposta alle critiche che gli ho rivolto, le quali sono di natura storicointerpretativa e teorica. Sottolineo il punto perché mi pare che Ferraris sbagli ad affermare che hanno una valenza soprattutto teorica: «[…] Se l'argomento di Barale è: ciò che Kant asserisce a pagina tale del libro tale risulta smentito, o modificato, da ciò che Kant asserisce a pagina tale del talaltro libro, l'argomento di Parrini è: ci sono delle cose vecchie in Kant, così come ci sono delle 1 cose vecchie in Hume. Dopo Kant e dopo Hume queste cose sono state ammodernate, corrette, emendate, superate, dunque non ha senso parlarne - anche in riferimento a Kant e a Hume - senza tener conto di quello che è stato detto dopo, e in particolare da Parrini» (p. 151 s., con successivo elenco, nella relativa n. 3, di tutte le volte che rinvio ai lavori in cui ho illustrato il mio punto di vista sulle questioni sollevate in GK in modo più argomentato e circostanziato). A me pare che proprio dalle opere diligentemente richiamate da Ferraris emergano le ragioni per cui: 1) reputo viziata da gravi fraintendimenti la lettura che egli dà di Kant (e di Hume); 2) giudico - come dire? - non troppo sofisticate le conoscenze epistemologiche sottese dalla sua tesi che Kant sarebbe incorso nella «fallacia trascendentale» di confondere «la scienza con l'esperienza, cioè l'epistemologia con l'ontologia» (GK, p. 50, corsivi aggiunti). Mi sembra inoltre - diversamente da quanto Ferraris suggerisce – di rinviare ai miei lavori per le stesse ragioni per cui lo fa, per esempio, Ferrarin nella n. 1 di p. 13, oppure lo stesso Ferraris nella n. 2 di p. 145 s., e dunque non perché le ritenga tappe fondamentali dell’epistemologia post-kantiana o per «stolta e immotivatissima egolatria» (v. la replica di Ferraris, p. 145, n. 2), ma perché costituiscono le necessarie pezze di appoggio del mio discorso su Kant. In questo senso, i rimandi possono anche essere intesi, da un lato, come un (presumibile) servizio reso al lettore, e, dall'altro, come un modo in cui l'autore cerca di garantirsi da fraintendimenti o di prevenire obiezioni. Cercherò di mostrare che è infondata l'affermazione di Ferraris (p. 150) che lui sarebbe d'accordo con me, e che sarei io (forse) a non voler essere d'accordo con lui. Questa idea gli consente di “glissare” sulle mie critiche e di cavarsela attraverso diversivi di vario genere come le segnalazioni di sviste (che vedremo) e le estrapolazioni di passi del mio intervento nel tentativo di corroborare la tesi che finirei per portare acqua al suo mulino avvalorando la (pretesa) confusione kantiana di epistemologia e ontologia. Attraverso quello che a me pare solo un maldestro “fotomontaggio” è evitato il confronto con le puntuali contestazioni che gli muovo e che costituiscono le ragioni profonde del mio dissenso. È certamente vero che io dichiaro fin dall'inizio di non condividere il modo di Ferraris di prendere congedo da Kant; ma ciò che mi muove non è la volontà di distinguermi ad ogni costo - è così confortevole in filosofia trovare almeno ogni tanto un po' di convergenza! -, ma la convinzione che le sue tesi interpretative e teoriche (già avanzate nel libro Il mondo esterno, Bompiani, Milano, 2001) siano profondamente sbagliate. Secondo me, non si può ricondurre qualunque valutazione critico-epistemologica dell’ontologia a una confusione tra epistemologia (ossia la teoria delle condizioni di validità della conoscenza comune e scientifica) e ontologia (ossia la teoria dell’essere), e per giunta ad una confusione che finirebbe per negare, o mettere in forse, la stabilità o regolarità dell’esperienza. Accettare una simile tesi ci condurrebbe a considerare “confusionarie” e anzi filosoficamente 2 ridicole tutte quelle concezioni che, pur avendo in realtà ben chiaro di principio e di fatto che l’ontologia pretende di essere una teoria dell’essere in quanto essere e non una teoria dell’essere in quanto essere conosciuto, abbiano nondimeno ritenuto di dover vagliare criticamente il rapporto tra il piano dell’essere e il piano della nostra conoscenza di ciò che vi è. So che qualche nostro storico della filosofia antica e moderna ha grande simpatia per tutto ciò che può mettere in ridicolo la disciplina di cui fa la storia, e quindi anche i tentativi di problematizzare il rapporto epistemologia/ontologia. Ma credo che l’accusa di confusione costituisca un’ipotesi dura da giustificare e che Ferraris non sia riuscito a mostrare niente di simile nel caso di Kant. 1 - Sviste (presunte) e disaccordi (reali). «Passiamo a Parrini, - esordisce Ferraris nella sua replica - che per ben sei volte mi rimprovera di imputare a Kant una "fallacia naturalistica" (io parlo sempre e solo di "fallacia trascendentale"), e una volta di non adoperare "la recente lettura in chiave di scienze cognitive proposta da Patricia Kitcher", che viceversa è citata eccome, e che non è affatto recente, visto che risale a sedici anni fa. In sé non si tratta di grandi sviste, ma sono significative di un modo un po' nervoso di rapportarsi al mio libro» (p. 149). Cominciamo dalla svista bibliografica. Io non ho contestato a Ferraris di non citare la Kitcher; gli ho contestato di non utilizzarla (v. p. 91, n. 40), così come di non adoperare opere ben più importanti di quella della Kitcher (per esempio, i lavori di Henry E. Allison) e di far uso, in generale, di una bibliografia un po’ troppo “datata” (v. pp. 73-74). Se osservo che qualcuno non utilizza la bicicletta, non avrebbe molto senso che questi replicasse che ne possiede una e la tiene sempre appoggiata al muro di casa. Quanto al "recente", sono in buona compagnia, o quantomeno non sono il solo su cui Ferraris dovrebbe eccepire. Anche Claudio La Rocca si riferisce a libri come quello della Kitcher qualificandoli un tipo di letteratura emersa in «anni recenti» (p. 53, n. 38). La Rocca sa che nel lungo sviluppo novecentesco della critica kantiana di tipo analitico (di cui mi sono occupato in “A due secoli da Kant: conoscenza, esperienza, metafisica della natura”, in Itinerari del criticismo. Due secoli di eredità kantiana, a c. di C. Ferrini, Bibliopolis, Napoli, 2005, pp. 17-54), letture come quella di Patricia Kitcher costituiscono appunto un fatto recente i cui effetti arrivano fino ai nostri giorni (in questo caso, purtroppo, non sono a conoscenza di specifici contributi bibliografici e non posso neppure aiutare Ferraris rinviando a qualcosa di mio). Ma il bello viene con la prima svista che Ferraris mi attribuisce. Come risulta dalla citazione che ho fatto ad apertura di questa replica, egli in GK effettivamente imputa a Kant la «fallacia trascendentale» di confondere «la scienza con l'esperienza, cioè l'epistemologia con l'ontologia» (il lettore è pregato di prendere nota del «cioè»!). E a buon diritto nella sua Prefazione Ferrarin presenta il libello di Ferraris come l'invito a «congedarsi dalla cosiddetta fallacia trascendentale, dalla confusione di un livello epistemologico con uno ontologico nonché dall'indebita commistione 3 di discorso empirico e scientifico, e in generale dalle secche di una concezione dell'esperienza che ha fatto il suo tempo» (p. 9). Allora tutto chiaro: ho commesso una svista: chissà per quale strano procedimento mentale ho usato sistematicamente l'aggettivo "naturalistica" dove avrei dovuto usare l'aggettivo "trascendentale". La cosa comunque sarebbe di poco peso, perché poi avrei inteso contestare – sia pure malamente e senza successo - la fallacia trascendentale che Ferraris imputa a Kant. Ma le cose non stanno così. Per "fallacia naturalistica" io intendo una cosa diversa da quello che Ferraris intende per «fallacia trascendentale». Come in parte ho già fatto capire, la fallacia trascendentale di Ferraris è un “pasticcio” - per me incommestibile - che mette insieme, identificandole, la confusione fra scienza ed esperienza e la confusione fra epistemologia e ontologia (si ricordi il suo «cioè»). La fallacia naturalistica di cui parlo io, invece, è solo la fallacia di confondere scienza ed esperienza, tanto è vero che, quando la introduco a p. 81 del mio intervento, preciso di riferirmi all'accusa secondo cui Kant sarebbe incorso nella fallacia «di confondere scienza ed esperienza e con ciò [non: cioè] epistemologia e ontologia». E quando presento gli scopi che mi propongo dico ancora testualmente: «Nel corso del paragrafo II analizzerò tre aspetti interconnessi di Goodbye Kant, e cioè il rapporto tra conoscere ed essere (II/1.1 e II/1.2), il contrasto tra Kant e Hume sulla natura della conoscenza (II/2), e la concezione kantiana dell’Io penso (II/3). Si tratta di tre aspetti che costituiscono momenti essenziali del discorso svolto da Ferraris in quanto collegati ai tre pilastri su cui poggia il suo peculiare congedo da Kant: la cosiddetta “fallacia naturalistica”, la distinzione fra schema e contenuto con la (supposta) confusione fra epistemologia e ontologia, la distinzione fra conoscere una cosa ed “imbattersi in essa”» (p. 75). Come si vede, io ho voluto tenere ben distinto il problema del rapporto scienza/esperienza dal problema del rapporto epistemologia/ontologia, e nelle pagine conclusive del mio intervento ho fatto anche emergere il perché di questa analisi tripartita e per così dire “disarticolata”. Su quest’ultimo punto mi soffermerò più avanti parlando del risvolto teorico della questione. Prima però vorrei mostrare che è il testo stesso di Ferraris ad autorizzare l’introduzione - sia pure tra virgolette alte e non tra caporali come nelle citazioni vere e proprie (v. in particolare pp. 75 e 81) – della locuzione "fallacia naturalistica" per riferirsi ad un aspetto essenziale («di fondo») di GK. Si considerino i seguenti due passi tratti rispettivamente da p. 32 e da p. 64 del libro di Ferraris, passi cui rinvio nella n. 43 di p. 92 del mio intervento e che qui di seguito vengono riprodotti con l'aggiunta dei corsivi: (a) «Prima di andare avanti, però, è utile conoscere i debiti contratti da Kant con la tradizione precedente, le innovazioni che apporta e la fallacia di fondo in cui incorre, cioè, precisamente, la confusione di scienza ed esperienza. Sono gli obbiettivi dei prossimi tre capitoli; 4 chi ha una fretta terribile ed è interessato alla storia principale, può saltare direttamente al Capitolo 6»; (b) «Proprio perché era persuaso dell'identità di diritto tra fisica ed esperienza, così come tra fisica e logica, Kant ha potuto, da una parte, descrivere la nostra esperienza con gli stessi strumenti della scienza e, dall'altra, assumere che dei principi della fisica non fossero ricavati aposteriori, dallo stato attuale delle conoscenze umane, bensì deposti apriori nella nostra dotazione concettuale. Per un'ironia della storia, proprio questa fallacia costituisce il punto in cui la filosofia kantiana ha conosciuto un incontrastato successo». Si tenga anche presente che a p. 28 di GK, Ferraris, il quale nella pagina precedente si è presentato come uno che la sa più lunga di Strawson - sì, proprio di Peter Frederick Strawson, l'autore di The Bounds of Sense. An Essay on Kant’s “Critique of Pure Reason” ed uno degli eredi della migliore tradizione anglofona di studi kantiani - afferma a chiare lettere che il suo «argomento di fondo» (corsivo aggiunto) va visto proprio nella prova «che Kant sembra offrire una teoria dell'esperienza, ma in realtà presenta una teoria della scienza, e più esattamente che confonde i due livelli» - il che, se non sbaglio, è quanto nelle pagine precedentemente citate viene qualificato appunto come una «fallacia». Che poi per Ferraris non solo di una fallacia si tratti, ma di una fallacia che può essere qualificata come "naturalistica" è pienamente avvalorato dalla pagina di GK in cui egli introduce il suo modo, assai peculiare, di usare il termine "naturalizzazione": «La conseguenza è che, attraverso la rivoluzione copernicana, il compito della metafisica consisterà nella naturalizzazione della fisica, nel mostrare cioè che il modo in cui si fa scienza è uguale a quello in cui si ha esperienza» (GK, p. 47: solo il primo corsivo è aggiunto, il secondo è dello stesso Ferraris; vedi inoltre p. 76 n. 15 del mio intervento ove faccio notare l’eccentricità della terminologia che egli usa). Non mi pare quindi di aver commesso nessuna "svista" quando ho parlato di "fallacia naturalistica" per indicare la confusione fra scienza ed esperienza, svincolando questo aspetto del discorso condotto in GK dall’aspetto della confusione fra epistemologia e ontologia. Sorprende, piuttosto, che Ferraris abbia potuto farmi un simile rilievo. Leggendo GK, mi ero reso conto di una sua non grande dimestichezza con il testo kantiano. Ma francamente non credevo che dominasse così poco il suo stesso libro. Siccome non voglio pensare che si sia inventato la storia delle sviste per dare “autorevolezza” al suo intervento, avanzerei l’ipotesi che si sia "scocciato" magari per paura di perdersi «le Lecciso in TV» (vedi la risposta a Barale, p. 143, n. 1) e abbia seguito alla lettera il consiglio dato da lui stesso ai suoi lettori: avendo «una fretta terribile», è saltato «direttamente al Capitolo 6» del proprio libro dimenticandosi dei tre capitoli in cui discute la 5 «fallacia di fondo» in cui Kant incorrerebbe, «cioè, precisamente, la confusione di scienza ed esperienza» (p. 32, corsivo aggiunto), ovvero la “fallacia naturalistica”. Passando dal risvolto testuale al risvolto teorico della questione, il punto è il seguente: è vero che quella che io chiamo - sulla scorta di GK - "fallacia naturalistica" per Ferraris fa tutt'uno con quella che lui chiama «fallacia trascendentale», ossia il già citato “calderone” della confusione tra scienza ed esperienza e cioè tra epistemologia ed ontologia. Tuttavia è altrettanto vero che uno dei punti salienti del suo discorso (come abbiamo visto, ce ne avverte lui stesso) passa proprio per lo svelamento della presunta fallacia naturalistica kantiana, ossia della sola confusione fra scienza ed esperienza. Ora, fra le cose che cerco di mostrare nella mia controargomentazione c’è che, sul piano storico, il rapporto scienza/esperienza/realtà non si configura in Kant nei modi in cui lo pone Ferraris e che, sul piano teorico, uno degli aspetti meno condivisibili del suo libro è costituito – come dico a p. 99 del mio intervento - dalla «sostanziale implicita identificazione del piano dell'esperienza e dei contenuti con quello dell'oggettività e della realtà». In parole povere, là dove Ferraris vede un'unica e medesima confusione che chiama «fallacia trascendentale», io vedo l'intersecarsi di questioni diverse che devono essere analizzate in modo separato se si vuole capire qualcosa della concezione epistemologica e ontologica di Kant, o più precisamente del Kant di cui ci stiamo occupando, ossia del Kant critico. Che in teoria della conoscenza si debba prestare attenzione alla distinzione fra esperienza e realtà, sia che la si voglia accettare sia che la si voglia confutare, è dovuto al semplice fatto che nella storia della filosofia si sono date quisquilie e pinzillacchere come le obiezioni scettiche, l’intera tradizione empirista, le concezioni imperniate sui dati di senso, la selva di analisi epistemologiche che, per esempio, hanno condotto ad affrontare problemi come quello delle leggi di natura o della spiegazione scientifica permettendo puntualizzazioni di questo tipo: «Dal punto di vista epistemico la causalità è la semplice registrazione, contenuta nei modelli di spiegazione, di costanti congiunzioni empiriche, mentre dal punto di vista ontico il dato di partenza nella ricerca di spiegazioni è il realismo causale, che riflette l’ordine ontologico degli eventi […]» (da una tesi di laurea sulla spiegazione scientifica in corso di discussione all’Università di Firenze; per non trarre conclusioni esagerate si tenga presente, comunque, che si tratta di una tesi del Vecchio e non del Nuovo ordinamento). Evidentemente Ferraris è talmente lontano dal tener conto di simili distinzioni, o quanto meno dall’apprezzarne l’importanza, che se qualcuno analizza il suo discorso separando questioni come il rapporto scienza ed esperienza, il rapporto conoscenza e realtà, e il rapporto epistemologia e ontologia, lui pensa che ci si riferisca sempre a uno stesso problema, ossia, nel nostro caso, alla «fallacia trascendentale» che imputa a Kant. Anzi, se la terminologia del malcapitato interlocutore è 6 diversa dalla sua perché appunto tiene conto di distinzioni come quelle appena menzionate, neppure si accorge di aver scritto lui stesso cose che legittimano quella terminologia, e conclude che l’uso dissonante non può che essere il frutto di una svista, ma di scarso significato perché la sostanza del problema resta la stessa. Rispetto ai suoi antichi maestri del pensiero debole, Ferraris ha cambiato solo di segno: dal “debolismo” ermeneutico epistemologicamente “ingenuo” è passato a un realismo metafisico non meno epistemologicamente “ingenuo” saltando tutte le tappe e le possibilità teoriche intermedie! 2 – Questioni di merito (praticamente nessuna). Con quanto ho detto fin qui dovrei essere rimasto alla periferia, o meglio ai preliminari, della replica di Ferraris, ma in realtà sono molto più avanti perché sulle questioni di merito egli non ha nulla di specifico da replicare. Ribadisce (sempre in modo epistemologicamente approssimativo) che la svolta della fisica moderna è consistita per Kant nell’indagare la natura sulla base di schemi predisposti dalla ragione (p. 150); ma tace sul mio rilievo che ciò non significa affatto, diversamente da quanto egli sostiene in GK, che per Kant la scienza, o se si vuole il soggetto conoscente, possa prescindere dall’esperienza. E un atteggiamento analogo assume anche sulle altre osservazioni. Tace sulla mia critica di aver attribuito a Hume la tesi del carattere probabile della conoscenza scientifica - una vera enormità dal punto di vista storico. Tace sui problemi che pongo circa le sue obiezioni alla distinzione schema/contenuto e circa il modo in cui Kant traccia la distinzione soggettivo/oggettivo (con il celebre esempio della casa e della barca sul fiume), e quindi circa il modo di intendere la Seconda analogia. Tace sulle ragioni per cui sostengo che a Kant non si può imputare la confusione fra epistemologia e ontologia; anzi, cita in modo decontestualizzato alcune mie affermazioni per farmi dire che esse confermerebbero la sua tesi (pp. 150-151). Nel capoverso conclusivo della replica Ferraris giunge addirittura ad attribuirmi una vera sciocchezza che può solo essere il frutto della sua incrollabile (“inemendabile”?) convinzione che il concetto di realtà possa essere fatto tranquillamente collassare su quello di esperienza, con buona pace di tutto quello che ci ha insegnato gran parte della tradizione filosofica occidentale. Per Ferraris io sarei «d’accordo con Kant sul fatto che l’esperienza deve essere vagliata scientificamente» e sosterrei «che qualora qualcosa ci fosse nel mondo, ma contrastasse con la scienza di Kant o di Parrini, allora non potrebbe essere considerata esperienza [corsivo aggiunto]. È una teoria importante, che radicalizza l’idea kantiana dell’identità tra ontologia ed epistemologia, ma di cui terrò conto, semmai, il giorno in cui scriverò Goodbye Parrini!» (p. 152 s.). Penso che quel giorno, se mai venisse, Ferraris dovrebbe distorcere tutto quanto ho scritto per mettermi in bocca una simile scemenza. Tanto è vero che nella citazione che dà pretesto alla sua battuta io sostengo una tesi del tutto diversa, ed alla quale assegno un ruolo nella mia concezione 7 della conoscenza e del realismo empirico (in quanto contrapposto al realismo metafisico) solo a condizioni che ho cercato di precisare in alcuni degli scritti scrupolosamente elencati (ma non adoperati!) da Ferraris. In effetti sarebbe ben strano se un empirista come me pensasse di istituire un tribunale della ragione preposto a sindacare su cosa possa essere o non possa essere considerato esperienza. Ed infatti nel passo che Ferraris cita io mi guardo bene dal dire che «qualora qualcosa ci fosse nel mondo, ma contrastasse con la scienza di Kant o di Parrini, allora non potrebbe essere considerata esperienza»; dico invece che in quella che comunemente chiamiamo conoscenza (e che, come altrove spiego, con una “mossa” in direzione del pragmatismo potremmo anche rifiutarci di considerare tale), l’esperienza – la quale è quella che è e non abbisogna di nessuna legittimazione – viene assunta come prova dell’esistenza di una qualche realtà ad essa più o meno immediatamente corrispondente solo attraverso la mediazione di alcune assunzioni epistemiche. Questa e non altra è la mia tesi, che penso sia in parte (ma solo in parte) tributaria della metafora kantiana del tribunale ripresa nell’ironico passo di Ferraris. Dico infatti nel capoverso da cui sono tratte le righe citate da Ferraris, nel quale mi riferisco alla distinzione di Kant tra esperienze da considerare rappresentazioni veridiche ed esperienze non veridiche (per esempio quelle del sogno): «A me pare che al fine di comprendere questo “nocciolo” del criticismo, la terminologia giuridica cui Kant è ricorso varie volte sia qualcosa di più di un semplice espediente linguistico e metaforico. La metafora gli consente infatti di stabilire con efficacia un punto di grandissima importanza e ancor’oggi degno della massima considerazione: siccome le esperienze di per sé considerate sono appunto solo esperienze la possibilità di risalire da esse al piano della realtà [realtà, non esperienza – corsivo aggiunto adesso, visto che c’è ne bisogno!] passa attraverso l’istituzione di un tribunale che, giudicando mediante regole e principi suoi propri, permetta di conferire a queste stesse esperienze un peso probatorio quanto a indicazione di come stanno le cose nella loro oggettività. E ciò tanto nel caso dell’esperienza comune quanto in quello dell’esperienza scientifica, ove l’attuale filosofia della scienza ha mostrato con dovizia di argomenti (in buona parte di derivazione duhemiana) la struttura triadica della logica del controllo empirico (ipotesi da controllare, esperienze e assunzioni di sfondo)» (p. 97). Per me non si tratta dunque di giudicare le esperienze in quanto esperienze (e neppure – aggiungo - di sostenere l’inemendabilità delle credenze che via via ci formiamo su ciò che è o non è reale). Si tratta di valutare le esperienze, in quanto esperienze che, in modo più o meno scontato, si ritiene che siano veridiche o conformi alla realtà, rispetto alle esperienze che non riteniamo tali, come avviene, per esempio, nei numerosi casi di illusioni percettive citati da Ferraris. Quando parliamo di illusioni percettive come quella famosa di Müller-Lyer, non parliamo di segmenti di linee rette di cui diciamo che pur essendo in realtà uguali, nondimeno appaiono differenti alla 8 nostra esperienza? Ma Ferraris tace anche sui problemi che gli pongo (p. 96 s. e n. 50) circa il modo in cui tracciare la distinzione tra apparenza e realtà, soprattutto quando - come fa lui - si continua a parlare del piano dell’esperienza senza contemplare la possibilità di tenerlo distinto dal piano della realtà. Concludo questa parte osservando che invece, nelle repliche agli altri autori, Ferraris non tace su una questione davvero centrale sulla quale non posso e non voglio esimermi dall’intervenire (e, per la ragione che dirò fra breve, senza contravvenire alla regola di non debordare in un inopportuno bilancio della discussione nel suo complesso). La questione riguarda la famosa frase kantiana «L’Io penso deve poter accompagnare tutte le mie rappresentazioni …», frase che in GK Ferraris cita all’inizio in forma corretta, ma poi utilizza costantemente facendo cadere quella sciocchezzuola della modalità del possibile, ragion per cui nel suo libello la frase in questione diventa: «L’Io penso deve accompagnare tutte le mie rappresentazioni …». Una semplice svista? Non pare proprio, perché solo interpretando la frase in questo modo (ossia senza la modalità del possibile) Ferraris può sviluppare alcune delle sue critiche più radicali alle concezioni avanzate nell’Estetica e nell’Analitica kantiane. Solo in questo modo, infatti, può attribuire a Kant l’inverosimile tesi che noi vediamo una cosa o che siamo sbattuti contro di essa, solo quando la conosciamo, giungendo ad affermare quanto segue: «Kant suppone che, per guardare il nostro tavolo da lavoro, necessitiamo di ciò che Einstein cercò vanamente per l’intera seconda parte della sua vita, ossia una teoria del tutto, che ci segnali non solo le relazioni causali, ma anche quegli stati di equilibrio (castelli di carte, tavole apparecchiate, bici appoggiate al muro, ecc.) in cui azione e reazione si bilanciano» (GK, p. 127; e v. il mio intervento, p. 93, n. 45). Nel corso dell’incontro di Pisa, in un successivo incontro a Firenze e nell’intervento pubblicato nel volume collettaneo cui mi sto riferendo (vedi la sezione II/3, pp. 88-94, con particolare riferimento alla n. 37) ho fatto notare a Ferraris quanto segue: poiché Kant si muove sul piano della possibilità e poiché nella Deduzione trascendentale è in gioco una quaestio juris e non una quaestio facti, la sua lettura della frase kantiana sembra preclusa e questa preclusione inficia le critiche che egli muove a Kant tanto in GK quanto nel volume sopra citato, Il mondo esterno. Nella sua replica Ferraris non mi dà direttamente una risposta. Valendosi del fatto che su questo punto si è realizzata una certa convergenza con gli altri co-autori del volume – v. p. 28 s. per Ferrarin, p. 54 per La Rocca, e pp. 131-133 per Barale -, egli ha scelto di trattare la questione rispondendo soprattutto a quest’ultimo. Nonostante ciò, mi sento ugualmente chiamato in causa e autorizzato per questo a spendere due parole sull’argomento. Ferraris deve essersi convinto della giustezza almeno della seconda parte della mia osservazione, ossia della vitale importanza per il successo delle sue critiche di una lettura che 9 “neutralizzi” in qualche modo il riferimento alla modalità del possibile. Infatti, nella replica a Barale, contesta a spada tratta la lettura per così dire modale producendosi in battute di spirito di grana assai fine che mi parrebbe un delitto risparmiare al lettore: «Eh, no, qui [con la lettura modale] non ci siamo. Come dobbiamo intendere questa frase [L’Io penso deve poter accompagnare tutte le mie rappresentazioni …]? Come “vorrei ma non posso” o “potrei ma non voglio”? Se uno deve poter accompagnare le rappresentazioni, vuol dire che le accompagna (di sicuro non vuol dire che non le accompagna, sennò siamo all’operetta). E poi, anche ammesso che Kant avesse sottoscritto una frase così desolante: “l’Io penso, magari, forse, un domani, chissà mai, ma guardi, non è certo, dipende da come si sente, dovrebbe poter accompagnare le mie rappresentazioni”, avrebbe detto, per l’appunto, che se le cose andassero come devono, e se l’Io penso non fosse quel rammollito che è, dovrebbe accompagnarle, quelle rappresentazioni. E se non le accompagna, peggio per loro e per lui». «Il punto duramente concettuale, con cui ci troveremo ad avere a che fare anche più avanti, prosegue Ferraris, ormai senza freni - è questo: un regolativo che non sia anche costitutivo, in teoria della conoscenza, è una contraddizione in termini. Che cosa regoli a fare, se non puoi anche costruire, fosse pure semplicemente una diagnosi o una previsione del tempo? In effetti, quel “deve poterle”, è un’espressione vaga e gesuitica, come talora accade in Kant, nonostante tutto il rigorismo protestante che pervade la sua filosofia pratica: o può, e dunque deve; o non può, e dunque non deve. Possiamo, se si preferisce, vedere quel "deve poter" appunto come un ideale, come un'idea in senso kantiano: l'ideale sarebbe che l'io penso accompagnasse le mie rappresentazioni, che dunque sarebbero coscienti, tutte. Il che è appunto l'ideale di una scienza, non dell’esperienza. Io, di mio, non vorrei mai che l’Io penso potesse accompagnare tutte le mie rappresentazioni, ho altro da fare, e del pari non vorrei che le mie rappresentazioni diventassero tutte coscienti, altrimenti ogni mia esperienza si trasformerebbe in una seduta di psicoanalisi a cielo aperto (Wo Es war, soll Ich werden)» (pp. 146-147; vedi anche le pp. 157-158 e 160). Sì, è vero: siamo proprio all’operetta; e se nonostante ciò trapasso per un attimo al melodramma è solo perché mi pare che alle espressioni di Ferraris si attaglino alla perfezione le parole che nella Traviata Flora rivolge al Barone Douphol: «Meglio fora se aveste taciuto». Due semplici puntualizzazioni, che solo per carità di patria tralasciano di considerare la connessione istituita da Ferraris tra questo problema e la distinzione costitutivo/regolativo (vedi anche le pp. 157-158 della sua replica, che non fanno alcun uso, mi pare, dei fondamentali lavori di G. Buchdahl sull’argomento). (1) Dal punto di vista sintattico e semantico vi è una differenza perfettamente comprensibile tra il dire, per esempio, “Portati dietro il cellulare perché devi potermi telefonare in ogni momento” 10 e il dire “Portati dietro il cellulare, perché devi telefonarmi in ogni momento”. La prima frase non implica che la persona alla quale mi rivolgo mi debba telefonare necessariamente e in continuazione; essa potrebbe altrettanto bene telefonarmi una volta sola, o più volte, o mai. Sembra singolare quindi che Ferraris dica a p. 160: «ribadisco con ostinazione che non vedo differenza, se non sintattica [bontà sua, almeno questo!], tra “deve poter accompagnare” e “deve accompagnare”». La differenza sintattica comporta una ben precisa differenza semantica. Per Ferraris invece la differenza “sintattica” è una risorsa cui Kant ricorre, forse, solo per un suo qualche (inconscio?) rigurgito gesuitico. (2) A me pare che gli accenni alla psicoanalisi, al fatto che Ferraris non vorrebbe che le sue rappresentazioni diventassero tutte coscienti, all’impegno che ciò gli richiederebbe rispetto ad altre più interessanti o più urgenti occupazioni, legittimino l’atroce sospetto che, così come parla in modo indifferenziato di esperienza e di realtà, egli non domini la distinzione fra Io trascendentale (o Appercezione pura, o Coscienza in generale), che per comodità abbiamo indicato come Io penso (con la I maiuscola), e l’io empirico o coscienza empirica, che per comodità possiamo indicare con la i minuscola. E tutto ciò, naturalmente, in barba a quanto asserito da Kant nel paragrafo 16 della seconda versione della Deduzione trascendentale delle categorie intitolata «Dell’unità sintetica originaria dell’appercezione». I punti essenziali stabiliti da Kant sono i seguenti (le citazioni sono tratte dalla seconda edizione della Critica della ragion pura, trad. it. di C. Esposito, Bompiani, Milano, 2004, pp. 240243 = B 131 ss.; con i corsivi al posto della spaziatura e con l’inserimento delle maiuscole in conformità all’uso qui adottato; l’aggiunta di corsivi viene espressamente segnalata): (i) «L’Io penso deve poter accompagnare tutte le mie rappresentazioni, poiché, se così non fosse, in me verrebbe rappresentato qualcosa che non potrebbe affatto essere pensato»; (ii) l’Io penso viene chiamato anche Appercezione pura o - soprattutto nei Prolegomeni, §§ 18-22 – Coscienza in generale (Bewusstsein überhaupt); (iii) questa Appercezione pura viene tenuta distinta dall’appercezione «empirica […] poiché essa è quell’autocoscienza che, producendo la rappresentazione Io penso – la quale deve poter accompagnare tutte le altre, ed è una ed identica in ogni coscienza -, non può essere accompagnata a sua volta da nessun’altra rappresentazione»; (iv) «la coscienza empirica che accompagna diverse rappresentazioni, è dispersa in se stessa e non ha un rapporto con l’identità del soggetto»; ragion per cui è «solo perché io posso congiungere [non: congiungo!] in un’unica coscienza [che quindi non pare identificabile né con la mia, né con quella di Ferraris, né con quelle di Tizio, di Caio o di Sempronio] un molteplice di rappresentazioni date, che mi è possibile rappresentarmi la stessa identità della coscienza in queste rappresentazioni»; (v) conclusione: «Il pensiero: queste rappresentazioni date nell’intuizione appartengono tutte quante a 11 me, significa perciò lo stesso che: io le unifico in un’unica autocoscienza, o almeno posso unificarle in essa. E sebbene il primo pensiero non sia ancora, di per sé, la coscienza della sintesi [corsivi aggiunti sotto «non» e «coscienza» - mi pare che Ferraris abbia bisogno di qualche corsivo in più di quelli già abbondanti usati da Kant!], ne presuppone però la possibilità [corsivo aggiunto], vale a dire: è solo in quanto io posso comprendere in un’unica coscienza il molteplice di queste rappresentazioni, che le chiamo, tutte quante, mie rappresentazioni. In caso contrario, infatti, io avrei un me stesso tanto variopinto e differenziato, a seconda di quante siano le rappresentazioni di cui sono cosciente». Su queste parole di Kant sono stati versati fiumi di inchiostro. Ma nessuna delle interpretazioni che conosco (e credo di conoscerne parecchie) autorizza discorsi come quelli di Ferraris. In ogni caso, anche al di là della “rispettabilità” interpretativa delle sue affermazioni, qui delle due l’una: o l’Io penso (con la I maiuscola) dell’operetta ferrarisiana ha a che fare con la coscienza empirica di Kant, e allora Ferraris confonde la coscienza e l’autocoscienza empiriche con l’Appercezione trascendentale o Coscienza in generale; oppure Ferraris le tiene distinte, pur considerando anche l’Io penso un possibile soggetto di frasi “giocose” come quelle da lui inventate, e allora non può più sostenere che Kant confonda scienza ed esperienza. Infatti, sulla base delle sue “spiritosaggini” si potrebbe sostenere che pure per Kant possiamo imbatterci o vedere una cosa senza conoscerla: tutto dipenderà dal fatto se in quel momento abbiamo innestata la marcia dell’io empirico o quella dell’Io trascendentale. Se è all’opera l’io empirico, possiamo vederla senza conoscerla; se invece la vediamo e la conosciamo vuol dire che è all’opera l’Io trascendentale. Il «punto» davvero «duramente concettuale» è che non si può parlare dell’Io penso kantiano trascurando (o ignorando): (i) le concezioni funzionalistiche dell’Io penso e dell’apparato categoriale, e (ii) il fatto che il discorso di Kant si muove sul piano del quid juris e non del quid facti della conoscenza, ossia delle sue condizioni di possibilità e non di svolgimento empirico (v. p. 89 s. e n. 37 del mio intervento). La differenza tra il “deve” e il “deve poter” va presa sul serio, molto sul serio, anche se queste minutaglie possono risultare fastidiose negli angoli riservati alla filosofia delle trasmissioni televisive. Prima di strombazzare ai quattro venti su gazzette, gazzettini e gazzettoni scanzonati congedi da grandi autori del passato non sarebbe male – come si diceva una volta - approfondire un po’ di più la letteratura primaria e secondaria. Dopo queste puntualizzazioni specifiche, passo alle osservazioni generali che Ferraris dedica al mio intervento. La cosa non richiederà troppo tempo perché non mi pare che mi venga contrapposto alcunché di sostanziale. 3 – Le ragioni di un disaccordo. Sopra ho detto che là dove Ferraris vede un'unica e medesima confusione che chiama «fallacia trascendentale», io vedo l'intersecarsi di questioni 12 diverse che devono essere analizzate in modo separato se si vuole venire a capo della concezione epistemologica e ontologica del Kant critico. Ho parlato di concezione epistemologica e ontologica perché riferendosi in modo distorto ad alcuni miei passi, Ferraris dichiara quanto segue: «Il punto teorico è essenzialmente questo: Parrini, e lo dice a chiare lettere nel suo discorso, dopo aver sostenuto (e sono il primo ad ammettere che di fatto è molto arduo) che è difficile distinguere ontologia ed epistemologia, afferma che Kant non ha confuso ontologia ed epistemologia, come sostengo io. Bizzarro ragionamento. Può essere importante leggere due passi in cui Parrini, per il tramite di Kant e di Einstein, ritiene di mettermi all'angolo» (p. 149). Per Ferraris i due passi in questione dovrebbero far vedere: (i) che io stesso finisco per avvalorare la sua tesi della confusione kantiana di ontologia ed epistemologia, e (ii) che mostro la validità della epistemologia di Kant. Ma questa validità sarebbe riconosciuta da Ferraris stesso, il quale si sarebbe limitato a contestare la sua trasposizione ontologica: «Io difatti – scrive Ferraris a p. 150 della replica - non nego alcuna validità alle tesi epistemologiche di Kant. Sostengo semplicemente (ed è un'altra cosa) che queste tesi diventano insostenibili se trasposte sul piano ontologico. Siamo d'accordo con Parrini, ma forse è lui che non vuole essere d'accordo con me». Io non pretendo né ritengo di mettere «all'angolo» nessuno. Credo però in una certa “scientificità” della filosofia e quello a cui miro è un discorso che conduca a conclusioni il più possibile oggettive e condivise. In questo spirito, che mi ha sempre guidato e sostenuto, vorrei osservare quanto segue. Se non vado errato, Ferraris ha scritto un libello intitolato Goodbye Kant. Dalla risposta a Barale sembra evincersi che, sì, il titolo è appunto Goodbye Kant, ma che lui ce l'ha solo con il Kant dell'Estetica e dell'Analitica, per altro considerate il «nocciolo della Critica della ragion pura» (p. 148). Dalla risposta che dà a me sembra evincersi, inoltre, che ritiene validi alcuni aspetti (molti? pochi? quali?) dell'epistemologia kantiana (di tutto il Kant critico o solo di quello dell'Estetica e dell'Analitica?). Non credo che i numerosi lettori del volumetto si siano resi conto che Ferraris era un sostenitore dell'epistemologia di Kant e un fustigatore soltanto della sua (pretesa) confusione fra epistemologia ed ontologia. Credo invece che molti di quei lettori abbiano pensato che tale (supposta) confusione era una delle ragioni, anzi la principale ragione, per cui egli ci invitava a prendere congedo da Kant e che per motivare un congedo tanto “clamoroso” avesse attaccato alcune fondamentali tesi dell'epistemologia kantiana. Per esempio, le tesi difese da Ferrarin, da La Rocca, da Barale e guarda caso anche da me, che sostengo che esse dovrebbero essere tenute in debito conto da chi fa ontologia. Evidentemente qualcosa deve aver indotto Ferraris ad “aggiustare” il tiro e mi fa piacere costatare che tra le tesi epistemologiche kantiane cui oggi non nega validità ci sono 13 quelle illustrate nel mio contributo, sebbene egli qua e là suggerisca che anche io (come Kant: bontà sua) tendo a trasporle in modo confuso sul piano ontologico. Tutto questo significa che dobbiamo limitarci a dare un nuovo titolo al libro di Ferraris chiamandolo Goodbye Kant ontologo dell'Estetica e dell'Analitica e che, in questa veste “ristretta”, possiamo considerarlo un po’ più accettabile? Non credo, perché Ferraris avrebbe comunque criticato Kant senza prendere neppure in considerazione la Dialettica trascendentale, ossia la parte della Critica specificamente dedicata alla possibilità della metafisica. Ma c’è di più. Sono d'accordo con lui che è spesso arduo tener distinte epistemologia ed ontologia; credo addirittura che vi sia un “risvolto” delle argomentazioni kantiane di cui si può sensatamente dire che non tiene del tutto conto di questo (e non starò a tediare Ferraris con un rimando all’articolo in cui accenno alla questione); ma, a meno di non adottare un modo di ragionare davvero «bizzarro», proprio non vedo come a partire da queste considerazioni generiche o comunque marginali si possa (o addirittura si debba?) giungere ad accusare Kant, in modo indiscriminato, di essersi macchiato della colpa di confondere epistemologia ed ontologia. Da quando in qua la difficoltà di effettuare una distinzione implica l’impossibilità di effettuarla? C’è poco da fare: le modalità non sono congeniali a Ferraris! Kant sa perfettamente che l'epistemologia è una teoria della conoscenza e l'ontologia una teoria dell'essere. Quello che ci invita a fare con il suo criticismo è problematizzare il rapporto fra epistemologia e ontologia secondo uno stile filosofico che è stato seguito da molti dopo di lui, anche da coloro che, avendo rifiutato la sua teoria dell'esistenza di principi della conoscenza assolutamente validi, sono stati costretti a maneggiare con ancora maggiore cautela il passaggio da argomenti validi sul piano epistemologico a conclusioni riguardanti il piano ontologico. Mi pare che a stabilire un punto analogo miri anche La Rocca quando richiama l’attenzione di Ferraris sulla nozione stessa di critica della ragione, stigmatizzando la scarsa attenzione che in GK si dedica a tale questione (v. p. 39). Una delle molte cose che mi divide da Ferraris è appunto questa: io non sono disposto a considerare la problematizzazione del rapporto epistemologia/ontologia come una confusione del piano epistemologico con quello ontologico (le confusioni, a mio parere, sono in Ferraris, non in Kant!). Sono pronto a riconoscere - e l'ho scritto a chiare lettere da tante parti - che un realista metafisico ha tutto il diritto di rivendicare la validità della propria posizione facendo leva sulla legittimità di principio di un discorso ontologico che parli dell'essere in quanto essere. Ciò non toglie, tuttavia, che un avversario del realismo metafisico possa proporre concezioni alternative dell'oggettività facendo leva sui modi in cui possiamo conoscere gli oggetti, senza per questo essere accusato di trascurare la distinzione di principio fra piano ontologico e piano epistemologico. A parte qualche “caduta” argomentativa, per me Kant nella Critica della ragion pura e nei 14 Prolegomeni non confonde affatto epistemologia e ontologia, ma problematizza criticamente il nesso fra esperienza, ragione e realtà proponendo un modo diverso da quello tradizionale di guardare al rapporto fra teoria della conoscenza da una parte e ontologia e metafisica dall'altra - un modo di cui hanno dovuto e devono tener conto tanto coloro che vogliono attaccare in maniera filosoficamente decente il realismo quanto coloro che in maniera filosoficamente decente intendono difenderlo. Come Ferraris io vedo, e non da oggi, molte buone ragioni per prendere le distanze da Kant, ma a differenza di lui, non ne vedo praticamente nessuna per accusare Kant di tutte le assurdità che egli gli imputa. Ritengo anzi che la difesa del realismo tentata da Ferraris sia così poco sottile proprio perché non è in grado di tener conto né delle acquisizioni di Kant, né del dibattito epistemologico che ha fatto loro seguito per tutto l'Ottocento e il Novecento. A un certo punto della sua replica Ferraris si chiede che cosa io «voglia da [lui], o da Kant, o da Reichenbach, o da Ferrari, o da Broad, o da Chiodi, o da Viano, o magari da Odifreddi» (p. 150). Le ragioni e il tono di questa “voce dal sen fuggita” non mi sono chiari. Vorrei aggiungere soltanto che, date le riserve che esprimo da tempo su una parte cospicua della nostra storiografia filosofica (e che mi sono valse anche qualche accusa di ingenerosità), mi è sembrato significativo che Carlo Augusto Viano, uno degli esponenti più rappresentativi di essa, abbia accolto con favore un libro come il GB di Ferraris (compresa la “perla” che Hume avrebbe mostrato il carattere probabile della conoscenza scientifica!). 4 – Conclusione. La conclusione non muta rispetto a quella che traevo nel mio intervento (p. 99 s.). Ne risultano solo rafforzate – mi pare - le pezze di appoggio. Oltre che di una “disinvoltura” mediatica che purtroppo sta prendendo sempre più piede nella filosofia italiana, il GK di Ferraris è l’espressione di una poco raffinata ribellione al paradigma dell’orientamento ermeneutico e “debolista” in cui è cresciuto. È cambiata la direzione di marcia: dalla tesi della onnipervasività e arbitrarietà dell’interpretazione si è passati ad un oggettivismo metafisico di segno opposto, ma altrettanto “grezzo”. Quello che nell’inversione è rimasto invariato è – come già dicevo - il basso grado di alfabetizzazione epistemologica, una situazione ancora abbastanza diffusa nella filosofia italiana. E continuo a credere che le cose sarebbero andate diversamente se nel nostro paese si fosse tenuto maggiormente conto della filosofia della scienza costruita con tanta competenza e serietà professionale da «quei quattro fessacchiotti provinciali» che, secondo un collega convivialmente assai simpatico, sarebbero stati gli empiristi logici. 15