Angela Maria Andrisano
Dieci domande a Claudio Longhi, regista di Prometeo
(Siracusa, maggio-giugno 2012)
Abstract
Ten answers of Claudio Longhi, director of Prometeo (Siracusa, maggio-giugno 2012) to an
interview of Angela Maria Andrisano.
Claudio Longhi risponde a dieci domande di Angela Maria Andrisano sullo spettacolo
Prometeo (Siracusa, maggio-giugno 2012) di cui ha curato la regia.
Lo spettacolo Prometeo, messo in scena da Claudio Longhi, ha aperto venerdì 11
maggio 2012 la stagione dell’Istituto Nazionale del Dramma Antico (I.N.D.A.). Si è
trattato di un esordio salutato con entusiasmo dalla stampa e dal pubblico, come
testimoniano le condivisibili considerazioni di Giuseppe Liotta, pubblicate sulle News
(12 luglio 2012) della nostra rivista. Lo spettacolo colto e raffinato, che ha senz’altro
superato lo standard impostosi nelle rappresentazioni siracusane degli ultimi anni, si è
avvalso di un’ottima traduzione messa a punto da Guido Paduano, filologo illustre che
al teatro greco e latino ha dedicato gran parte della sua cospicua produzione scientifica.
Sono numerose le questioni da affrontare per chi voglia vincere la sfida che la
messinscena di una tragedia greca impone. I risultati ottenuti da Claudio Longhi
coinvolgono lo spettatore, lo incuriosiscono, inducono a volerne sapere di più.
Ho dunque incontrato il regista che con gentile disponibilità ha risposto alle mie
domande.
1. Claudio, in primo luogo come hai letto questo testo classico, lontano da noi quasi
2500 anni e pur vicino perché giocato sul mito del progresso, di cui Prometeo è il
portavoce per antonomasia? E che relazione hai cercato con il pubblico “instabile”
e variegato del teatro di Siracusa?
Come tu stessa implicitamente suggerisci con la tua domanda, il mio rapporto con
Prometeo si è venuto sviluppando lungo due assi paralleli e complementari: quello della
distanza e quello della prossimità. Per un verso la tragedia s’impone al fruitore per una
sua attualità che non esiterei a definire “bruciante”. Il progresso, ad esempio, una delle
figure dominanti del nostro immaginario culturale, è indiscutibilmente anche una delle
chiavi di volta drammaturgiche del copione, ma non è soltanto il tema del progresso a
renderci così prossima la drammaturgia del Prometeo. A ben vedere la tragedia ci parla
di un mondo precario, di un mondo in perpetuo divenire: un mondo in cui Zeus ha da
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poco assunto il potere e in cui però Zeus è minacciato da un’incombente catastrofe; un
mondo in cui Io ha smarrito la sua forma e brancola lungo l’incerto crinale che oppone
la bestialità all’umanità… Tenendo presente l’importanza delle Oceanine nell’economia
generale del testo, potremmo dire che il mondo del Prometeo è un mondo “liquido”.
Orbene se poniamo mente all’utilizzo che di questo aggettivo ha fatto Bauman negli
ultimi anni, elevandolo a paradigma concettuale privilegiato per l’interpretazione del
mondo contemporaneo, ci è subito chiaro quanto il Prometeo sia vicino alla nostra
“società dell’incertezza”, intimamente rosa dal dubbio e insidiata da mille paure. D’altra
parte, però, i venticinque secoli circa che ci separano dal debutto della tragedia hanno
scavato un abisso incolmabile tra noi e quelle parole lontane, marcando una perdita
insopprimibile e insuperabile. Il mio rapporto con il copione è nato proprio qui:
dall’incrocio problematico tra l’urgenza di un discorso teatrale del passato che punta al
cuore del nostro tempo e la sua radicale alterità. Nel tentare di dirimere questa aporia,
una figura di riferimento è stata per me Sanguineti, la cui “teoria” della classicità ormai
da anni ha condizionato il mio rapporto con il mondo greco-latino. Come è noto, il
classico per Sanguineti non è portatore di una perpetua attualità, ma vive piuttosto della
sua evidente inattualità. Il classico può anche affrontare un tema “presente”, ma lo tratta
dal punto di vista del suo “passato”, restituendoci così un’immagine complessa e non
pacificante o pacificata della nostra contemporaneità. Il classico ci è maestro di
storicismo, poiché ci insegna concretamente il divenire della storia. Il classico è in
fondo portatore di un messaggio rivoluzionario, perché ci insegna che il mondo è
cambiato e ci dà quindi speranza nel fatto che il mondo possa ancora cambiare.
Venendo al caso specifico di Prometeo, per liquidare la questione con una formula
svelta potrei dire che la tragedia ci parla di un mondo privo di sicurezze come il nostro,
ma questa sua angosciosa mutevolezza nulla ha a che vedere con la nostra “precarietà”.
D’altra parte è però pur vero che lo sguardo remoto che Prometeo getta sulla perpetua
trasmutabilità del mondo ci aiuta a capire meglio il nostro tempo così diverso da quello
del mito perché ci aiuta storicizzare – e così facendo ci aiuta a reagire. È per questa via
che anche un testo così fortemente orientato in direzione “conservatrice” come
Prometeo può assumere una valenza rivoluzionaria. Ragionamenti analoghi li potrei
ovviamente ripetere per quanto attiene il tema del progresso, sempre in bilico (nel
Prometeo come nel nostro mondo) tra pulsione all’emancipazione dell’umano dal
divino e tentazioni teleo-/teologiche, tra pathos delle nuove conquiste e inquietante
percezione del rapporto strettamente simbiotico che lega il trascorrere del tempo alla
decadenza e alla corruzione.
Sulla base di questi presupposti sono venuto costruendo pure il mio rapporto con
il pubblico “instabile” di Siracusa. Sarà banale e scontato, ma la prima preoccupazione
che ho avuto nel mettere in scena il testo al Teatro Greco è stata quella di aiutare il
pubblico a capire e per farlo ho cercato essenzialmente di catturare l’attenzione dello
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spettatore. Il Teatro Greco è uno spazio teatrale magnifico, ma difficilissimo da domare
per le condizioni ricettive che impone. Per la configurazione fisica del luogo, per
esempio, il margine di distrazione degli spettatori è altissimo e in un presente segnato da
una evidente difficoltà di mantenere la concentrazione, questa spinta alla distrazione
insita in quello spazio è pericolosissima. La preoccupazione incessante, mia e di tutto il
gruppo di lavoro, è stata dunque di mettere a fuoco, di di-spiegare le pieghe del testo, al
limite della maniacalità. L’obiettivo era trovare un giusto equilibrio tra l’ascolto e la
visione, che consentisse al pubblico di mantenere l’attenzione e seguire così la
rappresentazione. Per questa via l’intento era, naturalmente, di far riflettere gli spettatori
su miti e paure del mondo perduto di Prometeo per meglio capire i nostri miti e le nostre
paure.
2. Il titolo dello spettacolo è Prometeo, l’autore indicato Eschilo, le informazioni
fornite al pubblico parlano di «datazione incerta» e di probabile composizione
«negli anni ’60 del V sec. a.C.». In realtà, come forse sai, sono ormai pochi gli
studiosi che rimangono affezionati alla paternità eschilea. Sono tantissimi gli
elementi, non ultimi quelli spettacolari, che inducono ad una datazione bassa
(ultimo trentennio del V sec.). Si direbbe che, nonostante tutto, tu ne abbia tenuto
conto. È così?
Come ben sai non sono un filologo in senso stretto, ho però cercato di documentarmi
rispetto al vivace e sostanzialmente irrisolto dibattito scatenatosi tra i grecisti intorno
alla dubbia paternità del Prometeo già dalla metà del XIX secolo. La stessa tradizione di
rappresentazioni classiche siracusane in proposito è ondivaga: per restare ai due ultimi
allestimenti della tragedia targati I.N.D.A., possiamo vedere come nel 2002 il Prometeo
incatenato diretto da Luca Ronconi su traduzione di Dario Del Corno, spettacolo in cui
tra l’altro ero coinvolto come regista assistente, venisse apertamente attribuito ad
Eschilo, mentre nel 1994 il Prometeo diretto da Calenda, in una traduzione della Scuola
di Teatro dell’I.N.D.A. condotta sotto la direzione di Benedetto Marzullo, fosse
attribuito ad un non meglio identificato «maestro del Prometeo». Riguardo al quesito
che tu mi poni, da regista posso risponderti che la commissione ricevuta dall’Istituto
Nazionale del Dramma Antico mi vincolava alla messa in scena del Prometeo di
Eschilo, personalmente posso invece dire di non avere una sufficiente competenza
filologica per azzardare prese di posizioni drastiche. Sono tutto sommato allineato a
quanti ritengono che – allo stato attuale delle conoscenze – sia pressoché impossibile
sciogliere incontrovertibilmente il mistero della genitura della tragedia. Ti dirò di più,
ad essere sincero trovo emozionante che in un canone come quello occidentale,
letteralmente dominato negli ultimi secoli dall’ossessione della paternità autoriale, si sia
imposto tra i primi e fondamentali “campioni” di riferimento un testo di incerta
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attribuzione come il Prometeo. Più che alla volontà di prendere posizione in seno al
dibattito sulla paternità e sulla datazione dell’opera, l’innegabile attenzione agli
elementi spettacolari della tragedia che tu stessa notavi al fondo della nostra messa in
scena è legata ad una forte attenzione alla datità testuale del Prometeo (dramma in cui
gli elementi spettacolari sono oggettivamente molti e clamorosi) e alla necessità di
vincere l’imponenza dello spazio del Teatro Greco – luogo magnifico ed entusiasmante,
ma capace di fagocitare, in virtù della sua propria forza, qualsiasi azione scenica venga
chiamato ad ospitare.
3. Ma veniamo alla questione del coro, elemento centrale della tragedia classica, e
dunque al rapporto tra spazio “classico” (a tua disposizione a Siracusa) e “regia
contemporanea”. Hai moltiplicato il numero dei coreuti (erano al massimo
quindici, come sai), enfatizzando la componente spettacolare della tragedia. Come
hai lavorato sulla “situazione” drammaturgica e scenica del coro?
Per certi aspetti potrei dire che, portando in scena il Prometeo, quello che abbiamo
cercato di raccontare è stato proprio il “romanzo della formazione” del coro. A petto
della statutaria fissità del personaggio di Prometeo, inchiodato prima ancora che alla sua
roccia alle sue posizioni etiche e ideologiche, il coro delle Oceanine subisce nel corso
della tragedia una profonda trasformazione. Dallo stato d’incertezza e paura con cui le
figlie di Oceano entrano in scena quasi all’inizio del dramma, si approda nell’epilogo
alla violenta presa di posizione del coro contro il «galoppino di Zeus», Ermes, con il suo
fatale carico di profezie e minacce. È a questa parabola evolutiva che, forse, viene
affidato il messaggio politico più forte del testo – per altro, si badi, tutto
ideologicamente arroccato su posizioni filoaristocratiche e poco incline ad aprirsi alla
novità di governo… Partendo da questa semplice constatazione, senza naturalmente
scalfire la centralità del protagonista, il nostro tentativo è stato quello di riportare al
centro della tragedia il coro, raccontandone paure, dubbi, curiosità, angosce e possibilità
di riscatto.
Poiché Prometeo ci riferisce di un universo dissestato, di un universo sconvolto da
una catastrofe che si è appena lasciato alle spalle e minacciato da una nuova catastrofe
che incombe all’orizzonte, di un universo in cui la grandezza del passato degli dèi
“antichi” è stata scalzata dalla piccineria e dalla meschinità degli dèi “nuovi”, abbiamo
immaginato che le Oceanine, creature acquatiche per eccellenza, si trovassero
precipitate in un mondo desertificato. Le nostre Oceanine vivono in uno spazio privo
d’acqua, o nel quale la poca acqua rimasta è lorda e contaminata, uno spazio che nel
nostro presente potrebbe richiamare il disastro della Deepwater o il surriscaldamento del
pianeta. Sono creature sporche e pietrificate, fondali marini più che correnti d’acqua.
Viaggiano portandosi appresso delle anfore, quasi fossero preziose reliquie, mi si passi
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il termine, del loro passato “umido”. Dal loro apparire in scena all’altezza della parodo
fino all’epilogo, le Oceanine non abbandonano mai il recinto dell’orchestra. Nella
nostra messa in scena erano loro, anzi, a scomparire per ultime allo sguardo degli
spettatori sul finale dello spettacolo, quasi a sottolineare la forza della posizione da esse
progressivamente acquisita sul filo dell’azione.
Ovviamente nella costruzione della figura delle Oceanine un peso determinante è
stato assunto dal movimento. Dico ovviamente perché nella messa in scena siracusana
del Prometeo ho avuto il privilegio di avvalermi della collaborazione della Martha
Graham Dance Company: nello spettacolo lavoravano infatti dieci danzatrici della
prestigiosa compagnia americana. Sarà bene precisare che la presenza del corpo di ballo
nello spettacolo non è stata frutto di una mia scelta. Il rapporto con la Martha Graham è
nato infatti da una decisione dell’Istituto Nazionale del Dramma Antico precedente al
mio arrivo in veste di regista. Sia chiaro: questa puntualizzazione non vuole significare
una presa di distanza dalla scelta – tutt’altro! Semplicemente non voglio arrogarmi
meriti che non ho (o idee che non ho avuto). Poiché il coro prevedeva una cospicua
presenza di danzatrici, regola fondativa della sintassi comunicativa delle Oceanine non
poteva che essere il movimento. Con Janet Eilber, la coreografa della Compagnia,
abbiamo allora cercato un vocabolario di azioni capaci di raccontare il dramma del coro,
ossia la sua presa di consapevolezza. In questa ricerca di una lingua del movimento, gli
stasimi ci sono sembrati i luoghi deputati ad azioni di tipo rituale capaci di render conto
della fortissima presenza del divino nella tragedia – il Prometeo, non lo si deve
dimenticare, è una tragedia di dèi –, così come di dilatare il tempo della
rappresentazione allargando la stretta misura della drammaturgia effettivamente agita ai
tempi sterminatamente lunghi che in essa sono raccontati.
4. Chi legge il testo di Prometeo incatenato immagina generalmente l’eroe
“crocefisso” in posizione statica, una posizione funzionale a sottolineare il
peregrinare di Io, personaggio femminile che ha un carattere simbolicamente
opposto a quello dell’eroe. Tu hai fatto un’altra scelta. Hai messo tutto in
movimento in sintonia con la costruzione ellittica della scena di Oma*Amo/Rem
Koolhaas. Perché?
La collocazione di Prometeo in scena è una delle questioni più spinose che si trova a
dover affrontare chi intenda allestire oggi la tragedia. Ovunque lo si posizioni, in
ragione della fissità della sua dislocazione, Prometeo finisce infatti, alla lunga, col
trovarsi nel posto sbagliato: o troppo lontano (con il rischio che gli spettatori perdano
attenzione al suo discorso) o troppo vicino (con il rischio di mandare in controcampo
tutta l’azione)… Su queste osservazioni puramente “tecniche”, si sono venute
innestando nei mesi di preparazione dello spettacolo alcune considerazioni
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interpretative. Al centro della drammaturgia del Prometeo sta, a mio giudizio, il tema
dello sguardo. Problema cruciale dell’opera è infatti quella del vedere o dell’essere visti,
spiati, osservati… La vera punizione di Prometeo, ed è lui stesso a dircelo, non consiste
tanto, o per lo meno non consiste solo, nel fatto che il titano sia incatenato per l’eternità,
ma soprattutto il suo supplizio è legato al fatto che egli è incatenato all’aperto, essendo
così esposto allo sguardo di tutti. D’altra parte l’antagonista per eccellenza di Prometeo,
ossia Zeus, nella drammaturgia non è mai presente: esiste solo come sguardo gettato sul
suo rivale. A partire dalla precoce presa d’atto di questa centralità del vedere, da subito
con Massimo Popolizio ci siamo trovati d’accordo sulla necessità di oggettivare
scenicamente le traiettorie dello sguardo su cui è costruita la tragedia: bisognava poter
riprodurre in scena panoramiche, campi lunghi, zoomate, primi e primissimi piani che
costituiscono il tessuto drammaturgico dell’opera… Ragionando intorno a questo ordine
di problemi, è nata allora spontanea l’idea di incatenare Prometeo ad una struttura
mobile: in questo modo sarebbe stato possibile mantenere quella dimensione di
immobilità che caratterizza notoriamente la condizione del protagonista e al tempo
stesso si sarebbe riusciti a rendere teatralmente evidenti – attraverso le traslazioni della
struttura – il movimento degli sguardi su cui si regge il racconto. Se vuoi, questa
dinamizzazione della “roccia” cui Prometeo risulta incatenato (in realtà nel nostro
spettacolo si trattava di un’impalcatura metallica) è una delle strategie di cui ci siamo
avvalsi per mettere in atto quei procedimenti di messa a fuoco e di chiarificazione del
testo di cui parlavo prima. Di volta in volta, nel nostro spettacolo, Prometeo si trovava
infatti ad assumere nello spazio la posizione che meglio ci permetteva di “illustrare” la
sua relazione con gli altri personaggi.
5. Come hai interagito con Massimo Popolizio e Gaia Aprea e con quali
suggerimenti in merito all’ethos dei personaggi da interpretare? Quali le eventuali
difficoltà (o gli interventi e i tagli) in merito alla traduzione su cui hai lavorato?
Da anni sono convinto che la cosiddetta “regia magistrale” abbia esaurito il suo corso.
Più che il depositario di un potere o di una pulsione creatrice assoluti, il regista è per me
un ascoltatore, uno spettatore privilegiato, un fiancheggiatore dell’esperienza scenica,
una sorta di testimone dei processi fruitivi calato nel cuore della produzione teatrale o
ancora il portatore di saperi altri rispetto a quelli strettamente scenici, di suggestioni, di
stimoli, di immagini da condividere con gli attori. Animato da questo spirito, più che
imporre a Massimo e Gaia un percorso guidato di approccio al testo, ho cercato di
assisterli nel loro personale viaggio verso i rispettivi personaggi, sostenendoli nella
ricerca del punto di equilibrio più giusto tra i loro mezzi, le loro capacità, la loro
complessione fisica e la trama di parole con cui si sono trovati a doversi misurare. Per il
suo vigore e per la sua energia fisica e vocale, Massimo, innegabilmente, aderisce
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perfettamente – e per molti aspetti – al modello del “Titano”; una sorta di inconsapevole
pudore lo blocca invece sul piano della restituzione della fragilità e della debolezza che
pure fanno parte della figura di Prometeo. Allo stesso modo se la presenza potente di
Massimo gli rende facile incarnare il côté “eroico” della figura, allo stesso tempo gli
rende più difficile trasmettere quell’identità di “sapiente” che pure il “figlio della saggia
Temi” porta in sé. Il lavoro che abbiamo sviluppato insieme a Popolizio è stato dunque
indirizzato a recuperare anche questi colori più sfumati nella sua tavolozza espressiva.
Un’altra direttrice forte del lavoro con Massimo è stata tesa ad aiutarlo ad aprirsi al
rapporto con il pubblico. Per un attore abituato a recitare nei palcoscenici all’italiana,
oltretutto formatosi alla scuola di Ronconi, recitare all’aperto e in piena luce, occhi
negli occhi con lo spettatore, non è impresa semplice. Alle resistenze “emotive” si
assommano difficoltà tecniche di concentrazione non indifferenti: con i suoi colori, i
suoi brusii, i suoi fisiologici movimenti, il pubblico rischia infatti di diventare una fonte
di distrazione continua. D’altra parte è l’architettura stessa del Teatro Greco ad esigere
la piena e totalizzante comunione con gli spettatori. Prova dopo prova, ma anche recita
dopo recita, ho cercato di aiutare Massimo ad aprirsi al dialogo con il pubblico. Gaia,
per sua natura, non ha questi problemi: la relazione con gli spettatori è per lei molto più
istintiva e franca. Le difficoltà, per lei, stavano soprattutto nel trovare un rapporto tra la
sua femminilità e la femminilità di Io, questione non da poco se si considera la
centralità che la carne con le sue più segrete pulsioni ha nella vicenda della “donnavacca”. È stato soprattutto su questo fronte che ho cercato di sostenere Gaia, aiutandola
a trovare un suo modo di abitare la figura cui doveva dar corpo. Interpretare il ruolo di
Io pone, tra l’altro, un problema cruciale: per un verso la figura deve portare in scena
uno spossessamento, un invasamento, un ineluttabile precipitare verso gli abissi
dell’inconsapevolezza bestiale, per l’altro chiede all’attrice che la incarna un massimo
di lucidità e precisione senza le quali, in uno spazio difficile come quello del Teatro
Greco, la figura non riuscirebbe mai a “passare”. Credo che per Gaia la mia presenza sia
stata importante proprio in quanto interlocutore cui affidarsi. Credo che in me abbia
trovato un ascoltatore/specchio, di sua fiducia, in cui cercare il punto di composizione
tra le due opposte tensioni che si trovava di volta in volta a sperimentare.
Per quanto riguarda la traduzione non abbiamo incontrato nessun problema. La
nostra messa in scena, come sai, era fondata sul testo italiano messo a punto da Guido
Paduano. Purtroppo non ho potuto seguire passo a passo il lavoro sul testo di Guido in
vista dell’apprestamento della sua versione; mi sono semplicemente confrontato con il
risultato finale, ma da subito la restituzione dell’originale proposta da Paduano, potente
e lucidissima, mi ha convinto. Non mi permetto di giudicare il suo valore in rapporto al
testo greco, non ne avrei le competenze; giudico la riuscita del lavoro in rapporto alla
sua dicibilità teatrale. È stato confortante, per me, incontrare Guido a metà del percorso
di prove, discutere con lui di alcuni modesti interventi sulla traduzione e scoprire che i
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nostri punti di vista sul Prometeo erano largamente coincidenti. Pochissimi, come
dicevo, gli interventi sulla traduzione, dovuti più che altro all’evidente obbligo di
contestualizzare la versione alle nostre scelte di messa in scena e alla necessità degli
attori di “mettersi in bocca” le battute.
Due soli i tagli di una certa importanza (e comunque di poco più di una manciata
di versi l’uno). Il primo in testa all’ultimo lungo intervento di Prometeo all’interno
dell’episodio di Io, il secondo in capo al quarto episodio. Entrambe le sfrondature sono
state dettate puramente dalla necessità di alleggerire il testo, specie nella sua zona
finale. Sul piano della tenuta dello spettacolo è sempre quello, infatti, uno dei segmenti
più delicati del copione. La fatica maturata dal pubblico nel corso della
rappresentazione spesso fa sì che, specie in corrispondenza dell’epilogo, le soglie di
attenzione degli spettatori tendano ad abbassarsi. Non dimentichiamoci che a Siracusa,
non fosse altro che per la scomodità delle sedute, è difficilissimo che il pubblico regga
continuativamente l’attenzione oltre una certa soglia di tempo. Abbiamo fatto un
piccolo taglio anche in coda all’episodio di Oceano. In particolare sono saltati tutti i
riferimenti all’«uccello quadrupede» sulle cui ali il vecchio Titano ha raggiunto
Prometeo. Anche in questo caso il taglio è stato deciso semplicemente perché la nostra
messa in scena non prevedeva la presenza del fantastico animale.
6. A proposito della vocalità e della recitazione degli attori, con quale intendimento
hai suggerito i toni spesso roboanti, le accelerazioni, l’enfasi nel contraddittorio,
l’ironia?
Non di rado le tinte forti che di frequente abbiamo usato nella recitazione sono state
dettate dalla necessità di rompere l’andamento oratoriale che spesso il Prometeo finisce
con l’assumere in scena per la sua configurazione apparentemente “statuaria”,
restituendo energia drammatica al conflitto in esso sceneggiato. In realtà non credo si
sia trattato di forzature, sono piuttosto incline a pensare che quegli strappi, quelle
impennate, quelle detonazioni, quegli affondi, fossero semplicemente la restituzione
vocale della ribollente energia incanalata a viva forza nel linguaggio di questa
tragedia…
7. Hai tradotto in “recitato” le arie dei personaggi e il canto del coro, ma hai
mostrato grande attenzione per la componente musicale dello spettacolo. Con quali
finalità hai commissionato quella musica ad Andrea Piermartire? Quale il ruolo
della musica nella tua regia?
All’interno del nostro spettacolo la presenza della musica rispondeva a più esigenze. In
primo luogo la musica ci è servita per accentuare la scansione ritmica della messa in
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voce del testo. Per la nostra messa in scena ci siamo avvalsi, come già ricordavo, della
traduzione di Guido Paduano, apprestata appositamente per l’allestimento. Una scelta
forte del traduttore è stata quella di rinunciare alla misura del verso, restituendo la
spasmodica tensione che articola e innerva il linguaggio dell’originale greco in una
prosa livida e apparentemente anodina, di nitore ed asprezza agghiacciati. Se per un
verso questa scelta ci aiutava nell’agganciare l’ascolto del pubblico facilitando la tenuta
di attenzione, per altro verso poteva risultare limitante nell’orchestrazione della
recitazione. La musica ci è subito parsa, allora, un preziosissimo ausilio per sostenere la
scansione del parlato, potenziando la produzione di senso. Teatralmente, infatti, il senso
non passa tanto attraverso le parole, ma attraverso i loro intervalli e per questa via il
ritmo s’impone sempre come prima matrice di senso della recitazione. Nel nostro
spettacolo, all’interno degli sterminati monologhi del protagonista la musica creava
appuntamenti, arsi, fughe, sistoli e diastoli del discorso capaci di orientarne i significati.
D’altra parte la musica ci è stata utile anche per evocare l’altro grande protagonista in
absentia del Prometeo, ossia l’umanità. Esattamente come Zeus non compare mai in
scena durante l’intero corso della tragedia, allo stesso modo non entrano mai in scena
gli uomini che pure sono causa prima del conflitto tra il Titano e il nuovo signore
dell’Olimpo. Nell’immaginario del testo i mortali restano figure di sogno schizzate sullo
sfondo dell’agone tragico, esiliate dal cuore palpitante del racconto; nella nostra messa
in scena, invece, la musica ci ha permesso di dar loro corpo e presenza, pur
rispettandone l’assenza. Sul paesaggio sonoro totalmente percussivo tratteggiato a
larghe pennellate da Andrea Piermartire, s’innestavano, a tratti, modulazioni corali,
composte da Valeria Sacco, non affidate al linguaggio razionalmente organizzato ma
risolte in puri suoni. Quelle nenie, quelle preghiere, quelle lamentazioni, quelle grida di
sofferenza che emergevano dal magma dei tamburi, dei timpani, dei gong, dei piatti,
delle catene e delle grancasse erano il nostro modo di raccontare l’umanità lontana,
quell’umanità sempre a rischio di scomparsa, cui Prometeo ha voluto donare il fuoco.
All’interno della nostra messa in scena la musica interveniva poi come vero e proprio
coefficiente spettacolare autonomo. Da subito, con Popolizio, abbiamo infatti convenuto
sul fatto che nello spazio tragico di Siracusa, la musica non poteva che essere musica
dal vivo, musica cioè dotata di una sua evidente concretezza performativa. In un
contesto come quello dello spettacolo tragico, scaturigine prima di ogni poetica della
crudeltà, sono convinto che la musica debba essere prodotta in un evidente hic et nunc
teatrale, capace di respingere ogni “decostruttiva” differenza, ripetizione o
rappresentazione… Questa pulsione all’organicità della musica è precipitata anche, nel
nostro allestimento, nella scelta di ricorrere alla percussione fisica dei corpi degli attori
come estrema modalità di produzione di suoni. Per accompagnare i riti degli stasimi le
attrici e le danzatrici si percuotevano il petto, i fianchi, le cosce… D’altronde la tragedia
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stessa porta inscritta in sé una partitura percussiva: il prologo non è forse scandito dal
martellare di Efesto sui ceppi di Prometeo?
8. Hanno scritto di una tua rigorosa attenzione al dettato del testo. È vero che hai
rinunciato ad una chiave di lettura marcata? Oppure hai rappresentato senza
forzature una desacralizzazione progressiva della società, e l’ancora attuale
ambivalenza del mito del progresso? Quanto ha inciso nella tua lettura la relazione
Prometeo-Io rispetto alle più vistose e conclamate relazioni Prometeo-Zeus, IoZeus?
Dal mio punto di vista il contrasto tra adesione alla lettera del testo e scelta di una
chiave interpretativa marcata è soltanto un falso problema. Per rifarsi al vocabolario di
Benjamin, infatti, il chimico/commentatore è a ben vedere soltanto l’altra faccia
dell’alchimista/interprete e spesso il più innocuo dei glossatori è nei fatti il più
irriverente e rivoluzionario dei lettori. La nostra messa in scena – che ho concepito
come commento o “spiegazione” del testo – poggiava in realtà, con tenaci radici nel
nostro presente, su di un radicale processo al progresso, su di una appassionata
interrogazione intorno al tema del trascorrere del tempo e dell’avvicendarsi delle
società, su di una meditazione intorno ad alcuni nervi scoperti della nostra
contemporaneità quali il riaffiorare dell’impegno politico o il naufragare nel tempestoso
mare della precarietà.
Certamente nella nostra messa in scena la relazione Prometeo/Io si è rivelata
fondativa. D’altronde l’episodio dell’incontro tra il Titano e la figlia di Inaco occupa da
solo circa un terzo della rappresentazione: o ammettiamo che Eschilo – o se preferisci
l’anonimo «maestro del Prometeo» – fosse drammaturgicamente un incapace o forse
questa incidenza anche solo puramente quantitativa qualche cosa significa. La figura di
Io porta in scena, per quanto dimidiata e sconvolta, la natura umana ed introduce ad un
tempo il tema dell’eros – nodo a mio giudizio capitale dell’esperienza teatrale a
qualsiasi latitudine e in ogni epoca. Questo tema dell’eros, per altro legato a doppio filo
al tema dello sguardo, non investe soltanto la relazione Io/Zeus, ma si irradia su tutte le
dramatis personae della tragedia, tant’è vero che lo troviamo pure al centro del terzo
stasimo che segue immediatamente l’uscita di scena della fanciulla/animale. È evidente
che, sul filo di un ambiguo legame erotico, la vicenda di Io funge da contrappunto alla
vicenda di Prometeo.
9. Hai trasformato il contesto originario della tragedia che prefigura le origini del
mondo in un contesto surreale, fantascientifico. È secondo questa prospettiva che
hai commissionato i costumi dei personaggi minori a Gianluca Sbicca,
proponendoli come mostruosi eroi dell’odierno immaginario infantile?
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Dieci domande a Claudio Longhi,
regista di Prometeo (Siracusa, maggio-giugno 2012)
Angela Maria Andrisano
Tra le molte cose che comporta, lavorare al Teatro Greco di Siracusa per l’Istituto
Nazionale del Dramma Antico significa, tra l’altro, confrontarsi con un orizzonte di
attesa che diventa fisiologicamente terreno comune d’intesa tra attori e spettatori su cui
costruire il rapporto con il pubblico. Non si tratta di accettare in modo supino delle
convenzioni, quanto – piuttosto – di dialogare con esse per sottrarsi alla tentazione di
rincorrere le aspettative degli spettatori, ma anche per smarcarsi dal rischio opposto di
recidere aprioristicamente il rapporto di comunicazione con i fruitori. La platea
siracusana, come è noto, non ama l’attualizzazione visiva dello spettacolo –
procedimento verso il quale, per altro, come spero risulti chiaro dalle mie premesse
teoriche già esposte, neppure io nutro particolare passione –; per la loro storia, le loro
abitudini, la loro stessa eclettica composizione, fatta di cultori di teatro e di turisti in
visita alle rovine, i frequentatori del Teatro Greco hanno un gusto decisamente
“conservatore”. Il primo problema che Gianluca ed io ci siamo trovati a dover risolvere
è stato allora come evitare l’attualizzazione dei costumi senza cadere in un bozzettismo
archeologizzante; come sottrarsi, in altri termini, alle opposte fascinazioni per il peplo e
per il cappotto… Una seconda esigenza di cui tener conto nell’immaginare i costumi
dello spettacolo era quella di restituire la violenza e la precarietà del mondo messo in
scena nella tragedia, un mondo – come ho già ribadito più volte – squassato da una
recente catastrofe. C’era poi una terza, ma non per questo meno cogente, necessità di
cui abbiamo deciso di tener conto nella progettazione dei costumi: quella di tentare di
render ragione della natura divina dei personaggi. Con la sola parziale eccezione di Io,
nessuna delle dramatis personae del Prometeo ha natura umana: in scena si
avvicendano solo degli dèi. La stessa Io entra nella rappresentazione solo nel momento
in cui è già stata deprivata del suo aspetto umano, quando, cioè, le sue sembianze di
donna sono state sconvolte dall’eruzione inconsulta dell’animalesco stimolata dall’odio
di Era… Da queste premesse sono nati i costumi dello spettacolo, sospesi tra una sorta
di viaggio all’indietro nel tempo, teso al recupero di fogge totemiche e tribali con
qualche esotico omaggio al vicino e al lontano Oriente, e fuga in avanti verso le lande
nebulose del fantasy, del surreale, del fantascientifico (come tu stessa ricordavi).
Costumi di selvaggia e crudele inattualità, dunque, ugualmente lontani dall’omaggio
vascolare e dall’approdo alla moda.
Sempre nel quadro dell’ideazione dei costumi – sia detto per inciso –, al fine di
cancellare la dimensione dell’umano una cura particolare l’abbiamo dedicata ad una
crudele rimozione del volto degli interpreti. Nel solco di una medesima macroscopica
abolizione del viso degli attori, nelle nostre intenzioni l’adozione delle costrittive
maschere di cinghie di cuoio per vestire Potere e Violenza, la decisione di spalmare di
oleose pennellate di nero petrolio i profili di Efesto ed Ermes, l’imposizione di camauri
incrostati di alghe e concrezioni marine alle Oceanine corrispondevano ad altrettante
strategie per evidenziare la natura non umana dei personaggi.
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Dieci domande a Claudio Longhi,
regista di Prometeo (Siracusa, maggio-giugno 2012)
Angela Maria Andrisano
10. Nella Poetica aristotelica un non meglio identificato Prometeo veniva inserito
tra le tragedie della quarta ed ultima tipologia, difficile da circoscrivere. Il testo è
corrotto e la congettura più accreditata, ma non da tutti accolta, vorrebbe leggervi
una tipologia “spettacolare”. Con il tuo finale, usando lampi e tuoni, hai avvalorato
questa ipotesi. Si è trattato di una scelta o di semplice fedeltà al dettato del testo
tragico?
Proprio perché ho cercato di costruire la mia lettura registica come un’“illustrazione”
del testo, non percepisco un’antitesi tra “scelta” e “fedeltà al dettato tragico”. Diciamo
che ho scelto di aderire al dettato del Prometeo, consapevole delle conseguenze
interpretative che l’opzione per il potenziamento della macchina spettacolare conclusiva
(per altro richiesta dal testo) si sarebbe portata appresso. Sottolineo oltretutto che
proprio il finale è uno dei passaggi delicati di ogni messa in scena di questa tragedia,
specie se la messa in scena si disloca in un teatro all’aperto. Mancando il riparo di un
sipario, come puoi infatti segnalare la conclusione della rappresentazione? Da subito
questo è stato un tema di discussione condiviso con i responsabili della progettazione
dello spazio scenico e con la responsabile della Martha Graham Dance Company. I
fuochi del finale, la rotazione con annessa spaccatura della grande scalinata progettata
dallo studio Oma*Amo di Rem Koolhaas, l’esplosione musicale concepita da Andrea
Piermartire, la coreografia finale delle Oceanine sono state altrettante risposte alla sfida
di questo finale tutto in levare e “spalancato”. Che cosa avrebbe dovuto far seguito al
Prometeo incatenato? Che posizione occupava la tragedia che ci è pervenuta nel corpus
tragico di cui faceva parte? Sono tutti misteri con cui il Prometeo continua a distanza di
secoli dalla sua stesura a interrogarci e affascinarci…
Grazie, Claudio, di queste risposte esaustive che ci permettono di mantenere viva
nella memoria la complessa articolazione di uno spettacolo riuscito, di cui hai
voluto generosamente e puntigliosamente rivelare il sofisticato e rigoroso
clockwork, non senza mettere in luce la specificità della tua regia, il tuo rapporto
con gli attori e la ricerca di un dialogo incisivo con il variegato pubblico di
Siracusa.
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