XXIX Convegno SISP Università della Calabria Arcavacata di Rende (Cosenza) 10 - 12 settembre 2015 Sezione 11: Metodologia della ricerca Chairs: Vincenzo Memoli, Michele Sapignoli Panel 11.2: L’analisi filosofica dei concetti politici: metodi e metodologie Chair: Fabrizio Sciacca Il paradigma delle teorie della giustizia di Paola Russo 1. Perché le teorie della giustizia sono importanti per la metodologia della ricerca? Non è un tentativo facile parlare di metodi e metodologie delle teorie della giustizia, in quanto manca una letteratura adeguata in merito. Molto sviluppato è, al contrario, il discorso filosofico sul contenuto delle stesse. In questo lavoro descrivo le nozioni di base delle teorie della giustizia cercando i relativi metodi. Si presentano al riguardo almeno tre ordini di problemi: a) come individuare il metodo di ogni singola teoria; b) come valutare l’importanza del metodo per la teoria stessa; c) come porre dei dubbi metodologici. In primo luogo, miro ad affrontare una domanda a priori: perché le teorie della giustizia sono importanti per la metodologia di ricerca? Oggetto delle teorie è la giustizia. Ma che cosa è la 1 giustizia? Nelle teorie della giustizia, la parola ‘giustizia’ ha un carattere artificiale, giacché si tratta di delineare l’assetto organizzativo – cioè politico – di una società. La giustizia è, anzitutto, una virtù con una vocazione intersoggettiva in quanto ha a che vedere con le relazioni tra gli individui che permettono agli stessi di stare insieme in società cioè la convivenza e la condivisione di valori comuni. La politica è una prassi dotata di senso: ma dove si trova tale senso? Essa ha bisogno oggi più che mai delle virtù civili: questo è il suo senso. I significati che le teorie della giustizia attribuiscono a questo senso generale variano e sono fra loro spesso contrastanti. Dal punto di vista metodologico, la giustizia è importante perché il disegno di un giusto assetto è tratteggiato dai filosofi secondo metodi divergenti. La domanda metodologica centrale delle teorie della giustizia è la seguente: qual è la giusta società? È un problema ideale, non pratico. Comparando le teorie della giustizia, è possibile scorgere, a mio avviso, la dicotomia tra i classici metodi della logica, disciplina che studia il modo per condurre un ragionamento rigoroso e valido. Mi riferisco al metodo induttivo e a quello deduttivo che io in questo lavoro applico, nei limiti del possibile, alle teorie della giustizia. Con il primo metodo, il ragionamento si muove dal particolare all’universale, ossia dai casi singoli si ricavano leggi universali e astratte che sono quindi trovate a posteriori. Con il secondo, invece, il ragionamento prende le mosse dall’universale, cioè da assiomi dati a priori per giungere al particolare. Sono due tipi di ragionamento attraverso cui le persone formano le proprie credenze su qualcosa. L’induzione è un processo che dall’esame dei casi particolari porta ad una conclusione generale che trascende i particolari ma questo passaggio dalla premessa alla conclusione non è sempre valido. In altre parole, l’accettazione delle premesse non garantisce l’assoluta validità della conclusione. Se ci fosse un solo caso contrario, esso farebbe crollare la validità della conclusione dell’induzione. La deduzione, invece, è un tipo di ragionamento, che rende totalmente valide le premesse e la conclusione. Quest’ultima è il risultato logico e necessario della premessa. Nessun fatto contrario può inficiare la deduzione. Il modello aristotelico, la cui forma tipica è il sillogismo, si basa sul ragionamento deduttivo perché solo esso è dimostrativo. Questi due metodi accompagnano la storia della filosofia, in particolare la logica, e il dibattito sempre aperto tra induttivisti e deduttivisti. In questa sede è possibile provare a vedere nelle teorie della giustizia il complesso alternarsi dei due metodi (ma non solo di questi) che fa nascere dilemmi metodologici. Infatti, qual è il metodo più appropriato per disegnare una società giusta? 2 Un’altra questione metodologica è lo spinoso e mai risolto problema del rapporto tra oggettività e soggettività delle teorie. Se le teorie sono scritte dai filosofi e quindi nascono dal soggetto scrivente, come possono essere oggettive? Le teorie della giustizia sono fondamentali per la metodologia della ricerca perché non solo divergono sui metodi, ma anche sulla concezione da attribuire alla natura umana. Le istituzioni sociali e politiche, infatti, vanno giustificate a partire dalla visione che ogni teoria assegna alla persona stabilendo bisogni, capacità, la dose di altruismo o egoismo nonché il senso di giustizia. Ogni teoria quindi è frutto di un’etica ben precisa e di una visione valoriale a partire dalla persona che stabiliscono il peso da attribuire ai concetti politici quali la giustizia, l’eguaglianza, la libertà e i diritti e i doveri delle istituzioni nei confronti degli individui. Che cosa è necessario e cosa è contingente? Le questioni che affrontano le teorie della giustizia sono inoltre sicuramente storiche, cioè variano al variare del periodo nel quale le teorie sono nate e sviluppate, e ciò va sottolineato per evitare (o meglio ridurre) il difetto ereditario dei filosofi. Le risposte offerte dalle teorie della giustizia non sono mai definitive. Nessuna teoria della giustizia dovrebbe essere una teoria della definitività. Non si tratta cioè di trovare le risposte risolutorie ai problemi politici, ma tutto è messo in discussione e passibile di essere rivisto, criticato e confutato. Allontanandosi dal metodo del problem-solving, le domande in filosofia costituiscono l’aspetto principale della disciplina e hanno in sé il dubbio in una ricerca sempre aperta. I concetti politici che sono analizzati dalle teorie della giustizia creano conflitti tra i filosofi, ed è proprio tale dibattito che fa emergere anzitutto la natura desacralizzante della filosofia politica. Essa ha una vocazione critica che è possibile solo abbandonando principi e verità assolute. 2. Il metodo della giustificazione, δ La filosofia politica non ha una vocazione esplicativo-descrittiva1, ma mira a porre domande su concetti politici salienti come la giustizia, la politica, il vivere insieme in una società. Si dice infatti che la sua metodologia sia normativa quando si tratta di valutare eticamente le istituzioni senza descriverne i funzionamenti e le pratiche. La filosofia politica ritiene fondamentale porre il problema della scelta delle istituzioni. Le teorie della giustizia mirano a disegnare i possibili criteri di giustificazione delle istituzioni politiche. Tali criteri sono il frutto d’immaginazione politica e derivano dal voler pensare le cose in modo diverso dalla realtà, partendo dalla realtà. Il problema è 1 Non tutti i filosofi politici sono d’accordo con questa affermazione. Infatti, alcuni preferiscono sostenere un approccio fenomenologico, cioè descrittivo piuttosto che normativo. Gli studiosi di biopolitica ne sono un esempio. 3 giustificare il potere e l’autorità legittima. Salvatore Veca scrive: «Giustificare vuol dire presentare buone ragioni, argomenti accettabili e riconoscibili come buoni argomenti a favore di una scelta. (Non si giustifica ciò che è fuori della portata di una scelta). Una delle principali caratteristiche del “progetto moderno” in politica risiede propriamente nell’aver generato teorie della giustificazione dell’autorità e dell’obbligo politico»2. Per giustificare le istituzioni sociali e politiche e per dire come potrebbero o dovrebbero essere, le teorie della giustizia hanno una valenza normativa ed ermeneutica, ed è per questo che si chiamano anche teorie politiche normative. Queste ultime utilizzano un metodo analitico tipico della filosofia contemporanea, cioè un ragionamento razionale che tende ad analizzare i concetti politici e a dimostrare i punti salienti attraverso la tecnica dell’argomentazione. Le teorie della giustizia offrono una riflessione razionale e non dogmatica dei concetti politici. S’inseriscono a pieno titolo nell’ambito della riabilitazione della filosofia pratica avvenuta tra la metà del secolo scorso e l’inizio del nuovo: la riflessione filosofica mira all’azione (in questo senso è pratica). Secondo alcuni autori, la filosofia politica dovrebbe occuparsi solo della valutazione etica e giustificativa delle istituzioni, senza cercarne i fondamenti3. Ad avviso di altri studiosi, ciò comporta l’abbandono della questione metafisica, che non può essere rimossa, anche a mio avviso, dai discorsi filosofici4. Le teorie della giustizia mostrano punti divergenti sulla giustificazione: sono cioè teorie che disegnano principi diversi per legittimare l’autorità politica e i rapporti tra società civile e stato. La giustificazione mira a offrire ragioni e argomenti a favore di una scelta politica5. Le istituzioni politiche e sociali, le regole e le scelte collettive vanno, infatti, valutate eticamente. Ma stabilire quando e perché un’istituzione è giusta o ingiusta, vuol dire cercare quei principi (fondanti?) che la rendono giusta o ingiusta. La pluralità dei principi di giustificazione, cioè dei fondamenti, spinge ad abbandonare l’idea del fondamento assoluto o ultimo che in quanto tale non ha alcun motivo di essere giustificato, giacché si giustifica da sé. Le teorie della giustizia si preoccupano di trovare criteri di giustizia che assegnano alle persone diritti, opportunità, costi e benefici. La domanda metodologica centrale non è cosa sia il giusto ma 2 S. VECA, Questioni di giustizia. Corso di filosofia politica, Einaudi, Torino 1991, p. 104. R. GATTI, Filosofia politica, La Scuola, Brescia 2007, p. 43. 4 Ibidem. 5 Ma dare ragioni vuol dire, in altre parole, fondare? Fondazione e giustificazione, dal mio punto di vista, sono termini coincidenti, ma viene usato il secondo piuttosto che il primo. L’uso dei due termini non è, a mio avviso, casuale: il problema della ricerca del fondamento in filosofia politica è sempre presente, ma utilizzare il termine giustificazione anziché quello di fondazione è sovente un gioco linguistico per adombrare la vera natura delle cose. Le teorie della giustizia ricercano, a mio avviso, il fondamento della giusta società e della politica. 3 4 «cos’è giusto?»6. La ricerca è in tal senso volta a trovare il principio sostanziale, non formale della giustizia. Giustizia e ingiustizia non hanno uno statuto semantico autonomo7 ingiustizia, infatti, è un termine costruito sull’alfa privativo. La giustizia nasce dall’ingiustizia: «Ogni teoria della giustizia prende le mosse dal fatto dell’ingiustizia […] perché il fatto dell’ingiustizia genera conflitto e controversia nella polis»8. Il conflitto è la dimensione interessante perché chiede di essere affrontato e risolto: «Una società senza conflitto è, come dire, al di là della giustizia e non ha bisogno di questa virtù pubblica»9. È un conflitto tra interessi e pretese che provengono da individui o gruppi, ma le risorse sono scarse e la scarsità è il motivo principale del parlare di giustizia, perché pone problemi distributivi e con ciò politici. La giustizia ci chiama a scegliere la distribuzione migliore o il principio migliore. La giustizia è anzitutto un ideale sociale o politico. Ideale, dal greco idea, significa figura visibile perfetta e ha delle affinità con il verbo latino videre. La forma della giustizia è data dalle istituzioni, e il proprio τέλος è di orientarci nel giudizio sulle cose politiche. Δίκη svolge la funzione di bussola, in quanto non solo serve da orientamento, ma riduce l’incertezza nel giudizio sulle istituzioni fondamentali e sulle pratiche sociali. L’incertezza genera una domanda di teoria, e le teorie della giustizia sono chiamate a rispondere al quid attraverso la giustificazione: l’essenza di una teoria politica normativa. L’incertezza, ad avviso di Veca, è un disvalore. Eppure ritengo che si possa rintracciare una doppia valenza concettuale del termine impiegato dal filosofo: l’incertezza possiede un significato positivo nella misura in cui costituisce il trampolino di lancio per le teorie della giustizia; ha un significato negativo nel momento in cui costituisce la piattaforma per le utopie della società perfetta che tendono ad annullare l’incertezza: le utopie della società perfetta non necessitano di giustificazione perché la scelta non è presente, ma imposta. Gli individui possono avanzare ragioni sulla giustezza delle giustificazioni. Le ragioni, poiché sono molteplici, necessitano di un confronto; e l’ambito dove ciò si può realizzare è quello del ragionevole, non del razionale. Qual è la differenza tra questi due concetti? Entrambi i termini derivano da ratio, facoltà di calcolare e di pensare. La comune derivazione etimologica non rinvia a un medesimo senso e John Rawls aiuta a coglierne la differenza: «è grazie al ragionevole che entriamo da uguali nel mondo pubblico degli altri, pronti a proporre o ad accettare, secondo i casi, 6 GATTI, Filosofia politica, cit., p. 93. F. SCIACCA, Ingiustizia vs. restrizione, in Libertà fondamentali in John Rawls, a cura di F. Sciacca, Presentazione di S. Veca, Giuffrè, Milano 2002, pp. 135-145, a p. 135. 8 S. VECA, La penultima parola e altri enigmi. Questioni di filosofia, Laterza, Roma-Bari 2001, p. 47. 9 VECA, Questioni di giustizia, cit., pp. 106-107. 7 5 equi termini di cooperazione con loro»10. Il ragionevole, concettualizzato da Rawls, ma anche da Veca, a differenza del razionale, ha un carattere pubblico: ciò è un evidente richiamo a Immanuel Kant. Eppure, Rawls specifica che i due concetti hanno bisogno l’uno dell’altro per potersi fondare: «Agenti puramente ragionevoli non avrebbero scopi propri da promuovere attraverso un’equa cooperazione; agenti puramente razionali non hanno il senso di giustizia e non sanno riconoscere la validità indipendente delle pretese altrui»11. Ciò che m’interessa per ora notare è che solo all’interno dello spazio del ragionevole gli individui possono guardare se stessi e gli altri dal punto di vista interno e da quello esterno: impersonale e personale costituiscono la duplice manovra di giustificazione nelle teorie della giustizia. Le ragioni impersonali si rivolgono agli individui adottando un punto di vista esterno: non considerano i tipi specifici di persone. Le ragioni personali, invece, considerano gli individui rispetto ai ruoli sociali che questi giocano: individui con motivazioni. La definizione di giustizia come ideale sociale accomuna sia Rawls sia Veca: entrambi hanno una concezione della giustizia come equità. Giustizia come equità vuol dire riconoscere che δίκη, la giustizia, si fonda sulla cooperazione tra gli individui. Questa è tuttavia una tra le tante concezioni di giustizia, il c.d. contrattualismo ideale di Rawls, che ho qui anticipato perché costituisce la pietra miliare della filosofia politica e delle teorie della giustizia. La giustizia non è, infatti, in sé, ma è variamente interpretata a seconda delle concezioni di giustizia. Se la giustizia è un ideale sociale sostanziale, l’ingiustizia ha il medesimo carattere: «Si dirà propriamente senso di ingiustizia nello spazio delle scelte e non in quello delle circostanze»12. Lo spazio delle scelte indica che il sociale è frutto delle scelte collettive su istituzioni e pratiche sociali che fissano i termini per una convivenza stabile. All’interno del noi condiviso, non vi è posto solo per le scelte ma anche per le circostanze. Tale spazio è opposto a quello delle scelte in quanto non dipende dalla volontà, ma è il luogo che fissa i vincoli per le scelte e ciò fa riferimento a necessità di natura storica e in qualche modo alla lotteria naturale e sociale. Αδικία si rintraccia nello spazio delle scelte, non in quello delle circostanze, e si verifica quando gli individui provano indignazione o risentimento perché esclusi dalla partecipazione alla vita sociale. Accanto a questa prima concettualizzazione dell’ingiustizia ne devo accostare un’altra per comprendere meglio la prima: il mancato riconoscimento da parte degli altri, dei partecipanti, fa scaturire indignazione. «Un mondo sociale fatto da altri è un mondo per noi straniero, un mondo 10 J. RAWLS, Liberalismo politico [1994], trad. di G. Rigamonti, Edizioni di Comunità, Milano 1994, p. 61. Ivi, p. 68. 12 S. VECA, La bellezza e gli oppressi. Dieci lezioni sull’idea di giustizia, Feltrinelli, Milano 2002, p. 131. 11 6 intrinsecamente non nostro»13. L’esclusione, la radice del senso di ingiustizia, non è un termine che può reggersi autonomamente: deve sempre essere legato alla clausola dell’eguale considerazione. Clausola deriva da claudere, chiudere: l’eguale considerazione è una clausola perché fissa la necessità di chiudere all’interno dell’esclusione un principio universale: l’eguaglianza di rispetto. Kant, dunque: l’uomo come persona «dev’essere riguardato non come un mezzo per raggiungere i fini degli altri e nemmeno i suoi propri, ma come fine in sé»14. Considerare la persona non come mezzo ma come fine rientra nel concetto più ampio di dignità che si esplicita nel rispetto di sé e degli altri. Le dimensioni dell’ingiustizia possono essere ricondotte alla forma distributiva e a quella identitaria15. L’ingiustizia, per Aristotele, è πλεονεξία che letteralmente indica aspirazione ad avere di più: «Commette ingiustizia chi distribuisce, e [...] chi riceve un di più non commette ingiustizia. Infatti, non commette ingiustizia colui riguardo al quale si dà l’ingiusto, ma colui riguardo al quale si dà il compiere l’ingiustizia volontariamente: questo è il principio da cui si origina l’azione, principio che sta in chi distribuisce e non in chi riceve»16. Quella identitaria è la peggiore forma di ingiustizia perché investe il concetto di persona: non gli interessi, ma l’identità. 3. I metodi delle teorie della giustizia Vi sono cinque classiche teorie della giustizia che presentano differenti concezioni di giustizia. Qui, adottando la strategia della ricostruzione, descrivo i lineamenti delle più famose teorie individuando i rispettivi metodi ed esplicitando il rapporto tra contenuti e metodi. L’utilitarismo è una teoria morale che risale al XVIII secolo e ha dominato il panorama delle teorie della giustizia. L’utilità è il principio cardine di giustizia ed è sia un concetto descrittivo che normativo. È un principio descrittivo giacché descrive la natura umana punto di partenza per la costruzione di una teoria morale e politica scientifica, ma che presuppone individui identici nello sperimentare i piaceri e i dolori. È un principio normativo poiché è assunto come regola di valutazione morale e orientamento per l’azione. Nelle parole di Jeremy Bentham: «Per principio di utilità si intende quel principio che approva o disapprova qualunque azione a seconda della tendenza che essa sembra avere ad aumentare o diminuire la felicità della parte il cui interesse è in questione; o che è lo stesso concetto in altre parole, a seconda della tendenza a promuovere tale 13 Ivi, p. 134. I. KANT, La metafisica dei costumi [1797], trad. di G. Vidari, Laterza, Roma-Bari, 20017, p. 294. 15 SCIACCA, Ingiustizia vs. restrizione, cit., p. 139. 16 ARISTOTELE, Etica Nicomachea, trad. di C. Natali, Laterza, Roma-Bari 20012, 1136b, p. 211. 14 7 felicità o a contrastarla»17. Bentham che è il padre dell’utilitarismo considera la molla di ogni azione l’interesse personale. Il metodo di Bentham è piuttosto riduzionistico giacché si tratta di ricondurre tutti i fenomeni ad un’unica causa che è l’interesse personale. Il filosofo quindi adotta, per utilizzare un’espressione di John Stuart Mill, il metodo deduttivo astratto tipico della fisica o della geometria. Ad avviso di Bentham, l’interesse della maggioranza coincide, di fatto, con quello dell’intera collettività. L’utilità è, dunque, il benessere collettivo valutato in base a una prospettiva aggregativa. Infatti, l’aggregazione – che è una somma di utilità individuali – dà come risultato l’utilità collettiva. Ciò che si somma sono interessi che identificano le preferenze degli individui. Questi ultimi sono i portatori d’interessi sovrani ed eguali e la politica pubblica deve soddisfare tali interessi sottoponendo istituzioni, norme e regole al vaglio del criterio dell’efficienza nel generare il saldo massimo di utilità. L’individuo così è concepito come razionale, perché tende a massimizzare l’utilità: l’individuo s’identifica con le preferenze che ha e la società è concepita come somma degli interessi. In questo contesto, la giustizia è interpretata come efficienza sociale basata sulla massimizzazione dell’utilità che è l’unico principio razionale che segna i confini tra ciò che è giusto e ingiusto: giusto è ciò che massimizza il bene e il bene è dato dagli interessi e preferenze di un individuo o può essere inteso come piacere o felicità pubblica: l’utilitarismo è, dunque, il metodo per raggiungere tale felicità. Ma entriamo più da vicino nella questione dei metodi. La concezione metodologica di Mill, figura di spicco del movimento filosofico positivistico, esemplifica al massimo grado il dibattitto relativo ai fondamenti della logica e del pensiero scientifico che si connettono all’utilitarismo di Bentham e all’empirismo di David Hume. In questo senso, l’opera di riferimento è Sistema di logica deduttiva e induttiva del 184318. La logica è una disciplina che è subordinata alla psicologia. Quest’ultima è una tecnica per pensare correttamente a partire dall’esperienza. L’elemento psicologico che dà vita alla logica è l’induzione. Tuttavia, Mill si distanzia dalla concezione classica che separa il ragionamento induttivo e deduttivo. Infatti, entrambi non portano a conclusioni universalmente valide per tutti ma sono solo generalizzazioni di casi particolari. L’induzione che deriva dall’esperienza non procede dal particolare all’universale ma dal particolare al particolare. Solo l’esperienza e la sperimentazione possono convalidare le inferenze induttive e la convalida avviene grazie al principio di uniformità dei fenomeni della natura sia nel campo delle scienze fisico-naturali sia in quello storico-sociale. Nelle scienze sociali si applica il metodo ipotetico17 J. BENTHAM, Introduzione ai principi della morale e della legislazione [1789], trad. di S. Di Pietro, Utet, Torino 1998, p. 90. 18 J.S. MILL, Sistema di logica deduttiva e induttiva [1843], a cura di M. Trinchero, Introduzione di F. Restaino, UTET, Torino 1988. 8 deduttivo come per le scienze naturali. Tuttavia, ad avviso di Mill, non si può applicare il metodo deduttivo astratto di Bentham perché i fenomeni sociali sono complessi. Si dovrà fare riferimento al metodo deduttivo concreto simile alle discipline empirico-probabilistiche che contemplano una molteplicità di cause per un fenomeno x, e non solo una. L’utilitarismo per Mill, non è basato come per Bentham sull’interesse personale ma sul perfezionamento spirituale dell’individuo. Il criterio non è quantitativo, ma qualitativo giacché lo scopo non è il piacere ma lo sviluppo del soggetto. Il contrattualismo di Rawls si situa sullo sfondo della tradizione del contratto sociale e nasce come alternativa e in contrapposizione all’utilitarismo. Le fondazioni etiche delle due teorie sono divergenti: per l’utilitarismo il bene è prioritario rispetto al giusto, per il contrattualismo è l’esatto contrario in quanto l’etica di riferimento è deontologica. Il τέλος di Una teoria della giustizia (1971) è quello di costruire una concezione ragionevole della giustizia per la struttura fondamentale della società. La giustizia, che è la prima virtù delle istituzioni sociali, secondo la celebre affermazione rawlsiana riguarda questo schema di cooperazione ed è intrinsecamente distributiva, non aggregativa. L’affermazione di Rawls implica alcune considerazioni che credo debbano essere sottolineate prima di affrontare la nozione di equità. Anzitutto l’utilizzo dell’espressione concezione ragionevole della giustizia, mi suggerisce di distinguere le diverse concezioni che gli individui possiedono della giustizia che dovrebbero modellare le istituzioni della società e che sono frutto delle rispettive concezioni del bene, dal concetto ragionevole di δίκη. Ciò ha come sottofondo il contrasto fra le pluralità dei concetti di giustizia degli individui, ed è per questo che è necessario un accordo attraverso il quale gli individui possano convergere verso un insieme di principi che assegnano diritti e doveri fondamentali, e distribuzione degli oneri e dei benefici della cooperazione sociale. La teoria di Rawls implica la condivisione dei principi della giustizia che danno forma agli assetti delle istituzioni e generano regole pubbliche che consentono di distribuire equamente oneri e benefici e non potrebbe essere altrimenti dato che oggetto della giustizia è la struttura base della società. Alla luce dei principi e delle regole si può giustificare o no una società. La teoria di Rawls non è completa perché riguarda la struttura fondamentale della società, considerandola un sistema non aperto, a tradizione democratica e a scarsità moderata. La giustizia non è un bene in sé ma è concepibile solo in presenza delle circostanze di giustizia: le condizioni per le quali si rende possibile e necessaria una cooperazione sociale. Evidente è il richiamo a Hume come Rawls afferma: «Le circostanze di giustizia: quelle soggettive consistono nella generosità limitata del nostro temperamento; quelle oggettive nell’instabilità del possesso dei beni esterni nel contesto 9 delle scarsità della natura»19. Nella teoria di Rawls entrano in gioco la circostanza soggettiva, l’egoismo moderato, e la circostanza oggettiva, la scarsità moderata. Se non si prendesse le mosse dalla nozione di scarsità, la giustizia sarebbe inutile o superflua. Obiettivo di Rawls è la condivisione dei principi di giustizia che sono alla base delle istituzioni fondamentali della società. Le parti a tal fine sono inserite nella c.d. posizione originaria, situazione astorica ove coperti da un velo d’ignoranza che li oscura su tutto (identità, status sociale, reddito, età, ecc), scelgono i due principi di giustizia in modo unanime e impersonale: Il primo: «Ogni persona ha un eguale diritto al più ampio sistema totale di eguali libertà fondamentali compatibilmente con un simile sistema di libertà per tutti»20. Il secondo: «Le ineguaglianze economiche e sociali devono essere: a) per il più grande beneficio dei meno avvantaggiati, compatibilmente con il principio del giusto risparmio, e b) collegate a cariche e posizioni aperte a tutti in condizioni di equa eguaglianza di opportunità» 21. Il primo stabilisce la libertà ed è prioritario rispetto al secondo in quanto la libertà si può limitare in nome della libertà stessa. Il secondo stabilisce il principio di differenza in quanto prescrive quali ineguaglianze sono moralmente accettabili: le ineguaglianze permesse nella distribuzione sono quelle che vanno a vantaggio del più svantaggiato. Il secondo principio contiene a sua volta due clausole, il principio del giusto risparmio e il principio dell’equa eguaglianza di opportunità, e la sua sfera di applicazione è la distribuzione eguale di beni primari. I due principi che modellano così la società giusta non fanno altro che mitigare la sorte sociale, non quella naturale. Il metodo utilizzato da Rawls è quello dell’equilibrio riflessivo che si verifica all’interno della posizione originaria cioè della posizione iniziale di scelta in cui risiedono le parti. Il metodo rawlsiano è importante per il contenuto stesso della sua teoria: se non ci fosse la posizione originaria con il suo metodo, tutta la teoria di Rawls sarebbe vana. Il concetto di equilibrio riflessivo che è poi equilibrio cooperativo22 deriva dall’epistemologia analitica di Nelson Goodman che ha riformulato il metodo dell’induzione23. Per Goodman ha senso parlare di metodo induttivo solo se si specifica il contesto cioè dipende dal modo in cui è stato previsto e descritto il mondo di riferimento e ciò ha il suo imprescindibile aggancio con il linguaggio. Le inferenze induttive non derivano da 19 J. RAWLS, Lezioni di storia della filosofia morale, [2000], trad. di P. Palminiello, a cura di B. Herman, Nota all’edizione italiana di S. Veca, Feltrinelli, Milano 2004, p. 64. 20 J. RAWLS, Una teoria della giustizia [1971], trad. di U. Santini, revisione e cura di S. Maffettone, Feltrinelli, Milano 19976, p. 255. 21 Ibidem. 22 F. SCIACCA, Ingiustizia politica, Giuffrè, Milano 2003, p. 22. 23 Ivi, p. 18. 10 quanto si è osservato nel passato, ma diventano previsioni24. Il problema dell’induzione dunque si riformula come questione della validità dei giudizi intorno al futuro25. In Rawls, l’equilibrio riflessivo è una forma di meditazione, dove le intuizioni si bilanciano con i principi e le credenze. Ciò richiede la condivisione di alcune premesse linguistiche, psicologiche ed epistemologiche da parte delle parti. L’equilibrio è tale se si raggiunge il bilanciamento tra tutti questi elementi ove i principi degli individui coincidono con i loro giudizi ponderati. Esso è mutevole poiché è aperto ad ulteriori riflessioni che potrebbero portare a riformulare i nostri giudizi, ma è questo metodo che consente l’accordo tra le parti. Il comunitarismo, nelle sue variegate formulazioni, nasce come critica delle teorie liberali e libertarie della giustizia. Il metodo, anzitutto, è dunque quello della critica filosofica. Con ciò i comunitaristi riprendono, per così dire, il metodo cartesiano della pars destruens del famoso Discorso sul metodo26. Mancano, tuttavia, a mio avviso, di una pars construens. Il punto cardine dei comunitaristi, il cui massimo esponente è Michael Sandel27, è l’esigenza del riconoscimento di un qualcosa che è estraneo alla metodologia dell’individualismo liberale secondo il quale i fenomeni collettivi si spiegano e comprendono a partire dagli individui 28: l’identità collettiva che deriva dall’appartenenza a una comunità ove le persone si riconoscono nella condivisione di una comune tradizione e concezione del bene è, al contrario, l’elemento centrale del comunitarismo. L’identità collettiva è stabile nel tempo se gli individui condividono il bene comune, e non principi neutrali e impersonali. Dunque, la possibilità del bene limita i confini della giustizia e disegna una società buona. La radice del comunitarismo si ritrova nella visione aristotelica di comunità giacché anche Aristotele definiva l’uomo un animale politico destinato alla vita comunitaria. Il pluralismo «sembra situarsi a metà strada fra egualitarismo democratico e comunitarismo» 29. Per Michael Walzer, figura di spicco del pluralismo, la giustizia distributiva ha a che fare con i beni sociali che sono beni il cui significato è socialmente e storicamente condiviso all’interno di un determinato contesto30. Dunque, la sua metodologia non è costruttivista come quella di Rawls, ma 24 N. GOODMAN, Fatti, ipotesi e previsioni [1983], Prefazione di H. Putnam, trad. di C. Marletti, Laterza, Roma-Bari 1985. 25 G. BONIOLO, P. VIDALI, Introduzione alla filosofia della scienza, Bruno Mondadori, Milano 2003. 26 CARTESIO, Discorso sul metodo [1637], trad. e note di M. Renzoni, Introduzione di C. Sini, Mondadori, Milano 20008. 27 M.J. SANDEL, Il Liberalismo e i limiti della giustizia [1982], trad. S. D’Amico, Feltrinelli, Milano 1994. 28 Sulla metodologia individualistica si può vedere il bel libro di L. UDEHN, Methodological individualism. Background, history and meaning, Routledge, London 2001, pp. 337-339. 29 S. VECA, La filosofia politica, Laterza & Figli, Roma-Bari 20102, p. 85. 30 M. WALZER, Sfere di giustizia [1983], trad. di G. Rigamonti, Laterza, Roma-Bari 2008. 11 segue la via dell’interpretazione e della critica sociale31. Così, «la comunità normativa coincide, potremmo dire, con la comunità interpretante del paesaggio della polis»32. Poiché esistono svariati beni sociali, la teoria dovrà preoccuparsi di fornire una pluralità di principi distributivi corrispondenti alle diverse sfere alle quali appartengono i beni sociali. Dunque, ogni bene ha una sfera distributiva e non è possibile identificare criteri validi universalmente in ogni società. L’arte della separazione risalente a Montesquieu e che rappresenta una riformulazione del liberalismo, è , per così dire, il metodo utilizzato da Walzer e si riferisce alla divisione tra le diverse arene e risorse sociali. Questo metodo ha innovato la metodologia in filosofia politica giacché ha cambiato l’immagine tradizionale di giustizia distributiva: si tratta, infatti, di «tracciare i confini tra le sfere sociali»33. Il pluralismo, non il relativismo, dei principi distributivi è un’idea che meglio risponde alla complessità della società e alla valutazione normativa delle istituzioni. La complessità sconvolge i modelli dell’eguaglianza semplice. Il libertarismo si contrappone al contrattualismo che vede lo stato nascere da un accordo e lo concepisce, invece, come un’agenzia di controllo monopolistica dei cittadini, il cui compito risiede nel proteggere i diritti individuali. La metodologia di ricerca è quindi, come per i liberali, individualistica: sono gli individui, non i gruppi, al centro della riflessione politica. Lo stato, per Nozick, si giustifica con la formazione di associazioni protettive dominanti alle quali aderiscono spontaneamente i cittadini e da cui emerge progressivamente il nucleo dello stato. Esso deve esser minimo, cioè, limitato alle funzioni di protezione contro la violenza, furto e frode, di tutela dei contratti e «qualsiasi tipo di stato più esteso finisce con il violare i diritti delle persone a non essere costrette a fare certe cose, ed è ingiustificato»34. Dunque, da un lato, è criticato lo stato massimo, che attribuisce allo stato funzioni di redistribuzione della ricchezza, dall’altro, gli anarchici, che progettano l’eliminazione dello stato. Lo stato minimo è, al contrario, auspicabile oltre che giusto ed è l’ideale utopico del filosofo che stravolge la metodologia basata sull’accordo tra le persone per fondare lo stato. Nozick fonda la sua tesi sui diritti naturali inviolabili lockeani. La riflessione politica del filosofo inglese del Settecento John Locke sullo stato si basa sul fatto che gli individui non rinunciano alla loro libertà a favore dell’autorità sovrana, ma lo stato ha il compito di tutelare il diritto alla vita, i diritti di libertà e di proprietà. Nozick muove da un fondamentale assunto secondo 31 M. WALZER, Interpretazione e critica sociale [1987], a cura di A. Carrino, Lavoro, Roma 1990. S. VECA, La bellezza e gli oppressi. Dieci lezioni sull’idea di giustizia, Edizione ampliata, Feltrinelli, Milano 2010, p. 82. 33 VECA, La filosofia politica, cit., p. 90. 34 R. NOZICK, Anarchia, stato e utopia. Quanto stato ci serve? [1974], trad. di G. Ferranti, Presentazione di S. Maffettone, Net, Milano 2005, p. 17. 32 12 il quale «gli individui hanno diritti: ci sono cose che nessuno, persona o gruppo, può fare loro (senza violarne i diritti)»35. La forza di questi diritti è di essere negativi e l’eguaglianza morale è istituita all’interno dello spazio della libertà negativa, cioè, i diritti della persona si tutelano lasciando agli individui la libertà di amministrarli. Così, i diritti, «vanno intesi come vincoli collaterali alle azioni. Noi non applichiamo i criteri di valutazione a cose come conseguenze o stati del mondo: noi valutiamo propriamente classi di azioni accertando se esse siano ex ante coerenti con il principio della libertà negativa, indipendentemente dalle conseguenze sugli stati del mondo»36. Ciò ci fa cogliere un dato importante nella visione libertaria: essa non è una teoria distributiva, giacché non fornisce dei principi per giustificare una giusta distribuzione come, al contrario, è proposto dal modello utilitaristico e dalla teoria contrattualistica. L’obiettivo del libertario non è di giustificare distribuzioni, ma le proprietà che sono legittimamente nelle mani degli individui. Nozick ha affrontato la questione dei metodi negli studi relativi all’epistemologia 37. Qui mi preme sottolineare che il metodo di Nozick non si avvale né del ragionamento deduttivo né di quello induttivo. A suo avviso, entrambi i metodi hanno come obiettivo la prova o dimostrazione della verità delle tesi filosofiche sostenute da un autore ma «il metodo della dimostrazione, nella sua versione pura, non è così amico della verità come sarebbe potuto apparire» 38 poiché le premesse di un filosofo «non sono costruite in alcun modo su fondamenti certi e inalterabili»39. Se è così, ogni concezione è sottoposta al dubbio e alla trasformazione. Proprio per questo, Nozick abbandona la logica tradizionale per sostenere le sue tesi con un metodo alternativo che si basa su escursioni filosofiche ove si sottopongono i concetti e le concezioni al vaglio della plausibilità 40. «Questo metodo non traccia un unico sentiero»41 ma apre alle possibilità. 4. Locale vs. globale e dubbi metodologici I concetti di locale e globale rimandano alla questione dei confini. Infatti, cosa vogliono dire locale e globale? Dove iniziano e dove finiscono? Il problema dei confini è certamente politico. In filosofia politica si è giunti a un accordo ontologico condiviso dalla comunità accademica che ha 35 Ibidem. VECA, La filosofia politica, cit., p. 73. 37 Rimando all’opera di R. NOZICK, Spiegazioni filosofiche [1981], trad. di G. Rigamonti, Il Saggiatore, Milano 1987, ove il filosofo propone una teoria esternista della conoscenza. 38 R. NOZICK, Invarianze. La struttura del mondo oggettivo [2001], trad. di G. Pellegrino, Fazi, Roma 2003, p. 6. 39 Ivi, p. 5. 40 Ivi, p. 6. 41 Ibidem. 36 13 stabilito che il locale si riferisce allo Stato-nazione e il globale designa la costellazione postnazionale o internazionale. Molto spesso il termine “globale” coincide con quello di “cosmopolitismo” che non ha a che vedere con le istituzioni internazionali, ma con gli individui. All’interno della dimensione locale, le teorie della giustizia si confrontano per trovare una fondazione per istituzioni politiche dello Stato-nazione. Si presuppone che questo abbia dei confini chiusi. Dagli anni ottanta del Novecento l’aspetto locale è stato adombrato nei discorsi teorici sulla giustizia perché il vero dilemma dei filosofi politici è stata la discussione sulle modalità di estensione dei criteri di giustificazione al di là dei confini nazionali. La dimensione globale getta luce sul fatto dell’ingiustizia e dell’ineguaglianza nel mondo. Dunque si riformula nei termini della questione dell’universalismo. Quale teoria, tra quelle analizzate nel paragrafo precedente, è la migliore per la dimensione globale? Quale metodo è il più adatto? L’utilitarismo «è il miglior candidato all’estensione»42. Infatti, si tratta di una dottrina morale che è indipendente dai confini o dai contesti centrata sulla minimizzazione della sofferenza socialmente evitabile43. Tuttavia, non possiede un nucleo di valori politici e dunque non si occupa di tutela dei diritti. Proprio per questo è estendibile al di là dei confini ma non pare il migliore giacché «siamo tenuti a specificare un sottoinsieme di valori politici» 44. Il pluralismo sarebbe invece una catastrofe: «l’estensione al di là dei confini della comunità pluralistica implicherebbe una catastrofe nella stabilità dei significati sociali condivisi dei beni» 45. Il comunitarismo si rivela altrettanto catastrofico in quanto difende un noi che ha le sue radici nel concetto di comunità locale. Così facendo però «sembra che il comunitarismo non prenda sul serio la sfida della globalizzazione46. Il libertarismo invece con la concezione dello Stato minimo si presenta come più adatta all’estensione in ambito globale giacché lo status di cittadinanza non è centrale per la teoria47. Problematica è l’estensione del contrattualismo rawlsiano. Esso, infatti, vale per i sistemi chiusi. Rawls nel 1999 ha tentato di estendere la sua teoria della giustizia nell’opera Il diritto dei popoli48. Il filosofo americano estende la posizione originaria e i principi di giustizia all’arena internazionale e riassume bene le due condizioni necessarie affinché una concezione liberale di giustizia sia realistica: «La prima è che deve fare assegnamento sulle leggi naturali effettive e conseguire il genere di stabilità che quelle leggi permettono, ossia una stabilità per ragioni giuste. Esso considera 42 S. VECA, Della lealtà civile. Saggi e messaggi nella bottiglia, Feltrinelli, Milano 1998, p. 86. Ivi, p. 86. 44 Ibidem. 45 Ivi, p. 81. 46 Ivi, p. 82. 47 Ivi, p. 86. 48 J. RAWLS, Il diritto dei popoli [1999], trad. di G. Ferranti e P. Palminiello, Edizioni di Comunità, Torino 2001. 43 14 le persone come sono (sulla base delle leggi naturali) e le leggi costituzionali e civili come potrebbero essere in una società democratica giusta e bene ordinata»49. Tuttavia, nella dimensione globale non è possibile estendere il principio di differenza, ma la sua proposta di estensione riguarda il principio della libertà diversamente riformulato50. Così non vi è ancora in filosofia politica una teoria della giustizia globale, ma i filosofi politici contemporanei si pongono questo quesito elaborando progetti cosmopolitici. Tale questione rimane, tuttavia, come ha efficacemente affermato Veca un rompicapo: «In che cosa consiste il rompicapo dell’estensione? La risposta è più o meno questa, come sappiamo: ci si chiede se sia possibile estendere criteri o principi di giustificazione, elaborati e apprestati e difesi in riferimento al versante interno delle comunità politiche, al di là dei confini, all’arena internazionale. Ci si chiede ancora: se ciò è possibile, come è possibile? Come soddisfare quanto richiesto dalla massima “globalizzare la giustizia sociale”?»51. Vorrei tuttavia porre dei dubbi sul metodo dell’estensione. Una prima domanda è la seguente: possiamo trapiantare i principi di giustizia pensati per la dimensione locale nell’ambito globale? Vi è, infatti, un’ampia difficoltà nel concepire le medesime categorie anche a livello globale. Allora ci si potrebbe chiedere: il metodo dell’estensione è adeguato? Questo quesito getta luce su un problema di metodo. Il metodo dell’estensione produce un rompicapo perché genera esiti paradossali. Non sarebbe meglio cercare una teoria globale diversa senza estendere le teorie della giustizia elaborate in ambito locale? Nuove teorie richiederebbero però nuovi metodi. 5. Dilemmi sul non detto. Verso l’abbandono della purezza metodologica Le teorie della giustizia hanno nuove sfide da affrontare e un nuovo vocabolario da riformulare. Prima di tutto vi è la sfida del multiculturalismo. Poi, quella poco conosciuta delle questioni concernenti la salute. Ai nuovi temi dovranno corrispondere nuovi metodi, ma quali? Il multiculturalismo fa riferimento alla coesistenza di più culture all’interno di uno stato. Non ci può essere una coesistenza pacifica senza integrazione e tolleranza ed è proprio questo il punto. La convivenza tra più culture crea conflitti e tensioni giacché provoca la richiesta di diritti e di interessi. I conflitti identitari, dunque, sono al centro del multiculturalismo. Come trovare valori comuni anche minimi da condividere? Le teorie della giustizia non aiutano molto ad affrontare una 49 Ivi, p. 17. VECA, Della lealtà civile, cit., p. 81. 51 Ivi, p. 92. 50 15 simile sfida perché non hanno gli strumenti adeguati. Infatti, è possibile rintracciare due prospettive filosofiche: da un lato l’argomentazione comunitaria, dall’altro quella liberale. Secondo la prima, il cui il maggior esponente è il filosofo Charles Taylor, il multiculturalismo designa il riconoscimento dei valori di una comunità e di quelli individuali ma i primi sono superiori ai secondi perché il tutto è maggiore delle parti. Questa prospettiva, dunque, risolve in tal modo i potenziali conflitti. L’argomentazione opposta al comunitarismo, è la prospettiva liberale sostenuta da filosofi politici come Joseph Raz e Will Kymlicka secondo i quali il multiculturalismo liberale è fondato sul pluralismo di valori intesi come universali. Ma in realtà nessuna delle due opposte prospettive è riuscita ad affrontare la sfida del multiculturalismo giacché come sostiene efficacemente Maria Laura Lanzillo «il multiculturalismo, nonostante tutte le critiche che rivolge al liberalismo classico, argomenta ancora secondo la stessa strategia di neutralizzazione astratta delle differenze che connota il pensiero liberale da John Locke in poi, e ripropone lo stesso sguardo indifferenziato sia di fronte alle differenze fra gli individui sia di fronte alle differenze all’interno dei gruppi stessi» 52. Dunque, occorrono nuove teorie riguardanti il multiculturalismo che riescano a superare i limiti delle proprie tradizioni. Il superamento di questi limiti dovrebbe portare a rielaborare un nuovo concetto di libertà che oltrepassi il paradigma conservativo53. Nuovi concetti, nuovi vocaboli, nuove argomentazioni: le teorie della giustizia hanno bisogno di rinnovarsi. In particolare, le teorie della giustizia hanno messo da parte un’altra sfida: hanno bandito dal proprio vocabolario la parola “salute”. Esse, infatti, si preoccupano di distribuire diritti, risorse economiche, libertà civili e politiche, opportunità, ma nessuna si occupa di salute in modo specifico. Nel 2012, il filosofo politico Lawrence Becker dell’Università Hollins della Virginia, accortosi di tale assenza, sostiene che la salute dovrebbe, invece, essere un interesse indipendente e autonomo al pari delle altre questioni di giustizia54. È difficile attribuire alla salute un ruolo secondario rispetto agli altri beni55. Ciò è dovuto al fatto che avere una buona, non perfetta, salute è anche un modo per accedere e utilizzare gli altri beni e diritti. Amartya Sen, che ha dato rilevanza alla salute all’interno dell’approccio delle capacità, scrive: «Possiamo fare davvero poco se siamo disabili o costantemente afflitti da malattie, o se siamo morti»56. Per questo motivo la salute dovrebbe essere una questione di giustizia sociale, non solo perché collegata alle opportunità o al benessere, ma 52 M.L. LANZILLO, Il multiculturalismo: problema o soluzione per l’Europa politica? in F. Sciacca (a cura di), Le libertà in Occidente, Rubbettino, Soveria Mannelli 2011, pp. 59-84, p. 75. 53 Ivi, p. 82. 54 L.C. BECKER, Habilitation, health, and agency. A framework for basic justice, Oxford University Press, Oxford 2012, p. 20. 55 Ibidem. 56 A. K. SEN, Why health equity?, in Health Economics, 11, 2002a, pp. 659-666, p. 663 (trad. mia). 16 giacché è strettamente legata alla libertà sostanziale e reale delle persone. La mia attività di ricerca si concentra proprio sulla possibilità di affrontare tale sfida sia nella dimensione locale sia in quella globale. In generale, si può dire che le nuove sfide impongono nuove riflessioni e soprattutto metodi innovativi che necessitano di abbandonare la purezza metodologica propria di ciascuna disciplina per tentare di elaborare “metodi di confine” tra le discipline. Così, l’abbandono della purezza metodologica può portare alla creazione di nuovi metodi giacché la conoscenza diviene e così anche i metodi. Per esempio, nel caso della salute che è per lo più affrontata in ambito bioetico, si può esplorare il confine che separa la parte della bioetica che si occupa delle questioni politiche (come i dilemmi distributivi che riguardano l’assistenza sanitaria) e la filosofia politica. Questo metodo, parafrasando Nozick, permetterà di esplorare vie differenti. 17 BIBLIOGRAFIA ARISTOTELE, Etica Nicomachea, trad. di C. Natali, Laterza, Roma-Bari 20012. BECKER, L.C., Habilitation, health, and agency. A framework for basic justice, Oxford University Press, Oxford 2012. 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