la filosofia del novecento

annuncio pubblicitario
Piero Beraldi
LA FILOSOFIA
DEL NOVECENTO
Le idee e la storia
Le Lettere
I
LA CULTURA FILOSOFICA
TRA OTTOCENTO E NOVECENTO
1. Empiriocriticismo e convenzionalismo
Andando oltre l’assiomatizzazione newtoniana della meccanica, la
critica dell’intellettualismo positivista condotta dall’empiriocriticismo, un movimento dottrinale riconducibile soprattutto al pensiero di Richard Avenarius (1843-1896), secondo il quale l’oggetto
della filosofia è da ricercarsi non già nella ragione kantianamente
intesa, ma nell’esperienza, costituisce una delle espressioni più cospicue del dibattito epistemologico svoltosi tra la fine dell’Ottocento e gli inizi del Novecento.
Liberati i dati empirici da ogni implicazione positivistica, o idealistica, e da ogni generalizzazione che l’esperienza non è in grado
di giustificare, Avenarius individua nell’«esperienza pura» quell’esperienza considerata, a un tempo, «una teoria generale della conoscenza», e «una teoria generale delle norme umane»1. Intesa la
conoscenza scientifica in termini biologici ed evoluzionistici, essendo il processo conoscitivo una sorta di azione e reazione fisiologica degli organi di senso rispetto agli stimoli ambientali, Avenarius, da Kritik der reinen Erfahrung (1888-1890) a Der menschliche Weltbegriff (1891), dimostra, sulla scorta di alcune tesi del1 Critica dell’esperienza pura, tr. it., Laterza, Bari 1972, p. 13. Sul percorso della
riflessione filosofica delle geometrie non euclidee: D. GILLES - G. GIORELLO, La filosofia della scienza nel XX secolo, Laterza, Bari 1995; E. AGAZZI - D. PALLADINO, Le
geometrie non euclidee e i fondamenti della geometria, La Scuola, Brescia 1998; R.
BETTI, Lobačevskij. L’invenzione delle geometrie non euclidee, Bruno Mondadori,
Milano 2005.
8
PIERO BERALDI
l’evoluzionismo darwiniano, che ogni aspetto della realtà risulta
dall’adattamento della specie al mondo circostante: «anche se pensiamo che nel nostro presupposto è implicito un solo ambiente, che
non è privo di costituenti minacciosi e dannosi, tuttavia, e anche
questo è contemplato nel nostro assunto, l’organismo umano ha
una capacità di affermarsi da sé, entro certi limiti, pur fra tali danneggiamenti e menomazioni della sua conservazione»2.
Respinto ogni sdoppiamento, in senso metafisico, tra il mondo
reale e la nostra conoscenza di esso, non esistendo tra il soggetto e
l’oggetto una distinzione ontologica, ma solo una relazione logica
e funzionale, il processo conoscitivo, il quale obbedisce non tanto
a un impegno teso alla ricerca della verità, quanto all’esigenza di
imbrigliare la realtà per un suo più efficace dominio, culmina in
un’interpretazione economica della scienza: «l’intera evoluzione
esplicativa», precisa Avenarius, «procederebbe secondo un movimento che non è né rettilineo né uniforme. Ogni valutazione del
‘concetto del mondo’ di volta in volta dominante in un gruppo sociale, parte da uno o da pochi individui, e non soltanto ha per questi stessi individui il significato di una differenza vitale che viene
soppressa in misura diversa e in senso diverso – nel senso, cioè della forma di sviluppo immediatamente successiva, ma anche di quella esistente o addirittura di una già superata»3.
In consonanza con le idee elaborate da Avenarius, con cui «l’affinità è così stretta come può essere fra due individui che hanno avuto un’evoluzione diversa e hanno lavorato in campi diversi e che
sono in generale assolutamente indipendenti l’uno dall’altro»4, Ernst
Mach (1838-1916), da Die Analyse der Empfindungen (1886) a Erkenntnis und Irrtum (1905), ritiene che le leggi scientifiche non abbiano un valore logico, ma soltanto pratico-economico, essendo
semplici schemi utilizzati dal pensiero per ordinare il campo degli
2
Op. cit., p. 26.
Op. cit., p. 150.
4 L’analisi delle sensazioni e il rapporto tra fisico e psichico, tr. it., Feltrinelli, Milano 1975, p. 70. Su Mach: M. CANTELLI - D. ROSSI, Ernst Mach e la crisi della fisica
classica, Cedam, Padova 1995; S. GULI, Elementi, sensazioni e connessioni funzionali: la filosofia naturale di Ernst Mach, Unicopli, Milano 2007.
3
LA CULTURA FILOSOFICA TRA OTTOCENTO E NOVECENTO
9
elementi sensibili: se la realtà è un insieme di sensazioni, le quali
costituiscono l’unico dato certo su cui è possibile costruire le nostre affermazioni, non esistono sensazioni che corrispondano a cose esterne da sé distinte.
Ridotto l’io e i corpi esterni a gruppi di sensazioni, da noi accettati per abitudine e per ragioni pratiche, e interpretati i concetti
come segni che aiutano a classificare i fatti e a connettere gruppi
di fatti, non essendoci una differenza qualitativa tra fatti fisici e atti psichici, la scienza non può descrivere un insieme di fenomeni in
modo completo ed esauriente, in quanto «si limita a perseguire in
modo intenzionale e consapevole ciò che nella vita quotidiana viene compiuto di per sé, senza che ce ne rendiamo conto. Non appena acquistiamo la capacità dell’auto-osservazione, troviamo che i
nostri pensieri sono già variamente adattati ai fatti… Quasi ogni fatto nuovo comporta una prosecuzione dell’adattamento, la quale si
esprime nel processo del giudicare»5.
Abbandonata l’idea secondo la quale le leggi, e i concetti scientifici, hanno una validità costante e invariabile, e attingono a una
realtà uniforme e costante insita nel variare dei fenomeni, Mach crede che la scienza non ci faccia scoprire la struttura ultima della
realtà, le cui leggi hanno soltanto una funzione economica: il compito del sapere scientifico è di descrivere in una sola volta, e nel
modo più breve, il maggior numero di fatti. È di «offrire all’individuo umano dalla sensibilità pienamente sviluppata un orientamento il più possibile compiuto»6.
Consapevole che l’esistenza di una pluralità di geometrie non consente ai loro assiomi di fondarsi, come pretendeva Kant, sull’evidenza intuitiva o sui fatti sperimentali, ma su convenzioni, in quanto la scelta di sistemi geometrici diversi ricalca esclusivamente criteri di convenienza e di utilità pratica, non potendo una geometria
essere più vera di un’altra, Jules-Henri Poincaré (1854-1912) non
ritiene che la giustificazione di un concetto matematico consista
nella sua definibilità in termini di concetti logici, ma nella sua costruibilità a partire dai dati intuitivi. Accertato, con la scoperta del5
6
Op. cit., pp. 274-275.
Op. cit., p. 62.
10
PIERO BERALDI
le geometrie non-euclidee, che la geometria è frutto di una libera
costruzione dell’intelligenza umana, non potendo nessuna geometria essere dichiarata vera o falsa, Poincaré, da La science et l’hypothèse (1902) a La valeur de la science (1905), a Science et méthode (1909), afferma che la scelta tra un tipo, o l’altro, di geometria avviene in base alla sua efficacia nel comprendere, in modo unitario, i fenomeni della natura. «Ogni legge particolare», precisa
Poincaré, «non potrà mai essere che approssimata e probabile. Gli
scienziati non hanno mai disconosciuta questa verità: solo che essi credono, a torto o a ragione, che ogni legge potrà essere sostituita da un’altra più approssimata e più probabile; che questa nuova legge sarà essa stessa provvisoria, che lo stesso movimento potrà continuare indefinitamente, sì che la scienza, progredendo, possederà leggi sempre più probabili, che l’approssimazione finirà col
far differire quanto poco si vuole dalla esattezza, e la probabilità dalla certezza»7.
Distinto il fatto bruto, il fenomeno così come si presenta immediatamente alla percezione, dal fatto scientifico, Poincaré sostiene
che lo scienziato non crea il fatto bruto e le sue relazioni, ma soltanto il linguaggio con cui enunciarlo, giacché «tutto ciò che lo
scienziato crea in un fatto, è il linguaggio nel quale l’enuncia. Se
egli predice un fatto, impiegherà questo linguaggio, e per tutti quelli che sapranno parlarlo e intenderlo la sua predizione è esente da
ogni ambiguità. Una volta lanciata questa predizione, non dipende
evidentemente da lui che essa si realizzi o no»8. Constatato che la
costruzione delle proposizioni della scienza comporta, sempre, l’uso più o meno consapevole del calcolo delle probabilità, e non
esclude la necessità di continue verifiche delle leggi della natura,
Poincaré rileva che in ogni formulazione scientifica c’è un elemento
oggettivo di carattere empirico, e un elemento più propriamente
soggettivo, in quanto i fatti sono fatti, e se accade che essi siano conformi a una predizione, non è in virtù della nostra libera attività,
7 Il valore della scienza, tr. it., La Nuova Italia, Firenze 1947, p. 223. Su Poincaré: M. FORTINO, Convenzione e razionalità scientifica in Henri Poincaré, Rubbettino,
Soveria Mannelli 1997; P. GALISON, Gli orologi di Einstein, le mappe di Poincaré. Imperi del tempo, Raffaello Cortina Editore, Milano 2004.
8 Op. cit., p. 209.
LA CULTURA FILOSOFICA TRA OTTOCENTO E NOVECENTO
11
giacché la nostra scelta è condizionata dalla necessità di evitare
ogni contraddizione.
Riconosciuto che l’enunciazione di una legge scientifica è un
evento linguistico convenzionale che «parla» di eventi reali, e che
nessuna esperienza potrà mai avere il potere di verificare, o falsificare, un teorema geometrico, essendo gli assiomi della geometria
libere creazioni dell’uomo, che si è convenuto di accettare non tanto per rispettare un criterio di verità empirica, quanto per rivendicare l’irriducibile valore della scienza e della sua capacità di migliorare la comprensione del mondo, Poincaré ricorda che «ogni
azione deve avere uno scopo. Dobbiamo soffrire, dobbiamo lavorare, dobbiamo pagare il posto allo spettacolo, ma per vedere: o almeno, perché gli altri vedano un giorno. Tutto ciò che non è pensiero è puro nulla… Il pensiero non è che un lampo in mezzo ad
una lunga notte. Questo lampo, però, è tutto»9.
A differenza di Poincaré, secondo il quale il contenuto epistemologico delle geometrie non-euclidee non ha niente a che vedere con i
tradizionali concetti filosofici di verità e realtà, Pierre Maurice Marie Duhem (1861-1916), da La théorie physique: son objet et sa
structure (1906) a Le système du monde. Histoire des doctrines cosmologiques. De Platon à Copernic (1914-1959), sulla base di una
concezione ipotetico-convenzionalistica della scienza, analoga per
molti aspetti a quella di Mach, ritiene impossibile stabilire una volta per tutte la distinzione tra una teoria esplicativa e una teoria interpretativa. Nel ricordare che «la scienza della natura ci offre, fino
al secolo XVII, ben pochi settori della scienza che siano progrediti
fino al punto di costituire delle teorie espresse con il linguaggio matematico e le cui previsioni, esprimibili matematicamente, possano
essere confrontate con le misure ottenute mediante precise osservazioni»10, Duhem, lungi dal considerare la scienza fisica come un
Op. cit., pp. 243-244.
Salvare i fenomeni. Saggio sulla nozione di teoria fisica da Platone a Galileo, tr.
it., Borla, Roma 1986, p. 22. Su Duhem: R. MAIOCCHI, Chimica e filosofia. Scienza,
epistemologia, storia e religione nell’opera di Pierre Duhem, La Nuova Italia, Firenze
1985; M. FORTINO, Essere, apparire e interpretare. Saggio sul pensiero di Duhem (18611916), Franco Angeli, Milano 2006.
9
10
12
PIERO BERALDI
meccanismo da smontare pezzo per pezzo, dimostra che essa è un
sistema da assumere nella sua interezza, giacché il sapere scientifico non può essere paragonato a un organismo di cui non si può far
funzionare una parte senza che le altre ne siano coinvolte.
In polemica con quella «corsa sfrenata e disordinata all’inseguimento dell’idea nuova», che ha «sbaragliato il campo delle teorie fisiche e ne ha fatto un vero caos dove la logica non ha più voce in capitolo e il buon senso sfugge»11, Duhem, respinta ogni pretesa dell’induttivismo, non potendo i fatti scientificamente significanti esistere prima delle teorie, e senza delle teorie, precisa, di
contro agli experimenta crucis, agli esperimenti capaci di trasformare in verità dimostrata una delle due ipotesi presenti, che ogni
legge è sempre provvisoria e suscettibile di una diversa simbolizzazione.
Segnalata l’intrinseca ipoteticità della fisica sperimentale, non
potendo l’esperienza stabilire la verità delle ipotesi di partenza delle teorie, in quanto la scienza non può avere alcuna portata ontologica, Duhem ritiene che la scienza «sarebbe impotente a stabilire
la legittimità dei princìpi stessi che tracciano i suoi metodi e dirigono le sue ricerche se non si ricorresse al senso comune. Alla base delle nostre dottrine enunciate con più chiarezza e dedotte rigorosamente ritroviamo questo confuso insieme di tendenze, di aspirazioni, di intuizioni. Non esiste analisi sufficientemente penetrante da separarle, da scomporle in elementi più semplici; non esiste
linguaggio sufficientemente preciso e flessibile a definirle e formularle»12.
Ricordando alcune idee di Duhem, che, a suo parere, «intendeva affermare che la teoria, sviluppandosi, doveva condurre a rappresentazioni della realtà che avrebbero dovuto essere accolte senza difficoltà dal senso comune, cioè che, in fin dei conti, queste immagini
non possono allontanarsi troppo da quelle che la percezione ingenua
ci offre e, in ogni caso, non possono urtare contro quelle immagini
che la stessa percezione ritiene come essenziali per il suo mondo di
11
p. 5.
12
La teoria fisica. Il suo oggetto e la sua struttura, tr. it., Il Mulino, Bologna 1978,
Op. cit., p. 116.
LA CULTURA FILOSOFICA TRA OTTOCENTO E NOVECENTO
13
oggetti»13, Émile Meyerson (1859-1933), da Identité et réalité (1908)
a La déduction relativiste (1925), a Du cheminement de la pensée
(1931), giudica erroneo assegnare alla scienza soltanto il compito di
accertare come accadano i fenomeni, giacché la razionalità della
scienza non è mai identità analitica, ma identità sintetica.
Precisato che la conoscenza concettuale, costituita attraverso un
lungo processo che, partendo dalla sensazione e dalla percezione,
si snoda attraverso l’immagine e la rappresentazione, Meyerson,
dopo aver ricordato che i dati qualitativi della sensazione assumono un’importanza non soltanto psicologica, ma anche gnoseologica, dimostra che ogni spiegazione razionale non può non essere una
sorta di identificazione del «diverso». La riflessione scientifica, sottolinea Meyerson, tenta «di spiegare con l’ausilio dei suoi ragionamenti e delle sue teorie il dato della percezione, rivolgendoglisi
contro dopo che sembra averlo inizialmente accettato, avendolo
considerato il suo punto di partenza. Essa non cessa il suo compito finché non lo ha completamente dissolto nello spazio. Così, l’autentica distinzione tra essa e la filosofia si ritrova nel fatto che cerca di raggiungere, per vie indirette e in modo graduale, ciò che la
filosofia crede di cogliere immediatamente»14.
Le estreme conseguenze dei temi fondamentali della critica della
scienza prospettati dal convenzionalismo, secondo il quale ogni fenomeno può essere descritto, con eguale esattezza, sia adoperando
uno spazio euclideo, sia adoperando spazi non euclidei, sono precisate da Édouard Le Roy (1870-1954), il quale, da Dogme et critique (1906) a L’exigence idéaliste et le fait de l’évolution (1927),
da Le problème de Dieu (1930) a Introduction à l’étude du problème religieux (1944), dimostra che i fatti non sono dati dall’esperienza, ma sono costruiti dall’uomo. «Noi», afferma Le Roy, «siamo capaci solo di vedute parziali, connesse poi alle astrazioni, sempre costretti praticamente a frammentare l’insieme continuo dei fe-
13 La deduzione relativistica, tr. it., Istituti editoriali e poligrafici internazionali, Pisa-Roma 1998, pp. 329-330. Su Meyerson: S. MARCUCCI, Émile Meyerson. Epistemologia e filosofia, Le Monnier, Firenze 1962; C. MANZONI, L’epistemologia di Émile Meyerson, Edizioni dell’Ateneo, Roma 1971.
14 Op. cit., p. 305.
14
PIERO BERALDI
nomeni, e poi a ricostruirlo pezzo per pezzo in tappe successive…
La materia… si risolve ai nostri occhi in un complesso di fenomeni; e ogni fenomeno è cambiamento; la figura di questo mondo passa. Vi si scoprono soltanto avvenimenti di pensiero, di coscienza;
dapprima uno scorrimento di immagini sensibili, poi una legge, un
ordine, una direzione di marcia»15.
Convinto che i concetti matematici, essendo una nostra creazione, siano privi di assolutezza, e che la conoscenza scientifica
persegua determinati fini pratici, Le Roy, tradotta la critica della
scienza in una svalutazione del pensiero discorsivo in nome dell’intuizione e della fede religiosa, considera la scienza una semplice schematizzazione della realtà, incapace di cogliere il principio ineffabile dell’essere. Nel chiedersi se è proprio di una fede che
Dio sia l’oggetto, o se piuttosto Dio ci appare come l’oggetto per
eccellenza della fede, perché lo si possa riconoscere come esigenza creativa di vita spirituale, Le Roy, lungi dal credere che l’esistenza di Dio si deduca come conseguenza necessaria da un’affermazione precedente, o che sia dimostrata a partire dal mondo sensibile, afferma che il Principio universale è il «prodotto» non già
di un ragionamento astratto, o di una constatazione dei sensi, ma
di un’esperienza morale.
Come Valore supremo, come Principio di ogni valorizzazione
realizzante, Dio, non è al di qua, ma al di là di ogni forma di esistenza reale: non è al di sotto dell’esistenza reale, né esiste come
un’astrazione. È la radice della nostra natura. È la luce che rivela
il nostro destino.
2. L’idealismo anglo-americano
Indipendentemente dalle posizioni assunte dai Prolegomena to
Ethics (1883) di Thomas Hill Green (1836-1882), secondo cui la
realtà si risolve in un complesso di relazioni, le quali sussistono soltanto in virtù della totalità dell’Essere che ne raccorda le entità nel15 Il problema dell’evoluzione, a cura di F. Polato, Pàtron, Bologna 1968, pp. 1921. Su Le Roy: F. POLATO, Il pragmatismo epistemologico e religioso di É. Le Roy,
Amicucci, Padova 1959.
LA CULTURA FILOSOFICA TRA OTTOCENTO E NOVECENTO
15
la sua Coscienza universale ed eterna, da The Principle of Individuality and Value (1912), di Bernard Bosanquet (1848-1923), il
quale, dimostrato che le contraddizioni della vita spirituale attestano l’esistenza di un Assoluto teso a trasformare dialetticamente il
male in bene, ritiene che la totalità del reale si identifichi con l’intero universo, in cui ogni individuo, con la propria irripetibile peculiarità, si inscrive nella concreta unità del Tutto, «confondendosi» nelle maglie dell’Assoluto in un indefinito processo dialettico,
da The Secret of Hegel (1865) di James Hutchison Stirling (18201909), per il quale l’essenza dell’hegelismo, intesa come lo strumento più valido per la restaurazione dei valori religiosi alla luce
dei princìpi professati dal Cristianesimo, va ricercata nel suo esito
teistico, l’espressione più originale dell’idealismo inglese è rappresentata dalla filosofia di Bradley, secondo cui la realtà può essere conosciuta solo andando al di là dell’apparenza, giacché ogni
giudizio, che non consiste nel semplice accostamento di idee empiricamente isolate le une dalle altre, implica una contraddizione che
il pensiero non è in grado di risolvere.
Stabilito che ogni relazione è contraddittoria in quanto tende a identificare ciò che è diverso, e che «il tentativo di assorbire completamente il soggetto è votato all’insuccesso, in primo luogo perché non
è possibile modificare il soggetto stesso in modo da includervi un
contenuto non ulteriormente incrementabile e secondariamente perché il pensiero non può alterare le sue stesse strutture»16, Francis
Herbert Bradley (1846-1924), da Principles of Logic (1883) a Appearance and Reality (1893), a Essays on Truth and Reality (1914),
in polemica con il panlogismo hegeliano secondo il quale lo Spirito, dopo aver percorso tutte le fasi del suo sviluppo, realizza la piena coscienza di sé, riconoscendo le sue molteplici determinazioni
come necessari momenti del suo sviluppo, osserva che la totalità del
reale non può dedursi dialetticamente, in quanto il pensiero predica di un soggetto un contenuto ideale, che non è la stessa cosa del
Apparenza e realtà. Saggio di metafisica, tr. it., Rusconi, Milano 1984, p. 326.
Su Bradley: D. SACCHI, Unità e relazione. Studi sul pensiero di F.H. Bradley, Vita e
Pensiero, Milano 1981; G. RAMETTA, La metafisica di Bradley e la sua ricezione nel
pensiero del primo Novecento, Cleup, Padova 2006.
16
16
PIERO BERALDI
fatto reale, perché, in esso, esistenza e significato sono necessariamente separati.
Dalla considerazione secondo cui il mondo dell’apparenza, quale si presenta al nostro pensiero, non può determinare il contenuto
della sua esistenza, perché ciò che contraddice, ed è incoerente,
non può essere reale, Bradley avverte la necessità di ridurre i livelli
dell’esperienza a un’unità superiore alla nostra esperienza immediata, giacché nulla esiste fuori dell’Assoluto. Inattingibile dall’intelletto, l’Assoluto non ha «bisogno di contemplarsi in uno specchio o di girare entro il cerchio delle proprie perfezioni, quasi come uno scoiattolo nella sua gabbia»17. Rifrangendosi attraverso le
esperienze singole e finite, esso costituisce un’unica, onniinclusiva
esperienza, che abbraccia armonicamente ogni parziale diversità:
trascendente rispetto al singolo individuo, che, per quanto unifichi
i contenuti della sua esperienza, non si identifica mai con l’infinito, l’Assoluto, privo di ogni differenziazione tra soggetto e oggetto, non è la somma delle cose, ma quell’unità nella quale tutti gli
individui vengono tramutati nelle loro interne strutture, e in cui
ogni cosa finita raggiunge «la perfezione che cerca ma, d’altra parte, non può raggiungerla esattamente nella maniera in cui la crea»,
in quanto «il finito vi rimane più o meno trasfigurato e, nel pervenire al proprio compimento, scompare come tale»18.
Op. cit., p. 319.
Op. cit., p. 574. In linea con le idee di Bradley, delle quali non manca di segnalarne alcune difficoltà, Harold Henry Joachim (1868-1938), respinta la dottrina secondo cui verità e falsità sono qualità di entità indipendenti, non essendo possibile
«ammettere che l’‘esperire non produce differenze nei fatti’, nel senso che i ‘fatti’ sono ciò che sono in e per se stessi, del tutto indipendenti da ogni e qualsiasi esperienza
di essi» (La natura della verità, Fabbri, Milano 1967, p. 91), dimostra che la verità non
può concepirsi né come corrispondenza del pensiero a un dato esterno, né come coerenza logica rispetto a premesse ipotetiche. Convinto che un elemento del pensiero
«potrebbe essere libero dalla contraddizione interna, potrebbe essere ‘coerente’ e ‘valido’ nel senso in cui il logico formale intende questi termini, e tuttavia mancar di manifestare quella coerenza sistematica che è la verità» (Op. cit., p. 105), Joachim afferma che la verità ha dei gradi, in dipendenza del suo minore o maggiore avvicinarsi alla totalità, essendo, essa, una «inerenza» a un sistema unitario, al quale possiamo avvicinarci con immagini più o meno sbiadite, giacché «il progresso della conoscenza è,
presumibilmente, la somma sempre in aumento di adesioni a proposizioni vere» (Op.
cit., p. 116).
17
18
LA CULTURA FILOSOFICA TRA OTTOCENTO E NOVECENTO
17
Nel criticare le opposte unilateralità dell’etica naturalistica e dell’etica formalistica, Bradley, in polemica con quei moralisti che
ignorano la prospettiva secondo la quale tutte le cose finite sono reali, e vere, in gradi diversi e, nello stesso tempo, nessuna di esse ha
un valore assoluto, né sono in grado di comprendere come il Tutto
possa essere coerente quando le apparenze che lo qualificano sono
in contrasto tra loro, afferma che l’individuo realizza il proprio io
nell’identità di finito e infinito. Nel costante processo ideale che,
iniziando dall’unità della sensazione, produce le differenze dell’io
e del non io, e pone la separazione del mondo da queste differenze, il singolo soggetto attinge la sua realtà in un sentire immediato, in cui le diversità si fondono e si armonizzano.
Sottratta a ogni divenire, l’esistenza individuale si traduce in un
«fatto integrante», il quale non è indipendente dal resto dell’universo: il suo fine deve sempre trascendere il suo essere personale,
giacché il bene non è la semplice perfezione, ma la perfezione in
quanto perseguita e attuata da una volontà. Attraverso una continua
e incessante tensione morale, l’uomo trascende la propria individualità e si salda nell’Unità divina, nella quale nega la sua realtà finita, e si «inabissa» nel Tutto universale.
A differenza di Bradley per il quale le determinazioni particolari,
contenute armonicamente nell’Assoluto, non possono essere da esso dedotte, essendo l’Assoluto oggettivamente onnicomprensivo e
metastoricamente conclusivo, John Ellis McTaggart (1866-1925)
immagina che l’Assoluto, sottratto a quella processualità dialettica
che inerisce a ogni nostro approccio conoscitivo di esso, non è un
«eterno presente», ma il termine del futuro. Nell’operare un’attenta revisione critica del pensiero di Hegel condotta, soprattutto, negli Studies in the Hegelian Dialectic (1896), negli Studies in the Hegelian Cosmology (1901), e nel tardo A Commentary on Hegel’s
Logic (1910), in cui analizza le possibili conseguenze teoretiche della contraddizione intesa come legge genetica del reale, McTaggart
interpreta la dialettica come una progressiva rappresentazione del
concreto, in quanto, nel reale processo del pensiero, ogni categoria
non scaturisce, per contrasto, dalla precedente, ma si rivela nel suo
più autentico significato.
Convinto che solo il presente, e non il passato o il futuro, possa considerarsi capace di esercitare un immediato influsso causale,
18
PIERO BERALDI
McTaggart precisa che «se qualcosa di eterno esiste, esso può essere causa parziale di un effetto tale che il risultato sarebbe stato
differente da quello che avremmo avuto prescindendo da tale essere eterno», dovendo la causalità di questo essere eterno «essere considerata immediata, analogamente alla causalità dell’essere presente nel tempo»19. Caratterizzato da un insieme di sostanze individuali
così come un College è costituito dall’insieme dei suoi membri, l’Universo si scandisce in un ordinamento gerarchico che, progressivamente, degrada dalla Sostanza eterna alle parti primarie, che sono i centri della vita cosciente, e, successivamente, alle parti secondarie, che sono gli atti della coscienza: nella continua tensione
a superare i limiti delle proprie finitezze, le singole personalità si
rapportano tra loro in una sorta di corrispondenza determinante, e,
ognuna di esse, si rapporta, in modo infinitesimale, all’Assoluto, nel
quale l’interno e l’esterno si intrecciano in una consonanza così
precisa e inequivocabile, da rendere improbabile l’idea di un loro
possibile contrasto. Accertato che la realtà non può rivelarsi all’uomo nella sua perfetta razionalità, McTaggart dimostra, in dissonanza con la tradizione hegeliana, che la dialettica non è ascrivibile alla sfera del pensiero puro, ma al processo che rende possibile alla nostra mente di tendere all’Assoluto, la cui unità va individuata non già nella razionalità del reale, ma nello sforzo continuo
compiuto dall’individuo per avvicinarsi all’Idea.
La Realtà universale, la quale non può essere identificata con
il Dio della religione cristiana, giacché l’esistenza di un Dio personale comprometterebbe l’irriducibilità dei singoli individui, è costituita da un complesso di esistenze singole connesse da una particolare forma di armonia interiormente vissuta. Di fronte alla tesi
secondo cui «Dio può fare tutto ciò che vuole, e allora il male, dato che esiste, non è inconciliabile con Lui, e la Sua esistenza non
offre alcun fondamento per limitarne estensione e durata», e all’opposta concezione per la quale Dio «non può fare tutto ciò che
vuole, ma allora non possiamo essere certi che il male, nonostante
gli sforzi divini, non possa ora predominare sul bene, e non sia de19
L’irrealtà del tempo, tr. it., Rizzoli, Milano 2006, p. 149. Su McTaggart: C. TU-
GNOLI, La dialettica dell’esistenza. L’hegelismo eretico di John McTaggart, Franco An-
geli, Milano 2000.
LA CULTURA FILOSOFICA TRA OTTOCENTO E NOVECENTO
19
stinato ad aumentare nel futuro»20, McTaggart individua nell’Amore ciò che determina il completo equilibrio tra il soggetto e l’oggetto. L’Amore, in cui è intessuta la vita della Ragione assoluta, è
quello stato di perfezione che si risolve in un perfetto equilibrio tra
i molteplici soggetti finiti, legati reciprocamente, pur nel rispetto
della loro indipendenza, da un vincolo che rinserra le coscienze individuali con la Realtà eterna e infinita.
Nell’Amore, che tutto assorbe e tutto consuma, ciascun individuo realizza l’autonomia della sua esistenza: riconosce, nella vita
dell’altro, l’affermazione più esaustiva della propria personalità.
Allontanandosi dell’idealismo inglese, in cui è evidente il persistere della tradizione romantica che si traduce, spesso, in una religiosità aconfessionale, la quale si alimenta di suggestioni neoplatoniche, l’idealismo americano, rappresentato nelle sue prime formulazioni dal trascendentalismo di Ralph Waldo Emerson (18031882), il cui pensiero, condiviso dalle confessioni eterodosse degli
Unitariani e dei riformatori liberali del New England, dimostra, in
Intellect (1841) e in Representative Men (1850), che la libertà dell’uomo non consiste nel sottrarsi alla necessità del mondo, ma nel
conformarsi alla natura, che è il corpo dell’infinito Spirito divino,
da Edward Caird (1835-1908), il quale, in Hegel (1883) e in The
Critical Philosophy of Kant (1889), ritiene che Dio, essendo l’unità del soggetto e dell’oggetto, costituisca, a un tempo, il principio
comune dell’esteriorità cosmica e dell’interiorità spirituale, da William Torrey Harris (1835-1909), il quale, identificato l’Assoluto
con un ente personale dotato di intelletto e volontà nella loro massima potenza, ritiene, in Hegel’s Logic. A Book on the Genesis of
the Categories of the Mind (1890), che lo sviluppo dello Spirito, hegelianamente inteso, si manifesti progressivamente in ogni livello
della natura, si precisa, negli scritti di Royce, secondo cui la Mente assoluta contiene in sé, in atto, tutti gli oggetti possibili e tutte le
rappresentazioni loro corrispondenti.
Se, per Bradley, la vera realtà non è l’apparenza, ma la Coscienza assoluta, alla quale, come unità di soggetto e oggetto, l’ap20
Op. cit., p. 161.
20
PIERO BERALDI
parenza appartiene come un suo aspetto particolare, per Josiah Royce (1855-1916) l’Io unitario costituisce la condizione dell’assoluta
intelligibilità del mondo, e la possibilità di un suo ordine morale.
Sulla scorta di alcune riflessioni elaborate da Georg Cantor, secondo cui è possibile considerare equivalenti due insiemi quando
questi si possono porre tra loro in relazione biunivoca, essendo, un
insieme, infinito solo se è equipotente con un suo sottoinsieme,
Royce, da The Spirit of Modern Philosophy (1892) a The Philosophy of Loyalty (1908), da The Problem of Christianity (1913) a
War and Insurance (1914), afferma che il mondo reale è «un mondo la cui stoffa, per così dire, il cui contenuto, è della natura dell’esperienza, la cui struttura risponde alle nostre opere attive, le
convalida e le giustifica, e di cui tutta la natura è tale che esso può
venire interpretato in termini di idee, di proposizioni e d’intenti coscienti, mentre per converso esso dà alle nostre idee frammentarie
e alla nostra vita cosciente quella connessione d’intenti che esse posseggono»21.
Sicuro che la coscienza finita dell’uomo, trovando nelle sue idee
un’espressione parziale e limitata dei propri obiettivi, ricerchi una
realtà superiore in grado di soddisfare le sue aspirazioni, Royce dimostra che l’Infinito è totalmente presente in ogni sua parte, pur essendo l’esperienza umana un frammento di essa. Espressione della totalità dei singoli, l’Io infinito è l’unica realtà che costituisce l’essenza degli individui particolari, giacché ogni atto della volontà
dell’uomo è un frammento della Volontà infinita, nella quale si inscrivono i fini e le verità delle coscienze finite. Così come una carta geografica, tracciata all’interno del paese che rappresenta, conterrebbe, se fosse perfetta, al punto giusto, la rappresentazione della carta medesima con tutto il paese in cui, di nuovo, sarebbe rappresentata la regione contenente la carta, e così via all’infinito, l’Assoluto, pur restando uno e identico, racchiude in sé le molteplici esistenze individuali che ne sono la sua immagine.
In quanto eterna attualità degli atti riflessivamente autocoscienti, l’Assoluto costituisce, nella sua perfetta esplicazione, la meta
ideale cui tende il singolo individuo, l’attività del quale è protesa
La filosofia della libertà, tr. it., Laterza, Bari 1932, p. 107. Su Royce: E. BUZZI,
Individuo e comunità nella filosofia di Josiah Royce, Vita e Pensiero, Milano 1992.
21
LA CULTURA FILOSOFICA TRA OTTOCENTO E NOVECENTO
21
alla sua piena realizzazione. Tutto ciò che si sviluppa nella realtà,
si snoda nell’unità di una Coscienza onnicomprensiva, che, nel suo
eterno presente, comprende il proprio significato, e il significato delle coscienze finite: il mondo reale è «quel mondo in cui gli uomini fedeli si trovano perfettamente a posto. La loro fedeltà non è una
sentimentale fallacia. Le loro cause sono fatti reali dell’universo.
L’universo, come un tutto, possiede quell’unità che la fedeltà alla
fedeltà cerca di esprimere nel servizio che essa rende alla totalità
della vita»22.
3. Il neokantismo
In polemica con coloro i quali, tradita la lezione dell’idealismo trascendentale, ascrivevano alla cosa in sé un significato metafisico positivo, il «ritorno» a Kant, sorretto dall’esigenza di superare l’interpretazione psicologistica del criticismo, e di privilegiare le condizioni trascendentali della validità della scienza, della morale, dell’arte, costituisce l’aspetto prevalente della filosofia tedesca dei primi anni del Novecento, che si precisa, anche se da angolazioni prospettiche diverse, nella Scuola di Marburgo, così detta perché nell’Università di Marburgo insegnarono i suoi primi esponenti, Cohen e Natorp, e nella Scuola del Baden, che con Windelband e Rickert si proponeva non tanto di formulare un metodo atto a spiegare l’origine del pensiero conoscitivo, quanto di individuare la norma su cui fondare la verità, o la falsità, dei valori gnoseologici.
In dissenso sia con le varie forme dell’intuizionismo romantico,
che contrapponevano alle scienze esatte una conoscenza superiore,
sia con le concezioni fattualistiche della scienza delineate dal Positivismo, Hermann Cohen (1842-1918), sulla scorta di un’attenta
lettura di Kant, la quale «richiede la comprensione della filosofia
del critico, che deve essere costantemente riguardata come la causa segreta non solo di quella critica, ma anche proprio di quell’interpretazione apparentemente storico-obiettiva», in quanto «per
22
Op. cit., p. 114.
22
PIERO BERALDI
comprendere alla lettera Kant è indispensabile prendere espressamente in esame, nel loro valore per la teoria del conoscere, le concezioni diversificate che egli ha reso possibili»23, respinge, da Kants
Theorie der Erfahrung (1871) a Platons Ideenlehre und die Mathematik (1879), a System der Philosophie (1902-1912), la distinzione tra sensibilità e intelletto, e prospetta un’origine unitaria dei princìpi della conoscenza, non essendo valida la distinzione tra princìpi a priori della conoscenza e il richiamo all’esperienza sensibile.
Interpretata la logica come una teoria del puro conoscere, in
quanto i suoi oggetti non vanno individuati nel processo psicologico dell’attività pensante, ma nei concetti, Cohen, dopo aver precisato che il valore di un determinato sapere non è dato dalla conoscenza dei fatti, ma dalla validità logica delle sue funzioni conoscitive, afferma che il «baricentro» dell’a priori si identifica con le
condizioni formali dell’esperienza: distinta dallo spiritualismo, ma
accomunata con esso dall’intento di costruire un’alternativa al materialismo e allo psicologismo, il compito della filosofia consiste nel
ricercare i presupposti logici della scienza, nel ricercare, cioè, gli
elementi a priori delle scienze, essendo l’a priori il vero fondamento dell’oggettività scientifica. Dimostrato che Kant non intende per critica della conoscenza l’indagine delle condizioni psicologiche del conoscere, e rintracciato nell’imperativo categorico, che
comanda di trattare l’umanità, sia in sé, sia negli altri, sempre come fine e mai come mezzo, la condizione primaria di ogni comportamento morale, Cohen ritiene che le «condizioni» dell’esperienza non possano confondersi con la genesi empirica dei contenuti mentali, in quanto la validità del pensiero può misurarsi soltanto sulla base dell’oggettiva pensabilità dei suoi princìpi.
Identificata la kantiana unità trascendentale della coscienza con
l’unità della coscienza scientifica, e accertato che il pensiero non è
«sintesi», ma produzione, essendo il suo idealismo critico, un idealismo volto a ricercare le condizioni a priori della possibilità della
scienza, della pura volontà e del sentimento puro, Cohen, dopo aver
ricordato che il calcolo infinitesimale è un esempio di costruzione
23 La teoria kantiana dell’esperienza, tr. it., Franco Angeli, Milano 1990, p. 32. Su
Cohen e il neokantismo: G. RUSSO, Logica della prescrizione. Cohen interprete di Kant,
Guida, Napoli 1996; M. FERRARI, Introduzione a Il Neocriticismo, Laterza, Bari 1997.
LA CULTURA FILOSOFICA TRA OTTOCENTO E NOVECENTO
23
dovuta al puro pensiero, afferma che le categorie, «come ‘concetti
originariamente generati’ non hanno proprio bisogno di un ponte,
che le colleghi alle forme della sensibilità, per il fatto che non semplicemente la ‘condizione del loro uso’, ma anche il loro ‘vero significato’ è connesso al collegamento stabile con il molteplice dell’intuizione: esse non sono nient’altro che forme trascendentali della determinazione logica del medesimo»24.
Nell’intento di perseguire una fondazione soggettiva delle più diverse sfere culturali nell’unità della coscienza, Paul Natorp (18541924), radicalizzata la posizione di Cohen, afferma, da Vorlesungen über praktische Philosophie (1925) a Philosophische Systematik (1958), che l’oggetto della riflessione filosofica non è la conoscenza come attività, ma il conosciuto. Non si conosce il pensiero
isolandolo dal conosciuto, giacché, non potendo sussistere un’intuizione dell’io, l’indagine sulla conoscenza non può riguardare le
facoltà, ma le funzioni, non può riguardare, cioè, le entità ontologiche, ma le condizioni di comprensione: il processo conoscitivo,
essendo il nesso soggetto-oggetto una relazione dinamica, che si articola secondo i metodi della conoscenza fisico-matematica della
morale e dell’arte, è costituito dal passaggio da un oggetto indeterminato a un oggetto più determinato, attraverso una progressiva determinazione di meccanismi, che non giungono mai a compimento, perché l’analisi funge soltanto come controllo delle sintesi già
operate.
Intesa la psicologia non già come una scienza empirico-causale
dei fenomeni psichici, ma come una disciplina filosofica, Natorp,
dopo aver ricordato in margine alle sue riflessioni su Platone, che
«come il logos è il logos della psyche stessa, così la psyche, e in
ogni caso quella dell’uomo, non va pensata senza la forza centrale
del logos», in quanto «quest’ultima è la forza intima della vita della psyche, l’unica forza mediante la quale la psyche diviene certa
del proprio fondamento eterno», in quanto se «non potesse conoscere l’Eterno, essa non sarebbe saldamente radicata, con il suo ultimo fondamento ontologico, con il suo ultimo fondamento vitale,
nell’Eterno, e non sarebbe eterna in questa sua stessa abissale ra24
Op. cit., p. 140.
24
PIERO BERALDI
dice»25, ritiene che le idee, platonicamente intese, costituiscano le
funzioni e i metodi della conoscenza.
In polemica con Aristotele, secondo cui il mondo delle idee è
un mondo di oggetti dati, corrispondenti alle cose sensibili, Natorp,
l’impegno politico del quale si evidenzia, dopo lo scoppio della prima guerra mondiale, a favore dello Spirito etico della nazione tedesca, osserva che le idee non sono realtà date, collocate in un mondo trascendente, ma leggi dello sviluppo scientifico. Funzioni a
priori della conoscenza, le idee platoniche, al pari delle categorie
di Kant, costituiscono gli ideali regolativi atti a guidare la legalità
del puro pensiero e assicurare la validità logico-concettuale del conoscere. «Rifiutare il soggettivismo, e quindi lo psicologismo»,
commenta Natorp, «non significa però votarsi al teleologismo; al
contrario, c’è ancora un filo, per quanto esile, che lega l’interpretazione teleologica allo psicologismo… L’Essere posto nel Pensare, o meglio nel Pensato, dunque l’Essere esso stesso pensato, non
è una determinazione del Pensare, né Pensare effettivo né del Pensare quale dovrebbe essere»26.
Un ulteriore approfondimento del metodo scientifico proposto dal
neocriticismo, è delineato da Ernst Cassirer (1874-1945), il quale,
pur riconoscendo a Cohen e a Natorp il merito di aver svincolato il
sapere filosofico dalle degenerazioni metafisiche delle dottrine idealistiche, crede che le diverse attività dello Spirito, in quanto espressioni di specifici atteggiamenti della coscienza, non possano ricondursi a una legge unitaria. Ricordato che «dopo» Kant il compito
della filosofia, in ogni singola fase del suo sviluppo, consiste nel
mettere costantemente in rilievo le funzioni logiche della conoscenza, Cassirer, da Philosophie der symbolischen Formen (19231929) a Sprache und Mythos (1925), da Determinismus und Indeterminismus in der modern Physik (1936) a An Essay on Man. An
Introduction to a Philosophy of Human Culture (1944), afferma che
l’attività dello spirito umano non si riduce a un rispecchiamento delLogos-Psyche-Eros. Metacritica alla «Dottrina platonica delle idee», tr. it., Vita e Pensiero, Milano 1999, pp. 15-16. Su Natorp: G. GIGLIOTTI, Avventure e disavventure del trascendentale. Studio su Cohen e Natorp, Guida, Napoli 1989.
26 Op. cit., p. 91.
25
LA CULTURA FILOSOFICA TRA OTTOCENTO E NOVECENTO
25
la realtà, in quanto «la conoscenza, come pure il linguaggio, il mito e l’arte non si comportano come un semplice specchio che non
fa che riflettere le immagini di un dato dell’essere esteriore o dell’essere interiore quali in esso si producono, ma sono, anziché mezzi indifferenti di tal genere, le vere e proprie sorgenti luminose, le
condizioni del vedere, così come sono le fonti di ogni attività formatrice»27.
Contro ogni interpretazione sostanzialistica delle condizioni di
validità del sapere scientifico, Cassirer, autore, tra l’altro, di originali studi di storia della filosofia, tra i quali spicca Das Erkenntnisproblem in der Philosophie und Wissenschaft der neuren Zeit
(1906-1907/ 1910-1911/ 1922/ 1957), individua, nella rappresentazione simbolica, il carattere costitutivo della realtà umana. Dopo
aver segnalato che Dewey è stato uno dei primi a riconoscere, e a
mettere in evidenza, il significato di quelle qualità puramente sentite che dimostrano tutta la loro forza nella percezione del «mito»,
Cassirer osserva che mentre l’animale possiede un’immaginazione
e un’intelligenza pratiche, soltanto l’uomo è in possesso dell’immaginazione e dell’intelligenza simbolica. Il simbolo, del quale abbiamo un contenuto sensibile e singolare, che rimanda a un significato spirituale universale, non coglie l’oggetto nella sua immediatezza, ma «costituisce sempre un primo e necessario passo per
l’acquisizione della conoscenza obiettiva… Esso non è, al pari della semplice sensazione data, un fatto assolutamente singolo e irrepetibile»28.
Prima ancora che animal rationale, essendo il simbolo il mezzo
con cui si mette in relazione un singolo elemento con un altro, l’uomo è animal symbolicum: esso non si può definire riferendosi a
qualche principio intrinseco, che ne costituisca metafisicamente
l’essenza, né a qualche facoltà innata, o a qualche istinto individuale, in quanto, la principale caratteristica dell’uomo, non è la sua
natura fisica, o metafisica, ma la sua «opera». L’uomo non può vi27 Filosofia delle forme simboliche, tr. it., La Nuova Italia, Firenze 1961, I, pp. 3031. Su Cassirer: M. FERRARI, Ernst Cassirer. Dalla scuola di Marburgo alla filosofia della cultura, Olschki, Firenze 1996; I. RANDAZZO, Illuminismo e storia in Ernst Cassirer,
Rubbettino, Soveria Mannelli 2007.
28 Op. cit., p. 25.
INDICE GENERALE
Prefazione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
I
p.
5
»
»
»
»
7
14
21
28
»
39
»
»
»
46
54
67
»
93
LA CULTURA FILOSOFICA TRA OTTOCENTO E NOVECENTO
1. Empiriocriticismo e convenzionalismo . . . . . . . . . . . .
2. L’idealismo anglo-americano . . . . . . . . . . . . . . . . . .
3. Il neokantismo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
4. Lo storicismo tedesco . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
II LA REAZIONE ANTIPOSITIVISTICA E GLI SVILUPPI
DELLE IDEE DEL XX SECOLO
1. Lo spiritualismo francese e l’intuizionismo di Bergson
2. Il contingentismo tra filosofia dell’azione e
modernismo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
3. Il Pragmatismo americano . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
4. La tradizione idealistica italiana . . . . . . . . . . . . . . . . .
III FENOMENOLOGIA ED ESISTENZIALISMO
1. La psicologia descrittiva e la critica della ragione
logica di Husserl . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
2. L’eredità husserliana nella Germania del secondo
dopoguerra . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
3. Analitica esistenziale e filosofia dell’esistenza . . . . . .
4. L’esistenzialismo francese . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
IV LA RIFLESSIONE EPISTEMOLOGICA TRA NEOPOSITIVISMO
E FILOSOFIA ANALITICA
1. Logica e metodologia della scienza . . . . . . . . . . . . . .
2. Il Neopositivismo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
3. La filosofia analitica . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
4. Popper e la nuova epistemologia . . . . . . . . . . . . . . . .
» 101
» 108
» 113
»
»
»
»
125
138
148
164
304
INDICE GENERALE
V RAGIONE FILOSOFICA E SCIENZE UMANE
1. L’analisi del linguaggio ordinario tra Cambridge e
Oxford . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
2. Relativismo concettuale e neopragmatismo . . . . . . . . .
3. Il marxismo occidentale . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
4. La Scuola di Francoforte . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
VI PARADIGMI E INTERSEZIONI DELLA FILOSOFIA
CONTEMPORANEA
1. Ermeneutica filosofica e pensiero postmetafisico . . . .
2. Filosofia pratica e critica della modernità . . . . . . . . . .
3. Tra strutturalismo e decostruzionismo . . . . . . . . . . . .
4. Teologia protestante e teologia cattolica . . . . . . . . . . .
Indice dei nomi . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
p.
»
»
»
177
186
196
212
»
»
»
»
229
247
262
282
» 295
Scarica