17-07-2006
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ISSN 0035-6182
Contiene I.R.
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ANNO LXI (Seconda Serie) - N. 2
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Aprile-Giugno 2006
RIVISTA
RIVISTA DI DIRITTO PROCESSUALE - Anno LXI (Seconda Serie) - 2006 - N. 2
COP 26642-1
DI
FONDATA NEL 1924 DA
G. CHIOVENDA, F. CARNELUTTI e P. CALAMANDREI
GIÀ DIRETTA DA
E. T. LIEBMAN e G. TARZIA
DIRETTORI
C. PUNZI e E.F. RICCI
COMITATO DI DIREZIONE
M. ACONE - G. BONGIORNO - B. CAVALLONE - F. CIPRIANI
V. COLESANTI - L.P. COMOGLIO - C. CONSOLO
G. COSTANTINO - C. FERRI - R.E. KOSTORIS
S. LA CHINA - G. MONTELEONE - L. MONTESANO
R. ORIANI - N. PICARDI - M. PISANI - A. SALETTI
B. SASSANI - N. TROCKER - R. VACCARELLA
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PROPRIETÀ LETTERARIA
STAMPATO IN ITALIA
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2006
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DCB BOLOGNA - PUB. TRIMESTRALE
INDICE DEL FASCICOLO
Anno LXI (Seconda Serie) - N. 2 – Aprile-Giugno 2006
ARTICOLI
Mario Chiavario, Processo penale e alternative: spunti di riflessione
su un « nuovo » dalle molte facce (non sempre inedite) . . . . . . . Pag.
Bruno Cavallone, Forme del procedimento e funzione della prova
(ottant’anni dopo Chiovenda). La riparazione dell’ingiusta
detenzione alla prova dell’equo indennizzo . . . . . . . . .
»
Giuseppe Ruffini, Produzione ed esibizione dei documenti. . . . . . . . »
Remo Caponi, Tempus regit processum (un appunto sull’efficacia delle norme processuali nel tempo) . . . . . . . . . . . . . . »
Maria Francesca Ghirga, Conciliazione e mediazione alla luce
della proposta di direttiva europea . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . »
Antonino Barletta, La competenza sull’inibitoria antitrust . . . . . . »
Pierluigi Simone, Immunità degli stati dalla giurisdizione civile
e violazione di norme imperative del diritto internazionale.
Considerazioni in margine al caso Ferrini . . . . . . . . . . . . . . »
Mario Pio Fuiano, L’estinzione del processo societario . . . . . . . . »
Giovanni Deluca, La nomina del difensore nel processo civile . . »
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499
527
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593
ATTUALITÀ LEGISLATIVA
Giorgio Costantino, Rassegna di legislazione (1° gennaio - 31
marzo 2006) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Pag.
Edoardo Ricci, L’arbitrato e il tipografo legislatore (elogio della
« rientranza ») . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
»
Roberto E. Kostoris, Le modifiche al codice di procedura penale
in tema di appello e di ricorso per cassazione introdotte
dalla c.d. « legge Pecorella » . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
»
Stefano Recchioni, I nuovi artt. 616 e 624 c.p.c. fra strumentalità
cautelare « attenuata » ed estinzione del « pignoramento » . . »
617
631
633
643
DIRITTO PROCESSUALE STRANIERO
Giovanni Bonato, La nozione e gli effetti della sentenza arbitrale
nel diritto francese . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Pag.
669
II
RIVISTA DI DIRITTO PROCESSUALE
RECENSIONI E SEGNALAZIONI
Opere segnalate: AA.VV. (A. Castagnola); Guido Alpa, Tommaso
Galletto (a cura di) (R. Maruffi); Gaetano Annunziata (Piero
Sandulli); Giovanni Bonilini, Augusto Chizzini (G. Basilico);
Giovanni Campese (L. Iannicelli); Bruno Capponi (coord.)
(M.F. Ghirga); Maria Grazia Coppetta (a cura di) (Roberto
E. Kostoris); Marcello Daniele (Hervè Belluta); Alessandro
Jommi (Niccolò Nisivoccia); Cristiano Mandrioli (Sergio La
China); Marino Marinelli (S. Recchioni); Mauro Rubino
Sammartano (C. Punzi); Nicolò Trocker, Vincenzo Varano
(L.P. Comoglio); Giovanni Verde (a cura di) (G. Ruffini);
Teresa Arruda Alvim Wambier (E.F. Ricci) . . . . . . . . . . . . . Pag.
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NOTE ALLE SENTENZE
Edoardo F. Ricci, Arbitrato volontario e pregiudiziale comunitaria Pag.
Edoardo F. Ricci, Sui poteri ufficiosi del giudice in tema di interruzione della prescrizione e di riduzione della penale. . . . . . »
Renato Oriani, Sulle eccezioni proponibili in appello . . . . . . . . . . »
Edoardo F. Ricci, La sentenza « della terza via » e il contraddittorio »
Luigi Paolo Comoglio, « Terza via » e processo « giusto » . . . . .
»
Emanuele Odorisio, Il termine per la proposizione del ricorso
incidentale in cassazione della parte impugnata in via incidentale . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
»
Giulia Di Fazzio, Istanza di istruzione preventiva (« esplorativa ») olandese e foro competente europeo. . . . . . . . . . . . . . »
Leo Piccininni, In tema di legittimità costituzionale dell’art. 38,
comma 2°, c.p.c. e di competenza del giudice dell’opposizione a decreto ingiuntivo. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
»
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SENTENZE
Arbitrato, arbitrato volontario, questione pregiudiziale comunitaria, legittimazione degli arbitri a proporla davanti alla Corte
di Giustizia, insussistenza: Corte di Giustizia CE, 27 gennaio
2005 (C-125/04). . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Pag.
Eccezione, fatto impeditivo estintivo o modificato del diritto vantato dall’attore proponibile in via di azione con domanda costitutiva, esame d’ufficio, inammissibilità: Corte di Cassazione, sez. un. civ., 27 luglio 2005 n. 15661 . . . . . . . . . . . . . . . .
»
Eccezione, fatto impeditivo estintivo o modificativo del diritto
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INDICE DEL FASCICOLO
vantato dall’attore proponibile in via di azione con domanda
dichiarativa, esame d’ufficio, ammissibilità: Corte di Cassazione, sez. un. civ., 27 luglio 2005 n. 15661 . . . . . . . . . . . . . Pag.
Prescrizione, interruzione, fatto interruttivo, esame d’ufficio, ammissibilità: Corte di Cassazione, sez. un. civ., 27 luglio 2005
n. 15661 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
»
Penale, riduzione d’ufficio, ammissibilità: Corte di Cassazione,
sez. un. civ., 13 settembre 2005 n. 12818 . . . . . . . . . . . . . . . .
»
Prescrizione, interruzione, fatto interruttivo, allegazione per la
prima volta in appello, ammissibilità, applicazione al diritto
di accettare l’eredità: Corte di Cassazione, sez. II civ., 24
maggio 2005 n. 10918 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
»
Sentenza civile, decisione in base a questione rilevabile d’ufficio
non proposta dal giudice nel corso del processo, nullità, insussistenza: Corte di Cassazione, sez. II civ., 27 luglio 2005
n. 15705 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
»
Sentenza civile, decisione in base a questione rilevabile d’ufficio
non proposta dal giudice nel corso del processo, nullità, sussistenza: Corte di Cassazione, sez. III civ., 5 agosto 2005 n.
16577 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
»
Ricorso per cassazione, ricorso incidentale, termine, proposizione
entro quaranta giorni dopo la notifica di altro ricorso incidentale, inammissibilità: Corte di Cassazione, sez. I civ., 27
maggio 2005 n. 11322 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
»
Convenzione di Bruxelles del 27 settembre 1968, provvedimenti
provvisori o cautelari, nozione, provvedimento che ordina
l’audizione di un teste anteriormente alla controversia di merito, natura di provvedimento provvisorio o cautelare, insussistenza: Corte di Giustizia CE, sez. I, 28 aprile 2005 (C104/03) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . »
Opposizione a decreto ingiuntivo, competenza, carattere funzionale e inderogabile, sussistenza: Tribunale di Lamezia Terme, 28 gennaio 2005 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . »
Competenza per territorio, eccezione di incompetenza, indicazione del giudice competente da parte del convenuto, adesione
dell’attore, termine, mancanza, illegittimità costituzionale:
Tribunale di Lamezia Terme, 28 gennaio 2005 . . . . . . . . . . . . »
III
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IV
RIVISTA DI DIRITTO PROCESSUALE
IV
RIVISTA DI DIRITTO PROCESSUALE
PROCESSO PENALE E ALTERNATIVE:
SPUNTI DI RIFLESSIONE
SU UN « NUOVO » DALLE MOLTE FACCE
(non sempre inedite)(*)
SOMMARIO: 1. Alternative al processo e alternative nel processo, un’antitesi
meno rigida che in apparenza: a) la mediazione … – 2. … b) i riti
« premiali » … – 3. … c) la prescrizione del reato. – 4. Alternative e principio di obbligatorietà dell’azione penale: postulati formali … – 5. … ed
esigenze reali di tutela. – 6: Alternative e garanzie del diritto di difesa e del
contraddittorio. – 7. Alternative e ragionevole durata del processo.
1. – Le tematiche che vengono proposte possono sì apparire assai lontane
tra loro, ma sono in realtà accomunate da alcuni punti di riferimento, che si è
cercato di evidenziare attraverso un paio di parole-chiave.
Una parola-chiave è: alternativa. E qui si è cercata un’antitesi, se si vuole, un
po’ forzata, parlando di alternative nel processo e di alternative al processo. Antitesi, d’altronde, apparentemente molto netta, ma in realtà non priva di sfumature.
Tipico esempio di alternativa al processo, se si guarda alla sostanza delle
cose, è la mediazione penale, anche se, per la nostra legge, la mediazione deve
necessariamente inserirsi in un processo già iniziato. Con questo strumento si
affida il « caso » ad operatori sociali per tentare di ricostituire un rapporto non
conflittuale, anzitutto tra chi è stato ipotizzato come autore del reato e la vittima
(se ce n’è qualcuna individuabile singolarmente come tale) e per sforzarsi comunque di ottenere dal primo concreti comportamenti che, più di una sanzione
penale da infliggere mediante il passaggio attraverso una formale condanna,
possano ritenersi vantaggiosi, nell’interesse del suo reinserimento sociale e
dunque in definitiva per la collettività stessa. Se la mediazione riesce, se ne
prenderà atto e si dichiarerà estinto il reato; se no, si andrà avanti con il processo penale vero e proprio.
––––––––––––
(*) È il testo – omesso quanto più specificamente diretto alla presentazione del
Convegno – della relazione introduttiva generale, dal titolo « Un impegno all’approfondimento di un “nuovo” dalle molte facce (non sempre inedite) », svolta al XVII Convegno annuale dell’Associazione tra gli studiosi del processo penale “Gian Domenico
Pisapia” (Urbino, 23-25 settembre 2005), avente per tema « Accertamento del fatto, alternative al processo, alternative nel processo ».
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RIVISTA DI DIRITTO PROCESSUALE
Nel nostro sistema di giustizia l’istituto è entrato a fatica, e quasi di soppiatto: dapprima, in una prassi costruita sul silenzio legislativo, nel settore della
giustizia minorile. Oggi, lo si trova onorato da un esplicito riconoscimento
normativo, da parte della legge di disciplina della giustizia « di pace », che peraltro, come già si accennava, la incapsula quale accessorio dell’esercizio della
funzione conciliativa del giudice. Oggetto di grandi speranze, la mediazione
può in effetti offrire notevoli risorse a una giustizia alternativa che voglia contribuire alla sdrammatizzazione e alla soluzione equilibrata e positiva dei più
reali conflitti che stanno dietro il fatto oggettivo (vero o supposto) della commissione di un reato. In pari tempo pone nuovi, e non piccoli problemi, dal
punto di vista della salvaguardia di princìpi e di garanzie che siamo abituati a
considerare come fondamentali.
Ho detto che la mediazione è tipico esempio di alternativa al processo: e
forse proprio per questo i processualisti hanno una certa riluttanza a parlarne.
Certo, non è, nei fatti, l’unica alternativa al processo. Da sempre, in particolare,
la prassi conosce le trattative che si svolgono tra il potenziale querelante e il
potenziale querelato in vista di un’eventuale astensione dal proporre la querela
o di una sua remissione, ancor prima che il pubblico ministero abbia assunto
iniziative.
E d’altra parte, se ci si mette in una diversa ottica, potrebbe anche dirsi che
la stessa mediazione – per come in Italia si è prevalentemente sviluppata in ambito minorile e per come l’ha disciplinata la legislazione sul giudice di pace – si
innesta su un iter già portato davanti al giudice: e dunque, in questo senso, potrebbe dirsi che anch’essa è alternativa nel processo più che alternativa al processo.
2. – Alternative nel processo, da quest’ultimo punto di vista, sono sicuramente i cosiddetti riti differenziati, ai quali il codice di procedura penale
dedica un intero libro, diviso in cinque « titoli », uno per ogni « procedimento
speciale ».
Vecchia tematica, quella dei procedimenti speciali. Sappiamo però che
solo a partire dagli anni ottanta (e poi, più organicamente, con il codice vigente)
tra di essi hanno acquisito uno spazio inedito – e anzi, uno spazio preminente –
quelli che ci siamo abituati a chiamare « procedimenti premiali », per via dell’offerta di vantaggi che, in particolare sotto forma di riduzioni di pena, essi offrono all’imputato che li chieda (giudizio abbreviato) o comunque vi acceda
(applicazione della pena su richiesta delle parti) o, ancora, vi faccia acquiescenza ex post (procedimento per decreto).
Un dato, tra i tanti, mi sembra significativo. I riti « premiali » mettono in
evidenza non più soltanto – com’era e com’è nel vecchio e nel nuovo giudizio
direttissimo – più o meno sensibili varianti nella struttura del procedimento. In
tutti, si scorge una sorta di compensazione, appunto, tra i « premi » più o meno
consistenti che vengono offerti all’imputato disposto ad avvalersene e le rinunce, da parte sua, all’uso di strumenti difensivi, altrimenti a sua disposizione. Nel
PROCESSO PENALE E ALTERNATIVE: SPUNTI DI RIFLESSIONE ECC.
409
giudizio abbreviato, il processo può essere definito anche sulla base delle sole
risultanze delle indagini condotte dal pubblico ministero. Nel procedimento per
decreto penale, la condanna – a sua volta, sorretta unicamente da risultanze di
queste sole indagini – è pronunciata addirittura senza sentire l’imputato: ed è
soltanto l’esercizio del potere di opposizione che può azzerarla. Nell’applicazione della pena su richiesta delle parti, infine, accusa e difesa si accordano
su una pena che il giudice ha il solo dovere di accertare se rispetta certi canoni
legali di calcolo e se è « congrua » in rapporto alla finalità rieducativa del reo:
questo, a meno che non risultino ragioni per prosciogliere ex abrupto l’imputato
(ma non sarà facile che ciò possa accadere per ragioni di merito, se è l’imputato
stesso ad accettare una sanzione …).
Proprio queste caratteristiche dell’« applicazione della pena su richiesta »
possono del resto indurre a collocarla a sua volta su una linea di confine tra alternative nel processo e alternative al processo. Preminente è infatti il ruolo
della negoziazione tra le parti al di fuori del contatto con il giudice: e lo esprime
bene il nome che l’istituto ha assunto, nel linguaggio corrente anche tra i tecnici: « patteggiamento ».
È d’altronde quella sorta di compensazione di cui si diceva, a chiamare in
causa l’altra parola-chiave del convegno: accertamento, specificato come accertamento del fatto (forse, per una più immediata comprensione anche da parte
dei non addetti ai lavori, sarebbe meglio dire accertamento « del fatto di reato »). E la chiama in causa perché la contropartita di rinunce viene a incidere,
limitandolo più o meno fortemente, anche sul potere-dovere di accertare, con
tutti i mezzi leciti possibili, se e come vi sia stato davvero un fatto di reato.
Insomma: ad essere messa più o meno fortemente in parentesi è la piena
cognizione, da parte del giudice, dei dati su cui costruire un adeguato giudizio
di responsabilità, premessa per l’applicazione di una sanzione penale. Tutto ciò,
sia pure, in nome di altre esigenze a loro volta degne di attenzione: soprattutto,
ma non solo, di economia processuale.
3. – L’importanza (da sempre) e la grande attualità di queste tematiche è
sotto gli occhi di tutti, ulteriormente accentuata dalle profonde modifiche normative che i riti premiali hanno conosciuto in virtù di novelle successive al codice.
Ma di vecchia data e insieme di scottante attualità è ancor più il problema
della prescrizione del reato. E non posso esimermi dal ricordare che proprio per
questa sua bruciante attualità, collegata a una notissima proposta di legge (la
cosiddetta « ex-Cirielli »), il Consiglio direttivo dell’Associazione tra gli studiosi del processo penale ha ritenuto di non poter rimanere estraneo al dibattito in
corso, votando all’unanimità una presa di posizione nettamente critica, anche se
non del tutto chiusa a riconoscere qualche aspetto positivo del progetto. In
quella presa di posizione – mi sembra doveroso ricordare, del 4 febbraio scorso,
dunque precedente ad altre, che hanno avuto e hanno l’onore di più frequenti
citazioni – si stigmatizzavano le «concrete ripercussioni» che una normativa
410
RIVISTA DI DIRITTO PROCESSUALE
come quella prospettata può avere sul «sistema della giustizia penale» e
sull’«applicazione del principio costituzionale della durata ragionevole del processo», sottolineandosi «in particolare gli effetti fulminanti che essa produrrebbe su un gran numero di processi in corso per svariate ipotesi di reato anche di
notevole gravità».
4 febbraio. Non ieri, né l’altro ieri.
A proposito della prescrizione, a dire il vero, si potrebbe semmai fare
un’obiezione pregiudiziale contro il suo coinvolgimento nel tema qui trattato.
Potrebbe cioè obiettarsi che qui non si configura una vera alternativa – nel processo o al processo – nel senso di un sistema di deroghe in termini di struttura e
di regole di svolgimento del procedimento, ordinario o speciale, in cui la questione della prescrizione può venire a porsi. E la stessa regola dell’immediatezza di pronuncia (posta dall’art. 129 del codice di procedura penale) vale, in
via di principio, per la prescrizione né più né meno che per le altre cause di non
punibilità. Inoltre sappiamo che per tutte queste cause (prescrizione compresa)
si tratta di un’immediatezza da intendere cum grano salis, che in particolare non
è certo idonea a legittimare una strozzatura quantomeno del contraddittorio argomentativo, secondo le regole proprie della fase del procedimento in corso.
Perché, allora, parlare anche qui di alternativa? Ma perché qui è proprio
l’accertamento del fatto di reato e delle relative responsabilità che, almeno di
regola, è sostanzialmente soppresso, per via dell’imposizione di un sostanziale
« non liquet », legato al decorso del tempo. Insomma, qui abbiamo un’alternativa a sua volta radicale: se non in termini di svolgimento, essenzialmente quanto ad esito obbligato del processo che ne oscura il normale presupposto cognitivo, perché la constatazione dell’avvenuta prescrizione tronca ogni altro tipo di
accertamento. In particolare, la prescrizione impedisce di verificare se ci sono i
presupposti per riconoscere l’innocenza o la colpevolezza dell’imputato: questo
– già lo accennavo – almeno come regola generale, quando cioè non sia già evidente l’innocenza dell’imputato o non vi sia, ad esempio, da verificare il gioco
delle circostanze agli effetti del calcolo dell’eventuale pena.
4. – Vengo ora a qualche spunto ulteriore, che può definirsi trasversale alle
diverse tematiche qui evocate, che cercherò di presentare per lo più in forma
problematica anziché in forma di asserzioni « a tesi », e prendendo come punti
di riferimento, almeno di partenza, alcuni princìpi costituzionali, tra quelli che
più frequentemente vengono chiamati in causa quando si discorre e si discute di
queste tematiche.
Tra essi, anzitutto, il principio di obbligatorietà dell’azione penale, scritto
nell’art. 112 Cost., per cui «il pubblico ministero ha l’obbligo di esercitare
l’azione penale».
Al riguardo, da tempo ho maturato una convinzione: quella che le relative
prese di posizione riflettano una discussione spesso alterata nelle sue premesse,
per non dire drogata. La responsabilità di tutto ciò – a mio modo di vedere – sta
anzitutto negli attacchi strumentali che quel principio ha subito in sinergia con
PROCESSO PENALE E ALTERNATIVE: SPUNTI DI RIFLESSIONE ECC.
411
più o meno maldestri tentativi di riportare la « politica dell’azione penale » interamente nelle mani del potere politico e con ancor più infelici tentativi di assicurare per tal via facili impunità a potenti e prepotenti d’alto rango. Il che, per
reazione, ha accentuato una tendenza, non solo a difendere con i denti – senza
se e senza ma, verrebbe da dire – il principio stesso, così come scritto nella nostra Costituzione, ma finanche a mitizzarlo come l’unico coerente con uno Stato
di diritto e teso a garantire l’eguaglianza di tutti di fronte alla legge, sorvolando
sul fatto che, nei termini rigidi in cui lo leggiamo nell’art. 112 Cost., il principio
non trova corrispondenti in nessun’altra parte d’Europa e forse del mondo.
Donde, dovrebbe trarsi l’implicita conclusione che nessun’altra Costituzione,
nessun altro ordinamento si preoccupi dell’eguaglianza di fronte alla legge e
alla giustizia penale: il che mi pare francamente eccessivo.
Io ho sempre ritenuto gravi quegli attacchi, ma non mi piace neppure questa mitizzazione, la quale, tra l’altro, non dà risposta ai problemi che nascono
per via della discrezionalità, nella gestione soprattutto dei tempi di avvio delle
indagini, di cui i pubblici ministeri dispongono di fatto, nonostante il principio
di obbligatorietà. Per contro, essa ha sovente portato a sottovalutare gli inconvenienti che possono derivare da una interpretazione, diciamo così fondamentalista, di quel principio. E tra questi inconvenienti credo di poter scorgere anche un certo formalismo con il quale si sono spesso affrontati proprio i problemi
delle alternative al processo e nel processo, di cui stiamo discorrendo.
In effetti, se è sempre stato difficile trovare qualcuno che chiamasse in
causa il principio di obbligatorietà in relazione a un istituto come il patteggiamento, molti ostacoli, al contrario, sono stati frapposti, in nome di quel principio, a una disciplina della mediazione penale che, come altrove, si leghi a meccanismi sul tipo dell’archiviazione condizionata degli ordinamenti francese e
tedesco. Non per nulla, forse, la « nostra » mediazione è stata circoscritta nell’ambito del « tentativo di conciliazione » che il giudice di pace deve esperire
quando già il suo processo è giunto all’udienza di comparizione. Del resto, ancor prima, quella mitizzazione aveva costretto il legislatore della giustizia penale minorile a ricondurre un altro istituto innovativo di non secondaria importanza, come la declaratoria di « irrilevanza del fatto », negli schemi della sentenza di non luogo a procedere e non dell’archiviazione; e soltanto nell’art. 34
della stessa legge sul giudice di pace troviamo in qualche modo infranto il tabù
a questo riguardo, in quanto lì si ammette che la « tenuità del fatto » possa essere dichiarata anche attraverso un decreto di archiviazione.
La spiegazione di tutto ciò è semplice, sul piano formale: se il meccanismo
alternativo si chiude con una sentenza, c’è stato esercizio dell’azione penale:
dunque – si può dire – nulla quaestio e la coscienza del giurista « d.o.c. » può
stare tranquilla. Se si ammette invece che una notizia di reato possa essere archiviata anche quando non appaia infondata (e questo accade certamente nei
casi in cui si fa leva sulla esiguità del fatto o si prospetta una mediazione), la
regola dell’art. 112, per come è formulata, qualche problema lo pone. E quella
coscienza va in crisi.
412
RIVISTA DI DIRITTO PROCESSUALE
Ma dev’essere proprio così?
Sorvolo su uno spunto problematico che potrebbe a sua volta essere tacciato di formalismo. Si potrebbe cioè osservare che anche le cause di estinzione
per così dire « classiche » – amnistia e prescrizione – possono essere dichiarate
con un decreto di archiviazione (cioè senza che si sia esercitata l’azione penale); eppure anche lì non è affatto detto che la notizia di reato sia infondata: anzi
... È però pur vero che con l’amnistia e la prescrizione ci si limita a prendere
atto di qualcosa che, bene o male, è già avvenuto, mentre con la mediazione la
causa di estinzione si innesta come il frutto di un’attività che sono gli organi
stessi del procedimento penale a sollecitare. E poi, per carità, non vorrei apparire come il killer di una norma come quella che, in presenza di amnistia o di prescrizione già maturate, consente di evitare una prosecuzione certamente inutile
del procedimento, che servirebbe solo a far consacrare in una sentenza quanto
già si può dichiarare con decreto prima del processo.
5. – Mi domando piuttosto se le cose, più in generale, non meritino di essere affrontate pure da un punto di vista che guardi, al di là della formulazione
testuale del principio di obbligatorietà, alla tutela di esigenze che proprio attraverso quel principio si è cercato e si cerca, più o meno felicemente, di salvaguardare ma che possono essere perseguite anche senza la rigidità di una regola
come quella dell’art. 112 (e che infatti l’esperienza comparatistica ci insegna
che vengono ritenute meritevoli di essere perseguite anche, e forse ancor più, là
dove il principio non vige o quantomeno opera soltanto come regola non inderogabile e anzi ricca di eccezioni).
Parlo dell’esigenza di evitare che i responsabili di reati – specialmente se
gravi o se commessi a danno di persone deboli e indifese – sfuggano completamente ad ogni conseguenza delle proprie azioni: esigenza alla quale si può avvicinare, nella sensibilità del corpo sociale, quella di evitare che le eventuali
conseguenze della condotta delittuosa siano fortemente sproporzionate al ribasso rispetto alla gravità dei fatti. Si tratta, insomma, di evitare che sia lo stesso
ordinamento a favorire l’impunità o la quasi-impunità, e di incoraggiare piuttosto, in tutti, la sensazione che il delitto « non paga ».
Da questo punto di vista, forse, entrano allora in gioco altri fattori e altri
criteri, rispetto a quello formale di cui sopra, per la valutazione complessiva degli istituti di cui si sta parlando. E credo che neppure noi giuristi possiamo
sfuggire a certi interrogativi. È il caso di vedere, ad esempio, entro quali limiti è
accettabile l’estensione dell’area del « patteggiamento » e se esso non debba
comunque implicare, almeno per i casi più gravi, un esplicito riconoscimento di
responsabilità; e, più in generale, si tratta di chiedersi fino a che punto possano
spingersi i « premi » concessi nelle procedure speciali. È il caso di chiedersi se
la mediazione non debba comunque tener conto della lesione inferta dal reato
alla vittima (sia pur evitando che la sua opinione funzioni da veto, in una logica
vendicativa, per qualsiasi soluzione alternativa a una dura condanna del reo o,
peggio ancora, diventi arma di ricatto). È il caso di domandarsi se sia ammissi-
PROCESSO PENALE E ALTERNATIVE: SPUNTI DI RIFLESSIONE ECC.
413
bile che, dove comunque lo sbocco « alternativo » è una pronuncia pienamente
liberatoria (prescrizione), a farla conseguire possano essere iniziative puramente
dilatorie dell’imputato che, sapendo non esserci i presupposti per un suo proscioglimento nel merito, prolunghi artificiosamente il processo fino a far scattare la causa estintiva.
Resteranno sempre, certamente, margini di ingovernabilità del fenomeno
della ricerca dell’impunità, inarrestabile alle sue radici (quanti tra noi potrebbero dirsi sinceramente pronti ad accettare sempre – come il buon ladrone dell’Evangelo – quella che pur ritengono una giusta condanna?). In particolare sarà
sempre difficile impedire che un considerevole numero di reati si prescriva prima ancora che si arrivi ad assumere iniziative d’indagine: ma una accorta programmazione della « politica dell’azione penale » – che passi attraverso l’impegno articolato e progressivo di vari organi, dal Parlamento al C.S.M. ai consigli giudiziari agli uffici di procura – dovrebbe poter ridurre questi fenomeni e
infrenarli comunque in scelte meno casuali o arbitrarie di quelle della gestione
tradizionale.
6. – In qualche misura speculare alla precedente, mi pare la problematica
del rapporto tra gli istituti di cui si discorre e la tutela del diritto di difesa. E
non dimentichiamo che proprio in nome del diritto di difesa la Corte costituzionale ebbe, già tanti anni addietro, a rendere vincolante la previsione legislativa del diritto dell’imputato di rinunciare alla prescrizione, concedendogli
così la possibilità di giocarsi le sue chances per ottenere una pronuncia pienamente proscioglitiva, anche quando la sua innocenza, al momento in cui
calasse la mannaia del decorso del termine prescrizionale, non fosse ancora
evidente.
Oggi, d’altronde, il punto di riferimento principale è diventato – più ancora del diritto di difesa – il principio del contraddittorio per la prova, che è stato
elevato a specifico canone costituzionale dalla riforma dell’art. 111 e che – come giustamente si sottolinea – non tutela soltanto questa o quella parte, ma consacra al massimo livello di fonti un metodo cognitivo per l’accertamento delle
responsabilità penali. Peraltro è lo stesso articolo 111 Cost. ad aprire la strada
per considerare costituzionalmente coperti, sotto questo profilo, tutti gli altri
istituti di cui ci stiamo occupando: da un lato, individua il processo penale (e
non altro) come sede necessaria del contraddittorio per la prova, e così sembra
togliere formalmente spazio a una discussione in proposito che abbia come oggetto istituti come la mediazione, che come si è detto sono radicalmente alternativi al processo; d’altro lato, esso ammette che vi siano casi – regolati dalla
legge – nei quali, anche all’interno del processo penale, la formazione della
prova può non avere luogo in contraddittorio per consenso dell’imputato. E così
sono tutelati i procedimenti speciali.
Io credo che però, una volta ancora, occorra guardare anche al di là degli
aspetti formali e in particolare vorrei che non ci limitassimo a cogliere, nelle
norme costituzionali, la sola capacità di far sopprimere, per vera e propria in-
414
RIVISTA DI DIRITTO PROCESSUALE
compatibilità, le norme ordinarie. I principi della Costituzione hanno anche ben
altre risorse. E pure di queste occorrerebbe sempre tener conto.
Qui, allora, mi pare che non vadano trascurati almeno due (non piccoli)
impegni, sollecitati proprio dalle norme costituzionali sul diritto di difesa e sul
contraddittorio. Il primo è l’impegno a un grande scrupolo nell’accertamento
della consapevolezza del consenso prestato alle alternative. Il secondo – forse di
ancora maggior momento e di maggiore difficoltà – è l’impegno a togliere,
dall’intero sistema processuale penale, quegli stimoli che possono indurre un
innocente a scegliere certe alternative (in particolare, il patteggiamento) e, per
converso, indurre chi si sa colpevole a non scegliere di patteggiare: l’uno, perché, oppresso dall’incubo di un meccanismo processuale che continua a cadergli addosso con i suoi costi umani e materiali e le lontane prospettive di una sua
conclusione; l’altro perché può calcolare che, con un’accorta gestione degli
strumenti che gli vengono offerti, è a sua portata di mano, attraverso la prescrizione, una soluzione ancor più vantaggiosa della ridotta pena « patteggiata ».
7. – Il discorso chiama evidentemente in causa un altro grande principio,
quello della ragionevolezza di durata dei processi: ormai, non più soltanto aspirazione particolarmente sentita dagli utenti « laici » della giustizia e da ogni
cittadino interessato a un funzionamento corretto ed efficiente delle istituzioni;
non più soltanto componente essenziale del catalogo, fornito dalle fonti internazionali, dei diritti fondamentali di chi sia coinvolto in un processo; ma esigenza
che lo stesso testo costituzionale individua come basilare, affidando alla legge il
compito di assicurarla.
È nota la controversia, in relazione al « nuovo » articolo 111 Cost., tra i
fautori di una concezione « oggettivistica » e quelli di una concezione « soggettivistica » della tutela. A mio sommesso parere, hanno ragione entrambi. In
primo piano, certo, sta la tutela del diritto soggettivo dell’accusato che è quello
che può subire i danni maggiori dalle lungaggini processuali: del resto, sono lì
le radici storiche del principio. Ma il principio non interessa soltanto l’accusato.
Beninteso, neppure in questa più ampia prospettiva esso può essere preso a
pretesto per oscurare o comprimere nelle loro espressioni fondamentali altri
principi costituzionali, e in particolare quelli che all’accusato conferiscono specifici diritti; però, il principio della durata ragionevole ben può richiamare alla
necessità, altrettanto importante, di non dilatare oltre misura i modi di esercizio
di quei diritti, abusandone a scopi dilatori o comunque in modo tale da rendere
meno agevole il contenimento, appunto, entro limiti ragionevoli, della durata
del processo o di certe sue fasi. Del resto, chi ha mai messo seriamente in dubbio la sensatezza della norma che conferisce, al presidente del collegio giudicante, il potere di moderare, quanto ai tempi, l’esplicazione del pur sacrosanto
diritto di pubblici ministeri ed avvocati, di argomentare le loro ragioni nelle discussioni dibattimentali, oppure di quella che consente di « tagliare » richieste
probatorie di decine o centinaia di testimoni, chiamati a deporre tutti nello stesso senso su un unico punto?
PROCESSO PENALE E ALTERNATIVE: SPUNTI DI RIFLESSIONE ECC.
415
Oggi, il principio della ragionevole durata del processo penale viene chiamato in causa soprattutto in relazione ai problemi della prescrizione. E dico subito che a me sembra che non di rado anche su questo tema incomba, sotto le
apparenze dell’ovvietà, un equivoco, che riveste due visioni pesantemente unilaterali. Spesso, cioè, non si riesce a (o non si vuole) cogliere il peso che, agli
effetti delle interrelazioni tra dinamica della prescrizione e durata ragionevole
del processo, esercita l’eventuale incidenza di strumenti che le parti – e in particolare l’imputato – hanno a loro disposizione per influire sui tempi processuali.
E si dimentica così, tra l’altro, quanto scaturisce dalla giurisprudenza della
Corte europea dei diritti dell’uomo, per la quale chi lamenta una lesione del
principio della durata ragionevole deve dimostrare di non aver egli stesso contribuito ad allungare artificiosamente la lunghezza dei tempi processuali: e, si
badi, ne subisce le conseguenze anche se l’ha fatto con mezzi astrattamente leciti.
Allora, bisognerebbe sì tener conto del fatto che spesso sono giudici e
pubblici ministeri che, con le loro inerzie o al contrario con il gigantismo di
certe loro iniziative, allungano irragionevolmente i tempi dei processi: abusano, insomma, del processo: e da questo punto di vista è perciò vero che una
disciplina della prescrizione che metta sbarramenti severi contribuisce a frenare quelle tendenze, facendo incombere lo spettro di una non voluta impunità
se non si eliminano inerzie e gigantismi; né può negarsi che, quanto più i
tempi « legali » della prescrizione sono di notevole entità, tanto più i magistrati possono essere indotti a coltivare la deleteria convinzione – deleteria
soprattutto per l’innocente in attesa di giudizio – che ci sarà ancora sempre
tempo per arrivare a una conclusione di merito del processo, quali che siano le
lungaggini in itinere. Tutto questo è vero; però, là dove è l’imputato ad avere
ampi spazi di manovra – in particolare, con le impugnazioni – il discorso
cambia. La possibilità di perseguire il raggiungimento della prescrizione può
essere uno stimolo, non un antidoto a prolungare artificiosamente la durata del
processo.
E si badi bene. A mio avviso, non è tanto una questione di calcolo di termini prescrizionali di base, che oggi sono tutt’altro che brevi, se li si considera
in relazione a un ordinario e ordinato svolgimento del processo. A rendere appetibile un disinvolto uso strumentale dei mezzi di difesa, e in particolare delle
impugnazioni, mi sembrano piuttosto altri fattori, a cominciare da quello del
mancato rilievo della distinzione tra una prescrizione del reato che decorra dal
momento della commissione del fatto e una prescrizione dell’azione che decorra dalla conoscibilità della notitia criminis da parte delle autorità investigative.
E ad avere un peso mi sembra essere soprattutto il meccanismo dei limiti al ricalcolo in caso di interruzione del corso della prescrizione per il passaggio
dall’una all’altra fase del processo. È la rigidità dell’articolo 160 del codice penale a lasciarmi perplesso, là dove dice che « in nessun caso » i termini di base
« possono essere prolungati oltre la metà » (e adesso si vorrebbe scendere addirittura al quarto …). Appelli e ricorsi per cassazione infondati possono così es-
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RIVISTA DI DIRITTO PROCESSUALE
ser facilmente stimolati come mezzi per lucrare una prescrizione, più che sopravvenuta, astutamente inseguita.
Come si sa, la Cassazione ha messo un freno alle più clamorose strumentalizzazioni, escludendo che, se il ricorso è manifestamente infondato, possa
dichiararsi la prescrizione maturata nel frattempo. Sul piano esegetico, la soluzione può anche lasciare margini legittimi di discussione. Essa risponde peraltro
a un’esigenza indiscutibile di moralizzazione, soffrendo semmai di essere una
soluzione di costruzione meramente giurisprudenziale e per giunta parziale, rispetto a un problema che invano si è tante volte cercato di affrontare nei suoi
termini più generali, e in tutte le sue non semplici articolazioni, a livello normativo. Al qual riguardo permettete a chi vi parla di ricordare quanto manifestato – da ben prima che il « caso » esplodesse con la legge cosiddetta exCirielli – in varie prese di posizione pubbliche, orali e scritte, ma soprattutto
quanto collettivamente elaborato quasi dieci anni or sono (e consegnato a un
testo rimasto poi in qualche cassetto ministeriale) nell’ambito di una Commissione presieduta da Giovanni Conso, e da questa approvato a larghissima maggioranza: testo nel quale, appunto, il problema veniva affrontato con proposte
che volevano affiancarsi ad altre, a loro volta rimaste sinora senza esito.
Ma anche questo testo, come tanti altri di allora e di oggi, rimase malinconicamente in qualche cassetto di uffici ministeriali.
MARIO CHIAVARIO
Professore ordinario
nell’Università di Torino
FORME DEL PROCEDIMENTO
E FUNZIONE DELLA PROVA
(OTTANT’ANNI DOPO CHIOVENDA) (*)
SOMMARIO: 1. Il saggio di Chiovenda. Titoli e contenuto – 2. Fortuna e sfortuna
del teorema chiovendiano. – 3. Un’invenzione di Voltaire: il c.d. « sistema
della prova legale ». – 4. I presunti benefici della « elioterapia processuale ». – 5. Il progressivo allontanamento del giudice dalle fonti di prova. –
6. La valutazione delle « prove lontane »: tipiche, atipiche e scientifiche. –
7. I teorici del « ragionamento probatorio ». Il formaggio e i buchi. – 8. È
possibile (e utile) insegnare ai giudici a ragionare? – 9. Forme del procedimento e funzione della prova. Un « cattivo maestro »: Jeremy Bentham. –
10. Valutazione della prova nel processo orale e nel processo scritto. Vantaggi e rischi rispettivi del day in court e della stagionatura dei fascicoli. –
11. Fattori « non epistemici » nella disciplina delle prove. – 12. Raccolta e
conservazione delle prove. Notai medioevali e tecnologia moderna.
1. – Tutti i processualisti ricordano il saggio di Chiovenda, L’oralità e la
prova, che apriva poco più di ottant’anni fa, nel 1924, il primo fascicolo della
Rivista di diritto processuale civile. Ripubblicandolo nel secondo volume dei
Saggi, nel 1931, Chiovenda ne modificò il titolo, lasciando quello originario tra
parentesi, e premettendovi Sul rapporto tra le forme del procedimento e la funzione della prova: ove, nel contesto del suo discorso, per « forma del procedimento » deve intendersi anche il modo in cui è disciplinata la raccolta del mate––––––––––––
(*) Questo scritto riproduce, con varianti minime, una relazione svolta al Convegno
Nazionale della Associazione Italiana fra gli Studiosi del Processo Civile, tenutosi in Cagliari il 7-8 ottobre 2005.
È d’uso, quando si pubblica una relazione congressuale, aggiungervi un corredo di
note. Peraltro, in questo caso, l’estensione di un adeguato apparato bibliografico sarebbe
largamente maggiore di quella del testo, e produrrebbe un numero complessivo di pagine
incompatibile con gli attuali criteri editoriali della Rivista. Preferisco dunque rinunciarvi,
confidando che i lettori si accontentino dei riferimenti che già originariamente ho inserito
nel testo, siccome indispensabili per lo svolgimento del discorso. Ad essi vorrei solo aggiungere ora la menzione di una recentissima monografia dove si esaminano analiticamente l’evoluzione e l’involuzione, nel nostro processo penale, di problematiche analoghe a quelle qui discusse: Daniela Chinnici, L’immediatezza nel processo penale, Milano,
Giuffrè, 2005.
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RIVISTA DI DIRITTO PROCESSUALE
riale probatorio; e per « funzione della prova » il modo in cui quel materiale è
valutato ai fini del giudizio di fatto.
La tesi svolta in quel saggio è dunque notissima, e si risolve in una specie
di teorema: l’oralità, sotto lo specifico profilo dell’immediatezza, è condizione
indispensabile per una corretta applicazione del principio della libera valutazione delle prove; nel « processo scritto » il giudizio di fatto è invece inevitabilmente frutto dell’applicazione di criteri di valutazione « aprioristici, formali,
convenzionali », come quelli che caratterizzavano il c.d. sistema della prova legale nel processo romano-canonico e comune.
Chiovenda circoscriveva tuttavia la rilevanza pratica del suo teorema a
quelle controversie « in cui si rendano necessarie prove diverse dalla documentale (interrogatorio, esame di testimoni, perizia, ispezione giudiziale) ».
Mentre l’avere il processo forma orale oppure scritta avrebbe avuto importanza
molto limitata, se non addirittura trascurabile, nelle cause in cui « non vi siano
da risolvere se non questioni di diritto » e in quelle « in cui vi siano questioni di
fatto, ma da risolvere esclusivamente in base a documenti ».
2. – Questo teorema è stato in buona sostanza riproposto alcuni decenni
dopo nell’opera maggiore di Mauro Cappelletti, nel contesto di una ben più ampia indagine dogmatica, storica e comparatistica. Ma è stato anche oggetto di
motivate critiche. Ricordo fra tutte, in ordine cronologico, quelle di Nicola Picardi sulla Trimestrale del 1973; quelle di Corrado Vocino nella voce Oralità
dell’Enciclopedia del diritto; quelle di Vittorio Denti nella corrispondente voce
dell’Enciclopedia giuridica; le mie, si parva licet, nella Rivista di diritto processuale del 1984; più di recente quelle di Lotario Dittrich nella sua monografia
sui limiti soggettivi della prova testimoniale. Ma sarebbe anche il caso di rileggere con serenità ed obiettività, dopo tanti anni, le considerazioni svolte da Ferdinando Mazzarella sul libro di Cappelletti, nella Trimestrale del 1962.
Vorrei qui riprendere qualcuna di quelle critiche: non per portare ancora
una volta alla luce, ingenerosamente, certe défaillances di un nostro grande
maestro (alla cui memoria devo un rispetto particolare, come allievo del suo più
fedele allievo), ma perché mi sembra che di qui sia utile partire per capire meglio quanto sta avvenendo ai nostri giorni in questo settore della disciplina e
della teoria del processo; nonché proprio per rivalutare, come meglio dirò,
l’intuizione chiovendiana che tra le « forme del procedimento » e la « funzione
della prova » debba comunque esistere un rapporto significativo.
È doveroso inoltre riconoscere, in ogni caso, che il discorso di Chiovenda
si inseriva, naturalmente, nella sua appassionata « battaglia » in favore del
« processo orale ». Ne costituiva, anzi, l’ultimo e più disperato capitolo, atteso
che proprio poco prima, nel 1923, il progetto di riforma di Lodovico Mortara,
illustrato sulle colonne della Giurisprudenza italiana, aveva segnato l’affossamento definitivo del precedente progetto dello stesso Chiovenda, e più in generale delle sue proposte di riforma.
Trasferire dunque la problematica dell’oralità sul solo terreno della disci-
FORME DEL PROCEDIMENTO E FUNZIONE DELLA PROVA ECC.
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plina delle prove, e istituire una stretta relazione biunivoca tra immediatezza e
libertà di valutazione, era innanzitutto un’operazione promozionale, e un esercizio di retorica persuasiva, dato che il « libero convincimento » era allora – come
è rimasto fino ad oggi tra i processualcivilisti – uno di quei valori, o di quelle
formule magiche, che nessuno è disposto a mettere in discussione. Ma l’operazione di Chiovenda era anche in qualche modo autolesionistica, giacché in
definitiva riduceva il grande modello processuale, per il quale egli aveva lungamente combattuto, a poco più che un accorgimento tecnico, funzionale alla
valutazione delle prove costituende.
3. – A sostegno della sua tesi, come si sa, Chiovenda delineava una sinteticissima storia del processo civile italiano, o più in generale europeo, non priva
di qualche passaggio avventuroso. Così dicasi, ad esempio, dell’idea che il
« formalismo » del processo romano-canonico e il c.d. sistema della prova legale, caratteri ritenuti tipici del « processo scritto », fossero figli, nel contempo,
della filosofia scolastica e del giudizio ordalico dei Longobardi (anzi « Langobardi »), del quale tutto si sarebbe potuto dire, meno che fosse stato un processo « filosofico » e scritto.
Ma quella che soprattutto pare oggi difficile da accettare, indipendentemente da questa sua incerta genealogia, è proprio l’immagine dalla quale sostanzialmente muovono anche le argomentazioni propriamente teoriche di
Chiovenda: cioè quella del povero giudice del processo romano-canonico, privato di qualsiasi potere di valutazione critica del materiale probatorio, e ridotto
alla funzione meramente contabile dell’applicazione di rigide e pittoresche « tariffe ». Si tratta infatti di uno stereotipo certamente diffuso al tempo in cui
Chiovenda scriveva (e per la verità sopravvissuto anche in seguito in molta letteratura processualcivilistica), che è stato però progressivamente screditato da
tutta la migliore storiografia del diritto delle prove, e dall’attenta lettura delle
fonti che essa ha sostituito a una prassi di citazioni tralatizie di seconda e di terza mano.
Non è certamente questa la sede per un esame approfondito di questa suggestiva vicenda storico-culturale, che pure meriterebbe di essere prima o poi
ricostruita in dettaglio: voglio dire l’invenzione retrospettiva, da parte di Voltaire e dei suoi molti epigoni, di un sistema probatorio tanto ridicolo quanto largamente immaginario, al fine di contrapporvi l’illuminata razionalità « moderna ». Quale fosse, comunque, la ben diversa realtà, rimossa o manipolata
sotto la faziosa etichetta del « sistema della prova legale », lo si può già chiaramente desumere, per esempio, da libri come quello di Giorgia Alessi Palazzolo
su Prova legale e pena, o quello di Isabella Rosoni sulla storia della prova indiziaria (entrambi sostanzialmente sfuggiti all’attenzione dei processualisti), e ora
dai due ricchi affascinanti volumi dedicati da Susanne Lepsius alla minuziosa
analisi testuale e teorica, nonché all’edizione critica, del Tractatus testimoniorum di Bartolo da Sassoferrato.
Del resto, l’immagine del giudice medioevale burattino, che usa il pallot-
420
RIVISTA DI DIRITTO PROCESSUALE
toliere invece del cervello, è in realtà obsoleta da tempo anche in ambiti culturali diversi da quello della storiografia giuridica specialistica: lo attestano, per
esempio, gli scritti di Mirjan Damaška (non solo la nota monografia sul « diritto
delle prove alla deriva », ma anche molti altri suoi saggi); oppure, senza andare
lontano, lo si ricava da tutta la letteratura sulle prove dei nostri cugini processualpenalisti, più abituati di noi a scandagliare nel passato e nel presente i molti
significati e le molte implicazioni anche nefaste della « formula magica » del
libero convincimento (penso naturalmente alla ormai classica opera di Massimo
Nobili, ma anche ad un precedente saggio di Ennio Amodio su « libertà e legalità della prova », e ad innumerevoli scritti, pur variamente orientati, di autori
come Franco Cordero, Paolo Ferrua, Giulio Ubertis, Oreste Dominioni e altri);
più attenti di noi al valore garantistico dei limiti imposti dalla legge alla discrezionalità del giudice del fatto, sia nell’ammissione che nella valutazione delle
prove (sul punto si dovrebbero citare Giovanni Conso e Luigi Ferrajoli, e poi
nuovamente in blocco l’intera dottrina contemporanea del processo penale); e,
last but not least, più consapevoli di noi della posizione centrale che in ogni
tempo e dovunque ha sempre rivestito per la formazione del giudizio di fatto la
prova indiziaria e presuntiva, di per sé refrattaria a qualunque computo aritmetico.
Chiedo scusa per questo excursus, solo apparentemente fuori tema. Ma
vorrei ancora permettermi di dare un consiglio ai numerosi nostri giovani che si
sono dedicati in questi anni o intendono dedicarsi allo studio delle prove. Se
avessimo la pazienza di leggere per davvero qualche testo « medioevale » su
questi argomenti, come i capitoli pertinenti dello Speculum di Guglielmo Durante, compreso quello suddiviso nei 96 paragrafi scherniti da Chiovenda e
Cappelletti, o il già citato sorprendente studio monografico di Bartolo sulla testimonianza, o qualche brano dei trattati sulle prove di Farinaccio, di Menochio
o di Mascardo (è un po’ faticoso, ma merita la deviazione, come dicono le guide Michelin), vi scopriremmo, non già tariffe e pallottolieri, ma giacimenti ricchissimi di una sapienza analitica e casistica, protesa alla razionalizzazione del
giudizio di fatto, e capace di insegnarci molte cose, proprio su quell’« arte di
ben congetturare » (come la si chiamava un tempo) alla quale non hanno certo
contribuito altrettanto né le freddure di Voltaire, né la glorificazione rivoluzionaria dell’intime conviction, e che oggi si cerca di ricostruire – ma soltanto in
termini astratti, come dirò – con l’analisi logica ed epistemologica del « ragionamento probatorio ».
4. – Chiovenda non aveva insomma ragione di temere che la perpetuazione, nel nostro ordinamento, del « processo scritto », determinasse il ritorno
all’« aritmetica delle prove » del processo romano-canonico: dato che questa
sostanzialmente non era mai esistita. Senza dire che quell’ ipotetico « ritorno »,
ove mai fosse stato concepibile, avrebbe allora dovuto essersi già compiutamente realizzato all’epoca in cui egli scriveva, dato che l’aborrito « processo
scritto » di cui parlava era in vigore ormai da quasi sessant’anni.
FORME DEL PROCEDIMENTO E FUNZIONE DELLA PROVA ECC.
421
Più plausibile, se mai, poteva essere il timore, manifestato in via alternativa nelle famosissime parole conclusive del suo saggio, che in quel contesto il
libero convincimento continuasse a « corrompersi ».
Chiovenda peraltro non spiegava come si manifestasse concretamente la
« corruzione » del giudizio di fatto nelle decisioni dei nostri tribunali; né quali
fossero gli effettivi vantaggi prodotti, nel resto del mondo, « dall’aria e dalla
luce dell’udienza », ma si limitava, per dimostrare i benefici di questa « elioterapia processuale » (se così volessimo irriverentemente chiamarla), a dire che
nel processo orale « lo stesso giudice che deve pronunciare la sentenza ...
ascolterà le risposte delle parti, le deposizioni dei testimoni, i chiarimenti dei
periti, esaminerà gli oggetti, visiterà i luoghi controversi, entrando così in
contatto immediato con le fonti del proprio convincimento; mentre nel processo
scritto il giudice che pronuncia la sentenza conoscerà di tutte queste cose traverso i verbali ... »; ovvero, con le parole di Mario Pagano, che « nella viva voce parla eziandio il volto, gli occhi, il colore, il movimento, il tono della voce, il
modo di dire, e tant’altre picciole circostanze, le quali modificano e sviluppano
il senso delle generali parole... ».
Ora, dire che il giudice del fatto è in grado di apprezzare convenientemente l’attendibilità delle prove orali soltanto quando le assume di persona
« dal vivo », perché così può valorizzare elementi « metatestuali » come il tono
della voce, l’espressione, la mimica dei dichiaranti, etc., è sicuramente un luogo
comune della letteratura processualistica di ogni tempo, dal famoso rescritto
dell’imperatore Adriano al passo di Mario Pagano appena citato. Resta però il
fatto che (come ci ricorda Lotario Dittrich) tutti i più autorevoli studi di psicologia della testimonianza, almeno da quello di Cesare Musatti fino ai nostri
giorni, insegnano che per il giudice le probabilità di ricavare seri giudizi di sincerità o di mendacio da queste impressioni immediate sono esattamente uguali a
quelle che potrebbero darsi con il lancio di una monetina.
5. – Le considerazioni critiche sin qui svolte non possono peraltro esonerarci dal considerare, rapidamente, quale sia stata la sorte del « teorema » di
Chiovenda nella storia successiva del nostro processo, e ciò anche al fine di verificare l’ipotesi, poco fa anticipata, che un rapporto tra le « forme del procedimento » e la « funzione della prova » nonostante tutto debba esistere, magari in
termini un po’ diversi da quelli immaginati da Chiovenda.
Ottant’anni dopo, il fenomeno dell’allontanamento del giudice civile dalla
c.d. « prova orale-rappresentativa », ovverosia il naufragio del principio di immediatezza, è sotto gli occhi di tutti.
Come si sa, infatti, anche nel sistema del codice del 1940 il collegio decidente, non diversamente che nel regime previgente, ha continuato ad avere conoscenza delle prove « orali » solo « traverso i verbali » (verbali, aggiungo, redatti con una grafia ed un lessico che avrebbero fatto giustamente inorridire i
cancellieri del tempo di Chiovenda, e ancor più i vituperati notai medioevali):
sia perché queste prove erano state assunte, nel migliore dei casi, da uno solo
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RIVISTA DI DIRITTO PROCESSUALE
dei suoi componenti, sia perché il lungo tempo trascorso aveva inevitabilmente
annebbiato anche i ricordi dell’istruttore.
Ma le cose non sono sensibilmente mutate nemmeno in seguito, se si prescinde dall’esperienza « controcorrente » del processo sulle controversie di lavoro. La struttura del « nuovo rito » prevede bensì la normale identità fisica tra
giudice istruttore e giudice unico decidente, ma i tempi intercorrenti tra istruzione e decisione non si sono certo accorciati, mentre del principio della « immutabilità » del giudice, altro corollario indispensabile dell’oralità chiovendiana, si fa scempio attualmente ancor più che in passato. Cosicché può accadere,
come si sa, che in un medesimo procedimento più udienze stricto sensu istruttorie si svolgano dinanzi a giudici sempre diversi (qualcuno togato, qualcuno no),
e la decisione sia opera di un altro giudice ancora.
Nel contempo, la trasformazione della prova orale in prova scritta, che
tanto preoccupava Chiovenda, si realizza, quotidianamente, anche e soprattutto
attraverso la incontenibile proliferazione delle famigerate prove « formate altrove », che approdano al processo travestite da documenti: fenomeno radicalmente eversivo anche di quella parvenza formale di oralità che il codice del
1940 e le recenti riforme hanno preteso di salvaguardare.
D’altra parte, questi fenomeni – l’allontanamento del giudice civile del
fatto dalle fonti di prova, la conversione delle prove orali in prove « prefabbricate » – non appartengono soltanto al processo italiano, e non possono essere
posti semplicisticamente a carico della sua eventuale perdurante arretratezza
rispetto ad altri ordinamenti contemporanei.
Da un lato, la larga se non del tutto incondizionata utilizzazione delle prove « raccolte altrove » è ormai diffusa ovunque, tanto da avere perfino travolto
nei sistemi di common law, con le riforme degli ultimi decenni, i limiti che a
queste prove opponeva la storica rule against hearsay.
Dall’altro, basta sfogliare la recente monografia di Chiara Besso sulla
« prova prima del processo », per rendersi conto non soltanto dell’ampliamento,
in tutti i principali sistemi processuali occidentali, dei confini tradizionali dell’istruzione preventiva, ma anche, implicitamente, della tendenza generalizzata
a collocare fuori del processo la formazione delle prove costituende, anche nel
corso del giudizio di merito.
Depositions, affidavits, interrogatories, attestations, Beweisfragen e
schriftliche Beantwortungen, written statements e così via, sono, ancora più dei
verbali di Chiovenda e di quelli che allietano le nostre udienze, i segni di un incipiente e probabilmente irreversibile commiato del giudice civile dalle fonti
delle sue informazioni lato sensu testimoniali sui fatti controversi. Ovvero, per
esprimerci in termini più colloquiali: non vorremo mica che il giudice, già così
carico di lavoro, perda tempo anche in queste cose. Portiamogli prove già ben
confezionate, non soltanto pezzi da montare, come i mobili dell’Ikea.
Anzi, si può dire che questa specie di spinta centrifuga è così forte e intensa da poter addirittura condurre al rovesciamento del rapporto tra istruzione
probatoria e giudizio di merito: come quando uno strumento istruttorio come il
FORME DEL PROCEDIMENTO E FUNZIONE DELLA PROVA ECC.
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nostro accertamento tecnico preventivo, recentissimamente novellato sulla scia
di modelli francesi e tedeschi, finisce per trasformarsi in una forma alternativa
di risoluzione delle controversie. Più che di prova « prima del processo », qui si
potrebbe parlare di prova « invece del processo ».
6. – Ora, attenendoci all’ipotesi tuttora prevalente in cui la prova formata
al di fuori del controllo del giudice del merito deve tuttavia essere da lui valutata: è possibile sostenere che i fenomeni ora ricordati abbiano favorito o favoriscano (come pensava Chiovenda) l’affermazione di criteri « aprioristici e formali » di valutazione delle prove orali, « tipiche » ovvero travestite? La risposta
negativa mi pare obbligata, anche se accompagnata, come dirò tra breve, da una
significativa precisazione.
Per quanto riguarda le testimonianze dei terzi, naturalmente nessuna norma di legge istituisce una qualsivoglia « gerarchia » tra di esse in ragione delle
qualità personali o sociali del testimone, o del numero dei testi o di altri criteri
« aprioristici ». Ed anzi la Corte Costituzionale, come si sa, è giunta persino a
ritenere incompatibili con il principio del libero convincimento (la colpa è di
Voltaire, diceva giustamente Corrado Vocino) alcuni dei limiti soggettivi di
ammissibilità previsti nel codice del 1940, che pure non erano regole direttamente incidenti sulla valutazione della prova.
Ma nemmeno le motivazioni delle nostre sentenze, di merito o di legittimità, nella misura (invero scarsa) in cui se ne possono conoscere le parti « in
fatto », sembrano proporre criteri di valutazione, non diciamo vincolanti ma almeno costanti, se tali non si vogliano considerare le « presunzioni giurisprudenziali » studiate già molti anni fa da Giovanni Verde: che però incidono sulla ripartizione degli oneri probatori, non sulla valutazione dell’esito di specifici
mezzi di prova.
Per converso, le dichiarazioni rese dalle parti in sede di interrogatorio formale sono bensì oggetto di una disciplina apparentemente rigida e minuziosa,
che comprende anche regole di valutazione; ma si sa che queste regole sono applicate molto elasticamente: tanto è vero che, anche quando sarebbe possibile
ricavare, dai verbali, una vera dichiarazione confessoria, il giudice solitamente
evita di qualificarla come tale, e dall’attribuirle l’efficacia di piena prova che le
compete per legge, e preferisce ributtarla, con la meno impegnativa qualifica di
« ammissione », nel calderone delle « risultanze istruttorie », amalgamandola
con tutte le altre di convergente significato, quali che ne siano l’origine e il pregio. Le quali « risultanze », comprensive anche di quelle documentali (fatta salva la sola disciplina dell’atto pubblico), sono poi oggetto di una valutazione
sommaria e globale (sarebbe forse più chic dire « olistica »), dalla quale è impossibile desumere quale sia stato il peso di ciascun ingrediente nella formazione del convincimento del giudice.
Quanto alla valutazione delle prove « formate altrove », è da lungo tempo
consolidata in giurisprudenza, come pure si sa, la convinzione che queste prove
possano (« ben possono » è lo stilema ricorrente nelle massime) essere libera-
424
RIVISTA DI DIRITTO PROCESSUALE
mente apprezzate dal giudice del fatto, come quelle regolarmente formate nel
processo ad quem. Anzi, il travestimento produce talvolta addirittura una sorta
di purificazione, o di sublimazione, della fonte di prova: come quando la testimonianza di un terzo « interessato » viene ritenuta inammissibile ex art. 246
c.p.c., e quindi impedita, nella sede e nelle forme tipiche, e però si consente al
giudice di valutare liberamente le dichiarazioni di quel medesimo testimone,
raccolte altrove (anche al di fuori del contraddittorio tra le parti attuali) e prodotte nel nuovo processo in forma documentale.
In questo quadro, un discorso in parte diverso potrebbe farsi solo con riguardo ai caratteri e alla funzione dovunque assunti nei processi odierni dalla
prova c.d. scientifica.
Qui, anche quando la prova viene disposta nel contesto del giudizio di merito, nella forma della expert testimony ovvero mediante un incarico conferito dal
giudice al consulente, ci si trova comunque di fronte – per usare un termine di
moda tra gli imprenditori e i managers – ad un outsourcing dell’istruzione probatoria, o di una sua parte molto cospicua: il perito, o il consulente, o comunque
l’esperto, esamina luoghi e cose che il giudice non ha mai visto e mai vedrà; raccoglie informazioni da persone che non hanno lo status processuale di testimoni;
acquisisce dalle parti e dai terzi documentazione diversa e ulteriore rispetto a
quella formalmente prodotta o esibita in giudizio. Dopo di che il giudice rimarrà
sì, sulla carta, peritus peritorum, ma in concreto potrà accadergli, come è stato già
spesso rilevato, di recepire l’elaborato dell’esperto non diversamente da come
veniva recepito il responso divino nell’ordalia longobarda in cui Chiovenda vedeva l’origine di tutte le nostre sventure. È improbabile che Chiovenda pensasse
anche e proprio a questo: ma si può riconoscere che il suo teorema, secondo il
quale il giudice lontano dalle fonti di prova è costretto a valutarle secondo criteri
formali, troverebbe (solo) per questo aspetto una inaspettata conferma.
Prescindendo, comunque, da quest’ultima sorprendente convergenza di effetti tra il mezzo istruttorio che meglio rappresenta l’ingresso, nel processo moderno, dei criteri della razionalità scientifica, e la più tipica delle prove c.d. « irrazionali » (convergenza che giustamente ha già indotto molti a riflettere sui
pericoli di un incremento dell’uso di metodi scientifici nel processo, sotto la
bandiera positivistica del progresso delle conoscenze umane), si può tenere
ferma, in termini generali, la constatazione che l’insuccesso del principio chiovendiano della « immediatezza » non ha di per sé limitato l’àmbito della libertà
giudiziale nella valutazione delle prove.
7. – Ma che cosa dovremo allora desumerne? Apparentemente, le risposte
possibili sembrerebbero due.
La prima è quella che forse avrebbe dato Chiovenda: il principio del libero
convincimento non è proprio « morto », ma si è « corrotto », e si corromperà
ancora di più, se è vero che il nostro e tutti i principali ordinamenti processuali
civili, in nome dell’economia processuale o della deflazione del contenzioso,
stanno distruggendo, o rinunciando a creare, le condizioni migliori per una cor-
FORME DEL PROCEDIMENTO E FUNZIONE DELLA PROVA ECC.
425
retta e razionale costruzione del giudizio di fatto (dunque per una « decisione
giusta », stando all’equazione di Michele Taruffo).
Oppure si può pensare che il discorso di Chiovenda fosse semplicemente
sbagliato, nel metodo e nel merito, perché in realtà non esiste alcun apprezzabile rapporto tra « forme del procedimento » e « funzione della prova ». Il principio del libero convincimento, conquista irreversibile della civiltà giuridica
moderna, può sopravvivere intatto e identico a sé stesso, sia che il giudice percepisca in udienza il « tuono della voce » dei testimoni, sia che ne legga le deposizioni, magari tradotte nel linguaggio surreale dei nostri verbali.
Ora, proprio quest’ultima mi sembra essere l’opinione implicitamente prevalente ai nostri giorni, presso gli autori che affrontano il tema del libero convincimento giudiziale e della razionalizzazione del giudizio di fatto (si è molto
parlato in questi anni di « ragionamento probatorio ») senza nel contempo dedicare particolare attenzione al modo in cui vengono raccolte le informazioni utilizzabili per il giudizio.
Il percorso argomentativo abituale è più o meno il seguente. Il principio
del libero convincimento è sacro, e rimetterlo in discussione in nome della
« legalità della prova » ci farebbe ripiombare nella barbarie « medioevale ». Nel
contempo deve però essere evitata anche un’interpretazione troppo letterale del
dogma dell’« intima convinzione », e pertanto rintuzzato ogni cedimento verso
forme di intuizionismo, o irrazionalismo, o fatalistica rassegnazione di fronte
all’imprevedibilità di ogni decisione giudiziale sul fatto. Infine, non si deve
nemmeno credere che la funzione della prova sia quella di persuadere il giudice: non sia mai, questi sono cattivi pensieri, che possono venire in mente solo
agli avvocati e ai filosofi della nouvelle rhétorique.
Il « libero convincimento » non può tuttavia avere solo un significato negativo, per rapporto a tutte queste aberrazioni: deve avere anche un significato
positivo, se si vuole che il giudizio di fatto sia un’operazione razionale, assoggettabile al controllo delle parti e dei giudici delle impugnazioni, quando esistono, nonché naturalmente al controllo « diffuso » della collettività nel cui nome si pronunciano le sentenze.
Ma allora, così prosegue l’argomentazione, se i parametri di questa indispensabile razionalità non possono essere dettati dalla legge, bisognerà ricavarli
aliunde: dall’epistemologia, dalla logica formale, dalle teorie della probabilità,
dalle scienze statistiche, dalla metodologia della ricerca empirica.
Storicamente, i giuristi hanno sempre ottusamente pensato che il tema
della conoscenza del fatto, cioè dell’« accertamento della verità », nel processo si identifichi con il diritto delle prove. Ma non è così: perché il giudice, di fronte all’accertamento di un fatto storico (o più esattamente alla verifica delle proposizioni che affermano o negano l’esistenza di quel fatto), si
trova in via di principio nella stessa situazione di chiunque debba raggiungere una conclusione o formulare una decisione sulla base di fatti non immediatamente evidenti. La cognizione del giudice dunque subirà bensì limiti e
condizionamenti vari (il minor numero possibile, per carità, come voleva
426
RIVISTA DI DIRITTO PROCESSUALE
Bentham), dettati appunto dalla disciplina legale dell’istruzione probatoria;
ma, al di fuori di queste strettoie, sarà guidata solo dal lume della ragione e
del buon senso.
Come spiega William Twining, altro è parlare di evidence, altro di proof, o
di factfinding, nozioni assai più ampie che comprendono l’impiego, nel processo, di tutti quegli strumenti cognitivi e quelle forme di razionalità che valgono
nella vita comune, oppure nell’indagine storica o scientifica: e questo impiego è
anzi preponderante rispetto all’applicazione delle norme, che possono concepirsi come fenomeni accidentali ed intermittenti, come il rumore rispetto al silenzio, le macchie sulla pelle del leopardo, le sporadiche e parziali apparizioni del
gatto del Cheshire, in Alice, rispetto alla sua abituale invisibilità. (Meno felice
mi sembra la metafora del formaggio svizzero, dato che una forma in cui i buchi
fossero quantitativamente prevalenti si disgregherebbe).
8. – Leggendo o sentendo questi discorsi, mi è accaduto in passato di chiedermi se e come sia davvero possibile imporre ai giudici il rispetto dei principii
della logica formale o l’applicazione del teorema di Bayes, senza tradurli, contraddittoriamente, in norme di legge: il che ha indotto qualche amico carissimo
a definirmi affettuosamente un nostalgico del medioevo, un irrazionalista, e addirittura un « verificazionista deluso » (lusinghiero epiteto popperiano). Ma io
non sono riuscito ancora a pentirmi, nemmeno dopo aver letto il saggio di William Twining dal titolo Taking Facts Seriously, dove argutamente si propone di
istituire nelle facoltà di diritto anche corsi e dottorati « sul fatto ».
Certo, devo ammettere che anch’io, quando ricevo dagli studenti, agli
esami, risposte tanto insensate da non meritare neppure la qualifica di « sbagliate », mi rammarico sempre del fatto che nelle nostre facoltà non si impartiscano insegnamenti obbligatori e propedeutici di logica elementare, geometria
euclidea, grammatica e buon senso. Anch’io credo dunque che non ci sia niente
di male, ed anzi molto di bene, nell’idea che, in qualche fase della formazione
culturale e professionale dei giuristi, qualcuno insegni loro « a ragionare », con
la speranza che di questo insegnamento facciano poi buon uso anche quando si
troveranno a discutere sulla valutazione delle prove in sede giurisdizionale.
Ma un conto è l’educazione giovanile dei giuristi, un altro conto sono i
precetti impartiti direttamente dalla dottrina alla giurisprudenza nella forma teorica ed astratta dei principii logici del « ragionamento probatorio » ovvero mediante qualche decalogo di accorgimenti per la valutazione delle prove. Operazione che francamente continua a sembrarmi velleitaria.
Da un lato, infatti, non mi sembra realistico pensare che i nostri giudici,
dei quali proprio questa dottrina lamenta la insensibilità ai dettami di qualunque moderna epistemologia, o talvolta addirittura ai postulati della logica comune (personalmente sarei un po’ meno severo), siano poi disposti a riconoscere i propri errori e a ricostruire le tecniche del proprio lavoro quotidiano
sulla base di regole così lontane, nella loro algida formulazione astratta, dal
disordinato groviglio di informazioni eterogenee che costituisce il contenuto
dei fascicoli.
FORME DEL PROCEDIMENTO E FUNZIONE DELLA PROVA ECC.
427
Di fatto, non risulta che stia succedendo nulla di questo genere, nonostante
che i predetti ammonimenti dottrinali si ripetano da almeno trent’anni.
Dall’altro lato, quando si dice, in termini apparentemente più pragmatici,
che i giudici dovrebbero valutare le prove secondo i parametri di razionalità invalsi nella cultura comune del contesto sociale di appartenenza (le care vecchie
« regole di esperienza »), e non mediante metodi irrazionali; tenere conto di
tutti i dati empirici acquisiti al processo e non di alcuni soltanto; prestare fede
alle nozioni scientifiche accreditate nella comunità degli specialisti e non alle
trovate della junk science; privilegiare la coerenza interna ed esterna delle dichiarazioni dei testi e delle parti, e così via: si formulano raccomandazioni ovviamente ragionevoli e condivisibili, ma probabilmente poco incisive, sia appunto per la loro ovvietà, sia perché non si riferiscono – a differenza di quelle
dello Speculum judiciale o di Bartolo – ad una casistica specifica e concreta,
bensì rimangono nella stessa dimensione generale ed astratta in cui si collocano
gli enunciati della logica formale e le formule dei calcoli probabilistici.
Forse sarebbe più utile, anche se più faticoso (e infatti non lo si fa mai),
pubblicare le parti « in fatto » di una serie di sentenze di merito su un tema determinato e ricorrente (per esempio: la conoscenza dello stato di insolvenza
nella revocatoria fallimentare) e poi confrontarle e commentarle con medioevale pazienza e umiltà. Così potrebbe essere la stessa giurisprudenza, in definitiva, ad educare sé stessa. I giudici, si sa, sono presuntuosi, e forse non hanno
neanche tutti i torti, se è vero che proprio i logici e gli epistemologi – come ci
ricordava Alessandro Giuliani – hanno per secoli eretto a modello proprio la
logica giudiziaria.
9. – Riconosco che su argomenti come questi è molto più facile (forse
troppo) criticare le teorie altrui che svolgerne di proprie, diverse e più soddisfacenti, proprio perché (per citare questa volta adesivamente l’amico Michele Taruffo) « l’intera storia del diritto delle prove, nel nostro come negli altri ordinamenti, potrebbe essere letta come la storia dei tentativi compiuti dai legislatori e dalla dottrina per prevenire o almeno limitare l’arbitrio del giudice del
fatto », e nessuno può illudersi di dare individualmente un contributo rilevante a
questi sforzi millenari.
Possiamo tuttavia almeno cercare di intenderci sui termini del problema,
magari ripartendo proprio dall’intuizione chiovendiana della esistenza di un rapporto significativo tra « forme del procedimento » e « funzione della prova ».
Il fatto è – come tutti dovremmo riconoscere senza con ciò rinunciare
all’« ottimismo razionalista » che secondo Twining ha sostanzialmente sempre
accomunato tutti gli studiosi delle prove – che cercare di imporre un ordine e
una disciplina alla valutazione delle prove, cioè di regolare la formazione del
giudizio di fatto nel segreto della « camera di consiglio », e tanto più nella impenetrabile « camera di consiglio interiore » del giudice monocratico, non è
soltanto difficile, ma probabilmente impossibile, se si pensa ad una disciplina
fatta di precetti espliciti e diretti, quale che ne sia la fonte.
428
RIVISTA DI DIRITTO PROCESSUALE
Ciò che però può essere disciplinato da regole analitiche e vincolanti sono
proprio le « forme del procedimento », cioè la raccolta delle informazioni utilizzabili per il giudizio, le modalità della decisione, e prima ancora la costituzione del giudice. E qui è del tutto lecito e ragionevole chiedersi quali siano, in
ogni determinato contesto storico, culturale e istituzionale, le « forme » più idonee a creare le condizioni migliori per un giudizio « razionale »; o, per usare
parole meno impegnative ed evitare un circolo vizioso, un giudizio che possa
essere compreso e possibilmente condiviso dalla collettività che deve assumerne idealmente la paternità e dalle parti che devono subirne gli effetti.
Il fatto che il trend dottrinale in questione non dedichi adeguata attenzione
a questi temi deriva, a mio avviso, proprio dalle premesse teoriche generali di
cui poco fa parlavo, e in particolare dalla diffusa propensione a negare o sottovalutare la specificità della prova giuridica, o meglio giudiziaria. Parafrasando
Corrado Vocino, vorrei dire che in questo caso la colpa non è tanto di Voltaire,
quanto di Jeremy Bentham e della sua battaglia contro le « regole di esclusione » che così tanto e così immeritatamente (ma questa è un’opinione strettamente personale, avversata dall’amico Sergio Chiarloni) ha influenzato la dottrina successiva, ed anzi, fino ad epoca recente, più quella continentale che
quella di common law.
Sedotti dalla retorica benthamiana, infatti, i suoi seguaci sembrano ritenere
che l’unico ostacolo sulla via della desiderata assimilazione della cognizione
del giudice a quella dello storico, dello scienziato, o del buon padre di famiglia,
sia costituito appunto dalle regole di esclusione, oltre che naturalmente da
quelle di prova legale in senso stretto. Ma si tratta di una illusione ottica, perché
la vera e insopprimibile « specificità » della prova giudiziaria consiste molto
più semplicemente nel fatto che le operazioni conoscitive del giudice si collocano comunque e per definizione entro la struttura di un processo, e dunque in
un contesto necessariamente diverso da quello in cui si collocano le corrispondenti operazioni mentali del nostro paterfamilias, per quanto queste possano
apparire in sé e per sé simili, o anche identiche, in sede di analisi logica ed epistemologica.
Per far sì che la prova giudiziaria sia sottoposta solo alle regole extranormative che presiedono a qualunque razionale giudizio di fatto, non basterebbe dunque eliminare ogni forma di « legalità della prova », né adottare la « procedura naturale » di Bentham che tanto affascinava anche Chiovenda: bisognerebbe abolire del tutto il processo.
In altre parole, per ritornare alle metafore già ricordate, sarà anche vero
che il rumore, le macchie del leopardo e le parti visibili del gatto del Cheshire
sono accidenti, o fenomeni intermittenti, rispetto a uno sfondo più vasto ed
aperto. Ma l’accertamento del fatto nel processo, quali che ne siano gli strumenti, si svolge comunque all’interno di una struttura che rimane chiusa, specifica ed artificiale, cioè più semplicemente giuridica, e che già di per sè condiziona pesantemente l’attività cognitiva del giudice, anche per gli aspetti non regolati dal diritto delle prove. Come lapidariamente diceva Francesco Carrara, il
FORME DEL PROCEDIMENTO E FUNZIONE DELLA PROVA ECC.
429
giudice deve decidere sul fatto bensì « secondo ragione », ma anche « secondo
il processo ».
10. – Consideriamo quell’elemento fondamentale, non istruttorio, della disciplina di qualunque processo, che è la costituzione del giudice. Semplificando, questo potrà essere un giudice professionale o un laico, una persona sola o
una pluralità di persone, e in questo caso si potrà trattare di un collegio di soli
professionisti, o di soli laici, o misto. E il giudice del fatto potrà essere investito
contemporaneamente anche del giudizio di diritto, oppure questo potrà essere
affidato ad altri.
Ora, è difficile credere che i meccanismi della formazione del convincimento (Chiovenda avrebbe appunto parlato di « funzione della prova »), per
quanto « naturali » e « universali », siano esattamente i medesimi per tutti questi giudici: e così ad esempio per un collegio, che si pronuncerà presumibilmente dopo uno scambio dialettico di opinioni al suo interno, e per un giudice
monocratico, che deciderà in esito a una meditazione solitaria.
Mi conforta vedere che la stessa opinione è condivisa, molto più autorevolmente, da Mirjan Damaška in un recente lucido saggio su Epistemology and
legal regulation of proof.
Pensiamo poi alla disciplina procedimentale della decisione sul fatto. Dovrà pur essere la legge, e non con regole stricto sensu probatorie, a stabilire se
questa debba essere resa subito dopo l’acquisizione delle prove o a distanza di
tempo; se debba consistere in un verdetto oracolare oppure essere corredata da
una motivazione scritta; se sia censurabile e annullabile da qualche organo diverso dal giudice che l’ha pronunciata; e così via. Anche queste variabili strutturali non potranno non interferire con la « funzione della prova ».
Consideriamo infine le modalità con cui il giudice recepisce le informazioni dalle quali dovrà trarre il giudizio di fatto, prendendo ad esempio, per comodità, proprio la contrapposizione chiovendiana tra processo orale e processo
scritto.
Io credo che Chiovenda avesse ragione nel ritenere profondamente diverse
la posizione del giudice del « processo orale », che si forma ed esprime il proprio convincimento sui fatti controversi sulla base delle sole informazioni raccolte immediatamente prima, nell’« aria » e nella « luce » di un’udienza dibattimentale, e quella del giudice che, prigioniero dei « labirinti » del « processo
scritto », esamina e valuta nel raccoglimento della camera di consiglio le risultanze istruttorie accumulatesi nel tempo in un fascicolo impolverato. Ma la differenza non sta nel fatto che solo il primo è in grado di riconoscere la falsità di
un testimone che arrossisce o balbetta: questo è soltanto folklore.
Ci sono altri caratteri differenziali molto più significativi sul piano della
« funzione della prova ». E il primo, come ancora giustamente rileva Damaška,
è banalmente quantitativo.
Il materiale istruttorio utilizzato dal giudice dell’oralità sarà di regola
molto ridotto, a causa sia dei limiti temporali dell’udienza (o delle poche udien-
430
RIVISTA DI DIRITTO PROCESSUALE
ze ravvicinate di cui parlava anche Chiovenda), sia dell’interesse dei difensori a
comporre le rispettive « storie » (per usare termini e concetti diffusi nella letteratura anglo-americana) con pochi e vistosi elementi, così da evitare che il giudice del fatto si distragga o si confonda. Nel caso del processo scritto, invece, il
fascicolo si irrobustisce e « stagiona » senza fretta (come diceva il sommo Rabelais) e non ha limiti di capienza: ci si può mettere di tutto.
Correlativamente, sarà indispensabile che le informazioni fattuali destinate
alla valutazione « immediata » del giudice dell’oralità siano accuratamente selezionate: che siano – per usare in senso generico e metaforico un’espressione
che nel sistema dell’Evidence ha anche un significato più preciso – soltanto « le
prove migliori ».
Soprattutto per questo si elaboreranno e si imporranno, come appunto è
avvenuto storicamente nel trial anglosassone, le « regole di esclusione »: non
già perché, come pensava Bentham, la losca consorteria dei giudici e degli avvocati si diverta a fare dell’istruzione probatoria un esperimento bizzarro ed
esoterico. E probabilmente nemmeno perché, come più seriamente pensava
Thayer, dove il giudice è laico sia necessario proteggerlo da informazioni fuorvianti. Il fatto è, piuttosto, che in un processo concentrato ed immediato mancano il tempo e gli strumenti per confutare la validità o il peso di prove che, comunque, siano state acquisite nell’imminenza della decisione.
Diversamente stanno le cose nel processo « scritto ». Qui, come si è detto,
le informazioni disponibili per la decisione sul fatto saranno molte di più, perché le parti, nella loro attività istruttoria, non penseranno alla preparazione di un
breve e drammatico day in court, ma dedurranno a prova o inseriranno nel fascicolo tutto ciò che in qualche modo potrà in seguito contribuire a sorreggere
le loro allegazioni: non si sa mai, melius abundare quam deficere.
Questo materiale sarà dunque scarsamente selezionato, e perfino il limite
generale della rilevanza, e quelli insiti nelle modalità di assunzione delle prove
« costituende », così come le preclusioni temporali per l’acquisizione anche
delle prove « precostituite », potranno essere aggirati introducendo comunque
nel fascicolo in forma documentale – se del caso surrettiziamente – le informazioni che essi escluderebbero.
Toccherà poi al giudice, a distanza di tempo, estrarre dal voluminoso fascicolo tutto questo materiale, riordinarlo, esaminarlo (magari più di una volta),
analizzarlo, compararne i singoli elementi (comme doit faire le bon juge, diceva
ancora Rabelais), fino ad estrarne una meditata decisione razionale, oppure a
gettare i dadi, come l’immortale giudice Bridoye, confidando nelle Intelligenze
Motrici.
Beninteso, non è escluso che i pericoli insiti in questi due diversi modi di
giudicare sul fatto siano in qualche modo simili, dato che, come il giudice
dell’oralità può essere sviato da sensazioni e impressioni superficiali, così il
giudice della scrittura può smarrirsi o distrarsi nel pelago delle carte, e limitarsi
allora a tastarle o annusarle, con la speranza di intuire approssimativamente
« come sono andate le cose ».
FORME DEL PROCEDIMENTO E FUNZIONE DELLA PROVA ECC.
431
Resta il fatto che si tratta di due meccanismi valutativi diversi.
11. – Come si vede, insomma, è probabile che siano soprattutto le « forme
del procedimento » a condizionare la « funzione della prova »: proprio come
diceva Chiovenda.
Pertanto l’attenzione alla disciplina e allo studio di queste forme (secondo
i rispettivi ruoli del legislatore e della dottrina) potrebbe rivelarsi in definitiva
più utile del tentativo di imporre dall’esterno un ordine e un regolamento alle
insondabili operazioni mentali del giudice.
Dopo di che, sarà ovviamente impossibile stabilire una volta per tutte quali
siano le « forme » più consone alla migliore razionalizzazione del giudizio di
fatto, eliminando allora tutte le altre varianti rintracciabili nella storia e nel diritto comparato: sia perché lo stesso concetto di « accertamento della verità »
non è costante nel tempo e nello spazio; sia soprattutto perché nell’organizzazione del processo in ogni suo aspetto (compresa l’istruzione probatoria in
senso stretto) pesano fattori ed esigenze di natura « non epistemica », bensì sociale, istituzionale, politica, economica e culturale.
Basterebbe soltanto ricordare che il modello del trial by jury, nonostante il
fascino irresistibile che ha sempre esercitato anche sui giuristi « continentali »,
non ha praticamente mai potuto essere esportato, ed anche nei suoi Paesi di origine ha sempre avuto, specie nel civile, un’applicazione ridotta, divenuta col
tempo marginale.
Di tutto ciò Chiovenda sembrava non rendersi conto, o disinteressarsi,
quando, partendo dalla convinzione che l’oralità fosse « così bella e ragionevole » (cioè da una scelta che era ad un tempo estetica e razionalistica), ci costruiva intorno, in vitro, un modello di processo e di istruzione probatoria palesemente impraticabile (almeno come strumento generale e quotidiano di risoluzione delle controversie) e pretendeva di vederlo già adottato ed operante nei
più disparati contesti geografici e istituzionali, dal Regno di Gran Bretagna al
Cantone di Zurigo e all’Impero del Sol Levante.
12. – Ritornando infine, per concludere, al fenomeno dell’allontanamento
del giudice dalla prova, che in misura crescente caratterizza i processi civili dei
nostri giorni, e non solo da noi, dovrebbero essere evidenti le ragioni soprattutto
economiche che ne stanno alla base, e sarebbe quindi inutile gridare allo scandalo.
Se peraltro da questo fenomeno non può derivare, come si è visto, alcun
« ritorno » ad un immaginario sistema della prova legale, certo può discenderne
una significativa « corruzione » del libero convincimento, nel senso di una
maggiore difficoltà per il giudice del merito, comunque costituito, di interpretare e valutare razionalmente le informazioni raccolte da altri e altrove.
Se e come si possa ovviare a questo indefinibile pericolo, non è facile dire.
Ma ritengo che i rimedi debbano essere cercati, ancora una volta, nella disciplina delle « forme del procedimento ».
432
RIVISTA DI DIRITTO PROCESSUALE
Prima di tutto, allora, sarà necessario distinguere per quanto possibile,
nell’àmbito di queste « prove lontane », tra quelle che si sono formate, oltre che
altrove, anche ad altri fini o in funzione di altri giudizi (ad es. quelle raccolte in
un processo penale), e sono importate nel giudizio ad quem in forma documentale, come « prove atipiche »; e quelle che invece si sono formate in funzione di
questo specifico giudizio di merito (come le prove assunte in via preventiva),
ovvero nel contesto di esso ma non in presenza e sotto il controllo diretto del
giudice del fatto (come sostanzialmente tutte le prove costituende in un processo « scritto » in senso chiovendiano).
In questa seconda serie di ipotesi, la legge processuale potrà e dovrà dettare modalità rigorose di formazione della prova nel rispetto del contraddittorio
(ometto per brevità ulteriori analisi e specificazioni); ma dovrà anche e soprattutto fare sì che la prova destinata ad essere conosciuta dal giudice solo
« traverso i verbali » gli arrivi in condizioni di accettabile integrità e « freschezza ». Risultato, questo, che non è certo garantito dagli illeggibili ed inverosimili
verbali manoscritti delle nostre cause civili, obbrobrio che nessuna esigenza di
economia può giustificare.
Ma se invece si pensa alle varie e più evolute forme di registrazione e conservazione della prova già sperimentate anche da noi nel processo penale e nella
prassi dei procedimenti arbitrali (stenotipia, registrazione magnetica, fonoscrittura, etc.), non è detto che non possano derivarne per il « prudente apprezzamento » del giudice del fatto risultati anche migliori di quelli della teatrale immediatezza chiovendiana. (Qualche volta può capitare anche a un laudator temporis acti di guardare con favore al progresso tecnologico. Non c’è contraddizione: i verbali dei notai medioevali erano splendidamente analitici).
Nel caso delle vere « prove atipiche », invece, la disciplina delle modalità
di formazione della prova rimarrà inevitabilmente estranea al regolamento del
processo ad quem, che pertanto potrà soltanto occuparsi delle condizioni e dei
limiti di utilizzabilità del loro risultato. Ma non certo attribuendo espressamente
alla prova atipica una efficacia inferiore, come contraddittoriamente è stato proposto proprio da qualche nemico delle « prove legali », bensì mediante ragionevoli « regole di esclusione » imperniate soprattutto sulla costituzione del contraddittorio nella sede donde la prova proviene. Ovvero, se queste regole non si
ritengono concretamente praticabili, almeno offrendo al giudice – proprio grazie all’impiego dei più affinati strumenti di raccolta e di conservazione delle
prove « tipiche », di cui si è detto – la possibilità di sottoporre a razionale ed
utile confronto critico, ovunque possibile, le risultanze acquisite attraverso
l’uno e l’altro percorso. Il che per lo meno eviterebbe il paradosso, al quale oggi
capita di assistere, per il quale la prova atipica, proveniente da altra precedente
e autonoma sede (un processo penale, un processo estero, un arbitrato) si presenta in realtà molto migliore (più completa, più intelligibile) di quella appositamente formata nel processo dove ora si tratta di valutarla.
BRUNO CAVALLONE
PRODUZIONE ED ESIBIZIONE DEI DOCUMENTI (*)
SOMMARIO: 1. Alcune precisazioni terminologiche. – 2. Conseguenze applicative sulla disciplina dell’esibizione. – 3. La c.d. relatività del vincolo
di indisponibilità delle prove documentali esibite o offerte in comunicazione dalle parti. – 4. Il giudizio di ammissione delle prove documentali.
1. – Qualsiasi tentativo di riflessione sull’attuale disciplina positiva della
produzione ed esibizione dei documenti necessita di alcune preliminari precisazioni di carattere terminologico, necessarie a mio avviso per mettere a fuoco
alcuni degli ancora irrisolti nodi concernenti l’acquisizione al processo dei
mezzi di prova precostituiti e proporre delle soluzioni sulle quali sia possibile
almeno aprire un dibattito (1).
Se riferiti ai documenti, i termini « produrre » ed « esibire » sono, nel linguaggio comune, sinonimi di presentare: produce o esibisce un documento chi
lo presenta, lo sottopone a qualcuno, a nulla rilevando che tale attività sia
spontanea o sia invece provocata da un invito o un ordine dell’autorità; la mera
esibizione peraltro, al contrario della produzione, non implica nel linguaggio
comune la consegna fisica o il deposito del documento e così la perdita, almeno
temporanea, del possesso o della detenzione, essendo la stessa connotata da un
carattere di provvisorietà (2).
––––––––––––
(*) Questo scritto riproduce, con qualche modifica e con l’aggiunta delle note, il testo della Relazione al XXV Convegno dell’Associazione nazionale fra gli studiosi del
processo civile, tenutosi a Cagliari il 6, 7 e 8 ottobre 2005.
(1) Va tenuto presente infatti che, anche nel linguaggio tecnico giuridico, i termini
produzione ed esibizione hanno assunto nel tempo diversi e molteplici significati. Secondo la terminologia adottata da Chiovenda e mutuata da Andrioli, ad esempio, la
« produzione » ha indistintamente ad oggetto tutte le prove, e « può consistere o nella
esibizione di prove già complete ed immediatamente disponibili (precostituite), o nella
istanza perché siano ammessi e compiuti i procedimenti per la esibizione di prove d’altra
natura »: cfr. G. Chiovenda, Principii di diritto processuale civile, rist., Napoli 1965, p.
798; V. Andrioli, voce Prova (diritto processuale civile), in Noviss. dig. it., XIV, Torino
1967, p. 260 ss., spec. p. 270 s.
(2) Cfr. in argomento A. Graziosi, L’esibizione istruttoria nel processo civile italiano, Milano 2003, p. 3 ss.; S. La China, L’esibizione delle prove nel processo civile,
434
RIVISTA DI DIRITTO PROCESSUALE
Parzialmente diverso è invece il significato assunto dai due termini nel lessico del vigente codice di rito, che prende in considerazione i documenti come
mezzi dei quali ci si può servire per la dimostrazione dell’esistenza o dell’inesistenza di un fatto rilevante per il giudizio, ovverosia come mezzi di prova,
così come hanno recentemente ribadito, in due recenti e coeve sentenze, le Sezioni Unite della Corte di Cassazione, chiamate a comporre i contrasti giurisprudenziali registratisi in punto di ammissione di nuovi documenti in appello,
nel rito ordinario e in quello del lavoro (3).
Dette sentenze, che hanno già suscitato vivaci e contrastanti reazioni in
dottrina (4), sono certamente destinate a far discutere per avere da un lato ingiustamente obliterato i poteri istruttori d’ufficio attribuiti dal legislatore al giudice
nel rito del lavoro (5), in grado di appello non meno che nel giudizio di primo
grado, e per avere dall’altro lato messo involontariamente a nudo l’intrinseca
––––––––––––
Milano 1960, p. 1 ss.; V. Sparano, L’esibizione di prove nel processo civile, Napoli 1961,
p. 1 ss.
(3) Cass., sez. un., 20 aprile 2005, nn. 8202 e 8203, in questa Rivista 2005, p. 1051
ss., con nota di B. Cavallone, Anche i documenti sono « mezzi di prova » agli effetti degli
artt. 345 e 437 c.p.c.; in Corr. giur. 2005, p. 929 ss. con note di G. Ruffini, Preclusioni
istruttorie in primo grado e ammissione di nuove prove in appello: gli artt. 345, comma
3, e 437, comma 2, c.p.c. al vaglio delle Sezioni Unite, e C. Cavallini, Le Sezioni Unite
restringono i limiti delle nuove produzioni documentali nell’appello civile, ma non le
vietano; in Foro it. 2005, I, c. 1690 ss., con note di D. Dalfino, Limiti all’ammissibilità di
documenti nuovi in appello: le sezioni unite compongono il contrasto di giurisprudenza
(anche con riferimento al rito ordinario), C.M. Barone, Nuovi documenti in appello: è
tutto chiarito? e A. Proto Pisani, Nuove prove in appello e funzione del processo; ivi
2005, I, c. 2719 ss., con nota di C.M. Cea, Principio di preclusione e nuove prove in appello; in Giur. it. 2005, p. 1460 ss., con nota di A.M. Socci, Le sezioni unite sulla produzione dei documenti (in appello e in primo grado) e sui poteri del giudice nel rito ordinario e del lavoro, tra stop and go.
(4) Cfr. gli Autori citati alla nota precedente, ai quali adde G. Balena, Le preclusioni istruttorie tra concentrazione del processo e ricerca della verità, Relazione al XXV
Congresso dell’Associazione fra gli studiosi del processo civile, in corso di pubblicazione
nei relativi Atti, nn. 17-18; R. Oriani, Eccezioni rilevabili (e non rilevabili) d’ufficio. A
proposito dell’interruzione della prescrizione e di non condivisibili interpretazioni
dell’art. 345, 2° comma, c.p.c. (II), in Corr. giur. 2005, p. 1156 ss., spec. p. 1173; Id.,
L’interruzione della prescrizione è rilevabile d’ufficio: le sezioni unite della Corte di
cassazione abbandonano un indirizzo risalente al 1923, in Foro it. 2005, I, c. 2660 ss.,
spec. c. 2665 s.
(5) Tanto che non sono mancate successive pronunce discordi da parte della Sezione Lavoro della Suprema Corte: cfr. ad esempio Cass., sez. lav., 27 giugno 2005, n.
13723, dove si afferma che il contratto collettivo di lavoro non prodotto in primo grado
può essere prodotto per la prima volta in appello, trattandosi di prova precostituita e perciò non vietata dall’art. 437, comma 2°, c.p.c.
PRODUZIONE ED ESIBIZIONE DEI DOCUMENTI
435
ingiustizia ed irragionevolezza di una disciplina processuale che, non consentendo di rimediare, nemmeno in grado di appello, alle decadenze e preclusioni
nelle quali le parti siano incorse nella fase introduttiva del giudizio di primo
grado, sacrifica troppo disinvoltamente la giustizia ad una di per sé sola inutile,
quanto chimerica, rapidità della decisione. Non di meno le stesse hanno il pregio di avere chiarito, a fronte di taluni disorientamenti dottrinali e giurisprudenziali, che i documenti sono qualificabili a tutti gli effetti come mezzi di prova (6) e come tali sono e non possono non essere disciplinati nel nostro codice
di rito (7).
In contrasto con una più che autorevole e risalente dottrina (8), io non credo peraltro che la qualificazione dei documenti come mezzi di prova possa giustificare l’affermazione secondo la quale nel lessico del codice di rito la produzione del documento consisterebbe in una dichiarazione, avente per oggetto
l’affermazione in ordine all’esistenza del documento e al suo collegamento col
thema probandum, e si contrapporrebbe come tale all’esibizione, intesa come
operazione processuale attraverso la quale il documento viene materialmente
posto a disposizione dell’ufficio.
Non solo infatti l’art. 87 disp. att. c.p.c. stabilisce chiaramente che la produzione dei documenti formatisi al di fuori del processo (9) avviene mediante il
––––––––––––
(6) Nello stesso senso in dottrina cfr. G. Chiovenda, Principii di diritto processuale civile, cit., pp. 812 s., 842; C. Lessona, Trattato delle prove in materia civile, I,
Firenze 1914, pp. 86, 119 s.; F. Carnelutti, La prova civile, 2a ed., Roma 1947, pp. 83
s., 130 ss.; V. Denti, La verificazione delle prove documentali, Torino 1957, p. 28;
Id., voce Prova documentale (dir. proc. civ.), in Enc. dir., XXXVII, Milano 1988, p.
713 ss., spec. p. 716; E.T. Liebman, Manuale di diritto processuale civile. Principi,
6a ed., Milano 2002, p. 315 s.; E. Redenti-M. Vellani, Diritto processuale civile, 4a
ed., II, Milano 1997, p. 66; C. Mandrioli, Diritto processuale civile, 17a ed., II, Torino 2005, p. 106; S. La China, Diritto processuale civile. Le disposizioni generali,
Milano 1991, p. 625; M. Taruffo, La prova dei fatti giuridici, Milano 1992, pp. 421
s., 438 ss.; G. Verde, voce Prova (dir. proc. civ.), in Enc. dir., XXXVII, Milano
1988, pp. 579 ss., 588 s.; L.P. Comoglio, Le prove civili, Torino 1998, p. 8 ss.; C.
Besso, La prova prima del processo, Torino 2004, p. 1 s.; G. Ruffini, La prova nel
giudizio civile di appello, Padova 1997, p. 214 ss.; A. Graziosi, L’esibizione istruttoria nel processo civile italiano, cit., p. 5; A. Tedoldi, L’istruzione probatoria
nell’appello civile, Padova 2000, p. 222 ss.
(7) Per la dimostrazione di tale assunto ed una ricognizione del dibattito dottrinale e
giurisprudenziale sull’argomento, mi permetto di rinviare a G. Ruffini, La prova nel giudizio civile di appello, cit., p. 207 ss. Ma ancora oggi cfr., in senso contrario, C.M. Barone, op. cit., c. 1698 s.; A. Proto Pisani, op. cit., c. 1699 s.
(8) Cfr. V. Denti, La verificazione, cit., p. 106, sulla scia di E. Betti, Diritto processuale civile italiano, 2a ed., Roma 1936, p. 290.
(9) Per i documenti che si formano nel processo cfr. V. Denti, voce Prova documentale (dir. proc. civ.), cit., p. 718 s.
436
RIVISTA DI DIRITTO PROCESSUALE
materiale deposito degli stessi, ossia mediante il loro inserimento nel fascicolo
di parte o in quello d’ufficio (artt. 74 e 76 disp.att. c.p.c., art. 320 c.p.c., artt. 3 e
5 d.lgs. 17 gennaio 2003, n. 5), tanto che al cancelliere è demandato il compito
di rilasciarne copie ed estratti autentici (art. 58 c.p.c.), ma alla parte contro cui
un documento è prodotto è altresì imposto l’onere di disconoscere la propria
sottoscrizione o la propria scrittura alla prima udienza o nella prima difesa successiva alla produzione, il che davvero non si comprenderebbe se la produzione
non fosse considerata dal legislatore quale attività materiale diretta a mettere il
documento a disposizione delle altre parti e dell’ufficio, ai fini della sua acquisizione al processo.
Tutto ciò non significa, peraltro, che per i documenti prodotti in giudizio
dalle parti non possa di regola parlarsi di proposizione e sia pertanto irrilevante,
rispetto ad essi, la dichiarazione dell’esistenza degli stessi e del loro collegamento con il thema probandum (10): proposizione e produzione dei documenti
sono infatti attività logicamente distinte, anche se per avventura cronologicamente coincidenti, e d’altra parte la produzione non è ammessa se i documenti
non siano previamente o contestualmente indicati, e quindi proposti, quali mezzi di prova (11).
Il fatto che i documenti, quali mezzi di prova, debbano entrare nel processo attraverso il loro materiale inserimento nel fascicolo di parte ovvero in quello
d’ufficio, ossia con forme e modalità tali da consentire a tutte le parti di prenderne visione, estrarne copia e discuterne il contenuto, ed al giudice di trarne
elementi di conoscenza utili ai fini della formazione del proprio convincimento
sui fatti di causa, e la circostanza che non sempre gli stessi documenti si trovano
nel possesso della parte che intende servirsene in giudizio, giustifica invece il
diverso valore semantico assunto dal termine esibizione, che nel lessico del codice di rito perde innanzitutto il suo connotato di provvisorietà (12), per essere
––––––––––––
(10) Mi permetto in proposito di rinviare a G. Ruffini, La prova nel giudizio civile
di appello, cit., p. 216 ss., non senza rilevare che la contraria opinione ora espressa da G.
Balena, Le preclusioni istruttorie tra concentrazione del processo e ricerca della verità,
cit., n. 18, a parere del quale le prove documentali non sarebbero proposte, ma soltanto
prodotte, si pone in contrasto con il disposto letterale dell’art. 115 c.p.c., che imponendo
al giudice di fondare il proprio giudizio di fatto, in mancanza di diverse previsioni di legge, sulle prove proposte dalle parti o dal pubblico ministero, si riferisce evidentemente
anche alle prove documentali.
(11) Secondo Cass., sez. lav., 20 ottobre 2005, n. 20265, la parte che depositi documenti in giudizio ha l’onere di precisare lo scopo della produzione in relazione alle
proprie pretese, derivandone altrimenti per la controparte l’impossibilità di controdedurre
e risultando per il giudice preclusa la possibilità di tenere conto di detti documenti ai fini
della decisione.
(12) Cfr. B. Cavallone, voce Esibizione delle prove nel diritto processuale civile, in
Dig. disc. priv., sez. civ., VII, Torino 1991, p. 664 ss., spec. p. 665; A. Graziosi, L’e-
PRODUZIONE ED ESIBIZIONE DEI DOCUMENTI
437
anch’essa finalizzata all’acquisizione al processo di un documento o di una cosa, come si evince agevolmente dall’art. 210 c.p.c.
È noto inoltre che il nostro legislatore riserva il termine di esibizione a
quella che, sulla base di esperienze provenienti da altri ordinamenti, si potrebbe
altrimenti definire produzione forzata (13), effettuata da una parte o da un terzo
in ottemperanza ad un ordine del giudice, emesso normalmente su istanza di
parte ed in determinati casi anche d’ufficio (14); ed utilizza invece i verbi
« depositare » e « produrre » per riferirsi all’attività della parte che, essendo in
possesso di un documento del quale intende avvalersi in giudizio, lo offra in
comunicazione, mettendolo spontaneamente a disposizione delle altre parti e
del giudice.
Se peraltro è corretto il rilievo secondo il quale nel lessico del codice di
rito il termine di esibizione, in senso tecnico, costituisce l’oggetto di un ordine
del giudice e identifica il comportamento processuale della parte o del terzo che
a quell’ordine presti obbedienza (15), è altrettanto indubitabile che detto comportamento forzato della parte o del terzo non consiste in altro che nel depositare in giudizio, nel produrre un documento o altra cosa di cui il giudice ritenga
necessaria l’acquisizione al processo (16). Ciò è del resto fatto palese dal tenore
letterale dell’art. 212 c.p.c., nel quale i verbi « esibire » e « produrre » sono utilizzati come sinonimi, e alla luce del quale appare corretto affermare che l’attività dovuta dal destinatario dell’ordine di esibizione di un documento o di un
libro di commercio consiste nella produzione dell’originale, salvo che il giudice
istruttore non disponga che, in sostituzione degli originali, siano prodotti copie
o estratti autentici.
––––––––––––
sibizione istruttoria nel processo civile italiano, cit., p. 4; L.P. Comoglio, Le prove civili,
cit., p. 375, nt. 9; F. Ferrari, La « prova migliore », Milano 2004, p. 289, nt. 44. Diversamente orientato, nel senso che il giudice possa ordinare che l’esibizione avvenga
all’udienza, « con facoltà per il soggetto passivo di subito riprendere la cosa, dopo la descrizione nel verbale », cfr. A. Massari, voce Esibizione delle prove, in Noviss. dig. it.,
VI, Torino 1960, p. 836 ss., spec. p. 845.
(13) Cfr. B. Ficcarelli, Esibizione di documenti e discovery, Torino 2004, p. 47 ss.
(14) Cfr. B. Cavallone, voce Esibizione delle prove, cit., p. 668 s.; L.P. Comoglio,
Le prove civili, cit., p. 382 ss.; A. Graziosi, L’esibizione istruttoria nel processo civile
italiano, cit., p. 60 ss.
(15) Cfr. L.P. Comoglio, Le prove civili, cit., p. 374; F. Ferrari, op. loc. ult. cit.; S.
La China, L’esibizione delle prove nel processo civile, cit., p. 4 s.; E.T. Liebman, Manuale di diritto processuale civile. Principi, 6a ed., cit., p. 337 s. C. Mandrioli, Diritto
processuale civile, 17a ed., II, cit., p. 240 ss.; E. Redenti – M. Vellani, Diritto processuale
civile, 4a ed., II, cit., pp. 90, 241; V. Sparano, L’esibizione di prove nel processo civile,
cit., p. 7.
(16) Cfr. S. La China, L’esibizione delle prove nel processo civile, cit., pp. 196 e
103; L.P. Comoglio, Le prove civili, cit., p. 379.
438
RIVISTA DI DIRITTO PROCESSUALE
Non sembra pertanto esatto contrapporre all’esibizione la produzione, che
anche nel linguaggio fatto proprio dal nostro codice di rito può essere sia spontanea che provocata, corrispondendo tanto all’attività di chi, volendo avvalersi
di un documento in giudizio, lo offre in comunicazione, tanto all’attività di chi,
ottemperando ad un ordine di esibizione, depositi in giudizio, mettendolo a disposizione delle parti e del giudice, un documento di cui quest’ultimo abbia ritenuto necessaria l’acquisizione. La produzione, sia spontanea che provocata, è
infatti l’attività processuale attraverso la quale entrano nel processo, per essere
acquisiti, i documenti e gli altri mezzi di prova precostituiti, in modo che le
parti possano esercitare sugli stessi il contraddittorio ed il giudice, all’esito degli
eventuali procedimenti diretti ad accertare l’autenticità o la falsità delle scritture, possa utilizzarli ai fini della formazione del suo convincimento in ordine ai
fatti di causa (17).
Ciò che può contrapporsi all’esibizione, quale evento processuale forzato conseguente ad un ordine del giudice, non è quindi la produzione, ma la
offerta in comunicazione dei documenti, evento processuale spontaneo ricollegato al potere dispositivo delle parti e disciplinato dal codice di rito sotto il profilo dell’onere di previa indicazione negli atti introduttivi dei documenti depositati in giudizio all’atto della costituzione (artt. 163, 165, 166,
167, 414, 415, 416 c.p.c.; artt. 3 e 5 d.lgs. n. 5 del 2003), dell’onere di indicazione con apposito elenco da comunicare alle altre parti, a norma dell’art.
170, ult. cpv., c.p.c. dei documenti depositati in cancelleria dopo la costituzione (art. 87 disp.att. c.p.c.) ed infine del dovere di fare menzione nel relativo verbale dei documenti eventualmente prodotti in udienza (art. 87
disp.att. c.p.c.) (18).
––––––––––––
(17) Cfr. già C. Lessona, Trattato delle prove in materia civile, I, cit., p. 118 ss.
Nell’ordinamento vigente, cfr. L.P. Comoglio, Le prove civili, cit., p. 373 ss., nonché, con
specifico riferimento all’esibizione e ai suoi rapporti con l’istituto dell’ispezione A. Graziosi, L’esibizione istruttoria nel processo civile italiano, cit., p. 88 ss.; S. La China,
L’esibizione delle prove nel processo civile, cit., p. 203 ss.
(18) Va precisato che nei procedimenti pretorili ancora disciplinati, ratione temporis, dalla normativa contenuta nel testo originario degli artt. 311-318 c.p.c., non ancora
sostituiti dalla legge 23 novembre 1990, n. 353, la mancata previsione nell’art. 313 (contenuto della domanda) dell’indicazione dei documenti offerti in comunicazione
dall’attore e la previsione (art. 315) secondo la quale « i documenti prodotti dalle parti
possono essere inseriti nel fascicolo d’ufficio » non esoneravano l’attore dall’onere di
notificare al convenuto un elenco dei documenti depositati in cancelleria dopo la costituzione, ai sensi dell’art. 87 disp. att. c.p.c.; in argomento cfr. di recente Cass., 19 luglio
2005, n. 15189, in Foro it. 2005, I, c. 323 ss., con nota su tale punto ingiustamente critica
di C.M. Barone, Processo ordinario davanti al pretore e produzione di documenti: equivoci ed amnesie.
PRODUZIONE ED ESIBIZIONE DEI DOCUMENTI
439
2. – Sulla base di tali precisazioni terminologiche è senz’altro da condividere l’opinione che vuole applicabili anche alle scritture private esibite da una
delle parti o da un terzo le norme dettate dagli artt. 214 ss. c.p.c. in tema di riconoscimento e verificazione delle scritture private prodotte in giudizio, con la
conseguenza che la parte, richiedente l’esibizione, alla quale la scrittura esibita
sia attribuita come propria ha l’onere di disconoscere la propria sottoscrizione o
la propria scrittura alla prima udienza o nella prima difesa successiva alla esibizione e che l’altra parte, che di tale scrittura intenda invece avvalersi, ha l’onere
di chiederne la verificazione giudiziale (19).
Le stesse consentono inoltre, sul piano pratico, di accedere alla communis
opinio secondo la quale nel giudizio ordinario di cognizione dinanzi al tribunale
i documenti esibiti da una delle parti in conseguenza di un ordine giudiziale di
esibizione devono essere inseriti nel rispettivo fascicolo assieme ai documenti
dalla stessa prodotti spontaneamente, e non già nel fascicolo d’ufficio (20). Tale
soluzione appare infatti imposta, sul piano esegetico, dal tenore letterale
dell’art. 74 disp.att. c.p.c., a norma del quale i documenti di causa devono essere inseriti in un’apposita sezione del fascicolo di parte, il cui indice deve essere
sottoscritto dal cancelliere ogni volta che vi sia inserito un nuovo atto o documento; mentre in senso contrario non mi sembra possano essere utilmente richiamati, contrariamente a quanto ipotizzato da un’autorevole dottrina (21), né
l’art. 76 disp.att. c.p.c., che contemplando i documenti inseriti nel fascicolo
d’ufficio, accanto a quelli inseriti nei fascicoli delle parti, manifestamente si
riferisce ai documenti che non siano stati depositati in giudizio da queste ultime,
e così ad esempio a quelli esibiti dai terzi (22); né l’art. 168, comma 2°, c.p.c.,
che nel prevedere che il cancelliere debba inserire nel fascicolo di ufficio anche
« gli atti di istruzione » sembra piuttosto riferirsi ai processi verbali relativi agli
atti di istruzione compiuti al di fuori dell’udienza e alle relazioni depositate dai
consulenti tecnici d’ufficio.
––––––––––––
(19) Cfr. M. Fabiani, in Codice di procedura civile commentato, 2a ed., a cura di C.
Consolo e F.P. Luiso, Milano 2000, sub Art. 215, p. 1177 ss., spec. p. 1178; V. Sparano,
L’esibizione di prove nel processo civile, cit., pp. 317-327.
(20) Cfr. S. La China, L’esibizione delle prove, cit., p. 203; A. Graziosi, L’esibizione istruttoria nel processo civile italiano, cit., p. 320; B. Cavallone, voce Esibizione
delle prove, cit., p. 675. Contra cfr. invece V. Sparano, L’esibizione di prove nel processo civile, cit., p. 29 ss., nonché, in termini dubitativi, L.P. Comoglio, Le prove civili, cit.,
pp. 380, nt. 33 e 382.
(21) Cfr. L.P. Comoglio, Le prove civili, cit., p. 380, nt. 33.
(22) Nel senso che i documenti esibiti dai terzi vadano inseriti nel fascicolo
d’ufficio cfr. B. Cavallone, op. loc. ult. cit.; L.P. Comoglio, Le prove civili, cit., p. 380;
A. Graziosi, L’esibizione istruttoria nel processo civile italiano, cit., p. 320; S. La China,
L’esibizione delle prove nel processo civile, cit., p. 203 s.; V. Andrioli, Diritto processuale civile, I, Napoli 1979, p. 673.
440
RIVISTA DI DIRITTO PROCESSUALE
Si ripropongono pertanto, anche con riferimento ai documenti esibiti in
giudizio dalle parti in ottemperanza ad un ordine del giudice che ne abbia ritenuto necessaria l’acquisizione al processo, le stesse vistose incongruenze già
segnalate dalla dottrina con riferimento ai documenti spontaneamente offerti in
comunicazione, e scaturenti dalla c.d. relatività del vincolo di indisponibilità dei
documenti inseriti nei fascicoli di parte (23).
3. – Come è noto, ai sensi dell’art. 169 c.p.c., non soltanto il giudice
istruttore può autorizzare le parti a ritirare dalla cancelleria i rispettivi fascicoli,
da ridepositarsi « ogni volta che il giudice lo disponga », ma ciascuna di esse
può ritirare il proprio fascicolo all’atto della rimessione della causa al collegio,
pur essendo tenuta a restituirlo « al più tardi al momento del deposito della
comparsa conclusionale ».
Ne consegue che, ove una parte, nel corso del giudizio di primo grado, non
restituisca nei termini il proprio fascicolo o alcuni dei documenti nello stesso
contenuti, ovvero rimanga contumace in grado di appello, o ometta di ridepositare in detto giudizio tutti o alcuni dei documenti, se anche corre il rischio della
propria soccombenza per difetto di prova, e consente al giudice di desumere
argomenti di prova dal proprio comportamento, può concretamente impedire
all’avversario, che di quei documenti non abbia provveduto ad estrarre e produrre copie autentiche, di avvalersene in giudizio, ed al giudice di esaminarli al
momento della decisione della causa (24).
––––––––––––
(23) Cfr. B. Cavallone, voce Esibizione delle prove, cit., p. 669; C. Mandrioli,
Diritto processuale civile, 17a ed., II, cit., p. 239; S. Chiarloni, Documenti favorevoli al
vincitore non (ri)prodotti in secondo grado e convincimento del giudice: alcune spiacevoli conseguenze ascrivibili all’imperfetta attuazione del principio di acquisizione
processuale per le prove precostituite, in Giur. it. 2003, p. 255 s.; M. Conte, Le prove
civili, Milano 2005, p. 98 ss.; F. De Stefano, L’istruzione della causa nel nuovo processo civile, Padova 1999, p. 337 ss.; S. Magnone Cavatorta, Sul ritiro dei documenti
prodotti e sulle conseguenze della loro mancata restituzione, in questa Rivista 1984, p.
169 ss.; C. Petrucci, voce Fascicolo di parte, in Enc. dir., XVI, Milano 1967, p. 870
ss., spec. p. 871 s.
Con particolare riferimento ai documenti esibiti in giudizio dalle parti in ottemperanza ad un ordine del giudice cfr. A. Graziosi, L’esibizione istruttoria nel processo civile
italiano, cit., p. 89, testo e nt. 134; L.P. Comoglio, Le prove civili, cit., p. 381 ss.
(24) In questo senso, con riferimento ai documenti depositati e poi illegittimamente sottratti nel corso del giudizio di primo grado da una delle parti, cfr. Cass., 3
agosto 1951, n. 2346, in Foro it. 1952, I, c. 1380, con nota critica di A. Musatti, Irripetibilità degli « alligata »; Cass., 16 maggio 1968, n. 1535, in Foro it. 1969, I, c.
737; Cass., 3 luglio 1975, n. 2580, in Foro it. Mass. 1975, c. 620; Cass., 27 ottobre
1982, n. 5627, in questa Rivista 1984, p. 169 ss., con nota critica di S. Magnone Ca-
PRODUZIONE ED ESIBIZIONE DEI DOCUMENTI
441
In dottrina non manca chi, pur proponendo qualche correttivo, appare disposto ad accettare tali eventualità come normale conseguenza della asserita
impossibilità di un giudizio di ammissione e di una vera e propria acquisizione
al processo dei mezzi di prova precostituiti, per i quali dovrebbe riemergere in
modo preponderante un malinteso principio di disponibilità delle prove, in forza
del quale a ciascuna parte dovrebbe sempre essere garantito il potere di sottrarre
dagli atti del giudizio i documenti dalla stessa prodotti (25). Ciò che ne risulta,
peraltro, è un sistema palesemente irragionevole, nel quale la parte che abbia
ottemperato a un ordine giudiziale di esibizione di un documento, emanato ai
fini della stabile acquisizione dello stesso agli atti di causa, sarebbe poi libera di
sottrarre detto documento, impedendo al giudice di fondare su di esso la propria
decisione; e nel quale ciascuna delle parti, dopo il giudizio di maturità della
causa effettuato dal giudice ai fini della rimessione in decisione, sarebbe libera
di sconvolgere a proprio piacimento il quadro probatorio sottraendo al proprio
fascicolo uno o più documenti sui quali quel giudizio di maturità era stato fondato.
Si consideri inoltre che, ai sensi dell’art. 123-bis disp. att. c.p.c., il giudice
dinanzi al quale sia stata impugnata una sentenza non definitiva e che ritenga
necessaria, ai fini della decisione, l’acquisizione di documentazione contenuta
nel fascicolo del giudizio nel quale è stata pronunciata la sentenza impugnata
deve richiedere la trasmissione del fascicolo d’ufficio, ovvero ordinare alla
parte interessata di produrre copia della suddetta documentazione (26). Il che
rende davvero incomprensibile un sistema in cui invece, laddove ad essere impugnata sia una sentenza definitiva, il mancato deposito in appello del proprio
fascicolo ad opera di una della parti può portare alla soccombenza dell’altra per
difetto di prova (27).
––––––––––––
vatorta, Sul ritiro dei documenti prodotti e sulle conseguenze della loro mancata restituzione, cit.; Cass., 5 dicembre 1992, n. 12947, in Giur. it. 1993, I, 1, c. 1450; Trib.
Lanciano, 13 marzo 2001, in P.Q.M. 2001, 2, p. 63; Cass. 15 marzo 2004, n. 5241, in
Gius 2004, p. 3025; Cass., 6 luglio 2004, n. 12317, in Foro it. Rep. 2004, voce Procedimento civile, n. 234. Contra, nel senso che, nell’ipotesi in cui una parte che abbia
prodotto un documento lo elimini successivamente dal proprio fascicolo, il giudice
del tutto legittimamente potrebbe ritenere provato, ai sensi dell’art. 116 c.p.c., il contenuto del documento quale affermato dalla controparte, cfr. App. Firenze, 23 novembre 1965, in Giur. tosc. 1966, p. 284.
Per l’ipotesi di mancato deposito nel giudizio di appello di documenti già prodotti
nel giudizio di primo grado v. infra, nota n. 27.
(25) M. Conte, Le prove civili, cit., pp. 61 s., 98 ss.
(26) Cfr. Cass., sez. lav., 1° marzo 2005, n. 4267, in Foro it. Rep. 2005, voce Impugnazioni civili, n. 18.
(27) Cfr. Cass., sez. lav., 15 gennaio 2004, n. 511, in Ragiusan 2004, fasc. 243, p.
242; Cass., 8 maggio 2003, n. 6987, in Foro it. Rep. 2003, voce Prova documentale, n.
442
RIVISTA DI DIRITTO PROCESSUALE
La c.d. relatività del vincolo di indisponibilità delle prove documentali
esibite o offerte in comunicazione dalle parti, lungi dal costituire un’applicazione del principio dispositivo, appare pertanto il frutto indigesto di un’infelice scelta normativa adottata da un legislatore dimentico che, in un sistema informato al principio di acquisizione delle risultanze istruttorie, scopo dell’offerta in comunicazione e dell’esibizione è quello di assicurare durevolmente al
processo le prove precostituite, in modo che ciascuna delle parti possa dedurne
conclusioni a proprio vantaggio e il giudice possa trarne elementi per la formazione del proprio convincimento, anche contro l’interesse della parte producente (28).
D’altronde, se davvero la regola del necessario inserimento nel rispettivo
fascicolo di parte, esposto all’esercizio della facoltà di ritiro, di tutti i documenti da ciascuna parte prodotti, fosse imposta dalla necessaria reversibilità
dell’acquisizione al processo delle prove precostituite, siccome asseritamente
non soggette ad un giudizio di ammissione, e dalla conseguente relatività del
vincolo di indisponibilità sulle stesse gravante, detta regola dovrebbe indi-
––––––––––––
31; App. Torino, 20 luglio 2002, in Giur. it. 2003, p. 255 s., con nota critica di S. Chiarloni, Documenti favorevoli al vincitore non (ri)prodotti in secondo grado e convincimento del giudice, cit.; Cass., 26 febbraio 1998, n. 2078, in Foro it. Rep. 1998, voce Appello civile, n. 82; Cass., 24 febbraio 1993, n. 2280, in Foro it. Rep. 1993, voce Appello
civile, n. 6.
(28) Sull’applicabilità ai documenti del principio di acquisizione processuale
cfr. G. Chiovenda, Principii di diritto processuale civile, p. 748 s.; C. Lessona, La
rinuncia ad un mezzo di prova, in Arch. giur. 1904, pp. 70 ss., 73; Id., Trattato delle
prove in materia civile, I, Firenze 1914, p. 119 s.; V. Andrioli, voce Prova (diritto
processuale civile), cit., p. 282 s.; E.T. Liebman, Manuale di diritto processuale civile. Principi, 6a ed., cit., p. 337; C. Mandrioli, Diritto processuale civile, 17a ed., II,
cit., p. 239; S. Satta, Commentario al codice di procedura civile, II, 1, rist., Milano
1966, p. 203; S. Satta, C. Punzi, Diritto processuale civile, 13a ed., Padova 2000, p.
321; E. Redenti - M. Vellani, Diritto processuale civile, 4a ed., II, cit., pp. 65, 90; G.
Tarzia, Il litisconsorzio facoltativo nel giudizio di primo grado, Milano 1972, p. 423
s.; Id., Lineamenti del processo civile di cognizione, 2a ed., Milano 2002, p. 167; B.
Cavallone, Discrezionalità del giudice civile nella nomina del traduttore e
dell’interprete, in questa Rivista 1968, p. 271 ss., spec. p. 272 s.; L.P. Comoglio, Acquisizione documentale e processo tributario, in Dir. e prat. trib. 1974, II, p. 837 ss.,
spec. p. 847 ss.; S. Menchini, Il processo litisconsortile. I. Struttura e poteri delle
parti, Milano 1993, p. 322; M. Montanari, Il principio di prova per iscritto, Torino
2005, p. 499; F. De Stefano, L’istruzione della causa nel nuovo processo civile, cit.,
p. 337 s.
In giurisprudenza cfr. Cass., 6 settembre 2005, n. 17794, in Foro it. Rep. 2005, voce Prova documentale, n. 7; Cass., 3 ottobre 2000, n. 13068, in Foro it. Rep. 2000, voce
Matrimonio, n. 186; Cass., 27 agosto 1998, n. 8530, in Arch. locazioni 1998, 863; Cass.,
12 giugno 1998, n. 5887, in Foro it. Rep. 1998, voce Fallimento, n. 292.
PRODUZIONE ED ESIBIZIONE DEI DOCUMENTI
443
stintamente valere per qualsiasi giudizio, e non riguardare invece esclusivamente i processi ordinari di cognizione celebrati dinanzi al tribunale e alla
corte d’appello.
Il panorama normativo è invece caratterizzato da scelte assai diversificate, per non dire capricciose, che dimostrano come anche per le prove precostituite sia perfettamente concepibile la piena operatività del principio di
acquisizione.
In particolare, mentre nel processo ordinario di cognizione dinanzi al
tribunale e alla corte di appello i documenti sono tutti inseriti nel fascicolo
della parte che li produce, sia se depositati all’atto della costituzione in giudizio, sia se depositati successivamente, nel rito societario le parti possono
irragionevolmente inserire nei rispettivi fascicoli, esposti alla facoltà di ritiro, soltanto i documenti offerti in comunicazione all’atto della loro costituzione in giudizio, laddove invece i documenti depositati successivamente
debbono essere inseriti nel fascicolo d’ufficio, rimanendo pertanto, essi solo,
stabilmente ed irreversibilmente acquisiti al processo fino a che non ne sia
eventualmente ordinato lo stralcio dagli atti di causa (cfr. artt. 3 e 5 d.lgs. 17
gennaio 2003, n. 5).
Dinanzi al giudice di pace, poi, l’art. 320 c.p.c. lascia ciascuna parte libera di predisporre o meno un fascicolo di parte, nel quale inserire i documenti dalla stessa prodotti, ed in mancanza del quale i documenti stessi
« possono essere inseriti nel fascicolo d’ufficio ed ivi conservati fino alla
definizione del giudizio »: con la singolare conseguenza che il pieno operare
del principio di acquisizione, per quanto riguarda le prove documentali, finisce per dipendere dalla scelta della parte producente di non predisporre un
proprio fascicolo.
Il sistema, così come sopra delineato, appare del tutto irragionevole, sì da
giustificare un davvero urgente intervento di riforma, che preveda, per tutti i
riti, l’obbligo di inserimento nel fascicolo d’ufficio di tutti i documenti comunque prodotti o esibiti dalle parti, e/o ne subordini la possibilità di ritiro da parte
del producente, almeno fino al passaggio in giudicato della sentenza definitiva
del giudizio, al contestuale deposito di copia autentica rilasciata dal cancelliere (29).
4. – Avverso l’introduzione di una tale disciplina non potrebbe a mio
––––––––––––
(29) Per una diversa proposta de iure condendo cfr. invece S. Chiarloni, op. loc. ult.
cit., che suggerisce di prevedere l’inserzione nel fascicolo d’ufficio di copia dei documenti prodotti, oppure, « per evitare il rischio che il fascicolo d’ufficio diventi troppo
pesante e difficile da maneggiare », di stabilire che assieme alla sentenza debba essere
depositata copia dei documenti che il giudice ha ritenuto rilevanti per la decisione.
444
RIVISTA DI DIRITTO PROCESSUALE
avviso opporsi il rilievo, implicito in talune ricostruzioni dottrinali, secondo
il quale la perdita della disponibilità dei mezzi di prova da parte di colui che
li ha introdotti in giudizio, e la loro stabile ed irreversibile acquisizione al
processo, presuppone un giudizio di ammissione degli stessi da parte del giudice (30).
Per quanto infatti sia diffusa ed autorevolmente condivisa l’opinione secondo la quale per i documenti non è previsto, nel nostro ordinamento processuale, un giudizio di ammissione (31), i tempi sono probabilmente maturi per
una revisione critica di tale insegnamento (32).
––––––––––––
(30) Cfr. M. Montanari, in Codice di procedura civile commentato, 2a ed., a cura di
C. Consolo e F.P. Luiso, cit., sub Art. 245, p. 1238 ss., spec. p. 1240. Nello stesso senso
sembrerebbe orientato anche V. Andrioli, Diritto processuale civile, I, cit., p. 731, quando afferma che « il testimone diviene, per così dire, comune a tutte le parti » soltanto una
volta che sia stato ammesso dal giudice; ma l’A. ha subito cura di precisare, con specifico
riferimento ai documenti, che l’acquisizione processuale consegue alla semplice comunicazione.
(31) Per tutti cfr. M. Taruffo, voce Istruzione. I) Diritto processuale civile, in Enc.
giur. it., XVIII, Roma 1990, p. 6 s., secondo il quale, de iure condito, il giudice istruttore
non eserciterebbe mai alcun controllo preliminare delle produzioni documentali in sede
di ammissione delle prove, essendo il giudizio di ammissione esclusivamente finalizzato
alla esclusione dal processo dei mezzi di prova inutili per la cui formazione occorrano
attività processuali.
(32) Già E. Allorio, Efficacia giuridica di prove ammesse ed esperite in contrasto
con un divieto di legge?, in Giur. it. 1960, II, c. 867 ss., spec. c. 870 s., avvertiva che
« al provvedimento ammissivo d’una prova costituenda può equipararsi il consenso,
sempre necessario, anche se non sempre esplicito, dell’ufficio alla produzione della
prova documentale », aggiungendo che « l’ammissione d’una prova che non doveva
ammettersi all’esperimento o alla produzione, è atto invalido » e che « in ordine all’atto processuale di produzione del documento può stabilirsi un’indagine valutativa di
ammissibilità analoga a quella che, per le prove costituende, si istituisce rispetto
all’atto processuale di parte che ha valore di introduzione di tali prove nel processo ».
Oggi, comunque, la configurabilità di un giudizio di ammissione delle prove documentali appare imposta dal nuovo orientamento giurisprudenziale in tema di nuove
produzioni documentali nel giudizio di appello (cfr. supra, nota n. 3), nonché dal nuovo comma 4° dell’art. 669-terdecies c.p.c., inserito dall’art. 2, comma 3°, lett. e-bis), n.
4.2), d.l. 14 marzo 2005, n. 35, convertito, con modificazioni, dalla legge 14 maggio
2005, n. 80, ai sensi del quale il giudice del reclamo cautelare « può sempre assumere
informazioni e acquisire nuovi documenti ». Tale norma (sulla quale cfr. S. Recchioni,
Il processo cautelare uniforme, in I procedimenti sommari e speciali. II. Procedimenti
cautelari, a cura di S. Chiarloni e C. Consolo, Torino 2005, p. 770 ss.) infatti, lungi
dall’attribuire a detto giudice un potere istruttorio d’ufficio, subordina l’acquisizione
dei nuovi documenti proposti dalle parti ad una valutazione dello stesso giudice, evidentemente improntata ai consueti canoni dell’ammissibilità, rilevanza e non superfluità dei documenti stessi.
PRODUZIONE ED ESIBIZIONE DEI DOCUMENTI
445
Ove si condivida infatti il presupposto dal quale siamo partiti, sulla base
del quale i documenti sono qualificati e disciplinati nel nostro codice di rito
come mezzi di prova, una spassionata esegesi delle norme processuali induce
a concludere che un giudizio di ammissione delle prove documentali prodotte
e/o indicate dalle parti debba essere compiuto dal giudice nel momento stesso
in cui, ai sensi dell’art. 184, comma 1°, c.p.c. (nel testo antecedente alle modifiche introdotte dal d.l. 14 marzo 2005, n. 35, come modificato dalla legge di
conversione 14 maggio 2005, n. 80 e successivamente dalla legge 28 dicembre 2005, n. 263), « se ritiene che siano ammissibili e rilevanti, ammette i
mezzi di prova proposti », ovvero, nel rito del lavoro, ai sensi dell’art. 420,
comma 5°, c.p.c., « ammette i mezzi di prova proposti dalle parti e quelli che
le parti non abbiano potuto proporre prima, se ritiene che siano rilevanti »,
non ostando a tale conclusione il fatto che, per i documenti già spontaneamente prodotti, l’acquisizione al processo non richieda ulteriore attività processuale.
Né a conclusioni diverse potrà portare il nuovo art. 183 c.p.c., che nel testo
novellato dal d.l. 14 marzo 2005, n. 35 (come modificato dalla legge di conversione 14 maggio 2005, n. 80 e successivamente dalla legge 28 dicembre 2005,
n. 263) si limita a stabilire, nel settimo comma, che, « salva l’applicazione
dell’art. 187, il giudice provvede sulle richieste istruttorie delle parti fissando
l’udienza di cui all’articolo 184 per l’assunzione dei mezzi di prova ritenuti
ammissibili e rilevanti ».
Da un lato, infatti, la stessa ammissibilità, rilevanza e non superfluità delle
prove costituende delle quali sia stata richiesta l’assunzione non può evidentemente prescindere da un giudizio di ammissibilità e rilevanza delle prove documentali previamente prodotte dalle parti (33); dall’altro, non sempre la produzione in giudizio dei documenti prescinde da un previo giudizio di ammissione da parte del giudice.
È pacifico, innanzitutto, che una valutazione di ammissibilità e rilevanza del documento debba essere compiuta dal giudice chiamato a pronunciarsi
su un’istanza di esibizione (34). Ma anche per i documenti che si trovino in
possesso delle parti che intendono avvalersene, a ben vedere, la possibilità di
––––––––––––
(33) Per la particolare ipotesi in cui l’ammissibilità di prove costituende dipenda
dalla produzione in giudizio di un determinato documento come principio di prova
per iscritto cfr. M. Montanari, Il principio di prova per iscritto, cit., passim, spec.
p. 510.
(34) Cfr. B. Cavallone, voce Esibizione delle prove, cit., p. 672; S. Satta, Commentario al codice di procedura civile, II, 1, cit., p. 159; A. Graziosi, L’esibizione istruttoria nel processo civile italiano, cit., p. 160 ss.; V. Sparano, L’esibizione di prove nel
processo civile, cit., p. 348 s.; B. Ficcarelli, Esibizione di documenti e discovery, cit., p.
260 ss.
446
RIVISTA DI DIRITTO PROCESSUALE
produrre gli stessi a prescindere da un previo giudizio di ammissione da
parte del giudice, diretto a filtrare il materiale probatorio utilizzabile ai fini
della decisione, è limitata, nel rito ordinario, ai soli documenti offerti in comunicazione dalle parti al momento della loro costituzione in giudizio, ovvero a quelli depositati in cancelleria entro il primo dei termini assegnati dal
giudice per le deduzioni istruttorie, termine entro il quale le parti devono a
pena di decadenza indicare i mezzi di prova ed effettuare le produzioni documentali.
Dopo tale termine, infatti, alla parte che voglia contrapporre alle prove dedotte dall’altra parte o disposte d’ufficio dal giudice una prova documentale, il
primo e il terzo comma dell’art. 184 c.p.c., nel testo non ancora novellato dal
d.l. 14 marzo 2005, n. 35 (così come l’art. 183, commi 6° e 8°, c.p.c., nel testo
sostituito dallo stesso d.l. 14 marzo 2005, n. 35, come modificato dalla legge di
conversione 14 maggio 2005, n. 80 e successivamente dalla legge 28 dicembre
2005, n. 263), attribuiscono unicamente il potere di indicare detta prova al giudice nel termine perentorio dallo stesso assegnato.
Ciò impone di ritenere che la produzione della prova documentale contraria, e così la sua rituale acquisizione al processo, sia subordinata, al pari
dell’assunzione di una prova costituenda, ad un previo provvedimento di ammissione da parte del giudice, che ne abbia valutato, oltre che l’ammissibilità e
la rilevanza, anche la sua necessità in relazione ai mezzi di prova disposti
d’ufficio o preventivamente proposti dall’altra parte, e ai documenti dalla stessa
prodotti (35).
––––––––––––
(35) Deve invece essere rigettata con vigore, perché inaccettabile sul piano delle
garanzie, la differente proposta interpretativa avanzata in dottrina da M. Maffuccini,
Questioni aperte sulle preclusioni istruttorie, in questa Rivista 2005, p. 543 ss., spec.
p. 547 ss., il quale, constatando anch’egli che l’art. 184 c.p.c., nel testo non ancora sostituito dalle riforme del 2005, prevede, come oggetto della memoria istruttoria di replica, soltanto la « indicazione di prova contraria », giunge ad affermare che le parti
non potrebbero sfruttare l’ultimo termine assegnato dal giudice ai sensi del predetto
articolo per chiedere di avvalersi, in prova contraria, di mezzi di prova documentali; e
ciò sulla base dell’apodittica affermazione secondo la quale « non può darsi ‘indicazione’ per il mezzo di prova documentale ». È facile peraltro replicare che siffatta affermazione è inequivocabilmente smentita dal tenore letterale degli artt. 163, comma
3°, n. 5, 167, comma 1°, 414, n. 5, 416, comma 3°, c.p.c., disposizioni che prevedono
tutte, testualmente, la indicazione delle prove documentali. Né appaiono più convincenti le argomentazioni che l’Autore cerca di trarre dalla « ontologica differenza tra
mezzo di prova documentale e prova costituenda », rilevando che « il documento è
sempre nella disponibilità materiale della parte », che avrebbe pertanto, « in ossequio a
principi di lealtà trasparenza e ordinato andamento dei lavori processuali », l’onere di
produrre tutti i documenti di cui intende avvalersi nel termine di cui alla prima memoria istruttoria. Non vi è chi non veda, infatti, che detto argomento non si attaglia affatto
PRODUZIONE ED ESIBIZIONE DEI DOCUMENTI
447
A ben guardare, peraltro, il fatto che la produzione degli altri documenti,
offerti in comunicazione dalle parti entro il primo dei termini giudiziali assegnati per le deduzioni istruttorie avvenga prima ancora del giudizio di ammissione – effettuato dal giudice ai sensi dell’art. 184, comma 1°, c.p.c. (nel testo
emergente dalla legge 26 novembre 1990, n. 353 ed applicabile ai giudizi instaurati fino al 1° marzo 2006) ovvero dell’art. 183, comma 7°, c.p.c. (nel testo novellato dal d.l. n. 35 del 2005, come modificato dalla legge di conversione 14 maggio 2005, n. 80 e successivamente dalla legge 28 dicembre 2005,
n. 263, in vigore dal 1° marzo 2006 e applicabile ai giudizi instaurati a decorrere dal giorno successivo), ovvero ancora, nei giudizi assoggettati al rito del
lavoro, ai sensi dell’art. 420, comma 5°, c.p.c. – non esclude affatto detti documenti dall’ambito oggettivo di tale giudizio, pur se successivo alla loro
produzione.
Dal momento infatti che la valutazione dell’ammissibilità, rilevanza e non
superfluità delle prove costituende delle quali sia stata richiesta l’assunzione
implica un contestuale giudizio di ammissibilità e rilevanza delle prove documentali previamente prodotte dalle parti, e che inoltre l’ammissione dei mezzi
di prova contraria, precostituiti o costituendi, è subordinata ad un giudizio di
necessità in relazione alle prove precedentemente proposte dall’altra parte, il
quale non può evidentemente prescindere da una valutazione sull’ammissibilità,
rilevanza ed efficacia di queste ultime, è giocoforza ritenere che il giudice, nel
provvedere sull’ammissione dei mezzi di prova hinc atque inde proposti, giudichi, esplicitamente o implicitamente, dell’ammissibilità, rilevanza e non superfluità di tutte le prove offerte, pur se già introdotte nel processo attraverso
un’attività di produzione spontanea.
Né mi sembra che avverso una siffatta conclusione possa essere richiamato
il disposto dell’art. 222 c.p.c., a norma del quale la presentazione incidentale
della querela di falso avverso un documento del quale la parte interpellata abbia
dichiarato di volersi avvalere è autorizzata dal giudice soltanto laddove
quest’ultimo ritenga il documento rilevante. Tale disposizione, che a prima vista potrebbe indurre l’interprete a pensare che, prima della decisione della controversia, un giudizio di rilevanza del documento possa essere compiuto dal
giudice soltanto a seguito della presentazione di querela di falso, in realtà si
spiega agevolmente osservando che, nel vigente ordinamento processuale, la
querela di falso può essere proposta in corso di causa in ogni stato e grado del
processo, e quindi anche prima del giudizio di rilevanza dei mezzi di prova che
il giudice deve effettuare ai fini della loro ammissione, ovvero molto tempo dopo che detto giudizio è stato effettuato. Nel primo caso la norma impone al giu-
––––––––––––
ai documenti la cui produzione sia resa necessaria dalle produzioni e deduzioni istruttorie della controparte e si risolve in una palese negazione del principio del contraddittorio.
448
RIVISTA DI DIRITTO PROCESSUALE
dice di anticipare il giudizio di rilevanza del documento ai fini dell’autorizzazione della presentazione della querela; nel secondo caso impone invece al
giudice di rinnovare il predetto giudizio di rilevanza, alla luce della nuova situazione processuale.
GIUSEPPE RUFFINI
Professore ordinario
nell’Università di Roma Tre
TEMPUS REGIT PROCESSUM
UN APPUNTO SULL’EFFICACIA
DELLE NORME PROCESSUALI NEL TEMPO (*)
SOMMARIO: 1. Premessa. – 2. Il principio di irretroattività della legge: punti fermi ed incertezze. – 3. Il trattamento delle situazioni giuridiche pendenti. –
4. Il processo come specie di procedimento e la regola tempus regit actum.
– 5. La regola tempus regit actum nella prospettiva del rispetto dei diritti
acquisiti. – 6. La regola tempus regit actum nella prospettiva del rispetto
del fatto compiuto. – 7. Per un nuovo principio di diritto intertemporale in
materia processuale. – 8. L’efficacia delle pronunce di accoglimento della
Corte costituzionale (cenni).
1. – Quando si parla di efficacia delle norme nel tempo, è inevitabile accentrare la prospettiva sulla norma giuridica. Si muove dal suo ambito di efficacia, per individuare poi le situazioni della vita che vi ricadono. In questo caso la
situazione che vi ricade è il processo (civile), ma quest’ultimo non è preso in
considerazione, se non in via indiretta attraverso la qualificazione della norma
come « processuale » (1).
Tale visuale rivela una certa impostazione, che non è l’unica: Savigny
sottolinea che lo studio della successione delle norme nel tempo può essere
svolto da due punti di vista differenti: o si muove dall’ambito di efficacia delle
norme per individuare poi le situazioni che vi ricadono; o ci si rappresenta dapprima la situazione da disciplinare per cercare poi la regola di diritto da applicare (2).
2. – Seguendo dapprima l’angolatura prescelta dal titolo, vengono in considerazione i principi di diritto intertemporale, e così per primo il principio di
––––––––––––
(*) Con un titolo parzialmente diverso e qualche modifica secondaria, il saggio è
stato destinato alla raccolta di studi in onore del prof. Egas Dirceu Moniz de Aragão.
(1) Per un’ampia bibliografia sul tema si rinvia a B. Capponi, Appunti sulla legge
processuale civile, Napoli 1999, p. 111 ss. Tra i vari contributi si può segnalare E. Fazzalari, Efficacia della legge processuale nel tempo, in Riv. trim. dir. proc. civ. 1989,
p. 889 ss.
(2) F.C. von Savigny, System des heutigen römischen Rechts, vol. VIII, Berlin
1849, p. 1 ss.
450
RIVISTA DI DIRITTO PROCESSUALE
irretroattività, che nell’ordinamento italiano è espresso nell’art. 11 disp. prel.
c.c.: « la legge non dispone che per l’avvenire: essa non ha effetto retroattivo ».
La disposizione traduce fedelmente l’art. 2 c.c. francese del 1804: la loi ne
dispose que pour l’avenir; elle n’a point d’effet rétroactiv.
Dalla disposizione si ricava a contrario una definizione di norma retroattiva che, nonostante la sua indeterminatezza e genericità, si può assumere come
ipotesi di lavoro: la norma retroattiva « dispone per il passato ».
Nell’ordinamento italiano attuale, eccettuate le norme penali incriminatrici
(art. 25, comma 2°, Cost.), il principio di irretroattività non ha rango costituzionale. Esso può essere derogato dalla legge ordinaria, sempre che l’intervento
retroattivo del legislatore abbia una ragionevole giustificazione e non incontri
limiti in particolari norme costituzionali.
L’art. 11 disp. prel. c.c. contiene una direttiva rivolta al legislatore e una
regola rivolta all’interprete. Al principio di irretroattività può sottrarsi il legislatore ordinario, ma non può sottrarsi l’interprete. Come regola d’interpretazione l’art. 11 disp. prel. c.c. è vincolante, a meno che la norma, nella sua interpretazione retroattiva, sia « favorevole » a tutti gli interessi coinvolti nella situazione da disciplinare (3).
Il significato e la portata del principio di irretroattività sono controversi.
Le energie profuse su questo tema in un arco di tempo millenario nelle varie
esperienze giuridiche consentono quantomeno di escludere qualche concezione
del fenomeno della retroattività, prospettata in passato, che non appare corretta
nell’attuale stadio di sviluppo delle conoscenze, e di indicare qualche punto
fermo di contorno (4).
In primo luogo, l’efficacia della norma nel passato non può essere intesa in
senso letterale e va riferita ad un fenomeno ulteriore rispetto alla produzione di
effetti, poiché la norma retroattiva, al pari di ogni altra norma, produce effetti
solo dopo che è entrata in vigore (5). Punto controverso è invece se l’abrogazione determini la cessazione del vigore della norma abrogata o unicamente una
delimitazione della sua efficacia nel tempo. In ogni caso, le nozioni di vigenza e
di efficacia della norma sono distinte (6).
In secondo luogo, esistono delle situazioni del passato che di regola non
vengono travolte dalla norma retroattiva. Si tratta delle situazioni che esauriscono i rapporti giuridici (res finitae) non solo alla stregua della norma anteriore, ma anche nei confronti della norma posteriore retroattiva. Punto controverso
––––––––––––
(3) Così, R. Quadri, Dell’applicazione della legge in generale, in Commentario del
codice civile, a cura di A. Scialoja e G. Branca, Bologna - Roma 1974, p. 103 ss.
(4) Per approfondimenti si rinvia a R. Caponi, La nozione di retroattività della legge, in Giur. cost. 1990, p. 1332 ss.
(5) Art. 73, comma 3°, Cost.; art. 10 disp. prel. c.c.
(6) Cfr. R. Tarchi, Le leggi di sanatoria nella teoria del diritto intertemporale, Milano 1990, p. 79 ss.
TEMPUS REGIT PROCESSUM UN APPUNTO SULL’EFFICACIA ECC.
451
è l’elenco di tali situazioni, che è oscillante nel corso della storia, ma da sempre
comprende la cosa giudicata (7).
Al di là di questi aspetti, tutto è discutibile sulla retroattività. La discussione non lascia intravedere esiti certi. Comprendere le ragioni di ciò dà un’utile
indicazione di metodo per studiare l’efficacia della legge « nel tempo del processo civile ».
La dottrina contemporanea effettua una tripartizione tra norme ad efficacia
retroattiva, norme ad efficacia immediata, norme ad efficacia differita (8). In
relazione alle tre fasi in cui si scompone il tempo, si individuano tre posizioni
per l’applicazione di una legge: effetto retroattivo, allorché l’applicazione risale
al passato; effetto immediato, allorché l’applicazione riguarda il presente; effetto differito, allorché l’applicazione è spostata nel futuro.
I primi dubbi si insinuano già in questo stadio iniziale della riflessione, in
cui il problema è impostato come un rapporto tra norma giuridica ed una nozione di tempo astratta, priva di riferimento agli interessi ed alle attività umane che
dovrebbero essere fin da subito al centro dell’attenzione.
La dottrina non si ferma a questo stadio, ma predica la retroattività come
un concetto che istituisce una relazione tra norma giuridica e fatti del passato. È
avvertita poi la necessità di determinare ulteriormente il concetto, ma i tentativi
in questa direzione sollevano dubbi, perplessità e dissensi tali da farli apparire
inani.
3. – In particolare, il nodo centrale del diritto intertemporale è il trattamento da riservare alle situazioni pendenti al momento dell’entrata in vigore
della nuova norma (in latino: facta pendentia; in francese: situations en cours;
in tedesco: noch nicht abgeschlossene Sachverhalte und Rechtsbeziehungen).
Situazione pendente alla data di entrata in vigore della nuova norma può
essere, alternativamente:
a) una situazione di fatto che evolve verso il perfezionamento di una fattispecie astratta prevista dalla norma anteriore;
b) un effetto giuridico astratto (cioè una regola di condotta facoltativa o
doverosa), sorto alla stregua della norma anteriore, chiamato a concretizzarsi
ormai dopo l’entrata in vigore della norma posteriore;
c) un effetto giuridico concreto (cioè un contegno umano conforme alla regola di condotta) che ha iniziato a svolgersi prima dell’entrata in vigore della nuova norma e, alla stregua della norma anteriore, deve dispiegarsi anche in futuro (9).
––––––––––––
(7) Per approfondimenti sia consentito rinviare a R. Caponi, L’efficacia del giudicato civile nel tempo, Milano 1991, p. 175 ss.
(8) Cfr. P. Roubier, Le droit transitoire, Paris 1960, pp. 9-12, pp. 350-353.
(9) La norma giuridica opera, secondo uno schema largamente accettato, ricollegando al verificarsi della situazione di fatto che integra la fattispecie da essa prevista il
sorgere di un effetto giuridico. La differenziazione tra norma e fatto, che percorre la no-
452
RIVISTA DI DIRITTO PROCESSUALE
In ordine al trattamento delle situazioni pendenti, nella storia del diritto
intertemporale degli ultimi due secoli, si possono cogliere due orientamenti
contrapposti (10).
Il primo atteggiamento, prevalente nell’Ottocento e oggi minoritario (almeno in Italia), guarda con favore alla conservazione dei valori giuridici e
identifica il principio di irretroattività con il rispetto dei diritti acquisiti (11). Da
tale concezione discende tendenzialmente, con riferimento all’articolazione
delle situazioni pendenti sopra prospettata:
a) una situazione di fatto che evolve verso il perfezionamento di una fattispecie prevista dalla norma anteriore può essere riqualificata da una norma
posteriore;
b) un effetto giuridico astratto (una regola di condotta), sorto alla stregua
della norma anteriore, deve concretizzarsi così come prefigurato da questa anche dopo l’entrata in vigore della norma posteriore;
––––––––––––
zione di fattispecie esprimendosi nella distinzione tra fattispecie legale (o astratta) e fattispecie concreta, si riflette anche sulla nozione di effetto giuridico, che quindi può essere
intesa in due sensi (A. Falzea): come effetto giuridico astratto (la regola di condotta facoltativa o doverosa) e come effetto giuridico concreto (il comportamento umano conforme alla regola di condotta). L’effetto giuridico può essere poi istantaneo o durevole.
Sulla distinzione tra effetti giuridici istantanei e durevoli, si rinvia a R. Caponi, In tema di
limiti temporali del giudicato civile sulle situazioni soggettive che proteggono un interesse durevole nel tempo, in Foro it. 1998, I, c. 1193 ss.
Nella fattispecie costitutiva di un effetto può rientrare un effetto giuridico di una
diversa fattispecie, sia nella sua componente di valore (la qualificazione giuridica del
comportamento umano), che nella sua componente di fatto (il contegno umano conforme
alla regola). Ad es., nella fattispecie costitutiva del diritto agli alimenti è compresa la parentela dell’obbligato, come effetto giuridico di una diversa fattispecie, e non un qualsivoglia atto di esercizio dei diritti o di adempimento dei doveri scaturenti dallo status di
parente. In questa ipotesi, nella fattispecie costitutiva di un effetto giuridico dipendente
rientra la componente di valore di un effetto giuridico pregiudiziale. In altre ipotesi, nella
fattispecie costitutiva del secondo effetto giuridico rientra la condotta concreta, non la
qualificazione giuridica della condotta operata dalla norma precedente. Ad es., la denunzia dei vizi della cosa venduta entro un certo numero di giorni dalla scoperta è esercizio
del potere di denunzia (componente di fatto di un effetto) e contemporaneamente elemento costitutivo del diritto alla garanzia (elemento di fattispecie costitutiva di un effetto). Per approfondimenti, v. R. Caponi, La rimessione in termini nel processo civile, Milano 1996, p. 6 s.
(10) Per ampie indicazioni della dottrina di diritto intertemporale, v. R. Caponi, La
nozione di retroattività della legge, cit., p. 1332 ss.; ad esse si possono aggiungere i riferimenti contenuti in A. Giuliani, Le disposizioni sulla legge in generale: gli articoli da 1
a 15, in Trattato di diritto privato, diretto da P. Rescigno, 2a ed., Torino 1999, p. 470 ss.
(11) Tra i sostenitori di questa concezione, v. F. Lassalle, Die Theorie der erworbenen Rechte und der Collision der Gesetze, 2a ed., Leipzig l880; G. Broggini, Intertemporales Privatrecht, in Scheizerisches Privatrecht, Basel e Stuttgart 1969.
TEMPUS REGIT PROCESSUM UN APPUNTO SULL’EFFICACIA ECC.
453
c) un effetto giuridico concreto (un contegno umano conforme alla regola
di condotta posta dalla norma anteriore), che ha iniziato a svolgersi prima
dell’entrata in vigore della norma posteriore, deve dispiegarsi anche in futuro
così come prefigurato dalla norma anteriore.
Un secondo atteggiamento, prevalente oggi nella giurisprudenza italiana, guarda con più favore al mutamento dei valori giuridici e identifica il
principio di irretroattività con il rispetto del « fatto compiuto » (12). Questa
concezione rivolge alla precedente una critica fondamentale: il rispetto dei
diritti acquisiti implica un differimento di efficacia delle nuove norme. In tal
caso le norme abrogate sopravviverebbero non solo per valutare i contegni
passati, ma altresì per regolare i contegni futuri con riferimento alle situazioni giuridiche già sorte al momento dell’entrata in vigore delle nuove norme. Ciò non sarebbe conciliabile con il principio dell’efficacia immediata
delle norme. L’intento di questo secondo orientamento è di estendere
l’incidenza delle norme posteriori sulle situazioni pendenti, pervenendo ad
un risultato tendenzialmente opposto a quello conseguito dal principio del
rispetto dei diritti acquisiti in relazione alle situazioni sub b) e sub c), come
si vedrà più avanti.
4. – All’interno delle situazioni giuridiche che possono essere pendenti al
momento dell’entrata in vigore della nuova norma, si deve prendere in considerazione a questo punto il processo. Esso è una specie di procedimento, cioè una
sequenza di norme giuridiche (o di fattispecie o di effetti giuridici) coordinate
alla produzione di un atto finale e di un correlativo effetto giuridico finale. La
nota minima della sequenza procedimentale, comune alle principali descrizioni
circolanti in dottrina, è il riferimento allo schema secondo cui la fattispecie prevista dalla norma successiva della sequenza è integrata dagli effetti prodotti
dall’attuazione della norma precedente (13). In altri termini: l’effetto giuridico
––––––––––––
(12) Un contributo importante all’elaborazione della teoria del fatto compiuto risale
a G. Vareilles-Sommières, Une théorie nouvelle sur la rétroactivité des lois, in Revue
critique de législation et de jurisprudence 1893, p. 444 ss., ma nel testo la formula non
deve essere riferita in particolare alla teoria del Vareilles-Sommières, ma più genericamente alle teorie che si contrappongono al principio del rispetto dei diritti acquisiti. Un
punto di riferimento in Italia è N. Coviello, Manuale di diritto civile italiano, 2a ed., Milano - Roma - Napoli 1915, p. 108 ss.
(13) Così Giovanni Conso ritiene « meritevole di accoglimento la tesi che ravvisa
in ogni procedimento non una pluralità di atti e un unico effetto, ma una serie di atti e una
serie di effetti causalmente collegati sino ad un effetto conclusivo »: G. Conso, I fatti giuridici processuali penali, Milano 1955, p. 135. Elio Fazzalari coglie il procedimento
« quando ci si trova di fronte ad una serie di norme, ciascuna delle quali regola una determinata condotta (qualificandola come lecita o doverosa), ma enuncia come presupposto della propria incidenza il compimento di un’attività regolata da altra norma della serie, e così via fino alla norma regolatrice di un ‘atto finale’ »: E. Fazzalari, Istituzioni di
454
RIVISTA DI DIRITTO PROCESSUALE
previsto dalla norma successiva della serie vede sempre la sua fattispecie costitutiva integrata dalla componente di fatto dell’effetto giuridico previsto dalla
norma precedente e così via fino al perfezionamento di una fattispecie che
mette capo all’effetto finale del procedimento.
Se la situazione pendente è un procedimento, il suo regime giuridico discende dalla regola « che ciascun fatto, sia per ciò che riguarda il regime della
sua essenza, della sua struttura e dei suoi requisiti, sia per ciò che riguarda il
regime delle sue conseguenze, è di massima sottoposto alla legge del tempo in
cui venne posto in vita. Secondo una nota massima, la quale ben traduce questo
principio, tempus regit factum » (14).
La regola tempus regit actum è equivoca, ma ai nostri fini per actus si può
intendere ciascun atto della sequenza; per tempus il momento in cui il contegno
umano perfeziona la fattispecie normativa dell’atto.
Le varianti fondamentali nell’interpretazione della regola tempus regit actum riproducono l’alternativa tra principio del rispetto dei diritti acquisiti e principio del fatto compiuto. L’alternativa è sviluppata nei prossimi due paragrafi.
––––––––––––
diritto processuale, 7a ed., Padova 1994, p. 60. Vittorio Denti sofferma la propria attenzione sull’esigenza di connettere gli atti del processo sul piano dell’effetto giuridico che
dai medesimi discende, esigenza che gli appare « pienamente realizzata » dagli sviluppi
degli studi sul procedimento: V. Denti, Note sui vizi della volontà negli atti processuali,
in Pubblicazioni della Università di Pavia, in Studi nelle scienze giuridiche e sociali
dell’Università di Pavia, Pavia 1959, ora in Dall’azione al giudicato, Padova 1983,
p. 127 ss., p. 131. Giovanni Fabbrini individua nella sequenza tipica fatto-situazione soggettiva-atto l’ossatura della figura del procedimento, precisa che « la sequenza procedimentale, come struttura formale costante, si caratterizza per essere disciplinata da una
serie di norme collegate fra loro in modo tale che la norma successiva della serie vede
sempre la sua fattispecie costitutiva integrata dagli effetti prodotti dall’attuazione della
norma precedente » ed esemplifica in riferimento al processo civile: « l’asserita lesione di
un diritto soggettivo (fatto) attribuisce al titolare il potere (situazione soggettiva) di proporre la domanda giudiziale (atto); ma l’avvenuta proposizione della domanda (fatto,
ormai) investe attore e convenuto del potere (situazione soggettiva) di iscrivere la causa a
ruolo (atto), investe il convenuto del potere (situazione soggettiva) di formulare e depositare la comparsa di risposta (atto), investe infine il cancelliere del dovere (situazione
soggettiva) di ricevere l’iscrizione a ruolo (atto), e così via … »: G. Fabbrini, voce Potere
del giudice, in Enc. del dir., vol. XXXIV, Milano 1985, p. 721 ss., p. 722.
Un’eccezione si deve fare per il pensiero di Aldo M. Sandulli, il quale nega che il
procedimento possa essere concepito come una categoria di carattere sostanziale, in
quanto esso « sta a rappresentare il procedere, e cioè lo svolgersi (a dirla coi tedeschi, il
Vorgang), di un fenomeno verso la sua conclusione. Quindi vale a designare non tanto la
serie dei singoli fatti che nel corso di tale svolgimento trovano la loro concretizzazione
… quanto piuttosto il modo del loro susseguirsi » (A.M. Sandulli, Il procedimento amministrativo, 1940, rist. Milano 1964, p. 35 ss.). Su questa nozione si veda, in senso critico,
N. Picardi, La successione processuale, Milano 1964, p. 74.
(14) Così, A.M. Sandulli, Il procedimento amministrativo, cit., p. 31.
TEMPUS REGIT PROCESSUM UN APPUNTO SULL’EFFICACIA ECC.
455
5. – Se si dà svolgimento al principio del rispetto dei diritti acquisiti, si
deve preliminarmente chiarire che il termine « diritti » non può che essere
riferito agli effetti giuridici astratti (poteri e doveri) scaturenti dal compimento di atti del procedimento. In questa variante, la massima tempus regit
actum significa anche tempus regit effectum e implica il rispetto degli effetti
sorti alla stregua della norma anteriore, indipendentemente dal fatto che essi
si siano o meno concretizzati in contegni umani conformi alla regola di condotta (15).
Può essere utile un esempio tratto da un saggio del 1952 di Karl Sieg,
che nella letteratura tedesca accoglie questa impostazione: una norma che abbassa il limite di valore della controversia per l’ammissibilità dell’impugnazione da 100 a 50 marchi non rende ammissibile l’impugnazione di una
sentenza su una controversia da 75 marchi, anche se la norma è sopravvenuta
prima della scadenza del termine d’impugnazione previsto astrattamente dalla
legge (16). Il nuovo effetto previsto dalla norma posteriore (potere di impugnare) non si sostituisce all’effetto disposto dalla norma anteriore (inammissibilità dell’impugnazione).
6. – Se si dà svolgimento al prevalente principio del fatto compiuto, la variante della regola tempus regit actum ad esso conforme implica il rispetto degli
effetti giuridici concretizzatisi nel passato.
Diverso è invece il trattamento degli effetti giuridici sorti alla stregua della
norma anteriore, ma non ancora concretizzatisi.
Il trattamento degli effetti che sorgono in forza di un fatto passato e si concretizzano in futuro si ricava dall’applicazione della seguente regola: « Si la loi
nouvelle supprime ou modifie pour l’avenir un de nos droits à raison d’un fait
passé, elle est rétroactive » (17). Nella letteratura italiana il criterio è stato riprodotto nei termini seguenti: « Efficacia retroattiva c’è, non solo quando la
––––––––––––
(15) In questo senso, nella letteratura tedesca, K. Sieg, Die Einwirkung von Änderungen zivilprozessualer Normen auf schwebende Verfahren, in Zeitschrift für Zivilprozeß 1952, p. 249 ss., specie p. 257 s., sub c): « Perfezionamento della fattispecie legale ed
effetto della medesima possono essere giudicati unicamente alla stregua di uno stesso
ordinamento giuridico ». La concezione del tempus regit effectum è fatta consapevolmente propria oggi, nella letteratura italiana, da O. Mazza, La norma processuale penale
nel tempo, in Trattato di procedura penale, diretto da G. Ubertis e G.P. Voena, Milano
1999, p. 128: « Per quanto riguarda gli effetti non ancora esauriti su cui intervenga la
successione normativa, è possibile affermare che la nuova disciplina, secondo il principio
in esame [tempus regit actum], non può mai travolgere la parte di effetti già prodottasi né
può impedire o regolare diversamente gli effetti futuri ». Il corsivo è nell’originale.
(16) Così, K. Sieg, Die Einwirkung von Änderungen zivilprozessualer Normen auf
schwebende Verfahren, cit., p. 258.
(17) Così, G. Vareilles-Sommières, Une théorie nouvelle sur la rétroactivité des
lois, cit., p. 445. Il corsivo è nell’originale.
456
RIVISTA DI DIRITTO PROCESSUALE
nuova legge disconosce le conseguenze già realizzate del fatto compiuto, cioè
distrugge i vantaggi già nati, ma anche quando impedisce una conseguenza futura di un fatto già compiuto, per una ragione relativa a questo fatto soltanto
(…). Quando invece la legge nuova regola anche le conseguenze d’un fatto passato che s’avverano sotto il suo impero per se stesse considerate, e non per una
ragione relativa a quel fatto, il quale così non vien toccato, non v’ha retroattività, ma applicazione immediata della legge. Sicché non sempre le conseguenze
d’un fatto passato debbono essere regolate dalla legge vigente al tempo del fatto
che n’è la causa (…) ma quelle le quali non possono venire regolate dalla legge
nuova, senza che questa venga così a regolare lo stesso fatto che n’è la causa. Il
criterio perciò che serve a discernerle è il rapporto di causa ad effetto che passerebbe tra il fatto passato e l’applicazione della nuova legge: la ragione per cui la
conseguenza di un fatto passato viene ad essere disconosciuta. (…) La massima
‘la legge non ha forza retroattiva’ significa che il giudice non può applicarla a
fatti passati, o sconoscendo le conseguenze già avverate, o togliendo efficacia, o
attribuendone una diversa, alle conseguenze nuove in base alla sola valutazione
del fatto passato » (18).
Il criterio del fatto compiuto è empirico e dischiude indagini con sviluppi
ed esiti prevedibili ed uniformi solo nei casi più semplici (19). Esso viene abbracciato dalla giurisprudenza italiana che lo segue tuttora. Esso le consente,
specialmente in presenza di fattispecie a formazione successiva e di procedimenti, un notevole margine di apprezzamento nella scelta della norma da applicare fra quella anteriore e quella posteriore, scelta che viene effettuata « privilegiando uno dei momenti della fattispecie, oppure forzando con una finzione
uno dei vari momenti nella globalità del fatto unico » (20).
7. – Come già detto, vi è un’impostazione radicalmente diversa da quella considerata finora. Non si muove dall’ambito di efficacia della legge per individuare
poi i fatti che vi ricadono, ma al contrario ci si rappresenta dapprima la situazione
––––––––––––
(18) Così, N. Coviello, Manuale di diritto civile italiano, cit., p. 108 s.
(19) Dal punto di vista della teoria della rilevanza giuridica, il principio del fatto
compiuto presta il fianco ad un’obiezione: « se un fatto è giuridico in forza degli effetti
che ad esso conseguono, non solo ogni modifica di questi ultimi equival[e] a modifica
della rilevanza giuridica del fatto, ma, al tempo stesso, risult[a] oggettivamente impossibile distinguere tra effetti al fine di selezionarne uno o più idonei, contrariamente ad altri,
a far sì che, come invece si pretende, la disciplina giuridica del fatto generatore rimanga
immutata ». Così, G. Furgiuele, voce Diritti acquisiti, in Digesto delle discipline privatistiche, sezione civile, vol. V, Torino 1989, p. 369 ss., p. 378.
(20) Così, A. Giuliani, Le disposizioni sulla legge in generale: gli articoli da 1 a
15, cit., p. 483. Per l’analisi di talune fattispecie di ius superveniens di natura processuale, v. R. Caponi, È davvero irretroattiva l’abrogazione del divieto di svolgere la funzione
procuratoria “extra districtum”?, in Foro it. 1999, I, c. 159 ss.
TEMPUS REGIT PROCESSUM UN APPUNTO SULL’EFFICACIA ECC.
457
da disciplinare per cercare poi la regola di diritto da applicare: non l’efficacia della
legge processuale nel tempo, ma il tempo del processo e la sua disciplina.
Alla stregua di questa seconda prospettiva, nell’affrontare i problemi di diritto intertemporale non conviene porsi tanto dall’angolo visuale di un’astratta
distinzione tra retroattività e irretroattività (e delle varianti cui essa ha dato luogo), quanto da quello, più concreto, degli interessi protetti dalla norma anteriore
che, di volta in volta, sono toccati o lasciati intatti dalla norma posteriore. In ciò
si manifesta la perdurante fecondità dell’approccio dell’esperienza giuridica
romana (21).
Con ciò si restituisce profondità storica all’indagine, che si tende spesso
a limitare all’epoca moderna. La limitazione è in un certo senso insita nell’impostazione che fa perno sull’efficacia temporale della legge, in quanto atto di
volontà dei detentori del potere politico nello Stato moderno. Si tratta di uno
dei tanti frutti della svolta che la storia giuridica dell’Europa continentale ha
conosciuto alla fine del Settecento con lo snaturamento della dimensione giuridica e la puntigliosa realizzazione di un monopolio del diritto da parte dello
Stato (22).
Se ci si rappresenta dapprima la situazione da disciplinare e poi si ricerca
la regola di diritto da applicare, viene in considerazione prima il processo. Il
processo civile viene in considerazione prima della legge non solo nel discorso,
ma anche nella storia. Il processo come fenomeno storico viene prima dello
Stato moderno.
Il legame tra Stato moderno e funzione di rendere giustizia è infatti la perpetuazione di un preciso disegno, maturato in quel profondo mutamento della
temperie culturale e politica che, fra il secolo XVII e il secolo XVIII, segna il
progressivo affermarsi nell’Europa continentale dei moderni ordinamenti processuali (23). Quel momento di svolta, se da un lato è animato dalla tensione a
––––––––––––
(21) Per approfondimenti si rinvia a R. Caponi, L’efficacia del giudicato civile nel
tempo, cit., p. 178.
(22) Su questa vicenda, in una prospettiva riassuntiva, v. P. Grossi, Scienza giuridica e legislazione nella esperienza attuale del diritto, in Riv. dir. civ. 1997, p. 175 ss.
(23) Su questa temperie culturale e politica si possono vedere le ricerche di Alessandro Giuliani, tra cui: Ordine isonomico ed ordine asimmetrico: « nuova retorica » e
teoria del processo, in Soc. del dir. 1986, p. 81 ss.; L’ordo judiciarius medioevale (riflessioni su un modello puro di ordine isonomico), in questa Rivista 1988, p. 598 ss.; voce
Prova in genere (filosofia del diritto), in Enc. del dir., vol. XXXVII, Milano 1988, p. 518
ss. Sulle origini della concezione moderna del processo, si possono vedere inoltre i lavori
di N. Picardi, voce Processo (dir. moderno), in Enc. del dir., vol. XXXVI, Milano 1987,
p. 101 ss., specie p. 110 ss.; voce Codice di procedura civile (presupposti storici e logici), in Digesto delle Discipline Privatistiche, sezione civile, vol. II, Torino 1988, p. 457
ss., specie p. 461 ss.; infine i saggi raccolti in Modelli storici della procedura continentale, II, Dall’ordo judiciarius al codice di procedura, a sua volta ricompreso in L’educazione giuridica, a cura di A. Giuliani e N. Picardi, vol. VI, Napoli 1994. Considera-
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RIVISTA DI DIRITTO PROCESSUALE
rimediare alla degenerazione del processo romano-canonico (24) e ad apprestare certezza alla disciplina del processo, relega al margine un’idea feconda di
giustizia astatuale, resa in un processo – l’ordo iudiciarius medievale – i cui
principi non provengono dalla volontà del legislatore, ma dalle regole della retorica e dell’etica (25). Tali regole non sono imposte da un’autorità superiore ed
esterna, ma sono proprie della stessa comunità cui appartengono i protagonisti
della vicenda processuale.
E certamente fra quelle regole di etica processuale ve n’era una secondo la
quale non si cambiano le regole del processo quando esso è in corso. Le regole
del contraddittorio devono essere previamente conoscibili dalle parti e non devono essere esposte all’alea di modificazioni sopravvenute.
Si può ammettere che questa delicata operazione che si compie nel processo (« la vera e sola ricerca del tempo perduto che fa l’esperienza pratica: il tempo che si ripresenta, il fiume che risale verso la sorgente, la vita che si coglie
nella sua lacerazione e si reintegra nella sua unità » per richiamare le parole di
Giuseppe Capograssi) (26) possa essere compiuta sotto l’incubo di nuove regole
del procedere immediatamente applicabili?
L’intrinseca ragionevolezza del principio secondo cui non si cambiano le
regole del processo quando esso è in corso è stata messa in ombra dalla statualizzazione della procedura, con il connesso incontrollato interventismo di un
legislatore, al quale solo in casi eccezionali si può riconoscere ormai una sufficiente attenzione verso la sacrosanta esigenza di certezza e di garanzia nel trattamento delle situazioni processuali (27).
Talché si può ritenere che la ragionevolezza di questa regola permei di sé
l’interpretazione dell’art. 11 delle Preleggi con riferimento alle leggi processuali (nonostante che la communis opinio sia in senso opposto) (28): se la legge
––––––––––––
zioni parzialmente critiche su queste ricerche possono leggersi in K.W. Nörr, Alcuni momenti della storiografia del diritto processuale, in questa Rivista 2004, p. 1 ss.
(24) Per un incisivo quadro della degenerazione del processo romano-canonico, con
particolare riferimento alle disastrose condizioni in cui l’amministrazione della giustizia
versa in Italia nel secolo XVIII, in conseguenza della molteplicità e confusione delle fonti
legali della disciplina del processo, della struttura complessa e formalistica del
procedimento civile e del caos nell’ordinamento delle giurisdizioni, v. M. Taruffo, La
giustizia civile in Italia dal ’700 a oggi, Bologna 1980, p. 7 ss.
(25) Cfr. A. Giuliani, L’ordo judiciarius medioevale (riflessioni su un modello puro
di ordine isonomico), cit., p. 613.
(26) G. Capograssi, Giudizio processo scienza verità, in questa Rivista 1950, p. 1
ss., p. 5.
(27) Per una riflessione su aspetti collegati a quelli trattati nel testo, v. R. Caponi,
In tema di autonomia e certezza nella disciplina del processo civile, in Foro it. 2006,
I, 136.
(28) Per un quadro critico, v. B. Capponi, La legge processuale civile. Fonti interne
e comunitarie (Applicazione e vicende), 2a ed., Torino 2004, p. 111 ss.
TEMPUS REGIT PROCESSUM UN APPUNTO SULL’EFFICACIA ECC.
459
non dispone che per l’avvenire, la legge processuale non dispone che per i processi futuri (o quantomeno, non dispone che per i futuri gradi di giudizio).
A questa stregua si può profilare una netta distinzione, per quanto riguarda
i principi di diritto intertemporale, tra intervento di nuove norme sostanziali da
applicare alla fattispecie dedotta in giudizio ed intervento di nuove norme processuali.
Per quanto attiene alle norme sostanziali, vale per esse ciò che vale per i
fatti sopravvenuti. Poiché il processo culmina in un giudizio in cui si applica la
norma al fatto, l’economia dei giudizi impone che il materiale dell’accertamento sia il più recente possibile, per evitare di mettere in circolazione una decisione nata già vecchia, foriera di nuove dispute anziché della risoluzione della
controversia.
Per quanto riguarda le norme processuali, la stessa economia dei giudizi
gioca in senso opposto: nel senso che l’assetto predisposto in considerazione di
un certo modus procedendi non debba tendenzialmente essere sconvolto da
norme sopravvenute, che rimettono inevitabilmente in discussione l’unità e la
coerenza dell’intera attività processuale, cioè l’unità e la coerenza dell’attività
processuale già svolta con quella futura. Si può esprimere questo nuovo principio di diritto intertemporale con una parafrasi del vecchio brocardo tempus regit
actum, precisando che l’actus è quell’actus trium personarum in cui consiste
l’intero processo (o quanto meno il singolo grado di giudizio): tempus regit processum.
Laddove esigenze di ordine pubblico processuale impongano l’applicabilità delle nuove norme ai processi in corso, soccorre la ponderata adozione di
norme di diritto transitorio. La distinzione tra norme di diritto intertemporale,
inteso come quel complesso di regole che disciplinano la successione delle
norme nel tempo, e norme di diritto transitorio, inteso come insieme di prescrizioni dettate di volta in volta per regolare gli accadimenti compresi nel
periodo in cui si verifica un mutamento legislativo, rivela in questo caso tutta
la sua utilità.
Anzi, un principio di diritto intertemporale così impegnativo dal punto di
vista della conservazione dei valori giuridico-processuali – la litispendenza come unica situazione acquisita, in quanto tale non sottoposta all’impero del diritto nuovo – responsabilizza molto di più il legislatore nell’adozione di una calibrata disciplina transitoria in vista dell’applicazione delle nuove norme ai processi pendenti, di quanto non faccia attualmente il principio tempus regit actum
riferito al singolo atto della sequenza processuale, che assicura automaticamente al legislatore il risultato per lui più interessante – l’applicabilità delle
nuove norme ai processi in corso – talché, quanto ai dettagli del passaggio dalla
vecchia alla nuova disciplina, troppo spesso il legislatore si permette di dire a
giudici ed avvocati di risolvere il problema da soli.
8. – Diverso è, in linea di principio, il discorso sull’efficacia delle pronunce di accoglimento della Corte costituzionale, in relazione alla quale è infatti
460
RIVISTA DI DIRITTO PROCESSUALE
improprio parlare di retroattività. Dal giorno successivo alla pubblicazione nella
Gazzetta ufficiale, la sentenza della Corte si applica immediatamente ai processi
in corso, altrimenti la sua efficacia sarebbe destinata a rimanere preclusa dal
limite temporale del giudicato (29). L’ultimo momento utile per la sua applicazione, in quanto ius superveniens, è il momento che precede il deposito della
sentenza in cancelleria (30).
Gli effetti temporali delle sentenze di accoglimento della Corte costituzionale (31) sono disciplinati nell’ordinamento dall’art. 136 Cost. (32) e dall’art.
30, comma 3° della l. 11 marzo 1953, n. 87 (33). Per inquadrarli si può richiamare la classica argomentazione svolta da Carlo Esposito nel 1950 al Convegno
internazionale di diritto processuale di Firenze: poiché il legislatore costituzionale ha scelto il sistema di sindacato incidentale, fondato sulla sollevazione
della questione nell’ambito del giudizio (34), è inevitabile riconoscere che la
norma dichiarata incostituzionale perda efficacia anche come criterio di valutazione dei fatti passati ancora sub iudice (35). Anche se si dovesse ritenere che la
legge della cui costituzionalità si dubita sia, prima della dichiarazione d’incostituzionalità, efficace e obbligatoria nei confronti dei soggetti dell’ordinamento
––––––––––––
(29) Cfr. sul punto, R. Caponi, L’efficacia del giudicato civile nel tempo, cit.,
p. 145 ss.
(30) V. da ultimo R. Caponi, Lo “ius superveniens” nel corso del processo civile si
deve applicare immediatamente anche se interviene tra la deliberazione e la pubblicazione della sentenza, in Foro it. 1998, I, c. 1076.
(31) Cfr. gli atti del seminario di studi Effetti temporali delle sentenze della Corte
costituzionale anche con riferimento alle esperienze straniere, Milano 1989; M. D’Amico, Giudizio sulle leggi ed efficacia temporale delle decisioni di incostituzionalità, Milano 1993; R. Pinardi, La Corte, i giudici ed il legislatore, Milano 1993; nonché, se vuoi,
R. Caponi, La nozione di retroattività della legge, cit., p. 1363 ss.; R. Caponi, L’efficacia
del giudicato civile nel tempo, cit., p. 43 ss.
(32) Testo dell’art. 136, comma 1°, Cost.: « Quando la Corte dichiara la illegittimità costituzionale di una norma di legge o di atto avente forza di legge, la norma cessa
di avere efficacia dal giorno successivo alla pubblicazione della decisione ».
(33) Testo dell’art. 30, comma 3°, l. 11 marzo 1953, n. 87: « Le norme dichiarate
incostituzionali non possono avere applicazione dal giorno successivo alla pubblicazione
della decisione ».
(34) Cfr. art. 1, l. cost. 9 febbraio 1948, n. 1.
(35) Cfr. C. Esposito, Il controllo giurisdizionale sulla costituzionalità delle leggi
in Italia, relazione letta nel 1950 al Congresso internazionale di diritto processuale di
Firenze, in La costituzione italiana. Saggi, Padova 1954, p. 269 s.; invece secondo F.
Modugno, in Effetti temporali delle sentenze della Corte costituzionale anche con riferimento alle esperienze straniere, cit., p. 13: « mentre la legge costituzionale del 1948,
istituendo l’incidentalità come mezzo ordinario per l’instaurazione del giudizio costituzionale, rende a rigore non applicabile la norma dichiarata illegittima ai soli fatti oggetto
del giudizio a quo, è la legge ordinaria n. 87 a stabilire la inapplicabilità generale della
norma ».
TEMPUS REGIT PROCESSUM UN APPUNTO SULL’EFFICACIA ECC.
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e che, di conseguenza, la pronuncia di accoglimento della Corte costituzionale
sia in qualche modo assimilabile ad una sentenza di annullamento (36), si deve
subito aggiungere che la sua efficacia si estende a tutti i rapporti non ancora
esauriti (37).
Se oggetto della dichiarazione di incostituzionalità è una norma processuale, gli effetti della pronuncia della Corte costituzionale sono ben più penetranti del semplice intervento, nel corso del processo, di una nuova legge processuale ad applicazione immediata, ma non retroattiva (38). Anche la validità
degli atti processuali già compiuti nei processi ancora in corso deve essere valutata, in linea di principio, alla stregua delle norme posteriori, risultanti dall’intervento della Corte (39).
La sentenza di accoglimento della Corte costituzionale, al pari della legge
retroattiva, non tocca però, in via di principio, i rapporti che si sono esauriti per
l’intervento di un giudicato, di una prescrizione, di una decadenza (tranne che la
dichiarazione di incostituzionalità investa proprio la norma che determina l’esaurimento del rapporto). Il giudicato, la prescrizione e la decadenza sono infatti situazioni che esauriscono il rapporto giuridico nei confronti dello ius superveniens retroattivo (40), mentre è problematico se rientri fra queste situazioni la preclusione processuale (41).
Si può comprendere che la notevole proiezione verso il passato dell’ef-
––––––––––––
(36) La cautela in ordine alla possibilità di impiegare la coppia nullità–annullabilità
riceve alimento dalle osservazioni di Valerio Onida nella Presentazione del volume di M.
D’Amico, Giudizio sulle leggi ed efficacia temporale delle decisioni di incostituzionalità,
cit., p. X.
Per ampie indicazioni bibliografiche sul punto si rinvia a R. Pinardi, La Corte, i
giudici ed il legislatore, cit., p. 19, in nota n. 43.
(37) Per la possibilità di parlare di retroattività dell’efficacia delle sentenze di accoglimento della Corte costituzionale, pur con una serie di precisazioni, R. Caponi, La nozione di retroattività della legge, cit., p. 1367.
(38) Sulle differenze tra successione di leggi nel tempo e dichiarazione
d’incostituzionalità, v. V. Onida, Illegittimità costituzionale di leggi limitatrici di diritti e
decorso del termine di decadenza, in Giur. cost. 1965, p. 514 ss., specie p. 558 ss.
(39) Sul punto v. peraltro le osservazioni di M. D’Amico, Giudizio sulle leggi ed
efficacia temporale delle decisioni di incostituzionalità, cit., p. 113 ss.
(40) Per una riflessione complessiva sui rapporti esauriti si rinvia a R. Caponi,
L’efficacia del giudicato civile nel tempo, cit., p. 175 ss.
(41) In senso favorevole G. Zagrebelsky, La giustizia costituzionale, Milano 1988,
p. 267. In senso tendenzialmente sfavorevole, A. Cerri, Corso di giustizia costituzionale,
3a ed., Milano 2001, p. 224. Per una recente meditazione su questo tema, v. A. Gragnani,
Il giudizio in via incidentale: gli effetti nel tempo delle decisioni di illegittimità costituzionale, in A. Pizzorusso, R. Romboli, Le norme integrative per i giudizi davanti alla
Corte costituzionale dopo quasi mezzo secolo di applicazione, a cura di G. Famiglietti, E.
Malfatti, P.P. Sabatelli, Torino 2002, p. 29 ss., p. 34 s.
462
RIVISTA DI DIRITTO PROCESSUALE
ficacia delle decisioni di accoglimento della Corte costituzionale crei spesso
molti problemi, specialmente dal punto di vista pratico o dal punto di vista del
rispetto di certi istituti previsti dalla legge ordinaria. Questi punti di vista sono
però destinati a soccombere, se non si ancorano a valori costituzionali che possano delimitare, in via di bilanciamento, il valore costituzionale sotteso all’efficacia verso il passato delle sentenze della Corte.
REMO CAPONI
Professore ordinario
nell’Università di Firenze
CONCILIAZIONE E MEDIAZIONE
ALLA LUCE DELLA PROPOSTA
DI DIRETTIVA EUROPEA
SOMMARIO: 1. Introduzione. – 2. La conciliazione quale forma di ADR. – 3. I
vantaggi del ricorso alla conciliazione. – 4. La necessità di una precisazione terminologica. – 5. Le diverse classificazioni delle tipologie di conciliazione. – 6. La conciliazione stragiudiziale e il ruolo delle Camere di Commercio. – 7. Il quadro di riferimento europeo. – 8. La conciliazione stragiudiziale in materia societaria e i Regolamenti attuativi: aspetti poco convincenti della disciplina. – 9. La Proposta di Direttiva del Parlamento Europeo e del Consiglio relativa a determinati aspetti della mediazione in
materia civile e commerciale. – 10. Le iniziative interne de iure condendo.
– 11. Conclusioni.
1. – Questo scritto prende le mosse dalla constatazione che è in atto,
non solo nel nostro sistema interno, ma anche in quello comunitario, il tentativo di promuovere lo strumento della conciliazione stragiudiziale (1). Di
––––––––––––
(1) Sul tema, per il momento, ci si limita ad indicare le più recenti pubblicazioni,
molte delle quali di carattere più pratico che teorico, mancando ancora una più completa
riflessione scientifica, come si avrà modo di osservare. Si rinvia quindi a: AA.VV., Conciliazione: Prospettive a confronto, a cura di V. Federici, Unioncamere Lombardia - Edizioni Il sole 24 Ore S.p.A., Milano 2005; Cafaro, Le procedure arbitrali e di ADR. Casi
pratici, regolamenti e tariffe degli organismi arbitrali e delle società di ADR, Cedam,
Padova 2005; Soldati, Arbitrato e risoluzione alternativa delle controversie commerciali,
Ipsoa, 2005; AA.VV., La risoluzione stragiudiziale delle controversie e il ruolo dell’avvocatura, a cura di G. Alpa e R. Danovi, Giuffrè, Milano 2004; De Palo, D’Urso, Golann,
Manuale del conciliatore professionista. Procedure e tecniche per la risoluzione alternativa delle controversie civili e commerciali (ADR), Giuffrè, Milano 2004; Cicogna, Di
Rago, Giudice, La conciliazione commerciale. Manuale teorico-pratico, Maggioli Editore, 2004; Luiso, La conciliazione nel quadro della tutela dei diritti, in www.judicium.it
(10 dicembre 2003); Caponi, La conciliazione stragiudiziale come metodo di ADR
(« Alternative Dispute Resolution »), in Foro it. 2003, V, 165 ss.; Di Rocco, Santi, La
conciliazione. Profili teorici ed analisi degli aspetti normativi e procedurali del metodo
conciliativo, Giuffrè, Milano 2003; E. Minervini, La conciliazione stragiudiziale delle
controversie. Il ruolo delle Camere di commercio, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli
464
RIVISTA DI DIRITTO PROCESSUALE
essa si discute non solo in seno alla dottrina, ma anche nel dibattito politico,
con diverse iniziative de iure condendo che si inseriscono nel solco disegnato da quelle assunte a livello europeo, fino alla Proposta di Direttiva del
Parlamento Europeo e del Consiglio relativa a determinati aspetti della mediazione in materia civile e commerciale (2), presentata dalla Commissione
il 22 ottobre 2004. Il fenomeno merita quindi di essere osservato più da vicino per cogliere le potenzialità dell’istituto e per valutare attraverso le scelte
legislative adottate e da adottare quanto ci si possa aspettare in termini di sua
affermazione.
Si può allora cominciare con una osservazione di tipo culturale, ovvero
ricordando come la dottrina rilevi che parlare di conciliazione significa superare quella concezione che attribuisce un primato all’esercizio del potere giurisdizionale nella soluzione dei conflitti (3), e quindi abbandonare il principio
di priorità della giurisdizione a favore di quello della sussidiarietà (4), – in
base al quale l’intervento dell’autorità giudiziaria rappresenterebbe l’ultima
chance a disposizione, alla quale far ricorso quando tutti gli altri strumenti
offerti dal sistema abbiano fallito –, e promuovere il ricorso a forme di auto-
––––––––––––
2003; AA.VV., La via della conciliazione, a cura di S. Giacomelli, Ipsoa, 2003; Uzqueda,
Frediani, La conciliazione. Guida per la soluzione negoziale delle controversie, Giuffrè,
Milano 2002; AA.VV., La conciliazione. Modelli ed esperienze di composizione non
conflittuale delle controversie, a cura di P. Bernardini, Isdaci - Egea, Milano 2001.
(2) COM(2004) 718 definitivo, SEC(2004) 1314, e che verrà esaminata nel § 9.
(3) Luiso, La conciliazione, cit., 3 s., afferma che « l’idea comune è quella della
priorità della giurisdizione, che è concetto diverso da quello della centralità della giurisdizione. Con quest’ultima espressione si indica un principio assolutamente ovvio, che
trova fondamento negli artt. 24 e 111 Costituzione: la tutela giurisdizionale dei diritti è
un’attività costituzionalmente necessaria, che il legislatore ordinario non può circoscrivere o eliminare. Con l’altra espressione invece, si indica quello stato psicologico istintivo,
in base al quale – ove si presenti la necessità di tutelare un diritto – il ricorso alla giurisdizione viene invocato come il primo ed immediato rimedio ». Sul punto v. anche Caponi, La conciliazione stragiudiziale, cit., 167. Ma, più che di un fattore psicologico mi pare
si tratti di un modello culturale di riferimento, tanto è vero che, con riguardo a quanto qui
interessa, si parla sempre più della necessità di diffondere « la cultura della conciliazione ».
(4) Dunque, il principio di sussidiarietà si applicherebbe anche al processo e riguarderebbe principalmente i rapporti tra strumenti giurisdizionali e non giurisdizionali
di risoluzione delle controversie: così Luiso, Sassani, Il progetto di riforma della commissione Vaccarella: c’è chi preferisce il processo attuale, in www.judicium.it (15 novembre 2003). Evoca il principio di sussidiarietà anche De Santis, La conciliazione in
materia societaria. Fondamenti negoziali, contrafforti pubblicistici e riflessi sul processo
ordinario, in Giur. it. 2004, 449 ss.
CONCILIAZIONE E MEDIAZIONE ECC.
465
composizione (5) della lite, che si collocano nell’ambito dell’autonomia dei
privati.
Questi strumenti sono rappresentati prima di tutto dalla negoziazione, che
si caratterizza per il fatto che sono gli stessi destinatari delle regole di condotta
ad individuarle in modo per loro vincolante, risolvendo la controversia attraverso un contratto; quindi, e quando essa si dimostra incapace di raggiungere il risultato voluto, dalla conciliazione che, in prima approssimazione, si può definire come quel procedimento attraverso il quale le parti cercano di individuare il
contenuto dell’atto consensuale risolutivo della controversia con l’aiuto di un
terzo, il conciliatore. Solo nel caso in cui questi strumenti consensuali si dimostrino incapaci di funzionare, si dovrebbe ricorrere agli strumenti eteronomi di
risoluzione del conflitto insorto, altrimenti definiti come aggiudicativi (6), nei
quali la soluzione è rimessa alla decisione di un terzo ed è idonea a vincolare le
parti, e quindi all’arbitrato o, in assenza di clausola compromissoria o di compromesso, all’autorità giudiziaria. Quello descritto sarebbe il modello di tutela
dei diritti al quale occorrerebbe far oggi riferimento per capire il fenomeno studiato e di cui si intende discutere (7).
Pare essere questo, in effetti, il contesto culturale nel quale collocare correttamente il tema della conciliazione (8), come risulta evidente a chi si è confrontato con il primo esempio di disciplina articolata offerta dal legislatore in
tema di conciliazione stragiudiziale, rappresentato dagli artt. 38-40 del c.d. rito
societario (9), sui quali ci si soffermerà rappresentando essi, seppure introdotti
––––––––––––
(5) Si tratta di una terminologia ormai diffusa nella letteratura sul tema. Si richiamano qui le definizioni di Luiso, La conciliazione, cit., 1, per il quale gli strumenti idonei
a risolvere le controversie in materia di diritti disponibili possono essere distinti in due
gruppi: quello degli strumenti autonomi e quello degli strumenti eteronomi. Gli strumenti
autonomi si caratterizzerebbero, come già detto nel testo, per il fatto che sono gli stessi
destinatari delle regole di condotta ad individuarle in modo per loro vincolante, così risolvendo la controversia; quelli eteronomi per il fatto che è un terzo a porre tali regole
con un atto vincolante per le parti, in ragione della sua posizione istituzionale (giudice), o
perché così esse hanno voluto (arbitro).
(6) V. la nota precedente.
(7) Per Luiso, ult. loc. cit., si tratterebbe del più corretto ed attuale approccio al tema della tutela dei diritti.
(8) Anche per De Santis, ult. loc. cit., la conciliazione appare come un fenomeno
culturale realmente alternativo alla giurisdizione « sul quale si misura la capacità
dell’ordinamento di offrire o di favorire la diffusione di strumenti efficaci e credibili di
soluzione di una certa categoria di controversie ».
(9) Sul tema si rinvia per il momento a Ghirga, Gli strumenti alternativi di risoluzione delle controversie nel quadro della riforma del diritto societario, in
www.judicium.it (28 febbraio 2004), scritto nel quale si è cercato di ricostruire le linee
guida della riforma del diritto societario per meglio cogliere lo spirito che ha animato la
466
RIVISTA DI DIRITTO PROCESSUALE
in una legislazione speciale, l’archetipo e il modello di riferimento per la futura
adozione di questo strumento con portata più generale (10).
Per il momento interessa rilevare come l’aver messo a fuoco il contesto
politico-culturale nel quale muoversi, consenta di liberarsi di alcuni luoghi comuni che potrebbero portare il discorso su sentieri ormai abbandonati.
2. – Ed infatti non si è ancora fatto cenno ad uno dei possibili inquadramenti della conciliazione, al quale si è, peraltro, riferito lo stesso legislatore del
societario (11), che è quello che la vuole inserita tra le più usate forme di ADR.
Si suole parlare di forme alternative di risoluzione della controversia
usando una espressione di ampio utilizzo anche in ambito italiano e che, com’è
noto, trae origine dalla importazione e traduzione dell’espressione anglosassone
Alternative Dispute Resolution, altrimenti conosciuta per mezzo dell’acronimo
ADR, con la quale sono stati indicati i sistemi di risoluzione delle dispute che si
distinguono rispetto a quelli azionati da un bisogno di tutela espresso ad un giudice statale (12).
––––––––––––
riforma processuale, ed in particolare l’introduzione e la disciplina della conciliazione
quale principale strumento alternativo di risoluzione delle controversie.
(10) V. infra il § 10 quando si parlerà delle proposte di legge in materia di conciliazione stragiudiziale.
(11) V. infra il § 8.
(12) La bibliografia sul tema è molto ricca; senza nessuna pretesa di completezza, oltre alle più recenti opere dedicate alla conciliazione più sopra citate (cfr. nota
1), – tra le quali in questa sede si segnala l’utile volume La risoluzione stragiudiziale
delle controversie e il ruolo dell’avvocatura, a cura di G. Alpa e R. Danovi, che raccoglie molti saggi, in alcuni casi già altrove pubblicati, che meritano di essere qui
ricordati, quali quello di: Danovi, Le ADR e le iniziative dell’Unione Europea, 3 ss.;
Alpa, Le ADR dalla tutela dei consumatori alla amministrazione efficiente della giustizia civile, 29 ss.; E. Von Hippel, Les moyens judiciaires et parajudiciares des consommateurs vue sous l’angle du droit comparé, 77 ss.; Denti, Quale futuro per la giustizia minore, 89 ss.; Id., Giustizia: l’Europa ci insegna le alternative, 145 ss.; Silvestri, Osservazioni in tema di strumenti alternativi per la risoluzione delle controversie, 155 ss.; Chiarloni, La domanda di giustizia: deflazione e/o risposte differenziate,
101 ss.; Id., Stato attuale e prospettive della conciliazione stragiudiziale, 177 ss.;
Capponi, Una deflazione per la giustizia civile, 131 ss.; Taruffo, Adeguamento delle
tecniche di composizione dei conflitti di interesse, 197 ss.; Giovannucci Orlandi, La
conciliazione stragiudiziale: struttura e funzioni, 211 ss.; Severin, What place is there
for civil mediation in Europe?, 239 ss.; Kierse, Micklitz, Comment on the Green Paper on alternative dispute resolution in civil and commercial law, 297 ss. –; si rinvia
a: Schlosser, « Alternative dispute resolution » (uno stimolo alla riforma per
l’Europa?), in Riv. dir. proc. 1987, 1005 ss.; Alpa, La circolazione dei modelli di risoluzione stragiudiziale delle controversie, in Giust. civ. 1994, II, 111 ss.; Delfino,
L’« ombudsman » come modello di « alternative dispute resolution » nel settore pri-
CONCILIAZIONE E MEDIAZIONE ECC.
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Non è questa la sede per intrattenersi sulla storia di quel movimento di
pensiero, sorto negli Stati Uniti negli anni ’70, che ha portato alla creazione e
alla diffusione di questi strumenti come risposta alla crisi del sistema giustizia (13). Ciò nonostante pare opportuno qui sottolineare come l’approccio attuale al tema sia più di recente mutato. Oggi si dubita, infatti, che sia corretto
guardare alle forme alternative di risoluzione delle controversie come a strumenti che devono la loro ragion d’essere alla crisi della giustizia, pronte a
soccorrere ad una situazione in cui l’ordinamento non è più in grado di assolvere alla richiesta di composizione delle liti insorte (14). Anzi, da più parti si
––––––––––––
vato, in Riv. trim. dir. proc. civ. 1995, 247 ss.; Chiarloni, Nuovi modelli processuali,
in Riv. dir. civ. 1993, I, 269 ss.; Id., La conciliazione stragiudiziale come mezzo alternativo di risoluzione delle dispute; in Riv. dir. proc. 1996, 694 ss.; Id., Brevi note
sulla conciliazione stragiudiziale (e contro l’obbligatorietà del tentativo), in Giur. it.
2000, 209 ss.; La China, Riflessioni in libertà su Adr, arbitrato, conciliazione, in Studi in onore di Luigi Montesano, II, Padova 1997, I, 165 ss.; Buonfrate, Leogrande, La
giustizia alternativa in Italia tra ADR e conciliazione, in Riv. arb. 1999, 375 ss.; De
Palo, Guidi, Risoluzione alternativa delle controversie nelle Corti federali degli Stati
Uniti, Milano 1999, passim; Comoglio, Mezzi alternativi di tutela e garanzie costituzionali, in Riv. dir. proc. 2000, 318 ss.; Converso, Note minime in tema di strumenti
alternativi per la risoluzione delle controversie, in Giur. mer. 2000, 719 ss.; Cuomo
Ulloa, Modelli di conciliazione nell’esperienza nordamericana, in Riv. trim. dir.
proc. civ. 2000, 1283 ss.; Fusaro, Costi e benefici nella scelta delle tecniche di risoluzione alternativa delle controversie civili: la prospettiva del Lord Chancellor’s Dapartment, in Riv. trim. dir. proc. civ. 2001, 771 ss.; Peeples, ADR: un panorama delle
alternative alla causa civile, in Riv. not. 2003, 7 ss.; Nela, Tecniche della mediazione
delle liti, in Riv. trim. dir. proc. civ. 2003, 1017 ss.; con riguardo alla conciliazione è
utile consultare anche le seguenti voci enciclopediche: Punzi, voce Conciliazione e
tentativo di conciliazione, in Enc. del dir. Agg., IV, Milano 2000, 327 ss.; Santagada,
voce Conciliazione giudiziale ed extragiudiziale, in Dig. IV disc. priv. sez. civ. Agg.,
Torino 2000, 180 ss.; Briguglio, voce Conciliazione giudiziale, in Dig IV disc. priv.
sez. civ., III, Torino 1988, 203 ss.; Rossi, voce Conciliazione (diritto processuale civile), in Enc. giur. Treccani, VII, Roma 1988. Più risalenti sono i contributi al tema
di Lancelotti, voce Conciliazione delle parti, in Enc. del dir., VIII, Milano 1961, 397
ss. e di Nicoletti, La conciliazione nel processo civile, Milano 1963, passim. Per la
bibliografia relativa agli strumenti alternativi previsti nel nuovo rito societario v. infra, il § 8.
(13) Sulla storia di questo movimento cfr. soprattutto Silvestri, Osservazioni in tema di strumenti alternativi, cit., 158 ss.
(14) Da ultimo Luiso, La conciliazione, cit., 4, afferma che « la conciliazione e più
in generale i mezzi alternativi di risoluzione delle controversie non devono essere considerati un ripiego a fronte di una situazione drammatica della giurisdizione statale: quasi
che, se quest’ultima funzionasse bene, dei mezzi alternativi si potrebbe benissimo fare a
meno. E non devono essere considerati neppure uno strumento deflativo di una richiesta
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RIVISTA DI DIRITTO PROCESSUALE
fa notare che il successo di tali strumenti è tanto più assicurato in un ordinamento che presenta un efficiente sistema giustizia, tanto che è invalso l’uso di
sostituire l’aggettivo « alternative » con quello di « adeguate » che meglio
risponderebbe alla ratio del ricorso ai procedimenti che si ricomprendono
nella categoria (15).
In questa prospettiva la conciliazione va sempre più acquistando un suo
ruolo attraverso l’attività promozionale di quanti, soprattutto alla luce dell’esperienza maturata sul campo, ne evidenziano i numerosi vantaggi; non vi è dubbio, infatti, che la riflessione scientifica sull’istituto, – che pare essere ancora in
fase di elaborazione, mancando una trattazione completa e attuale delle nuove
prospettive che sembrano interessare il tema –, è stata preceduta da una copiosa
elaborazione proveniente soprattutto da soggetti che hanno praticato lo strumento (16).
3. – Dunque, dal punto di vista dei vantaggi offerti dal ricorso alla conciliazione, sembra opportuno sottolineare, – oltre a quello che fa leva sul fatto che
la stessa consentirebbe la continuazione dei rapporti, mentre con l’adire il giudice ci si muoverebbe in una logica di agone che necessariamente porta ad un
vincitore e ad un soccombente, quindi in un contesto fortemente conflittuale (17); o ancora a quello della riservatezza della conciliazione (18) o della sua
––––––––––––
di tutela giurisdizionale, cui l’apparato pubblico non riesce a far fronte ». Sul valore aggiunto rispetto alla giustizia civile statale dei metodi di ADR cfr. già Caponi, La conciliazione stragiudiziale, cit., 172 ss. Individuano tra le cause del ricorso a strumenti alternativi di risoluzione delle controversie l’incapacità dello Stato a rispondere adeguatamente
alla domanda di giustizia: Taruffo, Adeguamenti delle tecniche di composizione dei conflitti di interesse, in Riv. trim. dir. proc. civ. 1999, 779 ss.; Chiarloni, Stato attuale e prospettive della conciliazione stragiudiziale, ivi 2000, 447 ss., scritti entrambi oggi raccolti
nel volume, La risoluzione stragiudiziale delle controversie e il ruolo dell’avvocatura,
già citato.
(15) Di Rocco, Santi, La conciliazione, cit., 21, nota 31, rinviano a Mackie, Miles,
Marsh, Commercial Dispute Resolution - an ADR practice guide, London 1995, 7, secondo i quali piuttosto che parlare di Alternative Dispute Resolution sarebbe più opportuno adottare le locuzioni Appropiate o Additional o Complementary Dispute Resolution
così da poter considerare i metodi di ADR « il canale principale ». Essi dovrebbero rappresentare un’opzione primaria per le parti che si trovano di fronte ad una controversia.
Sul punto v. anche Cosi, Perché conciliare, in La via della conciliazione, cit., 51.
(16) V. la bibliografia più recente citata a nota 1.
(17) Si tratta di una considerazione assolutamente ricorrente nella letteratura sul
tema.
(18) Anche questa è una caratteristica che costantemente viene sottolineata come requisito tipico della conciliazione, come si vedrà, suggerita anche a livello europeo.
CONCILIAZIONE E MEDIAZIONE ECC.
469
estrema flessibilità (19); – ripetiamo, sembra opportuno sottolineare, quello del
possibile contenuto della stessa (20).
Pare essere questo, in particolare, il vantaggio del ricorso allo strumento di
cui si sta parlando e che in vario modo e con diversi gradi di consapevolezza
sembra imporsi almeno in una certa parte degli studi sul tema. Alcuni esempi
tratti da questi paiono illuminanti. Il primo (21) mette in luce come attraverso lo
strumento conciliativo sia possibile far emergere quelle motivazioni sottostanti
la pretesa (22), spesso definite in termini di bisogno, che non avrebbero la possibilità di essere considerate in caso di utilizzo di strumenti di tipo aggiudicativo, quali l’arbitrato o il ricorso all’autorità giudiziaria. Così se due soggetti si
contendono l’unica arancia rimasta, la soluzione di dividerla a metà lascerebbe
entrambi del tutto insoddisfatti se, investigando sui motivi che spingono gli
stessi a volerla ciascuno per intero, risultasse che l’uno desidera la polpa per
berne il succo e l’altro ha bisogno dell’intera scorza per preparare un dolce.
L’analisi degli interessi sottostanti la singola pretesa consente, nel caso di specie, di trovare una soluzione che soddisfa entrambi i litiganti. Altri (23) ha utilizzato un esempio che forse oggi ha il sapore dell’antico, quello della controversia tra concedente e mezzadro relativa alla persistenza del rapporto di mezzadria, per rilevare come essa possa essere risolta in via eteronoma solo riconoscendo o negando al mezzadro il diritto a permanere nella detenzione dell’intero
fondo. Utilizzando uno strumento di risoluzione della controversia di tipo autonomo, come la conciliazione, essa potrebbe invece essere risolta con il rilascio
di una parte del fondo e la stipulazione di un contratto di comodato o di locazione rispetto ad altra parte del fondo.
Se ci si chiede quale sia la ragione di questa diversità di risultati ottenibili
la si può facilmente cogliere nel fatto che nel processo civile, come in quello
arbitrale, non entra, né può entrare, la valutazione circa i motivi soggettivi che
spingono a far valere la pretesa e quelli che si collocano a monte dell’attività
difensiva. Forse solo una valutazione in concreto della meritevolezza della tutela richiesta potrebbe assolvere a questo compito (24). Ma non è questa la sede
––––––––––––
(19) Caratteristica che la vede contrapposta ai formalismi processuali, dei quali
spesso però si sottovaluta la valenza garantista.
(20) Così aderendo a quanto già rilevato da Luiso, La conciliazione nel quadro
della tutela dei diritti, cit., 4.
(21) Si tratta di un esempio tratto da Cicogna, Di Rago, Giudice, La conciliazione
commerciale, cit., 97, che è considerato l’archetipo di tutti i case study in materia di negoziazione.
(22) Gli autori sopra citati parlano di « interesse concreto che le parti intendono
conseguire ».
(23) Luiso, La conciliazione, cit., 5.
(24) Sul punto ci si permette di rinviare a Ghirga, La meritevolezza della tutela richiesta. Studio sull’abuso dell’azione giudiziale, Giuffrè, Milano 2004, passim.
470
RIVISTA DI DIRITTO PROCESSUALE
per affrontare questo complesso discorso, perché già bastano a giustificare la
diversità evidenziata le osservazioni di chi (25) ha messo in luce come la ragione di essa sta nel fatto che né il giudice, né l’arbitro hanno il potere di disporre
del diritto controverso, e tanto meno il diritto di disporre di situazioni sostanziali diverse ed ulteriori rispetto a quelle controverse che costituiscono oggetto
del giudizio (26). Da questo punto di vista sembra, allora, che sia sul piano del
contenuto dell’atto risolutivo della controversia che si possa maggiormente apprezzare il ricorso a strumenti quali la conciliazione.
Spesso si trova scritto che ciò che differenzia questo mezzo rispetto al
ricorso al giudice o all’arbitro va individuato nel fatto che, a differenza di
questi ultimi che devono accertare una situazione preesistente, l’angolo prospettico dal quale guardare la controversia per il conciliatore è quello della
regolamentazione futura, non solo di una singola situazione, ma di un complesso di rapporti che legano i soggetti in conflitto (27). La conciliazione si
muove quindi libera da quei principi che per i processualisti rappresentano
dei dogmi, come il principio della domanda che, nella sua applicazione dinamica della corrispondenza tra il chiesto ed il pronunciato, vincola tutto lo
svolgimento del processo delimitandone l’ambito oggettivo. Nel procedimento conciliativo le parti restano libere di disporre come credono dei loro
diritti, ampliando o restringendo il campo della loro negoziazione alla presenza di un terzo.
Ma se questo pare essere il maggior vantaggio della conciliazione, è al-
––––––––––––
(25) Afferma Luiso, cit., 2, « la risoluzione consensuale della controversia, infatti,
proviene da soggetti che hanno il potere di disporre delle proprie situazioni sostanziali: e
non solo essi possono disporre di quella interessata alla controversia, ma anche – confronta l’art. 1965, secondo comma c.c. – di altre situazioni sostanziali ». L’autore cita
Cass. 9 luglio 2003, n. 10794 che ha così statuito: « ai sensi del comma 1 dell’art. 1965
c.c., la transazione può avere ad oggetto, per la realizzazione della sua funzione, anche
diritti estranei alla controversia che, con essa, si vuole evitare, con la conseguenza che
essa ben può intervenire a disciplinare il rapporto patrimoniale tra coniugi, con esclusione, peraltro, dei diritti indisponibili dei contraenti ».
(26) Luiso, ult. loc. cit., ne trae la conseguenza che « il contenuto dell’atto risolutivo della controversia, ove esso abbia natura autonoma, è essenzialmente atipico. Al contrario, l’atto risolutivo della controversia, ove esso abbia natura eteronoma, è essenzialmente tipico, in quanto non può avere un contenuto diverso da quello previsto dalla legge
sostanziale, che regola il rapporto ».
(27) Si tratta di un’altra affermazione ricorrente nella letteratura sul tema, che spesso si trova riferita ai vantaggi offerti dal mezzo che consentirebbe di garantire la continuità delle relazioni tra le controparti anche attraverso una regolamentazione del conflitto
che guardi al futuro e al complesso degli interessi in gioco. Sul punto cfr. anche Luiso,
Magistratura togata, magistratura onoraria, « altra giustizia », in www.judicium.it (29
gennaio 2005), 1.
CONCILIAZIONE E MEDIAZIONE ECC.
471
trettanto certo che il suo ambito oggettivo possa riguardare solo quelle situazioni giuridiche qualificabili in termini di diritti disponibili. L’osservazione può
apparire ovvia, ma tale non è di fronte a diversi tentativi di ridurre sempre più
l’area di ingerenza dell’autorità giudiziaria nelle vicende private, ed in primo
luogo in quelle di tipo lato sensu commerciali.
Quando si pensa alla possibilità di utilizzare uno strumento alternativo di
risoluzione della controversia, strumento alternativo o più adeguato rispetto al
giudizio espresso da un giudice statale, ci si deve innanzitutto chiedere quale sia
l’oggetto della lite. Questo perché la sottrazione al giudice statale di una controversia è consentita solo entro gli stessi limiti in cui la stessa possa essere oggetto di una composizione negoziale (28).
Per questo si è ritenuto di dover dissentire da quella opinione, pur autorevolmente sostenuta, che ha cercato di dimostrare che il legislatore del societario
avrebbe introdotto l’arbitrato in materia di diritti indisponibili (29); per questo
––––––––––––
(28) Per un approfondimento del tema, affrontato con riguardo alla materia compromettibile in arbitrato dopo la riforma del diritto societario, si rinvia a Ghirga, Gli
strumenti alternativi di risoluzione delle controversie nel quadro della riforma del diritto
societario, in Studi di diritto processuale civile in onore di Giuseppe Tarzia, Giuffrè,
Milano 2005, 2007 ss., – articolo che riproduce con alcune modifiche lo scritto già apparso in www.judicium.it sopra citato –, anche per ulteriori riferimenti bibliografici. In quella
sede, oltre a denunciare una violazione del principio costituzionalmente garantito del
giudice naturale, ci si è chiesti se, posto che il legislatore può stabilire la non compromettibilità in arbitrato di controversie anche per ragioni di mera opportunità (cfr. Corte
cost. 28 novembre 2001, n. 376, in Foro it. 2002, I, 1648), valga anche il contrario. Ruffini, Arbitrato e disponibilità dei diritti nella legge delega per la riforma del diritto societario, in Riv. dir. proc. 2002, 149, con riferimento alla legge delega di riforma del diritto societario, la legge n. 366/2001, ha affermato che una norma che consenta alle parti
di ricorrere all’arbitrato volontario anche per la soluzione di controversie relative a diritti
indisponibili si porrebbe in contrasto con l’art. 102 Cost. L’affermazione è confutata da
Ricci, Il nuovo arbitrato societario, in www.judicium.it, (4 giugno 2003), 12, secondo il
quale l’arbitrato sarebbe costituzionalmente legittimo solo se fondato su una libera scelta
delle parti, e il legislatore sarebbe libero nella soluzione del problema relativo ai presupposti di legittimità di tale scelta (che si sostanzia per l’autore nella scelta di un giudice:
cfr. nota seguente). Così come « il quesito di sapere se ed entro quali limiti la disponibilità della materia controversa meriti di essere inserita tra tali presupposti, è soggetto a
quella stessa variabilità storica, che caratterizza tutte le scelte consentite de iure condendo ».
(29) Ci si riferisce alla tesi espressa da Ricci nel saggio Il nuovo arbitrato societario, cit., 11, e della quale si è trattato nell’articolo sopra citato. L’autore, sviluppando il
pensiero già altrove formulato (La « natura » dell’arbitrato rituale e del relativo lodo:
parlano le Sezioni Unite, in Riv. dir. proc. 2001, 263 ss.; La « funzione giudicante » degli
arbitri e l’efficacia del lodo. (Un grand arrêt della Corte Costituzionale), in Riv. dir.
proc. 2002, 358 ss.) sostiene che la compromettibilità può venire disgiunta dalla disponi-
472
RIVISTA DI DIRITTO PROCESSUALE
crediamo non si debba incoraggiare quel tentativo di aprire la conciliazione a
qualunque materia (30).
Ed infatti il ruolo della conciliazione, allorquando siano coinvolti diritti
indisponibili, è del tutto diverso (31) perché le parti non hanno per definizione
il potere di autocomporre la controversia e l’atto negoziale eventualmente e
comunque da esse stipulato sarebbe radicalmente nullo (32).
––––––––––––
bilità del diritto, ove si sia disposti ad accettare il fatto che la convenzione arbitrale abbia
come oggetto la mera scelta di un giudice diverso da quello offerto dallo Stato, e che
pertanto l’operazione negoziale si limiti a questo solo aspetto dello strumento arbitrale.
Sul punto merita di essere ricordato che la legge 14 maggio 2005, n. 80, « Conversione in
legge, con modificazioni, del decreto legge 14 marzo 2005, n. 35, recante disposizioni
urgenti nell’ambito del Piano di azione per lo sviluppo economico, sociale e territoriale,
deleghe al governo per la modifica del codice di procedura civile in materia di processo
di cassazione e di arbitrato nonché per la riforma organica della disciplina delle procedure concorsuali » contiene, come si evince dal titolo, la delega al governo per la riforma, tra l’altro, della disciplina dell’arbitrato. In essa si prevede quale criterio direttivo
« la disponibilità dell’oggetto come unico e sufficiente presupposto dell’arbitrato, salva
diversa disposizione di legge ». Sul punto cfr. Ricci, La delega sull’arbitrato, in Riv. dir.
proc. 2005, 955 s., che esprime critiche nei confronti della scelta operata dal legislatore
italiano che si confermerebbe riluttante ad ammettere l’arbitrato anche in materia indisponibile; Punzi, Ancora sulla delega in tema di arbitrato: riaffermazione della natura
privatistica dell’istituto, ivi, 967 ss., per il quale tale scelta sarebbe necessitata dal rispetto delle norme costituzionali ed in particolare dell’art. 102 Cost. Al criterio ha dato
attuazione il novellato art. 806, come dettato dall’art. 20 del d.lgs. n. 40 del 2006. In esso
la regola in materia di controversie arbitrabili è formulata in negativo, nel senso che si
afferma espressamente che si possano far decidere da arbitri controversie « che non abbiano per oggetto diritti indisponibili, salvo espresso divieto di legge », divieto che sembra allora riferito a materia disponibile, ma sottratta comunque alla compromettibilità in
arbitrato.
(30) Si trova così affermato che nell’ordinamento italiano esiste un limite di tipo
formale all’esperimento della conciliazione dato dalla disponibilità dei diritti in oggetto,
ma che la conciliazione in sé potrebbe essere validamente e potenzialmente utilizzata per
qualsiasi tipo di controversia: v. Cicogna, Di Rago, Giudice, La conciliazione commerciale, cit., 62 s.
(31) Cfr. Luiso, La conciliazione, cit., 5. che a proposito della mediazione familiare, tema di cui in questa sede non ci si può occupare, osserva come la funzione della stessa sia più quella di prevenire comportamenti illeciti o comunque inopportuni, che non
quella di porre fine ad una controversia.
(32) Così già Luiso, ult. loc. cit., il quale osserva come dalla disciplina della transazione si possa evincere con evidenza che il naturale ed ovvio limite al potere negoziale
delle parti è costituito dalla indisponibilità del diritto, ma anche che è nulla la transazione
relativa ad un contratto illecito. Ciò legittima il dubbio se vi siano spazi ulteriori, oltre a
quello dei diritti indisponibili, riservati alla risoluzione giurisdizionale delle controversie,
e così sottratti vuoi alla composizione negoziale, vuoi anche in virtù del rinvio contenuto
CONCILIAZIONE E MEDIAZIONE ECC.
473
4. – Abbiamo fino ad ora parlato di conciliazione, ma è venuto il momento
di effettuare una precisazione di carattere terminologico, che introduca poi al
tema delle diverse tipologie riconducibili all’istituto. Spesso, infatti, si trova
utilizzata l’espressione mediazione, il che impone un chiarimento.
Salvo quanto nel prosieguo si dirà a proposito della conciliazione stragiudiziale societaria, al momento il nostro sistema non conosce una definizione normativa di conciliazione, anche se questo è il termine che più correttamente è stato
usato con riferimento al fenomeno di cui si sta discutendo. Esso corrisponde a
quello che nel mondo anglosassone è indicato con l’espressione mediation; ma
l’utilizzo della sua traduzione nel nostro ordinamento è stata considerata fonte di
equivoci in presenza di una previsione normativa, quale l’art. 1754 del codice civile, che definisce come mediatore « colui che mette in relazione due o più parti
per la conclusione di un affare, senza essere legato ad alcuna di esse da rapporti
di collaborazione, di dipendenza o di rappresentanza ».
In ambito privatistico, che è quello di cui ci si occupa (33), si è fatto quindi generalmente ricorso al termine conciliazione. Con esso si è intesa la soluzione concordata di una controversia insorta tra due o più parti, raggiunta attraverso l’opera di un terzo qualificato, sia esso un giudice o altro soggetto, e volta
a perseguire un risultato soddisfacente per entrambe le parti.
Se questa è l’accezione più comune di conciliazione, altrettanto diffusa è
la considerazione che con il termine conciliazione si possa alludere sia al risultato della stessa, sia all’attività che può condurre a quel risultato. Dal punto di
vista strutturale si può infatti distinguere la dimensione procedurale e l’aspetto
sostanziale, il « tentativo di conciliare, inteso come procedimento, finalizzato
alla ricerca di una soluzione della lite fondata sul consenso, e la conclusa conciliazione, atto che pone fine alla lite, ristabilendo tra le parti una situazione di
assenza di conflitto » (34). Questi due momenti nei quali si può scomporre il
fenomeno conciliativo si prestano ad alcune puntualizzazioni. Con riferimento
al primo aspetto si può evidenziare una differenza della conciliazione rispetto
all’arbitrato. Ed infatti mentre la nullità del procedimento arbitrale è causa di
invalidità del lodo, il mancato rispetto delle regole del procedimento di conciliazione non costituisce ragione di invalidità dell’eventuale accordo raggiunto
tra le parti (35). Con riguardo alla conciliazione come risultato, è noto che la
––––––––––––
nell’art. 806 c.p.c. alla composizione arbitrale delle controversie. Sul punto cfr. Festi,
Clausola compromissoria e contratto illecito, in Corr. giur. 1997, 1446.
(33) Sulla mediazione penale si rinvia per tutti a Mannozzi, La giustizia senza spada, Uno studio comparato su giustizia riparativa e mediazione penale, Giuffrè, Milano
2003 e al volume a cura della stessa autrice Mediazione e diritto penale, Giuffrè, Milano
2004.
(34) Così Rossi, voce Conciliazione, cit., 1.
(35) Cfr. Luiso, La conciliazione, cit., 6, il quale osserva che mentre l’art. 829
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RIVISTA DI DIRITTO PROCESSUALE
maggior dottrina attribuisce natura negoziale alla soluzione conciliativa della
controversia, discutendosi se sia configurabile un autonomo negozio giuridico
qualificabile come negozio di conciliazione (36). Così si afferma che la conciliazione non costituirebbe una figura negoziale a sé, ma indicherebbe una serie
di negozi suscettibili di essere utilizzati per fornire alla controversia uno sbocco
convenzionale. La conciliazione rappresenterebbe una sorta di sintesi verbale
per designare quei negozi idonei a definire un conflitto giuridico, individuati
nella transazione, nel riconoscimento, nella rinuncia (37).
Ma il vero elemento caratterizzante del fenomeno conciliativo andrebbe
cercato al di fuori del contenuto negoziale del suo risultato. Il quid pluris della
conciliazione rispetto ai diversi negozi impiegati per definire la lite andrebbe,
infatti, individuato nel fatto che l’atto negoziale con il quale si pone fine alla
controversia viene posto in essere nell’ambito di un procedimento preordinato a
tale scopo e alla presenza di un terzo, investito del compito di coadiuvare le
parti nella composizione del conflitto tra loro insorto (38).
Su questa struttura di base del fenomeno conciliativo si innestano le variabili storiche e di diritto positivo che originano le diverse fattispecie conciliative
presenti nel nostro ordinamento, che possono essere variamente classificate in
base a criteri che danno vita a diverse combinazioni.
5. – Così è a tutti certamente noto che si può distinguere la conciliazione
giudiziale da quella stragiudiziale a seconda che il terzo a cui è affidata
l’attività conciliativa sia o meno un organo del potere giudiziario (39). Con rife-
––––––––––––
c.p.c., nel disciplinare l’impugnazione per nullità, elenca una serie di vizi che possono
sempre essere fatti valere, nonostante qualsiasi contraria pattuizione antecedente alla pronuncia del lodo – il che dipenderebbe dal fatto che le parti sono vincolate alla decisione
arbitrale, in quanto questa sia emessa nel rispetto delle regole che ne disciplinano la formazione – nel caso del procedimento conciliativo, il rispetto delle regole, invece, non
rileverebbe perché le parti sono vincolate all’atto che decide la controversia solo dopo
che ne hanno conosciuto il contenuto.
(36) Sul punto v. per tutti Rossi, cit., 2, ove richiami alla dottrina classica.
(37) V. nota precedente.
(38) V. per tutti Rossi, ult. loc. cit. Punzi, voce Conciliazione e tentativo di conciliazione, cit., 328, osserva come la conciliazione si differenzi dall’arbitrato perché la soluzione della controversia non è deferita alla decisione di un terzo, ma anche dalla transazione perché questa si perfeziona con il mero incontro della volontà delle parti, mentre la
conciliazione richiede sì l’accordo di esse, ma con la presenza e l’intervento sollecitatore
di un terzo.
(39) Briguglio, voce Conciliazione giudiziale, cit., 205, preferisce questa distinzione a quella che vede nella conciliazione extragiudiziale quella che si svolge al di fuori del
processo e che svaluta la presenza o meno di un organo del potere giudiziario. Per
l’autore, infatti, l’attività del giudice prestata in sede conciliativa rappresenta esercizio
CONCILIAZIONE E MEDIAZIONE ECC.
475
rimento a quella giudiziale si possono al riguardo citare gli artt. 183, 185 (40),
420 del codice di procedura civile, l’art. 16 del d.lgs. n. 5 del 2003 sul rito societario (41).
Si distingue poi una conciliazione preventiva, da una successiva, a seconda del rapporto cronologico con l’inizio del processo (42), distinzione che
in relazione alla conciliazione giudiziale può precisarsi o sostituirsi con la distinzione tra conciliazione in sede non contenziosa, per la quale si può citare
l’art. 322 del codice di procedura civile che disciplina la fattispecie davanti al
giudice di pace (43), o conciliazione in sede contenziosa, la quale ultima può
––––––––––––
della funzione giurisdizionale e più precisamente di quella funzione giurisdizionale sui
generis e a sé stante indicata come giurisdizione conciliativa e collocata tra quella contenziosa e quella volontaria.
(40) La legge 14 maggio 2005, n. 80 [di conversione del decreto legge 14 marzo
2005, n. 35, il c.d. decreto sulla competitività (cfr. nota 30), come modificata dalla legge 17 agosto 2005, n. 168, di conversione del decreto legge 30 giugno 2005, n.115,
dalla legge 28 dicembre 2005, n. 263 e dal decreto legge 30 dicembre 2005, n. 271] ha
introdotto una serie di modifiche alle norme del codice di procedura civile, che risulta
così novellato in numerose parti. Per quanto riguarda la trattazione della causa, sono
stati sostituiti gli artt. 180, 183, 184 e 185. Nel testo dell’art. 183 scompare il riferimento testuale al tentativo di conciliazione: nel comma 3° si prevede che il giudice
istruttore fissi una nuova udienza se deve procedersi a norma dell’art. 185. Questa
norma, rubricata Tentativo di conciliazione dispone che « il giudice istruttore, in caso
di richiesta congiunta delle parti, fissa la comparizione delle medesime al fine di interrogarle liberamente e di provocarne la conciliazione ». Il giudice non è quindi più obbligato a procedere all’interrogatorio libero delle parti, la cui funzione è confermato
essere anche quella di stimolarle ad una conciliazione; lo farà solo se richiesto congiuntamente dalle stesse.
(41) Sulla conciliazione giudiziale nel nuovo rito societario cfr.: Briguglio, in La
riforma delle società, Il processo, a cura di B. Sassani, Giappicchelli, 2003, sub art. 16,
165 ss.; Miccolis, Arbitrato e conciliazione nella riforma del diritto societario, in
www.judicium.it, (30 marzo 2003), 11 ss.; Sassani, Tiscini, Il nuovo processo societario. Prima lettura del d.lgs. n. 5 del 2003, in Giust. civ. 2003, II, 49; Costantino, Il
nuovo processo commerciale: la cognizione ordinaria in primo grado, in Riv. dir.
proc. 2003, 427; Trisorio Liuzzi, Il nuovo rito societario: il procedimento di primo
grado davanti al tribunale, in www.judicium.it, (13 giugno 2003), 34; Bove, Il processo dichiarativo societario di primo grado, ivi, (1 dicembre 2003), 18; Carratta, Il nuovo
processo societario, Commentario diretto da S. Chiarloni, Zanichelli, Torino 2004, sub
art. 16, 459 ss.; Cuomo Ulloa, La nuova conciliazione societaria, in Riv. trim. dir.
proc. civ. 2004, 1035 ss.
(42) Briguglio, voce Conciliazione giudiziale, cit., 205.
(43) Santagada, voce Conciliazione giudiziale ed extragiudiziale, cit., 181, ricorda
che l’art. 322 c.p.c., « novellato dall’art. 31 della legge 374/1991, che ha accorpato in un
unico articolo il dettato dei precedenti artt. 321 e 322 relativi al giudice conciliatore, de-
476
RIVISTA DI DIRITTO PROCESSUALE
intervenire non solo durante, ma nello svolgimento e all’interno del processo
pendente (44).
Nota è la distinzione tra conciliazione facoltativa e conciliazione obbligatoria, dove naturalmente l’obbligatorietà riguarda il procedimento e non il risultato, e può esplicarsi secondo gradi diversi. Si è così messo in luce come
l’obbligatorietà della conciliazione può comportare un dovere imposto tout
court all’organo e assistito dalla momentanea improponibilità o improcedibilità
dell’azione giudiziaria relativa, ovvero un dovere condizionato al riscontro ampiamente discrezionale di determinati presupposti, ovvero ancora un semplice
onere delle parti di richiedere l’esperimento del tentativo di conciliazione a pena di improponibilità o improcedibilità dell’azione giudiziaria (45).
Disciplinano tentativi obbligatori di conciliazione l’art. 46 della legge 3
maggio 1982, n. 203, recante Norme sui contratti agrari; gli artt. 410 - 412 bis
c.p.c. in materia di controversie di lavoro e gli artt. 65 - 66 del d.lgs. 30 marzo
2001, n. 165 recante Norme generali sull’ordinamento del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche, e dunque in materia di controversie di
lavoro con le pubbliche amministrazioni; l’art. 10 della legge 18 giugno 1998,
n. 192 in materia di controversie relative ai contratti di subfornitura; l’art. 194
bis della legge 22 aprile 1941, n. 633, così come inserito dall’art. 35 del d.lgs. 9
aprile 2003, n. 68, in materia di diritto d’autore. Disciplinano un tentativo facoltativo di conciliazione gli artt. 38 - 40 del d.lgs. n. 5 del 2003 in materia di
rito societario sui quali poi ci si soffermerà.
Altra distinzione, non da tutti accolta, è quella che fa leva sulla genericità o specificità della materia, e quindi se il tentativo di conciliazione possa
o meno riguardare in linea di principio controversie aventi qualunque oggetto (46).
––––––––––––
manda la conciliazione preventiva (conciliazione in sede non contenziosa) al giudice di
pace “competente per territorio secondo le disposizioni della sezione III, capo I, titolo I,
del libro primo”». La disciplina sarebbe rimasta peraltro sostanzialmente immutata, tanto
che la conciliazione preventiva risulterebbe ancor oggi connotata dagli stessi caratteri
distintivi riconosciuti all’attività del conciliatore: la generalità e la facoltatività. L’autrice
a nota 5 ricostruisce il dibattito che ha portato a tale innovazione legislativa. È interessante riportare, in considerazione dei discorsi che più oltre si affronteranno, l’affermazione secondo la quale « il processo di conciliazione preventiva è del tutto autonomo
rispetto a quello contenzioso, la cui instaurazione è meramente eventuale … di tutta
l’attività svolta in fase conciliativa, relativa all’allegazione e alla precisazione dei fatti,
all’allegazione ed all’esperimento delle prove, non resta alcuna traccia nel processo successivo ».
(44) Briguglio, ult. loc. cit.
(45) Briguglio, voce Conciliazione giudiziale, cit., 205.
(46) Briguglio, cit., 206, per il quale sarebbe meglio parlare in relazione all’organo
terzo, di funzione conciliativa generale o speciale.
CONCILIAZIONE E MEDIAZIONE ECC.
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Si parla infine di conciliazione delegata, con riferimento a quella affidata
dal giudice ad un soggetto estraneo, come nel caso dell’art. 198 del c.p.c., ovvero quando è necessario esaminare documenti contabili e registri e il giudice
istruttore ne dà incarico al consulente tecnico, affidandogli il compito di tentare
la conciliazione delle parti (47). È la legge stessa ad affidare al consulente tale
compito nel caso del nuovo art. 696 bis (48).
Quelle riportate sono le classificazioni del fenomeno studiato più comuni e
note. Si tratta ora di vedere se, concentrando l’attenzione, come già anticipato,
sulla conciliazione stragiudiziale, che più si presta a seguire il trend normativo,
non sia necessario apportare alle stesse alcuni correttivi.
6. – Non si può affrontare il tema della conciliazione stragiudiziale senza
cominciare con il ricordare il ruolo svolto al riguardo dalle Camere di commercio (49). La legge 29 dicembre 1993, n. 580, recante il Riordinamento delle
Camere di commercio, industria, artigianato e agricoltura, che ha attribuito
alla stesse poteri di regolamentazione del mercato (50), dispone all’art. 2, com-
––––––––––––
(47) Sul punto v. da ultimo Frediani, La conciliazione nella C.T.U., Giuffrè, Milano
2004, passim.
(48) La norma, introdotta dalla legge 14 maggio 2005, n. 80, più volte citata, è rubricata « Consulenza tecnica preventiva ai fini della composizione della lite ». Su di essa
ci si permette di rinviare a Ghirga, Le nuove norme sui procedimenti cautelari, in Riv.
dir. proc. 2005, 822 ss. Peraltro e per i discorsi che si andranno a fare, giova sottolineare
come nel dettato dell’art. 696 bis si sia evitato di dare rilevanza alle posizioni espresse
dalle parti nel corso del tentativo di conciliazione al fine della regolamentazione delle
spese del processo e anche ai fini dell’applicazione dell’art. 96 c.p.c. nell’eventuale giudizio susseguente l’accertamento tecnico.
(49) Sul punto v. soprattutto E. Minervini, La conciliazione giudiziale delle
controversie. Il ruolo delle Camere di Commercio, cit., passim. È interessante riportare i dati statistici fornitici dal Servizio di conciliazione della Camera arbitrale nazionale e internazionale di Milano. Nel periodo compreso tra il 1998 ed il 2003, la Camera Arbitrale di Milano ha gestito 1295 procedimenti di conciliazione. Nel 2004
sono state depositate 260 domande di conciliazione, di cui 159 business to consumer
e 101 business to business. Il 49% di tali domande ha registrato l’adesione della controparte al tentativo di conciliazione; il 39% la mancata adesione; nel 14% dei casi si
è raggiunto un accordo transattivo prima di aderire alla richiesta di procedimento
conciliativo; nel 2% dei casi l’attore ha ritirato la propria domanda. Il valore medio
dei procedimenti è stato di Euro 49.286,00. La durata media dei procedimenti è stata
di 39 giorni. Dei 108 incontri di conciliazione svoltisi nel corso dell’anno, 91 sono
sfociati in un accordo pienamente raggiunto, 2 in un accordo parziale, 15 in un mancato accordo.
(50) L’art. 2 comma 4° di tale legge dispone che le Camere di commercio, singolarmente o in forma associata, possano oltre che promuovere la costituzione di
Commissioni arbitrali o conciliative, come subito nel testo, « b) predisporre e promuo-
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RIVISTA DI DIRITTO PROCESSUALE
ma 4°, che « Le Camere di commercio, singolarmente o in forma associata,
possano tra l’altro: a) promuovere la costituzione di Commissioni arbitrali e
conciliative per la risoluzione delle controversie tra imprese e tra imprese e
consumatori e utenti ». Essa avrebbe così ratificato l’operato ormai consolidato
di molte Camere di commercio, che da tempo avevano costituito camere arbitrali e conciliative che, fino al 1993, erano rimaste prive di riscontri normativi (51). Tale legge si sarebbe mossa nell’ottica di facilitare l’accesso alla giustizia di soggetti deboli, quali i consumatori e le piccole imprese, in una prospettiva di contenimento dei tempi e dei costi, e di semplificazione delle procedure,
specie con riguardo alle controversie di scarso valore, ossia alla micro-conflittualità tra imprese e tra imprese e consumatori (52). Inoltre è stato detto che,
con la stessa, il legislatore mirava a realizzare un effetto deflativo dell’amministrazione della giustizia ordinaria (53).
Di fatto la previsione normativa non è rimasta una dichiarazione di
principio, perché alla legge citata hanno fatto seguito altri provvedimenti legislativi che espressamente richiamano le commissioni conciliative istituite
dalle Camere di commercio. Si tratta più precisamente dell’art. 2, comma
24° della legge 14 novembre 1995, n. 481, recante Norme per la concorrenza
e la regolazione dei servizi di pubblica utilità. Istituzione delle Autorità di
regolazione dei servizi di pubblica utilità; dell’art. 10, comma 1°, della legge
18 giugno 1998, n. 192, recante Disciplina della subfornitura nelle attività
––––––––––––
vere contratti-tipo tra imprese, loro associazioni e associazioni di tutela degli interessi
dei consumatori e degli utenti; c) promuovere forme di controllo sulla presenza di
clausole inique inserite nei contratti ». Riferisce E. Minervini, cit., 9 s., che la norma è
stata criticata dalla dottrina in quanto generica e non priva di ambiguità. De Nova,
Considerazioni introduttive, in Le clausole abusive nei contratti stipulati con i consumatori, a cura di C.M. Bianca e G. Alpa, Padova 1996, 304, la giudica « norma in
bianco »; Antonini, Le Camere di Commercio, il controllo delle clausole « vessatorie »
e le clausole « inique » ex L. 580/93, in Clausole « vessatorie » e « abusive », a cura di
U. Ruffolo, Milano 1997, 154, le riconosce carattere « sibillino ». Sui poteri di regolazione del mercato così riconosciuti alle Camere di commercio, le quali sarebbero dovute diventare le garanti della correttezza delle regole del gioco tra imprese e tra imprese e consumatori, e quindi del corretto funzionamento del mercato, v. per tutti E.
Minervini, cit., e la bibliografia dall’autore riportata alle note 4 e 5.
(51) Così E. Minervini, La conciliazione stragiudiziale delle controversie, cit.,
13. Si tratterebbe di una constatazione diffusa in dottrina: cfr. nota 19 della p. appena
citata.
(52) E. Minervini, cit., 14.
(53) Cfr. per tutti Quinto, Camere di commercio e conciliazione nelle controversie
tra imprese e tra imprese e consumatori, Roma 1997, 13; Perrini, Il ruolo delle Camere
di commercio, in La conciliazione, Modelli ed esperienze di composizione non conflittuale delle controversie, cit., 44.
CONCILIAZIONE E MEDIAZIONE ECC.
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produttive; dell’art. 3, commi 2°, 3°, e 4° della legge 30 luglio 1998, n. 281,
recante Disciplina dei diritti dei consumatori e degli utenti; dell’art. 4,
comma 5°, della legge 29 marzo 2001, n. 135, recante Riforma della legislazione nazionale del turismo; dell’art. 38, comma 2°, del d.lgs. n. 5 del 17
gennaio 2003, recante Definizione dei procedimenti in materia di diritto societario e di intermediazione finanziaria, nonché in materia bancaria e creditizia, in attuazione dell’art. 12 della legge 3 ottobre 2001, n. 366; dell’art.
7 della legge 6 maggio 2004, n. 129, recante Norme per la disciplina
dell’affiliazione commerciale, che contiene un espresso riferimento alla conciliazione stragiudiziale societaria, da ultimo richiamata dall’art. 27 della
legge 28 dicembre 2005, n. 262 recante Disposizioni per la tutela del risparmio e la disciplina dei mercati finanziari, mentre l’art. 2 della legge 14
febbraio 2006, n. 55 in materia di patto di famiglia, richiama gli organismi di
conciliazione di cui all’art. 38 del d.lgs. n. 5 del 2003.
È sulla disciplina della conciliazione stragiudiziale societaria che si concentrerà l’attenzione, non potendo passare in rassegna tutte le fattispecie citate,
se non per evidenziare la mancanza di sistematicità del legislatore, il quale
sembra fino ad oggi non aver perseguito un disegno unitario (54). Si è affermato al riguardo che l’utilizzo della conciliazione camerale non sembra la conseguenza di scelte programmatiche, ma il frutto di iniziative dettate da fattori
contingenti, osservando come appare governata dal caso la preferenza che il
legislatore accorda ora per l’obbligatorietà, ora per la facoltatività del tentativo
di conciliazione, ora per la natura contrattuale del verbale di conciliazione, ora
per il suo valore di titolo esecutivo, ora per la sospensione dei termini per agire
in giudizio nelle more del tentativo di conciliazione, ora per la decorrenza degli
stessi e così via (55).
D’altro canto sarebbe mancata una linearità da parte del legislatore anche
nel perseguire il rafforzamento della conciliazione camerale, posto che è stata
rilevata (56) l’incongruenza con la quale la legge del 31 luglio 1997, n. 229, recante Istituzione dell’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni e norme sui
sistemi delle telecomunicazioni e radiotelevisivo, ha prescelto come via ordinaria di risoluzione delle controversie il ricorso a procedure conciliative, senza
lasciare spazio a quella camerale, prevista invece dalla legge n. 481 del 1995,
––––––––––––
(54) Per supportare l’affermazione basta confrontare il diverso contenuto delle
norme sopra citate. Si è peraltro detto che con le stesse il legislatore avrebbe costituito
una legislazione « promozionale » con una valorizzazione dell’art. 2, comma 4°, lett. a)
della legge n. 580 del 1993: così Vigoriti, Il rifiuto del processo civile, in Le nuove leggi
civ. comm. 1999, 241 ss.
(55) Così E. Minervini, Le Camere di commercio e la conciliazione della controversia, in La risoluzione stragiudiziale delle controversie, cit., 365.
(56) E. Minervini, cit., 366.
480
RIVISTA DI DIRITTO PROCESSUALE
che è la legge generale in tema di autorità di regolazione dei servizi di pubblica
utilità (57).
Ma se si osserva il trend normativo non si può non rilevare come
l’ampliamento della conciliazione camerale non possa essere considerato solo
in termini quantitativi, come maggior estensione dei settori interessati alla stessa, ma anche in termini qualitativi, non essendo più solo riservata a controversie
di tipo bagatellare, ma essendo essa prevista come possibile soluzione di liti che
possono avere una forte importanza economica come quelle societarie (58).
7. – Questo ampliamento della portata della conciliazione e del suo ambito
applicativo, registratosi nel nostro ordinamento interno, sembra seguire
l’evoluzione che la materia ha subito in sede europea (59). È noto come il miglioramento dell’accesso dei consumatori alla giustizia sia stato uno dei principali obbiettivi perseguiti dalla Commissione nell’ambito della formulazione di
una politica volta alla tutela dei consumatori (60). Più precisamente,
l’obbiettivo perseguito è stato quello di facilitare la risoluzione delle controversie in materia di consumo, garantendo ai consumatori non solo l’accesso alla
giustizia in senso stretto, ma altresì un effettivo esercizio dei propri diritti, ovviando ai problemi che derivano dalla sproporzione tra la portata economica
della controversia e il costo del suo regolamento giudiziale (61).
––––––––––––
(57) Così Patroni Griffi, Tipi di autorità indipendenti, in I garanti delle regole. Le
autorità indipendenti, Bologna 1996, 33.
(58) Così E. Minervini, cit., 367 ss., il quale auspica, peraltro, un riordino della
materia della conciliazione camerale attraverso una sorta di legge quadro che incoraggi
l’attività delle Camere di commercio, e si preoccupi da un lato di istituire gli opportuni
incentivi, specie fiscali, e dall’altro di imporre il rispetto delle garanzie fondamentali
(imparzialità del conciliatore, tutela del contraddittorio ecc.), magari subordinando
l’esecutività del verbale di conciliazione, al rispetto di tali garanzie. Si tratta di quanto
già suggerito da Chiarloni, La conciliazione stragiudiziale, cit., 700.; Id., Stato attuale,
cit., 460.
(59) Sul tema cfr.: Danovi, Le ADR e le iniziative dell’Unione europea, in La risoluzione stragiudiziale delle controversie, cit., 3 ss.; Severin, What place is there for civil
mediation in Europe? ivi, 239 ss.; Lapenna, L’opera dell’Unione Europea. La politica
dell’accesso dei consumatori alla giustizia, in La conciliazione. Modelli ed esperienze,
cit., 31 ss.; Di Rocco, Santi, La conciliazione, cit., 335 ss.; Sticchi Damiani, Le forme di
risoluzione delle controversie alternative alla giurisdizione. Disciplina vigente e prospettive di misurazione statistica. Le iniziative comunitarie e del Consiglio d’Europa, in
Riv. it. dir. pubbl. comunit. 2003, 743 ss.; Licini, Alternative dispute resolution (ADR):
aspettative europee ed esperienze USA, attraverso il libro verde della Commissione europea, e la sapienza di un giurista mediator americano, in Riv. not. 2003, 1.
(60) Cfr. per tutti Lapenna, ult. loc. cit.
(61) Così quasi testualmente Lapenna, cit.
CONCILIAZIONE E MEDIAZIONE ECC.
481
Al riguardo si possono ricordare la Comunicazione della Commissione
Piano di azione sull’accesso dei consumatori alla giustizia e sulla risoluzione delle controversie in materia di consumo nell’ambito del mercato interno
del 14 febbraio 1996 (62), la quale ha fatto seguito al Libro Verde della
Commissione in tema di Accesso dei consumatori alla giustizia e di risoluzione delle controversie in materia di consumo nell’ambito del mercato unico del 16 novembre 1993 (63), e più di recente la Raccomandazione della
Commissione riguardante i principi applicabili agli organi responsabili per
la risoluzione extragiudiziale delle controversie in materia di consumo del
30 marzo 1998 (64) e con la stessa data la Comunicazione della Commissio-
––––––––––––
(62) Comunicazione della Commissione COM(96)0013 - C4-0195/96.
(63) Commissione delle Comunità Europee, Bruxelles 16 novembre 1993 COM
(1993) 576. Su di esso cfr. Martinello, Libro verde sull’accesso dei consumatori alla
giustizia; appunti per un’analisi critica, in Doc. giust. 1994, 340 ss.; Id., Accesso dei
consumatori alla giustizia. I risultati del progetto pilota del Comitato Difesa consumatori promosso dalla Commissione CEE, in Doc. giust. 1996, 1500 ss.; Capponi, Il
libro verde sull’accesso dei consumatori alla giustizia, in Doc. giust. 1994, 361 ss.;
Gasparinetti, Consumatori-utenti e giustizia civile nel Mercato Unico. Un dibattito
aperto, in Doc. giust. 1994, 330. Il Libro verde definisce l’accesso alla giustizia come
un diritto dell’uomo ed una condizione per l’operatività effettiva di qualsiasi ordinamento giuridico, ivi compreso quello comunitario. Cfr. anche i seguenti documenti raccolti in appendice nel volume La risoluzione stragiudiziale delle controversie, cit., 657
ss.: Risoluzione del 22 aprile 1994 sul Libro verde della Commissione concernente
l’accesso dei consumatori alla giustizia e alla risoluzione delle controversie in materia
di consumo nell’ambito del mercato unico (C3-0493/93); Parere del Comitato delle
Regioni in merito al Libro verde: l’accesso dei consumatori alla giustizia e la risoluzione delle controversie in materia di consumo nell’ambito del mercato unico (CdR
47/94 in G.U. 6 agosto 1994, n. C 217); Parere del Comitato economico e sociale in
merito al « Libro verde: l’accesso dei consumatori alla giustizia e la risoluzione delle
controversie in materia di consumo nell’ambito del mercato unico »; Risoluzione del
Parlamento del 14 novembre 1996, n. A-0355/96, G.U. n. C362 del 2 dicembre 1996
sulla Comunicazione della Commissione « Piano d’azione sull’accesso dei consumatori alla giustizia e sulla risoluzione delle controversie in materia di consumo
nell’ambito del mercato interno ».
(64) Commissione delle Comunità Europee, Bruxelles 30 marzo 1998 SEC (1998)
576 def. La raccomandazione riguarda le procedure che, a prescindere dalla loro denominazione, conducono ad una soluzione della controversia attraverso l’intervento attivo di
un terzo che prende formalmente posizione su una soluzione; non riguarda le procedure
spesso designate come « mediazione ». In essa si raccomanda che tutti gli organismi esistenti o che saranno creati in futuro e che avranno come competenza la risoluzione stragiudiziale delle controversie in materia di consumo rispettino i seguenti principi: principio di indipendenza; principio di trasparenza; principio del contraddittorio; principio di
efficacia; principio di legalità; principio di libertà; principio di rappresentanza.
482
RIVISTA DI DIRITTO PROCESSUALE
ne sulla risoluzione extragiudiziale delle controversie in materia di consumo (65); ancora, la Raccomandazione della Commissione del 4 aprile 2001
sui principi applicabili agli organi extragiudiziali che partecipano alla risoluzione consensuale delle controversie in materia di consumo (66) e in pari data la Comunicazione Ampliare l’accesso dei consumatori alla risoluzione alternativa delle controversie (67).
Ma il tema del ricorso alla conciliazione assume in sede comunitaria nuovo spessore con la pubblicazione del Libro verde del 19 aprile 2002 relativo ai
modi alternativi di risoluzione delle controversie in materia civile e commerciale (68), il cui obbiettivo era quello di avviare un’ampia consultazione degli
ambienti interessati su un certo numero di questioni di ordine giuridico. In esso
si afferma che il rinnovato interesse all’interno dell’Unione Europea per i modi
alternativi di risoluzione delle controversie (69) in campo civile e commercia-
––––––––––––
(65) Commissione delle Comunità Europee, Bruxelles 30 marzo 1998 COM (1998)
198 def., la quale indica tre vie possibili « per migliorare l’accesso dei consumatori alla
giustizia: la semplificazione e il miglioramento delle procedure giudiziarie, il miglioramento della comunicazione tra gli operatori economici professionali e i consumatori e le
procedure extragiudiziali per la risoluzione delle controversie in materia di consumo.
Queste tre vie, lungi dal costituire metodi alternativi, sono assolutamente complementari.
Tuttavia una fondamentale differenza separa la prima via dalle altre due: mentre la prima
si situa nel contesto tradizionale della risoluzione giudiziale delle controversie e intende
migliorare i sistemi esistenti, le altre due fanno uscire, nella misura del possibile, le controversie dal contesto giudiziario ». Con tale Comunicazione la Commissione ha varato
due iniziative volte a migliorare la situazione esistente in materia di accesso dei consumatori alla giustizia, una delle quali si presenta sottoforma di « una raccomandazione
volta a individuare una serie di principi applicabili al funzionamento degli organi extragiudiziali (esistenti o da creare) per la risoluzione delle controversie in materia di consumo ».
(66) 2001/310/CE. Essa raccomanda a tutti gli organi terzi responsabili delle procedure di risoluzione extragiudiziale delle controversie in materia di consumo, che si adoperano per risolvere una controversia facendo incontrare le parti per convincerle a trovare
una soluzione di comune accordo, che siano garantiti nella procedura i seguenti principi:
imparzialità, trasparenza, efficacia, equità.
(67) COM2001/161 def. In essa si prende atto dell’esistenza di numerose fattispecie di risoluzione alternativa delle controversie alle quali tutte vanno estesi i principi e le garanzie comuni che ne assicurano l’imparzialità, la trasparenza, l’efficacia e
l’equità.
(68) Si può leggere in La risoluzione stragiudiziale delle controversie, cit., 866 ss.
(69) Viene usato per la prima volta, rispetto ai documenti sopra ricordati,
l’acronimo ADR che sta per Alternative Dispute Resolution, che tende sempre più universalmente ad imporsi nella pratica. Il Libro verde non utilizza invece in maniera sistematica le espressioni più diffuse nelle legislazioni nazionali quali mediazione e conciliazione.
CONCILIAZIONE E MEDIAZIONE ECC.
483
le (70) risponde a tre ordini di ragioni. In primo luogo ci si è resi conto del rinnovamento che conoscono sul campo i metodi di ADR, a beneficio dei cittadini,
il cui accesso alla giustizia risulta migliorato. In secondo luogo l’ADR è oggetto
di una particolare attenzione negli Stati membri, traducendosi spesso in iniziative di carattere legislativo. Infine l’ADR rappresenta una priorità politica per le
istituzioni dell’Unione Europea, alle quali spetta il compito di promuovere tali
metodi alternativi, di garantire il miglior contesto possibile per il loro sviluppo e
la loro qualità.
La Commissione ha così promosso una consultazione pubblica su questo Libro verde, che aveva come obbiettivo quello di raccogliere le osservazioni generali degli ambienti interessati, nonché le risposte alle domande
formulate, che riguardavano elementi determinanti del processo di ADR,
quali le questioni delle clausole di ricorso all’ADR, il problema dei termini
di prescrizione, l’esigenza di riservatezza, la validità dei consensi, l’efficacia
degli accordi scaturiti dall’ADR, la formazione dei terzi, il loro regime di
responsabilità.
Il Comitato economico sociale europeo l’11 dicembre 2002 ha espresso
il proprio parere sulle questioni poste dalla Commissione (71), individuando
le esigenze alle quali occorre dare risposta nella materia considerata ed i
principi informatori del possibile intervento comunitario, e sottolineando la
necessità che i procedimenti di risoluzione stragiudiziale delle controversie
siano improntati ai principi di imparzialità, di trasparenza, di efficacia, di
equità, nel senso di equidistanza del conciliatore rispetto alle parti, e di riservatezza.
Il Comitato ha altresì sottolineato la necessità dell’uniformazione del
valore giuridico degli accordi di conciliazione stragiudiziale delle controversie e l’indispensabilità di una formazione professionale dei terzi incaricati di
assistere le parti nella negoziazione dei loro accordi, anche attraverso
l’introduzione di un codice deontologico europeo al quale debbono uniformare la loro condotta coloro i quali si propongono di promuovere professionalmente la soluzione stragiudiziale delle controversie in materia civile e
commerciale (72).
––––––––––––
(70) Si precisa alla nota 4 che sono escluse dall’ambito di applicazione del Libro
verde le questioni relative ai diritti indisponibili e che interessano l’ordine pubblico, quali
un certo numero di disposizioni del diritto delle persone e di famiglia, del diritto della
concorrenza, del diritto del consumo, che in effetti non possono costituire oggetto di
ADR.
(71) 2003/C/85/02. Il comitato individua la strada della Raccomandazione come la
più appropriata per l’approccio generale al problema.
(72) In La risoluzione stragiudiziale delle controversie, cit., 914 ss., si può leggere
il Parere espresso dall’European Consumer Law Group sul Libro verde.
484
RIVISTA DI DIRITTO PROCESSUALE
È in questo contesto che occorre collocare la disciplina della conciliazione
stragiudiziale contenuta negli artt. 38 - 40 del d.lgs. n. 5 del 2003 della quale
ora ci occuperemo, limitatamente ad alcuni aspetti che ci paiono i più interessanti, rinviando agli ormai numerosi contributi della dottrina per una trattazione
più completa del tema (73).
8. – Cominciamo con il ribadire che presupposto non sempre espresso per
l’utilizzazione della conciliazione è che si tratti di materia disponibile. Nel caso
della conciliazione stragiudiziale, di cui agli artt. 38 - 40 (74), anche se essa
sembra poter avere ad oggetto tutte le controversie sorte sulle materie di cui
all’art. 1 del decreto in commento, lo si ricava dall’inquadramento sistematico
dell’istituto (75). Ed infatti e pur trattandosi nel caso di specie di conciliazione
amministrata – così definendosi quella societaria in cui le parti accettano la
proposta di una determinata istituzione che offre al pubblico un’organizzazione
e un regolamento per lo svolgimento di tentativi di conciliazione, così distinguendosi dalla conciliazione ad hoc, in cui lo svolgimento del tentativo è sorretto da una struttura elementare creata volta per volta (76) –, ricondotta ad un
contratto atipico misto nel quale sarebbero presenti elementi dell’appalto di servizi (art. 1655 c.c.) e dell’opera intellettuale (art. 2230 c.c.) (77), non vi è dub-
––––––––––––
(73) Li si vedano citati alla nota seguente.
(74) Sulla conciliazione stragiudiziale nel nuovo rito societario cfr.: Miccolis,
Arbitrato e conciliazione nella riforma del diritto societario, cit., 14 ss.; Id., in La riforma delle società, cit., sub artt. 38-40, 357 ss.; Caponi, La conciliazione stragiudiziale come metodo di ADR, cit., 171 ss.; Caponi, Romualdi, in La via della conciliazione, cit., 159; Luiso, in La via della conciliazione, cit., 227 ss.; Di Roco, Santi, La conciliazione, cit., 303 ss.; Cuomo Ulloa, La nuova conciliazione societaria, cit., 1054 ss.;
Galletto, La conciliazione stragiudiziale nel nuovo diritto societario, in La risoluzione
stragiudiziale delle controversie, cit., 371 ss.; Bartolomucci, La conciliazione stragiudiziale nella riforma del diritto societario, ivi, 405 ss.; E. Minervini, La conciliazione,
cit., 61 ss.; Id., La conciliazione stragiudiziale delle controversie in materia societaria,
in Le soc. 2003, 657 ss.; Negrini, in Il nuovo processo societario, cit., sub artt. 38-40,
1043 ss.; Rubinio La riforma del diritto societario. I procedimenti (d.lgs. 17 gennaio
2003, n. 5), a cura di Lo Cascio, Milano 2003, sub artt. 30-40, 493 ss.; De Santis, La
conciliazione in materia societaria, cit., 449 ss.; Bisignani, in Processo, arbitrato e
conciliazione nelle controversie societarie, bancarie, e del mercato finanziario. Commento al d.lgs. 17 gennaio 2003, n. 5, a cura di G. Alpa e T. Galletto, Giuffrè, Milano
2004, sub artt. 38-40, 261 ss.
(75) Sull’ambito della conciliazione in materia societaria e sul problema dei diritti
indisponibili cfr. Galletto, La conciliazione stragiudiziale, cit., 401 ss.
(76) Così quasi testualmente Caponi, Romualdi, La via, cit., 152.
(77) Caponi, Romualdi, cit., 154, che gli attribuiscono il nomen di contratto di amministrazione di conciliazione.
CONCILIAZIONE E MEDIAZIONE ECC.
485
bio che la stessa agisca sul piano negoziale, incontrando gli stessi limiti
dell’autonomia privata in materia di diritti indisponibili.
Gli artt. 38, 39 e 40 del Titolo VI del d.lgs. n. 5/2003 si occupano in effetti
della conciliazione stragiudiziale amministrata (78), in quanto affidata ad enti
registrati e solo in quanto svolta presso gli stessi, destinataria dei benefici e
delle regole di efficacia previste. Con tali norme il legislatore ha inteso, come si
legge nella Relazione, disciplinare l’accesso ai sistemi di ADR organizzati da
Enti pubblici e privati in condizioni di concorrenza paritaria e sotto il controllo
del Ministero della Giustizia, presso il quale devono essere compiuti gli adempimenti che abilitano allo svolgimento del servizio.
Di fronte a questo impianto di norme che, non vi è dubbio, svolgano una
funzione promozionale rispetto allo strumento conciliativo, la disciplina complessiva contenuta nel d.lgs. n. 5/2003 suscita alcune perplessità di fondo sulle
quali pare opportuno soffermarsi.
Si può cominciare dal riferimento all’imparzialità che sembra tradire la funzione solitamente riconosciuta al conciliatore (79). Si è detto che il conciliatore non
deve giudicare, ma aiutare le parti ad individuare una soluzione della controversia
insorta sulla base di una valutazione delle opposte posizioni, compiuta più in termini di convenienza che di stretto diritto (80). Una soluzione alla quale le parti dovrebbero pervenire sentendola come propria e che consenta una composizione
della controversia nell’ambito della quale non sia possibile individuare un vincitore
ed un soccombente. Anche laddove al conciliatore venga richiesto di valutare le
pretese delle parti e di formulare una proposta di accordo, si deve ritenere che a tale
accordo le parti pervengano comunque sulla base di una loro libera adesione.
Ora, se anche si considera che non al primo modello (81), quello della
––––––––––––
(78) Cuomo Ulloa, La nuova conciliazione societaria, cit., 1057, afferma che non si
possono escludere « forme di conciliazione semi-amministrate, ossia gestite da enti organizzati, ma – al pari di quanto spesso avviene in materia arbitrale – affidate a conciliatori
scelti dalle parti, i quali dovranno comunque operare secondo il regolamento
dell’organismo conciliativo ».
(79) Il comma 1° dell’art. 40 dispone che i regolamenti di procedura devono prevedere le modalità di nomina del conciliatore che « ne garantiscano l’imparzialità ». De
Santis, La conciliazione, cit., 454, osserva che l’art. 40 impone il rispetto di una serie di
principi « “minimali” per un verso annoverabili all’idea del giusto processo come fissato
dall’art. 111 cost. (imparzialità del conciliatore e ragionevole durata della procedura) per
altro verso riconducibili alla speciale finalità dell’istituto (professionalità del conciliatore,
riservatezza del procedimento) ».
(80) Si rinvia sul punto alla dottrina specialistica più volte citata.
(81) La distinzione tra modello facilitativo e modello valutativo, riproposta nel testo, proviene dalla dottrina nordamericana che le fa corrispondere approcci e strategie
diverse da parte del terzo. Per riferimenti bibliografici cfr. Cuomo Ulloa, La nuova conciliazione societaria, cit., 1058, nota 65.
486
RIVISTA DI DIRITTO PROCESSUALE
conciliazione facilitativa (82), ma al secondo, quello della conciliazione valutativa (83), sembrava essersi ispirato il legislatore del rito societario (84), ciò non
toglie che l’imparzialità sia una prerogativa richiesta a colui che è chiamato a
giudicare, mentre nel caso del conciliatore sarebbe più corretto parlare di neutralità, o di equidistanza come a livello europeo. Il che risolverebbe il dubbio
altrimenti legittimo della copertura costituzionale della garanzia dell’imparzialità anche per il conciliatore, con il conseguente tema della sua possibile ricusazione (85), ponendosi semmai il problema della eventuale impugnazione
––––––––––––
(82) In questo tipo di modello conciliativo, il conciliatore non esprime delle valutazioni in ordine alla fondatezza o meno delle posizioni dei contendenti, ma cerca invece di
stimolare la loro capacità di elaborare valide alternative alla controversia insorta: così Di
Rocco, Santi, La conciliazione, 123. Per altre definizioni della conciliazione facilitativa
cfr.: Uzqueda, in La via della conciliazione, cit., 95; Caponi, La conciliazione stragiudiziale, cit., 167; Luiso, La conciliazione nel quadro della tutela dei diritti, cit., 9.
(83) In questo tipo di modello conciliativo, invece, al conciliatore viene chiesto di
valutare le pretese delle parti, e di formulare una proposta di accordo, rispetto alla quale
le parti mantengono la loro libertà di adesione: così Uzqueda, ult. loc. cit.; cfr. anche Di
Rocco, Santi, ult. loc. cit.; Caponi, ult. loc. cit. Questo modello viene definito da Luiso,
ult. loc. cit., aggiudicativo perché imporrebbe al conciliatore di valutare la fondatezza
delle rispettive pretese, al fine di formulare una proposta il cui contenuto dipende
dall’opinione che il conciliatore si è fatto circa le posizioni delle parti. Il conciliatore ricercherà la soluzione giusta per la controversia.
(84) Così Caponi, Romualdi, in La via della conciliazione, cit., 160; Luiso, ivi, 327;
Caponi, La conciliazione stragiudiziale, cit., 172; Giovannucci Orlandi, Primi spunti
sulla conciliazione extragiudiziale nelle controversie societarie, in Conciliazione e arbitrato nelle controversie societarie, Atti del convegno organizzato dall’AIA, Roma 7 novembre 2002, 2003, 124; Galletto, La conciliazione stragiudiziale nel nuovo diritto societario, cit., 388. Cuomo Ulloa, La nuova conciliazione, cit., 1060 nota 68, aderisce a
questo inquadramento della conciliazione extragiudiziale societaria, ma precisa che il
modello di conciliazione valutativo descritto dalla dottrina nordamericana appare più
complesso e articolato. Per Bartolomucci, La conciliazione stragiudiziale, cit., 454 s., il
modello inizialmente adottato dal legislatore del societario sarebbe stato un terzo modello
di conciliazione « un modello a doppio binario che ritiene prioritario il raggiungimento di
accordo spontaneo tra le parti, che chiede al conciliatore il compimento di tutti gli sforzi
necessari per realizzarlo e, solo nel caso di oggettiva impossibilità, la formulazione di una
proposta che sia il frutto della sua autonoma iniziativa e valutazione in quanto soggetto
terzo super partes ». La scelta era comunque criticabile perché basata su un assunto errato, ovvero che « il conciliatore debba necessariamente svolgere un ruolo valutativo,
proponendo alle parti una soluzione che ritiene migliore ».
(85) Luiso, ult. loc. cit., afferma che poiché il conciliatore può trovarsi a dover
esprimere un giudizio, la sua terzietà assume lo stesso rilievo di quella del giudice e
dell’arbitro. Miccolis, in La riforma delle società, cit., 365, esclude, invece, che
l’imparzialità del conciliatore possa essere assicurata dalle norme poste a garanzia
dell’imparzialità del giudice (artt. 51 e 52 c.p.c.) e dell’arbitro (art. 815 c.p.c.).
CONCILIAZIONE E MEDIAZIONE ECC.
487
negoziale della conciliazione raggiunta attraverso un conciliatore non neutrale (86).
Si diceva che il modello al quale si è ispirato il legislatore pareva essere
quello della conciliazione valutativa, almeno prima delle ultime modifiche
apportate alla norma dal d.lgs. n. 37 del 2004 (87). In effetti il comma 2°
dell’art. 40, nella sua prima versione, stabiliva, per il caso di mancato raggiungimento di un accordo, che il procedimento conciliativo si concludesse
con una proposta del conciliatore rispetto alla quale ciascuna delle parti indicava la propria definitiva posizione, ovvero le condizioni alle quali era disposta a conciliare. Di tali posizioni il conciliatore dava atto in un apposito verbale, come della mancata adesione di una delle parti all’esperimento del tentativo di conciliazione (88).
I risvolti poco convincenti della disciplina attenevano a quanto previsto nel
comma 5° dell’art. 40 per il caso di non raggiunto accordo, in quanto si disponeva che la mancata comparizione di una delle parti e le posizioni assunte dinanzi al conciliatore fossero valutate dal giudice ai fini della decisione delle
spese processuali, anche ai sensi dell’art. 96 c.p.c. (89). Disciplina criticabile
––––––––––––
(86) Così Miccolis, ult. loc. cit.
(87) « Modifiche ed integrazioni ai decreti legislativi numeri 5 e 6 del 17 gennaio
2003 recanti la riforma del diritto societario, nonché al testo unico delle leggi in materia
bancaria e creditizia di cui al decreto legislativo n. 385 del 1° settembre 1993 e al testo
unico dell’intermediazione finanziaria di cui al decreto legislativo n. 58 del 24 febbraio
1998 », pubblicato in G.U. del 14 febbraio 2004, n. 37, suppl. ord. n. 24. Sul nuovo modello di conciliazione cfr. Bartolomucci, La conciliazione, cit., 460 ss. Sulle ultime modifiche apportate dal legislatore cfr. anche Negrini, in Il nuovo processo societario, cit., sub
art. 40, 1063 ss.; Sassani, Tiscini, in La riforma delle società. Aggiornamento commentato. Diritto sostanziale e processuale, a cura di M. Sandulli, V. Santoro e B. Sassani,
Giappicchelli, Torino 2004, sub art. 40, 224 ss.
(88) Nella proposta del conciliatore Luiso, in La via della conciliazione, cit., 237,
vede un giudizio che fa acquisire a tutto il procedimento conciliativo una connotazione
aggiudicativa. Il conciliatore potrà e dovrà cercare gli elementi che stabiliscano chi ha
ragione e chi ha torto « in modo di essere in grado di fare una proposta secondo giustizia
e non secondo convenienza, come nel modello facilitativo ».
(89) Il giudice era infatti chiamato a valutare comparativamente le posizioni assunte
dalle parti e il contenuto della sentenza da lui pronunciata al fine di escludere in tutto o in
parte la ripetizione delle spese sostenute dal vincitore che aveva rifiutato la conciliazione,
che poteva essere condannato altresì al rimborso delle spese sostenute dal soccombente.
Parametro di riferimento di questa operazione non era il contenuto della proposta di conciliazione, ma le posizioni delle parti, valutate non rispetto alla stessa proposta, ma a
quello che era il contenuto della sentenza. Dunque non pareva corretto dedurne che nella
proposta fosse insito un vero e proprio giudizio, il che avrebbe fatto acquisire alla procedura una connotazione aggiudicativa, con la conseguenza di dover valutare il requisito
della imparzialità del conciliatore alla stessa stregua di quello del giudice o dell’arbitro:
488
RIVISTA DI DIRITTO PROCESSUALE
perché se la conciliazione stragiudiziale vuole avere una qualche speranza di
affermarsi nella prassi applicativa, deve operare sul solo piano del tentativo negoziale, senza che possa avere delle ricadute sull’eventuale futuro giudizio (90).
––––––––––––
così Luiso, in La via della conciliazione, cit., 238. Oltre al fatto che i parametri valutativi
utilizzati dal conciliatore sarebbero stati diversi da quelli di stretto diritto utilizzati dal
giudice, essendo proprio questo uno dei possibili vantaggi offerti dal ricorso a questo
strumento alternativo di risoluzione delle controversie: la possibilità di valutare il conflitto insorto tenendo conto del sistema di interessi sotteso allo stesso e non vincolando la
possibile soluzione all’applicazione di norme di stretto diritto. Per queste ragioni non mi
convince la ricostruzione offerta da Luiso, cit., 237, della proposta del conciliatore in
termini di giudizio. Non vedo perché la proposta non debba essere formulata sulla base
della « convenienza », secondo le caratteristiche tipiche dell’istituto, invece che della
« giustizia ». Ma sul punto, dello stesso autore, cfr. Magistratura togata, magistratura
onoraria, « altra giustizia », cit., 1 ss. Quanto all’interpretazione della norma in commento l’autore afferma che « se è stata la parte vittoriosa a rifiutare una proposta del conciliatore che, nella sostanza, gli avrebbe dato quello che poi ha ottenuto nel processo giurisdizionale, allora il giudice potrà compensare le spese, o anche condannare la parte vittoriosa a pagare, in tutto o in parte, le spese alla parte soccombente. Se è stata la parte
soccombente a rifiutare una proposta del conciliatore che, nella sostanza, riconosceva alla
controparte quello che poi quest’ultima ha ottenuto nel processo giurisdizionale, allora vi
potrà essere la condanna per responsabilità aggravata ex art. 96 c.p.c ». Per Luiso si sarebbe così applicato, in relazione alle spese e ai danni, il criterio della causalità, intendendosi per colui che ha dato causa alla controversia giurisdizionale chi abbia rifiutato
una proposta conciliativa coincidente con quella che sarà poi la decisione della controversia. Per Miccolis, in La riforma delle società, cit., 366 s., la fattispecie di cui all’art.
40, comma 5°, avrebbe presupposto in realtà una soccombenza parziale, ossia un parziale
accoglimento della domanda. Non sarebbe infatti ragionevole ritenere che il legislatore si
sia voluto riferire al caso dell’attore che chiede 100 e che abbia rifiutato una proposta
conciliativa del convenuto per 100 o 99, per poi ottenere dal giudice con sentenza 100, o
al convenuto vincitore che rifiuti una proposta conciliativa formulata dall’attore soccombente per 0 o 1, per poi ottenere dal giudice il rigetto integrale della domanda. L’autore
critica questa disciplina che finirebbe con il punire l’attore ostile alla conciliazione, favorendo il convenuto che, anziché formulare offerta reale per l’importo in questione, si rende semplicemente disponibile a sottoscrivere un atto avente valore di titolo esecutivo per
il medesimo importo. In considerazione di ciò Miccolis esprime la sua preferenza per
soluzioni che prevedano un’ammenda o una sanzione amministrativa a carico dell’attore
che ha rifiutato ragionevoli proposte conciliative.
(90) Il legislatore ha invece ritenuto di disincentivare atteggiamenti ostili alla conciliazione. Sul punto cfr. Miccolis, in La riforma delle società, cit., 366. Una proposta
estrema de iure condendo è quella formulata da Proto Pisani, Per un nuovo titolo esecutivo di formazione stragiudiziale, in Foro it. 2003, V, 117, e definita « variante piuttosto
spinta della conciliazione valutativa » da Caponi, La conciliazione stragiudiziale, cit.,
173. Si tratterebbe di affidare obbligatoriamente per legge ad un collegio presieduto da
un terzo imparziale e integrato da rappresentanti delle parti il tentativo di conciliazione di
CONCILIAZIONE E MEDIAZIONE ECC.
489
Ora non sembra che questi rilievi possano considerarsi superati alla luce
del più recente e già ricordato intervento legislativo operato sull’art. 40 del
d.lgs. n. 5 del 2003 (91), che ha modificato il primo periodo del comma 2°
della norma citata. Essa, dopo la novella, così dispone: « Se entrambe le
parti lo richiedono, il procedimento di conciliazione, ove non sia raggiunto
un accordo, si conclude con una proposta del conciliatore rispetto alla
quale ciascuna delle parti, se la conciliazione non ha luogo, indica la propria definitiva posizione, ovvero le condizioni alle quali è disposta a conciliare » (92).
Mi pare che risulti evidente, dal confronto con il precedente testo, che
la novità sta tutta nell’aver subordinato la formalizzazione della proposta del
conciliatore alla richiesta delle parti. Sembrerebbe, in altre parole, che le
parti debbano esprimere il consenso all’adozione del cosiddetto modello valutativo, nel quale, come si è visto, al conciliatore viene chiesto di formulare
una proposta. Se così è occorre allora ridimensionare l’affermazione secondo
la quale il legislatore del societario, nell’introdurre la conciliazione stragiudiziale cosiddetta amministrata, avrebbe optato per il modello valutativo. Pare invece che il ricorso a tale strumento alternativo di risoluzione della controversia, disciplinato dagli artt. 38 e seguenti, lasci ancora aperta la scelta
per le parti di concordare il tipo di intervento che le stesse richiedono al conciliatore.
Ma il vero nodo problematico posto dalla norma, come novellata, è se, in
assenza della richiesta delle parti, e dunque in mancanza della proposta del
conciliatore, si applichi ugualmente il comma 5° dell’art. 40. Non mi sembra
possano esservi dubbi sul fatto che il giudice sia chiamato a valutare,
nell’eventuale successivo giudizio, ai fini della decisione sulle spese processuali, anche ai sensi dell’art. 96 c.p.c., la mancata comparizione di una delle
parti. Del resto il conciliatore deve dare atto, ai sensi del comma 2° dell’art.
40, con apposito verbale, della mancata adesione di una parte al tentativo di
conciliazione.
Quello che non è chiaro è se il conciliatore debba verbalizzare comunque
––––––––––––
una serie di controversie, individuate per materia e valore, e in caso di esito negativo di
consentire al collegio di emanare una decisione allo stato degli atti che accerti il diritto,
con possibilità di pervenire, in caso di accoglimento dell’istanza, alla formazione di un
titolo esecutivo stragiudiziale di origine privata.
(91) V. p. 21 e nota (87).
(92) Per Bartolomucci, La conciliazione, cit., 461, il modello di conciliazione
societaria sarebbe stato del tutto stravolto non tanto perché sarebbe stato eliminato il
collegamento tra conciliazione fallita e processo civile successivamente instaurato,
ma perché tale collegamento sarebbe strettamente connesso alla libera volontà delle
parti.
490
RIVISTA DI DIRITTO PROCESSUALE
le definitive posizioni delle parti, ovvero le condizioni alle quali sarebbero disposte a conciliare, anche nel caso in cui non abbia formalizzato la sua proposta
in quanto ciò non gli sia stato richiesto; perché se è vero che esse sembrano, nel
comma 2° della norma, doversi rapportare al contenuto della proposta stessa, ai
fini dell’applicazione del comma 5°, il giudice è chiamato a valutare comparativamente queste posizioni e il contenuto della sentenza. In altre parole, ciò che
sembra rilevare non è la proposta del conciliatore, che potrebbe anche mancare,
ma sono le posizioni assunte dalle parti davanti al conciliatore. Una diversa interpretazione lascerebbe alle parti la scelta se applicare o meno, nel successivo
ed eventuale giudizio, una sanzione di carattere processuale che non sembra
possa rientrare nella loro disponibilità (93).
Non si può allora che concludere sul punto osservando come la modifica
così introdotta non sia in grado di eliminare quei dubbi sull’efficacia dello
strumento che la norma già poneva, e che miglior soluzione sarebbe stata quella
di non consentire in alcun modo l’utilizzo, nel futuro ed eventuale processo, di
ciò che è accaduto in sede conciliativa, tenendo rigorosamente separati i due
contesti.
Espressi questi dubbi sulla disciplina dettata dal legislatore del societario
––––––––––––
(93) Per Bartolomucci, La conciliazione, cit., 461, « la condizione essenziale alla
quale il conciliatore potrà formulare una proposta e verbalizzare le posizioni delle parti
e il giudice, a sua volta, potrà valutare (ai sensi del comma 5°) il loro comportamento e
le loro dichiarazioni di mancata adesione alla proposta formulata dal conciliatore è che
vi sia la concorde volontà delle parti ». Sulle possibili interpretazioni della norma v.
Negrini, cit., sub art. 40, 1069, secondo il quale, quella per cui in caso di mancanza
della concorde richiesta delle parti verrebbe meno non solo l’obbligo del conciliatore
di formulare la sua proposta, ma anche il dovere delle parti di indicare le proprie condizioni per l’accordo, sarebbe troppo ampia. Nel successivo giudizio mancherebbe il
parametro con cui valutare ai fini delle spese il comportamento tenuto in sede di conciliazione. Contra: Sassani, Tiscini, cit., 225, secondo i quali la definitiva posizione di
ciascuna delle parti sarebbe subordinata alla proposta del conciliatore. Non vi sarebbe
spazio per una presa di posizioni delle parti in assenza della proposta del conciliatore
« semplicemente perché esse sono chiamate a prendere posizione solo sulla proposta
avanzata dal conciliatore ». Questa interpretazione non pregiudicherebbe la ratio del
comma 5° dell’art. 40 in quanto « la posizione assunta dalle parti innanzi al conciliatore » non necessariamente coinciderebbe con quella susseguente alla formulazione da
parte del conciliatore stesso della propria proposta. « Essa potrebbe più genericamente
consistere nelle dichiarazioni delle parti messe a verbale nel corso del tentativo di conciliazione. Sicché, in sede di giudizio il giudice conserva ampio potere di trarre considerazioni dalla lettura del verbale di mancata conciliazione tale da indurlo a disporre
sulle spese di giudizio in un senso o nell’altro ». Secondo gli autori sottrarre alle parti
l’obbligo di prendere posizione in assenza di una loro richiesta congiunta sarebbe più
conforme alla ratio della modifica, la quale subordinerebbe alla richiesta di parte
l’attivazione del meccanismo.
CONCILIAZIONE E MEDIAZIONE ECC.
491
in materia di conciliazione stragiudiziale, prima di abbandonare il tema occorre
cominciare a sciogliere la riserva formulata quando si è riproposta la più nota e
diffusa classificazione dell’istituto in esame. Si ricorderà che in quella sede si
era indicata, quale ulteriore linea di indagine, quella di verificare se la stessa
possa considerarsi ancora attuale alla luce dei più recenti interventi legislativi
interni e, anche se in fieri, comunitari.
Al riguardo assume importanza innanzitutto il Regolamento recante la
determinazione dei criteri e delle modalità di iscrizione nonché di tenuta del
registro degli organismi di conciliazione di cui all’art. 38 del decreto legislativo 17 gennaio 2003, n. 5 (94). Esso infatti, al suo art. 1, contiene delle
definizioni, tra le quali, alla lett. d), quella di « conciliazione ». L’istituto
posto ad oggetto delle nostre osservazioni viene definito in questi termini:
« il servizio reso da uno o più soggetti, diversi dal giudice o dall’arbitro, in
condizioni di imparzialità rispetto agli interessi in conflitto e avente lo scopo
di dirimere una lite già insorta o che può insorgere tra le parti, attraverso
modalità che comunque ne favoriscano la composizione autonoma ». Siamo
qui di fronte alla prima definizione normativa di conciliazione stragiudiziale,
la quale sembra, peraltro, echeggiare quella di mediazione offerta dalla Proposta di Direttiva in materia, di cui ora occorre occuparsi per poter comprendere appieno il problema terminologico, che non è solo tale, sottendendo
realtà diverse.
9. – Prima di affrontare la questione terminologica, pare però opportuno
segnalare i punti della Relazione che accompagna la Proposta (95), che sembrano confermare alcune delle considerazioni che fino ad ora abbiamo svolto.
Innanzitutto in essa si pone in rilievo che, se un migliore accesso alla giustizia ha sempre rappresentato uno degli obbiettivi chiave della politica UE, esso « dovrebbe includere la promozione dell’accesso ad adeguate procedure di
risoluzione delle controversie per i privati e le imprese, e non soltanto la possibilità di accedere al sistema giudiziario ». Come dire, riconoscimento che il
sistema giustizia di uno Stato membro non può non prevedere accanto al possibile ricorso all’autorità giudiziaria, forme alternative di risoluzione delle controversie (96). La necessità di un quadro giuridico stabile sulla interazione tra
––––––––––––
(94) Assunto con decreto del Ministro della Giustizia, 23 luglio 2004, n. 222. Ad
esso ha fatto seguito il Regolamento recante approvazione delle indennità spettanti agli
organismi di conciliazione a norma dell’art. 39 del decreto legislativo 17 gennaio 2003,
n. 5, assunto con decreto del Ministro della Giustizia, 23 luglio 2004, n. 223.
(95) Dà notizia della Proposta di direttiva Int’l Lis 2004/2005, 9.
(96) La Relazione prosegue affermando che « La direttiva oggetto della proposta contribuisce a questo obbiettivo agevolando l’accesso alla risoluzione delle con-
492
RIVISTA DI DIRITTO PROCESSUALE
mediazione e procedimenti civili, si afferma, « potrebbe contribuire a porre la
mediazione su un piede di parità con i procedimenti giudiziari quando i fattori
connessi alla specifica controversia giocano il ruolo più significativo per le
parti nella determinazione della scelta del mezzo di risoluzione della controversia ».
La Commissione afferma di credere nelle potenzialità della conciliazione quale strumento di risoluzione delle controversie e come accesso alla giustizia per privati ed imprese che presenta indubbi vantaggi: si tratterebbe di
« un modo più veloce, più semplice ed economicamente più efficiente di risolvere le controversie, che consente di prendere in considerazione una
gamma più ampia di interessi delle parti, con una maggiore possibilità di
raggiungere un accordo che sarà rispettato su base volontaria e che preserva una relazione amichevole e sostenibile tra esse ». Sono qui concentrate
quelle caratteristiche dello strumento da noi già evidenziate, compreso il riferimento alla pluralità di interessi che possono essere fatti oggetto del procedimento in esame, e che bene mette in luce quella sua peculiarità già individuata sul piano del contenuto dello stesso.
Ma nella Relazione che accompagna la Proposta di Direttiva vi è anche
espressa quella consapevolezza, più di recente acquisita, sul ruolo degli strumenti alternativi di risoluzione delle controversie, che appunto più che alternativi ai procedimenti giudiziari e indipendentemente dalla loro caratteristica di
poter alleggerire la pressione sul sistema giudiziario, si presentano come i più
adeguati. Così la Commissione vede nella mediazione « uno dei diversi mezzi
di risoluzione delle controversie disponibile in una società moderna e che può
essere il più idoneo per alcuni tipi di controversie ».
Venendo ora al contenuto della Proposta, essa dopo aver precisato nel
suo art. 1 l’obbiettivo e l’ambito di applicazione (97), contiene all’art. 2 alcune definizioni che qui meritano di essere ricordate. Si è infatti obbligati a
confrontarsi, in particolare, con la definizione che la Proposta di Direttiva
offre di mediazione: « il termine mediazione indica qualunque procedimen-
––––––––––––
troversie attraverso due tipi di disposizioni: in primo luogo, quelle volte a garantire
un’efficace relazione tra la mediazione ed i procedimenti giudiziari, istituendo una
normativa minima comune nella Comunità relativamente ad un certo numero di
aspetti fondamentali della procedura civile. In secondo luogo, fornendo ai tribunali
degli stati membri strumenti efficaci per promuovere attivamente l’utilizzo della mediazione, senza tuttavia rendere la mediazione obbligatoria o soggetta a sanzioni
specifiche ».
(97) Dispone l’art. 1: « 1. L’obbiettivo della presente direttiva è quello di facilitare
l’accesso alla risoluzione delle controversie promuovendo il ricorso alla mediazione e
garantendo un’efficace relazione tra mediazione e procedimenti giudiziari. 2. La presente direttiva si applica in materia civile e commerciale ».
CONCILIAZIONE E MEDIAZIONE ECC.
493
to, indipendentemente dalla denominazione, dove due o più parti della controversia sono assistite da un terzo allo scopo di raggiungere un accordo
sulla risoluzione della controversia, indipendentemente dal luogo in cui il
procedimento è stato intrapreso dalle parti, suggerito o ordinato da un tribunale o prescritto dalla legge nazionale di uno Stato membro ». La Proposta contiene una precisazione che obbliga a tornare sulla terminologia usata
nel sistema interno. Essa prosegue infatti alla lett. a) dell’art. 2 affermando
che il termine non comprende « i tentativi messi in atto dal giudice al fine di
giungere ad una soluzione transattiva nell’ambito del procedimento giudiziario oggetto della vertenza ».
Se volessimo uniformarci al linguaggio usato in sede comunitaria dovremmo allora riservare il termine di conciliazione a quell’attività prestata dal
giudice nell’ambito del procedimento giudiziale che si svolge innanzi allo stesso, usando quello di mediazione con riferimento invece all’attività svolta dal
terzo al di fuori del processo per agevolare le parti nella ricerca di una soluzione
consensuale della lite. Non si tratterebbe però solamente di una precisazione
terminologica perché al diverso linguaggio si potrebbero far corrispondere
realtà differenti, rispondenti ad esigenze diverse e a criteri normativi non omogenei.
La Proposta, sul presupposto che « garantire una relazione efficace tra la
mediazione ed i procedimenti giudiziari contribuirà comunque indirettamente a
promuovere anche la mediazione » (98), prevede al suo art. 3 quella che noi
chiameremmo mediazione delegata, ovvero la possibilità per il tribunale investito di una causa di invitare le parti a ricorrere alla mediazione allo scopo di
dirimere la controversia (99).
La Proposta di Direttiva, dopo essersi occupata della garanzia della qualità
della mediazione (100) e dell’esecuzione degli accordi transattivi (101), e prima
––––––––––––
(98) Così la Relazione che accompagna la Proposta di Direttiva. V. anche la nota
precedente.
(99) La norma aggiunge che « Il tribunale può, in ogni caso, richiedere alle parti di
partecipare ad un incontro informativo sul ricorso alla mediazione ».
(100) Ad essa è dedicato l’art. 4 che così dispone: « 1. La Commissione e gli
Stati membri promuovono ed incoraggiano lo sviluppo di un codice di condotta da
parte dei mediatori e delle organizzazioni che forniscono servizi di mediazione, nonché l’ottemperanza al medesimo, sia a livello nazionale che a livello comunitario,
nonché qualunque altro efficace meccanismo di controllo della qualità riguardante la
fornitura di servizi di mediazione. 2. Gli Stati membri promuovono e incoraggiano la
formazione dei mediatori allo scopo di consentire alle parti della controversia di
scegliere un mediatore in grado di gestire la mediazione in modo efficiente secondo
le attese delle parti ».
(101) Prevede l’art. 5 che gli Stati membri garantiscano che, su richiesta delle parti,
« un accordo transattivo raggiunto in seguito ad una mediazione possa essere confer-
494
RIVISTA DI DIRITTO PROCESSUALE
di disciplinare i termini di prescrizione e di decadenza (102), pone dei limiti ai
mediatori nel rendere testimonianza o fornire prove nei procedimenti civili in
relazione ad alcune circostanze che attengono a quanto accaduto in sede di mediazione (103). Essa non contiene, invece, alcuna indicazione in merito al rilievo che le proposte del mediatore possono avere nel successivo ed eventuale
giudizio di merito.
Al riguardo, se la definizione di mediazione sembra presupporre quale
modello di strumento preso in considerazione quello di tipo facilitativo,
nell’art. 6 si fa più volte riferimento alla proposta del mediatore che è tipica
––––––––––––
mato tramite sentenza, decisione, dichiarazione di autenticità o qualunque altra modalità
da un tribunale o da una autorità pubblica che renda l’accordo esecutivo similmente ai
provvedimenti giudiziari emessi in base al diritto nazionale, purché l’accordo non sia
contrario al diritto europeo e al diritto nazionale dello Stato membro ove la richiesta è
presentata ».
(102) Ad essi è dedicato l’art. 7 il quale prevede che « 1. Il decorso di qualsivoglia
termine di prescrizione o decadenza rispetto alla controversia oggetto della mediazione è
sospeso qualora, successivamente al sorgere della controversia: a) le parti esprimano il
loro accordo in merito al ricorso alla mediazione, b) il ricorso alla mediazione sia ordinato da un tribunale, oppure c) l’obbligo di ricorrere alla mediazione sorga ai sensi del
diritto nazionale di uno Stato membro. 2. Quando la mediazione si conclude senza il
raggiungimento di un accordo transattivo, il termine riprende a decorrere a partire dalla
data in cui entrambe le parti o il mediatore dichiarano che la mediazione è conclusa o di
fatto la abbandonano. Il termine si proroga in ogni caso almeno di un mese dalla data in
cui esso ricomincia a decorrere, a meno che si tratti di un termine entro il quale deve
essere intrapresa un’azione al fine di evitare che una misura provvisoria o similare cessi
di avere effetto o sia revocata ».
(103) Esse sono così indicate nell’art. 6: a) l’invito di una parte ad intraprendere la
mediazione o il fatto che una parte intendesse partecipare alla mediazione; b) opinioni
espresse o suggerimenti di una parte della mediazione rispetto ad una possibile definizione della controversia; c) dichiarazioni o ammissioni rese da una parte nel corso della mediazione; d) proposte del mediatore; e) il fatto che una parte abbia espresso la sua volontà
di accettare una proposta di accordo del mediatore; f) un documento predisposto esclusivamente ai fini della mediazione. La norma si applica anche ad ogni altro soggetto coinvolto nell’amministrazione di servizi di mediazione. Essa dopo aver escluso che le comunicazioni delle informazioni relative alle circostanze indicate possano essere ordinate da
un tribunale o da un’altra autorità giudiziaria, e che se tale informazione è offerta come
prova deve essere dichiarata inammissibile, pone delle eccezioni. Tale informazione può
infatti essere comunicata o ammessa come prova a) nella misura in cui essa è necessaria
al fine dell’applicazione o dell’esecuzione dell’accordo transattivo raggiunto quale risultato diretto della mediazione; b) per superiori considerazioni di ordine pubblico, in particolare se richiesta per assicurare la protezione di minori e per scongiurare un danno
all’integrità fisica o psicologica di una persona; oppure c) se il mediatore e le parti sono
d’accordo.
CONCILIAZIONE E MEDIAZIONE ECC.
495
invece di quello valutativo. Resta il fatto che molto opportunamente non si
prevede alcuna rilevanza di quanto accaduto nel corso del tentativo di mediazione nell’eventuale e successivo giudizio promosso per la stessa controversia, tenendo rigorosamente separati i due ambiti. Questo è vero certamente
con riferimento alla disciplina delle spese, che non viene infatti presa in considerazione nella Proposta di Direttiva, diversamente dal nostro sistema interno; mentre con riferimento alla possibilità di fare oggetto di prova quanto accaduto in sede di mediazione, essa sembra contemplarlo nel caso in cui vi sia
l’accordo del mediatore e delle parti. C’è da domandarsi se si tratti di
quell’accordo che le parti debbono raggiungere sul tipo di modello di mediazione al quale ricorrere con il consenso del mediatore, chiamato in alcuni casi
ad esprimere delle proposte che potrebbero allora tra l’altro rilevare nell’eventuale e successivo giudizio.
10. – Agli stessi dubbi espressi sul punto in materia di conciliazione
stragiudiziale societaria si espongono anche i criteri contenuti in materia
nello schema di disegno di legge recante delega al governo per l’attuazione
di modifiche al codice di procedura civile, presentato dalla Commissione
Vaccarella, approvato dal Consiglio dei Ministri il 24 ottobre 2003 (104), il
cui art. 57 indica quello della previsione di strumenti di composizione extragiudiziale delle controversie secondo forme e modalità di mediazione non
obbligatoria (105). La relazione è esplicita nell’aderire al modello di conciliazione/mediazione laddove si riferisce a « forme di risoluzione consensuale
della controversia, favorite dall’intervento di un terzo, conciliatore o mediatore, che sia in grado di condurre le parti fino ad un punto di incontro
soddisfacente per entrambe ». In quest’ottica sarebbe stato apprezzabile la
scelta di evitare ogni accenno agli eventuali effetti che il mancato raggiungimento dell’accordo avrebbe nel successivo eventuale giudizio. Ma così
non è in quanto in materia di spese l’art. 11, dopo aver offerto quale criterio
per la disciplina delle stesse il principio della soccombenza, fa salva la facoltà per il giudice di derogarvi, sulla base di esplicita motivazione, « sia
compensandole, sia ponendole, in tutto o in parte, a carico della parte formalmente vittoriosa che abbia, tuttavia, causato o mantenuto in vita la lite,
eventualmente rifiutando ragionevoli proposte conciliative ». Non è contemplata, invece, una valutazione ai fini della responsabilità aggravata. La stessa
norma esclude peraltro che si possano utilizzare gli atti e le dichiarazioni
della procedura di conciliazione come fonte di prova, anche indiretta, in un
eventuale successivo giudizio.
––––––––––––
(104) Presentato alla Camera dei deputati il 19 dicembre 2003: atto Camera 4578,
assegnato il 27 gennaio 2004 alla Commissione Giustizia della Camera.
(105) Sulla norma cfr. Bartolomucci, cit., 481.
496
RIVISTA DI DIRITTO PROCESSUALE
Con riferimento a questa prospettiva de lege ferenda, – che dà spazio alla
clausola conciliativa, prevedendo la sospensione del processo da parte del giudice per un breve tempo; che contempla una disciplina dell’interruzione o della
sospensione dei termini processuali e sostanziali quale effetto dell’istanza di
conciliazione; che dispone la valenza di titolo esecutivo per il verbale di conciliazione, previo controllo formale da parte del giudice; – occorre segnalare la
possibile introduzione della conciliazione delegata, sul modello presente in altri
ordinamenti vicino al nostro quale quello francese (106) e altresì nella Proposta
di Direttiva sopra commentata.
Si prevede infatti che il giudice, ove non vi sia opposizione di alcuna delle
parti, possa sospendere, per breve tempo, il procedimento, invitando le parti
stesse ad esperire un tentativo di conciliazione presso un soggetto iscritto
nell’apposito registro.
Molti altri sono i disegni di legge in materia (107). Mi limito in questa
sede a ricordare la proposta di legge n. 5492 Disposizioni per la promozione
della conciliazione stragiudiziale presentata dall’onorevole Cola il 15 dicembre 2004, che dichiaratamente si inserisce in un contesto normativo mu-
––––––––––––
(106) Il Nouveau Code de procédure civile contempla due diversi istituti: la conciliation e la médiation. Alla conciliation sono dedicati gli artt. 127-131, il primo dei quali
dispone che « Les parties peuvent se concilier, d’elles-même ou à l’initiative du juge tout
au long de l’instance ». La médiation è disciplinata dagli artt. 131-1 - 131-15. Nella
prima norma si afferma che « Le juge saisi d’un litige peut, après avoir recuilli l’accord
des partes, désigner une tierce personne afin d’entendre les parties et de confronter leurs
points de vue pour leur permettre de trouver une solution au conflit qui les oppose. Ce
pouvoir appartient également au juge des référés, en cours d’instance ». Sull’esperienza
francese cfr.: Guillaume, Hofnung, La mediation, Parigi 1995.
(107) Si possono qui ricordare le iniziative parlamentari sulla conciliazione
stragiudiziale professionale, all’esame di un apposito Comitato ristretto presso la
Commissione Giustizia della Camera dei deputati: atto C/541 (On. Bonito ed altri)
« Norme concernenti la conciliazione e l’arbitrato », presentato il 6 giugno 2001;
atto C/2538 (On. Fragalà) « Disposizioni per l’istituzione e il funzionamento delle
Camere di conciliazione », presentato il 19 marzo 2002; atto C/2463 (On. Cola ed
altri) « Norme per la promozione della conciliazione stragiudiziale professionale »,
presentato il 5 marzo 2002 e infine l’atto C/2877 (On. Mazzoni) « Disciplina della
risoluzione consensuale e negoziale delle controversie civili », presentato il 19 giugno 2002; a questi va aggiunto l’atto n. 1551 « Norme per la promozione della conciliazione stragiudiziale professionale », di iniziativa del Sen. Costa, presentato il 27
giugno 2002, e l’atto n. 3559 (On. Finocchiaro), presentato il 21 gennaio 2003. Questi
progetti di legge, esaminati dal Comitato ristretto al fine della redazione di un testo
unificato, sono confluiti in un testo base che è quello presentato dall’On. Cola.
L’esame del provvedimento è tuttora in sede referente presso la Commissione Giustizia. Per l’esame di queste iniziative legislative cfr. Bartolomucci, La conciliazione,
cit., 483 ss.
CONCILIAZIONE E MEDIAZIONE ECC.
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tato dalla entrata in vigore della conciliazione stragiudiziale societaria e
dalla Proposta di direttiva di cui sopra si è riferito. Non stupisce quindi che
essa estenda a tutte le controversie civili e commerciali in materia di diritti
disponibili la disciplina della conciliazione societaria (art. 3), offra una definizione di conciliazione (art. 2) che corrisponde a quella del Regolamento
sopra riportata (108), che tra l’altro recepisce le indicazioni provenienti a
livello internazionale e contempli la conciliazione stragiudiziale raccomandata dal giudice (art. 4), fattispecie che darebbe attuazione a quanto previsto
all’art. 3 della Proposta di Direttiva.
11. – Chiudiamo con qualche breve osservazione. In questo scritto si è
cercato di fare il punto su un istituto ancora poco studiato dai teorici, e invece
molto discusso dai pratici. Nella trattazione del tema si è scelto di portare
l’attenzione soprattutto sulla questione dei rapporti tra conciliazione e/o mediazione ed eventuale giudizio ordinario perché mi pare che sia su questo piano
che si possa giocare un futuro di successi per l’istituto e una più sicura divulgazione della cultura conciliativa.
Si tratta di piani che devono restare separati perché se non vi è dubbio che la
promozione della conciliazione e/o mediazione si colloca nel contesto di un nuovo sistema di tutela dei diritti, che certamente valorizza la ricerca di soluzioni rimesse alla libera volontà delle parti ed alla loro capacità di autodeterminarsi e
quindi di scegliere autonomamente le regole per loro vincolanti, dall’altro non è
pensabile che il processo e i suoi principi si pieghino a questa esigenza.
Basti pensare all’affermazione assolutamente diffusa secondo la quale nel
procedimento conciliativo non troverebbe applicazione il principio del contraddittorio. Come consentire che la proposta del conciliatore, formatasi senza il
rispetto di questo principio cardine del sistema processuale possa avere una
qualche rilevanza nel successivo e futuro processo? Mi pare che la questione sia
piuttosto delicata e meriti di essere attentamente ponderata. Così come mi pare
sistematicamente poco accettabile far dipendere dalla volontà delle parti l’applicazione di una sanzione processuale.
Dunque molte sarebbero le questioni che meriterebbero una più attenta
considerazione. Ma volendoci per il momento limitare ad una valutazione della
conciliazione solo in termini di efficacia e capacità di affermazione nelle relazioni sociali, mi sembrerebbe che tutta quella enfasi che accompagna il requisito della riservatezza tipico della procedura conciliativa, mal si concili con la
possibilità che di quanto accaduto nell’ambito di essa si possa tener conto davanti ad un giudice.
––––––––––––
(108) Si tratta del Regolamento recante la determinazione dei criteri e delle modalità di iscrizione nonché di tenuta del registro degli organismi di conciliazione di cui
all’art. 38 del decreto legislativo 17 gennaio 2003, n. 17 sul quale cfr. supra.
498
RIVISTA DI DIRITTO PROCESSUALE
Vero è piuttosto che l’affermazione della conciliazione presuppone il mutamento di mentalità soprattutto da parte degli operatori giuridici e forse e prima ancora di chi li forma. È in questo campo allora che ci si può forse impegnare pensando ad una integrazione delle materie giuridiche insegnate nelle Università, che sull’esempio americano, contempli anche lo studio delle forme alternative di risoluzione delle controversie.
MARIA FRANCESCA GHIRGA
Professore straordinario
nell’Università dell’Insubria
LA COMPETENZA
SULL’INIBITORIA ANTITRUST
SOMMARIO: 1. Le norme sulla competenza e l’effettività nell’attuazione delle norme
antitrust. – 2. I problemi interpretativi sorti nell’applicazione dell’art. 33,
comma 2°, legge n. 287 del 1990, soprattutto riguardo alla possibilità di ricorso
all’inibitoria. – 3. Il coordinamento tra l’attività dell’Autorità Garante, la giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo e l’ambito riservato all’A.g.o., e
il sistema comunitario in materia di concorrenza. – 4. (Segue) In particolare, il
potere di diffida di cui all’art. 15, legge n. 287 del 1990 e i provvedimenti inibitori del giudice ordinario. – 5. La competenza esclusiva della Corte d’Appello ai sensi dell’art. 33, legge n. 287 del 1990 ad emanare provvedimenti, anche inibitori, a tutela della concorrenza in ambito nazionale. – 6. Considerazioni de iure condendo e riflessioni conclusive.
1. – La recente opzione del legislatore comunitario, nel senso di un controllo giurisdizionale diffuso da parte dei giudici nazionali sull’applicazione
delle norme comunitarie in materia di concorrenza, ai sensi degli artt. 81 e 82
del Trattato CE (1), può essere considerata come il segno di un mutamento epocale nell’applicazione delle norme sulla concorrenza (2).
Tra i consideranda del Reg. CE n. 1/2003, infatti, si è ammesso apertamente che il sistema c.d. « centralizzato », precedentemente in vigore, non fosse
più in grado di assicurare un corretto equilibrio tra i due principali obiettivi
della normativa comunitaria in tema di concorrenza, consistenti, da una parte,
nell’anelito ad una sorveglianza efficace sulla sussistenza di eventuali infrazioni
e, dall’altra, in quello di mantenere un controllo il più possibile semplificato.
––––––––––––
(1) Il riferimento è al Reg. CE n. 1/2003 del 16 dicembre 2003, entrato in vigore dal
maggio 2004, il quale prevede il passaggio dal sistema c.d. « centralizzato » di applicazione delle norme comunitarie sulla concorrenza, di cui agli artt. 81 e 82 del Trattato CE,
stabilito dal Reg. CEE 17/62, a quello del controllo decentrato, in ispecie da parte dei
giudici nazionali degli Stati membri, riconoscendo a questi ultimi non più solo la competenza giurisdizionale a decidere sulle domande di risarcimento dei danni causati dalla
violazione delle disposizioni comunitarie in materia di concorrenza, bensì una competenza piena nell’attuazione dei citati artt. 81 e 82.
(2) Cfr. le ampie considerazioni svolte a riguardo in Libro Bianco sulla modernizzazione delle norme per l’applicazione degli articoli 85 e 86 del Trattato CE, Programma
della Commissione n. 99/027, del 28 aprile 1999.
500
RIVISTA DI DIRITTO PROCESSUALE
Nell’ambito del nuovo regime comunitario in tema di applicazione delle
norme sulla concorrenza, quindi, assume notevole importanza l’abrogazione
della norma sulla competenza della Commissione sancita dall’art. 9, comma 3°,
del Reg. CEE n. 17 del 1962, nella parte in cui prevedeva che i giudici nazionali
rimanevano competenti in materia, anche ove non fossero scaduti i termini per
la notificazione, ma soltanto fino a quando la Commissione non avesse iniziato
alcuna procedura a norma degli artt. 2, 3 o 6 del citato Reg. n. 17. In pratica, la
notifica prevista dalle disposizioni comunitarie finiva per rappresentare un rilevante ostacolo per qualunque iniziativa, promossa avanti le Autorità giurisdizionali nazionali, che fosse diretta ad accertare la sussistenza di comportamenti
anticoncorrenziali e ad ottenere provvedimenti volti alla loro cessazione (3).
Del resto, l’esperienza statunitense dimostra l’efficacia del c.d. sistema di
private enforcement in tema di concorrenza, cioè del sistema volto a favorire
l’iniziativa privata nell’attuazione delle norme sulla concorrenza da parte degli
organi giurisdizionali, e in particolare l’importanza in materia dei rimedi inibitori (4). Tale sistema, nel modello statunitense, contempla, altresì, norme volte a
––––––––––––
(3) A tale proposito la stessa Commissione ha osservato in modo perentorio che
« le imprese si sono servite di questo regime centralizzato d’autorizzazione … per bloccare azioni private avviate dinanzi agli organi giudiziari e alle competenti autorità nazionali. Tale situazione ha compromesso gli sforzi volti a promuovere un’applicazione decentrata delle regole di concorrenza comunitarie. Ne ha sofferto l’applicazione sistematica e rigorosa del diritto della concorrenza ed è stato ostacolato il decentramento dell’applicazione del diritto comunitario. In un mercato comunitario sempre più integrato, tale
mancata applicazione sistematica delle norme e l’impossibilità di utilizzare un insieme
comune di regole danneggiano gli interessi dell’industria europea » (così Libro Bianco
sulla modernizzazione delle norme per l’applicazione degli articoli 85 e 86 del Trattato
CE, cit., 4 s. – c.vo nostro; cfr., altresì, Libro Bianco, cit., 35 s. e v. le ulteriori considerazioni svolte infra nel testo e nelle note seguenti).
(4) Il Clayton Act del 1914 (An Act to Supplement existing laws against unlawful
Restraints and Monopolies, and for other purposes, ch. 323, 38 Stat. 730, 1914, che nel
testo vigente è contenuto nello U.S. Code del 1996, § 12) ha rappresentato un rilevante
progresso nella disciplina statunitense sulla concorrenza, introducendo per la prima volta
in materia i rimedi in equity, tra i quali spicca per importanza, appunto l’injunction (Section 16 del Clayton Act del 1914). Sul punto cfr. K. Roach-M. Trebilcock, Private enforcement of competition laws, in Osgoode Hall Law Journal 1996, 464 ss.). La possibilità di emettere provvedimenti inibitori in materia antitrust è, del resto, presente in Francia (anche nell’ambito di procédure en référé e subordinando il mancato ottemperamento
al pagamento di penali giornaliere – cfr. Corte d’Appello di Parigi, 1 febbraio 1995,
SARL Parfumerie Jerbo/SNC Estée Lauder, in RJDAS 1995, n. 560), Germania (ove si
ammette, oltre il rimedio del risarcimento per equivalente e quello dell’inibitoria, anche
la condanna della parte che abbia posto in essere un comportamento anticoncorrenziale,
ad eliminare gli effetti del proprio comportamento – § 33 (1) GWB; §§ 1004, 823 (2)
BGB, pure nel combinato disposto con gli artt. 81 e 82 Trattato CE e del § 9 UWG) e
Inghilterra (dove può essere emanata una final o preliminary injunction, di cui sono
LA COMPETENZA SULL’INIBITORIA ANTITRUST
501
facilitare l’accesso ai rimedi giurisdizionali proponibili dai privati, in materia di
spese del giudizio ed estensione del novero dei soggetti legittimati ad agire (5).
Il funzionamento del nuovo sistema in materia di concorrenza, tuttavia, dipende soprattutto dall’efficienza degli strumenti giuridici e delle norme applicabili ai procedimenti, aventi ad oggetto l’accertamento di violazioni antitrust,
avanti ai giudici nazionali o alle autorità amministrative competenti (6).
In mancanza di norme specifiche (comunitarie o nazionali) applicabili ai
procedimenti aventi ad oggetto l’applicazione degli artt. 81 e 82 del Trattato CE
è di particolare rilevanza stabilire se l’ordinamento sia capace di assicurare una
tutela efficace da parte del giudice ordinario in caso di pratiche anticoncorrenziali rilevanti sul piano interno, anche sotto il profilo dell’adempimento degli
––––––––––––
esclusivamente competenti i giudici ordinari e non i CAT, giudici speciali, aventi in generale competenza concorrente con quella dei giudici ordinari in materia antitrust, istituiti dall’Enterprise Act del 2002).
(5) Roach-Trebilcock, Private enforcement of competition laws, cit., 464 ss.;
W.E. Kovacic, Private participation in the Enforcement of Public Competition Laws, in
www.ftc.gov/speeches/other/030514biicl.htm. Sui vantaggi dell’adozione di un sistema
volto a favorire il private enforcement delle norme comunitarie della concorrenza cfr.
M. Monti, Private enforcement as a key complement to public enforcement of competition rules and the first conclusions on the implementation of the new Merger Regulation,
8° Conferenza IBA, Fiesole 17 settembre 2004, in europa.eu.int.
Anche il Competition Act recentemente promulgato in Canada è frutto di una scelta
volta a favorire il private enforcement delle disposizioni in materia di concorrenza
(cfr. J.B.Laskin-L.M.Plumpton, Private enforcement and litigation, in www.torys.com/publications/pdf/AR2003-14T.pdf).
Per altro verso, gli AA. statunitensi si sono recentemente soffermati sugli effetti distorsivi delle previsioni in tema di spese di giudizio e dell’estensione del novero dei soggetti
legittimati ad agire (W.F. Shughart, Private Antitrust Enforcement: Compensation, Deterrence, or Extortion?, in www.cato.org/pubs/regulation/regv13n3/reg13n3-shughart.html).
Nell’applicazione delle norme sulla concorrenza interne ai singoli Stati federali degli Stati
Uniti, invece, si assiste ad una tendenza contraria all’eccessiva proliferazione di procedimenti volti all’attuazione delle norme antitrust e dei conseguenti effetti distorsivi. In particolare, si segnala l’abrogazione nel novembre 2004 per referendum (c.d. Prop 64) di alcune
norme della Section 17200 dell’Unfair Competition Law, contenuto nel California Business
& Professions Code, nella parte in cui consentivano l’instaurazione dei procedimenti anche
da parte di soggetti che non avessero allegato e provato di aver subito dei danni in conseguenza del presunto comportamento anticoncorrenziale.
(6) Mario Monti, in qualità di Commissario Europeo per la Concorrenza, ha recentemente evidenziato che le norme che disciplinano la tutela civile avanti i giudici nazionali degli Stati Membri in caso di violazione delle norme sulla concorrenza è al vaglio
della Commissione, anticipando sul punto la pubblicazione di un Libro Verde (M. Monti,
A reformed competition policy: achievements and chanllenges for the future, Center for
European Reform, Bruxelles 28 ottobre 2004, 5).
502
RIVISTA DI DIRITTO PROCESSUALE
obblighi comunitari (7), posto che l’applicazione analogica della normativa nazionale in materia costituisce nel caso di specie il criterio interpretativo di riferimento (8).
In ispecie, occorre confrontarsi con l’esigenza di rendere effettivo – anche
in termini di rapidità del procedimento – il controllo interno nell’applicazione
delle regole antitrust, qualunque sia la sede ove venga effettuato, consentendo
agli organi a ciò deputati d’imporre, quando occorra, il rispetto di tali regole
agli operatori del mercato.
La legge n. 287 del 1990 delinea un articolato sistema di controllo, riservando all’Autorità Garante poteri ispettivi e sanzionatori e statuendo all’art. 33,
comma 1°, la giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo sull’impugnazione dei provvedimenti emessi dall’Autorità Garante. Per altro verso, al
comma 2° dello stesso art. 33 è prevista la competenza delle Corti d’Appello
dettagliata in relazione alle « azioni di nullità e risarcimento del danno, nonché
[ai] ricorsi intesi ad ottenere provvedimenti d’urgenza in relazione alla violazione delle disposizioni di cui ai titoli dal I al IV ».
Quanto osservato in precedenza manifesta l’urgenza di una rinnovata meditazione sul ruolo assegnato dalla legge n. 287 del 1990 al giudice ordinario, e
nomine alle Corti d’Appello, funzionalmente competenti in materia antitrust ai
sensi dell’art. 33, comma 2°. Tanto più che le finalità, cui s’ispira il nuovo ordi-
––––––––––––
(7) In proposito, la Commissione CE, nella propria comunicazione 2004/C 101/04
sulla cooperazione tra la Commissione medesima e le giurisdizioni nazionali circa
l’applicazione degli artt. 81 e 82 Trattato CE, pone il problema della compatibilità del
diritto nazionale al diritto comunitario, richiamando al riguardo la giurisprudenza della
Corte di Giustizia, secondo la quale, per quanto più rileva, in caso di violazione del diritto comunitario, il diritto nazionale deve prevedere sanzioni efficaci, proporzionate e
dissuasive (cfr. Corte Giust., 21 settembre 1989, causa 68/88, Commissione/Grecia, in
Racc. 1989, 2965, punti da 23 a 25) e non deve rendere l’attuazione del diritto comunitario eccessivamente difficile o praticamente impossibile (cfr. Corte Giust., 10 aprile 1984,
causa 79/83, Harz, in Racc. 1984, 1921, punti 18 e 23; Corte Giust., 16 dicembre 1976,
causa 45/76 Comet, in Racc. 1976, 2043, punto 12; Corte Giust., 16 dicembre 1976, causa 33/76, Rewe, in Racc. 1976, 1989, punto 5).
(8) A proposito specificatamente dell’attuazione delle disposizioni antitrust di fonte
comunitaria Corte Giust., 20 settembre 2001, causa C-453/99, Courage, in Racc. 2001, I6297, punto 29: « in mancanza di una disciplina comunitaria in materia, spetta
all’ordinamento giuridico interno di ciascuno Stato membro designare i giudici competenti e stabilire le modalità procedurali dei ricorsi intesi a garantire la tutela dei diritti
spettanti ai singoli in forza dell’effetto diretto del diritto comunitario, purché dette modalità non siano meno favorevoli di quelle che riguardano ricorsi analoghi di natura interna
(principio di equivalenza) né rendano praticamente impossibile o eccessivamente difficile
l’esercizio dei diritti conferiti dall’ordinamento giuridico comunitario (principio di effettività) » (c.vi nostri). Cfr., inoltre, in relazione a tale principio Corte Giust., 10 luglio
1997, causa C-261/95, Palmisani, in Racc. 1997, I-4025, punto 27.
LA COMPETENZA SULL’INIBITORIA ANTITRUST
503
namento comunitario antitrust, sembrano meritevoli di considerazione, oltre
che in sede di riforma della disciplina interna, già nell’esegesi e nell’applicazione delle norme vigenti (9).
2. – All’alba dell’entrata in vigore della legge n. 287 del 1990 la dottrina
ha evidenziato che la formulazione dell’art. 33 è principalmente il frutto di un
discutibile compromesso politico (10), peraltro assente in entrambi i disegni di
legge che hanno immediatamente preceduto la promulgazione della legge antitrust (11). In particolare, l’assenza di un coordinamento tra la disposizione sulla
competenza antitrust e le norme del codice di rito e dell’ordinamento giudiziario ha reso particolarmente arduo il compito dell’interprete nell’individuazione
––––––––––––
(9) In occasione dell’entrata in vigore del Reg. 1/2004 la bozza della 7° novella del
GWB pubblicata il 28 maggio 2004 (Regierungsentwurf) si propone specificamente di
semplificare e promuovere l’accesso alla giustizia ordinaria da parte dei soggetti danneggiati dalle violazioni delle norme antitrust.
(10) Cfr. R. Alessi-G. Olivieri, La disciplina della concorrenza e del mercato, Torino 1991, 169; più recentemente, nello stesso senso, G. Giovannelli, Autorità « antitrust » e questioni di giurisdizione, in Foro amm. 1996, 743.
(11) Il riferimento è al disegno di legge presentato dal Sen. Guido Rossi datato
10 maggio 1988, recante « Norme per la tutela del mercato », (Atti parl. Sen., X legislatura, n. 1012) e al disegno di legge Battaglia presentato dal governo il 26 luglio
1988, recante « Norme per la tutela della concorrenza e del mercato », (Atti parl.
Sen., X legislatura, n. 1240). Il disegno di legge Rossi prevedeva una competenza
giurisdizionale esclusiva riservata ad istituende commissioni specializzate presso le
Corti d’Appello (artt. 19, 21, 23), nell’ambito di un sistema secondo il quale all’organo amministrativo indipendente, che doveva essere posto a presidio del corretto
funzionamento del mercato, era assegnato un ruolo subalterno e spesso solo consultivo (cfr. Alessi-Olivieri, La disciplina della concorrenza e del mercato, cit., 169). Per
altro verso, il disegno di legge Battaglia prevedeva una ripartizione della giurisdizione tra giudice ordinario e giudice amministrativo, affidando a quest’ultimo solo la
proposizione di ricorsi avverso i provvedimenti di carattere discrezionale emanati
dall’Autorità antitrust, nell’ambito di un sistema nel quale a tale Autorità erano affidati non solo compiti tecnici nel rilievo delle violazioni delle disposizioni antitrust,
bensì anche di valutare gli effetti economici complessivi, non solo concorrenziali, di
una concentrazione e di verificare se fossero soddisfatti « nell’interesse dell’economia internazionale » specifici requisiti, indicati dalla legge, tali da consentire deroghe a concentrazioni anticoncorrenziali.
Il Parlamento, tuttavia, ha ritenuto di attribuire all’Autorità Garante poteri di carattere esclusivamente tecnico, escludendo in tal modo valutazioni discrezionali, ritenute
estranee alle sue specifiche competenze.
Nell’ambito di tale sistema – come meglio vedremo nel prosieguo del discorso –
l’attribuzione della giurisdizione esclusiva al giudice amministrativo in ordine alla
impugnazione dei provvedimenti dell’Autorità Garante appare per molti versi criticabile.
504
RIVISTA DI DIRITTO PROCESSUALE
delle disposizioni applicabili al procedimento avanti il giudice ordinario, a cominciare dalla costituzione dell’organo giudicante (12).
Del tutto inusuale, in ispecie, è il fatto che la competenza delle Corti
d’Appello non sia stata delineata semplicemente ratione materiae, come sarebbe potuto avvenire limitandosi a fare riferimento alle controversie nelle quali
venga dedotta la violazione delle disposizioni della legge n. 287 del 1990. Al
contrario, com’è noto, la lettera dell’art. 33, comma 2°, specifica i petita che è
possibile rivolgere al giudice ordinario a fronte di violazioni delle disposizioni
sulla concorrenza, consistenti in particolare nelle azioni di declaratoria delle
nullità delle intese e di risarcimento dei danni per violazione delle norme antitrust e nei provvedimenti d’urgenza.
A distanza di ben oltre un decennio dall’entrata in vigore della legge
n. 287 del 1990, non risulta affatto chiaro se sussistano rimedi ulteriori rispetto
a quelli espressamente menzionati dall’art. 33, comma 2°, nonché se sia possibile ottenere provvedimenti d’urgenza ex 700 c.p.c. non strumentali alle suddette azioni di merito. Tali problemi interpretativi si pongono di sovente già
ante causam in sede cautelare, soprattutto in relazione alla possibilità di fare
ricorso alla tutela inibitoria d’urgenza nel caso di violazioni delle norme antitrust.
L’orientamento più restrittivo è nel senso che l’art. 33, comma 2°, preveda
rimedi tassativi (declaratoria di nullità delle intese e condanna al risarcimento
dei danni) di competenza esclusiva delle Corti d’Appello (13).
––––––––––––
(12) A questo proposito una parte della giurisprudenza ha rilevato che ai sensi
dell’art. 56 dell’ord. giud. la Corte d’Appello giudica sempre con il numero invariabile di
tre votanti, il che in ambito cautelare troverebbe conferma nel richiamo all’art. 669-terdecies c.p.c., là dove – presupponendo la collegialità del giudice cautelare di prima istanza –
rimette la decisione del reclamo avverso i provvedimenti cautelari pronunciati dalla Corte
d’Appello ad altra sezione della stessa Corte, ovvero alla Corte d’Appello più vicina (cfr.
App. Torino, 7 agosto 2001, in Dir. ind. 2002, 262; App. Catanzaro, 3 luglio 1998, in Foro
it. 1998, I, 2359, pronunciandosi riguardo alla competenza a pronunciare provvedimenti
cautelari ante causam; App. Roma, 3 marzo 1997, in Riv. dir. ind. 2000, II, 29).
Per converso, confermando il proprio precedente orientamento sul punto, la Corte
d’Appello di Milano (App. Milano, 20 luglio 2004, ined.; Id., 3 giugno 2004, ined.; Id., 2
maggio 2003, in Dir. ind. 2003, 537) ha osservato in modo convincente che la trattazione
collegiale è applicabile ai soli giudizi di secondo grado (art. 350 c.p.c.), mentre in materia
antitrust la Corte d’Appello è chiamata a provvedere come giudice di primo ed unico
grado e che l’art. 669-terdecies c.p.c., nel disciplinare la competenza e la composizione
del collegio che deve decidere sui provvedimenti pronunciati dalla Corte d’Appello, presuppone parimenti che l’emanazione di tali provvedimenti sia avvenuta nel giudizio
d’impugnazione della sentenza pronunciata in prime cure.
(13) Cfr. Cass., 9 dicembre 2002, n. 17475, in Foro it. 2003, 1121, con nota di
A. Palmieri, Intese restrittive della concorrenza e azione risarcitoria del consumatore
finale: argomentazioni « extravagantes » per un illecito inconsistente, il quale nell’esclu-
LA COMPETENZA SULL’INIBITORIA ANTITRUST
505
In ispecie, dal novero dei rimedi accessibili da parte dei soggetti lesi da
pratiche anticoncorrenziali sarebbe esclusa la possibilità di ottenere provvedimenti inibitori dal giudice ordinario per la cessazione di tali comportamenti.
Tale orientamento si fonda sul presupposto che la legge n. 287 del 1990 abbia
introdotto un sistema centralizzato di controllo nell’applicazione delle norme
antitrust da parte dell’Autorità Garante, nel quale ai giudici ordinari viene riconosciuta una funzione del tutto eccezionale e residuale (14).
Conseguentemente, si ritiene che solamente l’Autorità Garante possa ordinare la cessazione di comportamenti posti in essere in violazione delle disposizioni sulla concorrenza attraverso l’emanazione di provvedimenti di diffida di
cui all’art. 15 legge antitrust (15).
Secondo una diversa opzione interpretativa l’art. 33, comma 2°, legge antitrust dovrebbe considerarsi una norma speciale sulla competenza, la quale
sancirebbe appunto la competenza funzionale delle Corti d’Appello in ordine ai
soli rimedi indicati in quest’ultima disposizione. In conseguenza, i rimedi, che
non sono contemplati dalla disposizione citata, potrebbero essere concessi da
giudici individuati dalle norme ordinarie (16).
Tale soluzione determina, però, il sorgere di un’altra questione interpretativa sulla possibilità di stabilire un coordinamento tra i procedimenti instaurati
avanti rispettivamente le Corti d’Appello e i Tribunali o i Giudici di Pace aditi
––––––––––––
dere l’applicabilità dell’art. 33, comma 2°, legge antitrust riguardo alle domande di risarcimento proposte dai consumatori, si è orientato nel senso della tassatività e della tipicità
dei rimedi civili previsti nel sistema di tutela della concorrenza; App. Catanzaro, 3 luglio
1998, cit. Favorevole alla soluzione adottata da tale orientamento giurisprudenziale si è
dichiarato M. Scuffi, Giudizio di merito e concorrenza sleale, in M. Tavassi - M. Scuffi,
Diritto processuale antitrust, Milano 1998, 290 s., secondo il quale il mancato riferimento dell’art. 33 legge n. 287 del 1990 all’inibitoria corrisponde ad una scelta ben precisa del legislatore, nell’ambito di un sistema antitrust che, prima del Reg. n. 1 del 2003,
avrebbe ricalcato quanto previsto nell’ordinamento comunitario. Diversamente, però,
sempre a proposito della competenza a conoscere dei rimedi antitrust proposti dai consumatori cfr. Cass., sez. un., 4 febbraio 2005, n. 2207, in Corr. giur. 2005, 337 ss., con
nota di I. Pagni, La tutela civile antitrust dopo la sentenza n. 2207/05: la Cassazione alla
ricerca di una difficile armonia nell’assetto dei rimedi del diritto alla concorrenza; ibidem 2005, 342 con nota di M. Negri, Il lento cammino della tutela civile antitrust: luci e
ombre di un atteso grand arrêt; in www.judicium.it, con nota di G. Canale, I consumatori
e la tutela antitrust; in Riv. dir. proc. 2005, in corso di pubblicazione, con nota di
A. Barletta, Le domande dei consumatori nei confronti dei responsabili di comportamenti
anticoncorrenziali: questioni di competenza, legittimazione ed interesse ad agire.
(14) Cass., 9 dicembre 2002, n. 17475, cit.
(15) Cfr. App. Catanzaro, 3 luglio 1998, cit. In dottrina Scuffi, Giudizio di merito e
concorrenza sleale, cit., 290 s.
(16) Favorevole a tale interpretazione è M. Tavassi, La competenza cautelare della
Corte d’Appello, in Tavassi-Scuffi, Diritto processuale antitrust, cit., 232.
506
RIVISTA DI DIRITTO PROCESSUALE
per l’emanazione di provvedimenti diversi rispetto a quelli sanciti dall’art. 33,
comma 2°, legge antitrust e individuati sulla base delle ordinarie disposizioni
sulla competenza. A questo proposito la dottrina fa riferimento alle norme in
materia di pregiudizialità, affermando in ispecie l’applicabilità del disposto di
cui all’art. 295 c.p.c.
Sempre inclini ad un’interpretazione restrittiva della disposizione sulla
competenza in materia antitrust, oltre che per una dichiarata esigenza di coerenza sistematica con le disposizioni di cui agli art. 669-bis ss. c.p.c., si ritiene
che il riferimento, contenuto nell’ultima parte dell’art. 33, comma 2°, legge
antitrust, riguardante la competenza delle Corti d’Appello ad emanare provvedimenti d’urgenza, sia comunque limitato alle misure rigorosamente strumentali ai provvedimenti che (si ritiene) possano essere pronunciati nel merito
(i.e.: accertamento della nullità delle intese e condanna al risarcimento dei
danni) (17).
Movendo da tali premesse sistematiche, però, si è talora ritenuto possibile
emanare provvedimenti d’urgenza di carattere inibitorio strumentali alla declaratoria della nullità dell’intesa e (soprattutto) al provvedimento di condanna al
risarcimento del danno: provvedimenti d’urgenza la cui funzione sarebbe quella
di contenere e limitare gli effetti lesivi del comportamento anticoncorrenziale,
accertato in sede di cognizione sommaria cautelare, e il conseguente danno risarcibile (18).
Non sono, comunque, mancate prese di posizione nel senso di un’appli-
––––––––––––
(17) Cfr. App. Milano, 3 giugno 2004, inedita; App. Torino, 18 giugno 2001, in
Riv. dir. comm. 2003, II, 56, con nota di L. Albertini, Le violazioni antitrust davanti al
giudice civile: tra cautela e merito, tra giurisdizione ordinaria e amministrativa; App.
Roma, 16 gennaio 2001, in Danno e responsabilità 2001, 284; App. Roma 23 febbraio
1995, in appendice a Tavassi-Scuffi, Diritto processuale antitrust, cit., 676; App. Milano
8 ottobre 1994, in Foro it. 1995, I, 1325; App. Roma, 21 dicembre 1993, in Foro it. 1994,
I, 3518; App. Roma, 20 agosto 1993; App. Roma, 14 gennaio 1993, in Foro it. 1993, I,
3377, con nota di P.F. Valdina, Prime osservazioni sulla tutela cautelare antitrust. Questo orientamento rifiuta in tal modo di dare un’applicazione letterale alla disposizione di
cui all’art. 33, comma 2°, legge antitrust, là dove fa genericamente riferimento alla competenza delle Corti d’Appello ad emanare provvedimenti d’urgenza che si ricollegano a
violazioni delle norme antitrust, in ossequio al sistema della competenza cautelare introdotto con la riforma del processo civile del 1990 (cfr. Scuffi, La tutela cautelare antitrust,
in Tavassi - Scuffi, Diritto processuale antitrust, cit., 228).
(18) Cfr. Scuffi, La tutela cautelare antitrust, cit., 232 s. In giurisprudenza App.
Milano, 3 giugno 2004, cit.; App. Roma, 16 gennaio 2001, cit. A tale proposito si afferma
la possibilità per il giudice della cautela di emettere provvedimenti d’urgenza che si discostano dalla rigorosa anticipazione degli effetti tipici del provvedimento di merito richiamato nella domanda cautelare, nonché alla possibilità di ottenere una tutela
d’urgenza anche in relazione a diritti di credito e alla possibilità di ottenere in sede di
merito un risarcimento in forma specifica ai sensi dell’art. 2058 c.c.
LA COMPETENZA SULL’INIBITORIA ANTITRUST
507
cazione letterale dell’art. 33, comma 2°, legge antitrust, nella parte in cui
rimette alle Corti d’Appello l’emanazione di provvedimenti d’urgenza, senza
espliciti riferimenti dai quali desumere la necessità che essi rappresentino
l’anticipazione di provvedimenti nel merito, di competenza delle stesse
Corti (19).
Con la sentenza n. 2207 del 4 febbraio 2005 le Sezioni Unite della Cassazione hanno affermato il carattere generale della competenza delle Corti
d’Appello in materia antitrust. A tale proposito, infatti, si è affermato che le
Corti d’Appello debbono pronunciarsi ai sensi dell’art. 33, comma 2°, legge
n. 287 del 1990 riguardo a tutte le domande con le quali si chieda una tutela
« riparatoria » di un pregiudizio cagionato da un comportamento anticoncorrenziale vietato, e cioè quando la violazione de qua faccia parte della causa petendi
delle suddette domande (20). Sempre in base allo stesso principio la Suprema
Corte ha osservato l’irrilevanza della qualificazione della res in iudicium deducta quale domanda di risarcimento aquiliano, ovvero di ripetizione d’indebito
di cui all’art. 2033 c.c. (21).
Occorre, quindi, interrogarsi se il riferimento, contenuto nella sentenza
n. 2207/2005, al carattere « riparatorio » delle domande devolute dal legislatore antitrust alla competenza delle Corti d’Appello debba o meno essere
interpretato nel senso di escludere la proponibilità dei rimedi inibitori. Le
indicazioni, che è possibile rinvenire a riguardo dalla pronuncia appena richiamata, non sembrano univoche. Da un lato, infatti, la Cassazione sembra
riservare all’Autorità Garante lo svolgimento dell’attività preventiva in
materia antitrust (22); dall’altra, però, l’individuazione dell’ambito della
giurisdizione del giudice civile e delle forme di tutela, che quest’ultimo può
riconoscere riguardo ai comportamenti anticoncorrenziali, sembra interamente affidata all’applicazione di principi generali del processo civile e, in
ispecie, al necessario ricorrere dell’interesse ad agire, costituito dalla sussi––––––––––––
(19) Cfr. Trib. Napoli, 9 febbraio 1998, in Gius 1998, 3077; App. Torino, 17 febbraio 1995, in Giur. it. 1996, I, 2, 288; App. Milano, 23 gennaio 1992, in Foro it. 1993, I,
3377; App. Firenze, 16 maggio 1991, in appendice a Tavassi - Scuffi, op. cit., 496.
(20) Cass., sez. un., 4 febbraio 2005, n. 2207, cit.
(21) Cass., sez. un., 4 febbraio 2005, n. 2207, cit.
(22) Nel fare riferimento ai rapporti e alle diverse funzioni attribuite in materia, rispettivamente, all’Autorità Garante e al giudice ordinario la Suprema Corte afferma: « la
legge vieta anche le intese che abbiano anche solo per “oggetto” la distorsione di cui si
tratta, oltre che per “effetto”, ma ciò si spiega in considerazione del doppio livello di intervento che essa prevede, quello amministrativo della AGCM e quello riparatorio di cui
alla azione di nullità e risarcimento. L’Autorità Garante è organo di Amministrazione,
ancorché caratterizzato da ampiezza di poteri sui generis. Essa opera anche in vista di un
pericolo, e dunque in considerazione della esigenza economica di prevenire l’effetto distorsivo del fenomeno di mercato » (così Cass., sez. un., 4 febbraio 2005, n. 2207, cit. –
c.vi nostri).
508
RIVISTA DI DIRITTO PROCESSUALE
stenza, o anche solo « in vista » (ossia dinanzi al probabile verificarsi) di un
pregiudizio (23).
Alla stregua di un indirizzo interpretativo favorevole al riconoscimento di
una più ampia competenza nel merito in materia antitrust, e per altro verso incline ad ammettere la possibilità di emanare provvedimenti inibitori da parte del
giudice ordinario, l’art. 33 legge antitrust rappresenterebbe una mera disposizione sulla competenza (esclusiva) delle Corti d’Appello, contenente un’esemplificazione dei provvedimenti che possono essere pronunciati dalle stesse Corti (24).
Si è in presenza, quindi, di posizioni assai variegate, alle quali non sembra
possibile dare una risposta sulla base del solo tenore letterale del disposto di cui
all’art. 33 legge antitrust. L’oggetto della nostra indagine s’inserisce, infatti,
nell’ambito della più vasta tematica dei rapporti tra l’Autorità Garante e gli organi giurisdizionali ordinari e amministrativi, e in special modo dalla possibilità
di affermare l’attribuzione in via esclusiva di talune funzioni alla medesima
Autorità, quale in particolare quella di emanare provvedimenti volti alla cessazione dei comportamenti anticoncorrenziali ai sensi dell’art. 15 legge antitrust.
3. – L’orientamento prevalente e costante in giurisprudenza è nel senso
che il ricorso all’A.g.o. in materia di concorrenza sia possibile indipendentemente dagli accertamenti compiuti dall’Autorità Garante ai sensi degli artt. 14 e
15 legge n. 287/90. In particolare, sul punto si afferma che la tutela civilistica di
cui all’art. 33, comma 2°, legge n. 287 del 1990 può essere esercitata in modo
del tutto autonomo rispetto alle funzioni svolte dall’Autorità Garante (25).
––––––––––––
(23) Affermano a tale riguardo le Sezioni Unite che il giudice civile, nell’ambito
della funzione giurisdizionale che gli è attribuita dall’ordinamento, può pronunciarsi
« solo in presenza o in vista almeno di un pregiudizio » (così Cass., sez. un., 4 febbraio
2005, n. 2207, cit. – c.vi nostri).
(24) Cfr. M. Libertini, Il ruolo del giudice nell’applicazione delle norme antitrust,
in Giur. comm. 1998, I, 662 ss.; R. Alessi, Legge n. 287: tutela cautelare inibitoria, mercato rilevante ed altri problemi, in Riv. dir. comm. 1992, II, 288. In giurisprudenza in tal
senso App. Roma, 6 febbraio 2001 e App. Roma, 16 agosto 2000, in Nuova giur. civ.
comm. 2002, I, 839, secondo la quale la Corte d’Appello ha competenza in materia antitrust ad emanare i provvedimenti inibitori di cui all’art. 2599 c.c. e, conseguentemente,
ad emettere in sede cautelare i provvedimenti d’urgenza tesi ad anticipare gli effetti di
tale pronuncia nel merito; App. Bologna, 20 settembre 1995, in Giur. dir. ind. 1996, 453.
Per una interpretazione estensiva dell’art. 33, comma 2°, legge antitrust in relazione alle
domande di restituzione conseguenti alla declaratoria di nullità delle intese, fondata sulla
dipendenza tra la domanda restitutoria e quella di nullità cfr. App. Genova 14 ottobre
1996, in Dir. ind. 1997, 589.
(25) Cfr. Cass. 11 giugno 2003, n. 9384, in Foro it. 2004, I, 466; App. Milano, 3
giugno 2004, cit.; App. Roma, 6 febbraio 2001 e App. Roma, 16 agosto 2000, cit.; App.
Roma, 21 dicembre 1993, in Foro it. 1994, I, 3518; App. Roma, 14 gennaio 1993, in Fo-
LA COMPETENZA SULL’INIBITORIA ANTITRUST
509
Tale asserto si fonda sulla premessa teorica che l’Autorità Garante e
l’A.g.o., rispettivamente, svolgono le proprie funzioni su piani di reciproca indifferenza (26). In particolare, il giudice ordinario può procedere a norma
dell’art. 33, comma 2°, indipendentemente dall’avvio della procedura avanti
l’Autorità Garante e malgrado manchi un provvedimento di cui all’art. 15 legge
antitrust. Si rileva, infatti, che quest’ultimo provvedimento non costituisce un
presupposto o una condizione di procedibilità del giudizio ordinario ed è, pertanto, irrilevante ai fini della richiesta di tutela civile verso comportamenti anticoncorrenziali (27).
Per altro verso, non è possibile configurare un rapporto di pregiudizialità
tra il procedimento amministrativo di cui all’art. 12 ss. legge antitrust e il giudizio pendente avanti il giudice ordinario e, inoltre, ove si sia in presenza di un
provvedimento sanzionatorio dell’Autorità Garante, non si pone nemmeno un
problema di disapplicazione del provvedimento sanzionatorio (28).
––––––––––––
ro it. 1993, I, 3377. Anche la giurisprudenza dei giudici amministrativi (Cons. Stato, 2
marzo 2004, n. 926, in www.giustizia-amministrativa.it) ammette che la giurisdizione
esclusiva è limitata al sindacato di legittimità dei provvedimenti dell’Autorità Garante e
non può essere estesa all’accertamento del rapporto giuridico relativo all’applicazione
delle norme antitrust. In dottrina cfr. Giovannelli, Autorità « antitrust », cit., 749. Tuttavia, riguardo alla definizione dell’ambito di giurisdizione riservato al giudice ordinario il
Consiglio di Stato non è andato oltre ad un richiamo alla previsione sulla competenza
delle Corti d’Appello in materia di nullità delle intese e di risarcimento del danno
(art. 33, comma 2°, legge antitrust).
(26) Cfr. M. Romajoli, Attività amministrativa e disciplina antitrust, Milano
1998, 382.
(27) Cfr. Romajoli, Attività amministrativa e disciplina antitrust, cit., 382 ss.
(28) Romajoli, ult. op. loc. cit. Tale asserzione, a ben vedere, sembra concordare
con le osservazioni della Cassazione di cui alla sentenza n. 2207/2005. La Suprema Corte, infatti, ha osservato i diversi « obiettivi » cui s’ispira l’attività dell’Autorità Garante e
quella del giudice ordinario. La prima compie degli accertamenti che riguardano la violazione antitrust al fine di far cessare o prevenire fenomeni distorsivi del corretto funzionamento del mercato. E infatti nell’ambito di tale attività l’Autorità Garante utilizza dei
dati aggregati, cioè riferiti a intere categorie di operatori del mercato, ovvero ad una parte
rilevante dello stesso. Il giudice civile, al contrario, deve accertare la violazione delle
disposizioni a tutela della concorrenza sul processo riferita direttamente alle parti in causa. Il punto, semmai, è quello di stabilire se e in che limiti i provvedimenti dell’Autorità
Garante possano essere utilizzati dal giudice al fine di trarre il proprio convincimento sui
fatti rilevanti in sede decisoria, il che dipende, sempre, dalla possibilità di riferire direttamente all’assunto trasgressore delle norme antitrust i dati e i comportamenti accertati
dall’Autorità amministrativa.
Maggiori problemi interpretativi sono prospettati in dottrina a proposito delle autorizzazioni in deroga da parte dell’Autorità Garante di intese ai sensi dell’art. 4 legge antitrust o di operazioni di concentrazione a norma dell’art. 25 legge antitrust (cfr. Giovan-
510
RIVISTA DI DIRITTO PROCESSUALE
Del resto, in dottrina si è avuto modo di chiarire che, almeno nell’emanazione dei provvedimenti disciplinati dall’art. 15 legge antitrust, l’Autorità
Garante non esprime una vera e propria discrezionalità amministrativa, bensì
esercita esclusivamente poteri « neutri » (29), quale organo amministrativo indipendente dall’attività d’indirizzo politico e con funzione esclusivamente tecnica (30) e non alla costituzione di rapporti giuridici nuovi.
Nell’ambito dell’irrogazione delle sanzioni nei confronti degli autori di
comportamenti anticoncorrenziali, infatti, la funzione dell’Autorità Garante si
esaurisce nella c.d. « contestualizzazione » dei concetti normativi astratti utilizzati nelle norme antitrust e nell’accertamento in concreto dei fatti rilevanti ai
fini dell’integrazione di un’attività vietata (31).
Il sindacato giurisdizionale su tali provvedimenti, attribuito in via esclusiva al giudice amministrativo, si estende al controllo delle valutazioni tecniche
compiute dall’Autorità, tanto in sede di « contestualizzazione » delle disposizioni antitrust, quanto nel giudizio tecnico finale. Il solo limite del sindacato
compiuto dal giudice amministrativo – intrinseco nello schema tipico dello stesso giudizio amministrativo – risiede nell’impossibilità di sovrapporre una propria valutazione tecnica a quella effettuata nel provvedimento impugnato (32).
La pronuncia del giudice amministrativo può cioè avere unicamente carattere
––––––––––––
nelli, Autorità « antitrust » e questioni di giurisdizione, cit., 752 ss., ove in proposito sono riportati ampi riferimenti bibliografici).
(29) Tale espressione, in ispecie, è utilizzata in Cons. Stato, 2 marzo 2004, n. 926,
Consip, cit.
(30) Del resto, secondo l’opinione largamente maggioritaria in dottrina le valutazioni tecniche della pubblica amministrazione sono estranee dal campo della discrezionalità (cfr. F.G. Scoca, La discrezionalità nel pensiero di Giannini e della dottrina successiva, in Riv. trim. dir. pubbl. 2000, 1061 ss.).
(31) Cfr. Cons. Stato, 2 marzo 2004, n. 926, Consip, cit., la quale in proposito afferma « i provvedimenti dell’Autorità antitrust hanno natura atipica e sono articolati in
più parti: a) una prima fase di accertamento dei fatti; b) una seconda di “contestualizzazione” della norma posta a tutela della concorrenza che facendo riferimento a “concetti
giuridici indeterminati” (quali il mercato rilevante, l’abuso di posizione dominante, le
intese restrittive della concorrenza) necessita di esatta individuazione degli elementi costitutivi dell’illecito contestato (le norme in materia di concorrenza non sono di “stretta
interpretazione”, ma colpiscono il dato sostanziale costituito dai comportamenti collusivi
tra le imprese, non previamente identificabili, che abbiano oggetto o effetto anticoncorrenziale); c) una terza in cui i fatti accertati vengono confrontati con il parametro come
sopra “contestualizzato”; d) una ultima fase di applicazione delle sanzioni, previste dalla
disciplina vigente ».
(32) Cfr. Cons. Stato, 23 aprile 2002, n. 2199, in Giur. comm. 2003, II, 170, con
nota di R. Caranta, I limiti del sindacato del giudice amministrativo sui provvedimenti
dell’Autorità garante della concorrenza e del mercato; Cons. Stato, 2 marzo 2004, n.
926, Consip, cit.
LA COMPETENZA SULL’INIBITORIA ANTITRUST
511
demolitorio e mai sostitutivo all’attività compiuta dall’Autorità Garante: attività
che successivamente all’accoglimento dell’impugnazione dovrà essere rinnovata dall’Autorità Garante, non senza conseguenze sul piano dell’effettività
nell’attività di contrasto dei comportamenti anticoncorrenziali.
Nell’ambito di tale sistema, inoltre, non sembra possa configurarsi una
connessione per pregiudizialità tra il giudizio pendente avanti il giudice amministrativo, in sede d’impugnazione del provvedimento sanzionatorio o di diffida
dell’Autorità Garante, e quello instaurato davanti al giudice ordinario ai sensi
dell’art 33, comma 2°, legge antitrust. Il che fa concludere nel senso che
nell’ipotesi appena considerata non vi è alcuno spazio in sé per l’applicazione
dell’istituto della sospensione necessaria ai sensi dell’art. 295 c.p.c.
Si ritiene, pertanto, che la legge del 1990 abbia introdotto un controllo diffuso nell’accertamento delle violazioni antitrust. Cosicché la disciplina interna
in materia di concorrenza si differenzia in larga misura rispetto al previgente
sistema comunitario di cui al Reg. n. 17/1962, che invece prevedeva – come si è
avuto modo di vedere – la competenza esclusiva ad applicare talune norme del
Trattato CE in subjecta materia, nonché la sospensione ex lege del giudizio
pendente avanti i giudici nazionali in seguito all’effettuazione della notifica alla
Commissione.
Per altro verso, la mancanza di disposizioni, che sanciscano espressamente
un coordinamento tra i provvedimenti dell’Autorità Garante o del giudice amministrativo in sede di sindacato su tali atti, e le decisioni del giudice ordinario
nell’applicazione delle disposizioni antitrust, non può essere attuata facendo
ricorso alle regole ordinarie in tema di conflitti tra decisioni, data la loro diversa
natura o il loro diverso oggetto.
La problematicità di tale soluzione legislativa non sembra possa essere superata con la giustificazione teorica, sostenuta da una parte della dottrina a supporto del riparto di giurisdizione sancito dal legislatore del ’90, nel senso che
essa si è resa necessaria al fine di evitare problematiche distinzioni tra interessi
legittimi e diritti soggettivi ai fini dell’individuazione del giudice competente (33). E ciò proprio per il fatto che l’Autorità antitrust, delineata dalla legge
––––––––––––
(33) Cfr. Giovannelli, Autorità « antitrust » e questioni di giurisdizione, cit., 744,
anche per i riferimenti bibliografici ivi citati.
La ratio riportata nel testo, volta a giustificare il riparto di giurisdizione di cui
all’art. 33 legge antitrust è stata, invece, richiamata dai rimettenti alla Corte Costituzionale in ordine al giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 33, commi 1° e 2°, lettere
b) ed e), d.lgs., 31 marzo 1998, n. 80, avente ad oggetto la devoluzione esclusiva alla giurisdizione del giudice amministrativo delle controversie in materia di pubblici servizi, e
dell’art. 34, comma 1°, d.lgs., 31 marzo 1998, n. 80, là dove prevede la giurisdizione
esclusiva del giudice amministrativo, oltre che in relazione agli « atti e [ai] provvedimenti », attraverso i quali le pubbliche amministrazioni svolgono le proprie funzioni in
materia urbanistica e edilizia, anche in relazione ai « comportamenti » (cfr. Corte Cost., 5
512
RIVISTA DI DIRITTO PROCESSUALE
del 1990, è un organismo amministrativo indipendente, al quale è conferita
esclusivamente una funzione di natura tecnica in ordine all’accertamento delle
violazioni antitrust. In conseguenza, i provvedimenti, emanati dall’Autorità a
norma dell’art. 15 legge antitrust, non possono considerarsi espressione di
quella discrezionalità amministrativa (34), il cui esercizio segna il riparto di
––––––––––––
luglio 2004, n. 204, in Foro it. 2004, I, 2593). I rimettenti hanno infatti sostenuto che in
materia antitrust vi sarebbe stata un’estensione della giurisdizione esclusiva « non… confliggente con alcun parametro costituzionale in quanto … pur sempre limitata a specifiche controversie connotate non già da una generica rilevanza pubblicistica, bensì dall’intreccio di situazioni soggettive qualificabili come interessi legittimi e come diritti soggettivi ». In sede di declaratoria delle norme censurate dai giudici a quo, tuttavia, la Corte
Costituzionale ha evitato di esprimersi, sia pure solo incidentalmente, sulla legittimità
dell’asserzione relativa alla legittimità costituzionale dell’art. 33 legge antitrust. Sul
punto si è espressa, invece, una recente sentenza delle Sezioni Unite (Cass., sez. un., 29
aprile 2005, n. 8882, in www.cortedicassazione.it), ribadendo, invero in modo apodittico,
che « nella particolare materia in esame, il diritto soggettivo … non è isolato ma si inserisce in un contesto più ampio nel quale sono presenti interessi pubblici di estrema rilevanza… Sussiste, dunque, l’intreccio di situazioni qualificabili come interessi legittimi e come diritti soggettivi che… giustifica la giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo
in ordine ai provvedimenti adottati dall’Autorità ».
Per un’attenta critica della scelta operata dal legislatore del ’90 in materia di riparto
di giurisdizione nelle controversie antitrust cfr. G. Scarselli, La tutela dei diritti dinanzi
alle Autorità Garanti, I Giurisdizione e amministrazione, Milano 2000, 278 ss.
(34) È indirizzo consolidato della Suprema Corte, in materia di riparto di giurisdizione nelle impugnazioni dei provvedimenti sanzionatori irrogati dalla P.A., che i provvedimenti di carattere pecuniario afferiscono alla giurisdizione del giudice ordinario (cfr.
Cass., sez. un., 24 febbraio 1978, n. 926, in Giust. civ. 1978, I, 601, con ampia e dettagliata motivazione; più recentemente l’indirizzo de quo è stato ribadito da Cass., sez. un.,
26 giugno 2001, n. 8746, in Mass. Foro it. 2001; Cass., sez. un., 2 febbraio 1990, n. 718,
in Foro it. 1992, I, 1912, con osservazioni di A. Travi). In questo caso, infatti, la sanzione
avrebbe una funzione solamente punitiva (e diretta solo mediatamente al perseguimento
di interessi pubblici) e non sarebbe espressione di una valutazione di preminenti interessi
pubblici: di modo che la posizione soggettiva del privato destinatario della sanzione
avrebbe nella specie la consistenza del diritto soggettivo e non dell’interesse legittimo.
Peraltro, recentemente la Cassazione ha affermato la sussistenza della giurisdizione
del giudice ordinario in materia di sanzioni irrogate nei confronti dei promotori finanziari
ai sensi dell’art. 196 d.lgs. 24 febbraio 1998, n. 58, anche ove venga irrogata una sanzione diversa da quella pecuniaria, in considerazione dei criteri previsti dalla legge per la
loro irrogazione: e cioè la « gravità della violazione » e l’« eventuale recidiva » (cfr.
Cass., sez. un., 11 febbraio 2003, n. 1992, in Mass. Foro it. 2003; Cass., sez. un., 11 luglio 2001, 9383, in Società 2001, 1347). Il riferimento compiuto dal legislatore del ‘90 a
valutazioni inerenti all’illecito compiuto dal promotore e alla personalità di questo, infatti, esclude secondo la Suprema Corte l’esercizio di qualsiasi discrezionalità amministrativa da parte della CONSOB nell’applicazione delle sanzioni de quibus.
LA COMPETENZA SULL’INIBITORIA ANTITRUST
513
giurisdizione tra il giudice ordinario e quello in materia di provvedimenti sanzionatori emanati da organi amministrativi (35).
Al contrario, la normativa comunitaria in materia antitrust – abbandonato
il sistema che s’imperniava sulla sospensione ope legis ai sensi dell’art. 9,
comma 3°, Reg. n. 17/62 in conseguenza all’effettuazione della notifica e
all’apertura dei procedimenti avanti la Commissione – è particolarmente attenta
al profilo del coordinamento tra lo svolgimento delle funzioni della Commissione e l’esercizio della giurisdizione dei giudici nazionali riguardo all’applicazione delle norme comunitarie antitrust. Coordinamento che è garantito
dall’art. 16 Reg. CE n. 1/2003, il quale prevede la possibilità per il giudice nazionale di procedere ad una sospensione del giudizio pendente avanti a sé, in
attesa che la Commissione adotti una decisione (36).
Il criterio cui deve riferirsi il giudice nazionale al fine di procedere o meno
alla sospensione facoltativa del processo è costituito dall’interesse alla certezza
del diritto comunitario sulla concorrenza (37). Cosicché il giudice nazionale
potrà senz’altro procedere quando la Commissione abbia già adottato una deci––––––––––––
(35) Sempre sulla base delle argomentazioni svolte nel testo, anche alla luce della
motivazione della sent. della Corte Cost., 5 luglio 2004, n. 204, cit., e Corte Cost., 28
luglio 2004, n. 281, ibidem, si potrebbe persino prospettare un rilievo di legittimità costituzionale per contrarietà agli artt. 25 e 102 Cost. riguardo al riparto di giurisdizione
contemplato nell’art. 33, comma 1°, legge antitrust, nella parte in cui attribuisce alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo il sindacato dei provvedimenti sanzionatori dell’Autorità Garante, che pure non sono connotati dall’esercizio di discrezionalità
amministrativa dell’Autorità e, quindi, in materia del tutto estranea a quella degli interessi legittimi. Osserva, infatti, la Corte Costituzionale nella sent. n. 204 del 2004 che « il
vigente art. 103 Cost. non ha conferito al legislatore ordinario una assoluta ed incondizionata discrezionalità nell’attribuzione al giudice amministrativo di materie devolute
alla sua giurisdizione esclusiva, ma gli ha conferito il potere di indicare “particolari materie” nelle quali “la tutela nei confronti della pubblica amministrazione” investe “anche”
diritti soggettivi: un potere, quindi, del quale può dirsi, al negativo, che non è né assoluto
né incondizionato, e del quale, in positivo, va detto che deve considerare la natura delle
situazioni soggettive coinvolte, e non fondarsi esclusivamente sul dato, oggettivo, delle
materie » (c.vi nostri); nello stesso senso cfr. Corte Cost., 28 luglio 2004, n. 281, cit.
(36) A tal fine il giudice nazionale può chiedere alla Commissione se abbia avviato
un procedimento riguardante i medesimi accordi, decisioni o pratiche, che formino oggetto di allegazione nel processo instaurato avanti a sé e di informarla sull’andamento del
procedimento e sulla probabilità che venga adottata una decisione (cfr. Corte Giust., 12
dicembre 1995, cause riunite C-319/93, C-40/94 e C-224/94, Dijkstra, in Racc. 1995, I4471, punto 34; Corte Giust., 28 febbraio 1991, causa C-234/89, Delimitis, in Racc.
1991, I-935, punto 53).
(37) Cfr. Comunicazione della Commissione relativa alla cooperazione tra la
Commissione e le giurisdizioni degli Stati membri dell’UE ai fini dell’applicazione degli
articoli 81 e 82 del trattato CE, 2004/C 101/04, in GUCE 2004, C101, 54 ss., v. spec.
n. 12 della Comunicazione cit., 56.
514
RIVISTA DI DIRITTO PROCESSUALE
sione su un caso analogo, ovvero quando non abbia motivi ragionevoli per dubitare della decisione che verrà adottata dalla Commissione, sulla base di una
prognosi della decisione che verrà adottata dalla Commissione (38).
Il giudice nazionale, per altro verso, è tenuto a conformarsi alla decisione
già in precedenza resa dalla Commissione sul caso, salvo la possibilità di sottrarsi all’efficacia vincolante di tale decisione, rimettendo alla Corte di Giustizia
una domanda pregiudiziale ai sensi dell’art. 234 Trattato CE sull’interpretazione degli artt. 81 e 82 Trattato CE (39).
La sospensione facoltativa di cui all’art. 16 del Reg. n. 1/2003 è assai diversa per presupposti, regime e ratio rispetto alle ipotesi di sospensione previste
nel codice di rito e applicabili ai procedimenti aventi ad oggetto fattispecie antitrust a mera rilevanza interna. Pertanto, al di fuori delle ipotesi in cui la sospensione, prevista dalla menzionata norma comunitaria, risulta direttamente
applicabile, non sembra suscettibile di applicazione analogica, in particolare nei
rapporti tra giudice ordinario e Autorità Garante.
In conseguenza, l’istituzione di un coordinamento tra l’esercizio della giurisdizione e l’attività dell’Autorità Garante, nell’applicazione delle norme sulla
concorrenza, siano esse d’origine interna o comunitaria, ovvero di un coordinamento con la sussistenza di procedimenti aventi ad oggetto l’applicazione
degli artt. 81 e 82 Trattato CE, instaurati avanti alle autorità amministrative di
altri Stati membri della Comunità Europea, necessita di apposito intervento del
legislatore, così come è già avvenuto in Francia (40).
4. – A tenore delle considerazioni sin qui svolte, non può escludersi in
apicibus un concorso tra la competenza dell’Autorità Garante e la giurisdizione del giudice ordinario anche in relazione all’emanazione di provvedimenti volti alla cessazione dei comportamenti anticoncorrenziali. In altri
termini, l’ambito della giurisdizione riservato al giudice ordinario in materia
antitrust non può affatto considerarsi eccezionale rispetto alle funzioni attribuite dalla legge all’Autorità Garante, come talora viene proclamato in giurisprudenza soprattutto in relazione al potere di diffida di cui all’art. 15 legge
antitrust (41), potendo l’A.g.o. esercitare le proprie funzioni in modo del
tutto autonomo e indipendente.
––––––––––––
(38) Cfr. Comunicazione della Commissione relativa alla cooperazione tra la
Commissione e le giurisdizioni degli Stati membri, cit., 56.
(39) Cfr. Comunicazione della Commissione relativa alla cooperazione tra la
Commissione e le giurisdizioni degli Stati membri, cit., ivi.
(40) Il riferimento è all’ordinanza n. 2004/1173 del 4 novembre 2004 del Ministero
francese dell’economia, delle finanze e dell’industria, in esecuzione della delega di cui
alla legge n. 2004/237 del 18 marzo 2004 e al decreto n. 2005/1668 del 27 dicembre 2005
del Consiglio di Stato francese in www.legifrance.gouv.fr.
(41) V. note 14 e 15.
LA COMPETENZA SULL’INIBITORIA ANTITRUST
515
A parte i rilievi sull’opportunità di non lasciare l’attuazione delle norme
antitrust esclusivamente ad un sistema di public enforcement (42), dalla disamina del potere di diffida di cui all’art. 15 legge antitrust emerge che l’Autorità
Garante non riesce ad assicurare una tutela equiparabile a quella che in astratto
potrebbe garantire l’A.g.o.
Nella recente pronuncia Pellegrini/Consip (43) il Consiglio di Stato si è
occupato delle modalità in cui deve estrinsecarsi il potere di diffida di comportamenti anticoncorrenziali, quando, in esecuzione dell’intesa vietata dalle norme sulla concorrenza, siano sorti rapporti contrattuali con i terzi (44).
La questione ha coinvolto necessariamente la più ampia materia del coordinamento tra l'attività dell’Autorità Garante e la funzione del giudice amministrativo e di quello ordinario in materia antitrust. In ispecie, si è fatto riferimento alla giurisdizione del giudice ordinario in relazione all’esclusiva possibilità per quest’ultimo di pronunciarsi sulla nullità dei contratti conclusi « a valle » nell’ambito dell’esecuzione di un’intesa vietata e, quindi, sempre in base a
quanto stabilito dalla lettera dell’art. 33, comma 2°, legge antitrust.
Al contrario, secondo quanto è stato statuito dal Consiglio di Stato,
l’esercizio del potere di diffida volto alla cessazione dei comportamenti anticoncorrenziali, spettante all’Autorità Garante, richiederebbe la previa valutazione dei
suoi « riflessi … sulle posizioni dei terzi e l’idoneità delle misure imposte sotto il
profilo della ragionevolezza e della proporzionalità » (45) (c.vi nostri).
L’Autorità Garante, quindi, dovrebbe esercitare un potere discrezionale,
in relazione all’opportunità di sacrificare le posizioni giuridiche soggettive
acquisite dai terzi rispetto all’attuazione delle disposizioni in materia di concorrenza solo quando – sulla base della motivazione contenuta nel provvedimento di diffida – l’interesse alla suddetta attuazione possa essere ritenuto
prevalente.
L’Autorità Garante, inoltre, non potrebbe limitarsi ad emettere una diffida del tutto generica senza indicare alle parti alcuno specifico comportamento da tenere riguardo ai rapporti in essere con i terzi, sulla base di
un’« adeguata motivazione e … valutazione della posizione di tutte le parti
interessate » (46).
Il potere di diffida di cui all’art. 15 legge antitrust, quindi, si rivela parti-
––––––––––––
(42) Cfr. sul punto Monti, Private enforcement as a key complement to public enforcement of competition rules and the first conclusions on the implementation of the new
Merger Regulation, cit., 2 ss.
(43) Cons. Stato, 2 marzo 2004, n. 926, cit.
(44) Il riferimento, in ispecie, è alla materia delle intese poste in essere in relazione
alle operazioni di aggiudicazione nell’ambito di procedure ad evidenza pubblica (cfr.
Cons. Stato, 2 marzo 2004, n. 926, cit.).
(45) Così Cons. Stato, 2 marzo 2004, n. 926, cit.
(46) Così Cons. Stato, 2 marzo 2004, n. 926, cit.
516
RIVISTA DI DIRITTO PROCESSUALE
colarmente inefficace (47), soprattutto a mente del fatto che esso non è suscettibile di essere esercitato in via cautelare ed urgente. Cosicché le parti dell’intesa
possono rendere più lenta e difficile l’esplicazione dell’attività dell’Autorità
Garante proseguendo nella loro attività lesiva della concorrenza, soprattutto nel
caso in cui vengano in essere rapporti con terzi.
I limiti che caratterizzano l’esplicazione del potere di diffida dell’Autorità
antitrust, peraltro, accrescono l’eventualità di un conflitto tra decisioni nella
fattispecie sopra considerata, pur a prescindere dalla sussistenza o meno di poteri inibitori in capo al giudice ordinario. Difatti, nell’accertamento relativo alla
sussistenza o meno di violazioni delle disposizioni antitrust il giudice ordinario
non potrebbe neppure tener conto delle valutazioni compiute dall’Autorità Garante in termini di razionalità e proporzionalità nell’esercizio del proprio potere
di diffida sancito dall’art. 15 legge antitrust. Conseguentemente, il giudice ordinario potrebbe ritenere nulli i contratti stipulati « a valle », anche ove l’Autorità Garante non ritenga di esercitare il proprio potere di diffida per carenza
dei presupposti di razionalità e proporzionalità (48).
Quindi, non solo non può escludersi la potestas iudicandi del giudice civile in materia di inibitoria antitrust, facendo richiamo al parallelo riconoscimento del potere (amministrativo) di diffida riconosciuto all’Autorità Garante,
bensì la proponibilità di tali rimedi è resa necessaria proprio alla luce del rilievo
che la previsione di tale potere di diffida non riesce ad esaurire le esigenze di
tutela che si possono presentare a fronte di un comportamento anticompetitivo,
con particolare riguardo agli atti attuativi di un programma anticoncorrenziale
posti in essere con i terzi.
Per altro verso, prima dell’entrata in vigore della legge n. 287 del 1990
la giurisprudenza ammetteva senz’altro la possibilità di ricorrere al giudice
ordinario per la richiesta di provvedimenti di carattere inibitorio sulla base
delle norme in materia di concorrenza sleale ai sensi del combinato disposto
degli artt. 2598 e 2599 c.c. (49). Così non sembra possibile concordare con la
––––––––––––
(47) L’Autorità Garante, nella propria Relazione sull’attività svolta nel 2003 del 30
aprile 2004, osserva a proposito della sentenza sul caso Consip: « la recente esperienza ha
… evidenziato che, nel caso in cui sia accertata una collusione in gara e sia in corso di
esecuzione il contratto pubblico, non sembrano ancora sussistere idonei strumenti per
rimediare a questa palese alterazione del gioco della concorrenza ».
(48) Sulla configurabilità di un’azione di nullità dei contratti « a valle » cfr. Cass.,
sez. un., 4 febbraio 2005, n. 2207, cit., la quale ha così superato il contrasto giurisprudenziale insorto sulla questione: nel senso della validità dei contratti a valle è Cass., 11 giugno 2003, n. 9384, in Danno e resp. 2003, 1067; in senso contrario cfr. Cass., 1 febbraio
1999, n. 827, in Giust. civ. 1999, I, 1654. Sull’invalidità del contratto a valle cfr., inoltre,
C. Castronovo, Antitrust e abuso della responsabilità civile, in Danno e resp. 2004, 473.
(49) La giurisprudenza si è, infatti, avvalsa dell’estrema duttilità dei rimedi, preventivi e inibitori, previsti per la concorrenza sleale sia in relazione alla condotta integrativa dell’illecito concorrenziale soprattutto a norma dell’art. 2598, n. 3, c.c., sia con rife-
LA COMPETENZA SULL’INIBITORIA ANTITRUST
517
lettura restrittiva dell’art. 33, comma 2°, legge antitrust, perché in tal modo la
legge del 1990 avrebbe implicitamente comportato, senza un’idonea giustificazione, una limitazione del novero dei rimedi già esperibili avanti l’A.g.o.,
con grave detrimento per l’effettività dell’applicazione delle disposizioni antitrust (50).
Si tratta, semmai, di stabilire se i rimedi inibitori possano essere proposti
solo da parte di imprenditori in regime di concorrenza con gli autori del comportamento anticompetitivo, secondo il modello del rimedio tipico in materia di
concorrenza sleale, ovvero se tali domande possano essere proposte anche dai
consumatori, ai quali è oramai riconosciuta, con la sentenza n. 2207 del 2005
delle Sezioni Unite, la possibilità di ottenere la tutela civile a fronte di violazioni antitrust. Tale materia partecipa della nota vexata quaestio relativa alla configurabilità di un’azione inibitoria atipica (51), ma potrebbe trovare una soluzione favorevole al riconoscimento della tutela inibitoria a favore dei consumatori anche nell’ambito della ricostruzione in termini rigorosamente tipici dei
rimedi in discorso, attraverso un’applicazione estensiva del disposto di cui
all’art. 2599 c.c., poiché la generalizzazione dell’accesso alla protezione antitrust a chiunque abbia interesse (Cass., sez. un., n. 2207/2005), manifesta la
possibilità che a fronte di un comportamento anticoncorrenziale si presenti un
identico bisogno di tutela, a prescindere dalla qualifica soggettiva rivestita da
chi esercita il rimedio di volta in volta considerato, e ciò non può non valere
anche ai fini della concessione della protezione inibitoria (52).
5. – È d’uopo, a questo punto, osservare che il riferimento, contenuto
nell’art. 33, comma 2°, legge n. 287/1990, alle pronunce declaratorie della nullità delle intese e a quelle di condanna al pagamento dei danni conseguenti a
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rimento alla tipologia di pregiudizio, richiesto ai fini della loro concessione (cfr. Cass.,
sez. un., 23 novembre 1995, n. 12103, in Resp. civ. prev. 1996, 637, con nota di A. Dassi,
Appunti sul danno da concorrenza sleale). Sempre sulla base del menzionato richiamo
giurisprudenziale App. Roma, 16 agosto 2001, cit., afferma la possibilità di esperire rimedi inibitori avverso comportamenti anticoncorrenziali anche dopo l’entrata in vigore
della legge n. 287 del 1990.
(50) Per una diversa conclusione nel senso di un’applicazione analogica dell’art. 2599 c.c. in materia antitrust nell’ambito di un’approfondita disamina delle forme
di tutela previste dall’art. 33 legge n. 287 del 1990 cfr. I. Pagni, Tutela specifica e tutela
per equivalente, Milano 2004, 179 ss., v. spec. 231 ss.
(51) Cfr. riguardo a tale questione C. Rapisarda-M. Taruffo, Inibitoria (azione), I)
Diritto processuale civile, in Enc. giur., vol. XVII, Roma 1989, 7 ss., a cui si ritiene di
fare opportuno rinvio anche per i riferimenti ivi citati.
(52) D’altro canto, in dottrina (L. Montesano, La tutela giurisdizionale dei diritti, in
Trattato di diritto civile, XVI, Torino 1985, 101, nota 21, e 174) si è osservata in generale l’utilità del riferimento all’art. 100 c.p.c. in sede di interpretazione estensiva delle
ipotesi in cui è prevista un’azione tipica, come in materia di inibitoria.
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RIVISTA DI DIRITTO PROCESSUALE
comportamenti anticoncorrenziali, non si riferisce a tutte le forme di tutela giurisdizionale che il giudice ordinario può concedere in presenza di un comportamento anticoncorrenziale.
In altre parole, si può affermare che la norma di cui all’art. 33, comma 2°,
legge antitrust consista in una disposizione tout court sulla competenza (per
materia) delle Corti d’Appello, perché non è diretta a prevedere in modo tassativo i rimedi proponibili avverso comportamenti anticoncorrenziali.
L’interprete è chiamato a confrontarsi con la mens legis di tale incompleto
richiamo: occorre cioè stabilire se il legislatore del 1990 abbia voluto circoscrivere la competenza esclusiva delle Corti d’Appello unicamente alle domande
sopra richiamate, o al contrario se l’ambito della competenza delle Corti d’Appello debba intendersi in modo estensivo, ritenendo che il rinvio in discorso abbia un carattere esemplificativo.
Alla prima ipotesi interpretativa consegue implicitamente che il giudice
competente per i rimedi diversi da quelli contemplati nell’art. 33, comma 2°,
legge antitrust debba essere individuato sulla base delle ordinarie regole poste
dal codice di rito. Poste queste premesse, non potrebbe certo escludersi che, in
ordine allo stesso comportamento anticoncorrenziale, vengano istaurati contestualmente più processi avanti rispettivamente le Corti d’Appello e avanti i Tribunali o, più raramente, i Giudici di Pace, ponendosi quindi un problema di coordinamento tra i suddetti giudizi (53).
––––––––––––
(53) Cfr. M. Tavassi, I provvedimenti d’urgenza, in Antitrust tra diritto nazionale e
diritto comunitario, in Riv. dir. ind. 1993, I, 407 ss.; Id., I rapporti tra i giudizi avanti
alla Corte di Appello ed al Tribunale, in Tavassi-Scuffi, Diritto processuale antitrust,
cit., 189 ss. Peraltro, il problema di coordinamento risulta aggravato dall’attuazione del
controllo decentrato nell’attuazione delle norme comunitarie, per il fatto che il territorio
di uno Stato membro può rappresentare anch’esso parte rilevante del mercato comune,
quando le pratiche anticoncorrenziali dedotte in giudizio, per quanto territorialmente ristrette, vengano prospettate come suscettibili di effetti distorsi della concorrenza anche
nei mercati di altri Stati membri (M. Scuffi, Le sezioni specializzate di diritto industriale
per cooperazione comunitaria ed applicazione decentrata delle regole di concorrenza, in
Dir. ind. 2003, 219). In questo caso si prospetta una « composizione sul piano processuale … attraverso pronunzie di incompetenza ovvero mediante sospensione per pregiudizialità del processo che si ponga in dipendenza logica rispetto a quello interessato dal
rilievo comunitario » (così Scuffi, Le sezioni specializzate di diritto industriale, cit., 219).
Il primo rilievo è senz’altro da condividere, poiché la divaricazione delle competenze a
conoscere di comportamenti concorrenziali antitrust tra Corti d’Appello e i giudici, individuati secondo le norme ordinarie, fa sì che il giudice adito debba decidere assai spesso
su eccezioni d’incompetenza fondate su rilievi, a seconda dei casi, tendenti a dimostrare
il carattere nazionale o comunitario, al solo fine di ottenere una pronuncia declinatoria
sulla competenza. Al contrario, l’applicazione dell’istituto della sospensione di cui all’art. 295 c.p.c. non sembra possibile, proprio perché in apicibus l’accertamento del carattere comunitario escluderebbe del tutto l’applicabilità delle disposizioni interne anti-
LA COMPETENZA SULL’INIBITORIA ANTITRUST
519
In proposito la dottrina ha prospettato un coordinamento dei giudizi concernenti i medesimi comportamenti anticoncorrenziali, facendo ricorso all’applicazione dell’art. 295 c.p.c. (54).
Tale asserzione, tuttavia, ci vede perplessi, soprattutto se si tiene presente
l’ipotesi della contemporanea pendenza, da una parte, di un giudizio avanti la
Corte d’Appello avente ad oggetto la declaratoria della nullità d’intese anticoncorrenziali e/o la condanna al risarcimento di danni, dall’altra, di un giudizio
nel quale il Tribunale o, assai meno probabilmente, il Giudice di Pace, venga
richiesto di emettere un provvedimento inibitorio, volto ad ottenere la cessazione delle violazioni antitrust.
La pronuncia di un provvedimento inibitorio, infatti, non dipende né
dall’accertamento della nullità di eventuali intese contrarie alle disposizioni antitrust, né dalla pronuncia di una sentenza di condanna al risarcimento del danno. Quindi, in questa fattispecie non sussiste la relazione della pregiudizialità
tra rapporti giuridici diversi, rispettivamente oggetto di separati giudizi: relazione che a tenore della dottrina maggioritaria e della giurisprudenza è il presupposto richiesto per l’applicazione dell’istituto della sospensione necessaria (55).
A chi scrive sembra che l’accento debba essere posto sulla considerazione
che, ove gli stessi comportamenti anticoncorrenziali siano posti a fondamento
delle richieste d’inibitoria e di nullità delle intese e/o di risarcimento del danno,
tali domande si fondano su identiche fattispecie, integranti i medesimi illeciti
antitrust.
È sì vero che la domanda d’inibitoria verso un comportamento anticoncorrenziale si differenzia rispetto a quella di nullità dell’intesa e/o di risarcimento
del danno in ragione del tipo di provvedimento richiesto, ossia per il petitum (56). Ma, prescindendo per un momento dai diversi rimedi previsti dalla
––––––––––––
trust e in conseguenza la competenza delle Corti d’Appello sancita dall’art. 33, comma 2°, legge antitrust.
(54) Tavassi, I rapporti tra i giudizi avanti alla Corte di Appello ed al Tribunale,
cit., 191 ss.
(55) La letteratura sulla sospensione necessaria e la pregiudizialità tra cause è vastissima, in proposito, quindi, si ritiene opportuno fare rinvio a S. Menchini, Sospensione
del processo civile, a) Processo civile di cognizione, in Enc. dir., XLIII, Milano 1990, 15
ss. e ai riferimenti bibliografici ivi citati.
(56) In dottrina (cfr. M.S. Spolidoro, Provvedimenti provvisori del diritto industriale, in Riv. dir. ind. 1994, I, 413 ss.), nello sforzo di ricavare dall’art. 33 legge antitrust la possibilità di ricorrere a rimedi inibitori, si è osservato che la pronuncia avente ad
oggetto la nullità dell’intesa e/o il risarcimento del danno conterrebbe, altresì, l’accertamento dell’obbligo giuridico di astensione dalla condotta integrante violazione di disposizioni antitrust. Da ciò si trae la conclusione che l’accertamento giudiziale dell’illegittimità di un certo comportamento concreto comporti già, di per sé, un obbligo di
520
RIVISTA DI DIRITTO PROCESSUALE
legge a fronte dei comportamenti anticoncorrenziali di volta in volta considerati, in definitiva, ogni qualvolta venga richiesta l’attuazione di norme antitrust,
vi è sempre l’accertamento del medesimo rapporto giuridico intercorrente tra il
soggetto, o i soggetti che hanno violato le disposizioni sulla concorrenza, e coloro che hanno subito le conseguenze di tali violazioni, ossia dell’obbligo di
astenersi da comportamenti vietati dalle regole sulla concorrenza. Non a caso le
Sezioni Unite hanno recentemente eletto quale unico dato rilevante, ai fini
dell’individuazione della competenza per materia delle Corti d’Appello, proprio
il fatto che la domanda proposta in giudizio abbia ad oggetto l’accertamento di
violazioni antitrust, al di là dello specifico rimedio fatto valere in tale sede (57).
Per questo motivo, ove si ritenga che debbano essere proposti avanti a
giudici diversi, rispettivamente, il processo avente ad oggetto l’accertamento
della nullità di un’intesa vietata ai sensi dell’art. 2 legge antitrust e la domanda
inibitoria, la contestuale proposizione dei rimedi di cui all’art. 33 legge antitrust
e di quello inibitorio darebbe luogo ad una pluralità di cause tra loro parzialmente identiche, perché aventi ad oggetto l’accertamento di violazioni antitrust
(identità che si riferisce, quindi, a parte del petitum e alla causa petendi), che
vedrebbero altresì il concorso di ulteriori fatti costitutivi richiesti dal tipo di rimedio fatto valere e consistenti nell’esistenza di un danno potenziale o effettivo, a seconda che si tratti di una domanda inibitoria o risarcitoria, nella sfera del
soggetto leso dall’attività anticoncorrenziale e del relativo nesso di causalità (58).
––––––––––––
astenersene per il futuro, posto che sia l’inibitoria, sia il risarcimento del danno, presuppongono l’accertamento della violazione e quindi l’inibitoria. Tuttavia, occorre considerare che il petitum della domanda inibitoria, ossia di un provvedimento contenente
l’ordine di cessare un comportamento illecito, non è riconducibile a quello delle domande di nullità e/o di risarcimento del danno. E, d’altra parte, accanto alla violazione delle
norme antitrust (su cui si fondano le domande espressamente contemplate nell’art. 33
legge n. 287/90) le misure inibitorie potranno essere concesse solo ove ricorrano gli ulteriori elementi della probabilità del danno e del nesso di causalità tra quest’ultimo e la
condotta illecita del soggetto che ha violato le disposizioni antitrust.
(57) Cfr. Cass., sez. un., 4 febbraio 2005, n. 2207, cit.
(58) App. Roma, 25 giugno 1993, in Tavassi-Scuffi, Diritto processuale antitrust,
cit., Appendice II, 522 ss., nel negare la litispendenza tra un giudizio promosso avanti il
Tribunale e avente ad oggetto l’accertamento e l’inibitoria di cui agli artt. 2598 s. c.c. e
un giudizio avanti la Corte d’Appello per ottenere la declaratoria di nullità delle intese in
relazione al medesimo comportamento anticoncorrenziale, ha ritenuto che in tale fattispecie non ricorresse l’identità di alcuno degli elementi oggettivi delle rispettive cause, affermando la diversità della causa petendi (quella cioè della concorrenza sleale di cui
all’art. 2598 c.c. e non quella di cui all’art. 2, comma 3°, legge n. 287 del 1990) e del petitum (i.e. l’inibitoria di cui all’art. 2599 c.c. e non la nullità). L’argomentazione appena
richiamata non convince riguardo alla diversità tout court della causa petendi, poiché con
riferimento ai comportamenti anticoncorrenziali vietati da specifiche disposizioni della
LA COMPETENZA SULL’INIBITORIA ANTITRUST
521
Cosicché non vi sarebbe qui l’eventualità di una contrarietà meramente logica tra giudicati, e come tale tollerabile all’interno dell’ordinamento giuridico,
perché tale contrarietà non sarebbe inerente ai soli accertamenti in fatto compiuti nell’ambito delle rispettive decisioni; bensì consterebbe il rischio di un
conflitto pratico inerente all’accertamento dell’applicabilità dell’obbligo giuridico di astenersi dal comportamento anticompetitivo alla luce dei fatti dedotti,
che costituiscono allo stesso tempo i presupposti per l’applicazione dei diversi
rimedi previsti dall’ordinamento per dare attuazione alle disposizioni sulla concorrenza.
L’istituto, al quale si ritiene debba farsi riferimento al fine di evitare tale
conflitto pratico tra giudicati, è quello della continenza di cui all’art. 39, comma 2°, c.p.c., non dovendosi nemmeno ricorrere alla nozione della continenza
c.d. qualitativa, a cui la giurisprudenza (59) e parte della dottrina (60) fanno richiamo qualora nelle cause pendenti avanti a giudici diversi consti, oltre
all’identità di soggetti, anche la (mera) parziale identità degli elementi oggettivi, quando essi si fondino sul medesimo rapporto giuridico. Diverso è, infatti, il
caso oggetto della nostra attenzione: le domande richiamate dall’art. 33, comma 2°, legge antitrust e quella dell’inibitoria presentano tutte un’identità parziale sia della causa petendi, sia del petitum in ordine all’accertamento delle
violazioni antitrust, differenziandosi, per altro verso, in relazione alla richiesta
dei rimedi conseguenti a tale accertamento e consistenti, rispettivamente, nella
declaratoria della nullità delle intese, nella condanna al risarcimento dei danni e
nell’ordine di cessazione del comportamento anticoncorrenziale, oltre che in
relazione ai fatti costitutivi richiesti specificamente ai fini della concessione di
ciascuno di essi (e consistenti, a seconda dei casi, nella sussistenza di un danno
––––––––––––
legge n. 287/90 si è in presenza di un concorso (solo) apparente con le norme generali
sulla concorrenza sleale, cosicché l’art. 2598 c.c. può trovare applicazione solo de residuo, nel caso in cui non risultino applicabili le norme speciali in materia antitrust (cfr.
Tavassi, I rapporti tra i giudizi avanti alla Corte di Appello ed al Tribunale, cit., 189). Il
riferimento alle norme del codice civile in materia di concorrenza sleale è, invece, necessario al solo fine di ottenere un provvedimento inibitorio a tenore del disposto dell’art.
2599 c.c. (cfr. L. Nivarra, La tutela civile: profili sostanziali, in Diritto antitrust italiano,
a cura di Frignani, Pardolesi, Padroni Griffi, Ubertazzi, Bologna 1993, 1461 ss).
(59) Cfr. Cass., 12 aprile 1990, n. 3146, in Mass. Giur. it. 1990; Cass., 23 ottobre
1989, n. 4304, in Mass. Giur. it. 1989; Cass., 2 marzo 1989, n. 1178, in Mass. Giur. it.
1989; Cass., 5 giugno 1984, n. 3397, in Giust. civ. 1984, I, 3331; Cass., 14 aprile 1982, n.
2250, in Mass. Giur. it. 1982. In ispecie, la giurisprudenza fa applicazione di questa nozione della continenza (c.d. qualitativa) soprattutto in relazione alle domande che si ricollegano allo stesso rapporto negoziale.
(60) Cfr. G. Scarselli, Note in tema di continenza di cause nel processo ordinario di
cognizione, in Riv. trim. dir. proc. civ. 1986, 1397 ss.; E. Merlin, Su alcune ricorrenti
questioni in tema di procedimento monitorio, continenza e azione in prevenzione del debitore, in Giur. it. 1989, I, 2, 601 ss.; Menchini, Sospensione del processo civile, cit., 6 ss.
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RIVISTA DI DIRITTO PROCESSUALE
attuale o potenziale e/o nel pericolo di reiterazione dei comportamenti anticoncorrenziali e nel nesso di causalità con la condotta vietata).
In forza dell’art. 39, comma 2°, c.p.c. le cause potrebbero in astratto essere
riunite sempre in capo alle Corti d’Appello (61), indipendentemente dal criterio
di prevenzione, a mente del carattere esclusivo della competenza attribuita a
queste ultime in materia antitrust; tuttavia, ciò dovrebbe escludersi, stante il carattere in thesi eccezionale della competenza delle stesse Corti.
L’applicazione della continenza, per la soluzione della (parziale) duplicazione dei giudizi, che si presenta nella fattispecie più volte ipotizzata, non risulta a fortiori praticabile, ove il provvedimento inibitorio richiesto sia relativo
ad un comportamento anticoncorrenziale interferente con diritti di privativa industriale, nel qual caso la causa dovrebbe essere attribuita alla competenza
esclusiva delle sezioni specializzate in materia di proprietà industriale ed intellettuale (art. 3, d.lgs. 27 giugno 2003, n. 168). Difatti, in tale eventualità – il cui
verificarsi non è per nulla improbabile – nessuno dei giudici interessati dalla
duplicazione sarebbe in apicibus competente a conoscere la causa instaurata
avanti all’altro giudice. Né sarebbe possibile, in questo caso, applicare la disposizione di cui all’art. 295 c.p.c., che, come si è visto, ha un ambito di applicazione del tutto diverso rispetto a quello della continenza (62).
––––––––––––
(61) Contra Tavassi, I rapporti tra i giudizi avanti alla Corte di Appello ed al Tribunale, cit., 190 s., secondo la quale « l’istituto [della continenza] … non pare … utilizzabile perché le norme sulla continenza non sono applicabili quando la causa
« contenuta » (se avanti la Corte d’Appello) sia oggetto di competenza per materia o per
territorio e venendo – diversamente – la causa riunificanda (se pendente avanti al Tribunale) a perdere un grado di giurisdizione ». Tale osservazione, tuttavia, non risulta di per
sé decisiva, perché l’eliminazione della (parziale) duplicazione dei giudizi potrebbe essere attuata in astratto attraverso la riunione delle cause avanti la Corte d’Appello, nonostante la competenza sia stata stabilita dal legislatore in capo alla Corte d’Appello, quale
giudice di unico grado. Neppure la conseguenza necessaria, consistente nella perdita di
un grado di giudizio, sembra consentire una diversa soluzione, perché l’esigenza di evitare un conflitto pratico tra decisioni su una causa (in questo caso rappresentata dall’accertamento della violazione antitrust) prevarrebbe sul principio (derogabile) della normale predisposizione di un doppio grado di giurisdizione di merito (cfr. E.F. Ricci, Doppio grado di giurisdizione (principio del), I) Diritto processuale civile, in Enc. giur., vol.
XII, Roma 1989, 1 ss., v. spec. 3). Al più, la perdita di un grado di giudizio nel caso di
specie potrebbe essere di per sé assimilata ad un mutamento di rito, necessario al fine di
consentire la riassunzione avanti il giudice competente (arg. dall’art. 40, comma 4°,
c.p.c.) e favorire la piena esplicazione delle finalità di cui all’art. 33, comma 2°, legge
antitrust, consistenti nella rapidità dello svolgimento dei procedimenti antitrust e nell’effettività all’applicazione delle disposizioni sulla concorrenza.
(62) In dottrina si è avvertito che il diverso ambito di applicazione, rispettivamente,
della litispendenza (e analogo discorso è a dirsi per l’istituto della continenza) e della
sospensione necessaria, esclude qualsiasi possibilità di ricorrere a quest’ultima, quando la
LA COMPETENZA SULL’INIBITORIA ANTITRUST
523
A tenore dell’interpretazione restrittiva dell’art. 33, comma 2°, legge antitrust si potrebbe verificare, perciò, l’eventualità di un conflitto pratico tra giudicato insuscettibile di essere risolto in via preventiva durante la contemporanea
pendenza dei giudizi interessati dalla duplicazione. Sicché la soluzione di tale
conflitto sarebbe affidata al passaggio in giudicato di una delle sentenze che definiscano nel merito la causa instaurata avanti al Tribunale, al Giudice di Pace o
alla Corte d’Appello, che consentirebbe il rilievo del precedente giudicato o la
proposizione del rimedio impugnatorio di cui all’art. 395, n. 5, c.p.c., ovvero
potrebbe rendersi necessario il ricorso al criterio cronologico, in base al quale il
giudicato intervenuto per secondo prevale sul primo (63).
In definitiva, l’interpretazione restrittiva del precetto di cui all’art. 33,
comma 2°, legge antitrust pone gravi problemi di coordinamento dei giudizi
instaurati avanti Corti d’Appello con quelli introdotti davanti ad organi giudiziari diversi.
Allo stesso tempo, di per sé tale lettura non sembra funzionale con quella
che appare, con più semplicità e immediatezza, la ratio della norma sulla competenza in materia antitrust, la quale plausibilmente consiste nell’attribuire in
via esclusiva alle Corti d’Appello l’applicazione delle disposizioni poste dal
legislatore del 1990 a tutela della concorrenza.
Conseguentemente, si ritiene che l’art. 33, comma 2°, debba essere inteso
nel senso che le Corti d’Appello siano gli unici organi competenti a conoscere
ed accertare la sussistenza di violazioni delle disposizioni antitrust, indipendentemente dal rimedio richiesto dalle parti in forza delle norme civilistiche e,
quindi, anche ove venga richiesta l’inibitoria avverso comportamenti anticoncorrenziali (64).
Sul piano applicativo tale soluzione ha il pregio di escludere qualsiasi problema di coordinamento tra giudizi, almeno in relazione alla richiesta di tutela
da parte dell’A.g.o. L’interpretazione estensiva dell’art. 33 legge antitrust, in
altre parole, farebbe sì che il processo venga instaurato avanti la Corte d’Appello, quale giudice esclusivamente competente, e ciò anche per l’ipotesi in cui
le cause antitrust presentino una « interferenza » con questioni di privativa in-
––––––––––––
prima non si ritenga in concreto applicabile (cfr. su questo punto V. Colesanti, Mutamenti
giurisprudenziali in materia processuale: la litispendenza, in Riv.dir. proc. 2004, 378 ss.,
v. spec. 379 s.).
(63) Cfr. G. Chiovenda, Principi di diritto processuale civile, Napoli 1923, 900;
F. Carnelutti, Sistema di diritto processuale civile, I, Padova 1936, 314; E.T. Liebman,
Giudicato, I) Diritto processuale civile, in Enc. giur., XV, Roma 1989, 5. In giurisprudenza cfr. per tutte Cass., 27 gennaio 1993, n. 997, in Inf. prev. 1993, 391; Cass., 25 gennaio 1993, n. 883, in Mass. Foro it. 1993, 80.
(64) In questo senso, in consapevole dissenso con l’indirizzo al momento prevalente in giurisprudenza, App. Roma, 6 febbraio 2002, cit.; App. Bologna, 20 settembre
1995, cit.
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RIVISTA DI DIRITTO PROCESSUALE
dustriale e intellettuale ai sensi dell’art. 3 d.lgs. n. 168 del 2003. Difatti, si dovrebbe ritenere che anche in questo caso, in base al principio di specialità della
materia antitrust, l’inibitoria debba essere decisa dalle Corti d’Appello, designati quali giudici esclusivamente competenti sulle violazioni delle disposizioni
sulla concorrenza.
6. – L’art. 134, comma 1°, del codice dei diritti di proprietà industriale
(d.lgs. 10 febbraio 2005, n. 30) prevede l’attribuzione alla competenza delle sezioni specializzate istituite con il d.lgs. n. 168 del 2003 riguardo agli « illeciti
afferenti all'esercizio di diritti di proprietà industriale ai sensi della legge 10 ottobre 1990, n. 287, e degli articoli 81 e 82 del Trattato UE ».
Tale disposizione è stata oggetto di critiche proprio per la difficoltà di coordinamento dei giudizi, che – a tenore di tale formulazione – dovrebbero essere instaurati avanti le sezioni specializzate di diritto industriale, e quelli eventualmente pendenti avanti le Corti d’Appello ai sensi dell’art. 33, comma 2°,
legge antitrust. Il che renderebbe ancora più incerta l’osservanza dei principi di
semplificazione ed efficacia dell’attuazione del diritto comunitario sulla concorrenza, a cui s’ispira il Reg. CE n. 1 del 2003, da parte dell’ordinamento interno (65).
Peraltro, alla luce di quanto già osservato, l’introduzione della disposizione contenuta nel codice dei diritti di proprietà industriale comporta la possibilità
di una duplicazione (parziale) dei giudizi, in relazione all’accertamento delle
violazioni antitrust, insuscettibile di essere risolta con l’applicazione dell’isti-
––––––––––––
(65) Nell’ottobre 2003 il Ministero delle attività produttive ha avviato alcune consultazioni informali su un articolato volto a dare attuazione alla delega di cui all’art. 15
della legge n. 273 del 2002. Di seguito, e precisamente nella riunione del 10 settembre
2004, il Consiglio dei Ministri, su proposta dello stesso Ministro delle attività produttive,
ha approvato uno schema di decreto legislativo recante il riassetto delle disposizioni in
materia di proprietà industriale, che è stato successivamente sottoposto all’esame del
Parlamento, il quale in merito ha avviato una serie di audizioni informali.
In tali occasioni da più parti sono state manifestate perplessità in ordine
all’estensione della competenza delle sezioni specializzate in materia antitrust sia pure
quando siano afferenti all’esercizio di privative industriali (cfr. Lettera di Adriano Vanzetti al Ministro delle attività produttive del 7 novembre 2003, in www.ubertazzi.it/it/codiceip/materiali/Vanzetti.pdf, 5; nonché Codice dei diritti di proprietà industriale: le osservazioni dell’industria italiana. Testo dell’audizione di Confindustria alla X Commissione permanente della Camera dei Deputati del 30 novembre 2004, in www.confindustria.it). Tali osservazioni sono certamente da condividere, tanto più che il rimedio
proposto nel codice dei diritti di proprietà industriale presenta conseguenze più problematiche – in termini di possibili duplicazioni dei giudizi nell’accertamento delle violazioni antitrust – del « male » che intende curare (i.e. l’impossibilità di realizzare la trattazione simultanea delle cause antitrust e di quelle di proprietà industriale eventualmente
connesse).
LA COMPETENZA SULL’INIBITORIA ANTITRUST
525
tuto della continenza, né altrimenti risolvibile con la sospensione necessaria di
cui all’art. 295 c.p.c.
Semmai le più recenti riforme della disciplina antitrust, compiute nei
maggiori paesi europei anche al fine di dare attuazione ai principi ispiratori del
nuovo sistema comunitario sulla concorrenza, testimoniano che l’orientamento,
che dovrebbe ispirare i conditores di un riordino in materia, debba piuttosto essere quello di stabilire norme volte a favorire tanto l’esigenza di una sollecita e
snella definizione dei giudizi, quanto quella di evitare conflitti tra decisioni
aventi ad oggetto l’accertamento d’illeciti antitrust in relazione allo stesso
comportamento.
L’attribuzione di una parte della competenza antitrust alle sezioni specializzate di diritto industriale aggrava una situazione, già resa critica, sotto il profilo del coordinamento dei giudizi, da una prassi applicativa dell’art. 33, comma 2°, legge antitrust, che ha visto sin qui il prevalere di letture restrittive
dell’ambito della competenza esclusiva attribuito alle Corti d’Appello, assecondando una tendenza che, a parere di chi scrive, non è rispondente al dato normativo vigente, in quanto non è giustificata dalla ratio della disposizione più
volte citata, né dai principi ispiratori della legge del ’90.
In ottica di riforma si tratterebbe piuttosto di intervenire in modo organico,
eliminando anche la giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo in materia d’impugnazione dei provvedimenti dell’Autorità Garante, là dove quest’ultima non esprima una vera e propria discrezionalità amministrativa nell’accertamento degli illeciti antitrust, a favore dei giudici ordinari competenti in
via esclusiva ad accertare la violazione delle disposizioni antitrust. In tale occasione si potrebbe migliorare, sul piano della tecnica legislativa, la disposizione
relativa alla competenza esclusiva antitrust, chiarendo che quest’ultima sussiste
sempre, nel merito, come in sede cautelare, al di là degli specifici rimedi attualmente richiamati dal disposto dell’art. 33, comma 2°, legge antitrust.
Riguardo alla scelta dei giudici a cui destinare la competenza esclusiva in
ambito antitrust, occorre considerare che la soluzione adottata dal legislatore
del 1990 a favore della Corte d’Appello, quale giudice in unico grado, è ispirata
dall’esigenza di rapidità dei giudizi ed è volta a favorire la formazione di
un’elevata specializzazione e professionalità dei giudicanti in materia antitrust.
Nondimeno, bisogna valutare con attenzione l’opportunità di attribuire tale
competenza alle sezioni specializzate di diritto industriale (66), soprattutto alla
luce delle frequenti possibilità di connessione tra le cause antitrust e quelle
aventi ad oggetto diritti di privativa industriale o di proprietà intellettuale. Tanto
più che, con l’introduzione della competenza esclusiva in materia di proprietà
industriale e intellettuale a favore delle sezioni specializzate, istituite presso le
––––––––––––
(66) In questo senso già Scuffi, Le sezioni specializzate di diritto industriale,
cit., 219, sulla base del rilievo della contiguità della materia trattata da tali sezioni e della
professionalità da esse acquisita.
526
RIVISTA DI DIRITTO PROCESSUALE
Corti d’Appello e i Tribunali specificamente individuati nel d.lgs. n. 168 del
2003, il sistema vigente non consente altrimenti la realizzazione del cumulo di
cause nelle ipotesi appena richiamate.
I confini imposti dall’oggetto del presente studio, poi, impediscono di approfondire ulteriormente la materia, in vista delle numerose altre ragioni per cui
si rende opportuna una riforma organica della disciplina processuale antitrust,
nell’ottica della realizzazione di un coordinamento con l’attività, rivolta all’attuazione delle norme interne e comunitarie sulla concorrenza, dell’Autorità
Garante, della Commissione, nonché delle autorità amministrative e dei giudici
degli altri paesi membri della CE. Nondimeno, si può affermare che anche alla
luce di tali finalità la previsione di un’unica competenza esclusiva nell’accertamento della violazione delle disposizioni antitrust appare fortemente auspicabile.
ANTONINO BARLETTA
Professore associato
nell’Università Cattolica del Sacro Cuore
IMMUNITÀ DEGLI STATI DALLA GIURISDIZIONE
CIVILE E VIOLAZIONE DI NORME IMPERATIVE
DEL DIRITTO INTERNAZIONALE.
CONSIDERAZIONI IN MARGINE AL CASO FERRINI
Tra le ipotesi nelle quali si è sempre costantemente ritenuto che uno Stato
straniero potesse legittimamente eccepire la propria immunità dalla giurisdizione civile di un altro Stato, quelle connesse all’avvenuto esercizio di azioni di
guerra o comunque di atti compiuti nel contesto di un conflitto armato non hanno mai suscitato particolari perplessità, trattandosi di situazioni che costituiscono tipica esternazione di sovranità, tali quindi da poter giustificare l’esenzione
indicata. Derogando alle consuetudini internazionali vigenti in tema di immunità, alcune recenti manifestazioni giurisprudenziali e tra queste, ultima in ordine di tempo, una pronuncia della Cassazione italiana, sembrerebbero peraltro
voler inaugurare una tendenza al superamento del criterio appena enunciato,
perlomeno nei casi in cui gli organi di uno Stato, anche operando in teatro bellico, abbiano commesso o concorso a commettere serie violazioni di norme imperative del diritto internazionale generale. Con la sentenza 11 marzo 2004, n.
5044, Ferrini c. Repubblica federale di Germania (1), le Sezioni Unite della
––––––––––––
(1) In Giust. civ. 2004, I, 1191 ss. con nota di Baratta, L’esercizio della giurisdizione civile sullo Stato straniero autore di un crimine di guerra, ivi, 1200 ss.; in Cass. pen.
2004, 1031 ss. con nota di Ciampi, Crimini internazionali e giurisdizione, ivi, 2656 ss.; in
Riv. dir. int. 2004, 539 ss. con nota di Gianelli, Crimini internazionali ed immunità degli
Stati dalla giurisdizione nella sentenza Ferrini, ivi, 643 ss.; in Diritto e giustizia, 15,
2004, 28 ss. con nota di Nappi, Diritti inviolabili, apertura coraggiosa ma ancora troppo
limitata, ivi, 24 ss.; in Guida al diritto, 14, 2004, 34 ss. con nota di Ronzitti, Un cambio
di orientamento della Cassazione che favorisce i risarcimenti delle vittime, ivi, 38 ss.; in
Diritto e giurisprudenza 2004, 505 ss. con nota di Sico, Sulla immunità dalla giurisdizione italiana della Repubblica Federale di Germania in rapporto alle conseguenze patrimoniali di atti compiuti dalle forze armate tedesche in Italia nell’anno 1944. Su di essa
v. inoltre Iovane, The Ferrini Judgment of the Italian Supreme Court: Opening Up Domestic Courts to Claims of Reparation for Victims of Serious Violations of Fundamental
Human Rights, in Italian Yearbook of International Law 2004, 165 ss.; Bianchi, Ferrini
v. Federal Republic of Germany. Italian Court of Cassation, March 11, 2004, in American Journal of International Law 2005, 242 ss.; De Sena-De Vittor, Immunità degli Stati
dalla giurisdizione e violazioni di diritti dell’uomo: la sentenza della Cassazione italiana
nel caso Ferrini, in Giur. it. 2005, 255 ss.; Id., State Immunity and Human Rights: The
528
RIVISTA DI DIRITTO PROCESSUALE
Corte di Cassazione hanno infatti ritenuto sussistente la giurisdizione italiana in
relazione a una controversia avente ad oggetto il risarcimento dei danni causati
a un individuo per l’internamento in un campo di prigionia nazista durante la
Seconda Guerra Mondiale (2).
Alla pronuncia della Cassazione è stato giustamente dato ampio risalto
dalla dottrina, che l’ha commentata in senso sia adesivo sia critico, in quanto
essa, configurando la deportazione e il lavoro forzato quali crimini internazionali gravemente lesivi dei diritti fondamentali della persona umana e pertanto
non soggetti a prescrizione, e affermando al tempo stesso che l’obbligo di contrastarli è espressione di norme inderogabili collocate al vertice dell’ordinamento giuridico internazionale, prevalenti su qualsiasi altra disposizione di tipo
sia consuetudinario sia convenzionale, ha negato alla parte convenuta l’immunità dalla giurisdizione italiana nonostante la dinamica dei fatti, che avevano
avuto il loro inizio in Italia, avesse denotato il coinvolgimento di un altro Stato
con l’esecuzione di attività di stampo pubblicistico. Tale provvedimento, dunque, proprio per la presenza di circostanze atte a violare norme di ius cogens,
offre una chiave di lettura fortemente innovativa e più attenta di situazioni per
le quali, rinvenendosi l’esercizio di potestà di imperio in capo allo Stato interessato, collegate oltretutto al compimento di operazioni di guerra, si sarebbe invece più facilmente portati a invocare e ad applicare il principio dell’immunità,
anche considerando quest’ultima nella sua più attuale accezione di immunità
ristretta o relativa.
La sentenza n. 5044 del 2004, come giustamente sottolineato da diversi
Autori, si distingue sotto il profilo del metodo seguito nella rilevazione e nella
configurazione delle norme internazionali richiamate, denotando un significativo e raro sforzo per il reperimento e l’indagine critica dei dati della prassi internazionale e interna pertinenti, nonché per l’importanza del risultato raggiunto e
per le conseguenze che ne potrebbero auspicabilmente scaturire (3). Il reale
––––––––––––
Italian Supreme Court Decision on the Ferrini Case, in European Journal of International Law 2005, 89 ss.; Gattini, War Crimes and State Immunity in the Ferrini Decision, in
Journal of International Criminal Justice 2005, 224 ss.
(2) La vicenda processuale aveva preso avvio il 23 settembre 1998, quando un cittadino italiano, che il 4 agosto 1944 era stato catturato in Toscana da militari della
Wehrmacht durante un’azione di ritorsione condotta contro la popolazione civile, deportato nel tristemente famoso lager di Kahla (situato nei pressi della città di Jena, in Turingia) e utilizzato per circa un anno come lavoratore forzato da imprese tedesche produttrici
di materiale bellico (la Reichsmarschall Hermann Göring-Reimahg Werke e la Messerschmitt), aveva citato dinanzi al Tribunale di Arezzo la Repubblica federale di Germania al fine di poter essere risarcito dei danni patrimoniali e non patrimoniali subiti in occasione del suddetto periodo detentivo.
(3) Ciampi, Crimini internazionali, cit., 2668 s.; Gianelli, Crimini internazionali ed
immunità degli Stati, cit., 644 e 683; Iovane, The Ferrini Judgment, cit., 169; Nappi, Di-
IMMUNITÀ DEGLI STATI DALLA GIURISDIZIONE CIVILE ECC.
529
valore della decisione del Supremo Collegio, pur nella sua novità, potrà peraltro
essere valutato con maggiore consapevolezza soltanto dopo la conclusione del
processo di primo grado riapertosi per effetto della sentenza stessa (4) e alla luce degli esiti del successivo processo di esecuzione, anche perché del tutto irrisolto rimane il problema dell’immunità degli Stati esteri dalla giurisdizione esecutiva e, come meglio si vedrà in seguito, nei pochi casi in cui finora in altri ordinamenti si è giunti a determinazioni analoghe a quelle qui analizzate, il risultato concreto in favore dei vari ricorrenti è stato vanificato o nella fase esecutiva
o nelle ulteriori fasi di gravame, venendo confermata in un modo o nell’altro la
sostanziale immunità dello Stato straniero. Il contributo offerto dalla decisione
in commento si rivela in sintonia con le posizioni più avanzate finora espresse
in tema di tutela giudiziaria dei diritti fondamentali dell’uomo ma non delinea
di certo uno scenario pienamente consolidato né tantomeno, dal punto di vista
del suo contenuto e delle sue possibili implicazioni, appare privo di limiti o
esente da interrogativi.
La chiave di volta del ragionamento seguito dalla Corte nel caso di specie
è evidentemente data dalla valutazione del tipo di comportamento concretamente riscontrato, per cui è sembrato opportuno domandarsi se l’immunità giurisdizionale di uno Stato possa essere invocata in presenza di atti che, per usare
le stesse parole dei giudici di legittimità, denotano « (…) connotati di estrema
gravità, configurandosi, in forza di norme consuetudinarie, quali crimini internazionali, in quanto lesivi di valori universali che trascendono gli interessi delle
singole comunità statali ».
In effetti, i fenomeni della deportazione di individui e dell’assoggettamento
di questi ultimi ai lavori forzati, da meri atti illeciti ricadenti unicamente sotto la
responsabilità delle diverse comunità statali, si sono progressivamente trasformati
in crimini idonei a provocare il coinvolgimento anche dell’individuo-organo che
––––––––––––
ritti inviolabili, cit., 25; Ronzitti, Un cambio di orientamento, cit., 38; Bianchi, Ferrini v.
Federal Republic of Germany, cit., 245; De Sena-De Vittor, Immunità degli Stati dalla
giurisdizione, cit., 255 s.; Id., State Immunity and Human Rights, cit., 91; Gattini, War
Crimes, cit., 242.
(4) Il giudizio si era instaurato sulla sola questione di giurisdizione, non avendo la
controparte accettato il contraddittorio sul merito, e aveva visto l’attore soccombere sia in
primo che in secondo grado: sia il Tribunale di Arezzo, con sentenza del 3 novembre
2000, sia la Corte d’Appello di Firenze, con sentenza del 14 gennaio 2002 (cassata con
rinvio nonostante le conclusioni difformi del Pubblico Ministero) erano stati infatti concordi nel rilevare il difetto di giurisdizione poiché la domanda attorea era basata su azioni
poste in essere da uno Stato straniero nell’esercizio della sua sovranità e perciò sottratte
alla cognizione del giudice italiano. Cfr. sul punto Ciampi, Crimini internazionali, cit.,
2659 s.; Iovane, The Ferrini Judgment, cit., 166; Bianchi, Ferrini v. Federal Republic of
Germany, cit., 242; De Sena-De Vittor, Immunità degli Stati dalla giurisdizione, cit., 256;
Id., State Immunity and Human Rights, cit., 93; Gattini, War Crimes, cit., 226.
530
RIVISTA DI DIRITTO PROCESSUALE
li ha posti in essere e non più soltanto degli Stati in nome dei quali costui ha agito (5). Dalla sentenza n. 5044 del 2004 non emerge però una distinzione tra il
concetto di « crimine internazionale dell’individuo » e il concetto di « crimine
internazionale dello Stato » né viene indicata quale sia l’effettiva incidenza dei
dati normativi sulla responsabilità individuale per i crimini internazionali di deportazione e di sottoposizione a lavoro forzato appena citati (e ampiamente richiamati nella motivazione del provvedimento adottato dalla Suprema Corte come elementi a sostegno del rifiuto dell’immunità alla Repubblica federale tedesca) rispetto alla configurazione di una responsabilità propria dello Stato, profilo
quest’ultimo di sicura rilevanza per il giudizio e che quindi avrebbe certamente
meritato più adeguata evidenza. Si può anzi dire che la Cassazione, confondendo
forse inconsapevolmente le due nozioni di crimine, « a volte dà l’impressione di
esaminare insieme i caratteri della responsabilità penale individuale e della responsabilità statale; altre volte sembra ritenere che le norme “interstatali” si riferiscano necessariamente alla responsabilità dello Stato » (6). La qualificazione
della deportazione e del lavoro forzato quali crimini internazionali dello Stato è
emersa in passato in seno alla stessa Commissione di diritto internazionale delle
Nazioni Unite, nell’ambito dei lavori per l’elaborazione del progetto di articoli
––––––––––––
(5) Per un’analisi del processo di codificazione dei crimini internazionali nella sua
evoluzione cfr., con l’ampia letteratura dagli stessi richiamata, Sperduti, voce Crimini
internazionali, in Enc. dir., XI, Milano 1962, 337 ss.; Francioni, voce Crimini internazionali, in Digesto (pubbl.), IV, Torino 1989, 464 ss.; Ronzitti, voce Crimini internazionali, in Enc. giur., X, Roma 1988 (1995), 2 ss.; Caracciolo, Dal diritto penale internazionale al diritto internazionale penale. Il rafforzamento delle garanzie giurisdizionali, Napoli 2000, 117 ss.; e Leanza, Il diritto internazionale. Da diritto per gli Stati a diritto per
gli individui, Torino 2002, 297 ss. In argomento v. inoltre Bassiouni, Historical Survey:
1919-1998, in Bassiouni (compiled by), The Statute of the International Criminal Court.
A Documentary History, Ardsley, New York 1998, 1 ss.; von Hebel, An International
Criminal Court-A Historical Perspective, in von Hebel-Lammers-Schukking (eds.), Reflections on the International Criminal Court, Essays in Honour of Adriaan Bos, The
Hague 1999, 13 ss.; Cassese, From Nuremberg to Rome: International Military Tribunals
to the International Criminal Court, in Cassese-Gaeta-Jones (eds.), The Rome Statute of
the International Criminal Court: A Commentary, I, Oxford 2002, 3 ss.; Treves, Diritto
internazionale. Problemi fondamentali, Milano 2005, 205 ss.
(6) Così Gianelli, Crimini internazionali ed immunità degli Stati, cit., 672. Secondo
Iovane, The Ferrini Judgment, cit., 172, tale confusione « (…) could be a positive (…)
indication by the Court about the particular kind of legal regime which is taking shape in
international practice in order to protect the most basic human rights. In this regime, the
responsibility of States and that of individuals both concur in the international protection
of fundamental values in international law ». Sulla tendenza della Corte a considerare
unitariamente i principi sviluppatisi in relazione alla repressione dei crimini internazionali individuali e quelli attinenti alla responsabilità dello Stato e alle sue conseguenze v.
anche De Sena-De Vittor, Immunità degli Stati dalla giurisdizione, cit., 258; Id., State
Immunity and Human Rights, cit., 98; Gattini, War Crimes, cit., 229 s.
IMMUNITÀ DEGLI STATI DALLA GIURISDIZIONE CIVILE ECC.
531
sulla responsabilità degli Stati per atti illeciti internazionali, con riferimento a
ipotesi, contemplate nell’originario art. 19 del progetto medesimo, come la schiavitù (alla quale possono direttamente ricondursi le due fattispecie qui esaminate),
il genocidio e l’apartheid nonché alle violazioni gravi e su larga scala di obblighi
internazionali di importanza essenziale per la salvaguardia dell’essere umano (7).
Un regime di responsabilità aggravata pari a quello teoricamente previsto dalla
norma appena citata, assai contestato e discusso, non sembra peraltro aver trovato
riscontro nella prassi. Il serrato dibattito dottrinale sviluppatosi in proposito ha
anzi indotto la Commissione a cancellare la disposizione stessa dal testo e a sostituirla con l’attuale art. 41 (espressamente menzionato dal Collegio nella motivazione della sentenza) il quale però, occupandosi, come si avrà modo di notare
in seguito (8), delle particolari conseguenze derivanti dalla violazione grave di
una norma cogente, continua pur sempre ad accogliere al riguardo una nozione di
crimine intesa come violazione grave dei valori fondamentali della Comunità internazionale (9). Nel ragionamento della Corte, perciò, un collegamento tra le
––––––––––––
(7) Cfr. i commenti del rapporteur speciale Ago ai proposti artt. 18 e 19 del progetto,
riportati da Gianelli, Crimini internazionali ed immunità degli Stati, cit., 672, nt. 123. Rispetto alla prima norma, il relatore sosteneva tra l’altro che la violazione degli obblighi essenziali in essa indicati comportava sia la responsabilità personale dell’individuo-organo
autore dei crimini sia la sottomissione dello Stato a un regime di responsabilità speciale.
Quanto alla avvenuta menzione della schiavitù, del genocidio e dell’apartheid, lo stesso
Ago precisava che « (…) il existe évidemment d’autres crimes internationaux résultant de
la violation d’obligations en rapport avec la sauvegarde de l’être humain, comme le massacre de prisonniers de guerre ou la déportation de populations. Si le Comité de rédaction
n’a pas fourni plus d’examples, c’est pour ne pas donner l’impression que la liste (…) voudrait être exhaustive et pour éviter d’aborder les crimes visés par les conventions de droit
humanitaire, domaine dans le quel il peut être très difficile de faire une distinction entre les
crimes internationaux et les autres faits internationalement illicites ». In dottrina v. Iovane,
La tutela dei diritti fondamentali nel diritto internazionale, Napoli 2000, 20 ss.; Rosenne,
State Responsibility and International Crimes: Further Reflections on Article 19 of the
Draft Articles on State Responsibility, in New York University Journal of International Law
and Politics 2001, 145 ss.; e Picone, Obblighi erga omnes e codificazione della responsabilità degli Stati, in Riv. dir. int. 2005, 897 ss. (riprodotto in Comunità internazionale e obblighi « erga omnes ». Studi critici di diritto internazionale, Napoli 2006, 593 ss.) nonché gli
Autori da essi richiamati.
(8) Cfr. infra, nt. 36.
(9) Per una ricostruzione sistematica degli sforzi effettuati in seno alla Commissione di diritto internazionale dell’ONU ai fini di una revisione dei differenti aspetti dell’art.
19 del progetto di articoli nel contesto della responsabilità degli Stati, esemplificativi appaiono i rapporti presentati dal rapporteur speciale Arangio Ruiz tra il 1986 e il 1996, in
particolare, tra gli altri, i Rapporti V del 1993 e VII del 1995 (entrambi menzionati da
Ciciriello, L’aggressione in diritto internazionale. Da « crimine » di Stato a crimine
dell’individuo, Napoli 2002, 58, nt. 68). Cfr. altresì, per una lettura critica del nuovo approccio della Commissione Crawford-Bodeau-Peel, La seconde lecture du projet
532
RIVISTA DI DIRITTO PROCESSUALE
norme concernenti i crimini individuali e quelle relative a illeciti di particolare
gravità degli Stati sussiste dato che in entrambi gli ambiti sia la deportazione di
individui sia l’assoggettamento di questi a pratiche di lavoro forzato vengono
proibiti e puniti, in quanto crimini internazionali ormai codificati nel primo caso,
a causa della gravità e della sistematicità della condotta tenuta e ritenuta fortemente lesiva di consuetudini espressive di valori universalmente avvertiti nel secondo caso. I giudici di legittimità hanno seguito l’approccio dominante nella
prassi internazionale relativa alle gross violations dei diritti umani: quello di concentrarsi sulla sostanza del valore internazionalmente protetto e su tutti i possibili
rimedi che il diritto internazionale pone a disposizione della persona vittima del
crimine. In tale prospettiva, non è di primaria importanza stabilire chi ha commesso il crimine bensì accertare quali diritti fondamentali sono stati violati e attivare conseguentemente gli opportuni rimedi (10). La deportazione e il lavoro forzato hanno quindi subito una evoluzione concettuale e normativa che, pur trovando nel diritto internazionale penale il suo ambito operativo naturale e pur esprimendo nella responsabilità penale internazionale degli individui il suo elemento
di spicco e la sua chiave di lettura oggi più immediata, è ugualmente in grado di
far comprendere quale sia il motivo giustificatore del diniego di immunità dalla
giurisdizione civile sancito dalla Cassazione nel caso qui affrontato e in quali
elementi vadano rinvenuti i fondamenti della competenza del giudice italiano
conseguentemente riconosciuta. Le Sezioni Unite, sostanzialmente, intravedono
uno stretto nesso tra crimine individuale e crimine dello Stato, immaginando un
regime internazionale unitario incentrato sulla figura delle vittime della violazione e sui possibili rimedi, anche di tipo civilistico, messi a loro disposizione, senza
tenere conto del fatto che la violazione stessa sia stata commessa da uno Stato, da
un organo statale o da un singolo; esse ritengono di conseguenza che esigenze di
coerenza del sistema impongano di negare l’immunità dello Stato negli stessi casi
in cui non viene riconosciuta l’immunità dell’organo (11).
Nel quadro del sempre maggiore interesse dimostrato per i comportamenti
––––––––––––
d’articles sur la responsabilité des Etats de la Commission du droit international. Evolution ou bouleversement?, in Rev. gén. dr. int. publ. 2000, 911 ss. e Iovane, The Activity of
the International Law Commission during its 52nd Session: A Critical Appraisal, in Italian Yearbook of International Law 2000, 207 ss.
(10) V. in tal senso Iovane, The Ferrini Judgment, cit., 173.
(11) Così Gianelli, Crimini internazionali ed immunità degli Stati, cit., 675. Cfr.
inoltre Iovane, The Ferrini Judgment, cit., 175 e Gattini, War Crimes, cit., 230. A giudizio di Bianchi, Ferrini v. Federal Republic of Germany, cit., 245, peraltro, « (…) to hold
that deportation and forced labor are well-established individual crimes under international law does not imply that they are necessarily international crimes of States as
such ». Sul collegamento tra immunità funzionale e immunità dello Stato dalla giurisdizione cfr. ampiamente De Sena-De Vittor, Immunità degli Stati dalla giurisdizione, cit.,
261 ss.; Id., State Immunity and Human Rights, cit., 104 ss.
IMMUNITÀ DEGLI STATI DALLA GIURISDIZIONE CIVILE ECC.
533
che costituiscono violazioni dei principi fondamentali della Comunità internazionale, deportazione e lavoro forzato si inseriscono dunque a pieno titolo nei
processi di formazione della norma consuetudinaria che concepisce determinate
azioni come crimini in quanto direttamente lesive di interessi superiori dell’ordinamento internazionale e della norma consuetudinaria sulla responsabilità penale internazionale dell’individuo autore dei crimini stessi (12). Si sono pertanto formate al riguardo delle vere e proprie norme imperative di diritto internazionale generale, norme consuetudinarie cogenti che, secondo il disposto
dell’art. 53 della Convenzione di Vienna del 23 maggio 1969 sul diritto dei trattati, non possono essere contraddette, a pena di nullità, né da fonti convenzionali né da altre fonti consuetudinarie. Quanto appena detto viene confermato
dalla stessa giurisprudenza internazionale: la Corte internazionale di giustizia ha
infatti sempre costantemente inquadrato i diritti inviolabili della persona umana
tra i principi fondamentali dell’ordinamento internazionale (13), mentre la Camera di prima istanza del Tribunale per la ex Jugoslavia ha ribadito che la violazione grave dei diritti fondamentali contravviene a norme inderogabili, poste
al vertice dell’ordinamento suddetto e prive del requisito della flessibilità solitamente appartenente alle norme consuetudinarie (14).
Nella sentenza in commento, la deroga al principio dell’immunità viene
fondata sull’accertata lesione della norma consuetudinaria internazionale che
condanna e reprime le violazioni dei diritti fondamentali dell’uomo e viene giu-
––––––––––––
(12) Sulla responsabilità penale internazionale dell’individuo v. per tutti Bassiouni,
Le fonti e il contenuto del diritto penale internazionale. Un quadro teorico, Milano 1999,
32 ss.; Caracciolo, Dal diritto penale internazionale al diritto internazionale penale, cit.,
196 ss.; Leanza, Il diritto internazionale, cit., 309 ss.; Leanza-Ciciriello, Crimes internationaux et responsabilité individuelle, in Koufa (ed.), The New International Criminal
Law, Thesaurus Acroasium, XXXII, Athens-Thessaloniki 2003, 503 ss.; Treves, Diritto
internazionale, cit., 205 ss.
(13) V. al riguardo le sentenze emanate il 9 aprile 1949 nel caso dello Stretto di
Corfù (Regno Unito c. Albania), il 5 febbraio 1970 nel caso Barcelona Traction Light &
Power Co. Ltd. (Belgio c. Spagna) e il 27 giugno 1986 nel caso delle attività militari e
paramilitari in e contro il Nicaragua (Nicaragua c. Stati Uniti d’America) nonché il parere consultivo reso il 28 maggio 1951 in merito alle riserve alla Convenzione sulla prevenzione e la repressione del crimine di genocidio (i relativi testi si trovano rispettivamente pubblicati in International Court of Justice, Reports of Judgments, Advisory Opinions and Orders of the International Court of Justice, The Hague 1949, 35 ss.; 1970, 32
ss.; 1986, 14 ss.; e 1951, 15 ss.). Cfr. in merito Bassiouni, Crimes against Humanity in
International Law, 2° ed., The Hague-Boston-London 1999, 212 ss.; Id., Le fonti e il
contenuto del diritto penale internazionale, cit., 74 ss.
(14) Esemplificative appaiono al riguardo la sentenza 10 dicembre 1998, causa IT95-17/1, Procuratore c. Furundžija (in International Legal Materials 1999, 317 ss.) nonché la sentenza 14 gennaio 2000, causa IT-95-16, Procuratore c. Kupreskić ed altri (in
American Journal of International Law 2002, 439 ss.).
534
RIVISTA DI DIRITTO PROCESSUALE
stificata in base all’antinomia riscontrata tra tale ultima norma, che assume valore imperativo, e la regola sull’immunità, con conseguente disapplicazione
della seconda (15). La proibizione a livello internazionale della deportazione e
del lavoro forzato in quanto comportamenti criminosi, rileva la Corte, viene
sancita dal diritto consuetudinario prima ancora che da quello convenzionale, e
il diritto internazionale generale esprime al riguardo carattere imperativo con
tutte le conseguenze che ne derivano in termini di prevalenza rispetto ad altre
fonti internazionali, di imprescrittibilità dell’azione di risarcimento del danno e
di capacità punitiva riconosciuta agli Stati. Non avendo peraltro distinto nel suo
ragionamento tra crimini internazionali dell’individuo e crimini internazionali
dello Stato, la Cassazione, come si avrà modo di ribadire meglio tra breve, è
andata così a estendere alle conseguenze civili di un illecito ritenuto imputabile
allo Stato tedesco l’operatività di disposizioni e principi sorti per finalità di repressione penale di crimini individuali, deducendo altresì che il riconoscimento
dell’immunità dalla giurisdizione civile in favore di uno Stato come la Germania, resosi responsabile di aver compiuto atti criminosi, potesse essere di ostacolo alla tutela di quei valori che invece la Comunità internazionale avverte
come essenziali al punto da giustificare, rispetto a essi, forme di reazione universali e obbligatorie.
Non mancano per la verità, sia nella giurisprudenza internazionale sia in
quella interna più recenti, pronunce favorevoli ad accordare l’immunità dalla
giurisdizione civile a uno Stato straniero pur in presenza di accuse concernenti
l’avvenuta commissione di crimini. Per quanto riguarda la giurisprudenza internazionale, si pensi ad esempio alla sentenza resa dalla Corte europea dei diritti
––––––––––––
(15) L’idea di una antinomia tra le norme di diritto internazionale consuetudinario
in materia di immunità e i diritti dell’uomo era già stata sviluppata da Lauterpacht, The
Problem of Jurisdictional Immunities of Foreign States, in British Yearbook of International Law 1951, 220 ss. Il Ronzitti, Un cambio di orientamento, cit., 40, ritiene peraltro
che l’antinomia indicata dovrebbe essere risolta già a livello di diritto internazionale in
quanto direttamente in tale ambito le norme internazionali imperative vengono a configurarsi come principi supremi immodificabili se non da norme cogenti successive. In ogni
caso, anche ammettendo che l’antinomia non si risolva a livello di diritto internazionale,
la norma consuetudinaria sull’immunità degli Stati stranieri dalla giurisdizione non potrebbe ritenersi immessa nel nostro ordinamento qualora la sua applicazione determinasse
una violazione di norme internazionali di ius cogens, in quanto ciò contrasterebbe con i
principi supremi della nostra Costituzione; il rinvio disposto dall’art. 10, comma 1° Cost.
non sarebbe di conseguenza operativo in relazione alla regola sull’immunità e quest’ultima dovrebbe essere disapplicata dallo stesso giudice ordinario senza necessità di un
rinvio alla Corte costituzionale. V. altresì Gianelli, Crimini internazionali ed immunità
degli Stati, cit., 643 s.; Bianchi, Ferrini v. Federal Republic of Germany, cit., 244; De
Sena-De Vittor, Immunità degli Stati dalla giurisdizione, cit., 257; Id., State Immunity
and Human Rights, cit., 95; Gattini, War Crimes, cit., 230.
IMMUNITÀ DEGLI STATI DALLA GIURISDIZIONE CIVILE ECC.
535
dell’uomo il 21 novembre 2001 nella causa Al-Adsani c. Regno Unito (16), relativa al caso sollevato da un pilota militare kuwaitiano in possesso anche della
cittadinanza britannica, il quale, dopo aver partecipato alla Guerra del Golfo
contro l’Iraq del 1991, era stato tratto in arresto dalle autorità del Kuwait e aveva subito maltrattamenti e torture in carcere. Pur dichiarando che il divieto di
tortura ha acquisito lo status di norma imperativa nell’ordinamento giuridico
internazionale e indipendentemente dal carattere speciale del divieto medesimo (17), la Corte (con il voto favorevole di nove contro otto) ha escluso che
uno Stato non goda più dell’immunità dalla giurisdizione civile dinanzi ai giudici di un altro Stato qualora sia accusato di aver compiuto atti di tortura, respingendo con ciò la domanda del ricorrente e non ritenendo che il riconoscimento dell’immunità giurisdizionale nel caso specifico costituisse un diniego
ingiustificato del diritto di accesso a un tribunale ai sensi dell’art. 6, par. 1 della
Convenzione di Roma del 1950 (18). Quanto alla giurisprudenza interna, e
––––––––––––
(16) In Conseil de l’Europe, Recueil des arrêts et décisions de la Cour européenne
des droits de l’homme, Strasbourg 2001-XI; in Riv. dir. int. 2002, 404 ss.; e, per estratto,
in Focarelli, Digesto del diritto internazionale, Napoli 2004, 189 s. Su di essa v. Orakhelashvili, State Immunity and International Public Order, in German Yearbook of International Law 2002, 227 ss.; Rau, After Pinochet: Foreign Sovereign Immunity in Respect of
Serious Human Rights Violations. The Decision of the European Court of Human Rights
in the Al-Adsani Case, in German Law Journal 2002, 204 ss.; Bianchi, Serious Violations of Human Rights and Foreign States’ Accountability Before Municipal Courts, in
Vohrah-Pocar-Featherstone-Fourmy-Graham-Hocking-Robson (eds.), Man’s Inhumanity
to Man. Essays in Honour of Antonio Cassese, The Hague-Boston-London-New York
2003, 159 s.; Id., L’immunité des Etats et les violations graves des droits de l’homme: la
fonction de l’interprète dans la determination du droit international, in Rev. gén. dr. int.
publ. 2004, 76 s.; Flauss, La compétence civile universelle devant la Cour européenne
des droits de l’homme, in Revue trimestrielle des droits de l’homme 2003, 156 ss.; Gattini, To What Extent are State Immunity and Non-Justiciability Major Hurdles to Individuals’ Claims for War Damages?, in Journal of International Criminal Justice 2003, 354
s.; Baratta, L’esercizio della giurisdizione civile sullo Stato straniero, cit., 1202; e Gianelli, Crimini internazionali ed immunità degli Stati, cit., 653 s.
(17) Oltre a essere proibita e punita dalla Convenzione di New York del 10 dicembre 1984, la tortura viene inclusa tra i crimini contro l’umanità dall’art. 7, lett. f) dello
Statuto di Roma del 1998.
(18) Ciò che è stato sostenuto dai giudici di Strasburgo appare per la verità del
tutto censurabile: non ha molto senso, infatti, riconoscere la qualifica di norma di ius
cogens al divieto di tortura senza permettere a tale norma, alla quale si va ad attribuire
dunque un rango più elevato, di prevalere in caso di conflitto su altre norme consuetudinarie, come quella riguardante l’immunità degli Stati stranieri dalla giurisdizione
civile, che di tale carattere imperativo sono certamente prive, impedendo così alla vittima delle torture di ottenere un giusto risarcimento per le lesioni subite (Conforti, Diritto internazionale, 6a ed., Napoli 2002, 253). Cfr. in proposito quanto affermato nella
loro opinione dissidente dai giudici Rozakis, Caflisch, Wildhaber, Costa, Cabral Bar-
536
RIVISTA DI DIRITTO PROCESSUALE
sempre con riferimento ad atti di tortura, esemplificativa appare la sentenza
emessa in Canada il 1° maggio 2002 dalla Superior Court of Justice dell’Ontario nel caso Houshang Bouzari v. Islamic Republic of Iran (19), con la quale,
in virtù dell’immunità accordata allo Stato estero convenuto, un immigrato iraniano che aveva acquisito la cittadinanza canadese, imprigionato e pesantemente torturato per diversi mesi da agenti governativi durante un suo soggiorno
occasionale in Iran e rilasciato solo dopo il pagamento di un riscatto, si è visto
negare il diritto a essere risarcito per quanto gli era accaduto (20).
Le pronunce appena citate, e altre ugualmente rilevanti in argomento (21),
––––––––––––
reto e Vajić: « En admettant que la règle prohibant la torture est une règle de jus cogens, la majorité reconnaît que cette règle est hiérarchiquement supérieure à toute
autre règle du droit international, générale ou particulière, coutumière ou conventionnelle, sauf bien sûr les autres normes de jus cogens. Une règle de jus cogens a en effet
cette caractéristique essentielle que, en tant que source du droit dans l’ordre juridique
international vu sous l’angle vertical, elle est supérieure à toute autre règle n’ayant
pas la même qualité. En cas de conflit entre une norme de jus cogens et toute autre
règle du droit international, la première l’emporte. Du fait de cette primauté, la règle
en cause est nulle et non avenue ou, en tout cas, ne déploie pas d’effets juridiques qui
se heurtent à la teneur de la règle impérative ». In senso sostanzialmente analogo, v.
altresì le opinioni dissidenti dei giudici Ferrari Bravo e Loucaides. Si esprimono in
modo critico sulle conclusioni cui è giunta la Corte anche Bou Franch, Inmunidad del
Estado y violación de normas internacionales de jus cogens: el asunto Al-Adsani contra el Reino Unido, in Anuario de derecho internacional 2002, 296 ss.; De Wet, The
Prohibition of Torture as an International Norm of Jus Cogens and its Implication for
National and Customary Law, in European Journal of International Law 2004, 97 ss.;
e Treves, Diritto internazionale, cit., 418 s.
(19) In International Law Reports 2002, 427 ss.
(20) La pronuncia emessa dalla Superior Court of Justice dell’Ontario risulta confermata in appello: con una sentenza del 30 giugno 2004, la Court of Appeal for Ontario,
composta dai giudici Goudge, MacPherson e Cronk, ha infatti rilevato il difetto di giurisdizione in relazione alla controversia in questione, dichiarando che « Just as Canada’s
treaty obligations do not do so, the rules of customary international law binding Canada
do not accord to the appellant the civil remedy he seeks ». Su di essa v. Bianchi,
L’immunité des Etats, cit., 78; Gianelli, Crimini internazionali ed immunità degli Stati,
cit., 654 s.
(21) Tra le sentenze emesse da giudici statunitensi, di particolare interesse sono
quelle della Court of Appeals for the District of Columbia Circuit concernenti i casi Persinger v. Islamic Republic of Iran del 1984, Saltany v. Reagan del 1988 e Princz v. Federal Republic of Germany del 1994; della Court of Appeals for the 9th Circuit nel caso Siderman de Blake v. Republic of Argentina del 1992; della Court of Appeals for the 2nd
Circuit sul caso Smith v. Socialist People’s Libyan Arab Jamahiriya del 1996; e della
District Court for the Northern District of Illinois relativa al caso Sampson v. Federal
Republic of Germany del 1997. Parimenti significativa appare inoltre la sentenza resa
dalla Camera dei Lord il 24 marzo 1999 nei casi Regina v. Bartle and the Commissioner
IMMUNITÀ DEGLI STATI DALLA GIURISDIZIONE CIVILE ECC.
537
contrastano dunque con il risultato finale cui la Cassazione italiana è pervenuta
nel caso di specie e possono indurre a sollevare alcune obiezioni sulla soluzione
proposta dal Collegio, in special modo per quanto attiene alla portata del principio di rilevanza dell’illecito ai fini del riconoscimento dell’immunità (22). La
Cassazione ha ritenuto di poter superare il contrasto evidenziando come nelle
controversie di cui sopra i crimini oggetto delle singole vicende processuali si
fossero verificati in uno Stato diverso da quello del foro. La soluzione accolta
dal giudice inglese e dal giudice canadese nei casi poc’anzi descritti nega giustizia ai ricorrenti ed è in effetti conforme all’impostazione propria delle norme
vigenti nel Regno Unito e in Canada nonché in altri ordinamenti di common
law, nei quali, nell’ambito della regola della tort exception, l’opponibilità
dell’esenzione dalla giurisdizione civile da parte di uno Stato nelle controversie
relative a domande di risarcimento per danni a persone o a cose è per l’appunto
regolata secondo il criterio del luogo di commissione dell’illecito (locus commissi delicti), escludendosi che l’immunità possa essere invocata per danni provocati da atti compiuti nel territorio dello Stato del foro (23). Sebbene nelle
pronunce precedentemente richiamate si affrontino situazioni di fatto nelle quali
sussiste senza dubbio un collegamento con dei crimini internazionali, gli illeciti
che hanno dato vita alle pretese risarcitorie sono risultati compiuti in uno Stato
diverso da quello del foro, per cui non si rinviene una perfetta coincidenza tra
quelle vicende e la vicenda che ha dato adito alla sentenza della Suprema Corte
––––––––––––
of Police for the Metropolis and Others ex parte Pinochet e Regina v. Evans and Another
and the Commissioner of Police for the Metropolis and Others ex parte Pinochet (pubblicata in International Legal Materials 1999, 581 ss. nonché, limitatamente ad alcuni brani,
in Focarelli, Digesto, cit., 179 ss., e sulla quale cfr. per tutti De Sena, Immunità di exCapi di Stato e violazioni individuali del divieto di tortura: sulla sentenza del 24 marzo
1999 della Camera dei Lords nel caso Pinochet, in Riv. dir. int. 1999, 933 ss.).
(22) Nappi, Diritti inviolabili, cit., 27, rileva in proposito che « (…) le ricordate
pronunzie denunziano l’assenza di una norma cogente che l’immunità escluda per le fattispecie in questione », per cui, a suo parere, « (…) la Cassazione finisce per assumere
una posizione tautologica, giacché afferma la fonte consuetudinaria –e quindi universalmente accettata- del diritto alla tutela inviolabile della persona in contrapposizione a delle
decisioni che, per il solo fatto di accordare l’immunità, l’esistenza di tale consuetudine
negano ».
(23) V. in merito l’art. 1605 (5) del Foreign Sovereign Immunities Act statunitense
del 1976, l’art. 5 dello State Immunity Act britannico del 1978, l’art. 3 del Foreign States
Immunity Act sudafricano del 1981, l’art. 6 dello State Immunity Act canadese del 1982 e
l’art. 13 del Foreign States Immunity Act australiano del 1985. Cfr. Trooboff, Foreign
State Immunity: Emerging Consensus on Principles, in Recueil des Cours de l’Académie
de droit international de La Haye 1986, V, 352 ss., Steinberger, voce State Immunity, in
Bernhardt (ed.), Encyclopedia of Public International Law, 4, Amsterdam-LausanneNew York-Oxford-Shannon-Tokyo 2000, 626 s., Ciampi, Crimini internazionali, cit.,
2666 e Gianelli, Crimini internazionali ed immunità degli Stati, cit., 645 ss.
538
RIVISTA DI DIRITTO PROCESSUALE
qui analizzata, nella quale l’azione criminosa aveva al contrario avuto inizio in
territorio italiano per poi proseguire in Germania, configurandosi però già in
Italia come crimine internazionale.
La stessa impostazione accolta dagli ordinamenti di tradizione anglosassone è stata recepita sul piano internazionale dalla Convenzione europea sull’immunità degli Stati, firmata a Basilea il 16 maggio 1972 ed entrata in vigore l’11
giugno 1976, dal progetto di articoli sull’immunità giurisdizionale degli Stati e
dei loro beni, approvato il 4 luglio 1991 dalla Commissione di diritto internazionale delle Nazioni Unite nonché oggi dalla Convenzione delle Nazioni Unite
sull’immunità giurisdizionale degli Stati e dei loro beni, adottata dall’Assemblea generale il 2 dicembre 2004 e aperta alla firma a New York il 17 gennaio
2005 (24). L’art. 11 della Convenzione di Basilea dispone infatti che uno Stato
contraente non possa invocare l’immunità dalla giurisdizione dinanzi al tribunale di un altro Stato contraente in procedimenti riguardanti il risarcimento del
danno arrecato a persone o a cose qualora i fatti che hanno dato luogo al danno
siano avvenuti sul territorio dello Stato del foro e qualora l’autore del danno
medesimo fosse presente su tale territorio al momento in cui i fatti stessi si sono
verificati (25); parimenti, secondo l’art. 12 del progetto del 1991, nel caso di un
––––––––––––
(24) Per il testo della Convenzione di Basilea del 1972 v. Conseil de l’Europe,
Convention européenne sur l’immunité des Etats (Bâle, 16 mai 1972), Strasbourg 1972, 1
ss. Il testo del progetto di articoli del 1991, originariamente pubblicato in United Nations,
Yearbook of the International Law Commission, New York 1991, II, 2, 12 ss., è stato riprodotto in Riv. dir. int. 1991, 721 ss. e più di recente in Luzzatto-Pocar, Codice di diritto
internazionale pubblico, 3a ed., Torino 2003, 149 ss. Il testo della Convenzione di New
York del 2004 si trova invece allegato alla risoluzione 2 dicembre 2004, n. 59/38 (United
Nations, Resolutions and Decisions adopted by the General Assembly during its Fiftyninth Session, I, New York 2005, 486 ss.).
(25) Relativamente a tale Accordo e al suo Protocollo addizionale, firmato
anch’esso a Basilea il 16 maggio 1972 ed entrato in vigore il 22 maggio 1985, cfr. Belinfante, The European Convention on State Immunity, in Netherlands International Law
Review 1973, 297 ss.; Sinclair, The European Convention on State Immunity, in International and Comparative Law Quarterly 1973, 254 ss.; Valle, A propos de la Convention
européenne sur l’immunité des Etats, in Rev. trim. dr. eur. 1973, 205 ss.; Wiederkehr, La
Convention européenne sur l’immunité des Etats, in Annuaire français de droit international 1974, 925 ss.; Krafft, La Convention européenne sur l’immunité des Etats et son
Protocol addictionnel, in Annuaire suisse de droit international 1975, 11 ss.; Strebel,
Staatenimmunität. Die Europaratskonvention und die neuen Gesetze der Vereinigten
Staaten und Grossbritannes, in Rabels Zeitschrift für ausländisches und internationales
Privatrecht 1980, 665 ss.; M. Miele, voce Immunità giurisdizionale degli Stati, in Noviss.
dig. it., Appendice, III, Torino 1982, 1226 ss.; Giuliano-Scovazzi-Treves, Diritto internazionale, II, 2a ed., Milano 1983, 543; Verhoeven, L’entrée en vigueur du Protocole additionnel à la Convention européenne sur l’immunité des Etats, in Revue belge de droit
international 1986, 647 ss.
IMMUNITÀ DEGLI STATI DALLA GIURISDIZIONE CIVILE ECC.
539
procedimento instaurato dinanzi ai giudici di uno Stato in merito al risarcimento
dei danni per morte o lesioni personali o per danni o perdita di beni che si afferma siano conseguenti a una azione od omissione attribuibili a uno Stato straniero, quest’ultimo non può invocare l’immunità dalla giurisdizione se l’azione
o l’omissione sono avvenute in tutto o in parte nel territorio dello Stato del foro
con la presenza dell’autore materiale dell’illecito (26).
Il riferimento alla tort exception e alla lex loci commissi delicti espresso in
tutti i dati normativi appena evidenziati, ha consentito alla Cassazione stessa di
criticare quanto a suo tempo asserito dalla Corte europea dei diritti dell’uomo
nella sentenza 21 novembre 2001, McElhinney c. Irlanda (27). In quell’occasione, respingendo la requête del ricorrente (si trattava di un cittadino irlandese il quale, inseguito e minacciato con un’arma da fuoco da un soldato inglese di guardia a un posto di blocco alla frontiera con l’Irlanda del Nord, si era
visto negare in patria il risarcimento invocato a causa dell’immunità dalla giurisdizione comunque riconosciuta in favore del Regno Unito), i giudici erano in
maggioranza rimasti ancorati a una interpretazione troppo riduttiva dell’art. 12
del progetto di articoli del 1991, avendo essi ritenuto che la suddetta disposizione fosse essenzialmente riferita ai soli danni assicurabili, cioè a dire ai danni
derivanti dalla circolazione dei veicoli, e che di conseguenza l’esito del giudizio
sopra richiamato non fosse in contrasto con l’art. 6, par. 1 della Convenzione di
Roma del 1950; invece, se è vero che l’eccezione al principio generale dell’immunità dalla giurisdizione civile espressa dall’art. 12 appena menzionato si applica principalmente ai danni assicurabili, è altrettanto vero che essa copre anche i danni fisici intenzionali e i danni materiali derivanti da reato, ivi compresi
l’incendio, l’omicidio e l’assassinio politico. Tale impostazione sembra peraltro
venga riproposta dall’art. 12 della Convenzione di New York del 2004 sull’immunità giurisdizionale degli Stati e dei loro beni, la cui disciplina, a conferma di
quanto dedotto con riferimento al progetto di articoli sopra richiamato, riguarda
azioni compiute dallo Stato sia nell’esercizio della sua autorità sovrana sia in
quanto soggetto privato ed è concepita a beneficio di coloro che siano vittime
non solo e non tanto di incidenti stradali ma anche di comportamenti deliberatamente posti in essere da organi dello Stato straniero, come ad esempio gli
agenti di polizia o dei servizi segreti (28).
––––––––––––
(26) Per un commento dell’art. 12 del progetto di articoli del 1991 v. KessedjianSchreuer, Le projet d’articles de la Commission du droit international des Nations Unies
sur les immunités des Etats, in Rev. gén. dr. int. publ. 1992, 318.
(27) In Conseil de l’Europe, Recueil des arrêts et décisions de la Cour européenne
des droits de l’homme, Strasbourg 2001-XI e in American Journal of International Law
2002, 699 ss.
(28) Secondo l’art. 12 della Convenzione di New York del 2004 (in relazione al
quale si rinvia a Foakes-Wilmshurst, State Immunity: The United Nations Convention
and its Effect, in Chatham House International Law Programme, Briefing Paper n. 05/01,
540
RIVISTA DI DIRITTO PROCESSUALE
La più ampia accezione del significato espresso dall’art. 12 del progetto
del 1991, fondata oltretutto sul contenuto del Rapporto esplicativo pubblicato in
proposito dalla Commissione di diritto internazionale dell’ONU e ora confermata dall’art. 12 della Convenzione del 2004, era già stata percepita nella sua
essenza da alcuni dei giudici della Corte europea di Strasburgo rimasti in minoranza relativamente alla stessa vicenda McElhinney (29) ed è stata accolta dalla
Cassazione nel caso di nostro interesse. Il Supremo Collegio, valutandola congiuntamente a quanto disposto dall’art. 11 della Convenzione di Basilea, l’ha
anzi ritenuta chiaro indice di una evidente tendenza al superamento, nelle controversie inerenti la responsabilità per fatti illeciti, della teoria dell’immunità
ristretta o relativa, essendo tale teoria basata, come visto, sulla classica distinzione tra atti iure imperii e atti iure gestionis, ormai inadeguata e non più in
grado di operare nei casi in cui il fatto illecito generatore della responsabilità si
configuri come crimine internazionale. In presenza di controversie che sottendano violazioni particolarmente gravi dei diritti fondamentali dell’uomo si starebbe cioè sempre più facendo strada nella Comunità internazionale una opinio
iuris contraria ad attribuire in casi di questo tipo portata generale al criterio fondato sulla natura dell’atto lesivo, con la conseguenza che lo Stato straniero e i
suoi individui-organi responsabili della violazione non potrebbero invocare
l’immunità dalla giurisdizione civile qualora fossero convenuti in giudizio dinanzi ai giudici di un altro Stato, perlomeno in tutte le ipotesi, come quella di
specie, in cui l’atto illecito abbia avuto la sua manifestazione iniziale nel territorio dello Stato del foro. Il rispetto dei diritti inviolabili della persona umana
consentirebbe pertanto in tal caso il superamento della teoria dell’immunità ristretta, ritenendosi prevalente la tutela di quei valori rispetto all’interesse del
singolo Stato (30).
Il ricorso al criterio della tort exception operato dal giudice italiano al fine
di delineare l’ambito di applicazione della deroga all’immunità giurisdizionale,
presenta peraltro delle incoerenze di fondo, viste le motivazioni del provvedimento emanato. Se infatti il diniego di immunità viene sancito e costantemente
––––––––––––
2005, 6), « Unless otherwise agreed between the States concerned, a State cannot invoke
immunity from jurisdiction before a court of another State which is otherwise competent
in a proceeding which relates to pecuniary compensation for death or injury to the person, or damage to or loss of tangible property, caused by an act or omission which is
alleged to be attributable to the State, if the act or omission occurred in whole or in part
in the territory of that another State and if the author of the act or omission was present
in that territory at the time of the act or omission ».
(29) V. al riguardo quanto riportato nell’opinione dissidente dei giudici Caflisch,
Cabral Barreto e Vajić.
(30) V. in proposito Bianchi, Serious Violations, cit., 151 ss., Id., Ferrini v. Federal
Republic of Germany, cit., 244; Ciampi, Crimini internazionali, cit., 2665; Gianelli, Crimini internazionali ed immunità degli Stati, cit., 666 s.; Nappi, Diritti inviolabili, cit., 26.
IMMUNITÀ DEGLI STATI DALLA GIURISDIZIONE CIVILE ECC.
541
presentato nella sentenza come diretta conseguenza della speciale protezione da
accordare ai diritti umani fondamentali, può apparire riduttivo fondare la giurisdizione italiana su una eccezione alla regola dell’immunità concepita in origine
per fattispecie minori (31). L’attenzione dedicata alla tort exception appare
inoltre eccessiva in quanto, poiché la giurisdizione viene affermata sulla base di
norme internazionali di rango superiore a quella sull’immunità, tali da derogare
per l’appunto quest’ultima regola, meglio sarebbe stato effettuare più abbondanti richiami a prassi e giurisprudenza nelle quali fosse stata riscontrata e rilevata una antinomia pari a quella evidenziata dal giudice italiano nel caso di specie (32). Per altro verso, tale scelta è stata probabilmente motivata dall’esigenza
di addivenire, come sostenuto in dottrina, a un « ragionevole bilanciamento tra
gli ideali di principio che hanno guidato la Corte nell’analisi giuridica e la realtà
(…) delle relazioni internazionali tra Stati » e di giustificare così una soluzione
diversa da quella affermata dalla Corte europea dei diritti dell’uomo nel caso
Al-Adsani (33); verosimilmente, poi, la Cassazione ha sottolineato il necessario
collegamento con lo Stato del foro anche per la consapevolezza della ancora
non compiuta affermazione in ambito internazionale del principio che essa era
in procinto di enunciare e per la conseguente necessità di giustificare dal punto
di vista logico la soluzione raggiunta (34).
Il carattere cogente attribuibile alle norme internazionali sui crimini viene
inoltre abbinato, nel ragionamento seguito dalla Suprema Corte, ai due principi
dell’imprescrittibilità dell’azione e dell’universalità della giurisdizione, entrambi citati come argomenti a favore per l’ammissibilità della giurisdizione del
giudice italiano nel caso affrontato dalla decisione qui esaminata. Il diniego
dell’immunità giurisdizionale in favore della parte resistente è stato in particolare motivato in ragione della repressione, universale e obbligatoria, che riguardo
ai crimini internazionali gli Stati sono tenuti a garantire. Se infatti il collegamento tra norme di ius cogens e obblighi erga omnes è un dato tipico della Comunità internazionale contemporanea, caratterizzata, come opportunamente
sottolineato, da una interdipendenza che « (…) registra il progressivo affermarsi (…) di alcuni valori essenziali sottratti alla libera disponibilità degli Stati, e
oggetto, per quanto concerne le funzioni di produzione, accertamento e garanzia
delle norme relative, di forme di gestione e di tutela in senso lato “pubblicistiche”, in quanto basate sulla concorrente potenziale attività degli Stati
––––––––––––
(31) Iovane, The Ferrini Judgment, cit., 177.
(32) Gianelli, Crimini internazionali ed immunità degli Stati, cit., 669; Gattini, War
Crimes, cit., 231.
(33) Così Ciampi, Crimini internazionali, cit., 2670. Cfr. in senso analogo De SenaDe Vittor, Immunità degli Stati dalla giurisdizione, cit., 257; Id., State Immunity and
Human Rights, cit., 95.
(34) Gianelli, Crimini internazionali ed immunità degli Stati, cit., 669.
542
RIVISTA DI DIRITTO PROCESSUALE
operanti uti universi » (35), non c’è motivo di dubitare che tale reazione, più
severa di quella stabilita per gli altri illeciti (36), possa esprimersi anche
nell’ambito dei processi civili che traggono origine dall’avvenuta commissione
di simili reati. In tal caso, l’esercizio sul piano interno della giurisdizione civile
nei confronti di uno Stato estero ritenuto responsabile dei crimini in questione
rende possibile proprio l’attività di accertamento e garanzia appena menzionata,
apparendo altresì speculare al diritto riconosciuto alle vittime di poter esperire
un’azione civile dinanzi a giudici stranieri per il risarcimento dei danni a esse
cagionati (37). La Corte, dunque, ancora una volta e a maggior ragione « (…)
––––––––––––
(35) Picone, Interventi delle Nazioni Unite e obblighi erga omnes, in Picone (a cura
di), Interventi delle Nazioni Unite e diritto internazionale, Padova 1995, 519.
(36) A tale proposito, il progetto di articoli sulla responsabilità degli Stati per atti
illeciti internazionali, adottato dalla Commissione di diritto internazionale delle Nazioni
Unite il 9 agosto 2001 [cfr. il Report of the International Law Commission on the Work of
its Fifty-third Session, in United Nations, Official Records of the General Assembly, Fifty-sixth Session, Suppl. n. 10, New York 2001 e in Riv. dir. int. 2001, 878 ss. nonché
Crawford (ed.), The International Law Commission’s Articles on State Responsibility.
Introduction, Text and Commentaries, Cambridge 2002], dopo aver affermato all’art. 40
che il Cap. III, del quale tale norma fa parte, « (…) applies to the international responsibility which is entailed by a serious breach by a State of an obligation arising under a
peremptory norm of general international law » e che « a breach of such an obligation is
serious if it involves a gross or systematic failure by the responsible State to fulfil the
obligation », precisa poi all’art. 41 che « States shall cooperate to bring to an end
through lawful means any serious breach within the meaning of article 40. No State shall
recognize as lawful a situation created by a serious breach within the meaning of article
40, nor render aid or assistance in maintaining that situation ». Per una analisi in merito
agli artt. 40 e 41 e alla configurabilità di conseguenze qualitativamente diverse a carico
dello Stato violatore di obblighi erga omnes si rinvia a Gaja, Obligations Erga Omnes,
International Crimes and Jus Cogens, in Weiler-Cassese-Spinedi (eds.), International
Crimes of States. A Critical Analysis of the ILC’s Draft Article 19 on State Responsibility, Berlin-New York 1989, 156 ss., a Pellet, Le nouveau projet de la C.D.I. sur la responsabilité de l’Etat pour fait internationalement illecite: requiem pour le crime?, in
Vohrah-Pocar-Featherstone-Fourmy-Graham-Hocking-Robson (eds.), Man’s Inhumanity
to Man, cit., 655 ss. e a Picone, Obblighi erga omnes, cit., 926 ss. (anche in Comunità
internazionale e obblighi « erga omnes », cit., 622 ss.) con l’ampia bibliografia riportata.
Per i riferimenti all’art. 41 del progetto contenuti nella sentenza n. 5044 del 2004 v.
Bianchi, L’immunité des Etats, cit., 92 ss.; Id., Ferrini v. Federal Republic of Germany,
cit., 244; Ciampi, Crimini internazionali, cit., 2664; Iovane, The Ferrini Judgment, cit.,
182 s.; Gattini, War Crimes, cit., 236. Sulle norme sopra menzionate cfr. più in generale
anche Treves, Diritto internazionale, cit., 556 s.
(37) V. in tal senso quanto affermato dal Tribunale internazionale per la ex Jugoslavia nella sentenza Furundžija, menzionata supra, nt. 14 e richiamata da Gianelli, Crimini internazionali ed immunità degli Stati, cit., 659. Anche Conforti, Diritto internazionale, cit., 253, ritiene in linea di principio possibile l’esercizio della giurisdizione qualora
IMMUNITÀ DEGLI STATI DALLA GIURISDIZIONE CIVILE ECC.
543
seems to understand jus cogens as the material values of the international community as a whole, as a sort of ordre public to be protected by the special regimes created by both customary and conventional international law. These regimes might also include interventions by domestic courts » (38).
Anche il richiamo effettuato dalla Cassazione all’imprescrittibilità dell’azione e all’universalità della giurisdizione induce tuttavia ad alcune osservazioni, motivate in gran parte, come detto, dal fatto di aver applicato nel contesto di
una controversia civile che vede coinvolto uno Stato concetti sorti e affermatisi
a livello di diritto internazionale penale in relazione a comportamenti di individui-organi. Quando menziona l’imprescrittibilità e l’universalità, la Corte di
Cassazione, proprio in virtù dell’approccio da essa stessa adottato e consistente
nell’avere utilizzato elementi normativi riguardanti la responsabilità individuale
per il crimine internazionale di deportazione e assoggettamento a lavoro forzato
al fine di configurare una responsabilità della Germania (aggravata dalla sistematicità della condotta da questa tenuta), finisce in effetti con l’applicare alla
deroga all’immunità degli Stati principi che identificano altrettanti elementi del
regime internazionale concernente i crimini compiuti da individui e che esprimono la connotazione penale delle violazioni corrispondenti, presentando il
concetto di universalità della giurisdizione civile come equivalente al concetto
di universalità della giurisdizione penale e ispirandosi, per quanto riguarda
l’imprescrittibilità, a strumenti internazionali non pertinenti per il settore civilistico né vincolanti per l’ordinamento italiano. A quest’ultimo proposito, non
può non rilevarsi come la Corte abbia basato il proprio convincimento su Accordi internazionali, quali la Convenzione di New York del 26 novembre 1968
sull’imprescrittibilità dei crimini di guerra e dei crimini contro l’umanità e la
Convenzione di Strasburgo del 25 gennaio 1974 sull’imprescrittibilità dei crimini contro l’umanità e dei crimini di guerra, che oltre a riguardare la dimensione penale dei fatti illeciti presi in considerazione, neppure possono definirsi
rilevanti in materia, anche perché attualmente sono privi di vigore in Italia (39).
––––––––––––
uno Stato straniero sia convenuto in giudizio per le conseguenze civilistiche della violazione di norme di ius cogens, non potendo queste ultime « (…) non prevalere non solo
sulle convenzioni internazionali ma anche sulle altre norme consuetudinarie ». Inoltre,
secondo Cassese, Diritto internazionale, I, I lineamenti, Bologna 2003, 125 s., « Dal
momento in cui si riconosce che, nel caso della tortura, la regola sull’immunità funzionale (…) non trova applicazione, si deve coerentemente riconoscere che tale eccezione
operi anche rispetto alla regola sull’immunità dalla giurisdizione degli Stati esteri (…).
Ciò tanto più se si considera che la regola sull’immunità funzionale (…) costituisce una
naturale estensione della regola sull’immunità degli Stati ». L’Autore chiarisce peraltro
come non vi siano ancora elementi sufficienti della prassi per sostenere che si sia formata
una regola corrispondente nell’ordinamento internazionale.
(38) Iovane, The Ferrini Judgment, cit., 173.
(39) La Convenzione delle Nazioni Unite sull’imprescrittibilità dei crimini di guer-
544
RIVISTA DI DIRITTO PROCESSUALE
L’avvenuta menzione di essi nella motivazione della sentenza risulta perciò
tutt’altro che calzante; sarebbe stato al limite preferibile affermare la mancata
soggezione dei crimini internazionali a termini di prescrizione, confermata
dall’art. 29 dello Statuto della Corte penale internazionale e assicurata altresì da
norme interne laddove esistenti (40), alla luce di una apposita norma consuetudinaria la cui ormai avvenuta formazione potrebbe forse anche essere ipotizzata,
per ritenerla quindi applicabile, data l’esigenza di tutela dei valori materiali
della Comunità internazionale di cui si è detto, anche alla fattispecie controversa in esame. Inoltre, per quanto attiene all’universalità, il ricorso fatto dalla Suprema Corte alla lex loci commissi delicti sopra citata, che delimita l’ambito di
applicazione della deroga all’immunità dello Stato straniero dalla giurisdizione
ai soli atti compiuti nel territorio dello Stato del foro, è perlomeno contraddittorio se raffrontato all’esigenza di garantire una repressione universale e obbligatoria dei crimini internazionali proclamata dalla pronuncia in esame in quanto
direttamente connessa al valore cogente delle norme internazionali sui crimini
medesimi (41). La soluzione che ne deriva presenta risvolti potenzialmente problematici, che la Cassazione tenta di attutire, da un lato accennando alla questione dell’universalità solo dopo aver affermato e giustificato la giurisdizione
italiana sull’assunto che parte dei fatti si era verificata in Italia; dall’altro, poiché non è chiaro se il principio dell’imprescrittibilità dell’azione valga anche
nei confronti dello Stato, lasciando volutamente impregiudicata ogni questione
relativa anche alla proponibilità della domanda, e rinviando così ogni decisione
sul punto alla successiva valutazione del giudice di merito. La mancanza di una
dimostrazione positiva riguardo al ragionamento da essa svolto, induce perciò a
––––––––––––
ra e dei crimini contro l’umanità, aperta alla firma a New York il 26 novembre 1968 ed
entrata in vigore l’11 novembre 1970 (in United Nations, Treaty Series, vol. 754, New
York 1969, 73 ss.), pur essendo stata ratificata da numerosi Paesi, soprattutto dell’Est
europeo e in via di sviluppo, non ha mai ottenuto le ratifiche dagli Stati europei occidentali membri del Consiglio d’Europa, critici fin dall’inizio su diversi punti presenti nella
versione finale del testo, come quello di cui all’art. 1, che applica l’imprescrittibilità anche a crimini compiuti prima dell’entrata in vigore dell’Accordo in parola anche se i termini di prescrizione sono già decorsi, e quello di cui all’art. 3, che prevede norme in tema
di estradizione non adeguatamente formulate. In un secondo momento, si è giunti quindi
all’adozione della Convenzione di Strasburgo del 25 gennaio 1974 sull’imprescrittibilità
dei crimini contro l’umanità e dei crimini di guerra, entrata in vigore soltanto il 27 giugno
2003 (in International Legal Materials 1974, 504 ss.), che però a tutt’oggi risulta essere
stata ratificata solamente da tre Stati (Belgio, Paesi Bassi e Romania).
(40) Relativamente all’ordinamento italiano cfr. Zappalà, Droit italien, in CasseseDelmas Marty (sous la direction de), Juridictions nationales et crimes internationaux,
Paris 2002, 205.
(41) Ciampi, Crimini internazionali, cit., 2670; Nappi, Diritti inviolabili, cit., 26 s.;
Bianchi, Ferrini v. Federal Republic of Germany, cit., 246; Gattini, War Crimes, cit.,
231.
IMMUNITÀ DEGLI STATI DALLA GIURISDIZIONE CIVILE ECC.
545
supporre che il riferimento fatto ai concetti di universalità e di imprescrittibilità
sia in definitiva esclusivamente da interpretare in senso rafforzativo del prevalente valore attribuito dalla Suprema Corte, nel caso che qui ci occupa, al principio del rispetto dei diritti inviolabili della persona umana (42).
Le conclusioni cui è pervenuto il giudice italiano con la sentenza n. 5044
del 2004 sono, come anticipato, tutt’altro che pacifiche e scontate nel panorama
giuridico internazionale. Comparando la decisione in parola con le pronunce
emesse da altri giudici nazionali investiti di questioni analoghe a quella qui affrontata, ci si rende conto di essere in presenza di principi non ancora definitivamente affermati e i cui contorni non sono ancora completamente delineati. Il
problema del risarcimento per danni causati da Stati responsabili di aver condotto operazioni belliche che hanno presentato i caratteri propri del crimine internazionale ha infatti assunto particolare rilievo negli ultimi anni, ponendosi
all’attenzione di vari organi giurisdizionali stranieri; questi ultimi hanno fornito
soluzioni divergenti, a volte confermando e altre volte smentendo, immediatamente in primo grado, nei successivi gradi di giudizio o in fase di esecuzione, la
sottoponibilità a giudizio dello Stato straniero colpevole del comportamento
lamentato.
Tre controversie, svoltesi negli Stati Uniti d’America, in Grecia e in Francia e concernenti tutte gravi violazioni dei diritti umani perpetrate dalle Forze
Armate tedesche al di fuori dei confini nazionali durante la Seconda Guerra
Mondiale, forniscono più di altre spunti utili, data anche la comunanza concettuale e storica da esse presentata con quanto lamentato dal protagonista del caso
da noi preso in esame: si tratta segnatamente della causa Princz v. Federal Republic of Germany, risolta dalla District Court for the District of Columbia con
una sentenza del 23 dicembre 1992 e inerente alla vicenda di un cittadino statunitense di razza ebraica che nel 1942, quando viveva con la sua famiglia in Slovacchia, venne arrestato dalla polizia, consegnato alle SS naziste, internato nei
campi di sterminio di Auschwitz-Birkenau e di Dachau e lì avviato al lavoro
forzato presso industrie chimiche e belliche tedesche (43); dell’azione civile
––––––––––––
(42) De Vittor, Immunità degli Stati dalla giurisdizione e tutela dei diritti fondamentali, in Riv. dir. int. 2002, 590, rileva infatti che « (…) il principio della giurisdizione
universale ha valore di diritto internazionale positivo solo con riferimento alla giurisdizione penale nei confronti di individui che siano imputati di crimina iuris gentium. Di
conseguenza, la possibilità di una sua applicazione anche in materia di giurisdizione civile nei confronti di Stati che abbiano commesso lo stesso tipo di crimine dovrebbe essere dimostrata ». V. altresì Gianelli, Crimini internazionali ed immunità degli Stati, cit.,
676 s.; Iovane, The Ferrini Judgment, cit., 182; De Sena-De Vittor, Immunità degli Stati
dalla giurisdizione, cit., 261; Id., State Immunity and Human Rights, cit., 103; Gattini,
War Crimes, cit., 228 s.
(43) Su tale sentenza (pubblicata in International Legal Reports 1996, 598 ss.) cfr.
Cerna, Hugo Princz v. Federal Republic of Germany: How Far Does the Long-Arm Juri-
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RIVISTA DI DIRITTO PROCESSUALE
intentata contro la Germania da 258 cittadini ellenici parenti delle vittime del
massacro compiuto il 10 giugno 1944 nel villaggio di Distomo, in Beozia, dalle
forze naziste di occupazione, decisa nel merito dal Πολυµελές Πρωτοδικείο
(Tribunale di prima istanza) di Livadia con la sentenza 30 ottobre 1997, n. 137
(Prefettura di Voiotia c. Repubblica federale di Germania), a sua volta confermata dall’Άρειος Πάγος (Corte Suprema di Cassazione) mediante la sentenza 4
maggio 2000, n. 11, e conclusasi con la condanna del Governo tedesco al pagamento di complessivi 28 milioni di euro in favore dei ricorrenti a titolo di riparazione dei danni morali e materiali loro arrecati (44); e del caso deciso in
Francia dal Conseil de prud’hommes di Fontainebleau con sentenza del 5 febbraio 2002 (Bucheron c. République fédérale d’Allemagne), che ha visto lo
Stato tedesco condannato al pagamento di circa 95.000 euro come arretrati per
emolumenti salariali non corrisposti, oltre a danni e interessi, a beneficio di un
cittadino francese che nel 1944 era stato prelevato con la forza dalla propria
abitazione e avviato al lavoro obbligato in Germania (45). Tutte e tre le volte,
––––––––––––
sdiction of US Law Reach?, in Leiden Journal of International Law 1995, 377 ss.; Reimann, A Human Rights Exception to Foreign Immunity: Some Thoughts on Princz v. Federal Republic of Germany, in Michigan Journal of International Law 1995, 404 ss.;
Gergen, Human Rights and the Foreign Sovereign Immunities Act, in Virginia Journal of
International Law 1996, 785 ss.; Bergen, Princz v. The Federal Republic of Germany:
Why the Courts Should Find that Violating Jus Cogens Norms Constitutes an Implied
Waiver of Sovereign Immunity, in Connecticut Journal of International Law 1999, 172
ss. A essi fa riferimento anche Gianelli, Crimini internazionali ed immunità degli Stati,
cit., 649, nt. 26.
(44) Il testo della sentenza emessa dal Tribunale di prima istanza di Livadia si trova
riprodotto in Revue hellénique de droit international 1997, 595 ss. con nota di Gavouneli,
War Reparation Claims and State Immunity e in American Journal of International Law
1998, 765 ss. con nota redazionale di Bantekas. La sentenza 4 maggio 2000, n. 11 è pubblicata in American Journal of International Law 2001, 198 ss. con nota redazionale di
Gavouneli e Bantekas; essa viene altresì analizzata da De Vittor, Immunità degli Stati
dalla giurisdizione, cit., 587 s.; Ronzitti, Azioni belliche e risarcimento del danno, in Riv.
dir. int. 2002, 688; Id., Compensation for Violations of the Law of War and Individual
Claims, in Italian Yearbook of International Law 2002, 41; Bianchi, Serious Violations,
cit., 150 s.; Id., L’immunité des Etats, cit., 65 s.; Id., Ferrini v. Federal Republic of Germany, cit., 243; Gattini, To What Extent, cit., 356 ss.; Gianelli, Crimini internazionali ed
immunità degli Stati, cit., 655 ss.; De Sena-De Vittor, Immunità degli Stati dalla giurisdizione, cit., 258; Id., State Immunity and Human Rights, cit., 97.
(45) Con una legge del 16 febbraio 1943 il regime di Vichy, sotto pressione delle
autorità di occupazione germaniche, aveva istituito il Service de travail obligatoire
(STO). Sarebbero dovuti andare a lavorare in Germania circa 875.000 giovani, ma decine
di migliaia di essi scelsero la clandestinità pur di sfuggire a tale obbligo. Il Sig. Bucheron, ricorrente nel procedimento citato, era stato preso dalla Gestapo francese l’8 giugno
1944 a Egreville, consegnato alle autorità tedesche insieme ad altre persone iscritte sulle
liste del STO e costretto a lavorare per dieci mesi come elettricista, in condizioni assai
IMMUNITÀ DEGLI STATI DALLA GIURISDIZIONE CIVILE ECC.
547
l’eccezione di immunità giurisdizionale sollevata dalla parte convenuta non ha
trovato accoglimento, avendo sostenuto i giudici aditi che il trattamento inflitto
ai ricorrenti o alle vittime con le quali alcuni dei ricorrenti stessi erano imparentati fosse espressivo di una violazione di norme internazionali cogenti e che
in conseguenza di ciò la Germania avesse implicitamente rinunciato alla propria
immunità o non potesse comunque invocarla.
Il vero nodo da sciogliere consiste nel capire fino a che punto si stia spingendo questa tendenza, se essa abbia già assunto il valore di una vera e propria
norma consuetudinaria o se al riguardo sia ancora in atto uno sviluppo progressivo del diritto internazionale, già allo stadio avanzato o ancora soltanto embrionale, e ciò anche per superare l’ostacolo costituito in verità dall’assai scarso
numero di Stati nei quali la Convenzione del 1972 è in vigore (tra di essi non
figura neanche l’Italia) (46) e dal valore meramente interlocutorio e non vincolante del progetto di articoli del 1991, attualmente confluito in un testo convenzionale, quale è l’Accordo del 2004, privo di qualsivoglia efficacia in quanto
ancora aperto alla firma degli Stati e ratificato finora dalla sola Norvegia (47).
La Cassazione italiana non sembra aver espresso una posizione netta in favore
della prima ipotesi, essendosi limitata, come visto, a riscontrare una evoluzione
della prassi nel senso sopra prospettato; è quindi alla prassi che occorre far riferimento per tentare di comprendere quanto questa evoluzione sia marcata, così
da poter verificare se sia corretto parlare al riguardo di una norma di diritto internazionale generale ormai formatasi oppure se un risultato del genere sia allo
stato attuale ancora lontano. Orbene, le vicende alle quali ci si è appena riferiti,
nonostante il tenore delle decisioni cui hanno inizialmente dato luogo, non possono indurre a far ritenere che nelle questioni connesse alla violazione dei diritti
umani fondamentali il superamento della distinzione tra atti espressivi di pub––––––––––––
difficili e senza ricevere alcun compenso, presso le officine della Akkufabrike (oggi
Varta) di Hannover, impresa produttrice di motori per navi e sottomarini da guerra.
(46) La Convenzione di Basilea è stata infatti ratificata da Austria (10 luglio 1974),
Belgio (27 ottobre 1975), Cipro (10 marzo 1976), Germania (15 maggio 1990), Lussemburgo (11 dicembre 1986), Paesi Bassi (21 febbraio 1985), Regno Unito (3 luglio 1979) e
Svizzera (6 luglio 1982), mentre il Protocollo addizionale è stato ratificato da questi stessi Stati (nelle medesime date rispettivamente indicate) a eccezione della Germania (che
l’ha peraltro firmato il 16 maggio 1972) e del Regno Unito; Convenzione e Protocollo
sono stati inoltre firmati dal Portogallo il 10 maggio 1979, ma a tale firma non ha fatto
seguito alcuna ratifica formale.
(47) La Convenzione di New York del 2004 risulta a tutt’oggi essere stata firmata:
il 17 gennaio 2005 da Austria e Marocco; il 25 febbraio 2005 dal Portogallo; il 22 aprile
2005 dal Belgio; l’8 luglio 2005 dalla Norvegia; il 14 settembre 2005 da Cina, Finlandia,
Romania e Svezia; il 15 settembre 2005 da Madagascar e Slovacchia; il 16 settembre
2005 da Islanda, Paraguay e Timor Est; il 21 settembre 2005 dal Senegal; il 30 settembre
2005 dal Regno Unito; l’11 novembre 2005 dal Libano; il 30 marzo 2006 dall’Estonia.
La Norvegia ha depositato il proprio strumento di ratifica il 27 marzo 2006.
548
RIVISTA DI DIRITTO PROCESSUALE
bliche funzioni e atti negoziali iure privatorum sia un principio ormai pienamente affermato, ma solamente che il principio medesimo è in via di iniziale
affermazione.
Con la sentenza 1° luglio 1994, la Court of Appeals for the District of Columbia Circuit, occupandosi nuovamente del caso Princz v. Federal Republic of
Germany, ha infatti ribaltato il giudizio di primo grado e ha accordato l’immunità alla Germania, dimostrando tra l’altro l’inconsistenza logica dell’argomento secondo il quale l’adesione ad accordi miranti a garantire protezione ai diritti
umani fondamentali comporti una rinuncia implicita all’immunità qualora uno
Stato parte si renda esso stesso responsabile della violazione dei medesimi diritti (48). Per quanto riguarda ciò che è stato asserito dalla Cassazione greca,
bisogna rilevare come la procedura esecutiva intrapresa dai ricorrenti vincitori
nel merito, avviata ugualmente nonostante fosse stata negata la prescritta preventiva autorizzazione del Ministro della Giustizia, sia stata prima sospesa e in
seguito, dopo alterne prese di posizione, definitivamente bloccata (49). Il 17
––––––––––––
(48) In International Legal Reports 1996, 604 ss. Cfr. però l’opinione dissidente del
Circuit Judge Wald, il quale ribadisce che « Germany waived its sovereign immunity by
violating the jus cogens norms of international law concerning enslavement and genocide. A jus cogens norm, also known as a “peremptory norm” of international law, “is a
norm accepted and recognized by the international community of States as a whole as a
norm from which no derogation is permitted and which can be modified only by a subsequent norm of general international law having the same character” ». Per una più approfondita disamina in merito alla portata della sentenza Princz del 1994 si rinvia ai contributi offerti dagli Autori già citati in precedenza alla nt. 43.
(49) L’espropriazione immobiliare, che aveva inizialmente determinato il pignoramento della sede del Goethe-Institut ad Atene (e che era stato ipotizzato potesse essere
esperita anche nei confronti delle Deutsche Schulen di Atene e Salonicco nonché
dell’Istituto archeologico tedesco situato nella stessa capitale greca), venne infatti interrotta dal Tribunale di prima istanza di Atene (sentenza 19 settembre 2000, n. 8206) in
seguito alla presentazione di un atto di opposizione da parte della Germania motivato
dalla mancanza dell’autorizzazione governativa prevista dall’art. 923 del Codice di procedura civile greco, anche se poi lo stesso Tribunale, con sentenze 10 luglio 2001, nn.
3666 e 3667, ritenne che l’art. 923 fosse contrario all’art. 6, par. 1 della Convenzione
europea dei diritti dell’uomo e all’art. 2, par. 3 del Patto internazionale relativo ai diritti
civili e politici del 1966, e rigettò quindi l’opposizione suddetta. Una seconda sospensione venne decisa il 18 luglio 2001 su richiesta dello Stato tedesco, che nel frattempo aveva
impugnato la decisione del Tribunale di prima istanza a esso sfavorevole. Con sentenze
14 settembre 2001, nn. 4867 e 4868, la Corte d’Appello (Εφετείο) di Atene riformò il
giudizio di primo grado, confermando l’opposizione formulata dalla Germania, e rilevò
che l’art. 923 assolveva al fine generale di evitare le controversie tra Stati e di favorire le
relazioni internazionali e che l’autorizzazione ministeriale non inficiava il diritto a una
protezione effettiva. La pronuncia dell’Εφετείο è stata infine definitivamente confermata
dalla Corte Suprema di Cassazione con le sentenze 28 giugno 2002, nn. 36 e 37 (cfr.
Ronzitti, Compensation for Violations, cit., 41; Vournas, Prefecture of Voiotia v. Federal
IMMUNITÀ DEGLI STATI DALLA GIURISDIZIONE CIVILE ECC.
549
settembre 2002 si è giunti inoltre a una pronuncia, adottata a maggioranza di sei
giudici contro cinque dalla Corte Suprema Speciale di Grecia, adita dalla Corte
di Cassazione affinché risolvesse una controversia simile a quella relativa al
massacro di Distomo e instaurata contro la Repubblica federale di Germania da
un individuo i cui beni erano stati immotivatamente distrutti dalle truppe tedesche durante la Seconda Guerra Mondiale, nella quale, modificando il principio
a suo tempo sostenuto dal Tribunale di Livadia e dall’Άρειος Πάγος nella causa
Prefettura di Voiotia, si è dichiarato che la Germania dovesse godere dell’immunità dalla giurisdizione senza limitazioni o eccezioni e che di conseguenza
tale Stato non potesse essere convenuto in giudizio dinanzi a tribunali greci per
rispondere civilmente di infrazioni connesse all’esercizio dei suoi poteri sovrani, non essendosi ancora formata una norma di diritto internazionale consuetudinario che escluda determinati atti dall’immunità riconosciuta agli Stati (50). A ciò si aggiunga che una analoga azione di risarcimento danni promossa dai parenti delle vittime di Distomo dinanzi ai giudici tedeschi non è stata
accolta, essendo stata respinta sia dall’Oberlandesgerichtshof di Colonia sia dal
––––––––––––
Republic of Germany: Sovereign Immunity and the Exception of Jus Cogens Violations,
in New York Law School Journal of International and Comparative Law 2002, 629 ss.;
Gattini, To What Extent, cit., 360 ss.; e Handl, Introductory Note to the German Supreme
Court: Judgment in the Distomo Massacre Case, in International Legal Materials 2003,
1027 s.). Il ricorso conseguentemente presentato dai parenti delle vittime dell’eccidio di
Distomo dinanzi alla Corte europea dei diritti dell’uomo, tramite il quale si lamentava
l’avvenuta violazione dell’art. 6, par. 1 della Convenzione di Roma del 1950 e dell’art. 1
del Protocollo addizionale a essa allegato (adottato a Parigi il 20 marzo 1952), è stato
inoltre dichiarato irricevibile (ordinanza 12 dicembre 2002, Kalogeropoulou ed altri c.
Germania e Grecia, in Conseil de l’Europe, Recueil des arrêts et décisions de la Cour
européenne des droits de l’homme, Strasbourg 2002-X; su di essa v. Bartsch-Elberling,
Jus Cogens vs. State Immunity, Round Two: The Decision of the European Court of Human Rights in the Kalogeropoulou et al. v. Greece and Germany Case, in German Law
Journal 2003, 248 ss.; Gattini, To What Extent, cit., 361 s.; e Gianelli, Crimini internazionali ed immunità degli Stati, cit., 657 s.).
(50) Si tratta della sentenza resa dall’Ανώτατο Ειδικό ∆ικαστήριο, adito ai sensi
dell’art. 100, lett. f) della Costituzione greca, nella causa Repubblica federale di Germania c. Margellos (sulla quale cfr. Ronzitti, Compensation for Violations, cit., 41 s.; Gattini, To What Extent, cit., 360 s.; Id., War Crimes, cit., 225; Panezi, Sovereign Immunity
and Violations of Jus Cogens, in Revue hellénique de droit internatonal 2003, 200 ss.;
Gianelli, Crimini internazionali ed immunità degli Stati, cit., 658). Anche la decisione
emanata dall’Άρειος Πάγος nel 2000 era stata adottata a maggioranza: nelle loro opinioni
dissidenti, il Presidente della Corte e altri tre giudici avevano anzi affermato che lo Stato
straniero deve beneficiare dell’immunità in merito a qualsiasi rivendicazione risultante da
una situazione di conflitto armato e che la violazione dello ius cogens non comporta cessazione dell’immunità stessa.
550
RIVISTA DI DIRITTO PROCESSUALE
Bundesgerichtshof, quest’ultimo con sentenza emessa il 26 giugno 2003 (51).
Quanto alla vicenda francese, il 9 settembre 2002 la Corte d’Appello di Parigi
ha riformato la decisione adottata dal Conseil de prud’hommes di Fontainebleau
asserendo che l’arresto, la deportazione e la sottoposizione a lavoro forzato del
soggetto leso, attuati dalla Potenza occupante con funzione strumentale ai propri disegni offensivi, andavano inquadrati nell’ambito di operazioni svolte dallo
Stato tedesco nell’esercizio di una sua potestà pubblica, per cui i detti comportamenti, per quanto gravi, non sono stati ritenuti tali da poter vanificare il principio dell’esenzione dello Stato straniero dalla giurisdizione civile (52).
Stando ai dati forniti dalla pertinente giurisprudenza straniera ed emersi in
seguito alla rapida ricognizione appena effettuata, è dunque alquanto azzardato
e prematuro sostenere che uno Stato estero responsabile di aver compiuto crimini internazionali nell’ambito di comportamenti riconducibili a una manifestazione del suo potere di imperio, sia senz’altro assoggettabile alla giurisdizione
civile di un altro Stato relativamente a cause di risarcimento collegate ai comportamenti suddetti, essendosi formata al riguardo una apposita norma consuetudinaria che non permette di beneficiare in questi casi della tradizionale immunità della quale altrimenti lo Stato straniero sarebbe ammesso a godere. Alla
luce però degli stessi elementi forniti dalla prassi (internazionale e interna, recente e meno recente), neanche può più ritenersi pacifica e assolutamente acquisita la tesi contraria, in virtù della quale nelle medesime fattispecie appena
indicate uno Stato straniero deve essere di sicuro considerato immune dalla giurisdizione civile. Si va anzi sempre più evidenziando una corrente di pensiero
propensa a escludere che Stati responsabili di gravi e significative violazioni dei
diritti dell’uomo possano opporre il funzionamento del principio dell’immunità
in loro favore, specialmente allorquando essi vengano convenuti in giudizio per
cause aventi ad oggetto il risarcimento dei danni subiti da persone fisiche nel
territorio dello Stato del foro (53).
––––––––––––
(51) Pubblicata in International Legal Materials 2003, 1030 ss. V. in merito Bianchi, L’immunité des Etats, cit., 78 s.; Gianelli, Crimini internazionali ed immunità degli
Stati, cit., 658 s.; Pittrof, Compensation Claims for Human Rights Breaches Committed
by German Armed Forces Abroad during the Second World War: Federal Court of Justice Hands Down Decision in the Distomo Case, in German Law Journal 2004, 15 ss.
(52) Si consideri inoltre che il 18 maggio 2001 il Conseil de prud’hommes di Parigi
si era dichiarato incompetente a esaminare un caso relativo a tre ex lavoratori forzati e
analogo a quello del Sig. Bucheron, ritenendo sussistente l’immunità in favore della
Germania e aggiungendo comunque che i fatti dovevano ritenersi ormai prescritti e che
l’assenza di un contratto determinava l’impossibilità di sottoporre la questione alla magistratura del lavoro.
(53) Baratta, L’esercizio della giurisdizione civile sullo Stato straniero, cit., 1202,
sottolinea anzi come parte della dottrina condivida l’ipotesi secondo la quale non possa
negarsi la giurisdizione nel caso in cui « (…) lo Stato estero sia convenuto in giudizio per
accertare le conseguenze civilistiche della violazione di norme di ius cogens e in parti-
IMMUNITÀ DEGLI STATI DALLA GIURISDIZIONE CIVILE ECC.
551
Se infatti il contenzioso poc’anzi segnalato impone pur sempre all’interprete una estrema cautela, diverse circostanze inducono al tempo stesso a ritenere che si sia comunque in presenza, e questo le vicende citate sembrano confermarlo, di una incontestabile e progressiva affermazione, nell’ordinamento
internazionale e negli ordinamenti interni, della rilevanza del criterio basato
sulla natura dell’atto lesivo nelle controversie aventi a oggetto pretese di risarcimento del danno fondate su illeciti nel cui compimento siano coinvolti altri
Stati. Si va se non altro insinuando il dubbio che la suddetta immunità debba
essere negata in presenza di azioni qualificabili come crimini internazionali, in
base all’evoluzione in precedenza ampiamente riferita e in ossequio al valore
cogente delle rispettive norme proibitive, perlomeno quando la dinamica di
svolgimento di queste azioni sia tale, per sistematicità, continuità e gravità, da
integrare i requisiti della gross violation e qualora le azioni stesse, che toccano
la coscienza di tutta l’umanità, siano integralmente realizzate o siano anche solo
intraprese nel territorio dello Stato in cui il giudizio viene instaurato. Ne è chiaro sentore il fatto che le pronunce della Corte europea dei diritti dell’uomo e
degli organi giurisdizionali interni fin qui menzionate sono state il più delle
volte rese a maggioranza di pochi voti e anche di un solo voto, rinvenendosi
nelle varie opinioni dissidenti a esse allegate manifestazioni di pensiero e argomentazioni a sostegno sia del riconoscimento sia della negazione dell’immunità
nei singoli casi di specie; che ordinamenti in passato favorevoli all’immunità
assoluta e ormai da vari anni fautori dell’immunità ristretta o relativa, come
quelli di derivazione anglosassone, ammettano la competenza giurisdizionale
dei propri giudici interni nelle ipotesi di controversie riguardanti il risarcimento
dei danni prodottisi in seguito ad atti illeciti compiuti nel territorio dello Stato
del foro e riconducibili a uno Stato straniero; e che un ordinamento come quello
statunitense, anch’esso tenace assertore dell’immunità assoluta fino a un recente
passato, manifesti a livello normativo, come rilevato dalla Suprema Corte « un
––––––––––––
colare di violazioni gravi dei diritti umani »: il riferimento è a Conforti, Diritto internazionale, cit., 253 e a Cassese, Diritto internazionale, cit., 125 s. (supra, nt. 37). In senso
analogo si esprimono anche Bianchi, Denying State Immunity to Violators of Human
Rights, in Austrian Journal of Public International Law 1994, 195 ss. e Iovane, The Ferrini Judgment, cit., 180 ss. Secondo quest’ultimo Autore (op. cit., 180) « (…) it is possibile to affirm that (…) the application of an innovative solution does not amount to the
commission of an internationally wrongful act especially if the departure from current
law is justified by the vindication of a universally recognised principle, such as the protection against gross violations of human rights »; egli inoltre (op. cit., 181), dopo aver
ribadito che « (…) the denial of sovereign immunity is not per se illegitimate when the
State is accused of gross violations of human rights. (…) », aggiunge che « Under this
status of the current practice, a denial of jurisdictional immunity would not be unlawful
on the sole condition that the violation of fundamental human rights by the foreign State
is notorious and has been well established ».
552
RIVISTA DI DIRITTO PROCESSUALE
rilievo prioritario (…), in presenza di attività delittuose di particolare gravità,
(…) ormai attribuito alla tutela dei diritti fondamentali della persona umana rispetto alla protezione dell’interesse dello Stato al riconoscimento della propria
immunità dalla giurisdizione straniera » (54), dato quest’ultimo costantemente
confermato a livello giurisprudenziale, al contrario di quanto accadeva solo pochi anni fa (55).
La decisione della Cassazione qui considerata si colloca pertanto a pieno
titolo nel trend evolutivo finora delineato. Nonostante sia d’obbligo mantenere
una valutazione più che prudente in merito ai futuri sviluppi che la situazione
controversa potrà esprimere, il dispositivo di tale sentenza è certamente da approvare e si spera possa produrre un risultato concreto. Ammettendo la giurisdizione civile nei confronti di uno Stato straniero con riguardo a una condotta iure
imperii particolarmente grave esplicatasi almeno in parte sul territorio nazionale, essa si configura per l’appunto quale ulteriore e coraggioso contributo alla
protezione dell’individuo vittima di gravi violazioni dei propri diritti fondamentali, in grado di incidere positivamente sul rafforzamento e lo sviluppo di
tendenze alla progressiva erosione del principio dell’immunità già in atto
nell’ambito della Comunità internazionale. Nei fatti posti alla base della vicen––––––––––––
(54) Cfr. quanto disposto dall’art. 226 dell’Anti-Terrorism and Effective Death Penalty Act del 3 gennaio 1996, ai sensi del quale, ai classici casi di esclusione
dell’immunità dalla giurisdizione degli Stati stranieri di cui all’art. 1605 del Foreign Sovereign Immunities Act del 1976, viene aggiunta l’ipotesi concernente le pretese volte a
ottenere il risarcimento dei danni subiti a causa di morte o lesioni personali derivanti da
tortura, assassinio, sabotaggio di aereo e presa di ostaggi, ipotesi questa per la verità ritenuta applicabile solo agli Stati esteri ritenuti sponsor del terrorismo. In senso critico sul
punto, v. Conforti, Diritto internazionale, cit., 253 e Sico, Sull’immunità dalla giurisdizione italiana, cit., 512; sull’Anti-Terrorism and Effective Death Penalty Act si rinvia a
Leigh, 1996 Amendments to the Foreign Sovereign Immunities Act with Respect to Terrorist Activities, in American Journal of International Law 1997, 187 nonché ai cenni fatti
da Ciampi, Crimini internazionali, cit., 2666, da Gianelli, Crimini internazionali ed immunità degli Stati, cit., 650 ss., da Bianchi, Ferrini v. Federal Republic of Germany, cit.,
244 e da De Sena-De Vittor (Immunità degli Stati dalla giurisdizione, cit., 260; State Immunity and Human Rights, cit., 103).
(55) V., in senso contrario a quanto la giurisprudenza statunitense ha asserito in
passato (supra, nt. 21), le sentenze emesse dalla District Court for the Southern District
of Florida il 17 dicembre 1997 (Alejandre v. Republic of Cuba) e dalla District Court for
the District of Columbia l’11 marzo 1998 (Flatow v. Islamic Republic of Iran), il 27 agosto 1998 (Cicippio v. Islamic Republic of Iran), il 24 marzo 2000 (Anderson v. Islamic
Republic of Iran), l’11 luglio 2000 (Eisenfeld v. Islamic Republic of Iran), il 21 settembre
2000 (Higgins v. Islamic Republic of Iran), il 25 giugno 2001 (Sutherland v. Islamic Republic of Iran), il 23 agosto 2001 (Polhill v. Islamic Republic of Iran), il 19 settembre
2001 (Mousa v. Islamic Republic of Iran), il 9 ottobre 2001 (Jenco v. Islamic Republic of
Iran), il 6 novembre 2001 (Wagner v. Islamic Republic of Iran) e il 5 dicembre 2001
(Daliberti v. Republic of Iraq).
IMMUNITÀ DEGLI STATI DALLA GIURISDIZIONE CIVILE ECC.
553
da oggetto della sentenza in commento, il requisito della gravità delle violazioni
perpetrate assume oltretutto contorni più che evidenti: deportazione e lavoro
forzato si sono rivelati, tra il 1939 e il 1945, elementi di una precisa strategia
perseguita dal regime nazista con sistematicità e determinazione in patria e nei
territori occupati, sia a danno di civili, tra i quali moltissimi oppositori politici
ma anche semplici cittadini abitanti nelle zone poste sotto occupazione, sia a
danno di prigionieri di guerra, per sostenere l’economia e la produzione bellica
tedesche (56). Il principio derogatorio enunciato dal Supremo Collegio appare
poi maggiormente apprezzabile in considerazione del rischio che le richieste di
risarcimento dei danni patiti in conseguenza di gross violations possano venire
regolarmente respinte quando inoltrate dinanzi a organi dello Stato responsabile, rischio questo che per moltissimi internati italiani superstiti e loro aventi
causa si è trasformato in realtà, visti gli assai numerosi dinieghi opposti dalle
autorità tedesche, in sede tanto amministrativa quanto giurisdizionale, rispetto
alle istanze risarcitorie da essi presentate. Tutte le volte in cui, in questi casi di
particolare gravità, i tribunali dello Stato sul cui territorio si sono prodotti l’atto
o l’omissione denunciati negano la propria competenza giurisdizionale rifiutando l’accesso ai soggetti lesi, le possibilità reali che questi ultimi rimangano privi
di un adeguato risarcimento per i danni subiti aumentano considerevolmente:
non v’è infatti alcuna certezza, come dimostrato dai fatti, che i soggetti stessi
possano ottenere soddisfazione presso l’autorità amministrativa o i giudici dello
Stato estero responsabile dell’illecito, essendo anzi verosimile il contrario, dato
il presumibile rischio di difetto di imparzialità dovuto a un evidente coinvolgimento diretto nell’episodio criminoso lamentato dell’apparato statale del quale
l’amministrazione e i giudici stessi sono espressione (57).
––––––––––––
(56) Come constatato dal Tribunale militare internazionale di Norimberga nella
sentenza emanata il 1° ottobre 1946, « (…) the German occupation authorities did succeed in forcing many of the inhabitants of the occupied territories to work for the German war effort, and in deporting at least 5.000.000 persons to Germany to serve German
industry and agriculture. (…) In all the occupied territories compulsory labour service
was promptly instituted. Inhabitants of the occupied countries were conscripted and
compelled to work in local occupations, to assist the German war economy. (…) As local
supplies of raw materials and local industrial capacity became inadequate to meet the
German requirements, the system of deporting labourers to Germany was put into force.
By the middle of April, 1940, compulsory deportation of labourers to Germany had been
ordered in the Government General; and a similar procedure was followed in other eastern territories as they were occupied. (…) ». Cfr. Fried, Transfer of Civilian Manpower
from Occupied Territory, in American Journal of International Law 1946, 312 ss.
(57) E infatti secondo Baratta, L’esercizio della giurisdizione civile sullo Stato
straniero, cit., 1204, nella sentenza n. 5044 del 2004 « (…) la Suprema Corte avrebbe
potuto chiarire che nell’ordinamento tedesco non esistono i presupposti per consentire
un’adeguata ed efficace tutela giurisdizionale della posizione giuridica soggettiva
dell’attore; invero, la giurisprudenza tedesca respinge le azioni individuali risarcitorie per
554
RIVISTA DI DIRITTO PROCESSUALE
Due questioni, assolutamente determinanti per il buon esito della vicenda
processuale da noi considerata, restano peraltro pur sempre insolute: il diritto
della vittima al risarcimento dei danni patrimoniali e non patrimoniali subiti, la
sussistenza del quale deve essere valutata dal giudice di merito; e l’esecuzione
dell’eventuale sentenza di condanna della Repubblica federale di Germania in
caso di inadempimento spontaneo da parte di quest’ultima. Di tali aspetti non si
occupa ovviamente e giustamente la pronuncia in commento, essendo stata essa
emanata nell’ambito di un regolamento di giurisdizione.
Quanto al primo punto, occorre innanzitutto rilevare come sussista un problema di fondo, rappresentato dalla difficoltà di ricostruire nell’ordinamento
internazionale un diritto dell’individuo al risarcimento dei danni subiti in seguito alla violazione di obblighi posti da norme consuetudinarie di tutela dei
diritti fondamentali, nei confronti dello Stato autore dell’illecito: si tratta di un
diritto previsto in alcuni sistemi convenzionali di tutela dei diritti fondamentali
dell’uomo, ma la cui esistenza è dubbia nel diritto internazionale umanitario e
controversa nel diritto internazionale consuetudinario (58). Poiché la Cassazione ha affermato nel caso di specie che le norme internazionali generali « (…)
che configurano come “crimini internazionali” i comportamenti che più gravemente attentano (…) » alla libertà e alla dignità della persona umana sono parte
integrante del nostro ordinamento in virtù dell’art. 10, comma 1° Cost., e sono
perciò « (…) pienamente idonee ad assumere il ruolo di parametro dell’ingiustizia del danno causato da un “fatto” doloso o colposo altrui », e poiché nel
sostenere questo la Suprema Corte fa in realtà riferimento ai crimini di individui
ricollegando la titolarità del diritto dell’individuo alla qualifica negativa attribuita alla condotta dal diritto internazionale senza che rilevi il contenuto della
norma internazionale alla quale il nostro ordinamento si adatta, vi è chi, interpretando il senso dell’affermazione appena riportata, ha ritenuto di poter scorgere il fondamento del diritto al risarcimento nell’art. 2043 c.c. in combinato
disposto con la norma di adattamento che qualifica come crimine l’attività
dell’individuo e non con la norma di adattamento a una regola internazionale
––––––––––––
crimini di guerra commessi nel secondo conflitto mondiale. Con questa motivazione il
rigetto dell’immunità dalla giurisdizione sarebbe apparso più rispondente ai valori di
fondo dell’ordinamento internazionale e alla regola del previo esaurimento dei ricorsi
interni ». Lo stesso Autore (op. cit., 1203) configura il previo esaurimento dei ricorsi interni « (…) quale vera e propria precondizione per l’esercizio della giurisdizione civile
nei confronti di uno Stato straniero la cui immunità sia in questione ». Qualora
l’individuo non dovesse disporre di un rimedio giurisdizionale effettivo e adeguato
nell’ordinamento di tale Stato, con un procedimento tale da garantire imparzialità e indipendenza del giudice soprattutto dal potere esecutivo, « (…) la regola dell’immunità verrebbe a cadere e il giudice territoriale potrebbe far “rivivere” la propria giurisdizione ».
(58) Cfr. al riguardo Gianelli, Crimini internazionali ed immunità degli Stati, cit.,
678 s., nonché la dottrina dalla stessa riportata alle nt. 144, 145, 146 e 147.
IMMUNITÀ DEGLI STATI DALLA GIURISDIZIONE CIVILE ECC.
555
che preveda il risarcimento del danno, definendo tale ratio applicabile anche
alle condotte di Stati. Le norme internazionali consuetudinarie assumerebbero
quindi rilievo solo come elemento integratore dell’illecito extracontrattuale e
non come titolo autonomo al risarcimento (59). Con l’espressione « diritto » al
risarcimento non si intenderebbe inoltre una vera e propria situazione giuridica
soggettiva di diritto internazionale, non pienamente configurabile in presenza di
una prassi giurisprudenziale che ha ammesso solo occasionalmente la deroga
all’immunità, bensì una situazione che diventa tutelata come diritto solo nell’ordinamento interno in seguito all’adempimento dell’obbligo internazionale da
parte dello Stato; il diritto azionabile sul piano interno deriverebbe pertanto da
una norma internazionale generale recante un obbligo per lo Stato autore
dell’illecito di fornire la riparazione agli individui, semplici beneficiari del diritto medesimo (60).
La portata innovativa e il concreto esito della sentenza rischiano inoltre di
essere oggettivamente ridimensionati da un altro problema rilevante: quello
dell’esecuzione del provvedimento. Si profila al riguardo la questione dell’immunità dello Stato straniero dalla giurisdizione esecutiva, sulla quale la Cassazione non si pronuncia neanche in via incidentale; questione non di poco conto
in quanto, come si è avuto modo di notare citando il caso Prefettura di Voiotia (61), non è escluso che uno Stato, anche se condannato in primo grado, possa nuovamente invocare e ottenere l’immunità in sede di esecuzione. L’immunità degli Stati esteri dalla giurisdizione esecutiva dello Stato del foro assume anch’essa un carattere ristretto o relativo, similmente a quanto accade per la
giurisdizione di cognizione, concernendo i soli beni destinati all’espletamento
di una pubblica funzione e non anche i beni detenuti da uno Stato a titolo privato (62). Ciò non significa peraltro che l’immunità dall’esecuzione rappresenti
una semplice appendice dell’immunità dalla cognizione; si tratta al contrario di
regole tra loro autonome ed evolutesi in maniera differenziata nel corso del
tempo. Da un lato, vi è dunque chi ha ritenuto che se anche il procedimento di
primo grado riapertosi per effetto del rinvio operato dalla Cassazione si concludesse positivamente per l’attore e costui si vedesse costretto a far eseguire coattivamente la sentenza, si dovrebbe comunque applicare la regola dell’immunità
––––––––––––
(59) Così Gianelli, Crimini internazionali ed immunità degli Stati, cit., 677 s. V.
inoltre De Sena-De Vittor, Immunità degli Stati dalla giurisdizione, cit., 265, nt. 91; Id.,
State Immunity and Human Rights, cit., 111, nt. 89.
(60) Gianelli, Crimini internazionali ed immunità degli Stati, cit., 679 ss.
(61) V. supra, nt. 49.
(62) Cfr. in proposito quanto già previsto dall’art. 18 del progetto di articoli della
Commissione di diritto internazionale delle Nazioni Unite del 1991 sull’immunità giurisdizionale degli Stati e dei loro beni (Kessedjian-Schreuer, Le projet d’articles, cit., 326
ss.), confermato oggi dall’art. 19 della Convenzione di New York del 2004 sull’immunità
giurisdizionale degli Stati e dei loro beni (Foakes-Wilmshurst, State Immunity, cit., 7).
556
RIVISTA DI DIRITTO PROCESSUALE
ristretta per cui sarebbero aggredibili solamente i beni dello Stato tedesco non
destinati a una pubblica funzione (63); dall’altro, vi è chi ha sostenuto che l’argomento basato sulla superiorità gerarchica della norma imperativa e sull’esigenza di assicurare adeguata tutela agli interessi da quella norma protetti potrebbe trovare applicazione anche in sede di esecuzione dell’eventuale sentenza
di condanna, per quanto riguarda i beni destinati a pubblica funzione (64).
Non resta quindi che attendere la fine del processo di merito riassunto dinanzi al Tribunale di Arezzo e auspicare che il giudice adito accolga le giuste
richieste formulate dall’istante, liquidando in suo favore un congruo, seppur tardivo, indennizzo per la prigionia subita. Un simile esito, unito al fruttuoso esperimento della conseguente fase esecutiva, avrebbe un significato non limitabile
al caso singolo e neppure alla sola categoria degli ex internati: sarebbe un importante segnale di civiltà, prima ancora che di giustizia, e gli effetti positivi che
ne deriverebbero andrebbero sicuramente a ripercuotersi ben oltre i confini del
nostro Paese.
PIERLUIGI SIMONE
Ricercatore
nell’Università degli Studi di Roma « Tor Vergata »
––––––––––––
(63) Ciampi, Crimini internazionali, cit., 2670.
(64) Gianelli, Crimini internazionali ed immunità degli Stati, cit., 683.
L’ESTINZIONE DEL PROCESSO SOCIETARIO
SOMMARIO: 1. Premessa. – 2. I termini di costituzione delle parti … – 3. … e gli
effetti della loro violazione: i diversi orientamenti emersi in dottrina. Critica e conclusioni: la mancata o tardiva costituzione di tutte le parti implica,
salvo casi eccezionali, l’estinzione del processo. – 4. Segue. Le attività
processuali successive alla tardiva costituzione in giudizio di almeno una
delle parti. – 5. Il processo contumaciale. In particolare: i problemi connessi alla decorrenza del termine di costituzione dell’attore nelle cause con
pluralità di convenuti. – 6. Segue. La tardiva costituzione dell’attore determina l’estinzione del processo. – 7. Segue. Il contenuto e la notificazione dell’istanza di fissazione dell’udienza. – 8. Segue. Il termine finale per
il deposito dell’istanza di fissazione di udienza e le conseguenze della sua
violazione. – 9. Segue. Considerazioni conclusive sul rapporto fra contumacia ed estinzione nel nuovo processo societario. – 10. I termini per la
notificazione dell’istanza di fissazione di udienza … – 11. … e gli effetti
della loro violazione. – 12. Le conseguenze del mancato o tardivo deposito
dell’istanza di fissazione di udienza. – 13. Conclusioni.
1. – Con il d.lgs. 17 gennaio 2003, n. 5, è stato introdotto, com’è noto, un
procedimento speciale a cognizione piena ed esauriente riservato alla definizione delle controversie relative a rapporti societari e di intermediazione mobiliare,
nonché in materia bancaria e di credito per le opere pubbliche.
Il nuovo rito presenta una struttura che differisce radicalmente da quella
dei tradizionali modelli processuali rinvenibili sia nel nostro c.p.c. sia nelle numerose leggi speciali in materia di contenzioso civile promulgate a partire dal
1940. Esso, infatti, sulla falsariga del procedimento formale previsto dal codice
di procedura civile del 1865 (1), consta di due fasi: la prima, che si svolge per
––––––––––––
(1) Il vecchio c.p.c., invero, prevedeva due procedimenti a cognizione piena: il
formale (artt. 158 ss. c.p.c. del 1865) e il sommario (artt. 389-392 c.p.c. del 1865). Il
primo, che rappresentava la regola, cominciava con una citazione a rispondere, proseguiva con lo scambio di comparse (che ciascuna parte poteva in qualsiasi momento
interrompere chiedendo che la causa fosse portata dinanzi al collegio per essere decisa)
e implicava l’espletamento dell’istruttoria al di fuori dell’udienza, dinanzi ad un giudice delegato; il secondo, che avrebbe dovuto essere utilizzato soltanto nei casi stabiliti
dalla legge ovvero previa autorizzazione del presidente, si apriva con una citazione ad
558
RIVISTA DI DIRITTO PROCESSUALE
intero al di fuori dell’udienza, è sottratta al controllo del giudice, si snoda attraverso lo scambio di comparse fra le parti entro termini minimi prestabiliti ed è
tesa alla definizione del thema decidendum e del thema probandum oltre che
alla deduzione delle prove costituende e alla produzione dei documenti; la seconda, meramente eventuale, che si apre allorquando anche una sola delle parti
ne faccia richiesta depositando un’apposita istanza, è caratterizzata dal susseguirsi di udienze presiedute dal giudice che, all’esito dell’istruttoria, pronuncia
sentenza.
La riforma, invero, non ha incontrato il favore della dottrina, gran parte
della quale, sin dai primi commenti, si è mostrata molto critica nei confronti del
legislatore, reo di aver varato un « mini-codice di diritto processuale civile societario » (2) non soltanto ad alto sospetto di incostituzionalità (3), ma anche
––––––––––––
udienza fissa e si sviluppava per udienze. Allo scopo di soddisfare le esigenze degli
avvocati i quali manifestarono subito una chiara preferenza per il procedimento sommario (che, però, aveva il difetto di essere disciplinato da poche norme ad hoc), furono
emanati la legge 31 marzo 1901, n. 107, che ribaltò il rapporto tra il procedimento
formale e quello sommario facendo sì che il primo diventasse l’eccezione e il secondo
la regola, e il r.d. 31 agosto 1901, n. 413, opera di Lodovico Mortara, recante le disposizioni per l’attuazione e il coordinamento di quella legge. Per ulteriori ragguagli in
materia, si rinvia a Cipriani, Storie di processualisti e di oligarchi, Milano 1991, p. 13
ss.; Id., Nel centenario della riforma del procedimento sommario, in Rass. dir. civ.
2001, p. 526 ss.
(2) La definizione, non priva di qualche accento polemico, è di Consolo, Esercizi
imminenti sul c.p.c.: metodi asistematici e penombre, in Corr. giur. 2002, p. 1544.
(3) Nel senso che il legislatore, in violazione dell’art. 76 Cost., avrebbe ecceduto
i limiti della delega, v., infatti, Mandrioli, Diritto processuale civile, III, 17a ed., Torino 2005, p. 308; G. Costantino, Il nuovo processo commerciale: la cognizione ordinaria in primo grado, in questa Rivista 2003, p. 389 ss.; Consolo, Esercizi imminenti, cit.,
p. 1543 s.; Tommaseo, Lezioni sul processo societario, Roma 2005, p. 15 s.; Trisorio
Liuzzi, Il nuovo rito societario: il procedimento di primo grado davanti al tribunale, in
www.judicium.it, § 1; Graziosi, Sul nuovo rito societario a cognizione piena, in Riv.
trim. dir. e proc. civ. 2005, (suppl. al n. 1), p. 47 ss. Sulla scia di quanto rilevato dal
Csm nel Parere del 12 dicembre 2002 sullo schema di decreto delegato (pratica 68/02),
§ 1, che leggesi in Alpa-Galletto (a cura di), Processo, arbitrato e conciliazione nelle
controversie societarie, bancarie e del mercato finanziario, Milano 2004, p. 410 ss., vi
è stato pure chi ha osservato che, quand’anche tali dubbi di legittimità fossero superati,
ci si troverebbe comunque di fronte ad un palese caso di incostituzionalità della legge
delega per mancanza di specificità e determinatezza dei principi della delega medesima: in tal senso, v. Proto Pisani, La nuova disciplina del processo societario (note a
prima lettura), in Foro it. 2003, V, c. 12 s.; Punzi, Lineamenti del nuovo processo in
materia societaria - Il processo ordinario, in Riv. trim. dir. e proc. civ. 2004, p. 73 ss.;
Tarzia, Interrogativi sul nuovo processo societario, in questa Rivista 2003, p. 641 ss.;
Chiarloni, Il nuovo processo societario, (commentario diretto da), Bologna 2004, p. 2
L’ESTINZIONE DEL PROCESSO SOCIETARIO
559
tecnicamente imperfetto. Nello specifico, in relazione a quest’ultimo profilo,
numerosi studiosi hanno giustamente osservato che l’impianto del nuovo rito
presenta « un’enorme quantità di problemi interpretativi » (4) in virtù della
formulazione « tutt’altro che limpida ed univoca » (5) di diverse disposizioni
(per la cui comprensione si rendono necessari notevoli sforzi ermeneutici (6)) e
a causa della « esagerata utilizzazione di rinvii interni che rendono le singole
norme quasi mai autosufficienti » (7) perché necessariamente ed indissolubilmente connesse ad altre.
Uno degli snodi più complessi e oscuri del processo societario è indubitabilmente rappresentato dalla disciplina della mors litis (8). Il legislatore delegato, in ragione del particolare meccanismo che regola l’incedere della fase
preliminare del giudizio, si è visto costretto ad introdurre, con riferimento a
questo primo stadio procedimentale, alcune fattispecie estintive completamente
nuove rispetto a quelle contemplate dal c.p.c. È previsto, infatti, che, nel corso
di tale fase, il processo possa perimersi:
– se l’istanza di fissazione di udienza non sia notificata entro venti giorni
decorrenti dalla scadenza: a) dei termini mobili di cui ai primi tre commi
––––––––––––
ss.; Carratta, ibid., p. 21 ss., il quale ravvisa anche la violazione dell’art. 111, comma
2°, Cost.; Civinini, Il nuovo processo societario, in Quest. giust. 2003, p. 531 ss.
Si segnala che, poco dopo l’entrata in vigore del d.lgs. n. 5 del 2003, l’intero impianto del processo societario di primo grado (artt. 2-17) è stato rimesso alla Consulta,
per sospetta violazione degli artt. 3, 76, 97 e 111, commi 1° e 2°, Cost., da Trib. Brescia
18 ottobre 2004, in Società 2005, p. 85 ss., con nota di Senini. Sull’argomento, v. anche
l’approfondito commento di Menchini, Legittimità costituzionale del rito di cognizione
ordinario per le controversie societarie?, in Corr. giur. 2005, p. 301 ss.
(4) Così Chiarloni, op. cit., p. 9. Nello stesso senso, v., seppure sulla base di rilievi generici, Proto Pisani, op. cit., c. 12; Trisorio Liuzzi, op. cit., § 2; Buoncristiani,
Profili sistematici e problemi pratici del nuovo rito speciale societario, in
www.judicium.it, passim.
(5) Così Balena, Prime impressioni sulla riforma dei procedimenti in materia societaria. La fase introduttiva del processo di cognizione, in Giur. it. 2003, p. 2203.
Nello stesso senso, v. Chiarloni, op. cit., p. 9, il quale discorre di « redazione molto
difettosa ».
(6) In tal senso, v. Costantino, Le riforme della giustizia civile nella XIV legislatura, in questa Rivista 2005, p. 26 s.; Id., Il nuovo processo commerciale, cit., p. 431;
Consolo, Le prefigurabili inanità di alcuni nuovi riti commerciali, in Corr. giur. 2003,
p. 1507; M. Fabiani, La partecipazione del giudice al processo societario, in questa
Rivista 2004, p. 154; Ziino, Le nuove disposizioni sul processo societario (decreto legislativo 17 gennaio 2003, n. 5). Il giudizio di cognizione in primo grado, in
www.judicium.it, § 4.
(7) Così M. Fabiani, La partecipazione del giudice, cit., p. 154.
(8) Cfr., in tal senso, M. Fabiani, Le attività del giudice nel processo commerciale
di cognizione, in www.judicium.it, § 6.6; Id., La partecipazione del giudice, cit., p. 197.
560
RIVISTA DI DIRITTO PROCESSUALE
dell’art. 8; b) del termine stabilito dall’art. 7, comma 2°, per il deposito della
memoria di controreplica del convenuto; c) del termine massimo di cui all’art.
7, comma 3° (art. 8, comma 4°);
– se l’attore non si costituisca affatto ovvero si costituisca tardivamente e
il convenuto (tempestivamente costituito) formuli la relativa eccezione (art. 13,
comma 1°).
A tali ipotesi sembrerebbe che debbano esserne aggiunte delle altre, ricavate in via interpretativa da alcuni autori, secondo i quali il processo societario
si estingue anche se nessuna delle parti si costituisca in termini (art. 13, comma
3°) e se l’istanza di fissazione dell’udienza sia depositata oltre il termine perentorio di dieci giorni dall’ultima notificazione (art. 9, comma 3°).
Queste norme, sul cui funzionamento – ad oltre due anni dall’entrata in
vigore del decreto – dottrina e giurisprudenza continuano a discutere fornendo, come vedremo in séguito, le soluzioni più varie, assumono carattere di
specialità rispetto alla lex generalis della materia (offerta dagli artt. 306-310
c.p.c.), alla quale per taluni aspetti si affiancano integrandola, per talaltri si
sovrappongono modificandola: ne è derivata una disciplina quant’altre mai
disomogenea, astrusa ed articolata, fonte di non pochi e non semplici problemi interpretativi e dubbi applicativi che nelle pagine che seguono si tenterà di
risolvere.
2. – Le norme regolatrici dell’estinzione non trovano una sistemazione
unitaria e razionale all’interno del d.lgs. n. 5 del 2003 ma, al contrario, risultano
collocate, si direbbe, senza un preciso criterio e talora, sotto il profilo logico,
invertite. Non deve sorprendere, quindi, il fatto che per la trattazione del tema
prescelto esse saranno esaminate secondo l’ordine offerto dal naturale incedere
del processo, a prescindere dalla numerazione loro attribuita nel decreto delegato.
Tanto premesso, va detto che nel processo societario l’attore deve costituirsi entro dieci giorni dalla notificazione della domanda giudiziale, termine
che, in caso di pluralità di convenuti, decorre dall’ultima notificazione (art. 3).
Il convenuto, invece, deve costituirsi entro dieci giorni dalla notifica della
comparsa di risposta ovvero, nel caso in cui la citazione sia diretta nei confronti di più convenuti, dal sessantesimo giorno successivo all’iscrizione a
ruolo (art. 5, comma 1°). Tuttavia, qualora non debba depositare documenti
né spiegare domande riconvenzionali o chiamare terzi in causa (ma abbia comunque tempestivamente notificato la propria comparsa di risposta), egli potrà costituirsi « entro dieci giorni dalla notificazione dell’istanza di fissazione
dell’udienza a cui abbia provveduto altra parte » (art. 5, comma 2°), dovendo
intendersi per tale l’attore ovvero un altro convenuto che, ovviamente, si sia
tempestivamente costituito.
Se nessuna delle parti si costituisce nel termine a lei assegnato, a differenza di quanto stabilito in via generale dagli artt. 171, comma 1°, e 307, commi 1°
e 2°, c.p.c., che prevedono la necessità della riassunzione – a pena di estinzione
L’ESTINZIONE DEL PROCESSO SOCIETARIO
561
del giudizio – entro il termine di un anno, nel nuovo rito non si incorre, almeno
apparentemente, in alcuna sanzione, atteso che il decreto delegato si limita a
disporre che « l’istanza di fissazione dell’udienza può essere sempre proposta
dalla parte che si sia costituita » (art. 13, comma 3°).
Il legislatore, quindi, pur mantenendo inalterato il regime della incomunicabilità dei termini di costituzione delle parti sembrerebbe aver inteso attenuare
il rigore del meccanismo adottato nel 1950 per il caso della mancata costituzione bilaterale (9). Tuttavia, il dettato non propriamente impeccabile della dispo-
––––––––––––
(9) È forse opportuno ricordare che, sotto il vecchio c.p.c., se nessuna delle parti si
costituiva in termini, il procedimento non poteva essere proseguito e la citazione, cui
conseguiva, ex art. 380, comma 2°, c.p.c. del 1865, un semplice « effetto conservativo »
dei diritti vantati dall’attore, doveva rinnovarsi (in tal senso, v. Mattirolo, Trattato di diritto giudiziario civile italiano, III, 5a ed., Torino 1903, p. 773 ss.; Mortara, Principii di
procedura civile, 5a ed., Firenze 1904, p. 194; Bruno, voce Contumacia (civile), in Digesto it., VIII, 3, Torino 1898, p. 573).
Col c.p.c. del 1940 le cose mutarono profondamente. Il legislatore, infatti, stabilì
che alla mancata costituzione in termini di ambo le parti conseguisse l’estinzione officiosa del giudizio (artt. 171, comma 1°, e 307, comma 2°, c.p.c.) e che, invece, qualora una
delle parti si fosse costituita « nel termine assegnatole », l’altra poteva costituirsi, evitando la contumacia, sino alla prima udienza dinanzi al g.i. (art. 171, comma 2°, c.p.c.).
Quest’ultima disposizione, seppur dopo molte esitazioni, fu interpretata nel senso che
l’attore il quale non si fosse costituito nel termine di dieci giorni dalla notificazione della
citazione, ben avrebbe potuto evitare l’estinzione del processo costituendosi nel più ampio termine concesso al convenuto ex art. 166 c.p.c. (cfr. Cass. S.U. 14 giugno 1949, n.
1458, in Foro it. 1950, I, c. 303 ss., con nota di De Martini, Ancora sulla inosservanza
dei termini di costituzione nel giudizio d’appello, in Giur. it. 1949, I, 1, c. 713 ss., con
osservazioni di Barbareschi e in Giur. Cass. civ. 1949, III, p. 924 ss., con nota di Bianchi
d’Espinosa, Ancora sui termini di costituzione ed estinzione del processo; Cass. 11 ottobre 1946, n. 1312, in Giur. it. 1947, I, 1, c. 193 ss., con nota di Satta, Termini di costituzione ed estinzione del processo).
In sede di elaborazione della riforma al c.p.c., si pensò di codificare tale tendenza
giurisprudenziale (cfr. la Relazione del Guardasigilli Grassi al d.lgs. 5 maggio 1948, n.
483, § 7, che leggesi in Ferrara, Linee fondamentali della riforma del Codice di Procedura Civile, Roma 1948, p. 54) e di prevedere espressamente che se una parte si fosse
costituita entro il termine stabilito per la costituzione del convenuto, l’altra potesse
costituirsi fino alla prima udienza di comparizione (art. 7, d.lgs. n. 483 del 1948). Il
legislatore del 1950, però, nel ratificare il citato decreto, espunse dall’art. 171, comma
1°, c.p.c. ogni riferimento all’estinzione del processo in caso di mancata costituzione
bilaterale, ma conservò la struttura originaria del 2° comma, che già consentiva alla
parte che non fosse costituita di provvedervi direttamente alla prima udienza, precisando che tale possibilità era condizionata dal fatto che una delle parti si fosse costituita
« entro il termine rispettivamente a lei assegnato ». Con la conseguenza che dal 1950 i
termini di costituzione per attore e convenuto sono divenuti tra loro incomunicabili e
indipendenti.
562
RIVISTA DI DIRITTO PROCESSUALE
sizione in esame ha fatto sì che in dottrina si registrassero posizioni estremamente diverse in ordine al reale significato da attribuirle e alle conseguenze legate all’inattività di entrambe le parti.
3. – In proposito, possiamo distinguere tre orientamenti: uno, teso a restringere il campo di applicazione dell’art. 13, comma 3°; un altro, incline ad
ampliarlo quanto più possibile; un altro ancora, che si pone in una posizione
intermedia.
Nell’ambito dell’orientamento più restrittivo possiamo far rientrare coloro i quali ritengono che la possibilità concessa alle parti non costituite di rimettere in moto il processo incontri il limite dell’art. 307, comma 1°, c.p.c., e
quindi concludono nel senso che il processo può proseguire soltanto se
l’istanza di fissazione dell’udienza venga proposta entro l’anno dalla scadenza
del termine di costituzione in giudizio del convenuto (10). Altri autori, pur
muovendosi nella medesima direzione, individuano tale limite nei termini
previsti dall’art. 7, commi 2° e 3°, richiamati dall’art. 8, comma 4°, giungendo ad affermare che per evitare l’estinzione è necessario che l’istanza de qua
sia notificata nei venti giorni successivi alla scadenza del termine per il deposito della memoria di controreplica del convenuto ovvero entro ottanta giorni
dalla notificazione di tale memoria (11). Da un rigore ancora maggiore è poi
ispirato chi sostiene che la mancata tempestiva costituzione bilaterale implichi
comunque, sempre che vi sia eccezione di parte, l’immediata estinzione del
processo (12).
Invero, tali tesi non sembrano condivisibili. Esse, infatti, non tengono in
alcuna considerazione il tenore letterale dell’art. 13, comma 3°, che consente
ad una qualsiasi delle parti il potere di riavviare il processo « sempre », avverbio che nelle interpretazioni offerte viene totalmente ignorato. Inoltre,
pare incongruo sia il richiamo all’art. 8, comma 4°, che presuppone non soltanto la costituzione di almeno una parte ma anche che vi sia stato uno
scambio di comparse, sia il rinvio agli artt. 171 e 307 c.p.c. che, in quanto
––––––––––––
(10) In tal senso, v. Arieta-De Santis, Diritto processuale societario, Padova 2004,
p. 152 s.; Giorgetti, Fase introduttiva e fissazione dell’udienza nel processo societario, in
www.judicium.it, § 18.
(11) Cfr., in tal senso, Costantino, Il nuovo processo commerciale, cit., p. 419 s.
(il quale, però, osserva che, in considerazione delle difficoltà di individuazione del
dies a quo relativo a ciascuno di tali termini, si potrebbe anche ritenere che la fattispecie sia « regolata dalla disciplina comune e, quindi, che ciascuna parte possa, non
riassumere, ma presentare l’istanza di fissazione dell’udienza di cui all’art. 8 del decreto “entro un anno dalla scadenza del termine per la costituzione del convenuto” »); Picaroni, in Lo Cascio (a cura di), I procedimenti (D.Lgs. 17 gennaio 2003, n.
5), Milano 2003, p. 150 s.
(12) In tal senso, v. Ziino, op. cit., § 18.
L’ESTINZIONE DEL PROCESSO SOCIETARIO
563
lex generalis, risultano evidentemente derogati dalla disciplina speciale del
rito societario. Deve, infine, evidenziarsi che tutte le descritte soluzioni presentano il non trascurabile difetto di prevedere che la parte che vuole riavviare il processo possa farlo evitando la prosecuzione della trattazione scritta
(13). Inconveniente di assoluto rilievo se si pensa, ad esempio, che il convenuto, accertata la mancata costituzione tempestiva dell’attore, potrebbe notificargli una comparsa di risposta contenente una riconvenzionale per poi costituirsi fuori dal termine assegnatogli e chiedere la fissazione dell’udienza,
impedendo così all’avversario di replicare o comunque di difendersi dalla
nuova domanda.
Al secondo orientamento fanno capo quegli studiosi secondo i quali l’art.
13, comma 3°, consentirebbe, in caso di mancata costituzione bilaterale, alla
parte che ne abbia interesse, di costituirsi in qualsiasi momento e riavviare il
processo chiedendo, però, immediatamente la fissazione dell’udienza, con repentino passaggio della causa alla fase apud iudicem (14).
Anche questa interpretazione, che pure si lascia preferire alla prima in
quanto maggiormente rispettosa del dettato normativo, non convince. Essa, a
ben vedere, ricorda molto da vicino quanto stabilito dal vecchio c.p.c. ove si
prevedeva che se nessuna delle parti si costituiva in termini, la domanda giudiziale, pur conservando gli effetti sostanziali, perdeva quelli processuali e il
giudizio non poteva che essere ripreso ab initio con una nuova citazione (art.
380 c.p.c. del 1865). Tuttavia, mentre in virtù di quel razionale e coerente
meccanismo, decorsi vanamente i termini di costituzione, il processo cessava
di pendere e le parti erano libere di principiarne un altro entro il termine di
prescrizione interrotto dalla prima citazione, stando alla proposta lettura
dell’art. 13, comma 3°, dovrebbe ammettersi che un processo le cui parti non
si siano costituite possa pendere sine die e che quindi la relativa citazione introduttiva possa continuare a produrre per un tempo indefinito non soltanto gli
effetti sostanziali ma anche quelli processuali. Con l’irragionevole conseguenza che, quando la mancata costituzione in giudizio sia frutto di una transazione, la parte che voglia liberarsi di quel processo (e degli effetti della do-
––––––––––––
(13) Sull’argomento, v. le osservazioni di Balena, Prime impressioni, cit., p. 2208.
(14) In tal senso, v. Mandrioli, op. cit., III, p. 324; Punzi, op. cit., p. 104 s.; Monteleone, Il processo nelle controversie societarie ed assimilate, Padova 2004, p. 15, il quale
aggiunge che « quello descritto, più che un rimedio alla mancata costituzione delle parti,
è un modo alternativo di gestione e svolgimento del processo »; Sassani (a cura di), La
riforma delle società. Il processo, Torino 2003, p. 142; Cecchella, Il nuovo rito ordinario
per le liti societarie: un’anticipazione della riforma del processo civile, in
www.judicium.it, § 13; Sotgiu, La disciplina dell’estinzione del processo nel nuovo rito
commerciale a cognizione piena, in Riv. trim. dir. e proc. civ. 2005, (suppl. al n. 1),
p. 179 ss.
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RIVISTA DI DIRITTO PROCESSUALE
manda) si vedrà costretta, prima o poi, a costituirsi in modo da avere la possibilità di farlo estinguere.
Un ulteriore punto debole della soluzione prospettata pare potersi individuare nella sua contraddittorietà, atteso che sembra del tutto incongruo che le
parti, pur avendo il potere di far rimanere quiescente un processo per un tempo
teoricamente illimitato, quando decidano di rimetterlo in moto, debbano farlo
correre portando la causa immediatamente in udienza. E ciò a tacere del fatto
che anche siffatta interpretazione ripropone, senza risolverla, la questione della
eliminazione della fase preparatoria scritta e della conseguente inammissibile
coartazione del diritto di difesa dell’altra parte rimasta inattiva.
Tanto premesso, pare che la via obbligata da seguire sia quella tracciata da
coloro i quali, assumendo una posizione intermedia fra le due descritte tendenze, sostengono che il legislatore con la norma in esame abbia voluto riferirsi
all’ipotesi in cui le parti, pur non essendosi costituite tempestivamente, abbiano
comunque proceduto, a norma degli artt. 4 ss., alla trattazione scritta della causa
e abbiano ancora a disposizione i termini di cui all’art. 8 per il deposito
dell’istanza di fissazione dell’udienza, lo spirare dei quali implicherebbe l’estinzione del processo (15).
Vero è che anche detta interpretazione poggia su una forzatura dell’art. 13,
comma 3°, specie per la parte in cui l’avverbio « sempre » viene inteso « nel
senso che l’istanza di fissazione dell’udienza può essere egualmente proposta,
nonostante la mancata costituzione di entrambe le parti » (16). Quella forzatura,
però, si rivela non soltanto utile per spiegare il riferimento contenuto nella norma de qua agli « scritti difensivi », ma anche e soprattutto assolutamente necessaria per preservare i diritti delle parti e tentare di dare coerenza al sistema (17).
Che non sembra risultato di poco conto.
––––––––––––
(15) In tal senso, v. Balena, Prime impressioni, cit., p. 2208; Trisorio Liuzzi, op. cit.,
§ 11.3.; M. Fabiani, Le attività del giudice, cit., § 6.6; nonché, pur se problematicamente,
Bove, Il processo dichiarativo societario di primo grado, in www.judicium.it, § 2; Poliseno,
I procedimenti in materia commerciale, Commentario a cura di Costantino, in Nuove leggi
civ. comm. 2005, p. 289 s., la quale ritiene che la norma trovi applicazione anche quando le
parti abbiano notificato soltanto la citazione e la comparsa di risposta; Manica, in AlpaGalletto (a cura di), Processo, arbitrato e conciliazione, cit., p. 99. Nella medesima direzione si muove Carratta, op. cit., p. 384, secondo il quale, però, « non è affatto da escludere –
proprio alla luce del 3° comma dell’art. 13 – che l’istanza di fissazione dell’udienza, anche
in caso di mancata costituzione di entrambe le parti, venga avanzata tardivamente, dopo che
siano decorsi i termini massimi fissati dai primi quattro commi dell’art. 8, senza che sia rilevata (ad istanza di parte o d’ufficio, a seconda dei casi) l’eccezione di estinzione del processo; né è da escludere che possa essere avanzata senza che si sia avuto lo svolgimento
della fase preparatoria attraverso lo scambio degli atti difensivi fra le parti ».
(16) Così Balena, Prime impressioni, cit., p. 2208, nt. 40 (corsivo nel testo).
(17) In tal senso, v. Trisorio Liuzzi, op. cit., § 11.3.
L’ESTINZIONE DEL PROCESSO SOCIETARIO
565
A prescindere dalla soluzione del rebus contenuto nella esaminata disposizione, ciò che interessa maggiormente evidenziare è che il descritto meccanismo, predisposto dal legislatore delegato per salvare dall’estinzione il processo
nel quale l’attore non si sia tempestivamente costituito, è destinato a non funzionare sol che il convenuto si costituisca tempestivamente ed eccepisca
l’estinzione del giudizio (art. 13, comma 1°). Evenienza affatto remota se si
considera che il convenuto, salvo casi particolari ed eccezionali, è la parte meno
interessata alla prosecuzione di un processo principiato nei suoi confronti e che,
quindi, presumibilmente, lungi dal venire incontro alle esigenze dell’attore che
abbia fatto scadere inutilmente il termine per costituirsi, assai difficilmente si
lascerà sfuggire la ghiotta occasione di sfruttare l’errore commesso dall’avversario e di provocare la mors litis.
Se ne può dedurre che l’unica ipotesi, probabilmente soltanto scolastica, in
cui tale congegno potrà operare sarà quella in cui entrambe le parti si siano accordate per non costituirsi o, comunque, per non eccepire l’estinzione: in tutti
gli altri casi, invece, il processo sarà inesorabilmente destinato alla perenzione
immediata.
Quindi, ad onta del decantato incremento della « flessibilità » e del « tasso
di disponibilità del “bene” della “concentrazione” » (18), ma soprattutto della
valorizzazione del principio dispositivo (19), che avrebbero dovuto caratterizzare il nuovo rito societario, il legislatore delegato ha adottato, per l’ipotesi della
mancata costituzione bilaterale, una soluzione assai più rigorosa di quella prevista per il processo ordinario di cognizione, dove, com’è noto, la conseguenza di
tale inattività è data da null’altro se non dal dipartirsi di un termine annuale per
provvedere alla riassunzione. Segno che, con tutta evidenza, non è stata affatto
abbandonata quella « malintesa concezione “pubblicistica” del processo civile
(in realtà paternalistica, autoritaria e illiberale) » (20) sottesa al nostro c.p.c., in
virtù della quale « l’interesse pubblico esige che il processo civile, una volta
iniziato, si svolga rapidamente fino alla sua meta naturale che è la sentenza » (21).
4. – Per completare la descrizione del meccanismo previsto dalla disposizione in esame, va detto che la parte che abbia deciso, seppur tardivamente, di
costituirsi, deve depositare in cancelleria, in uno all’istanza di fissazione
––––––––––––
(18) Così la Relazione al d.lgs. n. 5 del 2003, che leggesi in Alpa-Galletto (a cura
di), Processo, arbitrato e conciliazione, cit., p. 402 ss.
(19) Cfr. il Comunicato del Consiglio dei Ministri n. 88 del 10 gennaio 2003, che
leggesi in www.governo.it.
(20) Così Cipriani, Il codice di procedura civile tra gerarchi e processualisti, Napoli 1992, p. 104.
(21) Così la Relazione al re sul c.p.c., § 28.
566
RIVISTA DI DIRITTO PROCESSUALE
dell’udienza, gli scritti difensivi e i documenti offerti in comunicazione. Inoltre,
« dell’avvenuto deposito dell’istanza deve essere data notizia mediante atto notificato alle altre parti » (art. 13, comma 3°).
Circa quest’ultima previsione sorgono ulteriori perplessità. Bisogna evidenziare, infatti, che l’impersonale « deve essere data notizia » ingenera nell’interprete il dubbio se la notificazione cui si riferisce la norma sia posta a carico
della parte costituita oppure della cancelleria. A tutta prima, invero, sembrerebbe di dover propendere per il secondo capo dell’alternativa, atteso che quando il
legislatore ha voluto che tale onere ricadesse sulla parte, lo ha detto espressamente (ne è prova il preciso dettato dell’art. 8). D’altro canto, ritenere che
quell’atto debba essere notificato a cura della cancelleria, sarebbe coerente col
complessivo impianto della norma che stabilisce il preventivo deposito dell’istanza di fissazione dell’udienza (22) ma non fissa alcun termine per provvedere alla successiva notificazione dell’avviso di avvenuto deposito dell’istanza
medesima.
Non si possono ignorare, tuttavia, le ragioni di opportunità che militano
per l’opposta soluzione rendendola alla fine preferibile: rimettere all’ufficio
questa nuova incombenza significherebbe appesantire ulteriormente (seppur
in misura assai lieve) il già gravoso carico di lavoro delle cancellerie, anche
in considerazione del fatto che la notificazione, se diretta a parti non costituite, dovrà essere loro effettuata personalmente nelle forme ordinarie e non
già ai procuratori, utilizzando le più snelle e moderne modalità previste
dall’art. 17.
Resta, però, da risolvere la questione della mancata previsione del dies ad
quem entro il quale la parte costituita dovrà provvedere a notificare quell’avviso.
In proposito, pare fuor di dubbio che l’interprete non possa colmare la lacuna normativa senza correre il rischio di violare l’art. 152 c.p.c. che espressamente prevede una riserva di legge in ordine alla fissazione dei termini per il
compimento di atti processuali (23). Così stando le cose, e soprattutto non essendovi alcuna necessità di costringere la parte costituita ad accelerare i tempi
(visto che l’altra è comunque inerte), il problema potrebbe considerarsi più che
––––––––––––
(22) Si veda, in proposito, Balena, Prime impressioni, cit., p. 2208, il quale, nel
tentativo di trovare una spiegazione a tale insolito meccanismo, osserva che il preventivo
deposito dell’istanza di fissazione dell’udienza « può giustificarsi per il fatto ch’essa proviene da una parte non ancora costituita (che si costituisce, per l’appunto, in uno alla proposizione dell’istanza medesima) e viene proposta nei confronti di parti anch’esse non
costituite ».
(23) Sull’argomento, v. Balbi, La decadenza nel processo di cognizione, Milano
1983, p. 35 ss.; Picardi, Dei termini, in Commentario del codice di procedura civile diretto da Allorio, I, 2, Torino 1973, p. 1532 ss.; Id., Per una sistemazione dei termini processuali, in Jus 1963, p. 209 ss.
L’ESTINZIONE DEL PROCESSO SOCIETARIO
567
ragionevolmente risolto ritenendo che sino a quando non sia stata fornita la
prova dell’avvenuta notifica e non siano decorsi dieci giorni dal perfezionamento di quest’ultima (ossia il termine concesso alle altre parti per costituirsi),
al giudice sia inibita la fissazione dell’udienza (24).
Come poc’anzi accennato, entro i dieci giorni successivi alla notificazione
dell’atto col quale la parte tardivamente costituita informa le altre del deposito
dell’istanza di fissazione dell’udienza, queste potranno a loro volta costituirsi in
giudizio depositando i propri scritti difensivi, i documenti offerti in comunicazione e la nota contenente la formulazione delle conclusioni, redatta a norma
dell’art. 10, comma 1°.
Nei confronti della parte che si sia costituita oltre quel termine (ovvero
non si sia costituita affatto) si produrranno le conseguenze previste dall’art. 13,
commi 1° e 2°. Dal momento che, però, tali norme regolano gli effetti determinati dalla contumacia iniziale di attore e convenuto, affinché esse siano applicabili alla fattispecie in esame necessitano di una interpretazione adeguatrice, in
virtù della quale sembrerebbe di poter affermare che: a) in caso di tardiva o
mancata costituzione dell’attore, il convenuto che si sia presentato in udienza
potrà scegliere se eccepire l’estinzione del processo (ricorrendone i presupposti)
ovvero proseguire il giudizio chiedendo una pronuncia di merito (25); b) in caso
di mancata o tardiva costituzione del convenuto, invece, la ficta confessio in
ordine ai fatti posti dall’attore a fondamento della domanda maturerà a suo carico soltanto se in precedenza egli non abbia tempestivamente notificato la propria comparsa di risposta (26).
––––––––––––
(24) Cfr. Balena, Prime impressioni, cit., p. 2208, nt. 41, secondo il quale, invece, il giudice, accertata l’avvenuta notifica, potrebbe già pronunciare il decreto di fissazione dell’udienza. Tale soluzione, però, non sembra appagante. Infatti, poiché quel
decreto andrebbe comunicato alle sole parti costituite (art. 12, comma 2°), aderendo a
tale interpretazione restrittiva si rischierebbe di privare della vocatio in ius, e quindi di
penalizzare, quella parte che, pur avendo rispettato il termine di dieci giorni a lei concesso dall’art. 13, comma 3°, non abbia fatto in tempo a costituirsi nel periodo intercorrente tra il deposito dell’atto notificato e la pronuncia del decreto di fissazione di
udienza.
(25) Sembra ovvio accedere a tale interpretazione estensiva dell’art. 13, comma 1°,
la cui applicazione letterale, com’è stato ineccepibilmente osservato, « non avrebbe invero senso » (così Sassani, op. cit., p. 142).
(26) Cfr., infatti, Monteleone, Il processo nelle controversie societarie, cit., p. 13;
M. Fabiani, Le attività del giudice, cit., § 8; Giorgetti, op. cit., § 17. Per la stessa soluzione, già nella vigenza del testo originario del decreto delegato, v. Costantino, Il nuovo
processo commerciale, cit., p. 421 s.; Balena, Prime impressioni, cit., p. 2207 s.; Trisorio
Liuzzi, op. cit., § 11.3; Bove, op. cit., § 2; M. Fabiani, La partecipazione del giudice, cit.,
p. 206; Ziino, op. cit., § 18, nt. 121. Sostengono, invece, che la ficta confessio si produca
in confronto del convenuto per il sol fatto che non si sia costituito nei dieci giorni conces-
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RIVISTA DI DIRITTO PROCESSUALE
5. – Terminato l’esame della disciplina dettata per il nuovo rito societario
nell’ipotesi in cui nessuna delle parti abbia rispettato il termine per costituirsi,
passiamo a verificare cosa avviene qualora almeno una parte si sia costituita in
giudizio tempestivamente.
Il decreto delegato, per l’eventualità in cui il convenuto non notifichi la
comparsa nei modi e nei tempi stabiliti dall’art. 2, comma 1°, lett. c), oppure,
se la citazione è diretta contro più convenuti, dall’art. 3, comma 2°, prevede
che l’attore che si sia regolarmente costituito può notificare all’avversario
« una nuova memoria a norma dell’art. 6, ovvero depositare, previa notifica,
istanza di fissazione dell’udienza » (art. 13, comma 2°). Nel primo caso, il
contumace – che potrà replicare a norma dell’art. 7 – verrà sostanzialmente
rimesso in termini; nel secondo, invece, subirà gli effetti della ficta confessio,
essendo previsto che « i fatti affermati dall’attore, anche quando il convenuto
abbia tardivamente notificato la comparsa di costituzione, si intendono non
contestati e il tribunale decide sulla domanda in base alla concludenza di questa », fatto salvo il potere del giudice di deferire all’attore il giuramento suppletorio (art. 13, comma 2°) (27).
Qualora, invece, l’attore non si costituisca (ovvero si costituisca oltre il
––––––––––––
si dall’art. 13, comma 3°, Punzi, op. cit., p. 105; Carratta, op. cit., p. 387 s.; Arieta-De
Santis, op. cit., p. 153. Sull’argomento, v., da ultima, Poliseno, op. cit., p. 284 ss.
Invero, appare inevitabile ritenere, salvo incorrere nella incostituzionalità della
norma per violazione degli artt. 3 e 111, comma 2°, Cost., che, qualora il convenuto
abbia spiegato domanda riconvenzionale, gli effetti della ficta confessio si producano
anche in danno dell’attore che non abbia tempestivamente notificato la memoria di
replica ex art. 6 (in tal senso, v. Balena, Prime impressioni, cit., p. 2207; Trisorio
Liuzzi, op. cit., § 11.2; Arieta-De Santis, op. cit., p. 158; Bove, op. cit., § 2; Graziosi,
op. cit., p. 39, nt. 57; Cecchella, op. cit., § 13. Sull’argomento v. anche Carratta, op.
cit., p. 370 ss.).
(27) Sull’argomento, v. Monteleone, Il processo nelle controversie societarie, cit.,
p. 12 ss.; Punzi, op. cit., p. 102 ss.; Arieta-De Santis, op. cit., p. 153; Carratta, op. cit.,
p. 371 ss.; Graziosi, op. cit., p. 37 ss.; Poliseno, op. cit., p. 282 ss. Con riferimento al
dettato normativo anteriore alle modifiche del 2004, v. Costantino, Il nuovo processo
commerciale, cit., p. 421 s.; Balena, Prime impressioni, cit., p. 2207 s.; Sassani, op. cit.,
p. 143 s.; Trisorio Liuzzi, op. cit., § 11.2.; Ziino, op. cit., § 17.
Va sottolineato che, pochi anni or sono, nel tentativo di porre rimedio al grave stato
di crisi della nostra giustizia civile, vi è stato chi, molto autorevolmente, ha proposto alcuni interventi « per evitare che si vada verso il definitivo collasso », auspicando, tra le
altre cose, l’introduzione della ficta confessio in caso di contumacia del convenuto nei
processi su diritti disponibili (v., infatti, Cipriani, Civinini e Proto Pisani, Una strategia
per la giustizia civile nella XIV legislatura, in Foro it. 2001, V, c. 82; Cipriani, Per un
nuovo processo civile, ibid., V, c. 326).
L’ESTINZIONE DEL PROCESSO SOCIETARIO
569
termine massimo di dieci giorni dalla notificazione della citazione (28)), il convenuto che abbia deciso di costituirsi tempestivamente (29) potrà scegliere se
proseguire il giudizio oppure farlo estinguere (art. 13, comma 1°).
Preliminarmente è opportuno sottolineare che detta norma, com’è stato osservato (30), sembra destinata ad andare incontro a gravi anomalie di funzionamento nelle cause con pluralità di convenuti, in riferimento alle quali l’art. 3,
comma 2°, ribaltando la regola sancita dall’art. 165, comma 2°, c.p.c. (almeno
nell’interpretazione fornita dalla giurisprudenza più recente (31)), prevede che
––––––––––––
(28) In tal senso, v. espressamente Monteleone, Il processo nelle controversie societarie, cit., p. 12; Balena, Prime impressioni, cit., p. 2207; Sassani, op. cit., p. 141;
Arieta-De Santis, op. cit., p. 151 s.; Poliseno, op. cit., p. 281; Sotgiu, op. cit., p. 184.
Ritengono, invece, che l’art. 13, comma 1°, non regoli le conseguenze collegate
alla tardiva costituzione dell’attore e che, quindi, a tale fattispecie si applichi la disciplina
comune, Costantino, Il nuovo processo commerciale, cit., p. 422, e Giorgetti, op. cit., §
16. Invero, l’opinione espressa da questi due studiosi non sembra condivisibile, atteso
che la norma in esame non si limita a disporre per il caso della mancata costituzione
dell’attore ma si riferisce genericamente all’ipotesi in cui « l’attore non si costituisce nel
termine di cui all’articolo 3 ».
(29) Se anche il convenuto dovesse costituirsi fuori termine, sarà applicabile la disciplina, in precedenza esaminata, dettata dall’art. 13, comma 3°.
(30) V. Balena, Prime impressioni, cit., p. 2204 s.; Trisorio Liuzzi, op. cit., § 6. Il
problema, seppur con minore preoccupazione, è stato sollevato anche da Arieta-De Santis, op. cit., p. 139, nonché da Spada, in I procedimenti in materia commerciale, cit.,
p. 170 ss., e da Poliseno, ibid., p. 265. Sull’argomento, v. anche gli approfonditi rilievi
formulati da Carratta, op. cit., p. 162 ss.
(31) Cfr., infatti, da ultime, Cass. 16 luglio 1997, n. 6481, in Giur. it. 1998, p. 1576
ss.; App. Napoli 17 settembre 2000, in Foro it., Rep. 2001, voce Appello civile, n. 86;
Trib. Napoli 5 marzo 2002, id. 2003, I, c. 303 ss. Nello stesso senso, v., in dottrina, Andrioli, Commento al codice di procedura civile, 3ª ed., II, Napoli 1956, p. 19; Satta,
Commentario al c.p.c., II, 1, Milano 1959/1960, p. 40; Ferroni, in Vaccarella-Verde (a
cura di), Codice di procedura civile commentato, II, Torino 1997, p. 62.
Nel senso che, invece, il termine di costituzione decorra dall’ultima notificazione,
v. Cass. 6 novembre 1958, n. 3601, in Foro it. 1958, I, c. 1587 ss.; App. Palermo 27
ottobre 1992, in Giur. mer. 1993, p. 956 ss., con nota di Conte, Costituzione in giudizio
dell’attore e pluralità di convenuti: nuove prospettive giurisprudenziali?; Trib. Firenze
10 luglio 1980, in Giust. civ. 1981, I, p. 194 ss. Tale indirizzo trova autorevoli sostenitori anche in dottrina: v., infatti, Cerino Canova, Dell’introduzione della causa, in
Allorio (a cura di), Commentario del codice di procedura civile, cit., II, 1, p. 375 ss.;
Mandrioli, op. cit., II, p. 42; Montesano-Arieta, Trattato di diritto processuale civile, I,
2, Padova 2001, p. 1034; Saletti, voce Costituzione in giudizio, in Enc. giur. Treccani,
X, Roma 1993, p. 2; Ciaccia Cavallari, voce Costituzione in giudizio, in Digesto, Disc.
priv. sez. civ., IV, Torino 1989, p. 466; Arieta-De Santis, op. cit., p. 136 ss., i quali,
peraltro, anche alla luce della previsione di cui all’art. 3, comma 2°, d.lgs. n. 5 del
2003, dubitano della legittimità costituzionale dell’art. 165, comma 2°, c.p.c., come
570
RIVISTA DI DIRITTO PROCESSUALE
l’attore debba costituirsi entro dieci giorni dall’ultima notificazione e non già
dalla prima.
Va rilevato, in proposito, che nessun problema sorge quando l’attore, come avviene di solito, richieda all’ufficiale giudiziario che la citazione sia notificata a tutte le parti contro le quali è diretta la domanda. In questo caso, la decorrenza del termine di costituzione ex art. 3, comma 2°, sarà certa e conoscibile
dai convenuti, atteso che, grazie ad alcuni recenti interventi della Corte costituzionale (32), essa coinciderà con la data di consegna dell’atto nelle mani
dell’ufficiale giudiziario, a prescindere dal giorno in cui la notificazione si sarà
perfezionata in una delle forme stabilite dagli artt. 137 ss. c.p.c. Sicché, qualora
l’attore non osservi tale termine, ciascuno dei litisconsorti avrà la possibilità,
costituendosi tempestivamente, di chiedere che il processo prosegua ovvero che
ne sia dichiarata l’estinzione.
Potrebbe, però, accadere che l’attore notifichi l’atto introduttivo soltanto
ad alcuni dei convenuti ovvero che la notificazione, pure richiesta nei confronti
––––––––––––
interpretato dal diritto vivente; Giudiceandrea, voce Costituzione in giudizio, in Enc.
dir., XI, Milano 1962, p. 236; Ronco, Sul termine per la costituzione dell’attore e sulle
conseguenze della sua violazione, in Giur. it. 1998, p. 1576 ss.; Nazzini, in VaccarellaVerde (a cura di), Codice di procedura civile commentato. Aggiornamento, I, Torino
2001, p. 309.
(32) Cfr. Corte cost. 2 aprile 2004, n. 107, in Foro it. 2004, I, c. 1321 ss., con
nota di Caponi, Sul perfezionamento della notificazione e l’iscrizione della causa a
ruolo, in Giur. it. 2005, p. 91 ss., con nota di Turroni, Perfezionamento della notificazione e termine per iscrivere la causa a ruolo e in Giur. mer. 2005, I, p. 45 ss., con
nota di Delle Donne, Momento perfezionativo della notifica per il notificante, computo
dei termini di costituzione e rimessione in termini in una nuova sentenza della Consulta; Corte cost. 23 gennaio 2004, n. 28, in Foro it. 2004, I, c. 645 ss., con nota di Caponi, Sul perfezionamento della notificazione nel processo civile (e su qualche disattenzione della Corte costituzionale), e in Giur. it. 2004, p. 939 ss., con nota di Delle
Donne, Il perfezionamento della notifica per il notificante tra diritto di difesa e principio del contraddittorio: riflessioni a margine di un recente intervento interpretativo
della Consulta; Corte cost. 26 novembre 2002, n. 477, in Foro it. 2003, I, c. 13 ss., con
nota di Caponi, La notificazione a mezzo posta si perfeziona per il notificante alla data
di consegna all’ufficiale giudiziario: la parte non risponde delle negligenze di terzi, in
Giur. cost. 2003, p. 1068 ss., con nota di Basilico, Notifiche a mezzo del servizio postale e garanzie per le parti, in Giur. it. 2003, p. 1549 ss., con nota di Dalmotto, La
Corte manipola la norma sul perfezionamento della notifica postale: vecchie alternative e nuovi problemi, e in Corr. giur. 2003, p. 23 ss., con nota di Conte, Diritto di difesa ed oneri della notifica. L’incostituzionalità degli art. 149 c.p.c. e 4, 3° comma, l.
890/82: una « rivoluzione copernicana »?. Sull’argomento, v. anche Dalmotto, La giurisprudenza costituzionale come fonte dell’odierno sistema delle notificazioni a mezzo
posta, in www.judicium.it; Rusciano, Decorrenza del termine per la costituzione
dell’attore, in questa Rivista 2004, p. 907 ss.
L’ESTINZIONE DEL PROCESSO SOCIETARIO
571
di tutti, non vada a buon fine (e debba considerarsi inesistente) rispetto a taluni
di essi. In queste ipotesi, poiché l’art. 3, comma 2°, implicitamente vuole, affinché decorra il termine di costituzione dell’attore, che questi abbia notificato la
citazione a ciascuno dei destinatari della domanda, è evidente che il dies a quo
relativo a detto termine verrà a maturazione soltanto quando l’attore avrà provveduto a completare ritualmente tutte le notifiche, con la conseguenza che, sino
a quel momento, egli non potrà essere considerato contumace e i convenuti non
potranno far valere l’estinzione del processo ex art. 13, comma 1° (33).
Il legislatore delegato, quindi, nei processi con pluralità di parti ha inopinatamente rimesso alla discrezionalità dell’attore il potere di rinviare sine die la
propria costituzione, a tutto danno dei convenuti i quali, al fine di evitare che
nei loro confronti penda un giudizio per un tempo indefinito (34), non avendo la
possibilità di chiederne l’estinzione, si vedranno costretti a costituirsi « al
buio », senza poter prendere visione dei documenti che magari l’attore aveva
preannunciato di offrire in comunicazione mediante deposito nel proprio fascicolo.
6. – Come si è accennato più su, l’art. 13, comma 1°, dispone che, in caso
di omessa o tardiva costituzione dell’attore, il convenuto può costituirsi nel
termine stabilito dall’art. 5 e decidere se far valere o no l’estinzione del giudizio: nel primo caso, dovrà, in comparsa di risposta, « eccepire l’estinzione del
processo e depositare istanza di fissazione dell’udienza »; nel secondo, procederà a norma dell’art. 4, comma 2°, sostanzialmente rimettendo in termini – ai soli
fini della costituzione – l’attore che, se non dovesse costituirsi neanche in prosieguo, sarà dichiarato contumace in udienza.
Con riferimento all’ipotesi in cui il convenuto intenda approfittare della
estinzione, è opportuna l’analisi di taluni aspetti del meccanismo, soltanto apparentemente chiaro e lineare, previsto dalla norma in esame.
Preliminarmente va segnalato che, così come avviene nel giudizio ordinario di cognizione, il convenuto dovrà formulare nella propria comparsa l’eccezione di estinzione del processo « prima di ogni altra sua difesa » (art. 307,
comma 4°, c.p.c.). Ma, poiché potrebbe anche darsi che l’eccezione sia rigettata, per evitare di incorrere nelle decadenze di cui all’art. 4, comma 1°, con lo
stesso atto dovrà proporre anche le eventuali domande riconvenzionali e/o dichiarare di voler chiamare terzi in causa (35).
––––––––––––
(33) In tal senso, v. Balena, Prime impressioni, cit., p. 2204 s.; Trisorio Liuzzi, op.
cit., § 6. In termini sostanzialmente identici, v. Carratta, op. cit., p. 165 s.
(34) Nel senso che, in caso di processo contro una pluralità di convenuti, la notificazione della citazione nei confronti anche di uno solo di essi determini la litispendenza,
v. Balena, Prime impressioni, cit., p. 2204.
(35) In tal senso, v. Balena, Prime impressioni, cit., p. 2207; Poliseno, op. cit., p. 269 s.
572
RIVISTA DI DIRITTO PROCESSUALE
Non mi pare possano esservi dubbi in ordine al fatto che, nella fattispecie
in esame, il convenuto sia comunque tenuto a notificare la comparsa di risposta
(nel termine a difesa fissato nell’atto di citazione), anche nel caso in cui non
abbia formulato domande nuove o riconvenzionali (36). D’altro canto, è appena
il caso di precisare che, non essendovi stata la valida costituzione del procuratore dell’attore, in ossequio al disposto dell’art. 170 c.p.c., la comparsa dovrà essere notificata alla parte personalmente (37).
Entro dieci giorni dalla notificazione di tale comparsa, il convenuto si dovrà costituire depositando in cancelleria la nota di iscrizione a ruolo, il fascicolo
contenente l’originale ovvero la copia della comparsa di risposta precedentemente notificata all’attore, la copia dell’atto di citazione, la procura e i documenti offerti in comunicazione, dopodiché potrà chiedere la fissazione dell’udienza.
7. – In relazione a quest’ultimo adempimento, è stabilito che « l’istanza
di fissazione dell’udienza deve sempre contenere le conclusioni, di rito e di
merito, con esclusione di ogni modificazione delle domande, nonché la definitiva formulazione delle istanze istruttorie già proposte. In mancanza, si intendono formulate le conclusioni di cui al primo atto difensivo dell’istante »
(art. 9, comma 1°).
Dal dettato di tale disposizione, quindi, sembrerebbe doversi dedurre che il
convenuto sia tenuto a precisare integralmente le conclusioni in ogni caso in cui
depositi la domanda di fissazione di udienza, anche quando questa sia finalizzata
soltanto a provocare la decisione del giudice in ordine alla eccezione di estinzione
sollevata in séguito alla mancata o alla tardiva costituzione dell’attore.
Tuttavia, vien fatto di osservare che, ferma l’ovvia inutilità di un siffatto
onere per il caso in cui il giudizio dovesse essere effettivamente dichiarato
estinto, nell’ipotesi inversa di rigetto dell’eccezione di estinzione, l’applica-
––––––––––––
(36) Cfr., infatti, Monteleone, Il processo nelle controversie societarie, cit., p. 12;
Balena, Prime impressioni, cit., p. 2207; Sassani, op. cit., p. 141; Arieta-De Santis, op.
cit., p. 151; Giorgetti, op. cit., § 16; Sotgiu, op. cit., p. 184. Nel senso che, invece, la notificazione della comparsa sarebbe necessaria, ai sensi dell’art. 292, comma 2°, c.p.c., soltanto nell’ipotesi in cui il convenuto proponga domande riconvenzionali, v. Costantino, Il
nuovo processo commerciale, cit., p. 421, secondo il quale, peraltro, il convenuto che
volesse soltanto far valere l’estinzione del giudizio potrebbe anche limitarsi a depositare
la procura unitamente all’istanza con la quale eccepisce l’estinzione. Ritiene, invece, Carratta, op. cit., p. 367, che il convenuto il quale eccepisca l’estinzione sia tenuto a redigere
la comparsa di costituzione e a depositarla in cancelleria nel termine di cui all’art. 5,
comma 1°, senza notificarla all’attore.
(37) V., infatti, Balena, Prime impressioni, cit., p. 2205 ss. Sul contenuto e
sull’interpretazione dell’art. 170 c.p.c., v. Id., voce Notificazione e comunicazione, in
Digesto, Disc. priv. sez. civ., XII, Torino 1995, p. 262 ss.
L’ESTINZIONE DEL PROCESSO SOCIETARIO
573
zione letterale della norma in esame avrebbe un senso se, in relazione alla fattispecie contemplata dall’art. 13, comma 1°, il legislatore avesse previsto la comparizione delle parti in udienza dinanzi al collegio che, in quanto giudice naturale e quindi dotato di poteri decisori, ritenuta la causa matura per essere decisa,
avrebbe anche potuto pronunciarsi sulla controversia.
L’art. 12, comma 5°, invece, dispone che le parti costituite siano convocate (presumibilmente in camera di consiglio (38)) dinanzi al giudice relatore il
quale non soltanto non ha alcun potere decisorio (anzi, al pari dell’istruttore del
giudizio ordinario di cognizione, non è neanche un organo giurisdizionale (39))
ma, disattesa l’eccezione di estinzione, non può neanche fissare l’udienza di
discussione collegiale, dovendosi limitare a riavviare la fase preparatoria e a
disporre la prosecuzione dello scambio di memorie precedentemente interrotto
dal convenuto (40).
Sembrerebbe, quindi, potersi agevolmente dedurre che, nella fattispecie
che ci occupa, la precisazione integrale delle conclusioni si tradurrebbe in uno
sterile formalismo, rivelandosi una attività doppiamente inutile, atteso che per
un verso il relatore non potrebbe mai essere investito dell’intera controversia,
dovendosi limitare, per i motivi innanzi precisati, a pronunciarsi sulla sola eccezione di estinzione (a prescindere dalle altre richieste formulate nell’istanza di
fissazione di udienza) (41); per altro verso, le conclusioni istruttorie e/o di me-
––––––––––––
(38) In tal senso, v. Briguglio, in Sassani (a cura di), La riforma delle società, cit.,
p. 137.
(39) Cfr., infatti, con esclusivo riferimento alla figura del giudice istruttore, le limpide osservazioni di Cipriani, Il giudice istruttore e la competenza a provvedere ex art.
156, 6° comma, c.c., in Foro it. 1996, I, c. 3608 s., e ora in Id., Ideologie e modelli del
processo civile. Saggi, Napoli 1997, p. 234. Da notare che il « giudice relatore » non è
neanche menzionato dal nostro ordinamento giudiziario.
(40) Più precisamente, con la stessa ordinanza reiettiva dell’eccezione di estinzione, il relatore dovrà assegnare all’attore il termine che il convenuto, ex art. 4, comma 2°, avrebbe dovuto concedergli per replicare alla comparsa di risposta. In tal senso,
v. Balena, Prime impressioni, cit., p. 2207, il quale rinviene nell’applicazione analogica dell’art. 8, comma 5°, la soluzione al problema della mancanza di una norma ad hoc
che disciplini la ripresa del processo societario dopo il rigetto dell’eccezione di estinzione. Sul punto, aggiungerei soltanto che potrebbe anche essere utilmente richiamato,
sempre in via analogica, l’art. 11, comma 3°, che disciplina la fase successiva alla comunicazione dell’ordinanza con la quale il tribunale, pronunciandosi su questioni pregiudiziali o preliminari, non abbia definito il giudizio. Alle medesime conclusioni di
Balena, seppure sulla base di un diverso ragionamento, giunge Carratta, op. cit., p. 369
s. Nel senso che, invece, il giudice relatore, disattesa l’eccezione di estinzione, sia tenuto a emanare il decreto di fissazione di udienza, v. Poliseno, op. cit., p. 272.
(41) A ciò si aggiunga che se è vero che, come è stato osservato, la ratio del
complesso contenuto dell’istanza di fissazione di udienza risiede nella opportunità di
574
RIVISTA DI DIRITTO PROCESSUALE
rito, come precisate nell’istanza de qua, sarebbero comunque caratterizzate
dalla provvisorietà, essendo con ogni probabilità destinate ad essere modificate
in un secondo momento, in funzione delle eventuali successive difese e/o domande dell’attore che, in séguito al rigetto dell’eccezione di estinzione e alla
ripresa della fase preparatoria, ben potrebbe notificare la memoria di replica e,
non essendosi maturata a suo carico nessuna decadenza, costituirsi e partecipare
attivamente al processo.
Se le precedenti considerazioni sono esatte, può allora concludersi che
l’istanza volta ad ottenere la convocazione in camera di consiglio dinanzi al relatore perché si pronunci sull’estinzione del processo per mancata o tardiva costituzione dell’attore deve essere considerata come un atto che: a) introduce un
sub-procedimento eccezionale rispetto a quello previsto in via ordinaria dall’art.
11 per la decisione su questioni pregiudiziali e preliminari (42); b) risponde ad
un modello semplificato rispetto a quello tipico disegnato dall’art. 9; c) non deve (rectius, potrebbe anche non) contenere né le conclusioni di rito e di merito
né la formulazione delle richieste istruttorie. Anzi, considerato che l’art. 9,
comma 1°, stabilisce espressamente che la mancanza delle conclusioni di rito e
di merito nella domanda di fissazione di udienza implica che il giudice faccia
riferimento alle conclusioni formulate nel primo atto difensivo, sembra logico
ritenere che detta istanza possa essere priva anche della richiesta di estinzione,
essendo sufficiente che la relativa eccezione sia stata formulata – prima di ogni
altra difesa – nella comparsa di risposta (43).
––––––––––––
fornire « uno strumento di ausilio per il giudice al fine della corretta comprensione
della controversia » e che « l’onere imposto all’istante (non diversamente da quello
imposto alle altre parti ex art. 10, comma 1°) ha allora lo scopo di fornire al tribunale
un chiarimento su ciò di cui è chiamato a decidere » (così Tiscini, in Sassani (a cura
di), La riforma delle società, cit., p. 101), altrettanto vero è che tali considerazioni possono ritenersi valide soltanto per il caso in cui il giudice sia investito della decisione di
tutta la causa.
(42) Cfr. Carratta, op. cit., p. 362 ss.; Poliseno, op. cit., p. 270 ss. Sembrerebbe di
poter dire che l’eccezionalità del meccanismo stabilito dall’art. 12, comma 5°, rispetto a
quello di cui all’art. 11, che invece costituisce la regola, ricorda molto da vicino, mutatis
mutandis, il rapporto intercorrente tra gli artt. 307, comma 4°, e 187 c.p.c. (sul quale rapporto, v. Cipriani, La declaratoria di estinzione per inattività delle parti del processo di
cognizione di primo grado, in Riv. trim. dir. e proc. civ. 1966, p. 122 ss.; Vaccarella,
Inattività delle parti ed estinzione del processo di cognizione, Napoli 1975, p. 263 ss. e
274 ss.; Monteleone, voce Estinzione (processo di cognizione), in Digesto, Disc. priv.
sez. civ., VIII, Torino 1992, p. 138 s.; Saletti, voce Estinzione del processo. I) Diritto
processuale civile, in Enc. giur. Treccani, XIII, Roma 1994, p. 10 s.).
(43) Sull’argomento, v. Arieta-De Santis, op. cit., p. 205 ss., i quali hanno osservato
che il dettato dell’art. 9, comma 1°, non autorizza a dedurre che il legislatore delegato
abbia voluto derogare a principi che in materia ormai costituiscono ius receptum, tra i
L’ESTINZIONE DEL PROCESSO SOCIETARIO
575
Resta da verificare se quella istanza vada soltanto depositata in cancelleria,
come testualmente recita l’art. 13, comma 1°, ovvero debba essere portata anche a conoscenza dell’attore e delle eventuali altre parti del processo.
Invero, motivi quantomeno di opportunità indurrebbero a propendere per
quest’ultima soluzione (44) e quindi a ritenere che, nel caso di specie, il legislatore minus dixit quam voluit.
A prescindere dall’ipotesi, evidentemente neanche presa in considerazione
dalla norma, in cui il processo si svolga tra una pluralità di parti (nel qual caso
non v’è alcun dubbio in ordine alla necessità di notificare l’istanza in confronto
delle parti costituite), non sembra sussista alcuna ragione che possa giustificare
una disparità di trattamento tra l’attore non costituito (ovvero costituito tardivamente) e il convenuto contumace, il quale, secondo quanto disposto dall’art.
13, comma 2°, come novellato dal d.lgs. n. 37 del 2004, ha diritto a ricevere la
notificazione della domanda di fissazione di udienza (45). Per altro verso, deve
osservarsi che, poiché l’art. 13 prevede espressamente la notificazione di tutti
gli atti difensivi alle parti non costituite, parrebbe che il legislatore delegato abbia voluto derogare, almeno con riferimento alla fase preliminare del nuovo rito
societario, alla lex generalis rappresentata dall’art. 292 c.p.c., con la conseguenza che, almeno sino a quando il relatore non dichiari la contumacia di una parte,
tutti gli atti processuali, inclusa l’istanza di fissazione di udienza, dovrebbero
esserle notificati personalmente.
––––––––––––
quali vi è quello secondo cui l’omessa riproposizione, in sede di precisazione delle conclusioni, di una domanda formulata in corso di giudizio implica, a meno di indicazioni
contrarie desumibili dalla condotta processuale della parte, una presunzione di abbandono dell’istanza non riproposta (cfr., infatti, ex plurimis, Cass. 29 gennaio 2003, n. 1281,
in Foro it., Rep. 2003, voce Procedimento civile, n. 37; Cass. 26 agosto 2002, n. 12482,
id. 2002, voce cit., n. 236; Cass. 11 febbraio 2000, n. 1522, id. 2000, voce cit., n. 280). Il
rilievo è senz’altro corretto. Tuttavia, qualora il convenuto rediga l’istanza di fissazione
di udienza finalizzata alla dichiarazione di estinzione ex art. 13, comma 1°, senza riprodurre integralmente tutte le conclusioni e, magari, chiedendo soltanto la pronuncia
sull’estinzione, da tale condotta non potrebbe presumersi il tacito abbandono delle altre
istanze visto che il relatore non viene investito dell’intera controversia e che, invece, il
citato indirizzo giurisprudenziale sembra giustificarsi unicamente in virtù dell’applicazione dell’art. 189 c.p.c., una norma che per il suo funzionamento richiede che il giudice sia investito di tutta la causa e che, comunque, « suppone la chiusura dell’istruttoria »
(così Andrioli, op. cit., II, p. 101).
(44) Nel senso che « la mancata previsione della notificazione all’attore dell’istanza
di fissazione dell’udienza secondo la disposizione generale dell’art. 8 non produce effetti
negativi sull’esercizio del diritto di difesa di quest’ultimo in quanto l’eccezione di estinzione del giudizio è contenuta nel primo atto difensivo del convenuto che gli deve essere
notificato », v. Giorgetti, op. cit., § 16.
(45) Nello stesso senso, v. Poliseno, op. cit., p. 265 s., nt. 111.
576
RIVISTA DI DIRITTO PROCESSUALE
Qualora poi non si condividesse tale interpretazione e si ritenesse applicabile l’art. 292 c.p.c., si giungerebbe alle medesime conclusioni. Infatti, considerato che la richiesta di fissazione di udienza sembra essere domanda nuova rispetto a quelle originariamente proposte (46), non potrebbe che dedursi la sua
necessaria notificazione anche alle parti non costituite.
8. – Bisogna infine evidenziare che l’art. 13, comma 1°, non dispone alcunché in ordine al termine entro il quale l’istanza tesa ad ottenere la convocazione delle parti dinanzi al relatore debba essere depositata in cancelleria (ovvero, per quanto si è osservato sopra, notificata alle altre parti), sicché, nel silenzio
della legge, vi è stato chi ha rilevato che la presentazione di tale istanza
« dovrebbe prescindere dai termini di cui all’art. 8, tenuto conto ch’essa mira
comunque alla declaratoria d’estinzione del processo » (47) e chi, invece, ha
suggerito che, a norma dell’art. 8, comma 2°, lett. c), debba essere notificata
entro venti giorni dalla costituzione in giudizio del convenuto (48). È stato anche sostenuto, con maggiore rigore, che l’istanza in questione debba essere depositata dal convenuto, in uno alla comparsa di risposta, nel termine di costituzione in giudizio assegnatogli dall’art. 5, comma 1° (49).
La prima delle soluzioni prospettate non sembra del tutto appagante perché
darebbe luogo a gravi inconvenienti nell’ipotesi in cui il convenuto, dopo aver
sollevato l’eccezione di estinzione in comparsa, tardasse nel (ovvero evitasse
di) chiedere la fissazione della camera di consiglio.
In proposito, non sembra inutile osservare preliminarmente che l’estinzione del processo per omessa o tardiva costituzione dell’attore si presenta come una fattispecie a formazione progressiva, atteso che essa non consegue automaticamente alla inattività della parte, ma per perfezionarsi richiede che il
convenuto: a) si costituisca tempestivamente; b) formuli la relativa eccezione in
comparsa; c) inoltri l’istanza di fissazione della camera di consiglio dinanzi al
giudice relatore; d) richieda a quest’ultimo, nel corso della camera di consiglio,
di dichiarare l’estinzione del giudizio.
Ciò premesso, pare indubbio che, con riferimento all’ipotesi da noi presa
in considerazione, l’attore non potrebbe ovviare all’inerzia dell’avversario
––––––––––––
(46) Si noti che, con riferimento al giudizio ordinario di cognizione, si ritiene assai
autorevolmente (Satta-Punzi, Diritto processuale civile, 13a ed., Padova 2000, p. 392, in
nota) che « debba essere notificata la dichiarazione del convenuto di voler continuare il
giudizio, che costituisce sostanzialmente un novum rispetto alla domanda dell’attore
contumace ».
(47) Così, Balena, Prime impressioni, cit., p. 2207, nt. 35.
(48) In tal senso, v., pur se problematicamente, Poliseno, op. cit., p. 265, nt. 111;
Picaroni, op. cit., p. 148.
(49) V., infatti, Carratta, op. cit., p. 367 s., nt. 3.
L’ESTINZIONE DEL PROCESSO SOCIETARIO
577
presentando egli stesso l’istanza e portando così a compimento il complesso
iter finalizzato alla declaratoria di estinzione, in quanto trattasi di attività
espressamente riservata al convenuto costituito tempestivamente. E d’altra
parte, se l’attore scegliesse di riproporre l’azione in un autonomo successivo
giudizio, il giudice del secondo processo non potrebbe, salvo esplicita richiesta del convenuto, accertare la sussistenza dell’evento estintivo inerente il
primo (50), atteso che, come si è appena osservato, nel rito societario la mancata o tardiva costituzione dell’attore non è di per sé sufficiente ad integrare
alcuna fattispecie estintiva e che, comunque, la relativa eccezione è riservata
al convenuto.
Ne consegue che rassegnarsi alla mancanza di un termine entro il quale
chiedere la nomina del giudice relatore affinché provveda sull’eccezione di
estinzione ex art. 13, comma 1°, significherebbe rischiare di favorire l’esercizio di tattiche dilatorie e maliziose da parte del convenuto il quale, evitando
di presentare l’istanza di fissazione dell’udienza, non soltanto avrebbe la possibilità di lasciar pendere la causa sul ruolo sine die per poi farla estinguere
alla maturazione del termine prescrizionale del diritto fatto valere in suo confronto, ma potrebbe anche immobilizzare del tutto l’attore il quale, se volesse
azionare nuovamente il diritto già fatto valere nel processo in cui aveva omesso di costituirsi tempestivamente, si vedrebbe eccepire la pendenza del precedente processo.
Viceversa, qualora si ritenesse che il convenuto, dopo aver sollevato l’eccezione di estinzione del processo per omessa o tardiva costituzione dell’attore,
sia tenuto a presentare l’istanza di fissazione della camera di consiglio entro un
dies ad quem, che potremmo individuare indifferentemente (quanto al risultato
pratico) nel termine concesso al convenuto per costituirsi in giudizio ovvero in
quello stabilito dall’art. 8, comma 2°, lett. c) (51), gli inconvenienti appena evi-
––––––––––––
(50) Circa la possibilità di far valere l’estinzione del giudizio in un nuovo processo, v. Cipriani, La declaratoria di estinzione, cit., p. 164. Sull’argomento, v. anche
Vaccarella, op. cit., p. 286 ss. In giurisprudenza, costituisce ius receptum il principio
secondo cui l’estinzione del giudizio per inattività può esser dichiarata incidenter
tantum dal giudice di un diverso processo (cfr., infatti, Cass. 27 febbraio 1997, n.
1752, in Foro it., Rep. 1997, voce Procedimento civile, n. 350; Cass. sez. lav. 12 dicembre 1995, n. 12694, id. 1995, voce Competenza civile, n. 127; Cass. 19 ottobre
1993, n. 10352, id. 1993, voce Rinvio civile, n. 16; Cass. 22 giugno 1993, n. 6903,
ibid., voce Procedimento civile, n. 195; Cass. S.U. 23 gennaio 1991, n. 597, id. 1992,
I, c. 3090 ss.; Corte conti 22 maggio 2002, n. 164/A, id. 2002, voce Amministrazione
Stato, n. 254).
(51) Il ricorso a detto criterio si imporrebbe in quanto, pur vertendosi in materia di
eccezione non rilevabile d’ufficio, l’art. 8, comma 2°, lett. a), sembrerebbe inapplicabile
visto che l’art. 13, comma 1°, non prevede che l’attore possa replicare alla comparsa di
costituzione con la quale il convenuto eccepisce l’estinzione.
578
RIVISTA DI DIRITTO PROCESSUALE
denziati non si porrebbero neanche, pur se rimarrebbe comunque da comprendere
quali conseguenze derivino dal mancato rispetto di detto termine.
A tal fine, deve osservarsi che sarebbe irragionevole applicare al caso di
specie il disposto di cui all’art. 8, comma 4°, e quindi sanzionare con l’estinzione del processo la tardiva presentazione dell’istanza di fissazione della camera di consiglio, non foss’altro perché siffatta conseguenza procurerebbe un
vantaggio al convenuto il quale, anche se il mancato rispetto del dies ad quem
fosse dipeso da negligenza sua o del procuratore, verrebbe sostanzialmente rimesso in termini per eccepire l’estinzione, e un danno all’attore che, invece,
quand’anche si fosse costituito fuori termine per causa non imputabile a sé o al
proprio procuratore, non avrebbe alcuna possibilità di evitare l’estinzione.
Riterrei, invece, che sarebbe assai più utile, produttivo e coerente, risolvere
il problema nel senso che, scaduto inutilmente il termine per provvedere alla presentazione dell’istanza per ottenere la fissazione della camera di consiglio, e dunque non essendo stato completato tempestivamente l’iter che conduce al perfezionamento dell’eccezione di estinzione collegata alla contumacia dell’attore, il
convenuto decada dalla possibilità di far valere la mors litis. In particolare, a mio
sommesso modo di vedere, non pare vi sia alcun impedimento a sostenere che,
qualora il convenuto abbia presentato tardivamente quell’istanza e l’attore, nel
corso della camera di consiglio, l’abbia fatto rilevare, il giudice relatore dovrà rigettare l’eccezione di estinzione e contestualmente, applicando in via analogica il
disposto di cui all’art. 8, ultimo comma, assegnare all’attore il termine che il convenuto, ai sensi dell’art. 4, comma 2°, avrebbe dovuto concedergli per replicare
alla comparsa di risposta. Per altro verso, credo che nulla vieti di affermare che,
nel caso in cui il convenuto non abbia proposto, neanche in ritardo, l’istanza di
fissazione della camera di consiglio, l’attore che intenda proseguire il giudizio
possa inoltrarla egli stesso al solo scopo di far valere la decadenza del convenuto
dall’eccezione di estinzione e di ottenere l’assegnazione del termine per notificare
la memoria di replica ex art. 6.
Siffatta soluzione, indubbiamente, necessita di una buona dose di creatività ed implica una certa forzatura del laconico dettato normativo, forzatura che
però sembra inevitabile per porre rimedio ai gravi inconvenienti poc’anzi evidenziati ma soprattutto per tutelare l’attore che per un qualsivoglia motivo non
si sia costituito nei ristretti termini concessigli dall’art. 3.
9. – L’esame sin qui svolto delle disposizioni che regolano le conseguenze
della mancata o tardiva costituzione di entrambe le parti ovvero del solo attore
nel nuovo rito societario, ci consegna, purtroppo, una disciplina della materia
per nulla chiara, costellata da gravi lacune e corposi dubbi interpretativi, la soluzione dei quali risulta costantemente caratterizzata da un alto grado di opinabilità.
Spiace però dover constatare che quelle stesse norme non si lasciano apprezzare neppure sotto il profilo della coerenza col dichiarato obiettivo della
« liberalizzazione » (quantomeno della fase introduttiva) del nuovo rito, co-
L’ESTINZIONE DEL PROCESSO SOCIETARIO
579
struito, secondo quel che si dice, in modo da valorizzare « in pieno il principio
dispositivo » (52).
Infatti, mentre nel giudizio ordinario di cognizione l’attore che non si sia
costituito può comunque impedire l’estinzione costituendosi sino all’udienza
di comparizione oppure riassumendo la causa a seconda che, rispettivamente,
il convenuto si sia tempestivamente costituito o sia rimasto contumace (53),
nel processo societario le cose funzionano in maniera assai differente: l’attore
è comunque tenuto a costituirsi entro il temine assegnatogli ma, in caso di
inosservanza di quel termine, il processo potrà proseguire soltanto quando il
convenuto abbia omesso di costituirsi in termini ovvero quando, pur costituendosi, non abbia eccepito l’estinzione del giudizio. Dunque, rispetto a
quanto previsto con riferimento al processo ordinario, in quello societario il
meccanismo risulta completamente ed inopinatamente ribaltato: nel primo, la
prosecuzione del giudizio viene fatta dipendere anche dalla volontà dell’attore, evidentemente sull’ineccepibile presupposto che, nonostante l’iniziale
condotta omissiva, potrebbe conservare interesse ad una pronuncia di merito;
nel secondo, al contrario, le sorti della causa dipendono esclusivamente dal
convenuto ossia da quella parte che (almeno di regola) non ha alcun interesse
a mantenere vivo il processo e che, anzi, attende soltanto che si presenti
l’occasione propizia per liberarsene.
Così stando le cose, non sembra possa essere revocato in dubbio che, col
nuovo rito, l’attore che per un qualsivoglia motivo non si sia costituito tempestivamente dovrà rassegnarsi a subire l’estinzione.
Si dirà che il Governo è stato obbligato a compiere questa scelta per evitare di dilatare eccessivamente la durata della fase introduttiva, anche in considerazione del fatto che la legge delega lo vincolava a prevedere un modello processuale che privilegiasse « la concentrazione del procedimento e la riduzione
––––––––––––
(52) Così il Comunicato del Consiglio dei Ministri n. 88 del 10 gennaio 2003, cit.
(53) In caso di iscrizione a ruolo tardiva, invece, si avrà la cancellazione dal ruolo
(Cass. S.U. 3 ottobre 1995, n. 10389, in Foro it. 1996, I, c. 1297 ss., con note di Balena,
Nullità del procedimento di primo grado per vizi del contraddittorio e poteri del giudice
d’appello, e di Toffoli, Sulla possibilità, e i limiti, dell’applicazione in via analogica
delle disposizioni degli art. 353 e 354 c.p.c. in tema di rinvio della causa al primo giudice da parte del giudice d’appello, nonché in Corr. giur. 1996, p. 425 ss., con nota di De
Cristofaro, Costituzione tardiva dell’attore e omessa cancellazione della causa dal ruolo;
Cass. 14 aprile 1992, n. 4525, in Giur. it. 1994, I, 1, c. 330 ss., con nota di Cavallini, Note
minime in tema di omessa cancellazione della causa dal ruolo in primo grado (e di nullità del procedimento di primo grado per vizi inerenti alla vocatio in ius) e poteri del
giudice d’appello), a meno che entrambe le parti dimostrino comunque la volontà di dare
impulso al processo che, in tal caso, non potrà che proseguire (Cass. 25 luglio 2000, n.
9730, in Foro it., Rep. 2001, voce Procedimento civile, n. 305; Cass. 24 settembre 1994,
n. 7855, id. 1994, voce cit., n. 139).
580
RIVISTA DI DIRITTO PROCESSUALE
dei termini processuali » (art. 12, comma 2°, lett. a), legge 3 ottobre 2001, n.
366). Tuttavia, altro è tentare di limitare al minimo gli sprechi e gli abusi dei
tempi processuali, altro è condannare a morte un processo sol perché la parte
che ha proposto la domanda ha lasciato decorrere invano il ristretto termine
concesso per costituirsi.
E ciò a tacere del fatto che questo sistema – che impone all’attore, a pena
di estinzione del giudizio, di costituirsi entro l’angusto termine assegnatogli – è
assai più rigoroso ed autoritario non soltanto rispetto alla omologa disciplina
dettata per il giudizio ordinario di cognizione, ma anche in confronto a quanto
previsto nel testo originario del c.p.c. del 1940, ove all’attore era comunque
consentito di costituirsi utilmente entro l’ampio termine riservato alla costituzione del convenuto (54).
10. – Lo scambio delle memorie scritte che caratterizza la fase introduttiva
del nuovo rito societario può essere interrotto con la richiesta della fissazione
dell’udienza avanzata da ciascuna parte nei tempi e con le modalità precisate
dall’art. 8.
In virtù di tale norma l’attore può notificare l’istanza di fissazione
dell’udienza entro venti giorni: a) dalla notifica della comparsa di risposta
del convenuto alla quale non voglia replicare ovvero dalla scadenza del termine assegnato per notificare la comparsa medesima; b) in caso di chiamata
di terzo, dalla data di notifica della comparsa di risposta di quest’ultimo ovvero dalla scadenza del termine assegnatogli per notificare la comparsa medesima; c) dalla data di notifica dello scritto difensivo delle altre parti al
quale non intende replicare ovvero dalla scadenza del relativo termine (art.
8, comma 1°).
Anche il convenuto può notificare l’istanza di fissazione dell’udienza entro venti giorni che, però, dovranno essere computati: a) se abbia spiegato riconvenzionale o sollevato eccezioni non rilevabili d’ufficio, dalla data di notifica della memoria di replica dell’attore oppure dalla scadenza del relativo termine; b) se sono stati chiamati terzi in causa, dalla data di notifica della comparsa
di risposta del terzo ovvero dalla scadenza del relativo termine; c) al di fuori dei
––––––––––––
(54) Si segnala che un meccanismo assai simile, se non sovrapponibile (almeno negli effetti), a quello adottato per il rito societario, lo troviamo previsto nei progetti Solmi
che stabilivano l’assoluta separazione dei termini di costituzione delle parti, la condanna
al pagamento di una penale per l’eventuale costituzione tardiva e la mors litis immediata
in caso di mancata costituzione bilaterale (artt. 150, 152 e 273 del prog. prel. Solmi,
pubbl. in Ministero di Grazia e Giustizia, Codice di procedura civile. Progetto preliminare e relazione, Roma 1937, e artt. 160, 162 e 281 del prog. def. Solmi, pubbl. in Ministero di Grazia e Giustizia, Codice di procedura civile. Progetto definitivo e relazione del
guardasigilli on. Solmi, Roma 1939).
L’ESTINZIONE DEL PROCESSO SOCIETARIO
581
predetti casi, dalla data della propria costituzione in giudizio oppure da quella di
notifica dello scritto difensivo delle altre parti al quale non intende replicare
ovvero dalla scadenza del relativo termine (art. 8, comma 2°).
È altresì previsto che il terzo, chiamato o intervenuto, possa notificare
quell’istanza sempre nel termine di venti giorni che decorrono: a) se ha spiegato
riconvenzionale o ha sollevato eccezioni non rilevabili d’ufficio, dalla notificazione della memoria di replica di una delle parti ovvero dalla scadenza del relativo termine; b) all’infuori di tale caso, dalla data della propria costituzione in
giudizio oppure da quella della notifica dello scritto difensivo delle altre parti al
quale non intende replicare ovvero dalla scadenza del relativo termine (art. 8,
comma 3°).
La norma, per quanto apparentemente chiara e (fors’anche eccessivamente) analitica, presenta, com’è stato recentemente evidenziato, non pochi
dubbi interpretativi (55). Va dato atto, però, al legislatore delegato di aver migliorato, in séguito alle modifiche operate con il d.lgs. n. 310 del 2004, il dettato della disposizione in esame che, originariamente, lasciava privi di disciplina una serie di casi che avrebbero potuto facilmente verificarsi. Infatti,
stando alla lettera del previgente art. 8, erano impossibilitati a notificare
l’istanza di fissazione dell’udienza: 1) l’attore, se nessuna parte avesse risposto alla sua memoria di replica ex art. 6 ovvero a una replica ulteriore; 2) il
convenuto, se alla sua memoria difensiva ex art. 7, comma 1°, non fosse seguito alcuno scritto difensivo dell’attore e se il terzo non avesse replicato alla
memoria notificatagli, ai sensi dell’art. 6, dal convenuto medesimo; 3) il terzo, se nessun avversario avesse replicato alla sua memoria difensiva redatta a
mente dell’art. 7, comma 1°.
In tutte queste ipotesi, a meno che la parte avesse notificato, in alternativa
alla memoria, l’istanza di cui all’art. 8, il processo entrava in una fase di stallo che
teoricamente avrebbe potuto protrarsi sine die visto che da un lato vi era una parte
che non voleva rispondere né chiedere la fissazione dell’udienza, dall’altro, una
parte che, invece, voleva l’udienza, ma non poteva richiederla (56).
Al fine di risolvere il grave inconveniente, fu suggerito di interpretare la
norma nel senso che, trascorso il termine per rispondere, e quindi raggiunta la
certezza « che l’ultima parola del dibattito scritto (fosse) stata proferita », da
––––––––––––
(55) A tal proposito, si rinvia alle osservazioni svolte da Ventura, in I procedimenti
in materia commerciale, cit., p. 202 ss. V., altresì, De Santis di Nicola, L’art. 8, comma
2. lett. c), d.lgs. n. 5/2003 e il principio del contraddittorio: cronaca di una « convivenza » difficile, in Corr. giur. 2006, p. 94 ss.; Corsini, La notifica immediata dell’istanza di fissazione di udienza da parte del convenuto nel nuovo processo societario, in
Giur. it. 2005, p. 1894 ss.
(56) In ordine a tali problemi, v. Balena, Prime impressioni, cit., p. 2206 s.; Trisorio
Liuzzi, op. cit., § 9; Briguglio, op. cit., p. 91 ss.
582
RIVISTA DI DIRITTO PROCESSUALE
quella medesima data decorressero « in modo identico per entrambe le parti » i
quindici giorni (poi innalzati a venti) previsti dall’art. 8, comma 4°, entro i quali, a pena di estinzione del processo, avrebbe dovuto essere notificata l’istanza
di fissazione dell’udienza (57).
La proposta, poi confortata dall’intervento del legislatore delegato che
modificò il testo originario dell’art. 8, comma 4°, inserendo, dopo le parole
« successivi alla scadenza », le parole « dei termini di cui ai commi precedenti » (art. 4, comma 3°, lett. h), n. 6, d.lgs. n. 37 del 2004), si basava su una lettura integrativa e, in buona misura, creativa dell’art. 8. Proprio per questo essa
non lasciava pienamente soddisfatti e prestava il fianco a qualche critica, pur
dovendosi ammettere che rappresentava l’unica via possibile per venir fuori da
una altrimenti inevitabile impasse capace di provocare una vera e propria paralisi del procedimento e, nel contempo, per conferire certezza in ordine ai poteri
processuali delle parti e completezza alla norma.
Come poc’anzi osservato, il legislatore, molto opportunamente, ha di recente posto rimedio alla evidenziata lacuna provvedendo ad aggiungere, in fine
all’art. 8, comma 1°, lett. c), comma 2°, lett. c) e comma 3°, lett. b), d.lgs. n. 5
del 2003, le parole « ovvero dalla scadenza del relativo termine » (art. 3, comma 1°, d.lgs. n. 310 del 2004), col risultato di generalizzare il principio per cui
alla notifica di qualsivoglia atto difensivo ovvero alla scadenza del termine concesso ad una parte per replicare può sempre seguire la richiesta di fissazione di
udienza su istanza delle altre parti.
La novella del dicembre 2004, però, non ha chiarito, forse anche perché il
problema non è stato avvertito dalla dottrina, se la parte che non ha ricevuto la
notificazione né dell’istanza di fissazione dell’udienza né di un atto difensivo
sia tenuta necessariamente a notificare l’istanza di fissazione dell’udienza oppure possa anche proseguire la trattazione scritta della causa.
Nel silenzio del legislatore, direi che, in assenza di un espresso divieto,
non sussiste alcun valido motivo per sottrarre alla parte il potere di decidere la
strategia processuale più appropriata e dunque di scegliere, a fronte dell’inerzia dell’avversario, se chiedere immediatamente l’udienza ovvero notificargli una nuova memoria al fine, ad esempio, di meglio articolare le proprie
difese oppure, laddove sia ancora in tempo, di dedurre ulteriori mezzi istruttori (58). Anzi, tale lettura mi sembra confortata proprio dal dettato dell’art. 8,
––––––––––––
(57) In tal senso, v. Briguglio, op. cit., p. 92. Con riferimento alla situazione
creatasi dopo gli emendamenti apportati dal d.lgs. n. 37 del 2004, v. Sassani-Tiscini, in
Sandulli- Santoro-Sassani (a cura di), La riforma delle società. Aggiornamento commentato, Torino 2004, p. 192 ss.; Arieta-De Santis, op. cit., p. 185 ss.; Carratta, op. cit.,
p. 255 ss.
(58) In senso favorevole rispetto a questa soluzione, v. anche Dalmotto, in Chiarloni, Il nuovo processo societario, (commentario diretto da). Aggiornamento, Bologna
L’ESTINZIONE DEL PROCESSO SOCIETARIO
583
secondo il quale ciascuna parte « può » (e non già « deve ») domandare la fissazione dell’udienza sia nel caso in cui abbia avuto la notifica di un atto difensivo, sia quando non l’abbia ricevuta. Inoltre, mi pare che l’accoglimento
di tale proposta interpretativa sarebbe auspicabile non soltanto ad ulteriore
garanzia del diritto di difesa delle parti, ma anche al fine di dare coerenza al
complessivo impianto del rito societario. Infatti, dal momento che l’attore
tempestivamente costituito può optare, qualora il convenuto non notifichi la
comparsa di risposta, tra la notificazione dell’istanza di fissazione dell’udienza e di una nuova memoria (art. 13, comma 2°), sembrerebbe corretto (e,
anzi, quasi inevitabile) dedurre che tale alternativa possa e debba essere estesa
a tutte le parti in ogni caso in cui, nel corso della fase preparatoria, una di loro
si astenga dal notificare uno scritto difensivo e non provveda neanche a domandare la fissazione dell’udienza.
In virtù di tali considerazioni, e dopo le modifiche apportate dal d.lgs. n.
310 del 2004, dal coordinamento dei primi tre commi dell’art. 8, sembrerebbe
potersi ricavare il principio generale per cui una parte, scaduto il termine concesso all’avversario (che non abbia notificato l’istanza di fissazione di udienza)
per rispondere e a prescindere dall’effettiva notificazione della replica, può scegliere se notificargli una ulteriore memoria oppure l’istanza di fissazione
dell’udienza (entro venti giorni dalla data di notifica della memoria avversa o,
in mancanza, dalla scadenza del relativo termine).
11. – A completamento del meccanismo appena descritto, il legislatore
delegato ha stabilito che qualora l’istanza di fissazione dell’udienza non sia notificata nei venti giorni successivi alla scadenza dei termini di cui all’art. 8,
commi 1°, 2° e 3°, oppure entro venti giorni dalla scadenza del termine per il
deposito della memoria di controreplica del convenuto prevista a norma dell’art.
7, comma 2°, oppure ancora dalla scadenza del termine massimo di cui all’art.
7, comma 3°, il processo viene dichiarato estinto anche d’ufficio (59). Il rilievo
––––––––––––
2005, p. 19, il quale rileva correttamente che tale attività incontra il solo limite del termine massimo di durata della fase preparatoria stabilito dall’art. 7, comma 3°.
(59) A differenza di quanto oggi stabilito per il rito societario, il c.p.c. del 1865,
con riferimento al procedimento formale, non prevedeva alcun limite temporale entro il
quale lo scambio delle memorie dovesse esaurirsi, tuttavia consentiva a ciascuna parte
di interrompere il dialogo scritto (e quindi di portare la causa in udienza) in qualsiasi
momento, semplicemente evitando di rispondere all’ultima comparsa, facendo iscrivere
la causa sul ruolo di spedizione e notificando l’iscrizione all’avversario nei successivi
due giorni (art. 173 c.p.c. del 1865 e art. 216 reg. gen. giud.). Tale termine, però, non
era perentorio e il suo mancato rispetto veniva sanzionato, per vero in modo assai
blando, con la cancellazione della causa dal ruolo che il presidente poteva disporre
soltanto su istanza di parte (art. 219 reg. gen. giud. del 1865). Nel caso in cui, poi, lo
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RIVISTA DI DIRITTO PROCESSUALE
officioso, però, è precluso se l’udienza si è comunque svolta con la partecipazione di almeno una parte la quale, in tal caso, se vorrà approfittare dell’estinzione, sarà tenuta a proporre la relativa eccezione nella stessa udienza e, naturalmente, prima di ogni altra difesa (art. 8, comma 4°) (60).
Anche questa disposizione presenta gravi problemi interpretativi, atteso
che rende assai incerto il termine finale per la notifica dell’istanza di fissazione
dell’udienza nei casi stabiliti dai primi tre commi dell’art. 8, termine il cui superamento è sanzionato con l’estinzione del processo.
Invero, stando al tenore letterale della norma, non dovrebbero esservi dubbi in ordine al fatto che essa prevede la mors litis quale conseguenza della mancata notificazione dell’istanza di fissazione dell’udienza entro ulteriori venti
giorni decorrenti dalla inutile scadenza dei termini già concessi dai primi tre
commi dell’art. 8 per chiedere la fissazione dell’udienza (61). Per contro, pare
si stia affermando l’orientamento secondo il quale l’art. 8, comma 4°, sanzionerebbe con l’estinzione la mancata notificazione dell’istanza di fissazione
dell’udienza nei termini perentori stabiliti dai commi precedenti. Più precisamente, si sostiene che la norma in esame vada letta nel senso che la parte che
non intenda replicare all’avversario ha l’onere di notificargli l’istanza di fissazione dell’udienza nel termine perentorio di venti giorni dalla ricezione dell’ul-
––––––––––––
scambio di comparse fosse stato interrotto ma nessuna delle parti avesse iscritto la causa sul ruolo di spedizione, cominciava a decorrere un termine di tre anni entro il quale
la parte che ne aveva interesse poteva riprendere il dialogo scritto ovvero decidere di
portare la causa in udienza. Scaduto quel termine senza che fosse stata eseguita alcuna
attività processuale, il processo, su istanza di parte, si perimeva (sull’argomento, v.
Mortara, voce Appello civile, in Digesto it., III, 2, Torino 1890, p. 939 s.; Battista, voce
Perenzione d’istanza, ivi, XVIII, 2, Torino 1906-1912, p. 248 s.)
Nel c.p.c. del 1940, invece, per ottenere la fissazione dell’udienza era necessario rivolgere al presidente del tribunale l’istanza per la designazione del g.i. Tale istanza poteva essere inserita nell’atto introduttivo del giudizio o nella comparsa di risposta, ma poteva anche essere proposta con separato ricorso. In quest’ultimo caso doveva essere presentata entro trenta giorni dalla scadenza del termine di costituzione del convenuto, pena
l’estinzione officiosa del processo (art. 172 c.p.c.).
(60) Sembra opportuno ricordare che prima delle modifiche apportate dal d.lgs. n.
37 del 2004, per la mancata notificazione dell’istanza di fissazione dell’udienza nei termini stabiliti dai primi tre commi dell’art. 8, non era prevista, almeno esplicitamente, alcuna sanzione. Di qui, un acceso dibattito dottrinale sulle conseguenze di tale condotta
omissiva, sul quale v. Punzi, op. cit., p. 93 ss.; Costantino, Il nuovo processo commerciale, cit., pp. 412 s. e 422 ss.; Balena, Prime impressioni, cit., p. 2207; Trisorio Liuzzi,
op. cit., §§ 9 e 13; Carratta, op. cit., p. 265 ss.; Arieta-De Santis, op. cit., p. 195 ss.; Briguglio, op. cit., p. 90 ss.; M. Fabiani, La partecipazione del giudice, cit., p. 163 ss.; Ziino,
op. cit., § 10; Picaroni, op. cit., p. 99 ss.; Poliseno, op. cit., p. 260 ss.
(61) In tal senso, v., infatti, Ventura, op. cit., p. 207.
L’ESTINZIONE DEL PROCESSO SOCIETARIO
585
timo scritto difensivo, decorso il quale il processo si estingue, a meno che l’altra
parte non provveda essa stessa alla notificazione dell’istanza nei venti giorni
successivi alla scadenza di tale termine (62).
A ben vedere, però, la dinamica appena descritta corrisponde perfettamente a quella delineata dai primi tre commi dell’art. 8 che, in séguito agli
emendamenti apportati dal d.lgs. n. 310 del 2004, consentono a ciascuna parte
di notificare l’istanza di fissazione dell’udienza entro venti giorni decorrenti,
oltre che dalla notifica dell’avverso scritto difensivo, anche dalla scadenza del
termine assegnato all’altra per provvedervi. L’interpretazione offerta, quindi,
non sembra affatto condivisibile dal momento che svaluta, sino a cancellare del
tutto, il contenuto dell’art. 8, comma 4°, che invece aggiunge un quid pluris al
meccanismo previsto dai commi precedenti e che, lungi dallo stabilire che il
dies ad quem per notificare l’istanza di fissazione dell’udienza coincida con i
termini di cui all’art. 8, commi 1°, 2° e 3°, individua espressamente nella scadenza di tali termini il dies a quo dal quale si dipartono ulteriori venti giorni per
provvedere a tale atto di impulso, decorsi i quali il processo si perime.
Per altro verso, riterrei che la lettura in esame sconti l’ulteriore difetto di
consentire, assai inopportunamente, alla sola parte legittimata a notificare
l’istanza di fissazione dell’udienza, ma che si astenga dal farlo senza neanche
proseguire la trattazione scritta, di provocare la mors litis. È stato osservato, infatti, che in questo modo la norma si presterebbe ad un uso distorto, offrendo
alla parte disinteressata alla sentenza di merito un agevole strumento per liberarsi del processo (63). Ma soprattutto, mi pare vada evidenziato che l’estin-
––––––––––––
(62) In tal senso, v., in giurisprudenza, Trib. Bari 11 luglio 2005 in Foro it. 2006, I,
c. 595; Trib. Brindisi 10 giugno 2005, ibid., c. 609 ss., con nota adesiva di Poliseno. In
dottrina, nello stesso senso, v. Ronco, Nuovo rito societario, cessazione della trattazione
scritta, omissione dell’istanza di fissazione dell’udienza ed estinzione del processo (dove
lo spirito dell’interprete cede a quello dell’enigmista), in Giur. it. 2005, p.1243 ss.; Dalmotto, op. ult. cit., p. 19; Montenero, Sulla decorrenza del termine per la notifica
dell’istanza di fissazione dell’udienza e sulle conseguenze della sua inosservanza, in
Giur. mer. 2005, p. 592 ss.
Si segnala, altresì, che anteriormente alle modifiche apportate dal d.lgs. 28 dicembre 2004 n. 310, il medesimo principio era stato enunciato, in giurisprudenza, da Trib.
Viterbo 6 aprile 2005, Trib. Terni 28 febbraio 2005 e Trib. Verona 14 gennaio 2005, in
Foro it. 2006, I, c. 936 ss.; Trib. Milano 2 dicembre 2004, in Foro it. 2006, I, c. 610 ss.,
in Giur. it. 2005, p. 1240 ss., e in Giur. mer. 2005, p. 591 ss.; Trib. Ivrea 11 novembre
2004 e Trib. Milano 16 settembre 2004, in Foro it. 2006, I, c. 610 ss. In dottrina, sostanzialmente nello stesso senso, sempre anteriormente alla novella del dicembre 2004, v.
Sassani-Tiscini, op. cit., p. 196; Carratta, op. cit., p. 268 ss.; Arieta-De Santis, op. cit.,
pp. 187 e 195 ss.; Sotgiu, op. cit., p. 178 ss.; Fava, in Alpa-Galletto (a cura di), Processo,
arbitrato e conciliazione, cit., p. 68 s.
(63) V., in proposito, i rilievi di Carratta, op. cit., p. 269.
586
RIVISTA DI DIRITTO PROCESSUALE
zione (almeno quando, come nel caso di specie, consegue ad « inattività pura o
strumentale » (64)) è stata impostata dal legislatore del 1940 come una sanzione, in danno di entrambe le parti, irrogata in ragione dell’omesso compimento
combinato e contestuale di taluni atti di impulso espressamente previsti a loro
carico (65), sì che nel nostro ordinamento non esistono, né possono trovare ingresso, casi in cui essa, pur conseguendo all’inattività di una sola parte, colpisca
anche l’altra.
Così stando le cose, piuttosto che procedere ad una interpretatio abrogans
(e comunque difettosa) della norma in discorso, mi sembra che sia preferibile
percorrere la strada della sua interpretazione letterale, operazione che, per
quanto delicata e complessa, non mi pare affatto impossibile. Come abbiamo
accennato precedentemente, la prima parte dell’art. 8, comma 4°, stabilisce
espressamente ed indubitabilmente che il processo si estingue se l’istanza di
fissazione dell’udienza non viene notificata entro venti giorni decorrenti dalla
scadenza dei termini di cui ai commi precedenti. Poiché, però, i primi tre commi dell’art. 8 individuano numerosi termini entro i quali ciascuna parte può
provvedere alla notificazione di tale istanza, il vero problema della disposizione
in esame consiste nella difficoltà di individuare un unico termine iniziale, conoscibile con certezza da tutte le parti e valido per ciascuna di esse, dal quale
computare gli ulteriori venti giorni entro i quali sarà possibile sopperire all’inattività dell’altra parte ed evitare l’estinzione.
Orbene, dall’esame della dinamica prevista dall’art. 8, commi 1°, 2° e 3°,
abbiamo appurato che: ciascuna parte può notificare l’istanza di fissazione
dell’udienza entro venti giorni dalla ricezione di uno scritto difensivo al quale
non intenda replicare; se poi una parte resta inattiva e lascia scadere sia il termine per replicare, sia il termine per domandare la fissazione dell’udienza, l’altra
acquisisce comunque la facoltà di notificare l’istanza di fissazione dell’udienza
entro venti giorni dallo spirare del termine assegnato all’avversario per la replica. Sembra ovvio, quindi, che i venti giorni di cui discorre l’art. 8, comma 4°,
non si riferiscono alla scadenza del termine a favore della parte che abbia ricevuto la notificazione di uno scritto difensivo, atteso che, qualora rimanesse
inerte, l’altra avrebbe il diritto di notificare l’istanza di fissazione dell’udienza
non già in virtù del comma 4°, bensì dei commi precedenti. I commi 1°, 2° e 3°
––––––––––––
(64) Sulla distinzione tra le fattispecie estintive che risultano coordinate « ad un fenomeno di nullità del procedimento » e quelle che, invece, conseguono ad « inattività
pura o strumentale delle parti » e servono ad assicurare al processo un ritmo minimo, v.
Vaccarella, op. cit., p. 65 ss.
(65) Cfr., in particolare, Liebman, Manuale di diritto processuale civile, II, 4a ed.,
Milano 1984, p. 203 s.; Satta-Punzi, op. cit., p. 407; Mandrioli, op. cit., II, p. 361 ss.;
Monteleone, voce Estinzione, cit., p. 133; Vaccarella, op. cit., p. 85 ss.; Saletti, voce
Estinzione, cit., p. 2.
L’ESTINZIONE DEL PROCESSO SOCIETARIO
587
dell’art. 8, invece, nulla prevedono per l’ipotesi in cui anche detta parte si
astenga da qualsiasi attività processuale. In tal caso, salvo ammettere che il processo possa entrare in una fase di stallo per un periodo indeterminato, si applicherà quanto stabilito dall’art. 8, comma 4°. Con la conseguenza che dalla scadenza del termine concesso a quest’ultima parte per rispondere (ovvero per notificare l’istanza di fissazione dell’udienza, se si ritiene che tale parte non abbia
facoltà di replica) decorrerà, per tutte le parti indistintamente, e dunque anche
per quella che da ultima aveva omesso di compiere attività processuali, un termine di venti giorni per notificare l’istanza di fissazione dell’udienza, decorso il
quale il processo si estinguerà (66).
Quindi, ad esempio, se il convenuto si astiene dal notificare la propria replica ex art. 7, comma 1°, e non domanda neanche la fissazione dell’udienza,
l’attore può, a sua scelta: a) notificare l’istanza de qua nel termine di venti giorni dalla scadenza del termine concesso all’avversario per replicare; b) notificare
un ulteriore atto difensivo alla controparte (nel termine legale decorrente dalla
scadenza del termine per rispondere a questa concesso), col risultato di rimetterla in termini; c) restare inattivo, nel qual caso per entrambe le parti decorre
un termine di venti giorni per notificare l’istanza di fissazione dell’udienza, spirato il quale, il processo si estingue.
Mi pare che al risultato raggiunto possa riconoscersi un certo grado di apprezzabilità, sia perché conseguito nella stretta osservanza del dettato normativo, sia perché efficace e coerente con i principi generali e con i meccanismi coi
quali la disposizione in esame interagisce. In questo modo, infatti, per un verso,
si ottiene il bilanciamento delle posizioni di tutte le parti che avranno comunque
a disposizione un totale di quaranta giorni per notificare l’istanza di fissazione
dell’udienza, per l’altro, si assicura che l’estinzione per mancata notificazione
di detta istanza sia effettivamente il risultato di una inattività combinata e contestuale di tutte le parti costituite in giudizio.
A conclusione del discorso relativo all’art. 8, comma 4°, non resta che
procedere a qualche osservazione a proposito della estinzione per mancata notificazione dell’istanza di fissazione dell’udienza nei venti giorni successivi alla
scadenza « del termine per il deposito della memoria di controreplica del convenuto di cui all’articolo 7, comma 2, ovvero dalla scadenza del termine massimo di cui all’art. 7, comma 3 ».
Quanto all’anomalia del termine iniziale per la notificazione dell’istanza
decorrente dal « deposito della memoria di controreplica del convenuto », è
stato detto che, molto probabilmente, siamo in presenza di un errore terminolo-
––––––––––––
(66) La soluzione offerta, assolutamente rispettosa della lettera della norma, è
molto simile a quella proposta, in via interpretativa, da Briguglio, op. cit., p. 91 ss., (nel
vigore del testo originario dell’art. 8) e che il legislatore, con le modifiche del dicembre
2004, sembrerebbe aver sostanzialmente fatta propria.
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RIVISTA DI DIRITTO PROCESSUALE
gico del legislatore che, in realtà, intendeva riferirsi alla notificazione di tale
atto (67). A prescindere da questa notazione, va evidenziato che, dopo gli
emendamenti apportati dal d.lgs. n. 310 del 2004 all’art. 8, comma 1°, lett. c),
comma 2°, lett. c) e comma 3°, lett. b), fatto salvo il divieto per le parti di proseguire nello scambio di ulteriori memorie alla scadenza del termine massimo
di cui all’art. 7, comma 3°, entrambe le fattispecie estintive sembrerebbero essere state implicitamente abrogate (68). Prima di queste modifiche, infatti, come
abbiamo visto in precedenza, il processo poteva entrare in una fase di stallo se
alla notifica della memoria di replica dell’attore o di un qualsivoglia atto successivo dello stesso o di un’altra parte non fosse seguita la replica ovvero la notificazione dell’istanza di fissazione dell’udienza. Oggi, invece, tale inconveniente è venuto meno, e con esso la ratio giustificatrice delle norme in esame,
sicché la sopravvivenza di tali eccezionali ipotesi di estinzione immediata del
processo risulterebbe inspiegabile.
Ricostruito, o almeno così si spera, il complesso sistema sotteso all’art. 8
del decreto delegato, ci si deve domandare che senso abbia, nell’ambito di un
congegno processuale che, si ribadisce, dovrebbe essere teso alla valorizzazione del principio dispositivo, sanzionare con l’estinzione del processo la
tardiva notificazione dell’istanza con la quale si chiede che venga fissata
l’udienza, e soprattutto imporre alle parti un termine massimo di durata della
fase preparatoria (69).
Certo, la scelta potrebbe giustificarsi con l’esigenza, che pure aveva il legislatore in ossequio alla delega, di ridurre i tempi processuali. Sicché egli mai
avrebbe potuto prevedere, come avveniva invece nel procedimento formale di
cui al c.p.c. del 1865, che lo scambio di memorie non trovasse alcun limite. Co-
––––––––––––
(67) In tal senso, v. Carratta, op. cit., p. 266. Nel senso che il problema sia stato
risolto dalla novella del dicembre 2004 che ha integrato l’art. 17 inserendo il comma
2-bis, in virtù del quale « nel processo con pluralità di parti, le comparse e le memorie devono essere notificate a tutte le parti costituite e l’atto notificato deve essere
depositato in cancelleria entro dieci giorni dall’ultima notificazione », v. Ventura, op.
cit., p. 208.
(68) Nello stesso senso, ancorché sulla base di differenti motivazioni, v. Ronco,
Nuovo rito societario, cit., p. 1244 s.; Sotgiu, op. cit., p. 175 s., nt. 7.
(69) Sull’argomento, v. gli ineccepibili rilievi mossi da Balena, Prime impressioni,
cit., p. 2204, il quale, in senso fortemente critico rispetto alle opzioni del legislatore delegato, ha osservato che « sarebbe stato più coerente, nella prospettiva di una complessiva
“liberalizzazione” di questa fase preparatoria, concedere un termine assai più ampio per il
passaggio della causa dinanzi al giudice, ossia per la proposizione dell’istanza di fissazione dell’udienza (…): finché la causa non impegna direttamente l’ufficio, infatti, credo
si possa (ed anzi convenga) essere molto “generosi”, se non proprio indifferenti, rispetto
alle eventuali tattiche “attendiste” delle parti, quali che siano le ragioni alla base della
loro inerzia ».
L’ESTINZIONE DEL PROCESSO SOCIETARIO
589
sì stando le cose, coerenza avrebbe voluto che la tardiva richiesta dell’udienza
di discussione in tutti i casi stabiliti dall’art. 8 fosse sanzionata con l’estinzione
rilevabile d’ufficio. Invece, si è optato per un meccanismo sanzionatorio assai
singolare che prevede il rilievo officioso dell’estinzione, ma nel solo caso, assai
difficile da realizzarsi (70), in cui l’udienza si sia svolta in assenza di tutte le
parti.
Ne è derivato, per quel che sembra, un sistema che non soltanto denota
l’abbandono di ogni ideologia e che, proprio per questo, manifesta una evidente
contraddittorietà, ma opera anche in pura perdita quando non a danno della parte
che aveva interesse ad ottenere rapidamente sentenza e che invece si vede costretta a subire l’estinzione del giudizio per una mera disavventura processuale.
12. – La parte che ha notificato l’istanza di fissazione dell’udienza è tenuta, ai sensi dell’art. 9, comma 3°, a depositarla in cancelleria « nel termine perentorio di dieci giorni dall’ultima notificazione ». Tale disposizione, invero,
non stabilisce espressamente quali conseguenze derivino dal tardivo o mancato
deposito dell’istanza, sicché, nel silenzio della legge, alcuni autori hanno sostenuto trattarsi di inattività sanzionata con l’estinzione del processo (71).
Siffatta lettura, per quanto perfettamente in linea con la disciplina degli
atti di impulso processuale e dei termini per procedervi (72), se fosse accolta
esporrebbe la norma a fondatissimi dubbi di legittimità costituzionale per
violazione degli artt. 3, 24 e 111 Cost., atteso che consentirebbe alla parte disinteressata alla prosecuzione del processo di paralizzare deliberatamente e
liberamente l’iniziativa dell’altra. Per fare un esempio, il convenuto, ricevuta
la citazione, dopo essersi costituito in giudizio potrebbe, a norma dell’art. 8,
comma 2°, lett. c), notificare l’istanza e non depositarla in termini, in modo da
determinare l’estinzione del processo, senza che l’attore possa far nulla per
impedirlo.
È del tutto evidente che questo risultato è inaccettabile e che quindi è necessario individuare un espediente per salvare il processo dall’estinzione (e la
norma dalla incostituzionalità).
Una soluzione ragionevole al problema potrebbe essere quella di ritenere
––––––––––––
(70) V., infatti, le osservazioni di Trisorio Liuzzi, op. cit., § 9.5.
(71) In tal senso, v. Monteleone, Il processo nelle controversie societarie, cit., p. 20
s.; Tiscini, op. cit., p. 103 s.; Picaroni, op. cit., p. 113 s.; Riva Crugnola, Le attività del
giudice nel nuovo « processo societario » di cognizione di primo grado: fissazione
dell’udienza, istruzione, fase decisoria, in Società 2003, p. 785. In giurisprudenza, v.,
nello stesso senso, Trib. Lucca 18 ottobre 2004, in www.judicium.it.
(72) In ordine alla quale si rinvia a Balbi, op. cit., pp. 12 ss., 31 ss., 253 ss.;
Vaccarella, op. cit., p. 157 ss.; Saletti, La riassunzione nel processo civile, Milano
1981, p. 349 ss.
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RIVISTA DI DIRITTO PROCESSUALE
che il mancato rispetto del termine per il deposito dell’istanza di fissazione
dell’udienza comporti, per la parte che ha notificato l’istanza, la decadenza
dalla facoltà di domandare l’udienza (73) e, per quelle che hanno ricevuto la
notificazione, la possibilità di surrogarsi alla parte inattiva e di chiedere, nel
termine di deposito delle note di cui all’art. 10, la pronuncia del decreto di fissazione dell’udienza (74).
La proposta ha il pregio non soltanto di preservare i diritti di tutte le parti e
di restituire coerenza all’impianto processuale, ma anche di essere in linea con i
principi generali, vuoi perché la perentorietà di un termine implica la mera decadenza dall’esercizio del potere cui quel termine è collegato e non certo, di regola, la decadenza dall’esercizio di ogni potere processuale che deriverebbe
dall’estinzione (75); vuoi perché tale sanzione, che non è neanche espressamente prevista per il caso di specie, si rivelerebbe obiettivamente eccessiva a
fronte della violazione della legge processuale; vuoi, infine, perché, diversamente opinando, « si finirebbe per concedere ad una parte, non interessata alla
definizione del giudizio, un’arma troppo forte » (76).
––––––––––––
(73) In tal senso, v. Trisorio Liuzzi, op. cit., § 9.8; Arieta-De Santis, op. cit., p. 220
s.; Sotgiu, op. cit., p. 184. In giurisprudenza, v. Trib. Santa Maria Capua Vetere 29 novembre 2005, in www.judicium.it.
(74) In tal senso, v. Trisorio Liuzzi, op. cit., § 9.8; Arieta-De Santis, op. cit., p. 221;
M. Fabiani, Le attività del giudice, cit., § 6.2; Id., La partecipazione del giudice, cit.,
pp. 170 e 198; Poliseno, op. cit., p. 263. Se poi nessuna parte provveda al deposito, sembrerebbe doversi ritenere che, utilizzando la valvola di sicurezza del sistema offerta
dall’art. 13, comma 5°, « le parti diverse dall’istante dovrebbero essere messe in condizione di esercitare gli stessi poteri processuali che avrebbero potuto esercitare nel momento in cui hanno ricevuto la notificazione dell’istanza di fissazione dell’udienza (poi
non depositata), senza che nei loro confronti assuma rilevanza il maturare di eventuali,
successive preclusioni » (così Carratta, op. cit., p. 280 s.). Per Ziino, op. cit., § 10.1, invece, « nel caso di mancato deposito dell’istanza deve inoltre ritenersi che il potere di
chiedere la fissazione di udienza non si sia consumato: ne deriva che la parte conserva la
facoltà di notificare una nuova istanza di fissazione di udienza ». Secondo Ventura, op.
cit., p. 215, in caso di omesso deposito dell’istanza, la controparte potrebbe scegliere se
proseguire la trattazione scritta oppure « porvi fine proponendo a sua volta l’istanza di
fissazione dell’udienza ». Si segnala, altresì, la posizione di Sotgiu, op. cit., p. 184, il
quale osserva che in mancanza di deposito, anche tardivo, dell’istanza, « il processo può
essere in ogni tempo proseguito attraverso la notificazione ed il successivo deposito di
una nuova istanza di fissazione di udienza ».
(75) Nel senso che la « decadenza », che si riferisce alla perdita del potere di compiere una certa attività per non averla eseguita nel termine previsto, assomiglia alla perenzione ma non va confusa con essa perché la prima riguarda un atto ancora da compiere, la seconda un atto già compiuto, v. Carnelutti, Sistema del diritto processuale civile,
II, Padova 1938, p. 491.
(76) Così Trisorio Liuzzi, op. cit., § 9.8.
L’ESTINZIONE DEL PROCESSO SOCIETARIO
591
E ciò a tacere del fatto che optare per l’estinzione del processo significherebbe accentuare l’autoritarismo di un rito che, invece, come si è già detto in
precedenza, si propone « una complessiva “liberalizzazione” di questa fase preparatoria » (77).
13. – Giunti alla fine della nostra indagine con la quale si è tentato di gettare un po’ di luce sulla oscura, lacunosa e controversa disciplina dell’estinzione dettata per il processo societario, possiamo trarre alcune conclusioni.
Ferma la bontà e apprezzabilità dell’impostazione della fase introduttiva
del nuovo rito, non può certamente dirsi che sia stata realizzata, neanche in
parte, la valorizzazione del principio dispositivo, che pure rappresentava uno
dei punti nodali della riforma. Viceversa, è stato senza dubbio alcuno raggiunto
il traguardo della « riduzione dei termini (rectius: tempi) processuali » (78) che
è stato attuato attraverso una sorta di « contingentamento della durata della fase
preliminare » (79).
La verità è che il legislatore delegato sembrerebbe essersi preoccupato più
di arginare il principio dispositivo che di valorizzarlo. Egli, piuttosto che portare sino in fondo la scelta di adottare un modello processuale fondato sulla autoresponsabilità delle parti e recidere coraggiosamente ogni legame con la recente
tradizione, ha commesso l’errore di inserire in un modello processuale liberale e
garantista, quale quello del procedimento formale del 1865, istituti e metodi
propri del processo autoritario del 1940. Ne è risultato un rito fondato sul compromesso tra due ideologie agli antipodi e che, quindi, anziché avere due anime
non ne ha neanche una: si evita che si incorra nella mors litis se nessuna delle
parti si costituisce, ma poi si fa estinguere il processo se l’attore si sia costituito
tardivamente e il convenuto tempestivamente; si dà alle parti la facoltà di regolare al di fuori dell’udienza uno scambio di memorie da attuarsi entro termini
minimi, ma poi si limita la durata di questo scambio sanzionando il superamento dei limiti temporali con l’estinzione che, però, non può essere rilevata
d’ufficio se non in casi eccezionali.
In conclusione, è forse stata persa una buona occasione per restituire, dopo
sessant’anni, il processo civile nelle mani delle parti. L’auspicio è che il legislatore, in un prossimo futuro, avendo verificato, anche alla luce dell’esperienza
applicativa del nuovo rito, che lasciare spazio alle parti (rectius: ai loro patroni)
non significa affatto ridimensionare il ruolo dei giudici né abbandonare il processo a se stesso o peggio farlo diventare il « comodino degli avvocati », cor-
––––––––––––
(77) Così Balena, Prime impressioni, cit., p. 2204.
(78) Così la Relazione al d.lgs. n. 5 del 2003, cit., parafrasando l’art. 12, comma 2°,
lett. a), legge 3 ottobre 2001, n. 366, recante la « Delega al Governo per la riforma del
diritto societario ».
(79) Così sempre la Relazione al d.lgs. n. 5 del 2003, cit.
592
RIVISTA DI DIRITTO PROCESSUALE
regga il tiro e operi finalmente una scelta in senso liberale, valorizzando davvero il principio dispositivo nel processo societario e lasciando che siano le parti a
preoccuparsi di regolare la velocità del procedimento. E questo, anche e soprattutto in vista della prossima riforma del processo civile della quale il rito
societario rappresenta un’anticipazione settoriale (80).
MARIO PIO FUIANO
Ricercatore nell’Università
degli Studi di Foggia
––––––––––––
(80) V., infatti, il Comunicato del Consiglio dei Ministri n. 88 del 10 gennaio 2003,
cit. Sul punto, si rinvia soprattutto alle riflessioni di Balena, Prime impressioni, cit.,
p. 2203; Trisorio Liuzzi, op. cit., § 1; Consolo, Le prefigurabili inanità, cit., passim; Id.,
Esercizi imminenti, cit., p. 1541 ss.; Carratta, Rito speciale per le società, in arrivo
l’inedito « processo senza giudice », in Dir. giust. 2003, p. 19. V., altresì, M. Fabiani, La
partecipazione del giudice, cit., p. 153, il quale parla della riforma del rito societario come di « un antipasto (peraltro molto succulento – o molto indigesto a seconda dell’approccio – viste le dimensioni dell’intervento) della riforma più generale del codice di
procedura civile ».
LA NOMINA DEL DIFENSORE
NEL PROCESSO CIVILE
SOMMARIO: 1. Premessa. – 2. La nomina del difensore nel c.p.c. del 1865: il
mandato in forma autentica. – 3. La proposta di Mortara e la riforma del
1923: il mandato in calce certificato dal difensore. – 4. L’art. 83 c.p.c. e
la riforma del 1997: la procura a margine, le procure speciali “generiche”
e quelle su foglio autonomo. – 5. La certificazione del difensore. Prime
conclusioni. – 6. Il « problema » dell’invalidità della procura. Conclusioni. – 7. Obiezioni, conferme e prospettive.
1. – Nel processo civile la parte, di regola, non può stare in giudizio di persona, ma deve avvalersi dell’intermediazione di un difensore, ch’essa deve designare con un atto che nel nostro ordinamento si chiama « procura alle liti »
(art. 83 c.p.c.). Tuttavia, siffatta procura non può essere posta sullo stesso piano
di quella disciplinata nel diritto sostanziale (art. 1392 c.c.), in quanto essa rappresenta in realtà una semplice nomina (1), atteso che, come emerge chiaramente dall’art. 84 c.p.c., il difensore, una volta designato, deriva i propri poteri
dalla legge e non dalla volontà della parte (2).
La « procura alle liti », quindi, al pari della « nomina » del difensore
dell’imputato prevista nel processo penale (art. 96 c.p.p.), non dovrebbe creare
––––––––––––
(1) Così Cipriani, Procura su foglio separato o procura presunta?, in Foro it.
1997, I, c. 3158, che ha dedicato al problema della procura numerosi saggi poi raccolti in Avvocatura e diritto alla difesa, Napoli 1999, p. 125 e ss. Nello stesso senso
v. Chiovenda, Principii di diritto processuale civile, 3a ed., Napoli rist. 1965, p. 606;
Carnelutti, Istituzioni del processo civile italiano, I, 5a ed., Roma 1956, p. 110; Pavanini, Note sulla figura giuridica del difensore, in Riv. trim. dir e proc. civ. 1957, p.
256; Punzi, Note sul ministero del difensore nel processo civile, in Studi in onore di
Segni, IV, Milano 1967, p. 174; Mandrioli, Delle parti e dei difensori, in Commentario del codice di procedura civile, diretto da Allorio, I, 2, Torino 1973, p. 934; Consolo, Spiegazioni di diritto processuale civile, II, Profili generali, Padova 2004,
p. 281; Comoglio, Procura (dir. proc. civ.), voce dell’Enc. dir., Aggiornamento, IV,
Milano 2000, p. 1056; Murra, Parti e difensori, voce del Digesto civ., XIII, Torino
1995, p. 275.
(2) In tal senso, per tutti, Monteleone, Diritto processuale civile, 3a ed., Padova
2002, p. 160.
594
RIVISTA DI DIRITTO PROCESSUALE
particolari problemi interpretativi e/o applicativi (3). Viceversa, le questioni generate nel processo civile dalla procura sono tantissime (4) e danno spesso vita
a decisioni in contrasto fra loro, giacché la giurisprudenza si dibatte da sempre
tra interpretazioni assai fiscali e interpretazioni assai meno rigorose. Il che
comporta l’effetto di alimentare, e non certo di scoraggiare, le eccezioni attinenti alla procura, visto che, alla luce dell’ambiguo atteggiamento della giurisprudenza, si può sempre confidare ch’esse siano accolte: infatti, come tutti
sanno e come è stato autorevolmente osservato, le contestazioni sulla procura
non provengono mai dalla parte presunta falsamente rappresentata, bensì dalla
controparte (5).
In questa situazione, appare opportuno cercare di appurare le ragioni per le
quali il regime del conferimento dell’incarico difensivo nel processo civile sia
diuturna fonte di problemi, sì da capire quel che bisogna fare per uscire dall’impasse.
2. – A tal fine, converrà ricordare che all’indomani dell’Unità, il
Guardasigilli Pisanelli, nella Relazione sul progetto di codice di procedura
civile, dopo essersi domandato se il procuratore che si presenta in giudizio
a nome di una delle parti dovesse essere munito o no di mandato espresso,
respinse « la teoria del semplice mandato presunto » di tradizione franconapoletana e, sia « a tutela del diritto della parte contraria », sia per
« escludere l’ibrido sistema della disapprovazione », propose che fosse
adottato il sistema del mandato scritto (6). Il legislatore, però, non si contentò del mandato meramente scritto, ma dispose che l’incarico difensivo
dovesse essere conferito con atto in forma autentica oppure con scrittura
privata autenticata (art. 48 c.p.c. 1865), cioè a dire con un documento assistito da pubblica fede (artt. 1315 ss. c.c. 1865) e impugnabile solo con querela di falso, pretendendo così una duplice garanzia, e cioè che fossero assicurati da un pubblico ufficiale tanto la provenienza, quanto l’oggetto
dell’incarico difensivo.
––––––––––––
(3) Sulle poche questioni sollevate dalla disciplina della nomina del difensore nel
processo penale, v. Bronzo, in Lattanzi - Lupo, Rassegna di giurisprudenza e di dottrina sul c.p.p., a cura di Aprile, Bronzo, Cantone, Cesqui, Ciani, I, 2, Milano 2003,
p. 1088 e ss.
(4) Digitando la locuzione « procura alle liti » sulla banca dati di giurisprudenza de
Il Foro Italiano, per gli anni 1981-2004 vengono selezionati più di 1600 documenti attinenti alle pronunce della sola Corte di cassazione!
(5) Così Balena, Sulle conseguenze del difetto di procura “ad litem”, in Foro it.
1987, I, c. 562; Cipriani - Costantino - Proto Pisani - Verde, L’infinita historia della procura speciale, ivi 1995, I, c. 3443.
(6) Pisanelli, Relazione sul progetto del c.p.c., § 151, in Codice di procedura civile
del Regno d’Italia, 1865, a cura di Picardi e Giuliani, Milano 2004, p. 74.
LA NOMINA DEL DIFENSORE NEL PROCESSO CIVILE
595
Il rilascio del mandato al difensore impose così alle parti il rispetto di un
« cumulo di formalità, non brevi e dispendiose » (7), costringendole, persino nei
giudizi innanzi ai conciliatori, ad avvalersi di un notaio o di altro pubblico ufficiale per designare il proprio difensore. Il che, come la dottrina non mancò di
rilevare, aggravava non solo gli esborsi, ma anche le difficoltà delle quali le
parti dovevano farsi carico, in quanto un secolo e mezzo fa non erano pochi
coloro che dimoravano in luoghi in cui non risiedeva alcun notaio (8).
Peraltro, il sistema voluto dal legislatore del 1865, lungi dal rappresentare la
panacea per parti e controparti, nella realtà applicativa diede luogo a non pochi e
non semplici problemi: si discusse, per esempio, sulle formalità da rispettare per il
rilascio del mandato, sulla necessità che fosse indicata la data del rilascio, sulla
necessità della legalizzazione, sulla possibilità che il mandato fosse conferito
all’estero, sui modi di conferimento in caso di ammissione al gratuito patrocinio,
sulla validità del mandato privo d’indicazione del nome dell’avvocato, sulla rilevabilità d’ufficio dei vizi attinenti al mandato, sulla sanabilità di detti vizi (9).
È perciò evidente che l’art. 48 c.p.c., sebbene fosse stato ispirato all’esigenza di evitare ogni possibile arbitraria iniziativa degli avvocati, nella realtà
applicativa si rivelò da subito un’arma nelle mani di ognuna delle parti per ostacolare il diritto di azione e di difesa delle controparti.
3. – Così stando le cose, il sistema non poteva durare e difatti non durò.
Lodovico Mortara, prendendo spunto dalla l. 17 agosto 1895, n. 193, che aveva consentito che per le cause di competenza del conciliatore il mandato potesse essere apposto in calce all’originale o alla copia dell’atto di citazione
(senza autenticazione alcuna), propose che si adottasse la stessa soluzione per
gli altri giudizi. In particolare, Mortara sostenne essere « equa e ragionevole
l’abolizione della severa regola dell’art. 48, consentendo in tutti i casi che la
sottoscrizione del cliente nel mandato alle liti possa essere certificata dal procuratore medesimo costituito con quell’atto; e riservando tutt’al più al magistrato, nell’evento di dubbio od impugnazione, la facoltà della verificazione
come nel regolamento processuale austriaco »; verificazione consistente in
una « dichiarazione di conferma fatta in giudizio dal mandatario (che sia avvocato o notaio conosciuto dal magistrato) sotto la fede del giuramento professionale » (10).
––––––––––––
(7) Così Mortara, Commentario del codice e delle leggi di procedura civile, II, 4a
ed., Milano 1923, p. 756.
(8) In tal senso, v. Mattirolo, Trattato di diritto giudiziario civile italiano, II, 5a ed.,
Torino 1902, p. 527.
(9) Sulle questioni sollevate dall’art. 48, v. Prima raccolta completa della giurisprudenza sul codice di procedura civile, I, Milano 1914, pp. 610-630.
(10) Così Mortara, sin dalla prima edizione del Commentario, II (Milano 1902),
p. 754 e ss., spec. p. 756 e nota 1.
596
RIVISTA DI DIRITTO PROCESSUALE
La proposta fu accolta con l’art. 41 del R.D. 26 ottobre 1923, n. 2275, che
previde che il mandato potesse essere « scritto in fine dell’originale o della copia dell’atto di citazione per tutte le cause e per tutte le sedi, ordinarie e straordinarie », disponendo che in tal caso la sottoscrizione fosse "certificata" autografa dal procuratore.
Le riforme del 1895 e, soprattutto, del 1923 modificarono completamente
il sistema voluto dal c.p.c. del 1865. Infatti, mentre quel sistema, nella misura in
cui pretendeva il mandato in forma autentica, era ispirato ad una grande diffidenza nei confronti dei difensori, la riforma del 1923 stava a dimostrare che
ormai il legislatore aveva capito che non vi era motivo di non avere fiducia nel
difensore che agisce per la parte nel processo.
Sta di fatto, però, che l’art. 41 del R.D. 2275/1923 non riuscì a sdrammatizzare definitivamente il problema, dal momento che non solo non risolse tutti i
problemi che si agitavano in precedenza, ma ne creò di nuovi (11). Per di più, la
giurisprudenza diede subito per scontato che la certificazione del difensore fosse solo un sostituto dell’autenticazione notarile, come tale idonea, al pari di
quest’ultima, a conferire pubblica fede alla sottoscrizione, deducendone che,
per contestare l’autografia della sottoscrizione del mandato certificata dal difensore, fosse sempre necessaria la querela di falso (12).
4. – Si arrivò così al c.p.c. del 1940, che, in relazione al conferimento
dell’incarico difensivo all’avvocato, nell’art. 83, dopo aver stabilito che « quando la parte sta in giudizio col ministero di un difensore, questi deve essere mu––––––––––––
(11) Per esempio, ci si chiese se la mancata certificazione del difensore determinasse la nullità del mandato (in senso affermativo, v. App. Bari, 29 marzo 1926, in Foro it. Rep. 1926, voce Procedimento in materia civile, n. 28; in senso negativo, v.
Cass., 19 giugno 1928, n. 2810, ibid. 1928, voce cit., n. 56), se il procuratore potesse
certificare i mandati rilasciati all’estero (in senso affermativo, v. Cass., 6 luglio 1931,
ivi 1931, I, c. 1063; in senso negativo, v. App. Ancona, 20 aprile 1932, ivi Rep. 1932,
voce Procedimento in materia civile, n. 68), se il mandato potesse essere steso su foglio autonomo rispetto all’atto de quo agitur (in senso affermativo, v. App. Milano, 31
maggio 1940, ibid. 1940, voce cit., n. 117; in senso negativo, v. Cass., 27 aprile 1927,
n. 1477, ibid. 1927, n. 27), se il mandato potesse essere rilasciato in calce ad atti diversi da quelli indicati dalla legge (in senso affermativo, v. App. Bologna, 25 settembre
1927, ibid. 1928, voce cit., n. 48; in senso negativo, v. App. Torino, 16 gennaio 1932,
ibid. 1932, voce cit., n. 67) e se la violazione dell’imposta di bollo determinasse la
nullità del mandato (in senso negativo, v. Cass., 23 maggio 1935, in Giur. it. 1935, I, 1,
c. 834; in senso positivo, v. App. Bari, 18 dicembre 1933, in Foro it. Rep. 1934, voce
Procedimento in materia civile, n. 93).
(12) In tal senso v. Cass., 25 luglio 1932, in Foro it. Rep. 1932, voce Cassazione
civile, n. 184; Cass., 2 agosto 1935, n. 3173, ibid. 1935, voce cit., n. 238; Cass., 5 gennaio 1938, ibid. 1938, voce cit., n. 179; Cass., 19 gennaio 1940, n. 242, ibid. 1940, voce
cit., n. 145.
LA NOMINA DEL DIFENSORE NEL PROCESSO CIVILE
597
nito di procura » e dopo aver precisato che « la procura può essere generale o
speciale e deve essere conferita con atto pubblico o scrittura privata autenticata », previde che « la procura speciale può essere anche apposta in calce o a
margine della citazione, del ricorso, del controricorso, della comparsa di risposta o d’intervento, del precetto o della domanda di intervento nell’esecuzione »,
nel qual caso « l’autografia della sottoscrizione della parte deve essere certificata dal difensore ».
Dunque, i conditores non fecero altro che trasfondere nel codice la disciplina contenuta nell’art. 48 del vecchio c.p.c. e nell’art. 41 del R.D.
n. 2275/1923, ancorché con tre “piccole”, ma importanti innovazioni: innanzi
tutto, il « mandato » non si chiamò più così, bensì « procura »; di poi il novero
degli atti processuali sui quali la « procura » poteva essere rilasciata fu notevolmente ampliato; infine, si consentì che la « procura » fosse rilasciata anche a
margine di tali atti.
Quanto alla prima innovazione, è difficile dire perché il legislatore del
1940 denominò « procura » e non più « mandato » l’atto con il quale la parte
conferisce l’incarico difensivo all’avvocato (13). Certo è pero che, mentre nel
1865 discorrere di « mandato » poteva pure avere un senso, visto ch’esso, dovendo essere rilasciato davanti a un notaio, doveva pur indicare gli estremi della
causa per la quale veniva rilasciato, nel 1940 definire « procura » l’atto disciplinato nell’art. 83 c.p.c. non aveva alcuna ragion d’essere, atteso che il conferimento dell’incarico difensivo, potendo essere rilasciato in calce o in margine
agli atti processuali, si risolveva ben più chiaramente di prima in una semplice
nomina.
Per quel che riguarda poi la seconda innovazione, occorre osservare che,
mentre la dottrina è sempre stata dell’avviso che l’elencazione di cui all’art. 83
c.p.c. abbia natura esemplificativa (14), la giurisprudenza, dopo aver a lungo
escluso siffatta natura, è ormai da tempo pervenuta a ben diverse conclusioni,
atteso che, pur talvolta affermando, almeno in linea di principio, il carattere tassativo dell’elencazione (15), in concreto finisce invariabilmente per ammettere
la validità delle procure rilasciate su atti diversi da quelli indicati nell’art. 83,
––––––––––––
(13) In proposito, v. Carnelutti, Istituzioni, cit., I, p. 110 secondo cui il nome
« deriva certamente dall’opinione che il difensore attivo sia un rappresentante » e che
« con maggior precisione la legge abrogata usava la voce mandato ».
(14) Per tutti v. Mandrioli, Delle parti e dei difensori, cit., p. 937; Satta-Punzi, Diritto processuale civile, 13a ed., Padova 2000, p. 136, nota 38; Cipriani, La procura su
foglio autonomo tra la certificazione e gli spilli del difensore, in Foro it. 1995, I, c. 545;
Balena, Elementi di diritto processuale civile, I, 3a ed., Bari 2006, p. 190.
(15) V., in motivazione, Cass., sez. un., 22 novembre 1994, in Foro it. 1995, I, c.
540; Cass., 25 marzo 1988, n. 2565, ivi Rep. 1988, voce Procedimento civile, n. 55.
598
RIVISTA DI DIRITTO PROCESSUALE
quali, per esempio, la copia notificata della sentenza (16), la comparsa conclusionale (17), la copia del ricorso del decreto ingiuntivo notificato (18) e persino
un mero « foglio » allegato al verbale d’udienza (19) oppure depositato in cancelleria (20).
Ma fra le novità introdotte dal legislatore 1940 quella che più di tutte modificò il sistema precedente fu sicuramente la possibilità di rilasciare la procura
anche in margine agli atti del processo. Tale previsione intese « risolvere in senso affermativo, una volta per sempre, la disputa agitatasi in pratica, se, essendo
esaurito il numero di righe orizzontali, sia lecito stilare la procura al di fuori
delle righe verticali » (21), eventualità in linea di principio vietata, atteso che la
legge sul bollo non permetteva di scrivere al di là dei margini del foglio. Tuttavia, il legislatore « nel porre la procura a margine sullo stesso identico piano di
quella in calce, non ebbe cura di precisare che bisognava apporla accanto alla
fine dell’atto » (22), con la conseguenza che, come si può ben capire dalla giurisprudenza edita, gli avvocati non tardarono ad avvertire che potevano farsi
rilasciare la « procura » anche a margine della prima pagina del foglio; che potevano stampigliarla con appositi timbri, formulandola in termini tali da poter
essere utilizzata in ogni giudizio e dunque senza alcuno specifico riferimento al
processo nel quale doveva essere utilizzata; che potevano addirittura farsela rilasciare non solo prima della redazione dell’atto, ma persino prima della stesura
della stessa « procura » (23).
––––––––––––
(16) Cass., 27 giugno 2003, n. 10251, in Foro it. Rep. 2003, voce Procedimento civile, n. 112; Cass., 9 novembre 2001, n. 13871, ibid. 2001, voce Cassazione civile,
n. 197.
(17) Cass., 8 marzo 1995, n. 2697, in Foro it. Rep. 1995, voce Procedimento civile,
n. 122.
(18) Cass., 15 febbraio 1985, n. 1309, in Foro it. Rep. 1985, voce Ingiunzione (procedimento), n. 36.
(19) Cass., 25 marzo 1988, n. 2565, in Foro it. Rep. 1988, voce Procedimento civile, n. 55.
(20) Cass., 20 marzo 1999, n. 2618, in Foro it. 2000, I, c. 1277.
(21) Andrioli, Commento al codice di procedura civile, I, 3a ed., Napoli 1954, p.
238.
(22) Così Cipriani, La procura su foglio autonomo, cit., c. 541.
(23) V., per es., Cass., 9 ottobre 1959, n. 2744, in Giust. civ. 1959, I, p. 1857, che
dichiarò la legittimità della procura rilasciata sul margine superiore del foglio su cui era
scritto l’atto; Cass., 7 marzo 1955, n. 664, ivi 1955, I, p. 1119, Cass., 29 luglio 1955,
n. 2456, in Giur. it. 1956, I, 1, c. 220 e Cass., 13 luglio 1961, n. 1681, in Foro it. 1963, I,
1, c. 683, che affermarono la validità della procura apposta entro lo spazio riservato al
contesto dell’atto e anche prima di esso; Cass., 10 maggio 1961, n. 1105, ivi Rep. 1961,
voce Cassazione civile, n. 121, che escluse la nullità della procura conferita mediante
formula stampigliata; Cass., 17 maggio 1955, n. 1483, in Riv. dir. proc. 1956, II, p. 175,
con nota di Carnelutti, Procura in bianco al difensore, e in Giur. it. 1956, I, 1, c. 433, con
LA NOMINA DEL DIFENSORE NEL PROCESSO CIVILE
599
Questa realtà, come ormai da tempo tutti sanno, non incontrò ostacoli
nella giurisprudenza, che infatti elaborò la teoria del c.d. corpo unico, secondo la quale la procura a margine, al pari di quella in calce (24), anche se è
formulata in termini generici e se non contiene alcun espresso riferimento al
giudizio di cui si tratta, costituisce un corpo unico e inscindibile con l’atto
cui accede e perciò, riferendosi necessariamente a questo, soddisfa il requisito della specialità (25). Non è perciò un caso se, come è stato rilevato in
dottrina, gli avvocati hanno « gli archivi zeppi di fogli firmati a margine » e
pronti per essere utilizzati, nonché che « è assolutamente normale che una
firma o una procura (generica) a margine, rilasciata ma non utilizzata per un
certo processo, sia utilizzata, col consenso del mandante, per tutt’altro processo » (26).
Col c.p.c. del 1940, dunque, nacquero e si affermarono le procure speciali
che un’autorevole studioso, alla luce della piega che hanno preso le cose, ha
assai efficacemente definito « speciali-generiche », che a tutta prima « sembrano una contraddizione in termini e invece sono l’ovvia e inevitabile conseguenza non solo della possibilità di rilasciare la c.d. procura speciale in margine o in
calce agli atti processuali, ma anche della innegabile inutilità di ogni ulteriore
precisazione » (27).
Se ne può dedurre che il legislatore del 1940, attribuendo in buona sostanza al difensore il compito di assicurare l’esistenza dell’incarico difensivo
per il processo de quo agitur, mostrò di fidarsi appieno degli avvocati, ma la
giurisprudenza non ne trasse le debite conseguenze, meno che mai riconoscendo che, per nominare il difensore, non fosse essenziale la forma scritta,
che pur non è richiesta a pena di nullità dall’art. 83 e non sembra affatto ne––––––––––––
nota di Lo Cigno, In tema di nullità della procura ad litem: omesso completamento del
mandato in bianco, che ritenne non necessario che la volontà della parte di conferire
l’incarico difensivo fosse trasfusa in una rigorosa formula sacramentale; Cass., 27 giugno
1956, n. 2312, in Foro it. Rep. 1956, voce Procedimento in materia civile, n. 192, e
Cass., 15 giugno 1968, n. 1936, in Giust. civ. 1969, I, p. 486, che sostennero la validità
quale procura della sola firma della parte.
(24) In proposito, è appena il caso di dire che, prima dell’avvento dei computer,
l’essere la procura stesa in calce alla citazione lasciava ragionevolmente presumere che
essa fosse stata effettivamente conferita proprio per il processo nel quale veniva utilizzata.
(25) Tale teoria, che fu espressa già da Cass., 10 maggio 1961, n. 1105, in Foro it.
Rep. 1961, voce Cassazione civile, n. 121, è tutt’oggi assolutamente pacifica: ex plurimis,
v. Cass., 7 settembre 2004, n. 18006, ibid. 2004, voce cit., n. 178; Cass., 2 aprile 2004,
n. 6514, ibid., n. 180.
(26) Così Cipriani, La procura su foglio autonomo, cit., c. 541; Id., Procura su foglio separato, cit., c. 3158. V., altresì, Balena, Elementi di diritto processuale, cit., I,
p. 191.
(27) Cipriani, Procura su foglio separato, cit., c. 3158.
600
RIVISTA DI DIRITTO PROCESSUALE
cessaria per il raggiungimento dello scopo. Giust’al contrario, la giurisprudenza continuò a sostenere quel che sosteneva prima della riforma del 1923,
e cioè che la procura dovesse necessariamente essere rilasciata con atto fidefacente.
Fu così che nel 1997, « per porre fine agli inconvenienti derivanti da un
orientamento giurisprudenziale ultraformalistico » (28), secondo il quale le
procure rilasciate sul foglio autonomo materialmente spillato all’atto processuale dovevano considerarsi affette da nullità insanabile e rilevabile d’ufficio
in quanto il difensore poteva certificare solo le procure veramente in margine
o in calce (29), il legislatore, con legge n. 141/1997, alla fine del comma 3°
dell’art. 83 c.p.c., precisò: « La procura si considera apposta in calce anche
se rilasciata su foglio separato che sia però congiunto materialmente all’atto
cui si riferisce ». Cioè a dire, il legislatore non si contentò di affermare che
la procura stesa sul c.d. foglio autonomo e spillato è valida, ma, dando per
scontata la validità, stabilì che tale procura si considera addirittura in calce,
che è « una innegabile finzione » (30). Sì che, dopo qualche iniziale incertezza della giurisprudenza (31), si è ormai da tempo tutti d’accordo nel riconoscere che la procura su foglio separato congiunto all’atto, anche se non
contiene alcun espresso riferimento al giudizio nel quale è utilizzata, deve
considerarsi “speciale” esattamente come se stesse in calce (32).
Si è così fatto un altro grande passo avanti sulla strada della sdrammatizzazione della forma della nomina del difensore, in quanto, mentre la pro-
––––––––––––
(28) Così Balena, Elementi di diritto processuale, cit., I, p. 190.
(29) Il principio fu pronunciato da Cass., sez. un., 22 novembre 1994, n. 9869, in
Foro it. 1995, I, c. 537, che, nel comporre il contrasto sorto sul punto fra le sezioni semplici, optò per l’interpretazione più rigorosa.
(30) In tal senso, v. Cipriani, Le finzioni nel processo civile, in Rass. dir. civ.
2002, p. 52.
(31) Cass., 27 novembre 1997, n. 12003, in Foro it. Rep. 1997, voce Cassazione civile, n. 108; Cass., 21 giugno 1997, n. 5569, ivi 1997, I, c. 3152, secondo le quali « ancor
dopo la l. n. 141/1997, la procura su foglio separato congiunto all’atto, se non contiene
alcun preciso riferimento all’atto, è nulla ».
(32) In dottrina, v. Cipriani, La procura su foglio separato, cit., c. 3158; Acone,
Realtà e trasfigurazione della procura speciale alle liti, in Corriere giur. 1998, p. 1184;
A. Finocchiaro, Un’interpretazione della legge 141/1997 che contrasta con l’obbiettivo
del parlamento, in Guida al diritto 1997, n. 26, p. 40; Evangelista, La procura su foglio
separato: spunti per una rinnovata riflessione, in Gazzetta giuridica Italia-Oggi 1997,
p. 32, 7; Deluca, Commento alla l. 27 maggio 1997, n. 141, in Nuove leggi civ. 1997,
p. 1301. In giurisprudenza, cfr. Cass., 2 aprile 2004, n. 6521, in Foro it. Rep. 2004, voce
Cassazione civile, n. 90; Cass., 24 settembre 2002, n. 13910, ibid. 2002, voce cit., n. 170;
Cass., 28 giugno 2000, n. 8789 ibid. 2000, voce cit., n. 159; Cass., 13 gennaio 1999,
n. 288, ibid. 1999, voce cit., n. 166; Cass., 16 dicembre 1998, n. 12610, ibid. 1998, voce
cit., n. 167; Cass., 22 luglio 1998, n. 7182, ibid., n. 169.
LA NOMINA DEL DIFENSORE NEL PROCESSO CIVILE
601
cura a margine, anche se rilasciata con un generico timbro, può di fatto essere utilizzata solo una volta, la procura su foglio separato, « specie se sprovvista di data, si presta a essere utilizzata in più processi » (33), perché nulla
impedisce che, durante o al termine del processo, il difensore la stacchi e la
congiunga materialmente a un atto di un diverso processo. Anzi, poiché di
recente le Sezioni unite hanno precisato che non è affatto necessario che la
procura sia materialmente congiunta all’atto, essendo sufficiente « la contestualità della produzione in udienza dei due atti, ad opera dello stesso difensore » (34), è evidente che oggi più di ieri è solo l’avvocato che assicura che
la c.d. procura gli sia stata rilasciata dalla parte proprio per il processo nel
quale la utilizza.
Se ne è avuto che, di fronte alla riforma del 1997, lo studioso che più di
tutti ha approfondito il problema, il Cipriani, ha con tutta coerenza sostenuto
che « nei nostri giudizi di merito è oramai ammessa la procura presunta » (35).
La giurisprudenza, invece, ha continuato tranquillamente ad esigere che la
“procura” sia rilasciata per iscritto e con atto facente fede sino a querela di falso. E ciò anche perché la legge vuole che la sottoscrizione della parte che designa il suo difensore, se rilasciata a margine o in calce, sia certificata dal medesimo difensore. Occorre pertanto di soffermarsi sulla certificazione.
5. – Come sappiamo, benché Mortara, nel proporre di abrogare la necessità
del mandato in forma autentica e nel suggerire di contentarsi di una certificazione del difensore, non avesse affatto precisato che tale certificazione avesse lo
stesso rilievo della autenticazione, la giurisprudenza ritenne che la certificazione conferisse la pubblica fede al mandato, insistendo così nell’affermare che la
procura doveva essere rilasciata con atto facente fede sino a querela di falso (36).
La tesi è tutt’oggi ribadita dalla giurisprudenza (37), che la utilizza in particolar modo per stroncare sul nascere i dubbi che vengono talvolta sollevati
dalle controparti sulla effettiva provenienza della sottoscrizione della procura
certificata dal difensore. È tuttavia significativo che sovente la Cassazione ha
concesso che la mancanza della certificazione fosse del tutto irrilevante (38).
––––––––––––
(33) Il rilievo è di Cipriani, Procura su foglio separato, cit., c. 3158.
(34) Così Cass., sez. un., 18 settembre 2002, n. 13666, in Foro it. Rep. 2002, voce
Cassazione civile, n. 168. Nello stesso senso v. già Deluca, Commento, cit., p. 1298.
(35) Così Cipriani, Procura su foglio separato, cit., c. 3158.
(36) V. supra il n. 3.
(37) V. Cass., 2 novembre 2004, n. 21054, in Foro it. Rep. 2004, voce Procedimento civile, n. 102; Cass., 17 maggio 2004, n. 9323, ibid., n. 12; Cass., 16 aprile 2003,
n. 6047, ibid. 2003, voce cit., n. 105.
(38) V. Cass., 8 luglio 2003, n. 10732, in Foro it. Rep. 2003, voce Cassazione
civile, n. 163; Cass., 11 ottobre 2001, n. 12411, ibid. 2001, voce cit., n. 173; Cass., 26
602
RIVISTA DI DIRITTO PROCESSUALE
Dal canto suo, la prevalente dottrina è dell’avviso che la certificazione,
pur essendo « un atto diverso dall’autenticazione di cui all’art. 2703, comma 2°, c.c. » (39), ne produce comunque tutti gli effetti, con la conseguenza
che la procura certificata autografa dal difensore sarebbe assistita dalla pubblica fede e farebbe piena prova sino a querela di falso della provenienza della
scrittura (40).
––––––––––––
maggio 2000, n. 6959, ibid. 2000, voce cit., n. 187; Cass., sez. un., 17 dicembre 1998,
n. 12625, ibid. 1998, voce cit., n. 158; Cass., 22 ottobre 1998, n. 10494, ibid., voce
Procedimento civile, n. 133; Cass., 6 maggio 1996, n. 4191, ibid. 1996, voce Cassazione civile, n. 150. Nello stesso senso, in dottrina, v. Satta, Commentario al codice
di procedura civile, I, Milano 1959, p. 283; Mandrioli, Delle parti e dei difensori,
cit., p. 940; Andrioli, Commento, cit., I, p. 239, il quale precisa che, in caso di mancata certificazione, « ove l’avversario del mandante contesti l’autenticità della sottoscrizione, incombe al mandante medesimo fornirne la prova »; Cipriani, La procura
su foglio autonomo, cit., c. 539; Acone, La procura speciale alle liti tra tiepidezza del
legislatore e i contrasti della corte, in Corriere giur. 1997, p. 1165, nota 18, che ritiene che sussista una certa qual antinomia tra il sostenere che la certificazione non è
necessaria per la validità della procura e l’affermare che essa costituisce elemento
necessario per il perfezionarsi della fattispecie di cui all’art. 83, comma 3°, c.p.c., e
aggiunge che per risolvere tale antinomia non è sufficiente spostare il discorso sul
piano della prova.
Va poi segnalato che le Sezioni unite, nel comporre il contrasto sorto nella giurisprudenza di legittimità sugli effetti della mancata certificazione, hanno recentemente affermato che il difensore può certificare l’autografia della sottoscrizione della
parte non soltanto apponendo la propria firma di seguito a detta sottoscrizione, con o
senza l’uso di apposite diciture, ma anche limitandosi a sottoscrivere l’atto, a margine
o in calce al quale la procura è stata apposta. Quindi, secondo le Sezioni unite, la certificazione dell’autografia della sottoscrizione della procura ben può essere assicurata
anche in modo implicito, ossia « dall’unica firma con la quale il difensore, avvalendosi della procura, dà paternità all’atto processuale » al quale la procura si riferisce
(Cass., sez. un., 28 novembre 2005, n. 25032, in Foro it. Mass. 2005, c. 1786). Occorre peraltro dire che, con questa sentenza, le Sezioni unite hanno in realtà eluso il
vero problema, che consisteva e consiste nello stabilire se la mancata certificazione
da parte del difensore determina la nullità della procura oppure rappresenta, come
unanimemente sostiene, e non da oggi, la dottrina e come hanno affermato numerose
pronunce del giudice di legittimità, una mera irregolarità priva di conseguenze (in tal
senso, v. le sentenze e gli aa. più su citati).
(39) Così Mandrioli, Delle parti e dei difensori, cit., p. 939.
(40) V. Andrioli, Commento, cit., I, p. 239; Satta, Avvocato (procuratore), voce
dell’Enc. dir., IV, Milano 1959, p. 651; Mandrioli, Diritto processuale civile, II, 16a ed.,
Torino 2004, p. 221, nota 25; Consolo, Spiegazioni di diritto processuale, cit., II, p. 282;
Luiso, Diritto processuale civile, I, 3a ed., Milano 2000, p. 210; Montesano–Arieta,
Trattato di diritto processuale civile, I, Padova 2001, p. 531; Giorgetti, Sulla leggibilità
LA NOMINA DEL DIFENSORE NEL PROCESSO CIVILE
603
La communis opinio è stata di recente contrastata da Cipriani, il quale, dopo avere rilevato che l’avvocato non è un pubblico ufficiale, che nessuna norma
attribuisce alla certificazione un’efficacia fidefacente e, soprattutto, che il difensore può certificare soltanto le procure rilasciate a proprio favore (o anche a
proprio favore) e per di più da chiunque siano state rilasciate (e quindi anche
dal proprio coniuge o dai propri figli), ha affermato che la certificazione del difensore in realtà ha assai poco a che vedere con l’autenticazione e non conferisce il crisma della pubblica fede all’atto, ma rappresenta solo una cautela sostanzialmente superflua (41).
L’insegnamento, che sembra confermato da quella giurisprudenza che reputa del tutto irrilevante la mancanza della certificazione (42), va senz’altro accolto, anche perché non sembra possa dubitarsi che, se si equiparasse la certificazione alla autenticazione, si dovrebbe riconoscere all’avvocato un potere che
neppure il notaio ha, e cioè quello « tanto inverosimile quanto inammissibile di
attribuire pubblica fede ad atti che lo riguardano in prima persona » (43). La
qual cosa sarebbe piuttosto sorprendente (e costituzionalmente illegittima), perché non sembra possa consentirsi che la pubblica fede sia attribuita a un atto
formato dal suo beneficiario (44). È infatti noto che gli atti rogati da un notaio o
da un altro pubblico ufficiale, in tanto fanno fede sino a querela di falso, in
quanto provengono da un soggetto che si trova in posizione di assoluta terzietà
rispetto alle parti (45), tant’è vero che per il notaio sussiste il divieto di rogare
atti se vi intervengono il coniuge, i suoi parenti od affini (art. 28, nn. 2 e 3, legge 16 febbraio 1913 n. 89).
Va peraltro aggiunto che si è talvolta affermato che la certificazione del difensore potrebbe essere considerata alla stessa stregua della c.d. “autentica minore”, come tale sempre in possesso della efficacia fidefacente (46). Ma neppu––––––––––––
della firma in calce alla procura ad litem, in Riv. dir. proc. 1995, p. 299; Guarnieri, Ancora sulla procura in foglio più o meno separato o allungato, ivi 1989, p. 302.
(41) Così Cipriani, La procura su foglio autonomo, cit., c. 539.
(42) V. supra, nota 38.
(43) Così ancora Cipriani, op. loc. ult. cit.
(44) Sul punto, v. Balena, Elementi di diritto processuale, cit., I, p. 190, che definisce « singolare » il potere del difensore di certificare l’autografia della sottoscrizione.
(45) In tal senso, v. G. Ricci, Le prove atipiche, Milano 1999, p. 439; v., altresì,
Montesano, Limiti dell’efficacia probatoria nel processo civile dei verbali ispettivi redatti da funzionari del ministero dell’industria nell’esercizio dei compiti di vigilanza
sull’attività assicurativa, in Giur. it. 1986, IV, c. 387.
(46) In dottrina, v. Comoglio, Procura, cit., p. 1056; Id., Le prove civili, 2a ed., Torino
2004, p. 327, nota 35; Casu, Scrittura privata autenticata, voce del Dizionario enciclopedico del notariato, IV, Roma 1988, p. 623; Tondo, Forma e sostanza dell’autentica, in Vita
not. 1980, p. 280; Barone, La procura speciale alle liti tra disinformazione e falsi problemi,
in Foro it. 1995, I, c. 3433, il quale però invita a riflettere « sull’esattezza del principio che
604
RIVISTA DI DIRITTO PROCESSUALE
re questa tesi può essere condivisa, perché la c.d. autentica minore, come è pacifico in dottrina e in giurisprudenza, non conferisce affatto la pubblica fede alla
sottoscrizione: in essa difetta infatti la formale attestazione, da parte del pubblico ufficiale, che la sottoscrizione è stata apposta in sua presenza e dopo
l’accertamento dell’identità del sottoscrittore (47). Peraltro, in senso contrario
non sembra decisivo richiamare un preteso « fondamento pubblicistico del potere conferito al difensore » (48).
È perciò chiaro che la certificazione del difensore costituisce in buona
sostanza un atto processuale privo di efficacia probatoria, sì che non resta che
pensare che essa in realtà è soltanto « una sovrastruttura, ovvero, se si preferisce, un inutile orpello » (49). Va pertanto escluso definitivamente che nel nostro ordinamento la c.d. procura alle liti, ossia la nomina del difensore, debba
necessariamente avere forma scritta facente fede sino a querela di falso.
A voler trarre le conclusioni del discorso fatto sin qui, sembra doveroso
affermare che le “procure” a margine o in calce che vengono tutti i giorni utilizzate nei nostri processi si basano essenzialmente sulla parola e sull’operato
del difensore, che assicura e garantisce che la parte che l’ha nominato è proprio quella per la quale sta agendo: è vero che lo fa certificando l’autografia
della sottoscrizione della parte (che potrebbe pure essere illeggibile (50)), ma,
––––––––––––
attribuisce efficacia probatoria fino a querela di falso ». In giurisprudenza, v. Cass., sez. un.,
5 febbraio 1994, n. 1167, in Corriere giur. 1994, p. 311, con nota adesiva di Carbone, Procura alle liti: firma illeggibile senza altre indicazioni sul conferente.
(47) In dottrina, v. Comoglio, Le prove, cit., p. 327; D’Orazi Flavoni, L’autentica
minore, in Foro it. 1956, I, c. 1559 e in Riv. not. 1956, p. 829; Falzone Alibrandi, Autentica minore, voce del Dizionario enciclopedico del notariato, I, Roma 1988, p. 246;
Chinni, Sul “visto per la verità della firma”, in Riv. not. 1950, p. 162; Baratta, Autentica
formale ed autentica minore, in Vita not. 1970, p. 275; Roli, Sulla “vera di firma”, in
Giur. it. 1957, I, 2, c. 446; Voltolina, Delle autenticazioni e dei “visti per la verità” delle
firme, in Riv. not. 1955, p. 102 e ss.; Delogu, Sul falso di autenticazione di firma, in Foro
it. 1961, II, c. 118. In giurisprudenza, v. Cass., 30 gennaio 1979, Savio ed altri, in Giur.
it. 1980, II, c. 506; Cass., 30 marzo 1967, n. 691, in Foro it. 1967, I, c. 935.
(48) In tal senso, v. invece Comoglio, Procura, cit., p. 1056.
(49) Cipriani, La procura su foglio autonomo, cit., c. 539.
(50) V. Cass., sez. un., 7 marzo 2005, n. 4810, in Riv. dir. proc. 2005, 1031, con
nota di Monteleone. La S.C. elimina nocivi formalismi in materia di procura alle liti, e in
Giur. it. 2005, p. 1210, con nota di Chiarloni, La giustizia vince sulla procedura, grazie
ad un revìrement della Corte suprema in materia di vizi della procura alle liti, la quale,
dopo aver escluso che la procura rilasciata con firma illeggibile da legale rappresentante
di persona giuridica sia di per sé nulla, da un lato ha ricondotto l’incertezza sull’identità
del sottoscrittore fra le nullità c.d. relative di cui all’art. 157 c.p.c.; dall’altro, ha ammesso
che il difensore della parte che ha sottoscritto la procura in modo illeggibile, possa indicare il nome del firmatario, purché con la prima risposta difensiva di replica alla deduzione della nullità, nonché in modo chiaro e univoco e senza possibilità di successive
LA NOMINA DEL DIFENSORE NEL PROCESSO CIVILE
605
come si è appena visto, la sua certificazione è priva di ogni efficacia probatoria.
Se così è, si può ritenere che non sia affatto indispensabile che la nomina
del difensore sia rilasciata per iscritto, apparendo evidente che non vi è alcun
motivo per non dare rilevanza anche a comportamenti e/o fatti che non sono
meno idonei della c.d. procura certificata a dimostrare l’esistenza dei poteri
rappresentativi in capo all’avvocato che dichiara di stare in giudizio per la
parte: si pensi all’avvocato dell’attore che produce la corrispondenza scambiata prima del processo con la controparte o a quello dell’appellante che produce la sentenza impugnata e il fascicolo del grado precedente; al difensore
del convenuto che produce l’originale dell’atto di citazione notificato; all’avvocato che compare con la parte alle operazioni peritali o in una udienza del
processo, quale, per esempio, quella contemplata dal novellato art. 707 c.p.c.,
secondo il quale « i coniugi debbono comparire personalmente davanti al presidente con l’assistenza del difensore ». Richiedere anche in queste e consimili ipotesi che il difensore abbia anche la c.d. procura, sembra per lo meno
eccessivo.
6. – Di diverso avviso è, però, la giurisprudenza, che, nel riconoscere che
nessuna delle prescrizioni dell’art. 83 c.p.c. è prevista a pena di nullità e che
quindi la nullità della procura può essere comminata solo per la mancanza dei
requisiti formali indispensabili per il raggiungimento dello scopo (art. 156,
comma 2°, c.p.c.), suole affermare che la procura avrebbe lo scopo di « fornire
alla controparte la giuridica certezza della riferibilità dell’attività svolta dal difensore al titolare della posizione sostanziale controversa, certezza che può essere fornita soltanto da documenti facenti piena prova fino a querela di falso,
come appunto l’atto pubblico e la scrittura privata autenticata, ai quali deve aggiungersi anche la procura la cui sottoscrizione sia stata certificata autentica dal
difensore » (51).
––––––––––––
variazioni o rettificazioni. In tal modo, le Sezioni unite hanno notevolmente ridimensionato, quasi annullandolo, il rigore del principio affermato, sempre a sezioni unite, da
Cass., 5 febbraio 1994, in Foro it. 1994, I, c. 1415, con osservazioni di Zampetti, secondo
cui la procura conferita con firma illeggibile da legale rappresentante di persona giuridica
sarebbe affetta da nullità insanabile e rilevabile d’ufficio.
(51) Così, prima della riforma del 1997, Cass., sez. un., 22 novembre 1994,
n. 9869, in Foro it. 1995, I, c. 538, spec. c. 546 e ss., di cui si è detto diffusamente nel
n. 4. In seguito, il principio è stato ribadito in generale da Cass., 19 agosto 2004,
n. 16264, ivi Rep. 2004, voce Procedimento civile, n. 163; Cass., 12 marzo 2002, n. 3570,
ibid. 2002, voce cit., n. 100; Cass., 14 febbraio 2002, n. 2149, ivi 2002, I, c. 2084; Cass.,
27 gennaio 2002, n. 878, ivi Rep. 2002, voce Cassazione civile, n. 139; Cass., 21 settembre 2000, n. 12486, ivi 2001, I, c. 507; Cass., 17 dicembre 1998, n. 12653, ivi Rep. 1998,
voce Cassazione civile, n. 190.
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RIVISTA DI DIRITTO PROCESSUALE
Alla tesi si è obiettato, autorevolmente e con dovizia di argomenti, che non
è affatto vero che la procura debba necessariamente risultare da un documento
assistito dal crisma della pubblica fede, in quanto l’art. 83, comma 3°, c.p.c. non
richiede ch’essa sia rilasciata con un atto facente piena prova sino a querela di
falso (52). Quanto poi alla tutela della controparte, si è rilevato che l’argomento
è privo di peso, perché la c.d. procura è necessaria non solo nei procedimenti a
struttura contenziosa, ma anche in quelli nei quali non vi è alcuna controparte
che possa o debba essere tutelata (si pensi al procedimento camerale di divorzio) (53).
Forse perché consapevole dell’esattezza delle critiche rivoltele, di recente la S. Corte ha però lievemente modificato la propria tesi, evitando di
riferirsi alla tutela della controparte e alla necessità dell’atto fidefacente e
limitandosi a sostenere che la procura servirebbe a « conferire la certezza
della provenienza dalla parte del potere di rappresentanza » (54). È però
agevole osservare che la “procura”, quantunque rilasciata in perfetto ossequio all’art. 83 c.p.c., nella sostanza non è per nulla idonea ad assicurare alcunché, visto che, come crediamo di aver dimostrato nelle pagine che precedono, della sua genuinità e del suo riferimento al processo de quo agitur,
unico vero garante è l’avvocato che sta in giudizio per la parte. Senza dire
che l’esigenza di esser certi della rappresentanza è sicuramente soddisfatta
anche quando la parte sia comparsa all’udienza con il proprio difensore o
abbia partecipato personalmente a delle operazioni peritali, sì che non si vede perché anche in questi casi si pretenda la procura scritta più o meno fidefacente.
Vero è, invece, che la “procura”, come ha posto in evidenza Cipriani,
« serve per un verso alla parte, alla quale consente di agire nel processo a mezzo di un difensore, e per altro al difensore, al quale, come riconosce la stessa
Cassazione (…), consente di esercitare lo ius postulandi in relazione alla specifica controversia », con la conseguenza che essa « raggiunge il suo scopo quando il difensore agisce per la parte nel processo » (55). Infatti, come si sta dicendo dall’inizio di questo saggio e come è pacifico, la c.d. procura non è che l’atto
con il quale la parte nomina il proprio difensore in un determinato processo, sì
che è del tutto ovvio ch’essa raggiunge il suo scopo nel momento stesso in cui
––––––––––––
(52) Così Cipriani, La procura su foglio autonomo, cit., c. 540.
(53) Così ancora Cipriani, op. ult. cit., c. 543.
(54) Cass., 8 aprile 2002, n. 4994, in Foro it. Rep. 2002, voce Cassazione civile,
n. 146; Cass., 18 settembre 2002, n. 13666, ibid., n.168; Cass., 24 settembre 2002,
n. 13910, ibid., n. 170; Cass., 18 agosto 2003, n. 12080, ibid. 2003, voce Procedimento
civile, n. 110; Cass., 27 agosto 2003, n. 12558, ibid., voce Cassazione civile, n. 147;
Cass., 23 aprile 2004, n. 7731, ibid. 2004, voce cit., n. 172; Cass., 25 gennaio 2005,
n. 1428, in Foro it. Mass. 2005, c. 99.
(55) Cipriani, La procura su foglio autonomo, cit., c. 543.
LA NOMINA DEL DIFENSORE NEL PROCESSO CIVILE
607
l’avvocato designato dalla parte agisce in nome e per conto della stessa in quel
processo.
Se così è, però, sembra lecito sostenere che discorrere di “nullità” della
c.d. procura, finisce con l’essere una contraddizione in termini, che forse non si
avverte immediatamente perché si parla pomposamente di « procura », ma che,
se si considerasse che la c.d. procura alle liti non è, sia consentito ripeterlo, che
una nomina, si toccherebbe con mano, in quanto si capirebbe subito che, allorquando il difensore, una volta designato dalla parte, sta in giudizio per essa, è in
re ipsa che l’atto di nomina abbia raggiunto il proprio scopo. Quindi, parrebbe
che, di fronte all’avvocato che dichiara di agire per una parte, non abbia alcun
senso discorrere di nullità della c.d. procura, in quanto qui al massimo il problema sta nella prova della nomina.
L’affermazione apparirà forse eccessiva, ma, se si esaminano i casi in
cui la giurisprudenza ha dichiarato la nullità della procura, si constata che
tutte le volte che la “procura” è stata considerata nulla, la sanzione era
quanto meno sproporzionata, se non del tutto ingiustificata. Infatti, dall’analisi delle singole fattispecie emerge che la nomina del difensore per il
giudizio de quo agitur, a veder bene, ci sta, sì che è chiaro che, con la declaratoria di nullità, in buona sostanza non si colpiscono le iniziative arbitrarie
degli avvocati, ma, a voler tutto concedere, mere e innocue inosservanze
formali. A riprova, basti pensare che la Cassazione, per esempio, ha considerato invalida la procura alle liti « rilasciata con firma illeggibile dal legale
rappresentante di società, le cui generalità non siano indicate né nella procura né nell’atto cui essa accede e siano rese note soltanto nella fase conclusiva
del giudizio di primo grado, dopo aver originariamente offerto un’indicazione diversa » (56); ha affermato che la procura rilasciata per il procedimento cautelare promosso ante causam, che non si riferisca in modo certo
e non equivoco anche al giudizio di merito, non abilita il procuratore ad introdurre il successivo giudizio a cognizione piena (ovvero a resistere in esso) (57); ha stabilito che « non è valida la procura a proporre appello rilasciata al difensore non in calce all’atto di impugnazione, bensì in calce al
precetto pedissequo alla sentenza impugnata » (58); ha ritenuto invalida la
procura rilasciata all’estero che sia stata autenticata da pubblico ufficiale
straniero in modo diverso da quello previsto dall’art. 2703 c.c. (59) oppure
––––––––––––
(56) Cass., sez. un., 7 marzo 2005, n. 4811, in Foro it. Mass. 2005, c. 288.
(57) Cass., 17 aprile 1996, n. 3646, in Foro it. Rep. 1996, voce Procedimento civile, n. 111.
(58) Cass., 14 novembre 2000, n. 14720, in Foro it. Rep. 2000, voce Procedimento
civile, n. 102.
(59) Cass., 12 luglio 2004, n. 12821, in Corriere giur. 2005, p. 233, con nota
critica di Calò, Sulla procura alle liti rilasciata all’estero: un singolare arresto della
II sezione, che ha dichiarato inammissibile un ricorso per cassazione perché la pro-
608
RIVISTA DI DIRITTO PROCESSUALE
che sia stata soltanto certificata autografa dal difensore italiano (60); ha sostenuto che « la sottoscrizione della parte e del difensore in calce all’atto introduttivo del giudizio non denota la volontà della prima di conferire la procura alle liti al secondo, a nulla rilevando che l’avvocato sia stato indicato
quale difensore della parte nell’intestazione dell’atto » (61).
Vorrà convenirsi che tali dichiarazioni d’invalidità della procura, con
tutta evidenza, appaiono fiscali e pretestuose, sì che non si può non dare ragione a chi ha autorevolmente osservato che qui vi è il ragionevole sospetto
che esse siano « il frutto di un fine obliquo perseguito dalla Corte di cassazione in una sorta di riflesso di autodifesa contro la semiparalisi indotta
dall’aumento incontrollato dei ricorsi » (62). Tale sospetto è d’altra parte
alimentato dal rilievo che la stessa giurisprudenza considera valida la nomina in casi in cui la c.d. procura, a voler essere fiscali, non giustificherebbe la
presenza in giudizio di quel difensore: si pensi per esempio alle pronunce
della Suprema corte secondo cui « la procura alle liti conferita per il giudizio
di cognizione, nel quale si è formato il titolo esecutivo, e per il successivo
processo di esecuzione vale anche per tutti i gradi del giudizio di opposizione all’esecuzione promossa in base a quel titolo » (63); oppure secondo cui
––––––––––––
cura speciale, rilasciata in Francia, era stata autenticata da notaio senza attestazione
che la firma della parte era stata apposta in sua presenza previo accertamento
dell’identità del sottoscrittore.
(60) Cass., 3 giugno 2003, n. 8867, in Foro it. Rep. 2003, voce Procedimento civile, n. 109 che ha affermato che « la sottoscrizione della procura alle liti rilasciata
all’estero (…) non può essere autenticata dal difensore italiano della parte, giacché tale
potere di autenticazione non si estende oltre i limiti del territorio nazionale ».
(61) Cass., 9 agosto 2001, n. 10967, in Foro it. 2002, I, c. 101.
(62) Così Chiarloni, Contrasti tra diritto alla difesa e obbligo di difesa: un paradosso del formalismo concettualista, in Riv. dir. proc. 1982, p. 662.
(63) Così Cass., 19 marzo 2003, n. 7772, in Foro it. 2003, I, c. 2665. È appena il
caso di osservare che è per lo meno dubbio che la procura rilasciata per il procedimento
di esecuzione possa abilitare il difensore a stare in giudizio in sede di opposizione
all’esecuzione, visto che la migliore dottrina ritiene che il giudizio di opposizione non
rappresenti una mera fase incidentale del processo esecutivo, ma un giudizio del tutto
autonomo (Andrioli, Commento, cit., III, p. 51, il quale afferma che la procura abiliti alla
difesa nell’eventuale giudizio di opposizione agli atti esecutivi, ma esclude che essa valga anche per l’opposizione all’esecuzione che non rappresenta un incidente nel corso del
processo esecutivo, bensì un giudizio autonomo. V., altresì, Redenti-Vellani, Diritto processuale civile, III, 3a ed., Milano 1999, p. 402 e ss.; Mandrioli, Diritto processuale, cit.,
IV, p. 153 e ss.; Fazzalari, Istituzioni di diritto processuale, 8a ed., Padova 1996, p. 210;
Bonsignori, L’esecuzione forzata, 3a ed., Torino 1996, p. 289 e ss.; Vaccarella, Opposizione all’esecuzione, in Enc. giur. Treccani, XXI, Roma 1990, p. 1). Si aggiunga che la
pronuncia testé citata ha ritenuto anche che il conferimento dell’incarico per il solo procedimento esecutivo consentisse di superare persino la presunzione di cui all’art. 83,
LA NOMINA DEL DIFENSORE NEL PROCESSO CIVILE
609
« la parte che riassume la causa davanti al giudice di rinvio non è tenuta a
rilasciare una nuova procura al difensore che la ha assistita nel giudizio di
merito » neppure quando tale parte nel giudizio di legittimità sia stata assistita da altro difensore o sia rimasta contumace (64); oppure ancora secondo
cui la procura apposta a margine del ricorso per cassazione sia valida anche
quando in essa vengono persino indicati sia un numero di sentenza diverso
da quello della sentenza impugnata, sia parti differenti rispetto a quelle tra le
quali detta sentenza è stata resa (65). È dunque evidente che la giurisprudenza (quando vuole…) salva procure che, a stretto rigore, non sarebbero idonee
a legittimare il difensore a rappresentare la parte in quel determinato giudizio e dà rilevanza a fatti o comportamenti che consentono di conseguire una
ragionevole certezza in ordine alla riferibilità alla parte dell’attività posta in
essere dall’avvocato nel processo de quo agitur.
Così stando le cose, a nostro sommesso avviso non si può ragionevolmente
dubitare che quello della invalidità della “procura” sia in realtà un falso problema e che, in tema di nomina del difensore, a voler tutto concedere, l’unica
vera questione forse potrebbe stare, come già accennato, nella prova della sua
esistenza. Ma, dal momento che la prova che si suole dare e della quale ci si
suole contentare è quella che tutti conosciamo, e cioè un mero simulacro di atto
scritto; e dal momento che la forma scritta non è richiesta a pena di nullità
dall’art. 83 c.p.c. e non è indispensabile per il raggiungimento dello scopo, si
deve ribadire quel che si è detto più su, e cioè che è ben possibile desumere
––––––––––––
comma 4°, c.p.c., ossia quella per la quale la procura si intende rilasciata per un solo grado di giudizio. Quindi, ben si può sostenere che, nella specie, la S. Corte abbia interpretato la procura in senso tutt’altro che rigoroso.
(64) Cass., 6 ottobre 2004, n. 19937, in Foro it. Rep. 2004, voce Rinvio civile, n. 6,
che ha preso in esame un caso riguardante un giudizio di rinvio c.d. proprio e che ha motivato la propria decisione sul rilievo che « il giudizio di rinvio costituisce la prosecuzione del giudizio di primo o di secondo grado conclusosi con la sentenza cassata ». Occorre
tener presente, però, che si ritiene comunemente che il giudizio di rinvio c.d. proprio o
prosecutorio costituisca una fase nuova e autonoma del procedimento (in dottrina, v.
Chiovenda, Principii, cit., p. 1064; E.F. Ricci, Il giudizio civile di rinvio, Milano 1967,
p. 91; Liebman, Manuale di diritto processuale civile, 4a ed., Milano rist. 1984, II, p. 354;
Mandrioli, Diritto processuale, cit., IV, p. 517; Proto Pisani, Lezioni di diritto processuale civile, 4a ed., Napoli 2002, p. 567; in giurisprudenza, v. Cass., 28 gennaio 2005, n.
1824, ivi Mass. 2005, c. 129; Cass., 23 settembre 2002, n. 13833, ivi Rep. 2002, voce
Rinvio civile, n. 7; Cass., 6 dicembre 2000, n. 15489, ibid. 2000, voce cit., n. 11; Cass.,
17 novembre 2000, ibid., n. 25). Sì che, appare quanto meno discutibile che la procura
conferita all’avvocato per il primo o per il secondo grado sia senz’altro valida per riassumere il giudizio innanzi al giudice di rinvio.
(65) Cass., 24 gennaio 2002, n. 843, in Giur. it. 2003, p. 66, nota di Fratini, Natura
ed impugnabilità dell’ordinanza con cui il giudice dell’esecuzione approva o riduce il
compenso all’Istituto Vendite Giudiziarie.
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RIVISTA DI DIRITTO PROCESSUALE
l’esistenza della nomina del difensore anche da fatti o comportamenti che, a ben
vedere, sono o possono essere ben più concludenti e significativi della c.d. procura in calce o a margine che tutti conosciamo.
Pertanto, alla luce di quanto si è rilevato sin qui, se non si può arrivare a
sostenere che il difensore che agisce per la parte non può che essere stato
designato dalla medesima parte, si può però ritenere che, se il difensore dichiara di agire per la parte, sia per lo meno implicito che egli sia stato da essa incaricato di assumere la sua difesa. Perciò, se si prescinde dal difensore
che dichiara di agire in nome proprio nell’interesse altrui (il che, a quanto
pare, è accaduto una sola volta… (66)), o dall’avvocato che, avendo agito
all’insaputa o contro il volere della parte, sia “smascherato” dalla parte stessa che si costituisce a mezzo del suo vero difensore (ma, ciò, a quanto risulta, non è mai accaduto…), appare evidente che un “problema” di verifica dei
poteri rappresentativi dell’avvocato che sta in giudizio per la parte non abbia
alcuna ragione di essere, dovendosi senz’altro riconoscere che la nostra legge, in tema di nomina del difensore, da tempo impone di fidarsi della parola
e dell’operato del difensore. Con questo non si vuole dire che non è pensabile o ipotizzabile che un avvocato agisca all’insaputa o addirittura contro la
volontà della parte, ma sta di fatto che, stando alla giurisprudenza edita, ciò
non è sinora mai accaduto, forse perché gli avvocati sanno bene che, non essendo per loro prospettabile la negotiorum gestio, se agissero senza la nomina della parte, avrebbero tutto da perdere e nulla da guadagnare.
7. – È probabile che, di fronte alle conclusioni appena raggiunte, si obietti
che, in difetto di una procura rilasciata per iscritto, « non esiste uno strumento
di assunzione in capo alla parte dell’atto (…) e dei suoi effetti » (67), con la
conseguenza che, in tal caso, non sarebbe possibile riferire l’attività dell’avvocato alla parte. All’obiezione, si può tuttavia replicare che la procura rilasciata con le modalità che ben conosciamo non assicura affatto l’imputazione
alla parte dell’attività posta in essere dal difensore, giacché, come crediamo di
avere dimostrato, essa non prova con assoluta certezza il conferimento
dell’incarico difensivo. Sì che, sarebbe davvero ben strano che, ciò nonostante,
la procura scritta di cui all’art. 83 c.p.c. rappresentasse l’unico e imprescindibile
mezzo d’imputazione alla parte dell’attività del difensore. Senza considerare
che occorrerebbe altresì spiegare per quale motivo non debba essere possibile
ricondurre alla parte l’attività dell’avvocato nelle fattispecie, quale per es.
quella in cui la parte sia comparsa all’udienza con il proprio difensore, in cui
l’esistenza della nomina è indubitabilmente fuori discussione.
Neppure varrebbe obiettare che « o si dà certezza al conferimento
––––––––––––
(66) Cfr. Cass., 23 febbraio 1994, n. 1780, in Giust. civ. 1994, I, p. 1895, con nota
di Caputo, Difensore sfornito di procura e pronuncia sulle spese.
(67) Così Mandrioli, La rappresentanza nel processo civile, Torino 1959, p. 408.
LA NOMINA DEL DIFENSORE NEL PROCESSO CIVILE
611
dell’incarico o si lascia aperta la porta al disconoscimento dell’opera del difensore » (68). È agevole infatti replicare che, anche a non voler considerare
che, come abbiamo appena ricordato, neanche la procura rilasciata nelle
forme dell’art. 83 c.p.c. dà certezza del conferimento dell’incarico difensivo,
il rischio di abusi da parte degli avvocati sembra meramente virtuale (69). A
riprova, basti pensare che, come è stato di recente ricordato, nel Regno delle
Due Sicilie, dove sulla scia del c.p.c. francese del 1806 era stato adottato il
sistema del mandato presunto (peraltro tuttora vigente in Francia) e dove era
stato previsto che l’operato del difensore potesse essere sconfessato dalla
parte assistita mediante il c.d. giudizio di disapprovazione (l’equivalente del
désaveu francese), non risulta che tale giudizio sia mai stato proposto (70).
D’altra parte, il désaveu non esiste più neppure in Francia, dove qualche
tempo fa il legislatore, prendendo atto della sua inutilità, lo ha soppresso (71). Pertanto, alla luce di questi significativi dati di fatto, non pare vi sia
motivo di sopravvalutare il pericolo di disconoscimento dell’operato del difensore. Del resto, ove mai dovessero sorgere dubbi sull’esistenza dei poteri
rappresentativi in capo al difensore non munito di procura scritta, il giudice
potrebbe pur sempre far ricorso al potere riconosciutogli dall’art. 182, comma 1°, c.p.c. e invitare l’avvocato « a completare o a mettere in regola gli
atti che riconosce difettosi » (72), provando così, come propose Mortara
all’inizio del secolo scorso (73), l’esistenza dell’incarico difensivo.
Comunque, a riprova della necessità di sdrammatizzare il problema della
c.d. procura e dell’opportunità di avere fiducia dell’avvocato che dichiara di
agire per la parte, possono farsi anche altre considerazioni.
Anzitutto, nel campo stragiudiziale nessuno osa porre in dubbio la pa––––––––––––
(68) Così Punzi, Note sul ministero del difensore, cit., p. 175.
(69) In tal senso cfr. Balena, Sulle conseguenze, cit., c. 562.
(70) Cipriani, Le leggi della procedura nei giudizi civili del Regno delle Due Sicilie, in Codice per lo Regno delle Due Sicilie, 1819, a cura di Picardi e Giuliani, Milano
2004, XXXIV.
(71) In tal senso v. Cipriani, La procura presunta, cit., c. 3154.
(72) Nel senso che l’art. 182 trovi applicazione anche in caso d’irregolarità della
costituzione del difensore, v. Satta, Commentario, cit., I, p. 80; Andrioli, Commento,
cit., II, p. 72; Cass., 20 ottobre 1998, n. 10382, in Foro it. Rep. 1998, voce Procedimento civile, n. 220; Cass., 7 luglio 1995, n. 7490, ibid. 1995, voce cit., n. 129. Secondo Cipriani - Costantino - Proto Pisani - Verde, L’infinita historia, cit., c. 3442, la
controparte, se dovesse avere dubbi sulla procura, « non ha che da esternarli, sì che
glieli si possa fugare (art. 182, comma 1°, c.p.c.) ». Nel senso che è ben possibile applicare l’art. 182 per sanare irregolarità della procura, in dottrina v. altresì Chiarloni,
Contrasti tra diritto alla difesa, cit., p. 656; in giurisprudenza, v. Trib. Roma, 4 febbraio 2000, in Rass. dir. civ. 2000, p. 941, e Trib. Milano, 22 marzo 1996, in Giur. it.
1996, I, 2, c. 293.
(73) V., supra, il n. 3.
612
RIVISTA DI DIRITTO PROCESSUALE
rola dell’avvocato che dichiara di agire per la parte, né tanto meno pretende
che l’avvocato, prima di parlare, dimostri di essere stato autorizzato dal suo
cliente (74).
Nel processo penale, poi, come si è ricordato all’inizio, la nomina del
difensore dell’imputato e della persona offesa « per l’esercizio dei diritti e
delle facoltà ad essa attribuiti » non dà affatto luogo a problemi interpretativi
e/o applicativi. Infatti, per rispetto del principio del favor defensionis, che
ispira tutta la normativa relativa alla difesa della parte nel processo, da un
lato l’art. 96, comma 2°, c.p.p. si limita a prevedere che la nomina del difensore vada fatta « con dichiarazione resa all’autorità procedente ovvero consegnata alla stessa dal difensore o trasmessa con raccomandata »; dall’altro,
dottrina e giurisprudenza, partendo dal presupposto che l’art. 96 c.p.p. « non
è una norma inderogabile ma tipicamente ordinatoria e regolamentare, suscettibile, quindi, di una interpretazione ampia ed elastica in bonam partem » (75), ritengono comunemente che la nomina del difensore dell’imputato ben possa essere desunta da comportamenti e/o fatti concludenti (76).
––––––––––––
(74) Del resto, la stessa Cassazione, in relazione ad una vicenda in cui si discuteva
dell’esistenza di un incarico professionale riguardante attività legale stragiudiziale, ha di
recente affermato che « il mandato professionale può essere conferito anche in forma
verbale, dovendo in tal caso la relativa prova risultare, quantomeno in via presuntiva, da
idonei indizi plurimi, precisi e concordanti » (così Cass., 10 maggio 2004, n. 8850, in
Contratti 2005, p. 155, con nota di Vaglio, La prova presuntiva dell’incarico professionale).
(75) Così Cass., 27 marzo 2003, in Foro it. Rep. 2003, voce Difensore penale, n. 24.
(76) In dottrina, v. Cordero, Procedura penale, 6a ed., Milano 2001, p. 285;
Randazzo, Difesa e difensore, in AA. VV., Protagonisti e comprimari del processo
penale, a cura di Chiavario - Marzaduri, Torino 1996, p. 257; Plessi, Nomina del difensore mediante telegramma, in Cass. pen. 1998, p. 2638; Patanè, Forma del
« mandato specifico » del contumace al difensore per impugnare, in Giust. pen. 1992,
III, p. 516. In giurisprudenza, v. Cass., 13 febbraio 2004, Castellana, in Foro it. Rep.
2004, voce Difensore penale, n. 13, secondo la quale « la nomina del difensore può
desumersi anche dal comportamento univocamente indicativo della volontà di avvalersi del professionista, ravvisabile nell’autenticazione della firma dell’interessato
sull’istanza diretta all’applicazione di una misura alternativa »; Cass., 27 marzo 2003,
Giambruno, ibid. 2003, voce cit., n. 24, che ha ritenuto sufficiente a dimostrare
l’esistenza dell’atto di nomina « la circostanza che l’imputato, fisicamente non presente in giudizio, fosse stato assistito, nel corso di almeno due anni e durante più fasi
procedimentali, da un professionista non ritualmente investito della funzione difensiva la cui opera non era mai stata contestata ed era proseguita con la redazione e la
presentazione dell’atto di appello in relazione al quale non era intervenuta alcuna
rinunzia da parte dell’imputato »; Cass., 17 maggio 1996, Lo Piano, in Giust. pen.
1998, III, p. 40. Nel vigore del c.p.p. del 1930, v. Cass., 9 gennaio 1987, Ursida, ivi
1985, III, p. 673 secondo la quale « la nomina del difensore di fiducia ha natura di
LA NOMINA DEL DIFENSORE NEL PROCESSO CIVILE
613
È infine utile ricordare che anche negli ordinamenti stranieri la nomina del
difensore non rappresenta un problema. In Francia, gli avvocati (peraltro da
tempo immemorabile) non hanno alcun obbligo di provare il conferimento
dell’incarico difensivo, che è presunto (art. 416, comma 2°, n.c.p.c.) (77);
in Austria, il riferimento fatto da un avvocato al mandato rilasciatogli sostituisce la prova documentale dell’incarico davanti a tutti i tribunali e a tutte le autorità (78); in Svizzera, nel processo federale, non è prevista alcuna disciplina
formale per il conferimento del potere rappresentativo (79); in Germania all’avvocato è persino consentito agire provvisoriamente senza incarico difensivo,
salva ratifica del suo operato (80); in Spagna la nomina può avvenire non solo
––––––––––––
negozio a forma libera (…); pertanto, la mancanza di una espressa dichiarazione di
nomina può non avere incidenza sulla sua validità allorché dagli atti risulti una situazione concreta ed obiettiva di patrocinio, indicativa del conferito incarico, desumibile
da fatti e comportamenti concludenti ed univoci »; Cass., 1° marzo 1984, Orio, in Riv.
pen. 1985, p. 404, che ha affermato che « la mancanza di una espressa dichiarazione
di nomina del difensore (…) non ha rilevanza, qualora una obiettiva situazione di patrocinio, esercitata nell’interesse dell’imputato, offra indicazione sicura del conferito
incarico ».
Va peraltro ricordato che, per la nomina del difensore della parte civile, del responsabile civile, della persona civilmente obbligata per la pena pecuniaria e degli enti
e delle associazioni che intervengono ex art. 93 c.p.p., l’art. 100 c.p.p. ricalca, con
qualche aggiustamento, l’art. 83 c.p.c. « trattandosi, in definitiva, di parti che agiscono
nell’ambito di un rapporto civilistico, ancorché inserito nel processo penale » (così la
Relazione al Progetto preliminare del c.p.p., in Lattanzi-Lupo, Il nuovo codice di procedura penale, Annotato con le relazioni e con i lavori preparatori, 2a ed., Milano
1991, p. 226).
(77) Va precisato che siffatta presunzione è semplice, in quanto la parte, se falsamente rappresentata, ha sempre la possibilità di provarlo, in modo da non essere vincolata
agli atti compiuti per suo conto dal falso rappresentante. In dottrina, v. VincentGuinchard, Procédure civile, 27a ed., Paris 2003, p. 456 e ss., spec. 470; Cornu-Foyer,
Procédure civile, Paris 1997, p. 292 e ss.
(78) Ai sensi del § 30 della ZPO austriaca e del § 8 del RAO (e cioè della legge regolatrice dell’ordinamento degli avvocati), gli avvocati non hanno bisogno di produrre il
documento da cui risulta il mandato, essendo sufficiente che essi facciano un mero riferimento alla procura già rilasciata dal cliente.
(79) La legge di procedura civile federale dispone all’art. 18 che le parti possono
farsi rappresentare da un procuratore, che le modalità del conferimento della rappresentanza sono disciplinate dalle norme del codice delle obbligazioni, sì che non solo non è
prevista alcuna disciplina formale, ma l’attività processuale svolta senza il relativo incarico è sempre ratificabile dal rappresentato.
(80) Invero la legge processuale civile tedesca disciplina compiutamente il caso
del rappresentante che sta in giudizio senza incarico difensivo ovvero che non è in
grado di provarne l’esistenza. Ai sensi del § 89 ZPO, questi può comunque essere
ammesso dal giudice a stare in giudizio provvisoriamente. Tuttavia la sentenza può
614
RIVISTA DI DIRITTO PROCESSUALE
in forma autentica, ma anche con dichiarazione resa dalla parte innanzi
all’autorità giudiziaria (81). Estremamente significativo è poi il Regolamento di
procedura della Corte di giustizia delle Comunità europee, per il quale il difensore (anche quello italiano…), per patrocinare innanzi ai giudici di Lussemburgo, non deve provare di essere stato officiato dalla parte che dichiara di difendere, bensì soltanto di essere avvocato, depositando in cancelleria « un certificato
da cui risulti che egli è abilitato a patrocinare dinanzi ad un organo giurisdizionale di uno Stato membro » (art. 38, par. 3°) (82).
––––––––––––
essere emessa soltanto dopo che è trascorso il termine assegnato per l’esibizione della
procura. Qualora il rappresentante esibisca la procura, il giudice provvede. In caso
contrario, il giudice non può provvedere e il rappresentante ammesso provvisoriamente alla trattazione è condannato al pagamento delle spese del procedimento, nei
limiti in cui siano state da lui provocate. Per quanto attiene poi alla disciplina della
procura, va detto che il rilascio dell’incarico difensivo consiste in una dichiarazione
unilaterale del rappresentato di conferire il potere rappresentativo, che, se riguarda
soltanto il processo, non richiede alcuna forma particolare, ben potendo consistere in
una dichiarazione diretta all’avversario, al rappresentante o anche all’organo giudiziario. Ricordato che in Germania si distingue un processo “di parti” e un processo
“di avvocati”, per quanto attiene alla prova del conferimento della procura, mentre
l’indagine sull’esistenza dei poteri rappresentativi nel processo “di parti” dovrebbe
essere svolta d’ufficio, nel processo “di avvocati”, l’indagine è subordinata alla richiesta della controparte (§ 88). In caso di richiesta l’avvocato deve giustificare i
propri poteri dando prova scritta dell’esistenza dell’incarico. Da notare che la parte
può sempre ratificare l’operato processuale del rappresentante senza procura, a condizione che la ratifica sia senza limiti. In tal modo, il difetto di rappresentanza è sanato
ex tunc, ossia a decorrere dall’inizio del processo. In dottrina, v. Putzo in Thomas –
Putzo, Zivilprozeßordnung, Munchen 2001, p. 180.
(81) Secondo il c.p.c. spagnolo, l’incarico difensivo al procuratore è conferito
per il tramite del poder, parola con la quale si indica tanto la dichiarazione di volontà
resa dal conferente, quanto il documento che formalizza tale conferimento. Tale documento può consistere in una scrittura pubblica (art. 24 l.e.c., nonché art. 1285, n. 5,
c.c.) o nel c.d. apud acta, ossia la comparizione personale della parte innanzi al segretario dell’autorità giudiziaria innanzi alla quale si procede (art. 24 l.e.c.). Il documento per atto pubblico deve essere esibito col primo scritto difensivo. Tuttavia, ai
sensi dell’art. 27 l.e.c., eccezion fatta per le disposizioni espresse sul rapporto fra
conferente e procuratore, alla rappresentanza processuale si applicano le norme (artt.
1709 - 1739 c.c.) stabilite dal contratto di mandato nel codice civile. Ciò significa che
l’eventuale inesistenza del poder può essere sanata con efficacia ex tunc, nel termine
che il giudice assegna, nonché che eventuali vizi sono sempre emendabili con la produzione di un altro poder o per atto pubblico o per apud acta. In dottrina, v. Montero
Aroca, Gomez Colomer, Monton Redondo, Barona Vilar, El nuevo proceso civil (Ley
1/2000), Valencia 2000, p. 108.
(82) V. Biavati, Diritto processuale dell’Unione Europea, 3a ed., Milano 2005,
p. 129.
LA NOMINA DEL DIFENSORE NEL PROCESSO CIVILE
615
Quindi, è del tutto evidente che solamente nel processo civile italiano,
benché la legge non obblighi affatto a considerare essenziale la “procura” rilasciata per iscritto, ci si ostina a ritenere che, in difetto di quella formalità, il difensore non possa neppure parlare.
Pertanto, per evitare che la c.d. procura continui a far parlare di sé e a
essere talvolta fonte di beffarde ingiustizie (83), è auspicabile una svolta
della giurisprudenza che affermi a chiare lettere che, sia pure con riferimento
ai soli giudizi di merito (84), la nomina del difensore può essere desunta anche da fatti o comportamenti concludenti, come peraltro già avviene, senza
––––––––––––
(83) In proposito, va ricordato che la Commissione ministeriale di studio per la riforma del processo civile presieduta dal prof. Romano Vaccarella, movendo giust’appunto dalla considerazione che il regime della procura rappresenta « lamentata fonte di
formalismi e speculazioni », ha proposto di « disciplinare la procura alla lite consentendo, in ogni caso di contestazione, la ratifica dell’operato del difensore » (punto n. 9 della
Relazione conclusiva dei lavori presentata il 12 luglio 2002). La relazione è consultabile
nel sito internet www.giustizia.it.
(84) Invero, mentre per i giudizi di merito sembra consentito desumere
l’esistenza dell’atto di nomina anche da facta concludentia, un discorso a parte va
fatto per quello di legittimità. Infatti, l’art. 365 c.p.c. prevede espressamente che il
difensore sia munito di procura speciale a pena d’inammissibilità del ricorso e l’art.
369 c.p.c. impone a pena d’improcedibilità il deposito della procura speciale conferita
con atto separato nel termine ivi indicato e senza alcuna possibilità di deposito tardivo (in tal senso, v., per tutte, Cass., sez. un., 14 novembre 2003, n. 17304, in Foro it.
Rep. 2003, voce Cassazione civile, n. 225). Se ne deve dedurre che la procura speciale per il giudizio di cassazione deve necessariamente risultare da atto scritto. Tuttavia, in proposito non si può non rilevare che la previsione di una procura “speciale”
per il giudizio di legittimità appare ingiustificata. Infatti, se sotto l’impero del c.p.c.
del 1865 tale previsione trovava la propria ragion d’essere nella natura straordinaria
dell’impugnazione (cfr. Mortara, Manuale della procedura civile, 9a ed., Torino rist.
1929, II, p. 133), oggi non è più così, essendo oramai da tempo il ricorso per cassazione un’impugnazione ordinaria. Si aggiunga che la sanzione di improcedibilità senza possibilità di sanatoria è foriera di gravissimi inconvenienti. A riprova, basti ricordare la nota vicenda della controversia Imi-Eredi Rovelli, conclusasi con la dichiarazione di improcedibilità del ricorso per cassazione proposto dall’Imi, a causa del
mancato deposito, nei termini, della procura speciale ex art. 365 c.p.c. rilasciata per
atto separato e con autentica notarile. Per effetto di siffatta dichiarazione di improcedibilità, l’Imi, che era difesa nientemeno che da Natalino Irti, Pietro Guerra e Carmine Punzi, fu condannata a pagare agli Eredi Rovelli un importo vicino ai mille miliardi di lire (Cass., 14 luglio 1993, n. 7802, in Foro it. 1993, I, c. 3018 e ss., con nota di
Tombari Fabbrini, Inammissibilità e improcedibilità del ricorso per cassazione e possibili sanatorie per raggiungimento dello scopo). Pertanto, la dottrina più attenta ha
auspicato l’abolizione della procura “speciale” per il giudizio di cassazione. In tal
senso, v. Cipriani - Costantino - Proto Pisani - Verde, L’infinita historia, cit., c. 3442;
Acone, La procura speciale, cit., p. 1169.
616
RIVISTA DI DIRITTO PROCESSUALE
alcun problema, nel processo penale per il difensore dell’imputato. E,
in questa prospettiva, non si può non rilevare che recenti sentenze della
S. Corte lasciano ben sperare sia perché, come abbiamo già avuto modo
di dire, in tema di procura rilasciata con firma illeggibile da legale rappresentante di persona giuridica, le Sezioni unite hanno modificato in senso realistico la propria posizione (85), tanto da indurre ad affermare che la
pronuncia rappresenta « un altro importante tassello nell’opera di demolizione del rigore formalistico in tema di procura alle liti » (86); sia, soprattutto, perché la Cassazione ha avvertito che il principio del giusto processo ex art. 111, comma 1°, Cost., impone « di discostarsi da interpretazioni
suscettibili di ledere il diritto di difesa di chi rilascia la procura » oppure
ispirate a un formalismo che non tutela l’interesse della controparte, ma frustra lo scopo stesso del processo, e cioè la pronuncia di una decisione di merito (87).
GIOVANNI DELUCA
Ricercatore
nell’Università di Bari
––––––––––––
(85) Ci si riferisce a Cass., sez. un., 7 marzo 2005, n. 4810, in Giur. it. 2005,
p. 1210, di cui si è innanzi detto nella nota 50.
(86) Chiarloni, La giustizia vince sulla procedura, cit., p. 1213.
(87) V. Cass., 9 giugno 2004, n. 10963, in Foro it. Rep. 2004, voce Procedimento
civile, n. 121; Cass., 29 gennaio 2003, ivi 2003, I, c. 2665.
ATTUALITÀ LEGISLATIVA
RASSEGNA DI LEGISLAZIONE
(1° gennaio – 31 marzo 2006)
SOMMARIO: 1. Disposizioni generali. – 2. La riforma del processo civile. – 3.
Segue: la riforma della Cassazione. – 4. Segue: la riforma dell’arbitrato. –
5. Segue: altre disposizioni riguardanti il processo civile. – 6. Processo civile telematico e informatizzazione della p.a. – 7. Ordinamento giudiziario. – 8. Professioni. – 9. Immigrazione. – 10. Riforma delle procedure
concorsuali. – 11. Conflitti economici: diritto societario e bancario. – 12.
Codici di settore. – 13. Università e ricerca. – 14. Ratifica di trattati e convenzioni internazionali.
1. – I dd. P.R. 11 febbraio 2006, n. 32 e n. 33 (in Gazz. uff. 11 febbraio
2006, n. 35) hanno sancito la fine della XIV legislatura repubblicana: con il
primo sono stati sciolti la Camera ed il Senato, con il secondo sono stati convocati i comizi per le elezioni.
Nel Supplemento ordinario n. 34 della Gazz. uff. dell’8 febbraio 2006,
n. 32, è stata pubblicata la legge comunitaria del 2005 (l. 25 gennaio 2006.
n. 29), per l’attuazione di numerose direttive, elencate negli allegati A, B, e C.
Tra queste, appaiono meritevoli di essere segnalate quelle per la istituzione di
una nuova struttura organizzativa per i comitati del settore dei servizi finanziari;
quella relativa alle pratiche commerciali sleali tra imprese e consumatori nel mercato interno; quella concernente il regime fiscale comune applicabile alle società
madri e figlie di Stati membri diversi; quella relativa all’indennizzo delle vittime di
reato; quella recante norme minime sull’attribuzione, a cittadini di paesi terzi o
apolidi, della qualifica di rifugiato; quella sull’armonizzazione degli obblighi di
trasparenza riguardanti le informazioni sugli emittenti i cui valori mobiliari sono
ammessi alla negoziazione in un mercato regolamentato; quella sul principio di
parità di trattamento tra uomini e donne per quanto riguarda l’accesso a beni e servizi; quella sull’assicurazione della responsabilità civile risultante dalla circolazione di autoveicoli; quella relativa al regime fiscale comune da applicare alle fusioni,
alle scissioni, ai conferimenti d’attivo ed agli scambi d’azioni concernenti società
di Stati membri diversi; quella relativa al riconoscimento delle qualifiche professionali; quella relativa alla prevenzione dell’uso del sistema finanziario a scopo di
riciclaggio dei proventi di attività criminose e di finanziamento del terrorismo.
Qualora non vi provveda direttamente il legislatore delegato, l’attuazione
618
RIVISTA DI DIRITTO PROCESSUALE
di ciascuna delega appare destinata a suscitare complessi problemi di coordinamento con la legislazione medio tempore sopravvenuta.
2. – Nel periodo considerato è stata completata la riforma del processo civile avviata con il d.l. 14 marzo 2005, n. 35, convertito con modificazioni con la
legge 14 maggio 2005, n. 80.
Il d.l. 30 dicembre 2005, n. 271, intitolato « Proroga di termini in materia
di efficacia di nuove disposizioni che modificano il processo civile », non è stato
convertito in legge, ma quanto da esso stabilito è stato inserito nell’art. 39quater l. 23 febbraio 2006, n. 51 (in Gazz. uff. 28 febbraio 2006, n. 49 - Suppl.
ord., n. 47), che ha convertito il d.l. 30 dicembre 2005, n. 273, sulla proroga di
termini relativi all’esercizio di deleghe legislative: la data di entrata in vigore
della riforma è stata spostata dal 1° gennaio al 1° marzo 2006.
A questa data, è entrata in vigore, per i processi di cognizione iniziati successivamente, la riforma del processo ordinario di cognizione, del processo cautelare, del procedimento possessorio, dei processi di separazione e di divorzio.
Alla stessa data è entrata in vigore la riforma del processo esecutivo, ma
questa è stata dichiarata applicabile anche ai processi pendenti nei quali non sia
stata disposta la vendita, con la precisazione che, in ogni caso, « l’intervento dei
creditori non muniti di titolo esecutivo conserva efficacia se avvenuto prima del
1° marzo 2006 ».
Alla riforma del processo esecutivo di cui al d.l. 14 marzo 2005, n. 35,
convertito con modificazioni con l. 14 maggio 2005, n. 80, ed alla riforma della
riforma di cui alla l. 28 dicembre 2005, n. 263, ha fatto seguito la riforma della
riforma della riforma di cui alla l. 24 febbraio 2006, n. 52 « Riforma delle esecuzioni mobiliari » (in Gazz. uff. 28 febbraio 2006, n. 49), vigente anch’essa dal
1° marzo 2006.
Questa legge, nonostante il titolo riduttivo, modifica significativamente
anche le opposizioni e la sospensione dell’esecuzione.
Essa prevede un onere di collaborazione a carico del debitore per quanto riguarda la ricerca dei beni pignorabili; attribuisce, allo stesso fine, all’ufficiale
giudiziario o ad un professionista da questo designato, poteri ispettivi; impone che
il verbale di pignoramento mobiliare sia redatto anche « mediante rappresentazione fotografica ovvero altro mezzo di ripresa audiovisiva »; consente che il terzo debitor debitoris renda la dichiarazione « a mezzo raccomandata inviata al
creditore procedente »; regola con il rito camerale di cui agli artt. 737 ss. c.p.c.
l’udienza innanzi al giudice dell’esecuzione; rende inappellabili le sentenze sulla
opposizione alla esecuzione ai sensi dell’art. 615 c.p.c. e sulla opposizione di terzo ex art. 619 c.p.c. Il novellato art. 624, comma 3°, attribuisce al giudice « che
ha disposto la sospensione » il potere di dichiarare « con ordinanza non impugnabile » « l’estinzione del pignoramento (sic), previa eventuale imposizione di
cauzione e con salvezza degli atti compiuti ». La disposizione chiarisce altresì che
« l’autorità dell’ordinanza di estinzione pronunciata ai sensi del presente comma
non è invocabile in un diverso processo ».
RASSEGNA DI LEGISLAZIONE
619
La disposizione novellata, prescindendo dagli immediati profili pratici ed
applicativi, in considerazione dei riflessi teorici e sistematici, appare destinata a
contribuire ad un rinascimento degli studi processualistici.
Altre complesse questioni di coordinamento si pongono in relazione alla l.
8 febbraio 2006, n. 54, « Disposizioni in materia di separazione dei genitori e
affidamento condiviso dei figli » (in Gazz. uff. 1° marzo 2006, n. 50).
Questa legge si compone di cinque articoli: l’art. 1 modifica l’art. 155 c.c. ed
aggiunge gli artt. 155-bis, ter, quater, quinquies, e sexies c.c., che regolano le
condizioni, i presupposti e le modalità dell’affidamento dei minori nei giudizi di
separazione; l’art. 2 aggiunge un comma 4° all’art. 708 c.p.c., nonché l’art. 709ter c.p.c.: prevede il reclamo contro i provvedimenti presidenziali e detta norme
processuali « per la soluzione delle controversie » sull’esercizio della potestà genitoriale e sulle « modalità dell’affidamento »; l’art. 3 estende le sanzioni penali
previste dall’art. 12-sexies, l. 1° dicembre 1970, n. 898 (quale modificata dalla l. 6
marzo 1987, n. 74); l’art. 4, comma 1°, consente la modifica di quanto stabilito in
relazione all’affidamento dei figli anche in riferimento ai processi di separazione,
di divorzio e di annullamento del matrimonio già conclusi; il comma 2° trascura
la circostanza che la qualità di genitori non implica necessariamente una precedente convivenza ed estende la disciplina « ai procedimenti relativi ai figli di genitori non coniugati »; l’art. 5 prescinde dagli effetti della illimitata possibilità di
chiedere la revisione delle statuizioni relative all’affidamento e stabilisce che
«non devono derivare nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica».
Questa legge non contiene una disciplina transitoria specifica; le nuove disposizioni da essa previste sono, quindi, regolate dal principio generale tempus
regit actum e sono applicabili anche ai processi pendenti. Poiché la menzionata
legge n. 51 limita ai processi di cognizione iniziati dopo il 1° marzo 2006
l’entrata in vigore della riforma di cui al d.l. 14 marzo 2005, n. 35, convertito
con modificazioni con la legge 14 maggio 2005, n. 80, ed ancora modificato
dalla l. 28 dicembre 2005, n. 263, e dalla l. 24 febbraio 2006, n. 52, ne consegue
che gli artt. 708, comma 3°, e 709-ter c.p.c., novellati dalla l. 54/2006 si applicano anche ai processi pendenti, mentre l’art. 709-bis, novellato dalla l. 80/2005
si applica soltanto ai processi iniziati dopo il 1° marzo 2006.
Analoghe questioni di diritto intertemporale si pongono in relazione alla
l. 21 febbraio 2006, n. 102 (in Gazz. uff. 17 marzo 2006, n. 64), che ha esteso « le
norme processuali di cui al libro II, titolo IV, capo I del codice di procedura civile », cioè il rito del lavoro di cui agli artt. 413 ss. c.p.c., « alle cause relative al
risarcimento dei danni per morte o lesioni, conseguenti ad incidenti stradali ».
Anche questa ennesima ondata dello tsunami di riforme, infatti, è priva di una
disciplina transitoria specifica, cosicché le nuove previsioni si applicano anche ai
processi pendenti: qualora sia stato chiesto il risarcimento dei danni alla persona e
non sia stata avanzata alcuna pretesa per il risarcimento dei danni alle cose, anche
i processi pendenti dovranno proseguire nelle forme del rito speciale. Se, invece,
sia stato chiesto congiuntamente il risarcimento dei danni alle cose ed alla persona, ai sensi dell’art. 40, comma 3°, c.p.c., il rito ordinario dovrebbe prevalere su
620
RIVISTA DI DIRITTO PROCESSUALE
quello speciale, perché l’estensione del rito del lavoro non implica inclusione
delle controversie tra quelle indicate negli artt. 409 e 442 c.p.c.
L’art. 5 modifica l’art. 24 l. 24 dicembre 1969, n. 990, e detta nuove regole
per l’ordinanza di condanna in favore dei danneggiati in stato di bisogno. Sennonché il Codice delle assicurazioni di cui al d.lgs. 7 settembre 2005, n. 209, in
vigore dal 1° gennaio 2006, all’art. 354, ha abrogato l’intera legge n. 990 del
1969 e, all’art. 147, ha disciplinato l’ordinanza in parola.
3. – Il d.lgs. 2 febbraio 2006, n. 40 (in Gazz. uff. 15 febbraio 2006, n. 38 Suppl. ord., n. 40), ha attuato la delega per la riforma della Cassazione e
dell’arbitrato: gli artt. da 1 a 20, nonché l’art. 26, riguardano la Cassazione; da
21 a 25 l’arbitrato.
L’art. 27 contiene la disciplina transitoria: per quanto riguarda la riforma
della Cassazione, in deroga al principio generale tempus regit actum, è stabilito
il principio tempus regit « gradum »; per quanto riguarda l’arbitrato, parzialmente, quello tempus regit processum.
I principî e i criterî direttivi della delega corrispondono a quelli di cui al
d.d.l. n. 4578/C/XIV, approvato dal Consiglio dei ministri il 24 ottobre 2003,
presentato alla Camera il 19 dicembre successivo, ma giammai esaminato né
assegnato ad alcuna commissione, e corrispondente, a sua volta, al progetto elaborato dalla Commissione presieduta dal professore Romano Vaccarella, che
aveva concluso i lavori il 12 luglio 2002.
Sulla prima parte, il 21 luglio 2005, si è pronunciata l’Assemblea della
Corte di cassazione.
Per effetto di questo decreto legislativo, non sono più ricorribili per cassazione le sentenze non definitive su questioni, in sintonia con quanto previsto
dall’art. 11, comma 2°, d.lgs. 17 gennaio 2003, n. 5 (rettificato dall’Avviso pubblicato nella Gazz. uff. del 9 settembre 2003, corretto dal d.lgs. 6 febbraio 2004,
n. 37, e dal d.lgs. 28 dicembre 2004, n. 310). Sono anche sottratti alla Cassazione civile, ai sensi dell’art. 2, lett. l), l. 25 luglio 2005, l. 150, sulla riforma
dell’ordinamento giudiziario, i ricorsi contro le decisioni della sezione disciplinare del Consiglio Superiore della Magistratura. Inoltre, non sono più direttamente ricorribili per cassazione le sentenze pronunciate secondo equità dal giudice di pace e quelle in tema di sanzioni amministrative: i novellati artt. 339
c.p.c. e 23 l. 24 novembre 1981, n. 689, hanno reso tali sentenze appellabili.
Sennonché, lo sgravio di lavoro per la Corte, conseguente alle disposizioni
appena indicate, coincide con l’aggravio derivante dalla ricorribilità delle sentenze in grado di appello o in unico grado per violazione dei contratti collettivi
e dalla possibilità di dedurre tutti i motivi di cui all’art. 360 c.p.c., anche nei ricorsi straordinari per violazione di legge, ai sensi dell’art. 111, comma 7° (già
2°) Cost.; nonché, soprattutto, dalla immediata ricorribilità dei decreti camerali
decisori delle controversie che nascono dal fallimento per le quali non sia prevista una disciplina specifica, dei decreti sull’accertamento del passivo e dei decreti sulla esdebitazione, ai sensi, rispettivamente, degli artt. 24, 99 e 143 l.f.,
RASSEGNA DI LEGISLAZIONE
621
quali novellati dal d.lgs. 5/2006, di cui più oltre; delle sentenze sulla opposizione alla esecuzione e sulla opposizione di terzo alla esecuzione, ai sensi dell’art.
616 c.p.c., novellato dalla riforma della riforma della riforma del processo civile
di cui alla l. 52/2006.
Erano e sono ricorribili innanzi alla Cassazione civile non solo tutti i provvedimenti decisorî e definitivi, quale che sia la forma, ma anche le decisioni
disciplinari del Consiglio Nazionale Forense, del Consiglio Nazionale del Notariato e dei corrispondenti organi previsti per le altre categorie professionali.
Ai sensi del nuovo art. 366-bis c.p.c. « Nei casi previsti dall’articolo 360,
primo comma, numeri 1), 2), 3) e 4), l’illustrazione di ciascun motivo si deve
concludere, a pena di inammissibilità, con la formulazione di un quesito di diritto. Nel caso previsto dall’articolo 360, primo comma, n. 5), l’illustrazione di
ciascun motivo deve contenere, a pena di inammissibilità, la chiara indicazione
del fatto controverso in relazione al quale la motivazione si assume omessa o
contraddittoria, ovvero le ragioni per le quali la dedotta insufficienza della
motivazione la rende inidonea a giustificare la decisione ».
I nuovi artt. 375, 380, 380-bis, e 391-bis c.p.c. estendono i casi nei quali la
Corte provvede senza udienza pubblica. È attribuito al relatore il potere di chiedere la decisione in camera di consiglio, ma il collegio, anche in base alle deduzioni delle parti e del pubblico ministero, può comunque fissare l’udienza per la
discussione. È ammessa la revocazione anche per gli altri motivi di cui all’art.
395 c.p.c., nonché l’opposizione di terzo.
Sono modificati, dall’art. 374 c.p.c., i rapporti tra le sezioni unite e le sezioni semplici. In particolare, sono attribuiti alle sezioni unite i ricorsi sulla giurisdizione solo nel caso di impugnazione di sentenze dei giudici speciali, cosicché i regolamenti preventivi di giurisdizione dovrebbero essere assegnati alle
sezioni semplici, mentre restano comunque di competenza delle sezioni unite
civili i ricorsi contro le decisioni in materia disciplinare del Consiglio Nazionale
Forense, del Consiglio nazionale del Notariato e degli altri ordini professionali.
Le sezioni unite civili sono anche chiamate a decidere le questioni nuove di giurisdizione, le « questioni di massima di particolare importanza » e a risolvere i
contrasti tra le sezioni semplici; a queste ultime, il comma 3°, vieta di decidere
in modo difforme dalle sezioni unite ed impone, qualora non ne condividano le
indicazioni, di rimettere ad esse la decisione.
Il novellato art. 384, comma 3°, c.p.c. pone limiti all’accoglimento della
terza via; stabilisce che la Corte, « se ritiene di porre a fondamento della sua
decisione una questione rilevata d’ufficio », debba assegnare termini alle parti e
al pubblico ministero « per il deposito in cancelleria di osservazioni ».
L’eventuale violazione appare, tuttavia, priva di conseguenze, anche prescindendo dal contrasto tra Cass., 31 dicembre 2005, n. 21108; 27 luglio 2005,
n. 15705; 28 gennaio 2004, n. 1572; 5 giugno 2003, n. 8993; 21 novembre
2001, n. 14637 (quest’ultima diversamente commentata da S. Chiarloni in Giur.
it. 2002, 1363, e da F.P. Luiso, in Giust. civ. 2002, I, 1612).
Il nuovo art. 420-bis c.p.c. estende ai rapporti di lavoro privato quanto previ-
622
RIVISTA DI DIRITTO PROCESSUALE
sto dall’art. 64, d.lgs. 30 marzo 2001, n. 165 (corrispondente all’art. 68-bis d.lgs.
3 febbraio 1993, n. 29, aggiunto dall’art. 30, d.lgs. 31 marzo 1998, n. 80, modificato dall’art. 19, commi 1° e 2° d.lgs. 29 ottobre 1998, n. 387 del 1998). Il modello è la disciplina delle « Controversie regolate da norme corporative » di cui
agli artt. 410, 444 e 467 ss. c.p.c. 1940: l’art. 410, comma 2°, infatti, attribuiva
alla Magistratura del lavoro di Roma l’interpretazione dei contratti collettivi in
vigore « in più circoscrizioni »; gli artt. 444 e 470 prevedevano la sospensione
necessaria delle controversie individuali in pendenza di quelle collettive;
l’art. 471, come ora il novellato art. 360, n. 3, ammetteva il ricorso per cassazione
anche per violazione o falsa applicazione delle norme corporative o degli accordi
economici. Anche nel nuovo contesto normativo, peraltro, la individuazione del
contratto o accordo collettivo applicabile resta una questione di fatto, in riferimento alla quale non sembra possa invocarsi il principio jura novit curia.
4. – Il Capo II del d.lgs. 2 febbraio 2006, n. 40, ha riformato l’arbitrato.
L’art. 20 ha modificato il Capo I del Titolo VIII del Libro IV del codice, ora
intitolato « Della convenzione d’arbitrato »; gli artt. 21, 22, 23 e 24, rispettivamente, i Capi II, III, IV e V, i quali conservano gli stessi titoli: « Degli arbitri »,
« Del procedimento », « Del lodo » e « Delle impugnazioni »; l’art. 25 il Capo VI,
che è ora intitolato « Dell’arbitrato secondo regolamenti precostituiti ».
Il nuovo Capo I del Titolo VIII del Libro IV del codice comprende gli articoli da 806 a 808-quinquies c.p.c. Si specifica che non possono essere oggetto
di arbitrato le controversie che « abbiano per oggetto diritti indisponibili », che
la forma scritta per il compromesso è rispettata anche quando sia espressa « per
telegrafo, telescrivente, telefacsimile o messaggio telematico nel rispetto della
normativa, anche regolamentare, concernente la trasmissione e la ricezione dei
documenti teletrasmessi »; l’art. 808-ter regola l’arbitrato « irrituale ».
Il nuovo Capo II comprende gli artt. da 809 a 815 c.p.c.; sono stati aggiunti gli artt. 813-bis e ter, che corrispondono, rispettivamente, all’art. 813,
comma 3° e comma 2°, nel testo prima vigente.
Il nuovo Capo III comprende gli artt. da 816 a 819-ter c.p.c.; sono stati aggiunti gli artt. da 816-bis a septies; è attribuito al difensore, anche in mancanza
di procura speciale, il potere di rinunciare agli atti e di concedere la proroga del
termine per la pronuncia del lodo; è regolata l’istruzione probatoria; sono affrontate le questioni relative alla pluralità di parti, all’intervento e alle conseguenze degli eventi interruttivi; gli artt. 819-bis e ter regolano rispettivamente
la sospensione del processo e i rapporti con l’autorità giudiziaria ordinaria.
Il nuovo Capo IV comprende gli artt. da 820 a 826 c.p.c.; è stato aggiunto
l’art. 824-bis, che corrisponde all’art. 823, comma 4°, e stabilisce che « il lodo
ha dalla data della sua ultima sottoscrizione gli effetti della sentenza pronunciata dall’autorità giudiziaria ».
Il nuovo Capo V comprende gli artt. da 827 a 831 c.p.c.
La disciplina dell’arbitrato « internazionale », già regolato dal Capo VI del
Titolo VIII del Libro IV del codice è sostituita da quella dell’arbitrato ammini-
RASSEGNA DI LEGISLAZIONE
623
strato, nella quale si rinvia alla normativa di volta in volta per questo prevista e
se ne regolano i rapporti con quella ordinaria.
5. – Con tre distinti dd.m. del 23 novembre 2005 (in Gazz. uff. 27 gennaio
2006, n. 22) sono stati prorogati i termini di decadenza per il compimento degli
atti giudiziari nei circondari di Venezia e di Salerno e nel distretto di Milano, a
causa dell’irregolare funzionamento di alcuni uffici.
La l. 3 marzo 2006, n. 86 (in Gazz. uff. 13 marzo 2006, n. 60) ha convertito il
d.l. 1° febbraio 2006, n. 23 « Misure urgenti per i conduttori di immobili in condizioni di particolare disagio abitativo, conseguente a provvedimenti esecutivi di rilascio in determinati comuni »: l’art. 1 prevede una sospensione legale delle esecuzioni per rilascio nei confronti dei conduttori che hanno nel loro nucleo familiare
persone ultrasessantacinquenni o handicappati gravi, purché non dispongano di
altra abitazione, né di redditi sufficienti ad accedere alla locazione di un nuovo
immobile »; ai sensi del comma 4°, tuttavia, « la sospensione non opera in caso di
mancato regolare pagamento del canone di locazione e dei relativi oneri accessori »; per la verifica giudiziale dei requisiti, il comma 3° rinvia all’art. 1, comma 2°,
d.l. 20 giugno 2002, n. 122, convertito, con modificazioni, dalla l. 1° agosto 2002,
n. 185, il quale, a sua volta, rinvia all’art. 11, commi 5° e 6°, d.l. 23 gennaio 1982,
n. 9, convertito, con modificazioni, dalla l. 25 marzo 1982, n. 94: sul ricorso del
locatore provvede, con decreto, il giudice dell’esecuzione « sentite le parti, ove lo
reputi indispensabile ». Le forme previste per la tutela del diritto all’abitazione meriterebbero di essere valutate non solo in riferimento ai principî del giusto processo
di cui all’art. 111 Cost., ma anche con la rinnovata struttura del processo esecutivo
e con la nuova disciplina prevista per gli incidenti cognitivi.
Con d.m. 23 novembre 2005 (in Gazz. uff. 27 gennaio 2006, n. 22) è stato
dettato il regolamento per la « destinazione di beni sequestrati o confiscati a
seguito di operazioni anticontrabbando ».
6. – Il d.lgs. 24 gennaio 2006, n. 36 (in Gazz. uff. 14 febbraio 2006, n. 37)
ha dato attuazione alla direttiva 2003/98/CE relativa al riutilizzo di documenti
nel settore pubblico.
Il d.m. 7 febbraio 2006 (in Gazz. uff. 14 febbraio 2006, n. 37) ha dettato le
modalità di accesso al servizio di informatica giuridica del Centro elettronico di
documentazione della Corte di cassazione e per la fruizione del relativo servizio
ed ha determinato le relative tariffe.
Con d.m. 17 febbraio 2006 (in Gazz. uff. 14 marzo 2006, n. 61) sono state
dettate disposizioni sul servizio di posta elettronica ibrida, ma, con la decisione
del 29 marzo 2006, n. 15310 (in Bollettino 13/2006), l’Autorità Garante della
Concorrenza e del Mercato ha ritenuto sussistente l’abuso di posizione dominante ai sensi dell’art. 82 del Trattato CE.
7. – Nel trimestre considerato è proseguita l’attuazione delle deleghe per la
riforma dell’ordinamento giudiziario ai sensi della l. 25 luglio 2005, n. 150.
624
RIVISTA DI DIRITTO PROCESSUALE
Sono stati emanati il d.lgs. 16 gennaio 2006, n. 20 (in Gazz. uff. 27 gennaio 2006, n. 22), sul conferimento degli incarichi direttivi giudicanti e requirenti; il d.lgs. 23 gennaio 2006, n. 24 (in Gazz. uff. 3 febbraio 2006, n. 28), che
modifica l’organico dei magistrati addetti alla Corte di cassazione; il d.lgs. 27
gennaio 2006, n. 24 (in Gazz. uff. 3 febbraio 2006, n. 28), sulla istituzione del
Consiglio direttivo della Corte di cassazione e sulla nuova disciplina dei consigli giudiziari; il d.lgs. 27 gennaio 2006, n. 26 (in Gazz. uff. 3 febbraio 2006,
n. 28), sulla istituzione della Scuola superiore della magistratura, sul tirocinio e
sulla formazione degli uditori giudiziari, sull’aggiornamento professionale e
sulla formazione dei magistrati; il d.lgs. 2 febbraio 2006, n. 35 (in Gazz. uff. 13
febbraio 2006, n. 36), sulla pubblicità degli incarichi extragiudiziari; il d.lgs. 27
febbraio 2006, n. 106 (in Gazz. uff. 20 marzo 2006, n. 66), sulla riorganizzazione dell’ufficio del pubblico ministero. Il d.lgs. 7 febbraio 2006, n. 62 (in Gazz.
uff. 3 marzo 2006, n. 52), infine, ha modificato la disciplina concernente
l’elezione del Consiglio di presidenza della Corte dei conti e del Consiglio di
presidenza della Giustizia amministrativa.
Con decreto del 20 febbraio 2006 (in Gazz. uff. 1° marzo 2006, n. 50), il
Consiglio Superiore della Magistratura ha modificato il proprio regolamento
interno, al quale è stato aggiunto l’art. 29-bis, istitutivo del « Comitato per le
pari opportunità in magistratura ».
Il d.lgs. 15 febbraio 2006, n. 63 (in Gazz. uff. 3 marzo 2006, n. 52) ha dettato l’ordinamento della carriera dirigenziale penitenziaria.
8. – Con il d.lgs. 2 febbraio 2006, n. 30 (in Gazz. uff. 8 febbraio 2006,
n. 32), si è provveduto alla « ricognizione dei principi fondamentali in materia
di professioni ».
Il testo, suddiviso in tre Capi, si compone di sette articoli. L’art. 1 definisce l’ambito di applicazione della disciplina. L’art. 2, comma 1°, stabilisce che
« L’esercizio della professione, quale espressione del principio della libertà di
iniziativa economica, è tutelato in tutte le sue forme e applicazioni, purché non
contrarie a norme imperative, all’ordine pubblico ed al buon costume »; il successivo capoverso vieta ogni discriminazione per ragioni sessuali, razziali, religiose, politiche o da ogni altra condizione personale o sociale, « secondo
quanto stabilito dalla disciplina statale e comunitaria in materia di occupazione e condizioni di lavoro ». L’art. 3, intitolato « Tutela della concorrenza e del
mercato », al comma 1°, dispone che « l’esercizio della professione si svolge
nel rispetto della disciplina statale della tutela della concorrenza, ivi compresa
quella delle deroghe consentite dal diritto comunitario a tutela di interessi pubblici costituzionalmente garantiti o per ragioni imperative di interesse generale,
della riserva di attività professionale, delle tariffe e dei corrispettivi professionali, nonché della pubblicità professionale »; al comma 2° equipara l’attività
professionale a quella di impresa « salvo quanto previsto dalla normativa in
materia di professioni intellettuali ». L’art. 5, comma 1°, infine prevede che
« l’esercizio delle attività professionali si svolge nel rispetto dei principi di
RASSEGNA DI LEGISLAZIONE
625
buona fede, dell’affidamento del pubblico e della clientela, della correttezza,
della tutela degli interessi pubblici, dell’ampliamento e della specializzazione
dell’offerta dei servizi, dell’autonomia e responsabilità del professionista ».
Le riserve contenute in ciascuna delle disposizioni appena indicate inducono a dubitare della effettiva portata precettiva del provvedimento, dal titolo
altisonante.
Il d.lgs. 23 gennaio 2006, n. 28 (in Gazz. uff. 6 febbraio 2006, n. 30) ha attribuito all’Ordine dei dottori commercialisti e degli esperti contabili le competenze sul registro dei revisori contabili.
Con la l. 22 febbraio 2006, n. 84 (in Gazz. uff. 13 marzo 2006, n. 60) è stata
disciplinata l’attivita professionale di tintolavanderia. Il provvedimento può essere collegato alla l. 17 agosto 2005, n. 174, istitutivo della professione di acconciatore, del quale si è dato conto in un precedente numero di questa Rassegna.
9. – Con d.p.c.m. del 15 febbraio 2006 (in Gazz. uff. 7 marzo 2006, n. 55)
sono stati programmati i flussi di ingresso dei lavoratori comunitari. Si è ammesso l’ingresso « per motivi di lavoro subordinato, stagionale e non stagionale e di lavoro autonomo » di 170.000 unità di cittadini stranieri « residenti
all’estero ». Il provvedimento specifica, poi, la suddivisione di tale quota massima per tipologia di lavoro e per provenienza.
In aggiunta a tale previsione, l’art. 4 ammette l’ingresso in Italia dei
« lavoratori di origine italiana per parte di almeno uno dei genitori fino al terzo grado in linea diretta di ascendenza, residenti in Argentina, Uruguay e Venezuela, che chiedano di essere inseriti in un apposito elenco, costituito presso
le rappresentanze diplomatiche o consolari italiane ».
Un ennesimo, distinto procedimento a cognizione sommaria è stato previsto
dalla l. 1° marzo 2006, n. 67 « Misure per la tutela giudiziaria delle persone con
disabilità vittime di discriminazioni » (in Gazz. uff. 6 marzo 2006, n. 54): l’art. 3
rinvia all’art. 44, commi 1°, 6° e 8°, d.lgs. 25 luglio 1998, n. 286; l’art. 4 regola la
legittimazione delle associazioni. La tutela dei disabili è, dunque, regolata, quanto
alle forme, da quelle previste per la tutela contro le discriminazioni razziali, ma
differisce da quella prevista per le discriminazioni sessuali e sindacali.
Il d.m. 16 dicembre 2005 (in Gazz. uff. 12 gennaio 2006, n. 9) ha istituito
l’elenco delle associazioni ed enti legittimati ad agire in giudizio in nome, per
conto o a sostegno del soggetto passivo di discriminazione basata su motivi razziali o etnici.
10. – Con il d.lgs. 9 gennaio 2006, n. 5 (in Gazz. uff. 16 gennaio 2006,
n. 12, Suppl. ord. n. 13), è stata completata la riforma delle procedure concorsuali, anticipata, in riferimento al concordato preventivo e alle revocatorie, dal
d.l. 14 marzo 2005, n. 35, convertito con modificazioni con la legge 14 maggio
2005, n. 80.
Il testo modifica, con la tecnica della novellazione, la legge fallimentare di
cui al r.d. 16 marzo 1942, n. 267; si compone di 153 articoli, suddivisi in 18 capi.
626
RIVISTA DI DIRITTO PROCESSUALE
Il novellato art. 9 ed i nuovi artt. 9-bis e ter, si occupano della competenza
e della translatio judicii.
La dichiarazione di fallimento è regolata dal procedimento di cui ai novellati artt. 15, 17 e 18: dal nuovo art. 6 è espunta la possibilità della dichiarazione d’ufficio; è indicato il contenuto del ricorso proponibile dai creditori, dal
pubblico ministero dallo stesso imprenditore e dai suoi eredi. In calce ad esso, il
presidente del tribunale o il giudice delegato per la trattazione del procedimento
fissa l’udienza; tra la data di notificazione del ricorso e del decreto è previsto un
termine dilatorio non inferiore a quindici, ma non superiore a trenta giorni. È
regolata l’istruttoria, con la previsione di poteri ufficiosi: è stabilito che il tribunale possa delegare al giudice relatore l’audizione delle parti e che « in tal caso » il giudice delegato possa provvedere non soltanto alla assunzione (« all’espletamento ») dei mezzi istruttori richiesti dalle parti o disposti d’ufficio, ma
anche alla « ammissione » degli stessi. È prevista la pronuncia di « provvedimenti cautelari o conservativi a tutela del patrimonio o dell’impresa oggetto del provvedimento, che hanno efficacia limitata alla durata del procedimento e vengono confermati o revocati dalla sentenza che dichiara il fallimento, ovvero revocati con il decreto che rigetta l’istanza ».
È soppressa l’opposizione allo stesso tribunale e l’art. 18 disciplina il procedimento in appello, nell’ambito del quale la corte può assumere, « anche
d’ufficio, i mezzi di prova necessari ai fini della decisione », può anche, ai sensi
dell’art. 19, sospendere la liquidazione dell’attivo ed emette la sentenza ai sensi
dell’art. 281-sexies c.p.c. Il provvedimento con il quale è rigettato il ricorso per
fallimento è pronunciato con decreto reclamabile alla corte di appello « che, sentite le parti, provvede in camera di consiglio con decreto motivato ». In tal caso,
oggetto del reclamo possono anche essere i capi relativi alla condanna alle spese
ed al risarcimento del danno, che non possono essere chiesti autonomamente.
Soltanto per la dichiarazione di fallimento, dunque, sono previsti tre distinti procedimenti: a seconda dell’esito del giudizio di primo grado, sono proponibili alla corte territoriale l’appello contro la sentenza dichiarativa o il reclamo contro il decreto di rigetto e diverse forme sono previste per l’uno e per
l’altro.
Ai sensi del novellato art. 24, comma 2°, poi, alle controversie che derivano dal fallimento « si applicano le norme previste dagli articoli da 737 a 742
del codice di procedura civile », « salvo che non sia diversamente previsto ». In
presenza, pertanto, delle concorrenti condizioni che si tratti di cause che derivano dal fallimento e che non sia previsto alcuno specifico procedimento per la
loro trattazione, le controversie de quibus saranno introdotte con ricorso, a seguito del quale il tribunale dovrà convocare le parti, potrà assumere informazioni e concluderà il procedimento con decreto reclamabile alla corte di appello
nel termine di dieci giorni dalla notificazione. In considerazione dell’oggetto, il
decreto della corte sarà, quindi, ricorribile per cassazione ai sensi dell’art. 111,
comma 7° (già 2°), Cost.
I provvedimenti endofallimentari, vuoi quelli ordinatori, vuoi quelli deci-
RASSEGNA DI LEGISLAZIONE
627
sori sono reclamabili, ai sensi dell’art. 26, nelle forme dei procedimenti in camera di consiglio.
Non si tratta, però, delle forme di cui agli artt. 737 ss. c.p.c.: il sesto capoverso della disposizione novellata indica il contenuto del ricorso alla proposizione del quale sono legittimati il curatore, il fallito, il comitato dei creditori e
chiunque vi abbia interesse.
In calce ad esso, il presidente « del collegio » designa il giudice relatore, il
quale fissa « l’udienza di comparizione delle parti in camera di consiglio »; tra
la data di notificazione del ricorso e del decreto è previsto un termine dilatorio
non inferiore a dieci, ma non superiore a venti giorni. Al resistente ed agli altri
eventuali controinteressati è imposto l’onere di costituirsi almeno cinque giorni
prima della comparizione in camera di consiglio. « Nel corso dell’udienza – in
camera di consiglio – il collegio, sentiti il reclamante, il curatore e gli eventuali
controinteressati, assume, anche d’ufficio, le informazioni ritenute necessarie,
eventualmente delegando uno dei suoi componenti » e definisce il procedimento
con decreto motivato nel termine di trenta giorni. A seconda della natura, decisoria o meramente ordinatoria del provvedimento, questo sarà, quindi, impugnabile per cassazione ai sensi dell’art. 111, comma 7° (già 2°) Cost.
A questa variante del procedimento camerale, l’art. 36 ne aggiunge
un’altra. Un distinto procedimento in camera di consiglio è previsto « contro gli
atti di amministrazione del curatore e contro le autorizzazioni o i dinieghi del
comitato dei creditori », sindacabili in sede giurisdizionale soltanto « per violazione di legge »; sono legittimati a dolersi degli atti commissivi del curatore e di
quelli commissivi ed omissivi del comitato, « il fallito e ogni altro interessato »
mediante reclamo al giudice delegato da proporsi entro il termine di « otto giorni dalla conoscenza dell’atto o, in caso di omissione, dalla diffida a provvedere ». Sia il giudice delegato, sia il tribunale, in sede di reclamo contro il primo
provvedimento, decidono con decreto « omessa ogni formalità non indispensabile, il primo, ovvero non essenziale al contraddittorio », il secondo. Sebbene il
decreto del tribunale sia espressamente definito « non soggetto a gravame »,
non può escludersi che, allorché abbia contenuto decisorio, sia impugnabile per
cassazione ai sensi dell’art. 111, comma 7° (già 2°), Cost.
Il procedimento per il reclamo endofallimentare di cui all’art. 26 è richiamato dall’art. 37 per la pronuncia dei provvedimenti di revoca del curatore, ma
la sostituzione del medesimo è regolata dall’art. 37-bis, comma 1°.
Un’ennesima variante del procedimento in camera di consiglio è prevista
per la verifica dei crediti.
I novellati artt. 98 e 99 regolano unitariamente i giudizi di opposizione,
impugnazione e revocazione; l’art. 101 rinvia a tale disciplina per quanto riguarda le domande tardive. L’art. 93 indica il contenuto delle domande di
ammissione. L’art. 95, comma 3°, regola lo svolgimento del procedimento
innanzi al giudice delegato, determinandone anche i poteri istruttorî. L’introduzione delle domande di opposizione, impugnazione e revocazione, nonché
la proposizione delle domande tardive appare regolata sul modello del proces-
628
RIVISTA DI DIRITTO PROCESSUALE
so del lavoro, dal quale sono mutuati le decadenze e i termini di costituzione:
è indicato il contenuto del ricorso, nel quale debbono essere specificamente
indicati, « a pena di decadenza », i mezzi di prova e i « documenti »; l’udienza « in camera di consiglio » è fissata dal « tribunale », non dal presidente, né
da un componente del collegio, del quale non può far parte il giudice delegato; tra la notificazione del ricorso e del decreto di fissazione d’udienza e
quest’ultima è previsto un termine dilatorio di trenta giorni « liberi »; il resistente è tenuto a costituirsi almeno dieci giorni prima della udienza « in camera di consiglio »; la memoria di costituzione deve contenere « a pena di decadenza », le eccezioni processuali e di merito non rilevabili d’ufficio, nonché
l’indicazione dei mezzi di prova e dei documenti prodotti; « nel corso
dell’udienza, il tribunale assume, in contraddittorio tra le parti, i mezzi di
prova ammessi, anche delegando uno dei suoi componenti »: mentre, quindi,
nella istruttoria prefallimentare, il tribunale può delegare il giudice relatore
anche alla ammissione e non soltanto alla assunzione dei mezzi di prova, in
sede di verifica dei crediti, come nel reclamo endofallimentare, l’oggetto della
delega appare limitato alla assunzione. Il procedimento si conclude in ogni
caso con decreto, vuoi nell’ipotesi in cui i crediti non siano contestati, vuoi in
quella in cui il tribunale decida sull’esistenza o sull’ammontare del credito,
ovvero sulla esistenza o sul grado delle cause di prelazione. Il decreto, senza
alcuna specificazione relativa al suo contenuto, è, ai sensi dell’ultimo capoverso del novellato art. 99, ricorribile per cassazione.
La continuazione dell’esercizio provvisorio disposta con la sentenza dichiarativa di fallimento è autorizzata, ai sensi dell’art. 104, dal giudice delegato
« con decreto motivato ». La cessazione, invece, è disposta dal tribunale « con
decreto in camera di consiglio non soggetto a reclamo sentiti il curatore ed il
comitato dei creditori ».
Nel silenzio del legislatore delegato, la mera previsione della trattazione
« in camera di consiglio » rende applicabili gli artt. 737 ss. c.p.c., espressamente richiamati, fino all’art. 742, per le controversie che derivano dal fallimento e che non sono altrimenti disciplinate. Allorché, invece, a tale previsione
si accompagnino regole specifiche, occorre comunque coordinare queste ultime
con il modello codicistico.
Il procedimento previsto per il reclamo endofallimentare, che è camerale
ma che gode di una disciplina autonoma, è, richiamato, « in quanto compatibile », per l’omologazione del concordato fallimentare dall’art. 129. Ma distinte
previsioni sono dettate dall’art. 131 per il procedimento innanzi alla corte di
appello in sede di reclamo avverso il decreto di omologazione.
Il procedimento di cui all’art. 26, infine, è anche richiamato dall’art. 143
novellato per la esdebitazione del fallito persona fisica.
Questa congerie di procedimenti camerali si aggiunge a quelli previsti per la
omologazione del concordato preventivo ai sensi dell’art. 180 l.f., nel testo novellato dal d.l. 14 marzo 2005, n. 35, convertito con modificazioni con la legge 14
maggio 2005, n. 80, e degli accordi di ristrutturazione dei debiti di cui al succes-
RASSEGNA DI LEGISLAZIONE
629
sivo art. 182-bis. Tra questi procedimenti, soltanto quelli previsti dagli artt. 26 e
36 sono sottratti, ai sensi del nuovo art. 36-bis, alla sospensione feriale.
Appare ragionevole dubitare che una tale varietà di procedimenti contribuisca alla « accelerazione delle procedure », come stabilito dalla legge delega.
Le questioni relative a ciascuno e, soprattutto, le questioni di coordinamento tra
di essi, quelle con la disciplina comune e con le altre disposizioni processuali
concentreranno l’attenzione degli interpreti e degli operatori sulle forme del
procedimento, piuttosto che sui conflitti sostanziali.
All’innegabile contributo allo sviluppo degli studi processualistici probabilmente non corrisponde quello alla efficienza del sistema.
Lo schema di decreto legislativo, peraltro, non si è limitato ad introdurre
nuove species del genus procedimento camerale.
Il novellato art. 43 prevede che « l’apertura del fallimento determina
l’interruzione del processo »: è rimesso quindi all’interprete distinguere, superando la lettera della legge, i casi nei quali il processo può proseguire perché la
controversia non riguarda un rapporto compreso nel fallimento, quelli nei quali
alla interruzione non possono far seguito la prosecuzione o la riassunzione, perché l’azione, appunto per effetto del fallimento, diviene improcedibile, da quelli, infine, nei quali può integralmente applicarsi la disciplina di cui agli artt. 299
ss. c.p.c.
Ancora in tema di procedure concorsuali, si segnala il d.m. 2 febbraio
2006 (in Gazz. uff. 10 febbraio 2006, n. 34), con il quale è stato istituito il Fondo di solidarietà per gli acquirenti di beni immobili da costruire, ai sensi
dell’art. 18, comma 6°, del d.lgs. 20 giugno 2005, n. 122, del quale si è dato
conto in un precedente numero di questa Rassegna.
11. – L’art. 34-quater d.l. 10 gennaio 2006, n. 4, convertito, con modificazioni dalla l. 9 marzo 2006, n. 80 (in Gazz. uff. 11 marzo 2006, n. 59) « Misure
urgenti in materia di organizzazione e funzionamento della pubblica amministrazione » ha differito i termini per l’applicazione di disposizioni della riforma
del risparmio (l. 28 dicembre 2005, n. 262) e per l’emanazione delle relative
norme regolamentari.
Con provvedimento del 22 dicembre 2005 (in Gazz. uff. 14 gennaio 2006,
n. 11, Suppl. ord. n. 12), la Banca d’Italia ha dettato istruzioni per la redazione
del bilancio dell’impresa e del bilancio consolidato delle banche e delle società
finanziarie capogruppo di gruppi bancari.
Il d.m. 30 dicembre 2005 (in Gazz. uff. 25 gennaio 2006, n. 20) ha determinato i regimi di deroga ai criterî per la definizione della prevalenza di cui
all’art. 2513 c.c.
La l. 14 febbraio 2006, n. 55 « Modifiche al codice civile in materia di
patto di famiglia » (in Gazz. uff. 1° marzo 2006, n. 50) ha aggiunto gli artt. da
768-bis a octies al c.c.
Il « patto di famiglia », ai sensi dell’art. 768-bis c.c., è il « contratto con
cui (…) l’imprenditore trasferisce, in tutto o in parte, l’azienda, e il titolare di
630
RIVISTA DI DIRITTO PROCESSUALE
partecipazioni societarie trasferisce, in tutto o in parte, le proprie quote, ad uno
o più discendenti »; l’art. 768-ter impone la forma dell’atto pubblico ad substantiam; l’art. 768-quater regola la partecipazione al patto ed esclude la riduzione e la collazione; l’art. 768-quinquies ne consente l’impugnazione per errore, violenza o dolo, ma stabilisce un termine di prescrizione di un anno; l’art.
768-sexies, sotto la rubrica « Rapporti con i terzi », regola i rapporti tra i legittimari estranei al patto ed i contraenti all’apertura della successione; l’art. 768septies prevede lo scioglimento per mutuo consenso ed il recesso; l’art. 768octies, infine, impone, in caso di controversia, l’esperimento del preventivo
tentativo di conciliazione innanzi agli organismi di conciliazione previsti
dall’art. 38, d.lgs. 17 gennaio 2003, n 5.
Tale ultima previsione potrebbe indurre a ritenere che anche le controversie
relative ai patti aventi ad oggetto il trasferimento di azienda siano regolate dal rito
commerciale: questo, infatti, appare senz’altro applicabile al contenzioso riguardante il trasferimento di partecipazioni societarie, ai sensi dell’art. 1 d.lgs. 17
gennaio 2003, n. 5 (rettificato dall’Avviso pubblicato nella Gazzetta ufficiale del 9
settembre 2003, corretto dal d.lgs. 6 febbraio 2004, n. 37, e dal d.lgs. 28 dicembre
2004, n. 310). Per estenderlo alle liti sul trasferimento di azienda, occorrerebbe
appunto far leva sulla fragile previsione di cui all’art. 768-octies.
12. – Il d.p.c.m. 12 dicembre 2005 (in Gazz. uff. 31 gennaio 2006, n. 25) è
intitolato Codice dei beni culturali e del paesaggio. In realtà, il provvedimento
si limita a dettare i criterî per la redazione della relazione paesaggistica. Il Codice è stato emanato con il d.lgs. 22 gennaio 2004, n. 42.
13. – La l. 16 gennaio 2006, n. 18 (in Gazz. uff. 26 gennaio 2006, n. 21) ha
riordinato il Consiglio universitario nazionale (CUN), « organo elettivo di rappresentanza del sistema universitario ».
14. – Nell’ultimo intenso trimestre della XIV Legislatura repubblicana,
infine, meritano di essere segnalate, tra le altre, la l. 15 dicembre 2005, n. 280
(in Gazz. uff. 26 gennaio 2006, n. 21), con la quale è stato ratificato il Protocollo n. 14 alla Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle
libertà fondamentali; la l. 23 dicembre 2005, n. 291 (in Gazz. uff. 17 gennaio
2006, n. 13), con la quale è stata ratificata la Convenzione in materia di assistenza giudiziaria civile e commerciale tra il Governo della Repubblica italiana e il Governo della Repubblica algerina; la l. 13 febbraio 2006, n. 83 dicembre 2005, n. 280 (in Gazz. uff. 13 marzo 2006, n. 60), con la quale l’Italia
ha aderito all’Accordo sui privilegi e le immunità del Tribunale internazionale
del diritto del mare.
GIORGIO COSTANTINO
L’ARBITRATO E IL TIPOGRAFO LEGISLATORE
(ELOGIO DELLA « RIENTRANZA »)
1. – Il nuovo art. 817 c.p.c. (come introdotto dal d.lgs. 2 febbraio 2006,
n. 40) dispone nel comma 1° che: « Se la validità, il contenuto o l’ampiezza
della convenzione d’arbitrato o la regolare costituzione degli arbitri sono contestate nel corso dell’arbitrato, gli arbitri decidono sulla propria competenza ».
Segue il comma 2°, ove si legge che: « Questa disposizione si applica anche se
i poteri degli arbitri sono contestati in qualsiasi sede per qualsiasi ragione sopravvenuta nel corso del procedimento. La parte che non eccepisce nella prima
difesa successiva all’accettazione degli arbitri l’incompetenza di questi per inesistenza, invalidità o inefficacia della convenzione d’arbitrato, non può per
questo motivo impugnare il lodo, salvo il caso di controversia non arbitrabile ». Segue infine il comma 3°, nel quale si legge: « La parte, che non eccepisce
nel corso dell’arbitrato che le conclusioni delle altre parti esorbitano dai limiti
della convenzione arbitrale, non può, per questo motivo, impugnare il lodo ».
Ho letto questa norma, come tutte le altre dedicate all’arbitrato dal d.lgs. n.
40/2006, con lo spirito di chi riconosce (o dovrebbe riconoscere) quanto già sapeva. Come coordinatore della Sottocommissione incaricata di redigere il progetto di decreto nella parte concernente l’arbitrato, infatti, avevo avuto occasione di soffermarmi più volte sul tema nel corso dei lavori; ed il testo definitivo
del progetto fissava, su questo argomento come in altri, il risultato di un lavoro
al quale anche io avevo attivamente partecipato.
Se non che, mentre il comma 1° e il comma 3° hanno immediatamente occupato il posto che loro spettava nella mia memoria, nel leggere il comma 2° ho avuto
l’impressione di avere le traveggole. Non ricordavo, infatti, un comma così lungo,
composto da due frasi separate da un punto. Tra l’altro, i commi troppo lunghi hanno sempre suscitato la mia antipatia, tutte le volte in cui ho avuto la ventura di prestare la mia opera in occasione di progetti normativi; ed ho avuto immediatamente
l’impressione che la seconda frase del comma 2° fosse mal collocata. Il precetto in
essa contenuto, infatti, non riguarda soltanto l’incompetenza degli arbitri in ipotesi
riscontrabile ai sensi di quanto emerge dalla prima frase dello stesso comma 2°, ma
anche l’incompetenza arbitrale prevista dal precedente comma 1°. Meglio sarebbe
stato, dunque, isolare la seconda frase del comma 2° in un comma separato (comma
3°), in modo che l’attuale comma 3° divenisse comma 4°.
Sono andato allora a rileggere il testo definitivo del progetto, come era
uscito dai lavori della Commissione, ed ho potuto constatare che nel progetto le
cose stavano come pensavo. La seconda frase del comma 2° era in realtà il
comma 3°, mentre il comma 3° era in realtà il comma 4°.
2. – Può avere quanto sopra una qualche conseguenza a livello interpretativo?
Se il problema fosse soltanto quello di leggere ed applicare il nuovo art. 817 c.p.c.,
632
RIVISTA DI DIRITTO PROCESSUALE
la risposta potrebbe essere probabilmente negativa. Si può facilmente giungere anche in via di interpretazione alla conclusione, secondo la quale la seconda parte del
comma 2° va applicato sia quando la competenza degli arbitri è posta in discussione ai sensi della prima parte dello stesso comma, sia quando tale competenza è discussa ai sensi del comma 1°. In entrambi i casi vale il principio, secondo il quale
le parti – se non sollevano la contestazione davanti agli arbitri – perdono il potere
di impugnare il lodo a motivo dell’incompetenza arbitrale. Ma il problema può essere più delicato, qualora l’art. 817 c.p.c. sia richiamato da altre norme e il testo di
queste ultime sia calibrato su quanto predisposto in sede di progetto.
Il problema, purtroppo, non è puramente astratto. Il nuovo art. 829 c.p.c., infatti, prevede (comma 1°, sub 1) l’impugnazione del lodo arbitrale « Se la convenzione
d’arbitrato è invalida, ferma la disposizione dell’articolo 817, terzo comma »; e poco oltre consente il gravame (comma 1°, sub 4) « Se il lodo ha pronunciato fuori dei
limiti della convenzione d’arbitrato, ferma la disposizione dell’articolo 817, quarto
comma… ». Se poniamo queste ultime disposizioni in relazione all’attuale versione
dell’art. 817 c.p.c., si casca in un rebus, perché il comma 3° dell’art. 817 non ha in
realtà niente a che vedere con la previsione contenuta nel n. 1 dell’art. 829, comma
1°; mentre non esiste un comma 4° dell’art. 817 capace di dare oggetto al rinvio
contenuto nel n. 4 dello stesso art. 829, comma 1°.
Come il rebus debba essere risolto, mi pare chiaro, perché l’errore tipografico è riconoscibile con un po’ di riflessione. Il comma 2° dell’art. 817, così com’è,
è difficilmente spiegabile; e chi sia disposto a mettere la norma sul letto di Procuste della miglior tecnica normativa è immediatamente tratto a separare in due
comma diversi le due frasi che lo compongono (in modo che la seconda frase diventi il comma 3° e il successivo comma 3° diventi il comma 4°). In questo
modo, anche l’art. 829, comma 1°, riacquista un senso nelle previsioni contenute
nel n. 1 e nel n. 4. Ma è prevedibile (purtroppo) che su un problema così insensato
l’inchiostro sia versato, se non proprio a fiumi, quanto meno a rigagnoli.
Mi permetto dunque di rivolgere al legislatore un’urgente supplica: correggere l’errore del tipografo, con un provvedimento ad hoc.
3. – Naturalmente, resta la domanda: come è potuto accadere? E forse il primo
responsabile è il progresso tecnologico, perché tutto viene fatto tramite computer e il
computer è collaboratore scherzoso, che talora unisce e separa come gli piace. Particolarmente a rischio sono i casi, nei quali un comma qualunque termina alla fine di
una riga: giacché il computer e il tipografo possono non capire, in questi casi, se la
riga successiva costituisca una continuazione della precedente o esiga un « a capo ».
Mi è venuto allora il desiderio di rivalutare la pignoleria, della quale do prova con le mie dattilografe: la pretesa che, quando si va « a capo », la frase successiva inizi con una « rientranza », provocata da quattro o cinque battute vuote.
Meravigliosa, santa « rientranza »! Dopo che i progetti vengono licenziati nel loro
testo definitivo, inizia il loro cammino in meandri segreti, dove anonimi revisori
intervengono per lasciare traccia della loro esistenza; e non sempre la testa assiste
la mano in questo cammino. Ma la « rientranza » costituisce, almeno, un caveat; e
può salvarci, con un po’ di fortuna, dal tipografo legislatore.
EDOARDO F. RICCI
LE MODIFICHE AL CODICE DI PROCEDURA
PENALE IN TEMA DI APPELLO
E DI RICORSO PER CASSAZIONE INTRODOTTE
DALLA C.D. « LEGGE PECORELLA »
SOMMARIO: 1. Un percorso accidentato. – 2. Rilievi di metodo. – 3.
L’inappellabilità delle sentenze di proscioglimento. – 4. Eccezioni all’inappellabilità. – 5. I poteri di impugnazione della parte civile. – 6.
L’ampliamento dei casi di ricorso per cassazione. – 7. Automatismi in tema di archiviazione. – 8. Condanna al di là di ogni ragionevole dubbio.
1. – La legge 20 febbraio 2006, n. 46 (in Gazz. Uff. n. 44 del 22 febbraio
2006), più nota come « legge Pecorella », dal nome del suo promotore, è giunta
al traguardo dopo un travagliato iter parlamentare (il Presidente della Repubblica aveva addirittura disposto il rinvio alle Camere il 20 gennaio scorso del testo
inizialmente approvato) e una forte opposizione da parte di larghe fasce della
magistratura. Per di più, a partire dal giorno stesso della sua entrata in vigore,
alcune Corti d’appello hanno rinviato alla Consulta come non manifestamente
infondate alcune questioni di costituzionalità di questa legge, la cui prima applicazione è dunque ulteriormente segnata da questo esordio sub iudice.
Essa ridisegna l’ambito dell’appello e del giudizio per cassazione nel processo penale, disciplinando al contempo alcuni aspetti più eccentrici rispetto a
queste materie.
2. – Una prima considerazione, evidenziata anche nelle motivazioni con
cui il Capo dello Stato ha rinviato la legge al Parlamento, riguarda il metodo. Il
codice del 1988 aveva sostanzialmente recepito il complesso sistema di impugnazioni che caratterizzava le codificazioni precedenti di tipo « misto », dove
l’ampiezza dei mezzi di doglianza aveva in qualche misura la funzione di
« compensare » il deficit di garanzie presenti in primo grado. Con una scelta di
pigro ossequio verso la tradizione, il nuovo codice aveva sommato queste garanzie di tipo « verticale » alle garanzie di tipo « orizzontale » predisposte per il
giudizio di primo grado nel nuovo modello processuale (separazione delle fasi,
diritto alla prova delle parti, contraddittorio nella formazione della prova).
Un’impostazione incongrua, che, specie in presenza del canone costituzionale
di « ragionevole durata » dei processi, richiedeva sicuramente di essere rimeditata. Rimeditata, però, in un’ottica complessiva di riforma, tenendo conto di
634
RIVISTA DI DIRITTO PROCESSUALE
tutti gli interessi in gioco (in particolare, i diritti dell’imputato, gli interessi della
giustizia e, appunto, il principio di ragionevole durata); non attraverso innesti
« disorganici e asistematici » (sono parole del messaggio presidenziale), come
quelli operati dalla legge « Pecorella », suscettibili, in quanto tali (anche a prescindere da ogni valutazione sul loro contenuto) di creare comunque squilibri e
contraccolpi pericolosi. È forse proprio questo innesto forzato e scompaginante
a rappresentare il vizio più grave della legge « Pecorella ». Varata – si badi – in
tutta fretta a un mese e mezzo dalla fine della Legislatura, nonostante il forte
richiamo del Capo dello Stato a interventi più ponderati.
3. – Venendo al merito del provvedimento, sono due le direttrici di fondo
in cui si muove.
La prima – da cui trae intitolazione la stessa legge – è costituita (nuovo testo dell’art. 593 c.p.p.) dalla soppressione dell’appello contro le sentenze di
proscioglimento. Sono previste, peraltro, due eccezioni: una è rappresentata
dalla circostanza che imputato e pubblico ministero abbiano presentato il gravame chiedendo l’assunzione di nuove prove, sopravvenute o scoperte dopo il
giudizio di primo grado, che siano « decisive »; ipotesi che poi dà luogo ad una
peculiare declaratoria di inammissibilità dell’appello quando il giudice decida
preliminarmente di non disporre l’istruttoria dibattimentale, contro la quale le
parti possono ricorrere per cassazione, potendo proporre, altresì, ricorso per
cassazione anche contro la sentenza di primo grado, entro quarantacinque giorni
dalla notifica dell’ordinanza di inammissibilità. La seconda eccezione è costituita dalle ipotesi di conversione del ricorso per cassazione in appello nei casi di
connessione, quando contro la sentenza vengano proposti mezzi di impugnazione diversi (art. 580 c.p.p.).
In via di principio, dunque, diventano appellabili dall’imputato e dal pubblico ministero solo le sentenze di condanna (anche qui con alcune eccezioni,
rappresentate dalle sentenze applicative della sola pena dell’ammenda, totalmente inappellabili, ed alcune limitazioni: il pubblico ministero non può appellare la condanna emessa nel giudizio abbreviato, salvo che con questa sia stato
modificato il titolo del reato contestato nell’accusa, e non può proporre appello
contro la sentenza di patteggiamento, a meno che avesse espresso a suo tempo
dissenso sul rito negoziale, mentre è fatto salvo il regime di impugnazione delle
sentenze che dispongono misure di sicurezza).
L’eliminazione dell’appello per le sentenze di proscioglimento – anche se
forse non saranno del tutto marginali le eccezioni di cui si diceva – mira a porre
rimedio ad un problema di fondo, emerso con particolare evidenza in un famoso
caso giudiziario: quello di evitare che l’imputato, prosciolto in primo grado, ma
condannato a seguito dell’appello promosso dal pubblico ministero, venga privato della possibilità di una rivalutazione completa di questa seconda decisione,
cioè di denunciare tutti i vizi dai quali essa risulti affetta, come è invece consentito al condannato in prima istanza. Una carenza ancor più vistosa ove si
consideri che mentre l’assoluzione in primo grado avviene sulla base di prove
LE MODIFICHE AL CODICE DI PROCEDURA PENALE ECC.
635
formate in contraddittorio davanti al giudice, la condanna in appello può conseguire, in via di principio, ad un mero riesame delle carte (situazione ben diversa
da quella speculare di una condanna in primo grado trasformata in assoluzione
« cartolare » in seconde cure).
Il problema non è, beninteso, di semplice opportunità ma riguarda il rispetto di precisi obblighi internazionali: l’art. 14 comma 5° del Patto internazionale sui diritti civili e politici prescrive, infatti, che « Ogni individuo condannato per un reato ha diritto a che l’accertamento della sua colpevolezza e la
condanna siano riesaminati da un tribunale di seconda istanza in conformità
della legge » (diversamente dall’art. 2 Protocollo 7 della Convenzione europea
dei diritti dell’uomo, dove un diritto similare può essere derogato proprio nel
caso di una condanna a seguito di gravame contro una sentenza di proscioglimento). Probabilmente l’art. 14 comma 5° non giunge ad imporre la celebrazione di un secondo giudizio di merito, ma richiede almeno che sia consentito far
valere di fronte ad un giudice superiore ogni doglianza in fatto e in diritto contro la propria sentenza di condanna.
Da questo punto di vista, il divieto di impugnare le sentenze di proscioglimento elimina addirittura il problema alla radice. Non era l’unica soluzione
ipotizzabile: ad esempio, sarebbe stato possibile (e forse preferibile) optare per
un appello rescindente con rinvio degli atti al giudice di primo grado tutte le
volte in cui il giudice di appello ritenesse di riformare la decisione di proscioglimento; e, comunque, non si tratta di una soluzione « neutra », soprattutto per
i contraccolpi sistematici che produce (ne coglieremo tra poco una dimostrazione a proposito delle modifiche apportate in conseguenza di questa scelta alla
disciplina del ricorso per cassazione).
Secondo una certa impostazione, coltivata anche dalle prime doglianze di
costituzionalità, una tale disciplina si porrebbe in contrasto con il principio di
parità delle parti (artt. 3 e 111 comma 2° Cost.) e di obbligatorietà dell’azione
penale (art. 112 Cost.).
Sotto quest’ultimo profilo, per la verità, la Corte costituzionale (ad es.
sent. n. 280 del 1995) ha già chiarito come l’appello del pubblico ministero,
proprio perché è espressione di un potere non esercitabile in forma obbligatoria
(l’accusa può fare acquiescenza rispetto alla sentenza di primo grado quali che
siano state le sue conclusioni e quale che sia stato il contenuto della stessa) e
rinunciabile (art. 589 c.p.p.), non possa considerarsi un’estrinsecazione del
principio di obbligatorietà dell’azione (tra l’altro, se così fosse, si dovrebbe ritenere necessariamente costituzionalizzato in forza dell’art. 112 Cost. il doppio
grado di giurisdizione per la parte pubblica).
Più complesso, invece, il discorso sulla lesione del principio di parità delle
parti, prospettato anche in un passaggio del messaggio presidenziale. Un dato
acquisito, anche nella giurisprudenza costituzionale, appare costituito dal riconoscimento che le fisiologiche differenze che corrono tra la posizione del pubblico ministero e dell’imputato implicano che il principio di parità non si possa
tradurre in un postulato di perfetta uguaglianza (che, proprio in virtù di quelle
636
RIVISTA DI DIRITTO PROCESSUALE
differenze, finirebbe per generare disuguaglianze sostanziali), ma stia più semplicemente ad indicare l’esigenza che accusa e difesa si trovino in una posizione
di equilibrio di poteri; tuttavia, è altrettanto vero che la legittimità di simili poteri differenziati non è mai stata fatta discendere automaticamente dal diverso
ruolo ricoperto da questi soggetti, ma ha sempre richiesto di essere di volta in
volta giustificata sulla base di specifici criteri di ragionevolezza, imperniati
sulla peculiare posizione del pubblico ministero e sulla funzione da lui esercitata, o su esigenze di efficienza o di corretta amministrazione della giustizia. Ed
è sulla scorta di tale presupposto che anche asimmetrie in materia di impugnazioni già presenti nel sistema non sono state considerate lesive del principio di
parità delle parti, come è avvenuto rispetto al divieto per il pubblico ministero
di proporre appello contro le sentenze di condanna emesse a seguito di giudizio
abbreviato (cfr. C. cost., sent. n. 421 del 2001). Così come, d’altro canto, è agevole rilevare che il pubblico ministero non è neppure legittimato a domandare la
revisione contro le sentenze di proscioglimento (art. 629 c.p.p.); divieto rispetto
al quale si potrebbero riproporre considerazioni analoghe (almeno in parte, perché qui si discorre di sentenze definitive) a quelle prospettabili in ordine alla
mancata legittimazione dell’accusa a proporre appello contro le sentenze di proscioglimento, poiché in entrambi i casi l’interesse statuale ad ottenere sentenze
« giuste », che orienterebbe a non precludere al pubblico ministero di attivarsi
quando l’assoluzione si rivelasse a posteriori priva di fondamento, si trova a
cedere di fronte ad una tutela di favor rei del prosciolto. Ma non sfugge neppure, sotto opposto profilo, che sarebbe eccessivo invocare una tutela di questo
tipo in riferimento al divieto di appellare la sentenza di proscioglimento anche
rispetto a situazioni in cui l’innocenza non sia stata pienamente provata, o, addirittura, non risulti affatto provata, come avviene nel caso di proscioglimento per
estinzione del reato. È, insomma, in gioco, una questione di scelte sulle quali la
Corte si potrà esprimere solo ove ritenga superata la soglia, sempre ambigua e
sfuggente, della « manifesta irragionevolezza », al di sotto della quale si apre
invece il campo della discrezionalità legislativa, dove il discorso si può porre –
come qui in effetti sembra porsi – solo in termini di opportunità/inopportunità.
Peraltro, occorrerebbe non dimenticare che un’esperibilità, anche circoscritta,
dell’appello ad opera dell’accusa riproporrebbe, in questi limiti, il problema di
fondo della tutela dell’imputato di fronte ad una possibile sentenza di condanna
emessa per la prima volta in secondo grado.
Al di là di ogni altra considerazione, va comunque rilevato che la soppressione dell’appello contro le sentenze di proscioglimento potrebbe portare a
mutamenti non secondari nei comportamenti dei soggetti processuali e nella
gestione del processo, coinvolgendo, quindi, più in generale, gli assetti complessivi del sistema. Si pensi all’atteggiarsi del pubblico ministero di fronte
all’alternativa tra esercizio e non esercizio dell’azione penale: d’ora in poi egli
potrà essere indotto a richiedere il rinvio a giudizio solo in presenza di una base
probatoria particolarmente forte e soprattutto già acquisita, non facendo affidamento sulla possibilità – presupposta invece dall’art. 125 norme att. c.p.p. – di
LE MODIFICHE AL CODICE DI PROCEDURA PENALE ECC.
637
una sua integrazione anche in momenti successivi alla richiesta di rinvio a giudizio. Il timore di instaurare processi suscettibili di chiudersi con una sentenza
di proscioglimento inappellabile potrebbe spingere l’organo dell’accusa ad aumentare sensibilmente le richieste di archiviazione, operando una gestione sempre più selettiva dell’iniziativa penale, con evidenti riflessi sul rispetto sostanziale del principio di obbligatorietà dell’azione penale. Dal canto suo, anche il
giudice, specie se monocratico, potrà mostrare assai maggiori remore a pronunciare una sentenza di proscioglimento, e, per evitare di trovarsi di fronte ad un
quadro probatorio insufficiente, sarà portato ad assumere atteggiamenti sempre
più interventistici in materia probatoria.
4. – Mentre il nuovo testo dell’art. 443 comma 1° c.p.p. prevede con la
soppressione delle parole « quando l’appello tende ad ottenere una diversa formula » un’inappellabilità secca della sentenza di proscioglimento emessa a seguito di giudizio abbreviato, il proscioglimento « ordinario » nella versione finale della legge conosce, come si diceva, una limitata possibilità di appello
quando pubblico ministero o imputato chiedano l’assunzione di nuove prove
sopravvenute o scoperte dopo il giudizio di primo grado, e queste si dimostrino
decisive, cioè, è da ritenere, idonee a determinare, anche in combinazione con
quelle preesistenti, una riforma della sentenza: entrambe sono considerate condizioni di ammissibilità dell’appello e della rinnovazione dell’istruzione dibattimentale. Il legislatore ritiene che in presenza di un tale novum probatorio sia
possibile sovvertire una decisione di proscioglimento in primo grado. Si tratta
di un’ipotesi certamente residuale, ma rispetto alla quale, come è stato giustamente notato, si ripropone in termini inalterati il problema della tutela
dell’imputato condannato per la prima volta in appello che la regola dell’inappellabilità mirava a risolvere. E lo stesso potrebbe ripetersi a proposito della
conversione del ricorso in appello, che, secondo il novellato art. 580 c.p.p., si
realizza nei casi di connessione quando contro la stessa sentenza siano proposti
mezzi di impugnazione diversi. È, insomma, la stessa rigidità della soluzione di
fondo prescelta: l’inappellabilità del proscioglimento, a precludere la possibilità
di tutelare in modo soddisfacente le situazioni in cui si ritenga opportuno poterne prescindere.
5. – Assai confusamente disciplinati sono i poteri di impugnazione della
parte civile. L’art. 576 c.p.p. la autorizza a « proporre impugnazione contro i
capi della sentenza di condanna che riguardano l’azione civile e, ai soli effetti
della responsabilità civile, contro la sentenza di proscioglimento pronunciata
nel giudizio », ma l’ultima versione della legge « Pecorella » – su suggerimento
dell’Unione Camere penali – ha soppresso l’inciso « con lo stesso mezzo previsto per il pubblico ministero », per evitare che la parte civile subisse le limitazioni previste per l’organo dell’accusa in ordine all’inappellabilità delle sentenze di proscioglimento, aderendo in questo ad una precisa richiesta del Capo
delle Stato. Sennonché, non essendosi aggiunta alcuna indicazione in positivo,
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RIVISTA DI DIRITTO PROCESSUALE
rimangono indeterminati i mezzi di impugnazione a disposizione della parte
civile. Dimenticanza assai grave (anche se certamente non voluta) in un sistema
governato dal principio di tassatività in materia di impugnazione (art. 568
c.p.p.). Di fronte ad una simile lacuna, parrebbe una forzatura interpretativa ritenere che l’attribuzione alla parte civile del potere di impugnare previsto
dall’art. 576 c.p.p. implichi che, in assenza di specifiche indicazioni, esso possa
avvenire con qualunque mezzo, e, dunque, con l’appello (a cui fa peraltro riferimento tuttora l’art. 600 c.p.p. in ordine all’esecuzione delle condanne civili) e
con il ricorso per cassazione (peraltro, con l’effetto di attribuirle così poteri superiori a quelli ormai spettanti alla parte pubblica). Sulla base del principio di
tassatività, sembra di dover concludere che la mancata indicazione del mezzo
restringa le possibilità di impugnazione della parte civile al solo ricorso per cassazione; anzi, essendosi anche a questo proposito scollegata la sua posizione da
quella del pubblico ministero, il rimedio parrebbe circoscritto al solo ricorso per
violazione di legge, l’unico sicuramente garantito in virtù dell’art. 111 comma
7° Cost. (eccezion fatta per il ricorso contro la sentenza di non luogo a procedere che, secondo il nuovo art. 428 comma 2° c.p.p., la parte civile può proporre
« ai sensi dell’art. 606 »).
Naturalmente, ove si aderisse ad una tale impostazione, ne seguirebbe un
naturale interesse della parte civile di adire il giudice civile. Una scelta, che,
però, appare oggi fortemente penalizzata dai parametri ordinari che definiscono
il passaggio dell’azione civile dalla sede penale a quella civile (sospensione del
processo civile fino al passaggio in giudicato della sentenza che definisce il
giudizio penale ed efficacia di giudicato di quest’ultima nel giudizio civile); si
imporrebbe, invece, di applicare anche qui i criteri « derogatori » di completa
separazione tra i due giudizi che il sistema prevede per le situazioni in cui il trasferimento alla sede civile divenga necessitato per impossibilità o eccessiva
onerosità della permanenza nel processo penale della parte civile per cause a lei
non imputabili. Altrimenti la disciplina si presta a non infondati dubbi di legittimità costituzionale ex art. 24 commi 1° e 2° Cost.
6. – La seconda direttrice di fondo in cui si muove la legge « Pecorella » è
rappresentata da un vistoso incremento del ricorso per cassazione. C’è uno
stretto collegamento, che vorrebbe essere di tipo compensativo, tra questa scelta
e l’inappellabilità delle sentenze di proscioglimento.
Per un verso, diventano ricorribili per cassazione le sentenze di non luogo
a procedere, con l’eccezione di quelle pronunciate perché il fatto non sussiste o
l’imputato non lo ha commesso (art. 428 c.p.p.), che precedentemente erano
soggette ad appello; una modifica in qualche misura parametrata sull’inappellabilità delle sentenze di proscioglimento, anche se qui la dinamica appare
sensibilmente diversa, poiché l’alternativa decisoria che si pone al giudice superiore è solo tra conferma o riforma con formula meno favorevole e rinvio a giudizio. E, proprio per questo stretto collegamento con l’esercizio dell’azione penale, qui, l’inappellabilità da parte del pubblico ministero potrebbe ridondare in
LE MODIFICHE AL CODICE DI PROCEDURA PENALE ECC.
639
violazione dell’art. 112 Cost. Per contro, si viene a determinare in tal modo un
notevole aggravio per la Corte, a cui si aggiunge una possibile regressione del
procedimento in caso di mancata conferma della sentenza, che allungherà inevitabilmente i tempi processuali; una soluzione non molto compatibile con il
principio di ragionevole durata dei processi, come non ha mancato di avvertire
lo stesso Presidente della Repubblica nel suo messaggio alle Camere.
In secondo luogo, viene ridisegnata l’area dei due motivi di ricorso previsti
rispettivamente dall’art. 606 lett. d) ed e) c.p.p. Nel primo figura ora la
« mancata assunzione di una prova decisiva, quando la parte ne ha fatto richiesta anche nel corso dell’istruzione dibattimentale limitatamente ai casi previsti
dall’art. 495 comma 2 »; nel secondo la « mancanza, contraddittorietà o manifesta illogicità della motivazione, quando il vizio risulta dal testo del provvedimento impugnato o da altri atti del processo specificamente indicati nei motivi
di gravame ».
Con la prima modifica, il ricorso per cassazione diventa proponibile anche
quando la prova decisiva, anziché essere richiesta tempestivamente ex art. 468,
493 e 495 c.p.p. è domandata in modo tardivo nel corso dell’istruzione dibattimentale. La formula originaria della legge che faceva riferimento alla mancata
assunzione di una prova decisiva richiesta dalla parte senza distinguere tra prova e
controprova avrebbe certo comportato un incremento dei ricorsi, ma sicuramente
era più coerente rispetto ad un sistema che tutela sotto entrambi i profili il diritto
alla prova delle parti (art. 190 c.p.p. e 111 comma 3° Cost.); quella elaborata dopo
il rinvio presidenziale appare invece del tutto incongrua, perché rispetto al vecchio testo dell’art. 606 lett. d) innova solo dando copertura a situazioni abusive (le
richieste tardive, al di là di quelle previste dall’art. 493 comma 2° c.p.p.) e rischia
anzi, di incentivarne il moltiplicarsi, favorendo prassi elusive della discovery predibattimentale. Con la seconda, il vizio di motivazione si estende all’ipotesi di
contraddittorietà e può risultare non più solo dal testo del provvedimento impugnato, ma anche da altri atti del processo specificamente indicati nei motivi di
gravame (riferimento, per la verità, un po’ sibillino, che potrebbe indurre a neutralizzare la portata dell’innovazione, limitando il visus della cassazione ai motivi
d’appello). Per questa via l’orizzonte conoscitivo della Corte si apre ai più vari
atti probatori; ed è proprio in tale ottica che acquista rilevanza il vaglio di contraddittorietà della motivazione, che sottolinea la presenza di un contrasto tra la
logica della motivazione e le prove del processo. Si è insomma superato lo steccato segnato dai vizi risultanti dal testo del provvedimento impugnato, per immergere la cassazione in una piena valutazione dei profili di merito della vicenda
processuale. Occorre, beninteso, intendersi: già prima la Corte poteva censurare
(sia pure nei limiti del testo del provvedimento impugnato) le inferenze induttive
e le massime d’esperienza, compiendo così giudizi di fatto. Ora dovrà verificare
anche la corrispondenza tra quelle premesse probatorie e gli atti del procedimento
indicati dal ricorrente. Ma, da questo punto di vista, è indiscutibile che la riforma
è destinata ad avere un massiccio impatto sul piano « quantitativo » e, quindi, sul
carico di lavoro della Cassazione.
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RIVISTA DI DIRITTO PROCESSUALE
Il disegno complessivo risulta peraltro disorganico: nei voti del legislatore
le aumentate possibilità di ricorso avrebbero dovuto compensare il deficit di tutela determinato dall’inappellabilità delle sentenze di proscioglimento; ma dell’ampliamento delle possibilità di ricorso finisce per beneficiare anche l’imputato condannato in secondo grado con « doppia conforme », che, dunque, fruisce di ben tre rivalutazioni nel merito della sua posizione; un « lusso » eccessivo che appesantisce inutilmente il lavoro della cassazione e che sembra difficilmente compatibile con il canone di ragionevole durata del processo.
Sotto un diverso profilo, l’inappellabilità delle sentenze di proscioglimento, da un lato, e l’ammissibilità del ricorso per i vizi di motivazione che risultino
non solo dal testo del provvedimento impugnato, ma anche da altri atti del processo specificamente indicati nei motivi di gravame, dall’altro, appaiono sinergicamente destinati a propiziare tre fattori di sconvolgimento del sistema: anzitutto una moltiplicazione dei ricorsi, che determinerà un aggravio insostenibile
per la Corte. Lo stesso meccanismo di filtro della settima sezione, che finora
aveva dato buona prova di sé, riuscendo mediamente a smaltire quasi il cinquanta per cento dei ricorsi, rischia di essere inceppato da valutazioni di manifesta inammissibilità ormai legate a profili di merito. In secondo luogo, questo
grande carico finirà per determinare un allungamento dei tempi processuali: è
significativo, da questo punto di vista, l’avvertimento contenuto nel messaggio
del Presidente della Repubblica, « la funzione compensativa attribuita all’ampliamento delle ipotesi del ricorso per cassazione hanno un effetto inflativo superiore di gran lunga a quello deflativo derivante dalla soppressione dell’appello delle sentenze di proscioglimento »; se poi si aggiungono gli effetti della
c.d. legge ex Cirielli, che ha previsto un significativo raccorciamento dei termini prescrizionali, il timore che la dilatazione dei tempi processuali porti ad un
generale rischio prescrizione diventa assai concreto. Infine, sommersa da una
crescita esponenziale di lavoro, talora anche minuto, la Corte ben difficilmente
sarà in grado di assolvere alla essenziale funzione di nomofilachia che le è attribuita dalla legge.
Infine, una disposizione transitoria (art. 10 legge n. 46) sancisce l’immediata applicazione della novella ai procedimenti in corso, attraverso una procedura che prevede che l’appello proposto contro una sentenza di proscioglimento
prima della data di entrata in vigore della legge venga dichiarato inammissibile
e che entro quarantacinque giorni dalla notifica del provvedimento di inammissibilità le parti possano proporre ricorso contro la sentenza, presentando anche
motivi nuovi secondo le ampliate formule dell’art. 606 lett. d) ed e). Un regime
che, oltre a riservare agli appelli pendenti un trattamento ingiustificatamente
discriminatorio, prevedendone l’inammissibilità anche nel caso di prove decisive scoperte o sopravvenute, rischia di avere un impatto dirompente sul carico
della cassazione, e, non a caso, a tempo di record la Suprema corte (sez. VI, 22
marzo 2006, n. 10104) si è affrettata a cercare almeno di limitare i danni, sostenendo che la possibilità di presentare quei motivi nuovi non si riferirebbe ai ricorsi già dichiarati inammissibili.
LE MODIFICHE AL CODICE DI PROCEDURA PENALE ECC.
641
7. – Si diceva che la legge contiene anche due previsioni eccentriche rispetto alla problematica delle impugnazioni. Con la prima viene ridisegnato
l’ambito del potere di archiviazione.
Il nuovo testo dell’art. 405 c.p.p. prevede che il pubblico ministero debba
formulare richiesta di archiviazione « quando la Corte di cassazione si è pronunciata in ordine alla sussistenza dei gravi indizi di colpevolezza ai sensi
dell’art. 273, e non sono stati acquisiti, successivamente, ulteriori elementi a
carico della persona sottoposta alle indagini ».
L’obiettivo sembra trasparente: si vuole evitare che in presenza di una valutazione negativa sui gravi indizi di colpevolezza dalla parte della cassazione ed in
mancanza di ulteriori elementi a carico il pubblico ministero possa esercitare l’azione penale, che presupponendo un giudizio prognostico sulla probabilità della
condanna (art. 125 norme att. c.p.p.), contrasterebbe con la constatata insussistenza
degli elementi indiziari. Si tratterebbe, insomma, di una sorta di rimedio preventivo, che avrebbe l’effetto di alleggerire il carico di lavoro dei giudici dell’udienza
preliminare, salvaguardando allo stesso tempo il diritto dell’imputato a non essere
inutilmente sottoposto a processo (almeno con riferimento alla celebrazione
dell’udienza preliminare) e il principio di ragionevole durata del processo.
Sennonché, oltre ad essere applicabile solo nel caso di conferma da parte
della Cassazione di una decisione di merito che esclude la presenza dei gravi
indizi, non convince l’automatismo di questa norma, che configura un criterio
vincolante per il pubblico ministero, e, di rimando, per il giudice in sede di
controllo, in quanto essa presuppone la sovrapponibilità di valutazioni che presentano invece tra loro differenze sensibili. Infatti, mentre quella sull’esercizio
dell’azione è di tipo prognostico, e non è effettuata solo sulla base degli elementi già in possesso del pubblico ministero, ma anche su quanto egli ritiene di
poter acquisire successivamente, quella sui gravi indizi ai fini cautelari si circoscrive necessariamente al materiale in atti, esibito dal pubblico ministero. Inoltre, il pubblico ministero è dotato di un potere selettivo in rapporto agli elementi
da sottoporre ai fini della decisione in materia cautelare (art. 291 comma 1°
c.p.p.), mentre le determinazioni inerenti all’esercizio dell’azione penale devono essere prese sulla base di tutto il materiale investigativo. Per contro, la nuova
regola contenuta nell’art. 405 c.p.p. escludendo incongruamente che ai fini
dell’esercizio dell’azione penale si possa tenere conto degli elementi investigativi che non siano stati esibiti dall’accusa ai fini cautelari, e che, quindi, non risultino « sopravvenuti » rispetto alla decisione della Cassazione, sembra prestarsi a non infondati dubbi di costituzionalità per violazione dell’art. 112 Cost.
Più in generale, qui l’archiviazione sembra impropriamente impiegata, dato che
non serve a controllare l’inazione, ma ad impedire l’esercizio dell’azione.
8. – Infine, si è voluto specificare che la sentenza di condanna può essere
pronunciata solo se l’imputato « risulta colpevole del reato contestatogli al di là
di ogni ragionevole dubbio », riecheggiando l’aurea formula in uso nei paesi di
common law.
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RIVISTA DI DIRITTO PROCESSUALE
Riguardando l’attività decisoria del giudice, anche una previsione del genere sembrerebbe eccentrica rispetto alla materia delle impugnazioni; tuttavia, è
agevole immaginarne una connessione con le tematiche affrontate, rappresentata dal rilievo che non potrebbe dirsi immune dal ragionevole dubbio una sentenza di condanna che seguisse ad un proscioglimento dell’imputato per lo stesso fatto e sulla base delle stesse prove, soprattutto se emessa a seguito di un mero riesame cartaceo delle medesime. Un assunto, per la verità, tutt’altro che irresistibile, dato che non toccherebbe i proscioglimenti per insufficienza probatoria (art. 530 comma 2° c.p.p.) o quelli per estinzione del reato, ma che, soprattutto, non terrebbe conto del fatto che il primo giudice potrebbe aver semplicemente formulato un giudizio erroneo.
In sé la regola decisoria era già ricavabile dal sistema quale corollario
della presunzione di non colpevolezza (art. 27 comma 2° Cost.). Ora però si è
calata in una formula normativa, che sembra impegnare il giudice ad esprimersi
esplicitamente sul punto di motivazione, integrando una regola valutativa « di
chiusura », suscettibile, come tale di un controllo in sede di impugnazione, anche da parte della Corte di cassazione. Difficile, peraltro, fissarne il contenuto, a
fronte dell’irriducibile margine di soggettivismo che, alla resa dei conti, caratterizza la decisione. Certo il giudice deve dimostrare di aver coltivato e verificato
tutte le prospettive ricavabili dai dati probatori; operato la ricostruzione dei fatti
più attendibile alla luce di quegli elementi, impiegando la logica induttiva, conformemente all’insegnamento di Hume, secondo il quale gli eventi non seguono
necessariamente l’uno dall’altro, ma presentano solo connessioni più o meno
plausibili, e ricordano che il concetto di certezza, legato alla logica deduttiva, è
stato messo in crisi nell’ambito delle stesse scienze sperimentali nel cui ambito
si era sviluppato. La formula, ponendo al centro il concetto di « ragionevolezza » del dubbio, indica comunque che, una volta superato quel limite (per
quanto labile e sfuggente), il vaglio del giudice si deve arrestare, per concludersi con la decisione di condanna. Diversamente opinando, confondendo, cioè la
ragionevolezza con la astratta razionalità del dubbio, quell’epilogo diventerebbe
virtualmente irrealizzabile, svuotando la formula normativa di qualsiasi significato.
ROBERTO E. KOSTORIS
I NUOVI ARTT. 616 E 624 C.P.C.
FRA STRUMENTALITÀ CAUTELARE
« ATTENUATA » ED ESTINZIONE
DEL « PIGNORAMENTO » (∗)
SOMMARIO: 1. Premessa. – 2. Il nuovo art. 616 e la coltivazione dell’opposizione. – 3. La « introduzione » della causa di « merito » da parte dell’« interessato » nel nuovo art. 616. – 4. Segue: il possibile « promovimento », in
via invertita, da parte del creditore opposto. – 5. La nuova udienza di
« comparizione » del novellato art. 185 disp.att.c.p.c. e l’inimpugnabilità
della sentenza che decide l’opposizione. – 6. La nuova sospensione dell’esecuzione fra strumentalità cautelare « attenuata » ed estinzione del pignoramento. – 7. La cauzione e la singolare autorità dell’ordinanza di estinzione del pignoramento.
1. – Con la recentissima legge n. 52 del 24 febbraio 2006, il furore normativo dell’instancabile legislatore processuale ha colpito, come noto e preannunciato, anche la disciplina delle esecuzioni mobiliari.
Come ormai siamo abituati a vedere nell’attuale modus operandi, però,
nonostante il ben delineato ambito oggettivo di intervento nel riformare le
esecuzioni mobiliari, la legge citata approfitta per rimodellare, con effetto di
immediata applicazione anche ai processi in corso (1), pure gli artt. 616, 618,
618-bis, 619, 624 e 624-bis c.p.c.; gli ultimi due, peraltro, già oggetto del copioso intervento del maggio 2005.
Nella presente sede, intendo esporre alcune prime considerazioni, assolutamente non esaustive, della nuova – irrazionale invero – disciplina derivante dal combinato disposto degli artt. 616 e 624 c.p.c. (2), il primo intera-
––––––––––––
(∗) Il presente saggio è dedicato con deferenza al Prof. Carmine Punzi, mio Maestro, e destinato alla raccolta di scritti in Suo onore.
(1) Manca molto inopportunamente, infatti, nella legge 52/2006 – entrata in vigore
il 1 marzo 2006, ai sensi dell’art. 22 – una norma di diritto intertemporale che limiti
l’applicazione delle nuove norme ai soli processi esecutivi ed incidenti oppositivi proposti dopo l’entrata in vigore della legge stessa.
(2) Giustamente e severamente critici, specie quanto all’art. 624 c.p.c., già Consolo,
Il pignoramento preso sul serio, fra buone intenzioni ed insipienze redazionali, in Il sole
644
RIVISTA DI DIRITTO PROCESSUALE
mente sostituito dalla legge n. 52, il secondo – già inciso dalla legge 80 del
2005 – interpolato nuovamente con l’aggiunta di un terzo e di un quarto
comma.
La nuova formulazione dell’art. 616 prevede ora che, a seguito della
proposizione dell’opposizione all’esecuzione del debitore di cui al comma 2°
dell’art. 615 c.p.c. (3) – ossia dell’opposizione proposta dopo il pignoramento
ovvero dopo l’avvio dell’esecuzione in forma specifica (4) – il giudice dell’esecuzione, se è competente (per valore e materia) (5), fissa un termine pe-
––––––––––––
24 ore, 26 febbraio 2006; A.A. Romano, La nuova disciplina dell’opposizione all’esecuzione (rilevi critici a prima lettura dopo la legge 24 febbraio 2006, n.52), e R. Conte,
La riforma delle opposizioni e dell’intervento nelle procedure esecutive con requiem per
il sequestro conservativo, entrambi in www.judicium.it., passim.
(3) È opportuno precisare che nella presente sede non esaminerò né la modificazione del primo comma dell’art. 615 c.p.c. relativa alla possibilità del giudice dell’opposizione a precetto di sospendere la vis executiva del titolo né l’ora previsto strumento
di controllo, nella specie del reclamo cautelare ex art. 669-terdecies c.p.c., dei provvedimenti adottati dall’art. 624 c.p.c. Per la relativa analisi mi permetto di rinviare al mio
commento di questi due articoli di prossima pubblicazione nella nuova edizione del
Codice di procedura civile commentato, a cura di Consolo e Luiso, Milano 2006. Tuttavia, una considerazione preliminare si impone quanto al rapporto fra l’opposizione
all’esecuzione del debitore in generale e l’ambito applicativo del nuovo art. 616. Infatti, da una rigorosa lettura in combinato disposto degli artt. 615 e 616 – che si riferisce
espressamente al giudice dell’esecuzione, che dunque deve essere già stata avviata –
dovrebbe dedursi che la nuova disciplina della seconda norma debba limitarsi alle sole
opposizioni proposte dopo l’avvio dell’esecuzione forzata. Ma ciò creerebbe un grave
ed incostituzionale sbilanciamento fra forme, termini delle due opposizioni e soprattutto di regime della sentenza che decide sull’incidente, impugnabile quella pronunciata sull’opposizione a precetto, non impugnabile quella sull’opposizione ad esecuzione avviata: sulla questione infra § 5. Mi pare dunque debba preferirsi una lettura
degli artt. 616 e 624, e più in particolare del termine « pignoramento » contenuto nella
seconda norma, come dedicato ad entrambe le opposizioni (analogamente, A.A. Romano, La nuova disciplina, cit., § 2), alla stregua dell’opzione esegetica già compiuta in
passato con riferimento all’analoga apparente delimitazione dell’art. 619 c.p.c.
(4) L’incertezza del momento di inizio dell’esecuzione in forma specifica, come
noto, è stata risolta proprio dalla legge n. 80 del 2005 che, a proposito, novellando l’art.
608 c.p.c. ha previsto che nell’esecuzione per consegna o rilascio l’inizio dell’esecuzione
va ricondotto alla notifica dell’avviso con il quale l’ufficiale giudiziario comunica almeno dieci giorni prima alla parte, che è tenuta a rilasciare l’immobile, il giorno e l’ora in
cui procederà.
(5) La competenza del giudice dell’opposizione all’esecuzione va notoriamente individuata sulla base delle regole ordinarie di competenza per materia e valore: per tutti,
Recchioni Codice di procedura civile commentato, a cura di Consolo e Luiso, Milano
2000, II, p. 2622.
I NUOVI ARTT. 616 E 624 C.P.C. ECC.
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rentorio per l’introduzione del giudizio di merito secondo le modalità previste
in ragione della materia e del rito, previa iscrizione a ruolo, a cura della parte
interessata, osservati i termini a comparire di cui all’art. 163-bis, o altri se
previsti, ridotti della metà; altrimenti rimette la causa dinanzi all’ufficio giudiziario competente assegnando un termine perentorio per la riassunzione
della causa.
Il nuovo articolo conclude poi prevedendo che la sentenza pronunciata
dal giudice dell’opposizione all’esecuzione non è impugnabile.
Per quanto concerne l’art. 624 c.p.c., invece, ai sensi del comma 1° « se è
proposta opposizione all’esecuzione a norma degli articoli 615 e 619, il giudice dell’esecuzione, concorrendo gravi motivi, sospende, su istanza di parte, il
processo con cauzione o senza »; il nuovo comma 2°, invece, prevede lo
strumento del reclamo cautelare contro i provvedimenti sull’istanza di sospensione. In sostanza, è stato introdotto uno specifico strumento di controllo dei
provvedimenti (di sospensione come di rigetto della relativa istanza) adottati
ieri (cioè nella modifica della legge 80) solo dal giudice dell’esecuzione, oggi
in virtù appunto della legge 52 del 2006 anche dal giudice dell’opposizione a
precetto.
2. – Limitandoci, per il momento, alle novità dell’art. 616 rispetto alla
vecchia formulazione della norma, la prima, all’evidenza, concerne il farraginoso meccanismo della doppia e diversa modalità di trasmigrazione della causa di opposizione dal giudice dell’esecuzione a quello della cognizione, a seconda che il giudice della cognizione dell’opposizione appartenga o meno allo
stesso ufficio giudiziario del giudice dell’esecuzione; nel primo caso, infatti, è
prevista una formale introduzione (6) della causa di opposizione (7) entro il
––––––––––––
(6) Sul termine, v. infra § 3.
(7) Per il vero, la lettera della norma si riferisce al « giudizio di merito » e non anche alla causa, come più neutralmente e tecnicamente prevedeva il vecchio art. 616. Non
venendo in rilievo in questo ambito, né questioni di rapporti fra rito e merito del processo
né essendo ricostruibile dal punto di vista teorico il rapporto fra esecuzione e processo di
opposizione alla medesima come di un rapporto fra un processo di un certo tipo ed uno di
merito, con l’espressione la nuova legge ha inteso riferirsi alla diversa natura dell’incidente – cioè un vero processo a cognizione piena – rispetto alla possibilità che unitamente alla proposizione dell’incidente oppositivo sia proposta la domanda di sospensione
della procedura esecutiva ex art. 624 c.p.c. In questo caso, con « merito » si intenderebbe
appunto il giudizio di opposizione rispetto al provvedimento, per molti di natura cautelare e posto in relazione di servenza (o, si vis, di strumentalità) appunto rispetto alla causa
di opposizione: ricorda queste terminologia e ricostruzione del rapporto fra provvedimento di sospensione e giudizio di opposizione all’esecuzione, Montanaro, Opposizioni
esecutive proposte nel corso dell’esecuzione e disciplina del processo ordinario di cognizione, in Riv. es. forzata 2004, p. 501 ss.
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RIVISTA DI DIRITTO PROCESSUALE
termine perentorio previsto dal giudice dell’esecuzione con iscrizione della
causa a ruolo, nel rispetto delle forme e dei termini dei vari, diversi riti cui
possono essere assoggettate le materie delle obbligazioni, pecuniarie e non,
contenute nei titoli esecutivi azionati.
Nel secondo, invece, la mera rimessione dell’incidente oppositivo – si
noti, già introdotto a mio avviso (8) – al giudice competente, che verrà formalmente investito della trattazione della causa.
Il contorto restyling dell’art. 616, almeno per quanto concerne gli snodi
prettamente procedimentali della sua prima parte – ossia inciso finale escluso
– è stato senz’altro stimolato dai molti dubbi ricostruttivi che la scarna disciplina del vecchio testo aveva suscitato nella pratica, specie a seguito delle riforme degli anni 90 (9).
Senza pretesa di esaustività, limitandoci alle questioni più frequenti ed al
solo scopo di delineare il quadro delle problematiche in cui si deve collocare
la nuova norma, infatti, complice soprattutto l’art. 185 disp.att.c.p.c. – in prima battuta non inciso dalla legge n. 80 del 2005 (10) – nel cui testo originario
si prevedeva che « all’udienza di comparizione davanti al giudice dell’esecuzione fissata a norma degli articoli 615, 618 e 619 del codice si applica la
disposizione dell’articolo 183 del codice », era controverso se, ripristinata la
scissione fra l’udienza di comparizione delle parti ex art. 180 c.p.c e l’udienza
di trattazione ex art. 183 c.p.c. dalla contronovella del 1995 – l’udienza fissata
dopo la presentazione del ricorso in opposizione dal giudice dell’esecuzione
dovesse considerarsi udienza di comparizione ai sensi dell’art. 180 ovvero di
trattazione ex art. 183 c.p.c.
Per il vero, la tesi assolutamente prevalente preferiva il primo corno
dell’alternativa (11), in relazione alla funzione di passaggio dal processo esecutivo a quello di cognizione dell’opposizione proprio attraverso detta udienza in cui il giudice dell’esecuzione accoglieva o respingeva l’istanza di sospensione, fissando altresì il termine per la riassunzione della causa di opposizione dinanzi al giudice competente per valore o materia (12).
In dipendenza di questa ricostruzione, era poi sorto il problema in ordine
––––––––––––
(8) V. amplius infra, §§ 4 e 5.
(9) Sulle varie quaestiones mi sia consentito rinviare al mio commento agli
artt. 615 – 618-bis del Codice di procedura civile commentato, loc. ult. cit., nonché alla
nuova edizione di prossima pubblicazione.
(10) Va peraltro ricordato che secondo una idea molto diffusa, l’art. 185
disp.att. sarebbe stato implicitamente abrogato a seguito appunto della controriforma
del 1995: v., anche per ulteriori riferimenti, Montanaro, Opposizioni esecutive, cit.,
p. 504, nt. 27.
(11) V. ancora Montanaro, op. cit., p. 505.
(12) Per una diversa soluzione, Montanaro, op. loc. ult. cit.
I NUOVI ARTT. 616 E 624 C.P.C. ECC.
647
alle decadenze del convenuto ai sensi del combinato disposto degli artt. 167 e
180 c.p.c., nella loro versione ante riforma del 2005, ossia quanto alla proposizione di domande riconvenzionali da parte del creditore opposto (normalmente ammesse nel giudizio di opposizione all’esecuzione), chiamata di terzo
e proposizione di eccezioni di rito e merito non rilevabili ex officio (13).
In particolare, riconosciuta nell’udienza dell’art. 185 disp.att.c.p.c.
quella di comparizione ex art. 180 c.p.c., la questione più delicata concerneva la possibilità per il convenuto opposto di proporre domande riconvenzionali (e chiamate di terzi) ove l’udienza de qua fosse stata fissata dal giudice
dell’esecuzione senza rispettare i termini di cui all’art. 163-bis c.p.c. e, comunque, senza concedere al convenuto i venti giorni previsti dall’art. 167
c.p.c. per la ammissibile – perché tempestiva – proposizione di domande riconvenzionali.
Una terza questione riguardava la necessità o meno di celebrare questa
udienza di comparizione dinanzi al giudice dell’esecuzione a seguito della
proposizione del ricorso in opposizione nel caso in cui l’opponente non
avesse chiesto sospendersi la procedura esecutiva: anche in questo caso due
erano le soluzioni, quella prevalente, peraltro, nel senso di escludere la necessità di tale udienza potendosi limitare il giudice dell’esecuzione ad adottare un provvedimento di mera rimessione della causa al giudice competente (14).
Altro dubbio sorgeva quanto all’osmosi della documentazione del processo esecutivo ovvero degli atti dell’opposizione proposta dinanzi al giudice
dell’esecuzione (ricorso, eventuali documenti ecc.) dal processo esecutivo, in
cui risultavano acquisiti, a quello di opposizione all’esecuzione; questione
solitamente risolta con una interpretazione – in effetti poco rigorosa – dell’art.
186 disp.att.c.p.c. a mente del quale « il cancelliere (…) deve immediatamente
richiedere al cancelliere del giudice dell’esecuzione la trasmissione del ricorso in opposizione, di copia del processo verbale dell’udienza di comparizione
di cui agli artt. 615 e 617 del codice di rito e dei documenti allegati relativi
alla causa di opposizione ».
Secondo la tesi assolutamente prevalente, fascicolo di parte, documenti
offerti in comunicazione e ricorso in opposizione, pertanto, dovevano essere
acquisiti per iniziativa autonoma della cancelleria, senza che l’opponente fosse dunque onerato del ritiro del fascicolo della causa di opposizione depositata nella cancelleria del giudice dell’esecuzione.
Infine, v’era il problema dell’iscrizione della causa di opposizione a
ruolo.
––––––––––––
(13) Sulle questioni, rinvio al mio commento all’art. 616 c.p.c. nel Codice, cit., II,
p. 2622 ss.
(14) Riferimenti in Montanaro, op. cit., p. 512.
648
RIVISTA DI DIRITTO PROCESSUALE
In assenza di chiare disposizioni sul punto, nonché della frequente confusione fra l’iscrizione a ruolo e la nota di iscrizione a ruolo (15), la soluzione
favorita dai giudici dell’esecuzione era quella di ordinare l’iscrizione a ruolo
della causa assegnando un termine all’opponente nel disporre la riassunzione
del giudizio dinanzi al giudice competente (16).
La prima parte del nuovo art. 619, unitamente alla novellazione dell’art. 185
delle disposizioni di attuazione, mira, come accennato, appunto a risolvere queste
e le connesse ulteriori problematiche, tuttavia non senza aprirne nuove.
In primo luogo, senza insistere sull’ovvia problematicità della mancata
previsione almeno dell’entità minima del termine perentorio, imposto dal giudice dell’esecuzione per l’introduzione della causa di opposizione, non potendosi escludere ipotesi di termini giugulatori, va richiamata l’attenzione sul
che, nel caso di competenza del giudice dell’esecuzione per l’incidente, nel
termine perentorio, l’opponente (ovvero altro interessato, ossia, come vedremo meglio infra, anche il creditore opposto ai sensi del novellato art. 624
c.p.c.) debba in sostanza cominciare tutto da capo, proponendo cioè ex novo
l’opposizione già presentata con ricorso al giudice dell’esecuzione.
Ciò è reso palese appunto dal riferimento tecnico (17) alla « introduzione » del giudizio di merito e non anche alla mera riassunzione, prevista, invece, come già segnalato, per la seconda ipotesi e già esistente nella precedente
versione della norma in esame per il caso di incompetenza per materia o valore dell’ufficio giudiziario cui appartiene il giudice dell’esecuzione.
Evocando, in altri termini, quanto in generale prevede il codice di rito in
ordine all’introduzione della causa – così, notoriamente, la rubrica del capo I
del titolo I del libro secondo del c.p.c., la cui prima norma è ovviamente
quella in tema di contenuto della citazione – mi pare si debba ritenere che, pur
avendo già introdotto (18) la causa di opposizione con il deposito del ricorso
al giudice dell’esecuzione, secondo quanto ancora prevede il comma 2°
dell’art. 615, il debitore opponente dovrà riproporre l’opposizione nel termine
perentorio giudiziale, questa volta secondo la tipica forma dell’atto introdutti-
––––––––––––
(15) Fa bene il punto sulla questione Montanaro, op. cit. , p. 536 ss.
(16) V. ancora in tema le considerazioni critiche di Montanaro, op. cit., p. 537 ss.
(17) Ma solo nell’art. 616, perché, nonostante l’eventualità possa riguardare anche
lo sviluppo dell’opposizione nel caso di sospensione ex art. 624 c.p.c., quest’ultimo – con
un singolare, quanto inutile e atecnico, sfoggio di ricerca lessicale – parla di « instaurazione » della causa da parte dell’opponente ovvero « promovimento » della medesima da
parte dell’opposto.
(18) Analogamente, Bove, in Balena-Bove, Le riforme più recenti del processo civile, Napoli 2006, p. 289 s., che esattamente reputa comunque possibile ogni ulteriore
integrazione relativa ai mezzi di attacco e di difesa nella fase immediatamente successiva
all’udienza di cui all’art. 185 disp.att.c.p.c.
I NUOVI ARTT. 616 E 624 C.P.C. ECC.
649
vo del giudizio in base al tipo di obbligazione pecuniaria o non rappresentata
dal titolo esecutivo (19).
Quanto agli altri interessati, secondo il nuovo art. 616 c.p.c., per costoro,
che ben potranno essere i creditori procedenti o intervenuti nella complessa
riformulazione dell’art. 624 c.p.c. è ovvio che si tratterà, invece, di un vero
nuovo atto introduttivo della causa di opposizione (ancorché non « primo »,
perché anticipato dal ricorso), con l’evidente stranezza di un atto iniziale di
una causa di opposizione in cui i proponenti non sono gli attori, ma i convenuti opposti: con ogni consequenziale difficoltà di individuare il contenuto
dell’atto di citazione (o ricorso, a seconda della materia e del rito) e, a monte,
lo stesso oggetto tecnico di giudizio (nonché oneri probatori, ecc.): ma su ciò
rinvio al successivo paragrafo per qualche ulteriore spunto.
Di conseguenza, è chiaro che l’iscrizione a ruolo (20) dell’incidente oppositivo seguirà le regole poi volta per volta previste per il tipo di processo
previsto per una data materia.
A parte questa discutibile duplicazione dell’introduzione, nel caso
dell’opponente, o dell’aggravio che essa comporta per il creditore opposto di
dare avvio ad un giudizio in cui è sostanzialmente in posizione di convenuto,
la nuova regola stimola alcuni quesiti.
In primo luogo, quale sia la sanzione della mancata o tardiva introduzione del giudizio di merito, rectius: dell’opposizione all’esecuzione.
La risposta non è tuttavia scontata, come si potrebbe ipotizzare, perché
essa va coordinata con i già ricordati nuovi commi 3° e 4° dell’art. 624 c.p.c.
Occorre infatti distinguere fra l’ipotesi in cui, proposta l’opposizione il
giudice dell’esecuzione sospenda l’esecuzione, o, analogamente, interposto
reclamo contro il diniego della sospensione questa venga concessa dal giudice
del gravame, dal caso in cui, invece, l’istanza di sospensione non sia punto
proposta o venga respinta sia dal giudice dell’esecuzione sia dal giudice del
reclamo eventualmente proposto contro tale diniego.
Nella prima ipotesi, potrebbe darsi il caso che la mancata introduzione
della causa di opposizione da parte dell’opponente nel termine perentorio previsto dal giudice dell’esecuzione sia conseguenza dell’avere il debitore opponente presentato istanza di cui al comma 3° del nuovo art. 624. In questo
comma, infatti, a prescindere per il momento da qualunque analisi critica del
––––––––––––
(19) In ogni caso, con citazione « ordinaria » ex art. 163 c.p.c. ovvero con quella
societaria ex art. 2 d.lgs. 17 gennaio 2003, n. 5, con ricorso ex art. 414 nei settori laburistico, previdenziale, locatizio ecc.
(20) Che peraltro non può essere « previa », come erroneamente la qualifica il
nuovo art. 616, essendo pacifico che si tratti di adempimento successivo alla notificazione della citazione: evidenzia il punto anche A.A. Romano, La nuova disciplina,
cit., § 3.
650
RIVISTA DI DIRITTO PROCESSUALE
meccanismo, è prevista per il debitore un’alternativa: coltivare l’opposizione
già proposta – in questo caso definita, ancor peggio che nell’art. 616, come
« instaurazione » – con ricorso al giudice dell’esecuzione – in questo caso però facendo salva l’efficacia del pignoramento – ovvero, non essendo stata reclamata la disposta sospensione o essendo stata la stessa confermata in fase di
reclamo oppure ivi concessa per la prima volta, appunto presentare istanza di
cui al comma 3° e lucrare l’estinzione del pignoramento, ove il creditore procedente opposto o gli altri creditori intervenuti a loro volta non intendano
coltivare (promuovere) l’opposizione presentata dal debitore.
Questo nuovo complesso regime dei rapporti fra provvedimento di sospensione e causa di merito – ossia di opposizione all’esecuzione – come meglio si vedrà più avanti, si fonda sull’idea, con decisione sostenuta dalla legge
n. 52 del 2006, della natura cautelare del provvedimento di sospensione, il cui
regime processuale dovrebbe essere identico a quello, appunto, dei provvedimenti cautelari a strumentalità attenuata (21).
In estrema sintesi, e rinviando comunque al seguente § 6 per l’approfondimento di questa seconda ipotesi, se la ricostruzione che precede è corretta,
si delinea dunque uno sviluppo procedimentale « a doppio binario » a seconda
che sia stato pronunciato o meno il provvedimento di sospensione: sicché,
solo se non vi sia stata sospensione dell’esecuzione, l’introduzione o riassunzione da parte del (solo) opponente della causa di opposizione sarà assoggettata al termine perentorio, pena l’estinzione dell’opposizione.
Ciò a motivo del fatto che, ove invece il giudice abbia sospeso il processo, l’instaurazione della causa di merito è meramente eventuale e rimessa non
solo all’opponente ma anche al creditore opposto: sicché, la previsione di un
termine per introdurre la causa o riassumerla (a seconda della competenza)
non ha alcun senso (22).
––––––––––––
(21) Ciò essenzialmente sotto due profili: permanente efficacia della misura cautelare – nella specie la disposta sospensione dell’esecuzione – anche senza instaurazione o
riassunzione della causa di merito, possibilità di introduzione o riassunzione della medesima anche da parte del creditore opposto, quindi a parti invertite. Conferma del singolare
apparentamento fra sospensione dell’esecuzione, causa di opposizione e nuova disciplina
« attenuata » della relazione di strumentalità cautelare si ha expressis verbis dalla proposta di legge n. 6232, p. 3, presentata il 15 dicembre 2005 alla Camera dei deputati dagli
Onorevoli Kessler, Bonito e Finocchiaro, in www.camera.it. secondo cui « le modifiche
dell’art. 624 del codice di procedura civile si propongono di assicurare una maggiore stabilità dell’ordinanza di sospensione, con effetti dunque di efficacia estintiva del pignoramento, quando ad essa sia stata fatta acquiescenza dalla parte opposta, eliminando la necessità di promuovere un giudizio di merito. La norma è esplicitamente analoga al nuovo
regime introdotto anche per i procedimenti cautelari dalla legge n. 80 del 2005 e dunque
è improntata ad un principio di evidente economicità ».
(22) In questo caso, credo, quindi, che la fissazione del termine serva al solo scopo
I NUOVI ARTT. 616 E 624 C.P.C. ECC.
651
Tornando alla prima ipotesi, a parte la distinzione fra introduzione e riassunzione, comunque, può ricordarsi come la soluzione dell’estinzione della
causa di opposizione fosse già prevista in riferimento alla vecchia formulazione dell’art. 616 per il caso di mancata riassunzione nel termine perentorio
previsto dal giudice dell’esecuzione ove la competenza per l’incidente fosse
appunto di un giudice diverso (23).
3. – Quanto precede fa sorgere una seconda serie di dubbi in ordine al
possibile contenuto del giudizio di opposizione ex art. 615, comma 2°,
c.p.c.
Una prima questione riguarda la possibilità che, vuoi nel ricorso ex
art. 615, comma 2°, vuoi nell’atto introduttivo di giudizio di « merito » ai
sensi dell’art. 616, l’opponente cumuli una domanda riconvenzionale contro
il creditore procedente ovvero contro i creditori intervenuti. Come noto, è
largamente ammessa dalla giurisprudenza e dalla dottrina prevalenti detta
possibilità, specie quanto al creditore opposto che intenda munirsi di un
nuovo titolo esecutivo per l’ipotesi di accoglimento dell’opposizione (24).
Salvo quanto dirò più avanti sull’inaccettabile previsione oggi inserita
a conclusione dell’art. 616, a mente del quale la sentenza emessa a conclusione del giudizio di opposizione all’esecuzione sarebbe inimpugnabile (25), per quanto concerne il problema del rispetto del termine perentorio
previsto dal giudice dell’esecuzione per l’introduzione nella causa di opposizione, ben potrà darsi che il debitore, non avendo proposto un’istanza di
sospensione ovvero ove la stessa sia stata respinta, intenda coltivare soltanto la domanda cumulata in via riconvenzionale e non anche quella di opposizione.
Queste ipotesi, invero, già potevano formularsi con riferimento alla vecchia formulazione dell’art. 616. Semmai, occorre chiedersi se, con riferimento
alla prima fattispecie prevista dal nuovo articolo, il debitore all’atto di introdurre nel termine perentorio la causa, possa in questo nuovo atto, qualunque siano
la sua forma e il rito da seguire, inserire una domanda riconvenzionale non pre-
––––––––––––
di fissare il momento ultimo entro il quale il debitore opponente può esercitare il potere
alternativo di chiedere l’estinzione del pignoramento in luogo dell’introduzione o riassunzione della causa di opposizione. V. anche infra nel testo, § 6.
(23) Recchioni, Codice, cit., II, p. 2624.
(24) Ex multis, Cass., 25 maggio 2003, n. 8399; Cass., 9 novembre 2000, n. 14554;
Cass., 22 gennaio 1998, n. 603.
(25) Ferma ovviamente l’esperibilità del ricorso straordinario ex art. 111, comma
7°, Cost. e del regolamento di competenza: analogamente, già Bove, Le riforme più recenti, cit., p. 287. Dubita giustamente della legittimità costituzionale della sottrazione di
questa sentenza alla revocazione straordinaria, A.A. Romano, op. cit., § 4.
652
RIVISTA DI DIRITTO PROCESSUALE
sente nel ricorso in opposizione presentato al giudice. Opterei per una soluzione
elastica, considerato che l’atto d’impulso previsto dal nuovo art. 616 è in effetti
introduttivo di un nuovo segmento processuale, seppure per lo più reiterativo
del ricorso presentato al giudice dell’esecuzione.
Comunque, se il cumulo fosse già presente nel ricorso iniziale, e il debitore nel termine previsto dal giudice dell’esecuzione, avesse coltivato soltanto la
domanda riconvenzionale, il giudizio di opposizione dovrà ritenersi estinto.
Un’ulteriore questione riguarda anche il momento di produzione degli
effetti processuali e sostanziali della domanda di opposizione all’esecuzione: a mio avviso, nonostante l’atto previsto dal nuovo art. 616 sia formalmente introduttivo, per ripetere la terminologia della norma, del giudizio di merito, non può dubitarsi tuttavia che detti effetti possano considerarsi prodotti – quanto a quelli processuali – sin dal momento del deposito
del ricorso in opposizione all’esecuzione dinanzi al giudice dell’esecuzione
stessa (26) ovvero, quanto a quelli sostanziali, dalla notificazione del ricorso e del decreto all’opposto. Per esemplificare, quindi, l’effetto della litispendenza di cui all’art. 39, scaturirà dal deposito del ricorso e non anche
dalla notificazione dell’atto di citazione nel termine perentorio previsto dal
giudice dell’esecuzione dopo la sospensione; ancora, ove il debitore nel
proporre opposizione abbia cumulato anche una domanda riconvenzionale,
gli effetti sostanziali di questa domanda – ad esempio l’interruzione della
prescrizione – si produrranno dal momento della notificazione del ricorso e
del decreto di fissazione dell’udienza ex art. 185 disp. att. e non solo a seguito dell’ulteriore coltivazione dell’opposizione.
4. – Qualche cenno va fatto, poi, con riferimento all’eventualità che a
promuovere l’opposizione sia uno dei creditori (il procedente o l’intervenuto
munito di titolo esecutivo) nel caso il debitore opponente si avvalga della
nuova facoltà di cui al comma 3° del rinovellato art. 624 c.p.c.
Come già ricordato, infatti, questo nuovo comma – non a torto definito
un puzzle (27) – offre al debitore opposto, che abbia ottenuto la sospensione
del processo esecutivo, di optare fra coltivare l’opposizione preannunciata con
il ricorso ovvero chiedere al giudice dell’esecuzione di estinguere – stando
alla lettera della norma – il solo pignoramento.
In questa seconda, ancora più confusa, ipotesi – ed ammesso che se ne
abbia il tempo (v. infra § 5) – il creditore opposto che non voglia lasciare
estinguere il pignoramento può introdurre il giudizio di opposizione all’esecuzione, impedendo così l’estinzione dell’atto esecutivo.
––––––––––––
(26) Analogamente A.A. Romano, La nuova disciplina, cit., § 3, anche per il quale
l’opposizione è già proposta con il ricorso di cui al comma 2° dell’art. 615.
(27) Consolo, Il pignoramento preso sul serio, loc. cit.
I NUOVI ARTT. 616 E 624 C.P.C. ECC.
653
Oltre che dal raccordo con l’art. 624 c.p.c. questa eventualità emerge
dallo stesso art. 616 novellato ove, come già ho avuto modo di rimarcare, si
prevede appunto che l’introduzione del giudizio di opposizione, preannunciato dal ricorso ex art. 615, comma 2°, del debitore, possa avvenire da parte
di ogni « interessato », e non del solo debitore.
L’ipotesi lascia emergere una serie di problemi sistematici ed applicativi
impressionanti, che qui possono solo essere tracciati in parte.
Senza pretesa di esaustività allora, il primo dubbio riguarda il contenuto
dell’atto introduttivo – citazione o ricorso che sia – dell’interessato diverso
dal debitore, originario opponente. In realtà, il problema è ben più a monte
perché la novellazione dell’art. 624 è il frutto dell’applicazione di una soluzione ormai (inopportunamente, a mio sommesso parere) estesa generaliter
all’intero processo cautelare uniforme, ad esclusione delle misure a carattere
conservativo (28).
Infatti, come noto, seguendo la soluzione già varata per le misure cautelari a carattere non conservativo nella materia societaria commerciale (ossia
degli artt. 23 e 24 del d.lgs. n. 5 del 2003), la legge n. 80 del 2005 ha « attenuato » il nesso di necessaria sequenzialità strutturale fra processo cautelare e
processo di merito o, si vis, principale, rendendo meramente facoltativo l’avvio del secondo in tutti i casi di provvedimenti cautelari ex art. 700 c.p.c., anticipatori e denunce (29).
Sulla base, dunque, della nuova regula, secondo la quale l’avvio della
causa di merito è solo eventuale e facoltativo per il beneficiario della cautela,
il nuovo sistema prevede che il processo di merito possa essere avviato dall’intimato; che ben può essere interessato ad ottenere, in via di accertamento
negativo, una dichiarazione di inesistenza del diritto già protetto in via urgente e mediatamente la caducazione in questo contesto anche del provvedimento cautelare.
Rinviando ad altra sede per l’approfondimento del tema, nonostante la
soluzione lasci emergere non lievi e semplici problematiche dovute anche alla
complessità del tema in generale (30), è vero che, sia pur con qualche adattamento, l’avvio del giudizio di merito da parte dell’intimato viene normalmente ricondotto in dottrina nell’alveo dell’azione di accertamento negativo
(del diritto già protetto in via cautelare) (31): in sostanza, l’intimato introdurrebbe una causa avente ad oggetto (in senso tecnico) del giudizio l’opposto
––––––––––––
(28) Per riferimenti, v. Recchioni, Il processo cautelare uniforme, cit., 35 ss.
(29) Sul tema, v. il mio Il processo cautelare uniforme, 35 ss., 531 ss.
(30) Rinvio ancora, per riferimenti, al mio Il processo cautelare uniforme, loc. cit.,
cui adde ora la pregevole analisi di A.A. Romano, L’azione di accertamento negativo,
Napoli 2006, passim.
(31) Recchioni, Il processo cautelare uniforme, loc. ult. cit.
654
RIVISTA DI DIRITTO PROCESSUALE
logico o contrario di quello che avrebbe potuto introdurre il beneficiario della
cautela (32).
Ebbene, evidentemente mosso dall’idea che il rapporto fra provvedimento di sospensione del processo esecutivo e giudizio di opposizione all’esecuzione sia equiparabile a quello fra provvedimento cautelare e processo di
merito successivo, il legislatore processuale del 2006, estende, dunque, la soluzione della misura cautelare a strumentalità attenuata ipotizzando che proposta l’opposizione ed ottenuta la sospensione (cioè la cautela), il beneficiario
(i.e. il debitore opponente) non abbia interesse alla prosecuzione del giudizio
di opposizione: il cui avvio, recte: il cui « promovimento » a questo punto
però potrebbe avvenire da parte del creditore opposto, analogamente a quanto
previsto dall’art. 669-octies, comma 6°, c.p.c.
Fatto sta che se nel caso dell’azione di accertamento negativo promossa
dall’intimato ai sensi di quest’ultimo articolo il contenuto della citazione e
l’oggetto del processo sia pure con qualche maggiore difficoltà rispetto al
processo di accertamento « positivo », possono tutto sommato individuarsi (33) – nel nostro più stretto ed attuale campo d’indagine le questioni si
complicano ulteriormente.
Ciò dipende dal fatto che la stessa azione di opposizione all’esecuzione
è, almeno stando alla tesi prevalente, un’azione di accertamento negativo, anche se non si è punto d’accordo sull’oggetto di tale processo, se cioè esso sia
la sola azione esecutiva, ovvero anche il diritto di credito del creditore opposto (34): ed anzi, giova ricordare, che, secondo una partecipata opinione, in
––––––––––––
(32) Su tale fenomeno, Recchioni, Pregiudizialità processuale e dipendenza sostanziale nella cognizione ordinaria, Padova 1999, p. 275 ss.; A.A. Romano, L’azione di
accertamento negativo, cit., p. 95 ss.
(33) La problematica è influenzata da quella, più generale, dell’oggetto del processo di accertamento negativo: se cioè alla base vi sia o meno un diritto soggettivo. Sul tema, oltre alle considerazioni già svolte in Recchioni, Pregiudizialità processuale, cit.,
p. 80 s.; ora A.A. Romano, op .ult. cit., spec. p. 263 ss.
In ordine al contenuto della citazione, infatti, questo ruoterà sull’esistenza di
uno o più fatti impeditivi, modificativi o estintivi ovvero l’inesistenza dei fatti costitutivi del diritto affermato dal ricorrente e protetto in via cautelare: sul contenuto
dell’atto introduttivo del giudizio di mero accertamento v. A.A. Romano, op. ult. cit.,
p. 393 ss.
(34) Sulla questione, Recchioni, Note sull’oggetto del giudizio di opposizione
all’esecuzione e sul problema dell’allegazione dei fatti sopravvenuti alla formazione
del titolo esecutivo, in questa Rivista 1998, p. 301 ss.; nonché il lucido contributo di
Merlin, Questioni in tema di oggetto del giudizio di opposizione all’esecuzione, di
eccezione di compensazione in sede esecutiva e di interpretazione del titolo esecutivo
giudiziale, in Riv. es. forzata 2005, spec. p. 166 ss., cui adde, A.A. Romano, op. ult.
cit., p. 136 ss.
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655
questo caso, si sarebbe in presenza di un processo vertente non già su un diritto (quello del creditore che subisce l’opposizione) ma su un’eccezione (35),
posta dal debitore a fondamento del giudizio, in deroga alla regola per cui oggetto del processo dichiarativo è sempre un diritto soggettivo.
La questione, come si intuisce, ha ricadute di peso sull’ambito e sull’efficacia oggettiva della sentenza di opposizione (36).
Se così è, ove in virtù del nuovo art. 624 sia il creditore che subisce la
sospensione del processo esecutivo a doversi attivare per coltivare (promuovere) il giudizio ex art. 615 c.p.c., se nel caso dell’art. 669-octies l’oggetto del
giudizio promosso dall’intimato è l’accertamento negativo del diritto già
cautelato, nel caso di specie il tutto si complica inammissibilmente dovendosi
individuare quale possa essere l’opposto logico contrario dell’azione del debitore di opposizione dell’esecuzione.
Insomma, in più dirette parole, qual è l’inverso logico-giuridico di un’azione di opposizione all’esecuzione?
Rispondere, come si sarebbe portati a fare, che sia l’accertamento del
diritto del creditore opposto – poi attore nel giudizio di opposizione per
salvare il processo esecutivo (recte: il pignoramento) – non è a mio avviso
tecnicamente possibile: perché, all’evidenza, questo diritto non è normalmente, se si segue l’idea prevalente, coinvolto nel giudizio di opposizione
all’esecuzione (37).
L’iniziativa del creditore opposto, dunque, si ricondurrà per lo più ad
una contestazione della fondatezza dell’opposizione del debitore, salvo che
il creditore non intenda proporre una nuova domanda di accertamento del
proprio credito (38), per l’ipotesi – articolata in linea di mero subordine –
della fondatezza della doglianza avanzata originariamente dal debitore opponente.
Ma questa soluzione, peraltro, è oggi gravemente pregiudicata dalla
nuova – ed a mio avviso incostituzionale (39) – previsione della inimpugna-
––––––––––––
(35) Vaccarella, Titolo esecutivo, precetto, opposizioni, 3a ed., Torino 1993, p. 76 ss.
(36) Recchioni, Codice, cit., II, p. 2617 ss.
(37) Due sono le tesi sul punto: v’è chi reputa che il diritto di credito sia coinvolto nel processo di opposizione in quanto applicazione del fenomeno dell’accertamento incidentale ex lege e chi invece reputa necessario – perché si manifesti il giudicato anche su questo thema decidendum – un’espressa domanda riconvenzionale del
creditore procedente: v. per ulteriori riferimenti, Recchioni, op. loc. ult. cit.; Merlin,
op. loc. ult. cit.
(38) Ove naturalmente non vi sia un problema di giudicato: penso ovviamente alle
ipotesi di titoli esecutivi stragiudiziali.
(39) Analoghe considerazioni in A.A. Romano, La nuova disciplina, cit., § 4, il
quale peraltro limita il sospetto di incostituzionalità alla sola opposizione di merito
all’esecuzione, con esclusione dell’opposizione per motivi di rito (es. impignorabilità dei
656
RIVISTA DI DIRITTO PROCESSUALE
bilità della sentenza che chiude il processo di opposizione: non credo, infatti,
di essere lontano dal vero affermando che, rispetto al normale sviluppo del
processo ordinario nei consueti due, se non tre, gradi di giudizio di merito,
questa soluzione di un solo grado risulterà meno appetibile dell’ipotesi di
sentenza eventualmente favorevole al creditore (dunque inappellabile dal debitore).
5. – La nuova norma – melius: il combinato disposto della medesima col
novellato art. 185 disp.att. – risolve invece la maggior parte delle questioni
sorte nel vigore del vecchio testo dell’art. 616 c.p.c.
Così, in primo luogo, per quanto concerne la querelle sulla funzione e
natura dell’udienza dinanzi al giudice dell’esecuzione a seguito della presentazione del ricorso in opposizione.
Ancorché il nuovo art. 185 disp.att. continui a definire l’udienza fissata
sulle opposizioni esecutive (ex artt. 615, 617 e 619) come di « comparizione », tuttavia, non è più dubbio che questa udienza non possa più confondersi
con quella, oggi, di comparizione e trattazione del novellato art. 183 c.p.c.,
poiché dalla norma è stato eliminato, appunto, il riferimento a questa norma da
cui tanti dubbi discendevano.
Ma in ogni caso, come già visto nei paragrafi precedenti, una volta prevista la (re-)introduzione della causa di opposizione ex art. 616, prima parte, è
chiaro che l’udienza di comparizione dinanzi al giudice dell’esecuzione resterà riservata alla delibazione dell’eventuale istanza di sospensione dell’esecuzione e alla verifica di questo giudice della propria competenza per l’opposizione, laddove la prima udienza di comparizione ex art. 183 c.p.c. non potrà
che essere la prima dopo la (re-)introduzione del giudizio di opposizione
dell’interessato.
E così, nel caso di competenza del medesimo ufficio giudiziario presso il
quale pende l’esecuzione, infatti, tutte le scadenze preclusive delle attività difensive gravanti sul creditore opposto, domande riconvenzionali, chiamate di
terzi (se ipotizzabili), eccezioni di merito o rito non rilevabili ex officio andranno rapportate alla udienza contenuta nel nuovo atto introduttivo del giudizio de quo, ove si tratti di citazione « ordinaria », ovvero con riferimento al
termine sempre indicato nella citazione in materia societaria di cui all’art. 2
d.lgs. 17 gennaio 2003, n. 5, ovvero all’udienza di discussione – e quindi
dell’art. 416 c.p.c. – nel caso di processi fondati sull’archetipo di quello laburistico.
Viene risolto di conseguenza anche il dubbio in ordine all’iscrizione a
ruolo del giudizio di opposizione, perché, all’evidenza, l’iscrizione seguirà
––––––––––––
beni), stante la natura permanente processuale e limitata al solo processo esecutivo della
quaestio oggetto dell’opposizione.
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657
(ancorché, come accennato, erroneamente la norma la qualifichi come « previa ») nei processi che iniziano con citazione – ordinaria come societaria –
alla notificazione dell’atto ex art. 165 c.p.c.
A tale proposito, peraltro, considerata la dimidiazione dei termini ex art.
163-bis (o altri, se previsti) di cui al nuovo art. 616 c.p.c., analogamente a
quanto previsto dall’art. 645, comma 2°, c.p.c. (40), potrà fondatamente sorgere il dubbio che ad essere ridotti alla metà saranno anche i termini per
l’iscrizione della causa a ruolo.
Va segnalata, inoltre, sempre a proposito dell’art. 185 cit. la singolarità della previsione delle forme camerali di sviluppo dell’udienza di comparizione quando per lo più essa sarà il luogo e momento deputato alla pronuncia di un provvedimento ritenuto ormai con decisione di natura cautelare; come fra l’altro attesta la sottoposizione del provvedimento sull’istanza
di sospensione allo strumento del reclamo cautelare ex art. 669-terdecies
c.p.c. (41).
La questione del trasferimento degli atti dell’opposizione proposta (ricorso, fascicolo e documenti in esso contenuti) resta, invece, ancora affidata
all’esegesi dell’art. 186 disp.att.
Riguardo alla tesi elastica, su ricordata, mi sembra tuttavia che la netta
cesura temporale e procedimentale oggi derivante dall’onere della introduzione della causa di opposizione dall’interessato, accentui l’autonomia della sequela procedimentale del giudizio di « merito » rispetto a quello esecutivo,
spingendo, dunque, verso un’interpretazione di maggior rigore della norma di
attuazione.
Ciò implica, a mio parere, che gli atti e i documenti contenuti nel fascicolo del ricorso in opposizione, depositato dinanzi al giudice del processo
esecutivo, potranno entrare nel nuovo processo introdotto ai sensi del novellato art. 616 solo su iniziativa dell’interessato che coltivi il giudizio, non anche per iniziativa dell’ufficio o della cancelleria.
Questa soluzione mi sembra imposta, a fortiori, ove si voglia seguire
l’idea del legislatore che trova il rapporto fra sospensione dell’esecuzione e
giudizio di opposizione alla stregua di quello fra cautela e successivo giudizio
di merito: in cui, nonostante la relazione di strumentalità, ritengo esservi una
netta cesura, oltre che temporale, procedimentale, che vieta qualunque potere
––––––––––––
(40) Sul punto, per tutti, Ronco, Procedimento per decreto ingiuntivo, in Trattato sui processi speciali, a cura di Chiarloni e Consolo, Torino 2005, I, tomo 1,
p. 371 ss.
(41) Il che implica, in tutta evidenza, una delicata opera di verifica di compatibilità
e delle norme per i procedimenti in camera di consiglio e del rito cautelare uniforme:
nonché, ove vi sia richiesta di cautela, fra le une e le altre: per un primo esame, A.A.
Romano, La nuova disciplina, cit., § 3.
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RIVISTA DI DIRITTO PROCESSUALE
ufficioso di disposizione delle prove acquisite in sede cautelare automaticamente (42).
Resta da dire qualcosa ancora sull’inimpugnabilità della sentenza che
decide l’opposizione all’esecuzione.
L’idea, mi sembra evidente, è stata suggerita a questo asistematico legislatore dal confronto con l’art. 618 c.p.c. (43), che però, come tutti sanno, ha
un ambito oggettivo ben diverso da quello dell’opposizione all’esecuzione,
concernendo un giudizio vertente, in sintesi e di regola, solo sulla validità, regolarità o opportunità di un atto del processo esecutivo (44), non anche su vere e piene situazioni giuridiche soggettive del creditore o del debitore.
A parte, dunque, l’evidente erroneità del tentativo di omologare fattispecie ben distinte, che tali dovevano restare, l’inimpugnabilità della sentenza
che decide sull’opposizione stimola un grave sospetto di incostituzionalità
della previsione per evidente contrasto con gli artt. 3 e 24 della Carta fondamentale, stante la palese diversità di trattamento processuale di fattispecie assolutamente identiche.
Va ricordato nuovamente, infatti ed in primo luogo, che nel caso delle
opposizioni c.d. di merito all’esecuzione, vuoi in virtù del cumulo di domande
riconvenzionali o di accertamento incidentale ex artt. 36 e 34 c.p.c. relative al
diritto di credito dell’opposto, vuoi, comunque, della tesi – molto autorevole e
partecipata – per la quale nel giudizio de quo l’esistenza del diritto di credito
rientra nell’ambito oggettivo del giudizio, trattandosi di un accertamento inci-
––––––––––––
(42) Recchioni, Il processo cautelare uniforme, cit., p. 488; nello stesso senso in
giurisprudenza, Trib. L’Aquila, 15 ottobre 2004, Meltec c. Enel, inedita.
(43) Nota l’accostamento fra le due opposizioni anche Bove, Le riforme più recenti,
cit., p. 288, il quale, non a torto, precisa anche che la scelta dell’inappellabilità della sentenza ex art. 616 non rifluirebbe sull’oggetto delle opposizioni di merito: ma sul punto v.
immediatamente nel testo. V’è da aggiungere che il colpo di coda dell’inimpugnabilità
della sentenza ex art. 616, per quanto duramente criticabile, tuttavia riequilibra il rapporto
– sempre incerto (per riferimenti Pugliese, Codice di procedura civile commentato, a cura
di Consolo e Luiso, cit., II, sub art. 512, p. 2320) – fra l’opposizione all’esecuzione del
debitore ed il giudizio nato dalle contestazioni ex art. 512 c.p.c., come modificato dalla
legge n. 80 del 2005. Come noto, ora il giudizio a cognizione piena in tema di contestazioni insorte nella fase di distribuzione del ricavato nasce solo a seguito della proposizione, a mo’ di impugnazione, dell’opposizione agli atti esecutivi contro l’ordinanza del
giudice dell’esecuzione che, in prima battuta, ha risolto la contestazione stessa. A prescindere da ogni (ovvia) critica della scelta normativa, il principio dell’inimpugnabilità
della sentenza che decide sull’opposizione all’esecuzione ex art. 616 c.p.c. è ora, quindi,
in linea con l’inimpugnabilità della sentenza che ai sensi del combinato disposto degli
artt. 512 e 617, appunto, decide la controversia in sede di distribuzione.
(44) Mi sia consentito rinviare al commento dell’art. 617 nel Codice, cit., a cura di
Consolo e Luiso, II, p. 2625 ss.
I NUOVI ARTT. 616 E 624 C.P.C. ECC.
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dentale ex lege (45), il diritto di credito portato nel titolo esecutivo può essere
o è, a seconda delle opinioni, comunque oggetto di giudizio e dunque destinato ad essere coperto dal futuro giudicato.
E se così è, allora, non si spiega perchè mai nel caso di opposizione
all’esecuzione (e, peraltro, solo per quella preposta dopo l’avvio dell’esecuzione, non anche quanto all’opposizione a precetto ex art. 615, comma 1°) il
giudicato materiale e formale sul diritto di credito segua ad un processo per il
quale è previsto un solo grado di giudizio pieno, mentre nel caso di un
processo autonomo – i.e. non stimolato dal processo esecutivo – invece, la
medesima situazione sostantiva beneficerà del normale sviluppo processuale
articolato nei consueti due gradi pieni di giudizio.
Il dubbio di incostituzionalità della previsione, in secondo luogo, diviene
a mio parere ancora più consistente nei casi in cui il giudizio di opposizione
riguardi crediti derivanti da titoli esecutivi stragiudiziali.
Perché in questi casi, a differenza dell’ipotesi di titoli giudiziali – in cui
un accertamento pieno o sommario comunque a monte v’è, con la possibilità
normalmente garantita di sviluppo del giudizio secondo i vari gradi e fasi del
processo – come noto, il processo di opposizione all’esecuzione è normalmente il primo giudizio in cui si procede all’accertamento giudiziale del credito: si pensi all’opposizione contro precetto cambiario.
Pur non potendosi dubitare della assenza di copertura costituzionale del
principio del c.d. doppio grado di giurisdizione, è pur vero che resta assolutamente incomprensibile la diversità di trattamento processuale per situazioni
assolutamente identiche.
Vi sarebbe, in conclusione di discorso, un’opzione interpretativa alternativa alla questione di costituzionalità, che tuttavia mi sembra prima facie del
tutto inappagante.
Ossia, o ritenere che, proprio per fugare il sospetto di incostituzionalità
della disciplina, l’ambiente processuale del giudizio di opposizione all’esecuzione del debitore non tolleri più la decisione dell’esistenza del diritto di credito
portato in esecuzione (46) e che dunque mai esso potrà ritenersi coinvolto
nell’efficacia di giudicato della emananda sentenza. Ma ciò ha come ovvia conseguenza, ancorché non scritto in alcuna norma, l’inammissibilità nel giudizio
ex art. 615 c.p.c. di domande riconvenzionali o comunque dell’ampliamento del
thema decidendum ai sensi dell’art. 34 c.p.c.
––––––––––––
(45) V. per riferimenti, Recchioni, Codice, cit., II, sub art. 615, p. 2617.
(46) Il che è già stato ipotizzato in dottrina, com’è chiarissimo nella precisazione di
Capponi, L’intervento dei creditori dopo le tre riforme della XIV legislatura, in
www.judicium.it., § 2, per il quale l’opposizione all’esecuzione sarebbe ormai un giudizio
non più di cognizione ordinaria ma « speciale da Libro IV che si svolge nelle forme camerali ».
660
RIVISTA DI DIRITTO PROCESSUALE
Oppure, ritenere che stante l’incapacità del rimodellato « serbatoio »
dell’opposizione esecutiva a contenere domande riconvenzionali, accessorie o
di accertamento incidentale, ove proposte, il giudice dell’opposizione dovrà
necessariamente procedere alla scissione del cumulo oggettivo sopravvenuto,
mediante il provvedimento di separazione ex art. 274 c.p.c., onde consentire
che su tali domande il processo possa svilupparsi secondo il suo ordinario e
graduato percorso.
Ma è chiaro che la soluzione della separazione fa immediatamente apparire lo spettro della sospensione necessaria del processo (art. 295 c.p.c.), poiché, come già accennato, le domande cumulabili dal creditore opposto nel
giudizio di opposizione si porrebbero tutte in rapporto di tecnica pregiudizialità – dipendenza con l’oggetto del processo di opposizione all’esecuzione.
Quale extrema ratio non resta che affidarsi ad una regola – ben nota – già applicata all’ipotesi del cumulo fra opposizione ex art. 615 e ex art. 617, cioè quella
di ritenere i due capi relativi alle due domande – nella specie quella di opposizione e quella riconvenzionale – sottoposte a differente regime impugnatorio
negando l’appello contro il primo capo, riconoscendolo, invece, nel secondo.
6. – Solo qualche ulteriore breve chiosa sul rimaneggiato, contraddittorio
e inutilmente complicato nuovo art. 624.
Richiamando la già ricordata, problematica cornice concettuale in cui
viene a collocarsi, la sua nuova formulazione darà origine, si crede, ad un ricco dibattito per risolvere i mille dubbi esegetici che essa crea.
Mi limito a porne in evidenza alcuni.
Innanzitutto, come già accennato, la norma prevede un nuovo meccanismo
per cui è rimessa al debitore opponente – e giova ricordarlo nuovamente, testualmente nel solo caso di espropriazione forzata non anche di quella in forma specifica, ancorché sia indiscutibile che la sospensione dell’esecuzione e dunque l’art.
624 c.p.c. ben possano riguardare anche questa altra forma di esecuzione forzata –
non solo l’opzione se coltivare o meno il giudizio di merito (cioè di opposizione),
ma anche se lucrare l’effetto estintivo del solo (47) pignoramento.
––––––––––––
(47) Ancorché espressamente limitato al pignoramento, credo che l’effetto
estintivo riguardi l’intero processo esecutivo: analogamente, già Capponi, L’intervento dei creditori, cit., § 2: v. anche nel testo. Il legislatore del 2006 ha, dunque,
creato una quarta fattispecie di estinzione concernente il processo esecutivo, che si
affianca alle tre originarie e codificate; ossia a) estinzione per rinuncia agli atti del
processo esecutivo; b) estinzione per inattività delle parti; c) estinzione per mancata
comparizione alla udienza: v. sul tema U. Rocco, Trattato di diritto processuale civile, IV, Torino 1959, p. 422. Nota l’atecnicismo sul punto anche A.A. Romano, La
nuova disciplina, cit., § 5, che preferisce tradurre l’incauta formula normativa in
quella di inefficacia del pignoramento.
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661
Ove, infatti, questa sia la scelta del debitore – che, anche se apparentemente molto appetibile, credo invece resterà ipotesi eccezionale se persuade
quanto dirò a breve – quando il creditore per disattenzione o scelta non si attivi nel termine perentorio posto per la instaurazione o per la riassunzione della
causa di merito il giudice dell’esecuzione non avrà alternativa alla dichiarazione di estinzione del pignoramento.
Questo anomalo effetto estintivo, dunque, potrà verificarsi solo al contestuale ricorrere di entrambe le condizioni: sospensione disposta dal giudice
dell’esecuzione e istanza del debitore opponente.
In secondo luogo, occorre individuare il termine entro il quale l’opponente potrà inoltrare l’istanza (48) di estinzione del pignoramento: e qui,
nel silenzio della norma, considerato che detta istanza è alternativa all’introduzione o riassunzione (49), a seconda delle ipotesi, della causa di opposizione, il termine non può che coincidere con quello previsto dall’art. 616
c.p.c. nuovo testo per l’instaurazione, riassunzione o promuovimento che sia,
della causa di « merito » (50).
In realtà, ricordando la disciplina del « doppio binario », che ho posto in
evidenza qualche pagina prima, pronunciato il provvedimento di sospensione,
la coltivazione dell’opposizione diviene meramente facoltativa per le parti
interessate, sicché non v’è ragione – né possibilità tecnica, invero – che il
giudice dell’esecuzione sospendendo il processo fissi il termine perentorio per
introdurre una causa che, invece, il comma 3° dell’art. 624 reputa come meramente eventuale.
Insomma, il termine (perentorio) dovrà esser fissato dal giudice dell’esecuzione, ma al solo scopo di stabilire il dies ad quem entro il quale l’opponente potrà esercitare la nota alternativa, non anche per la necessaria instaurazione – pena l’estinzione dell’opposizione – di una causa ormai svincolata
dalla cautela concessa e proponibile ad libitum.
––––––––––––
(48) Per le forme e sviluppi procedimentali secondo il rito camerale, v. le precisazioni di A.A. Romano, op. cit., § 3.
(49) Il che implica, come ben evidenzia già Bove, op. cit., p. 291, che il nuovo sistema dell’art. 624 c.p.c. possa entrare in funzione solo quando la sospensione viene concessa prima della introduzione–riassunzione della causa: essa va dunque esclusa quando
l’istanza di sospensione viene proposta – cosa certamente ammissibile – successivamente
all’instaurazione della opposizione stessa. All’evidenza, in questa ipotesi, manca la possibilità stessa dell’alternativa fra introduzione e estinzione del pignoramento visto che la
causa è già stata introdotta; analogamente, A.A. Romano, La nuova disciplina, cit., § 5.
(50) Analogamente, Bove, op. cit., p. 292, il quale nota anche, opportunamente,
l’ulteriore imperfezione della norma in riferimento alla possibilità che il termine fissato
dal giudice dell’esecuzione per l’instaurazione della causa di merito non consideri
l’eventuale appendice impugnatoria ove contro l’ordinanza di sospensione sia interposto
reclamo.
662
RIVISTA DI DIRITTO PROCESSUALE
Certo, questo termine scandirà non solo i poteri dell’opponente (51), ma
anche dell’opposto, interessato a promuovere « in via invertita » l’opposizione, ove il debitore voglia far estinguere il pignoramento, e del giudice stesso (52): la convergenza del termine sia per la promozione invertitamente
della causa di opposizione che per il deposito dell’istanza di estinzione del
pignoramento e l’assenza di un meccanismo analogo a quello dell’art. 334
c.p.c., o comunque di rimessione in termini della parte per causa ad essa non
imputabile, costringeranno verosimilmente il creditore opposto che non voglia rischiare tale esito (cioè l’estinzione) a non attendere l’ultimo giorno
utile per promuovere la causa di opposizione. Ciò perché, all’evidenza, il
debitore opponente, beneficiario della sospensione, potrebbe appunto determinarsi a chiedere l’estinzione del pignoramento l’ultimo giorno utile, impedendo in questo modo al creditore opposto di salvare il pignoramento mediante la instaurazione « invertita » della causa di opposizione a termine ex
art. 616 c.p.c. ormai scaduto.
Come ognun vede, se lo scopo di questa discutibile riforma era quello di
evitare quanto più possibile la coltivazione dell’opposizione proposta, in cambio della « provvisoria stabilità » del provvedimento di sospensione dell’esecuzione, l’obiettivo sarà inesorabilmente mancato.
Ad ogni buon conto, proseguendo nell’analisi, non può escludersi che
entrambi gli interessati, debitore e creditore, compiano gli atti di propria competenza entrambi all’ultimo giorno utile o comunque che l’istanza di estinzione venga depositata prima dell’instaurazione dell’opposizione da parte del
creditore opposto.
V’è, in proposito, un’evidente ulteriore lacuna: fermo per me che in
questi casi l’istanza di estinzione perderà rilievo (53), potrà accadere che,
ove non formalmente messo a conoscenza il giudice dell’esecuzione – adito
per la dichiarazione di estinzione del pignoramento – questi, appunto, dichia-
––––––––––––
(51) Che dunque se esercitati oltre il termine non potranno condurre all’estinzione
del pignoramento.
(52) Infatti, se persuade la lettura della norma proposta nel testo – ossia, in sintesi,
che l’estinzione del pignoramento è condizionata alla mancata instaurazione o riassunzione della opposizione da parte del creditore opposto a mente del terzo comma dell’art. 624 c.p.c. – il giudice dell’esecuzione, prima di pronunciare obbligatoriamente l’estinzione del pignoramento, dovrà attendere l’intero decorso del termine da lui fissato,
anche se il debitore opponente si sia affrettato a chiedere l’estinzione del pignoramento,
dopo la sospensione della procedura.
(53) Analogamente, Bove, op. cit., p. 292. Contra, A.A. Romano, La nuova disciplina, cit., § 5 per il quale, invece, l’istanza di estinzione del pignoramento non potrebbe
essere condizionata dal creditore opposto, che quindi non potrebbe prevenire la caducazione del pignoramento instaurando l’opposizione nel termine fissato dal giudice
dell’esecuzione.
I NUOVI ARTT. 616 E 624 C.P.C. ECC.
663
ri perento il pignoramento nell’assenza dei presupposti di cui al comma 3°
dell’art. 616.
Ma la disciplina dell’art. 624 si dimostra ancora più gravemente claudicante: infatti, come il paziente lettore noterà immediatamente, la norma, da un
canto, esclude l’impugnabilità dell’ordinanza di estinzione, dall’altro, nulla
prevede per l’esito opposto, ossia del rigetto dell’istanza del debitore, che pure potrebbe essere errata.
Mi pare che il legislatore, un po’ troppo fiduciosamente, creda che il
provvedimento di estinzione del pignoramento non sia contestabile: oltre
all’ipotesi su formulata, si pensi – fra le molte – al caso che il provvedimento di estinzione riguardi erroneamente un pignoramento caduto su più beni,
quando invece l’opposizione e la sospensione abbia colpito uno soltanto di
essi.
Ebbene, in primo luogo, a voler essere coerenti, parità di soluzioni
avrebbe spinto a rendere inimpugnabile anche l’ipotesi del rigetto dell’istanza
di estinzione del pignoramento; nel silenzio della norma, invece, si apre contro questo esito la strada dell’opposizione agli atti esecutivi.
Pari conclusione – esperibilità dell’opposizione ex art. 617 c.p.c. – deve
ammettersi, in secondo luogo, per non lasciare sfornito di tutela il creditore
contro provvedimenti errati o abnormi di estinzione totale di esecuzioni cumulative.
Ancora, il legislatore del 2006 parrebbe aver limitato la perdita di efficacia al solo pignoramento, non all’intero processo esecutivo, così introducendo
nel tessuto del codice un quid medium fra estinzione del processo ed estinzione di un singolo atto del medesimo.
Ma ciò non ha senso, perché, a parte la questione della sorte degli altri
atti processuali già compiuti, è evidente che privato di efficacia il pignoramento a seguito della sua dichiarata « estinzione », nessun ulteriore atto del
processo esecutivo possa essere ulteriormente compiuto.
Se non si fraintende la non cristallina previsione, che fa salvi gli atti compiuti (54), la nuova regola serve allora, da un canto, ad avvertire che
l’estinzione del pignoramento non è capace di produrre l’inefficacia degli atti
compiuti, quindi ponendo un’espressa deroga a quanto disposto appunto in tema
di estinzione del processo esecutivo dall’art. 632, comma 2°, c.p.c., che invece
––––––––––––
(54) La interpreta con riferimento alla notificazione del titolo esecutivo e al
precetto A.A. Romano, La nuova disciplina, cit., § 5; mi sembra, tuttavia, che più
che agli atti prodromici al pignoramento, la norma abbia un qualche senso con riferimento agli atti successivi al medesimo – ovviamente posti in essere prima della
sospensione dell’esecuzione – poiché l’opposizione può ben essere proposta durante
l’intero corso della fase espropriativa e non solo nell’immediatezza del pignoramento.
664
RIVISTA DI DIRITTO PROCESSUALE
notoriamente distingue le conseguenze dell’estinzione dell’esecuzione a seconda che essa intervenga prima o dopo la aggiudicazione o l’assegnazione, salvando gli atti compiuti (ad esempio gli atti di amministrazione, quali la locazione degli immobili pignorati) legittimamente compiuti durante il processo solo
se l’evento patologico si verifichi dopo di loro: non anche quando maturi prima
della aggiudicazione o dell’assegnazione.
Dall’altro, a contrario, essa serve a chiarire che, disposta la sospensione,
ancorché non sia estinto l’intero processo e siano salvi gli atti « compiuti »,
nessun ulteriore atto esecutivo potrà compiersi.
Essendo la sospensione equiparata oggi ad un provvedimento cautelare a
natura anticipatoria – quindi a strumentalità attenuata – essa manterrà piena
efficacia anche in caso di mancata introduzione o riassunzione del giudizio di
opposizione.
L’ipotesi non può trascurarsi obiettando che il comma 3° dell’art. 624
c.p.c. prevede l’estinzione del pignoramento in alternativa alla instaurazione o
riassunzione della causa di opposizione. Certamente, in questo caso estinto il
pignoramento, rectius: la procedura esecutiva, non ha più ragione né fondamento la sospensione di un processo estinto.
Tuttavia, ben potrebbe ipotizzarsi che il debitore esecutato, pur avendo
ottenuto la sospensione, non solo non instauri o non riassuma l’opposizione o,
pur avendolo fatto, la causa successivamente si estingua per rinunzia agli atti
o inattività delle parti, ma neppure chieda egli l’estinzione del pignoramento
ex art. 624, comma 3°.
All’evidenza, in questo caso, il processo esecutivo non si estinguerebbe,
ma resterebbe pur sempre sospeso, stante la provvisoria stabilità della cautela
concessa dal giudice dell’esecuzione.
Resta da dire della sorte della sospensione, per il caso di mancata instaurazione o anche estinzione della causa di opposizione.
Se la sospensione è provvedimento cautelare, la sua caducazione o assorbimento, alla stregua di quanto accade per i provvedimenti cautelari a strumentalità attenuata, potrà, allora, avvenire solo mediante l’impiego di due
strumenti: l’instaurazione – in via « invertita » – dell’opposizione da parte del
creditore opposto che mirerà ad una pronuncia di rigetto dell’opposizione da
cui, a cascata, promanerà l’inefficacia della cautela (nella specie, la sospensione) prevista dall’art. 669-novies, comma 3°, c.p.c., in virtù dell’accertata
infondatezza dell’opposizione del debitore; ovvero, naturalmente al ricorrere
del mutamento nelle circostanze di fatto o diritto che legittimarono la cautela,
la proposizione o in via incidentale nella causa di opposizione proposta dal
creditore ovvero in via autonoma, dell’istanza di modifica o revoca del provvedimento cautelare ex art. 669-decies c.p.c.
Il diverso assunto per cui in questi casi la misura cautelare sospensiva
perderebbe, invece, efficacia, non può persuadere, in primo luogo, perché
questa soluzione sarebbe platealmente in contrasto con lo spirito della riforma
dell’art. 624, che costruisce tutto il complesso marchingegno sin qui esami-
I NUOVI ARTT. 616 E 624 C.P.C. ECC.
665
nato sull’archetipo della relazione di strumentalità cautelare attenuata fra sospensione e incidente oppositivo.
In secondo luogo, perché la conseguenza della perenzione del processo
esecutivo deriva sempre dalla presenza del duplice presupposto della mancata coltivazione dell’opposizione stessa, ma soprattutto dell’istanza di
estinzione.
Essendo l’estinzione posta in alternativa alla sospensione, a fortiori ove manchi l’istanza di estinzione il provvedimento cautelare non può che restare efficace;
anche perché, a seguire la tesi qui contrastata, si avrebbe addirittura – a seconda dei
casi – un quid medium fra strumentalità cautelare attenuata e vecchia strumentalità
cautelare con riferimento allo stesso tipo di cautela, cosa – credo – di cui nessuno
può sentire il bisogno nel mare magnum di queste alluvionali riforme processuali.
7. – Restano due questioni da affrontare.
La prima concerne la possibilità che nel dichiarare l’estinzione del pignoramento, rectius: dell’intero processo espropriativo, il giudice dell’esecuzione imponga una cauzione al debitore opponente.
La previsione, pur non di agevolissima lettura, ha una sua spiegazione.
In primo luogo, va ricordato che una cauzione può già essere imposta al
debitore opponente con il provvedimento che dispone la sospensione dell’esecuzione ai sensi del suo primo comma: notoriamente, essa ha la funzione di
garantire il creditore opposto dai danni subiti dall’arresto del processo esecutivo e per il caso di rigetto dell’opposizione proposta (55).
Ritengo che la cauzione del comma 3° dell’art. 624 c.p.c. abbia analogo
scopo: cioè, risarcire i danni subiti dal creditore opposto per il caso che, pronunciata l’estinzione del pignoramento, la causa di opposizione venga da lui
vinta.
In sostanza, se non fraintendo l’idea che sta a monte della innovazione
normativa, se il debitore opponente deve rispondere dei danni che seguono
all’ingiusta sospensione dell’esecuzione, analoga soluzione si avrà quando
parimenti ingiusta risulterà l’estinzione del pignoramento a seguito del rigetto
dell’opposizione all’esecuzione.
Il fatto che la cauzione sia coordinata teleologicamente ad un giudizio –
quello di opposizione – solo eventualmente instaurabile ed in qualunque momento, va raccordato allora, ed ancora una volta, alla regola generale oggi
prevista dal combinato disposto dei nuovi artt. 669-octies e 669-novies (56).
––––––––––––
(55) Sullo scopo del provvedimento e sviluppi procedimentali, anche per riferimenti, rinvio a Recchioni, Codice, cit., II, p. 2671.
(56) Pur condividendo le critiche che R. Conte, La riforma delle opposizioni e
dell’intervento nelle procedure esecutive con requiem per il sequestro conservativo, in
www.judicium.it., 2006, § 2 muove alla previsione in esame, non mi sembra, quindi, fon-
666
RIVISTA DI DIRITTO PROCESSUALE
In altri termini, la cauzione dovrà rispettivamente essere restituita al debitore vittorioso nell’opposizione ovvero corrisposta al creditore procedente,
ove il debitore risulti soccombente nel giudizio di opposizione con condanna
al risarcimento dei danni per l’ingiusta estinzione dell’esecuzione.
La contraddittorietà di questo ulteriore possibile snodo procedimentale
di un sistema già troppo confuso non sfuggirà: il debitore opponente, che pur
avendo lucrato la sospensione, non ha in prima battuta optato per la prosecuzione della causa di opposizione, preferendo chiedere l’estinzione del pignoramento, ove disposta la cauzione sarà costretto, nel caso di inerzia del creditore opposto, ad instaurare l’opposizione allo scopo di ottenere una pronuncia favorevole sull’opposizione e lucrare la revoca della cauzione stessa.
L’inutile complessità della previsione rende superfluo qualunque commento, ma è opportuna una facile previsione: cioè che il debitore beneficiario
della sospensione dell’esecuzione (senza imposizione di cauzione ai sensi del
comma 1° dell’art. 624) preferirà rimanere completamente inerte, ben guardandosi dal coltivare il giudizio di opposizione o comunque dal chiedere, alternativamente, l’estinzione del pignoramento.
In questo modo, da un canto, eviterà, dunque, il rischio che il giudice
dell’esecuzione, nell’estinguere il pignoramento, possa al contempo imporre
una cauzione al debitore svincolabile solo nei modi predetti; dall’altro, addosserà al creditore opposto l’onere di coltivare l’opposizione, certo di non perdere la sospensione dell’esecuzione.
Resta da dire del capoverso del comma 3° dell’art. 624 c.p.c., a mente
del quale l’autorità dell’ordinanza di estinzione del pignoramento non è invocabile in un diverso processo.
Anche in questo caso, il legislatore della riforma dell’esecuzione mobiliare segue quello del processo societario e della legge sulla competitività, innestando nell’ambito della sospensione dell’esecuzione quanto oggi in generale prevede l’art. 669-octies, comma 7°, c.p.c. e prima di lui il comma 6°
dell’art. 23 del d.lgs. n. 5 del 2003.
Come ho altrove e più diffusamente esposto (57), queste norme oltre ad
essere formulate male sotto il profilo tecnico – risolvendosi, di fatto, in
un’imperfetta importazione e traduzione di previsioni processuali adottate in
altri sistemi giudiziari (58) – trasfondono nell’ambito della tutela cautelare un
concetto, qual è quello di autorità del comando giurisdizionale, assolutamente
––––––––––––
dato il rilievo dell’incomprensibilità della previsione di una cauzione correlata ad un processo estinto: essa si spiega, di certo con un grosso sforzo esegetico, come detto nel testo,
perché correlata non al processo estinto ma all’esito del processo di opposizione
all’esecuzione, ove sfavorevole al debitore.
(57) Recchioni, Il processo cautelare uniforme, cit., p. 50 ss.
(58) Recchioni, op. loc. ult. cit.
I NUOVI ARTT. 616 E 624 C.P.C. ECC.
667
incompatibile con le caratteristiche strutturali e funzionali di tale forma di
presidio giurisdizionale, indiscutibilmente caratterizzata dalla provvisorietà
degli effetti del provvedimento (59).
Laddove, invece, notoriamente, l’autorità va riferita alla stabilità e forza
proprie della regiudicata formale e materiale.
Tuttavia, se nelle claudicanti formulazioni degli artt. 669-octies c.p.c. e
23 d.lgs. n. 5 del 2003 può leggersi almeno il principio per cui il provvedimento cautelare non ha alcuna autorità, in generale, e quindi meno che mai in
altri processi a cognizione piena o sommaria che siano relativi allo stesso diritto già cautelato o diritti connessi (60), il che ha senso quanto ai provvedimenti cautelari, assolutamente illogica è la formulazione di identica regola
quanto al provvedimento di estinzione del pignoramento, che il giudice pronuncia ai sensi del comma 3° dell’art. 624 c.p.c.
Come è evidente a tutti, e conclusivamente, infatti: a) questa ordinanza
non può avere alcuna autorità, non solo nemmeno lontanamente accostabile a
quella della regiudicata, ma anche a quella – ammesso che si riesca ad individuarla in qualche modo (61) – che gli artt. 669-octies e 23 citt. comunque attribuiscono ai provvedimenti cautelari a strumentalità attenuata: infatti, mentre questi ultimi pur sempre proteggono diritti soggettivi del beneficiario, il
provvedimento di estinzione del processo ha rilievo e portata meramente endoprocessuale, senza coinvolgere posizioni sostantive materiali delle parti; b)
non è possibile capire quali possano essere i diversi processi in cui potrebbe
venire in rilievo questa chimerica autorità dell’ordinanza di estinzione del pignoramento: certo non in processi cognitivi – pieni o sommari che siano –
pregiudicabili solo dall’efficacia di accertamento di cui all’art. 2909 c.c. – ma
nemmeno in quelli esecutivi, non essendo sensatamente ipotizzabile che
l’estinzione di un processo esecutivo, o addirittura del solo pignoramento,
possa avere una qualche influenza su esecuzioni nuove e diverse, finanche
riunite a quella estinta o aventi ad oggetto gli stessi beni aggrediti nella procedura estinta.
Il vero è che la previsione è frutto di una clamorosa svista, anche a voler
seguire questo asistematico legislatore nell’equazione per cui la sospensione
dell’esecuzione sta alla causa di opposizione come il provvedimento cautelare
anticipatorio sta alla causa di merito: a tutto voler concedere, infatti, la previsione avrebbe avuto un qualche senso se si fosse detto che a non avere autorità in diversi processi fosse stata l’ordinanza di sospensione, non anche
quella di estinzione del pignoramento.
Infatti, se può sostenersi che la prima ordinanza ha natura lato sensu
––––––––––––
(59) Sul tema, rinvio ancora al mio Il processo cautelare uniforme, cit., p. 47 ss.
(60) Recchioni, op. ult. cit., p. 51.
(61) V. ancora, Recchioni, op. loc. ult. cit.
668
RIVISTA DI DIRITTO PROCESSUALE
cautelare, non è seriamente discutibile che ciò vada recisamente escluso
quanto a quella di estinzione del pignoramento, anche se « alternativa » alla
misura cautelare (62): col che si spegne inesorabilmente qualunque claudicante tentativo di estendere anche a codesta ordinanza la nuova discutibile
disciplina della strumentalità cautelare attenuata.
STEFANO RECCHIONI
Professore ordinario
nell’Università di Cassino
––––––––––––
(62) Mi sembra, pertanto, impossibile, per dare un qualche senso all’autorità del
provvedimento di estinzione, vedere per forza una relazione di strumentalità fra
l’estinzione del pignoramento e l’esito – auspicato dal debitore – dell’accoglimento
dell’opposizione, quindi attribuendo alla prima natura totalmente anticipatoria degli effetti della sentenza sull’opposizione: così, invece, A.A. Romano, op. ult. cit., § 5. La tesi
non convince perché, in realtà, più che di estinzione del pignoramento, rectius: del processo esecutivo, bisogna parlare di invalidazione di tutti gli atti compiuti (contra, ma un
po’ apoditticamente, ritenendo che l’accoglimento dell’opposizione configuri un’ipotesi
di estinzione del processo esecutivo U. Rocco, Trattato, cit., IV, p. 423), a seguito della
sentenza che accoglie l’opposizione del debitore. Esso è certamente un effetto direttamente promanante dalla sentenza favorevole al debitore, ma tutto sommato collaterale e
secondario rispetto alla preminenza della dichiarazione di inesistenza dell’azione esecutiva e/o, a seconda delle opinioni, anche del diritto di credito portato nel titolo esecutivo:
sugli esiti del giudizio di opposizione, v. ancora riassuntivamente, Recchioni, Codice,
cit., II, p. 2618.
DIRITTO PROCESSUALE STRANIERO
LA NOZIONE E GLI EFFETTI
DELLA SENTENZA ARBITRALE
NEL DIRITTO FRANCESE
SOMMARIO: 1. La sentenza arbitrale nel Nouveau code de procédure civile. – 2.
L’individuazione della sentenza arbitrale. – 3. Gli effetti naturali della
sentenza arbitrale: il dessaisissement degli arbitri. – 4. L’autorité de la
chose jugée e l’opposabilité. – 5. La force de chose jugée della sentenza
arbitrale. – 6. Gli effetti naturali non espressamente previsti dalla legge: la
force probante e l’idoneità della sentenza arbitrale ad essere considerata
come décision de justice. – 7 . Conclusioni.
1. – Nell’ordinamento francese, la sentence arbitrale è l’atto conclusivo
del procedimento arbitrale, disciplinato dal quarto libro del Nouveau code de
procédure civile, agli artt. 1442-1507. Più in particolare, le disposizioni relative
alla sentence arbitrale nazionale sono dettate all’interno degli artt. 1469-1480,
dei quali gli artt. 1469-1474, insieme all’art. 1480, riguardano la formazione
dell’atto, mentre gli artt. 1475-1479 sono relativi ai suoi effetti. L’art. 1500 stabilisce che alla sentenza arbitrale internazionale sono applicabili gli artt. 14761479, ma non le disposizioni relative alla forma della sentenza nazionale (1).
Nel presente scritto ci limiteremo all’individuazione della nozione e delle
frontiere della sentenza arbitrale, sia rispetto alle figure affini all’arbitrato sia
––––––––––––
(1) Mentre il codice di rito del 1806 utilizzava il termine jugement arbitral, nel
Nouveau code de procédure civile si trova solo il vocabolo sentence arbitrale. Sulla terminologia legislativa in materia di arbitrato si veda: T. Clay, L’arbitre, Paris 2001, p. 83
ss.; M.-C. Rondeau-Rivier, Arbitrage. La sentence arbitrale, in Juris-Classeur proc. civ.,
fasc. 1046, Paris 1996, p. 2, secondo cui la sostituzione terminologica « n’a d’autre portée que de mettre les textes en accord avec la pratique arbitrale »; J. Robert, L’arbitrage.
Droit interne. Droit international privé, Paris 1993, p. 170; mentre R. Perrot, L’arbitrage, une autre justice, in Petites affiches 2 octobre 2003, n. 197, p. 32 ss., spec. p. 37,
ritiene che la differenza terminologica tra sentence e jugement sia una « nuance sémantique » che ha « en tout cas le mérite de nous annoncer que la décision rendue par des
arbitres se distingue du jugement à plusieurs points de vue ».
670
RIVISTA DI DIRITTO PROCESSUALE
rispetto alle ordinanze arbitrali. Tale indagine riveste un’importanza centrale,
dal momento in cui solo ad un atto dotato del carattere di sentenza può essere
applicata la disciplina prevista dal codice di rito, tra cui, in particolare, la concessione del provvedimento di exequatur e l’assoggettamento alle impugnazioni
di cui agli artt. 1482 ss.
Successivamente ci soffermeremo sull’analisi degli effetti che la decisione
è, di per sé, idonea a produrre (2). La sentenza arbitrale « dessaisit l’arbitre de
la contestation qu’elle tranche » (art. 1475) e « a, dès qu’elle est rendue,
l’autorité de la chose jugée relativement à la contestation qu’elle tranche » (art.
1476). Oltre agli effetti naturali espressamente previsti dalla legge, si ritiene che
l’atto in esame ne produca ulteriori: l’opposabilité nei confronti dei terzi, la force probante e gli effetti ricollegati alle décisions de justice. Altri effetti derivano dalla concessione dell’ordinanza di exequatur: la possibilità di procedere a
esecuzione forzata e di far decorrere il termine breve per l’esercizio dell’impugnazione ordinaria.
2. – Né il codice di rito francese, né le convenzioni internazionali in materia danno una definizione di sentenza arbitrale, affidando all’interprete il relativo compito. A tali fini, in primo luogo, è necessario stabilire la linea di confine
tra la sentenza arbitrale e gli atti emanati da un terzo a conclusione dei procedimenti affini all’arbitrato (arbitraggio, expertise e conciliazione).
Preliminarmente, è necessario ribadire che per qualificare un determinato
atto come sentenza arbitrale, è ininfluente il rispetto dei requisiti stabiliti dalla
legge ai fini della sua validità. Dunque, una sentenza arbitrale sarà tale, nonostante violi le prescrizioni indicate dalla legge, essendo questo un problema relativo all’annullamento e non alla qualificazione dell’atto (3). Né potrà avere
––––––––––––
(2) Sulla scia della distinzione fatta in relazione al lodo rituale italiano da C. Punzi,
Disegno sistematico dell’arbitrato, Padova 2000, vol. II, p. 76 ss., chiameremo gli effetti
prodotti dalla sentenza arbitrale, indipendentemente dall’exequatur, come effetti naturali.
(3) Questa precisazione si impone, in quanto alcune decisioni hanno negato il carattere di sentenza arbitrale ad alcuni atti per la mancanza dei requisiti imposti dalla legge. Così, infatti: App. Paris, 18 février 1986, in Revue de l’arbitrage 1990, p. 727, con
nota critica di C. Jarrosson, secondo cui non può costituire una sentenza arbitrale un documento « ne comportant aucune signature ni aucune date »; App. Paris, 26 mai 1987,
ivi 1987, p. 509, con nota di C. Jarrosson, secondo cui è un rapporto di expertise, e non
può ricevere la qualificazione di sentenza arbitrale, la decisione di un terzo, che non contiene « un exposé succinct des prétentions respectives des parties et de leurs moyens »;
App. Paris, 21 novembre 1991, ivi 1992, p. 494, con nota di M.-C. Rondeau-Rivier, che
ha negato il carattere di sentenza arbitrale ad un atto che non presentava « les indications
indispensables à son identification », e la cui traduzione era equivoca. Per la critica a tali
decisioni si veda: C. Jarrosson, Les frontières de l’arbitrage, in Revue de l’arbitrage
2001, p. 5 ss., spec. pp. 22-23; P. Fouchard, E. Gaillard, B. Goldman, Traité de
l’arbitrage commercial international, Paris 1996, p. 750; A. Carlevaris, La qualificazione
LA NOZIONE E GLI EFFETTI DELLA SENTENZA ARBITRALE ECC.
671
importanza la circostanza che la sentenza sia di condanna o di mero accertamento (4).
Essendo la sentenza arbitrale, l’atto conclusivo del procedimento arbitrale
è chiaro che la definizione della prima discende dall’individuazione del concetto stesso di arbitrato (5). Per sapere se si è in presenza di un procedimento
che può essere qualificato come arbitrato si fa ricorso ad una serie di indici rivelatori, quali: la presenza di una lite tra le parti, di un terzo imparziale dotato
di potere giurisdizionale, il carattere obbligatorio dell’atto, la risoluzione di
questioni di diritto e non di mero fatto (6). Sulla base di tali indici, possiamo
eliminare dalla categoria di sentenza arbitrale alcuni atti a questa affini. Sarà
una proposta di conciliazione quell’atto del terzo che, essendo privo di carattere
vincolante e obbligatorio, può essere rifiutato dalle parti, potendo queste sottomettere integralmente le loro pretese dinanzi agli organi giurisdizionali (7).
––––––––––––
delle decisioni arbitrali, in Riv. arb. 2002, p. 469 ss., spec. p. 482. Più cauta, invece, la
posizione di M.-C. Rondeau-Rivier, Arbitrage. La sentence arbitrale, cit., p. 3, secondo
cui « il est certain que l’incompatibilité formelle de la décision avec les exigences attendues de la forme d’une sentence est un indice permettant de refuser à la décision la qualification de sentence ».
(4) La precisazione è dovuta al fatto che nella motivazione di Cass., 7 octobre
1981, in Revue de l’arbitrage 1984, si trova l’affermazione secondo cui un atto non può
avere carattere giurisdizionale « en l’absence de condamnation ». Ma successivamente
Cass., 19 avril 1985, ivi 1986, p. 57, con nota di C. Jarrosson, seppur indirettamente, stabilisce che il carattere di sentenza arbitrale non può essere negato per il solo fatto che non
si tratti di una decisione di condanna. Per l’approfondimento della questione si rinvia a C.
Jarrosson, La notion d’arbitrage, Paris 1987, p. 206 ss.
(5) In questo senso, tra i tanti: B. Moureau, Arbitrage en droit interne, in Encyclopédie Dalloz, Répertoire de procédure civile, vol. 1, Paris 2004, p. 39, secondo cui
« la qualification de la sentence est indissociable de celle d’arbitrage ».
(6) Per un’esposizione generale dei criteri di qualificazione dell’arbitrato si rinvia a
C. Jarrosson, La notion d’arbitrage, cit., p. 251 ss.; Id., Les frontières de l’arbitrage, cit.,
p. 19 ss.; Id., Variations autour de la notion d’arbitrage, in Revue de l’arbitrage 2005,
p. 1049 ss.; E. Loquin, Arbitrage. Définition, in Juris-Classeur proc. civ., fasc. 1005, Paris 1997, p. 13 ss. Ai fini dell’indagine circa la qualificazione di un atto come sentenza
arbitrale, sia in riferimento alle figure affini che rispetto alle ordinanze arbitrali, la giurisprudenza ritiene che non ci si debba attenere alle espressioni utilizzate dalle parti, ma
alla natura della missione effettivamente demandata ai terzi. Il principio è fermissimo e si
rinviene in tutte le decisioni che si occupano della qualificazione dell’arbitrato, è sufficiente al riguardo citare Cass., req., 31 mars 1862, in Recueil Sirey 1862, p. 362, che per
prima ha formulato tale principio.
(7) Sulla distinzione in via generale tra arbitrato e conciliazione si veda B. Oppetit,
Arbitrage, médiation et conciliation, in Revue de l’arbitrage 1984, p. 307 ss.; C. Jarrosson, La notion d’arbitrage, cit., p. 176 ss. Tale distinzione, agevole nella teoria, ha dato
luogo a un vasto contenzioso, data la presenza di clausole ambigue. Nel senso della conciliazione di quelle clausole nelle quali le parti, pur utilizzando termini invocanti una
672
RIVISTA DI DIRITTO PROCESSUALE
Sempre in relazione al carattere obbligatorio dell’atto, è legato il problema della
qualificazione del « progetto di sentenza arbitrale », ossia di quell’atto emanato
in primo grado all’interno di un arbitrato organizzato da un’istituzione, il cui
regolamento prevede un doppio grado di giudizio privato (8). Mentre non sorgono dubbi circa il carattere di sentenza della decisione emanata nel secondo
grado arbitrale, la qualificazione dell’atto emanato nel primo grado arbitrale è
controversa, alcuni propendendo per la natura di sentenza ed altri per quella di
proposta di conciliazione (9).
Più controverso è il rapporto tra arbitrato (arbitrage juridictionnel) e arbitraggio (arbitrage contractuel), di cui all’art. 1592 Code civil (10). In linea ge-
––––––––––––
procedura arbitrale, si riservano la facoltà di adire il tribunale statale senza alcuna limitazione, si veda: Cass., 2° civ., 7 juillet 1971, in Juris-Classeur périodique 1971, éd. Générale, II, 16898, con nota di P. Level, relativamente a una procedura destinata a concludersi con un « avis arbitrale de conciliation »; TGI Paris, ord. référé, 25 janvier 1984, in
Revue de l’arbitrage 1984, p. 376; App. Nancy, 12 décembre 1985, ivi 1986, p. 255;
App. Paris, 23 mars 1989, ivi 1990, p. 731; Cass., com., 13 mars 1990, ivi 1990, p. 713
ss.; App. Paris, 24 octobre 1991, ivi 1992, p. 494, con nota di M.-C. Rondeau-Rivier, ove
si specifica che « les mentions qui soumettent la sentence arbitrale à l’accord des parties
ôtent tout caractère juridictionnel à l’acte d’arbitrage »; App. Paris, 21 novembre 2001,
in Revue trimestrielle de droit commercial 2002, p. 40 ss.; App. Paris., 20 novembre
2003, in Revue de l’arbitrage 2005, p. 1053, con nota favorevole di C. Jarrosson, e in
Recueil Dalloz 2004, sommaires, p. 3179, con nota contraria di T. Clay.
(8) L’istituto del progetto di sentenza arbitrale è disciplinato, in modo non del tutto
chiaro, dall’art. 1455, comma 4°, secondo cui « la personne chargée d’organiser
l’arbitrage peut prévoir que le tribunal arbitral ne rendra qu’un projet de sentence, et si
ce projet est contesté par l’une des parties, l’affaire sera soumise à un deuxième tribunal
arbitral ».
(9) A favore della natura di sentenza della decisione degli arbitri di primo grado e
della sua conseguente impugnabilità ex artt. 1482 ss., in assenza di contestazione attraverso il secondo grado arbitrale, si pone soprattutto la giurisprudenza: App. Douai, 27
février 1964, in Revue de l’arbitrage 1964, p. 49; App. Paris, 5 juillet 1981, ivi 1983,
p. 109; App. Rouen, 16 avril 1986, ivi 1988, p. 327; App. Paris, 6 mars 1997, ivi 1997,
p. 605, con nota di Y. Reinhard; App. Paris, 8 octobre 1998, ivi 2000, p. 128, con nota di
E. Loquin; J. Robert, L’arbitrage, cit., p. 172. Mentre E. Loquin, Arbitrage. Institutions
d’arbitrage, fasc. 1002, in Juris-Classeur proc. civ., Paris 1997, p. 10; Id., Arbitrage. La
décision arbitrale, fasc. 1046, ivi 2001, p. 6, ritiene che il « progetto di sentenza » sia una
« solution non obligatoire proposée par un organe de conciliation », ossia di un atto di
natura contrattuale che, se non contestato, conserverebbe comunque il suo valore originario e non si trasformerebbe in sentenza arbitrale.
(10) L’art. 1592 Code Civil permette che il prezzo della vendita, in caso di mancata
determinazione delle parti, « peut cependant être laissé à l’arbitrage d’un tiers; si le tiers
ne veut ou ne peut pas faire l’estimation, il n’y point de vente ». Pur parlando la legge di
« arbitrage », la dottrina ha da tempo riconosciuto che non si tratti di un vero arbitrato, ma
di un mandato di interesse comune. L’arbitraggio viene, comunemente, denominato come
LA NOZIONE E GLI EFFETTI DELLA SENTENZA ARBITRALE ECC.
673
nerale, si può affermare che « s’il n’y a pas de litige, il n’y a pas d’arbitrage » (11), quindi qualora le parti decidano di affidare la determinazione del valore di un bene ad un terzo, in assenza di un qualsiasi tipo di contrasto, sulla
qualificazione di arbitraggio non sorgeranno dubbi, al contrario qualora le parti
siano tra loro in lite o in disaccordo la linea di confine tra i due istituti diviene
controversa. La giurisprudenza, in casi assolutamente identici, ha optato in alcune ipotesi per la qualificazione di arbitraggio e in altre per quella di arbitrato,
a seconda del fatto che il criterio della presenza della lite o del disaccordo tra le
parti sia stato ritenuto prevalente su quello della natura della missione conferita
al terzo (12). Analoghe dispute sono sorte anche in dottrina, divisa tra un con-
––––––––––––
arbitrage contractuel in contrapposizione all’arbitrage juridictionnel del codice di rito. Sul
tema si veda: C. Jarrosson, La notion d’arbitrage, cit., p. 158; B. Oppetit, Arbitrage juridictionnel et arbitrage contractuel: à propos d’une jurisprudence récente, in Revue de
l’arbitrage 1977, p. 315 ss.; Id., Sur le concept d’arbitrage, in Etudes offertes à B. Goldman
1982, p. 229 ss.; E. Loquin, Arbitrage. Définition, fasc. 1005, cit., p. 4, secondo cui
« l’arbitrage contractuel n’est pas une institution juridictionnelle », dal momento in cui
l’arbitre, di cui all’art. 1592 c.c., « ne juge pas, mais définit une obligation contractuelle »;
T. Clay, Une erreur de codification dans le Code civil: les dispositions sur l’arbitrage, in
1804-2004, Le Code civil, Un passé, un présent, un avenir, Dalloz, 2004, p. 693 ss.
Un’utilizzazione differente della formula arbitrage contractuel è fatta A. Kassis, Problème
de base de l’arbitrage, I, Paris 1987, p. 16, per il quale l’aggettivo contrattuale, riferito
all’arbitrato, designerebbe l’ipotesi dell’intervento di un terzo ai fini della risoluzione di una
controversia giuridica, procedimento destinato a concludersi con una decisione di valore ed
efficacia esclusivamente contrattuale (figura corrispondente, quindi, all’arbitrato libero italiano). All’opposto, la quasi totalità della dottrina ritiene inammissibile l’arbitrato irrituale
nell’ordinamento francese, si veda per tutti: C. Jarrosson, La notion d’arbitrage, cit., p. 345;
Id., L’expertise juridique, in Mélanges C. Raymond, Paris 2004, p. 127 ss., fautore di una
concezione rigorosamente unitaria dell’arbitrato; E. Loquin, op. ult. cit., p. 6, secondo cui la
tesi di A. Kassis sull’arbitrato libero « n’emporte pas la conviction, et n’est pas consacrée
par le droit positif » francese. Per più ampie informazioni si rinvia a M. Marinelli, La natura dell’arbitrato irrituale, Torino 2002, p. 47 ss.
(11) Tale affermazione è comune a tutta la dottrina, per tutti: E. Loquin, op. ult. cit.,
p. 13, e le citazioni di consonante dottrina e giurisprudenza.
(12) In relazione alla determinazione, affidata ad un terzo, del valore di alcuni beni
provenienti da una successione, la giurisprudenza ha dato due qualificazioni opposte, si
veda: Cass., 2° civ., 7 novembre 1974, in Revue de l’arbitrage 1974, p. 302 ss., con nota
di E. Loquin, per la qualificazione di arbitrato; Cass., 1° civ., 26 octobre 1976, ivi 1977,
p. 337, per quella di arbitraggio. Senza alcuna pretesa di completezza, analoghi contrasti
giurisprudenziali si ritrovano nelle differenti ipotesi di stime e valutazioni del valore di
beni. Nel senso dell’arbitrato: Cass., civ. 2°, 21 juin 1956, in Revue de l’arbitrage 1956,
p.132 ss.; Cass., 15 novembre 1965, in Bull. civ., I, n. 606; App. Paris, 18 décembre
1992, in Revue de l’arbitrage 2001, p. 147. Nel senso dell’arbitraggio: Tr. civ. Seine, 8
février 1956, in Revue de l’arbitrage 1957, p. 85; Cass., com., 8 mai 1961, in Bull. civ.,
III, n. 92, p. 169; Cass., 7 juin 1978, in Revue de l’arbitrage 1979, p. 343. Per l’attuale
674
RIVISTA DI DIRITTO PROCESSUALE
cetto ristretto di arbitrato e di lite ed uno di tipo più ampio, comprendente anche
la risoluzione di un semplice disaccordo tra le parti sulla determinazione di un
prezzo o di un valore (13).
I rapporti tra arbitrato e expertise irrévocable (la perizia contrattuale italiana) comportano minori difficoltà, essendo distinti in base all’oggetto della
missione conferita al terzo: all’arbitro si devolvono questioni di diritto relative
ad una controversia su diritti soggettivi, mentre all’expert delle questioni di mero fatto. Dunque, quando la decisione del terzo riguarda anche le conseguenze
giuridiche dell’analisi dei fatti sottoposti al suo esame, ci troveremo dinanzi ad
una sentenza arbitrale (14).
––––––––––––
tendenza all’allargamento della sfera di operatività dell’arbitraggio: App. Paris, 7 février
2002, in Revue de l’arbitrage 2005, p. 1057, secondo cui il disaccordo relativo al prezzo
constituisce una « question insuffisante pour caractériser un litige sans lequel il n’existe
pas d’arbitrage juridictionnel »; App. Versailles, 1re ch., 4 mars 2004, in Juris-Classeur
Périodique 2005, II, 10017, con nota di C. Noblot; App. Paris, 17 septembre 2004, in
Revue trimestrielle droit commercial 2005, p. 260, con osservazioni critiche di E. Loquin,
che conferisce all’arbitratore il potere di interpretare le clausole contrattuali del relativo
contratto da perfezionare, pur in presenza di un contrasto tra le parti.
(13) Senza poter dar conto delle posizioni di tutta la dottrina in materia, la concezione restrittiva dell’arbitrato è stata difesa principalmente da H. Motulsky, Ecrits. Etudes et notes sur l’arbitrage, Paris 1974, p. 21, secondo cui l’arbitro statuisce su « une
prétention juridique » (definita come « la revendication d’un résultat économique ou
social correspndant au bénéfice d’une règle de droit »), di conseguenza l’atto, con il
quale un terzo procede alla determinazione del prezzo ai fini della perfezione di un contratto, essendo « exclusivement créateur », non è una sentenza arbitrale. Nello stesso senso E. Loquin, Arbitrage. Définition, cit., p. 4; P. Mayer, Note sous Cass., 9 octobre 1984,
in Revue de l’arbitrage 1986, p. 267 ss., spéc. p. 268, secondo cui il semplice disaccordo
su un elemento del contratto non esclude la figura dell’arbitraggio, altrimenti « l’art.
1592 c.c. serait vidé de tout contenu »; L. Cadiet, Arbiter, Arbitrator. Gloses et postgloses sous l’articole 1843-4 du code civil, in Mélanges Y. Guyon, Dalloz 2003, p. 153
ss., spec. p. 158 ss., che distingue tra semplice disaccordo sul prezzo e lite giuridica. Si
pongono a favore di una concezione più ampia dell’arbitrato, idonea a includere anche il
caso in cui le parti siano in disaccordo sul prezzo: C. Jarrosson, La notion d’arbitrage,
cit., p. 168 ss.; Id., Les frontières de l’arbitrage, cit., p. 20, nota 41, che propone anche il
principio di un generale effetto di attrazione da parte dell’arbitrato, affermando che « il
n’est pourtant pas impossible d’imaginer un litige ressortissant à une veritable mission
d’arbitrage, et dont l’objet sera le prix »; D. Cohen, Arbitrage et société, Paris 1993,
p. 152 ss.
(14) Una serie di pronunce sono relative al cosiddetto « compromis médical », ossia
a quella clausola che prevede l’intervento di un medico ai fini della determinazione della
responsabilità dell’eventuale danneggiante. In alcune ipotesi, la giurisprudenza ha fatto
leva sulla circostanza che al terzo-medico era stato affidato anche il compito di determinare le conseguenze giuridiche del fatto illecito, ed ha per tale motivo optato per la qualificazione di arbitrato, così: Cass., 25 mai 1962, in Revue de l’arbitrage 1962, p. 136;
LA NOZIONE E GLI EFFETTI DELLA SENTENZA ARBITRALE ECC.
675
Delimitate le frontiere dell’arbitrato, è necessario occuparsi della distinzione tra sentenze e ordinanze (revocabili e modificabili dagli stessi arbitri). Nel
silenzio della legge sul punto, sono stati elaborati due differenti criteri.
Secondo un criterio di tipo oggettivo, si ritiene che siano ordinanze quegli
atti con i quali gli arbitri si limitano a prendere delle mesures d’administration
judiciaire (relative all’istruzione probatoria e all’organizzazione del procedimento) e, in via residuale, tutti quei provvedimenti che non appartengono alla
categoria di sentenza arbitrale. La nozione di sentenza arbitrale viene, dunque,
circoscritta ai soli atti con cui gli arbitri decidono tutta o una parte della lite o
statuiscono su una questione preliminare di merito o pregiudiziale di rito (accogliendola o rigettandola) (15).
––––––––––––
App. Paris, 20 octobre 1994, ivi 1996, p. 442, con nota favorevole di P. Fouchard. Correlativamente, si è optato per la qualificazione di expertise nelle ipotesi in cui al terzo era
stato solamente domandato di valutare delle circostanze di fatto, senza trarre da queste
delle conseguenze giuridiche: App. Paris, 21 décembre 2000, ivi 2001, p. 178; App. Paris, 14 mars 2002 e App. Paris, 14 octobre 2002, ivi 2005, p. 1059, con nota favorevole di
C. Jarrosson. Ma in senso contrario: TGI Paris, 9 mai 1990, ivi 1990, p. 717, con nota
critica di C. Jarrosson, secondo cui la clausola, con la quale le parti affidano ad un medico l’incarico di fissare il tasso di incapacità, dà luogo ad un arbitrato, « nonobstant le caractère technique du différend ». Il criterio della distinzione tra questioni di fatto e questioni di diritto è accolto anche dalla dottrina: E. Loquin, Arbitrage. Définition, cit., p. 19,
secondo cui l’expert si limita a « fixer de manière définitive des faits » e non trae « des
conséquences juridiques du constat opéré »; C. Jarrosson, La notion d’arbitrage, cit.,
p. 112 ss.; Id., Les frontières de l’arbitrage, cit., p. 31 ss.; Id., Variations autour de la
notion d’arbitrage, cit., p. 1060; C. Seraglini, Chronique, in Juris-Classeur périodique
2003, I, p. 129.
(15) In tal senso: App. Paris, 25 mars 1994, in Revue de l’arbitrage 1994, p. 391, con
nota di C. Jarrosson, secondo cui rientrano nella categoria di « véritables sentences arbitrales ... les actes des arbitres qui tranchent de manière définitive, en tout ou en partie le
litige qui leur a été soumis, que ce soit sur le fond, sur la compétence ou sur un moyen de
procédure qui les conduit à mettre fin à instance ». In senso più specifico e con maggiore
chiarezza, poiché include tra le sentenze anche quelle che hanno la sola idoneità a mettere
fine al procedimento si veda: App. Paris, 10 novembre 1995, ivi 1997, p. 596 ss., con nota
di J. Pellerin, secondo cui sono sentenze arbitrali quelle che statuiscono « de manière définitive ... sur un moyen de procédure tendant à mettre fin à l’instance ». In senso analogo:
App. Paris, 1 juillet 1999, ivi 1999, p. 834, con nota di C. Jarrosson; App. Paris, 4 avril
2002, (Nafimco), ivi 2003, p. 143, con nota di D. Bensuade. In dottrina, per l’accoglimento
del criterio materiale: C. Jarrosson, Note sous App. Paris, 9 juill. 1992, in Revue de
l’arbitrage 1993, p. 303; Id., Sentence arbitrale et « ordonnance de procédure », ivi 1994,
p. 394 ss.; Id., Une décision arbitrale peut en cacher une autre: la requalification d’une
« ordonnance » en sentence et ses conséquences au regard de l’art. 1502 NCPC et du règlement CCI, ivi 1999, p. 841 ss., secondo cui la sentenza arbitrale deve avere ad oggetto
almeno « un point de droit préalable et nécessaire à la solution définitive »; J.-F. Poudret,
S. Besson, Droit comparé de l’arbitrage international, Lousanne 2002, p. 676 ss., un atto è
676
RIVISTA DI DIRITTO PROCESSUALE
Secondo altro orientamento, dovrebbe seguirsi il criterio del carattere giurisdizionale dell’atto, determinato dalla presenza di un contrasto tra le parti circa la soluzione di una questione di procedura. In base a tale criterio più ampio,
si ritiene che la qualificazione di sentenze arbitrali spetti anche a quei provvedimenti con i quali gli arbitri decidono delle « questions de procédure litigieuses entre les parties », sebbene siano atti relativi all’istruzione della causa e allo
svolgimento del procedimento (16).
Infine, alcuni atti, per espressa disposizione legislativa, non possono essere
qualificati come sentenza arbitrale. L’art. 1451 NCPC permette esclusivamente
alle persone fisiche di ricoprire il ruolo di arbitri, mentre le camere arbitrali
possono solamente assumere il ruolo di organizzare il procedimento arbitrale.
Ne deriva la necessaria esclusione dalla categoria di sentenza arbitrale degli atti
delle camere arbitrali (17).
––––––––––––
una sentenza arbitrale quando è potenzialmente idoneo a chiudere il procedimento; P. Fouchard, E. Gaillard, B. Goldman, Traité de l’arbitrage commercial international, cit., p. 750;
D. Bensaude, Clarification de la définition française de la sentence arbitrale internationale,
in Revue de l’arbitrage 2003, p. 160 ss., spec. 162. Per ulteriori approfondimenti sul tema si
rinvia a S. Jarvin, Les décisions de procédure des arbitres peuvent-elles faire l’objet d’un
recours juridictionnel?, ivi 1998, p. 609 ss.
(16) In questo senso: App. Paris, 9 juillet 1992, in Revue arbitrage 1993, p. 303 ss., con
nota critica di C. Jarrosson; App. Paris, 7 juillet 1987, ivi 1988, con nota di E. Mezger; App.
Paris, 15 mars 2001, ivi 2001 p. 606 ss. In dottrina, tale impostazione più ampia è accolta da:
E. Loquin, Arbitrage. La décision arbitrale, fasc. 1046, cit., p. 6, il quale ritiene che l’atto sia
una sentenza arbitrale « dès l’instant que la mesure de procédure est litigieuse entre les
parties et que ce désaccord est tranché par les arbitres »; J.-B. Dubarry, E. Loquin, Qu’estce qu’une sentence?, in Revue trimestrielle de droit commercial 1994, p. 483 ss. Senza poter
entrare, in questa sede, nel problema della qualificazione delle mesures provisoires o conservatoires ordinate dagli arbitri, è opportuno citare App. Paris, 7 octobre 2004, in Journal de
droit international 2005, p. 341 ss., con nota di A. Mourre e P. Pedone, che ha allargato ulteriormente il campo della nozione di sentenza arbitrale, qualificando come sentenza la decisione con la quale un tribunale arbitrale « s’est définitivement prononcé sur la demande de
mesures conservatoires qui lui avait était présentée ». Sulla decisione si veda anche il commento favorevole di T. Clay, Arbitrage et modes alternatifs de règlement des litiges: panorama 2005, in Recueil Dalloz 2005, p. 3050 ss., spec. p. 3062. In argomento si segnala, in
senso contrario: App. Paris, 29 avril 2003, in Revue de l’arbitrage 2003, pp. 1296 ss., con
nota di C. Jarrosson, la quale ha ritenuto che il provvedimento del terzo emanato a conclusione del procedimento di référé pré-arbitrale, di cui al relativo Regolamento della CCI del
1990, esuli dalla nozione di sentenza arbitrale, essendo un atto di natura esclusivamente contrattuale. Su tale ultima decisione si veda la critica di A. Carlevaris, Tutela cautelare « prearbitrale »: natura del procedimento e della decisione, in Riv. arb. 2003, p. 259 ss., spec.
p. 277 ss., il quale è favorevole alla natura arbitrale del procedimento di référé pré-arbitrale,
e alla qualificazione di lodo della relativa decisione.
(17) In tal senso per tutti E. Loquin, Arbitrage. Institutions d’arbitrage, cit., p. 6. In
giurisprudenza: App. Paris, 22 janvier 1982, in Revue de l’arbitrage 1982, p. 91 ss.; TG1
LA NOZIONE E GLI EFFETTI DELLA SENTENZA ARBITRALE ECC.
677
3. – Individuata la nozione di sentenza arbitrale, possiamo occuparci dei suoi
effetti giuridici. Iniziando la nostra indagine dagli effetti nominati, l’art. 1475
estende espressamente alla sentenza arbitrale il principio del dessaisissement in
base al quale l’emanazione della sentenza priva di ogni potere decisorio l’arbitro in
relazione alla domanda o alla questione decisa, salve le eccezioni previste dalla
legge. In virtù della disposizione citata, l’arbitro all’interno dello stesso procedimento arbitrale non può validamente pronunciare una seconda sentenza sulla stessa
controversia o più generalmente sulla stessa questione già decisa, né può modificare o sanare la stessa sentenza pronunciata, pur se la ritiene viziata, dal momento in
cui la decisione acquisisce un valore oggettivo e autonomo per colui che l’ha
emessa (18). In sede arbitrale, la portata del principio del dessaisissement viene,
tuttavia, attenuata da alcuni autori dal momento in cui la regola « n’est pas d’ordre
public et l’arbitrage conserve son caractère contractuel » (19).
––––––––––––
Paris, 28 mars 1984, e App. Paris, 15 mai 1985, ivi 1985, p. 141 ss.; App. Paris, 15 janvier 1985, ivi 1986, p. 87 ss., con nota di E. Mezger; TGI Paris, 8 octobre 1986, ivi 1987,
p. 367 ss.; TGI Paris, 28 janvier 1987, ivi 1987, p. 380 ss.; Cass., civ. 2°, 7 octobre 1987,
ivi 1987, p. 479 ss., con nota di E. Mezger. Per una recente conferma dell’esclusione di
ogni tipo di potere decisionale delle istituzioni arbitrali e del conseguente divieto di interferire nell’attività degli arbitri, si veda Cass, 1° civ., 20 février 2001, (Cubic), ivi 2001,
p. 513 ss., con nota di T. Clay.
(18) Il principio del dessaisissement viene enunciato per i giudici statali all’art. 481
NCPC, secondo cui « le jugement, dès son pronuncé, dessaisit le juge de la contestation
qu’il tranche ». Sull’istituto si veda: J. Vincent, S. Guinchard, Procédure civile, Paris 2003,
p. 234 s., secondo cui il « dessaisissement est une conséquence directe de l’autorité attachée à la chose jugée »; L. Cadiet, Droit judiciaire privé, Paris 2001, p. 625, per il quale la
regola del dessaisissement riguarda l’effetto estintivo e la forza obbligatoria della decisione
nei confronti del giudice stesso, mentre l’autorité de la chose jugée riguarda l’effetto della
sentenza nei confronti delle parti; R. Martin, Jugement sur le fond, in Juris-Classeur proc.
civ., fasc. 550, Paris 2000, p. 2; C. Bléry, L’efficacité substantielle des jugements civils,
Paris 2000, p. 147 ss. Il principio del dessaisissement è stato espressamente previsto in relazione all’istituto dell’arbitrato solo dalla riforma del 1980, tuttavia, sotto l’imperio del codice di rito del 1806, giurisprudenza e dottrina avevano già ritenuto il principio applicabile al
giudizio arbitrale, in tal senso: App. Paris, 3 novembre 1926, in Recueil Dalloz 1926, p. 57.
Per un applicazione del principio del dessaisissement alla sentenza arbitrale si veda Cass., 5
aprile 1994 (Basse), in Revue de l’arbitrage 1995, p. 68 ss. Sul tema in generale si veda lo
studio di B. Moreau, Le prononcé de la sentence arbitrale entraîne-t-il le dessaisissement
de l’arbitre?, in Mélanges J.-F. Poudret, Lausanne 1999, p. 453 ss.
(19) In tal senso J. Robert, L’arbitrage, cit., p. 182, secondo cui, qualora la sentenza
sia stata sottoscritta, ma non ancora portata alla conoscenza delle parti, gli arbitri possono
emanare, all’unanimità, una seconda decisione, potendo, inoltre, sostituire una sentenza già
comunicata, se tutte le parti consultate non si oppongono; nello stesso senso B. Moreau,
Arbitrage en droit interne, cit., p. 42. In senso opposto, M.-C. Rondeau-Rivier, op. ult. cit.,
p. 17, ritiene che per l’emanazione di una seconda sentenza sia necessario che le parti
esprimano la loro concorde volontà, attraverso la conclusione di un nuovo compromesso.
678
RIVISTA DI DIRITTO PROCESSUALE
In forza del richiamo effettuato dall’art. 1475 agli artt. 461-462-463, il principio del dessaisissement subisce delle eccezioni, alcune riferibili sia all’arbitro
che al giudice, mentre altre relative solo al secondo (20). Il nuovo codice, a differenza del precedente (21), conferisce agli arbitri il potere di interpretare la sentenza da loro emanata su domanda congiunta delle parti (simple requête), o di una
sola di queste, con procedimento in contraddittorio, salvo il caso in cui sia stato
proposto appello. Agli arbitri spetta, inoltre, il potere di correggere gli errori e le
omissioni materiali della decisione, nel rispetto del contenuto della sentenza (22).
Gli arbitri, come i giudici statali, hanno il potere di completare la loro missione in
caso di omissione di pronuncia (23). L’art. 1475 non richiama, tuttavia, l’art. 464,
nel quale è disciplinato il ricorso en rectification contro la decisione che abbia
pronunciato su choses non demandées oppure che abbia accordato più di quello
che è stato richiesto dalle parti. In caso di extra petita e ultra petita, quindi, dovrà
essere esercitato l’appello o il recours en annulation (24). Tutti i poteri, prece––––––––––––
(20) Non si estendono all’arbitro neanche quelle deroghe al principio del dessaisissement, enunciate dall’art. 481, comma 1°, in base al quale il giudice « peut rétracter sa
décision en cas d’opposition, de tierce opposition ou de recours en révision ». In realtà,
si ritiene che la possibilità del giudice di riformare la sentenza in caso di esercizio
dell’impugnazione per opposizione, opposizione di terzo e revisione, non costituisca una
deroga alla regola dell’esaurimento del potere decisorio, in quanto nei suddetti casi si
apre un vero e proprio giudizio di impugnazione. Vedi in tal senso L. Cadiet, Droit judiciaire privé, cit., p. 575.
(21) Non espressamente previsto dal codice di rito del 1806, il potere di interpretazione degli arbitri era ammesso in limiti molto stretti, essendo subordinato alla stipulazione di un nuovo compromesso oppure al fatto che il termine per l’emanazione della
sentenza non fosse ancora scaduto, e sempre a condizione che la sentenza arbitrale non
fosse stata impugnata. Vedi, in tal senso, Cass., 2° civ., 22 novembre 1968, in JurisClasseur périodique 1969, II, 15893, con nota di P. Level. Sul tema si rinvia a R. Perrot,
L’interprétation des sentences arbitrales, in Revue de l’arbitrage 1969, p. 7 ss.
(22) Nel silenzio del codice del 1806, la giurisprudenza conferiva agli arbitri il potere di riparare gli errori materiali. Sui limiti al potere di riparazione in sede arbitrale si
veda: Cass., 1° civ., 16 juin 1976, in Revue de l’arbitrage 1977, p. 269 ss., con nota di E.
Mezger; App. Paris, 29 janvier 2002, in Gaz. Pal. 2002, somm., p. 1815, ove si afferma
che « si l’arbitre peut rectifier des erreurs matérielles, il ne peut modifier les droits et
obligations des parties ».
(23) Il codice abrogato prevedeva, al contrario, che l’omissione di pronuncia integrasse un caso di requête civile. Per l’obbligo di far valere tale vizio obbligatoriamente
dinanzi agli arbitri, si veda: App. Angers, 28 septembre 1987, in Revue de l’arbitrage
1988, p. 162 ss.; App. Paris, 4 juin 1992, ivi 1993 p. 449 ss.; App. Paris, 13 novembre
1997, ivi 1998, p. 709; Cass., 2° civ., 7 janvier 1999, ivi 1999, p. 272 ss.; App. Paris, 20
avril 2000, ivi 2001, p. 805.
(24) Sui motivi di tale esclusione si veda J. Robert, La législation nouvelle sur
l’arbitrage, in Recueil Dalloz 1980, chron., p. 189, n. 4; Id., L’arbitrage, cit., p. 186;
Cass., civ. 2°, 14 juin 1984, in Revue de l’ arbitrage 1985, p. 427 ss.
LA NOZIONE E GLI EFFETTI DELLA SENTENZA ARBITRALE ECC.
679
dentemente descritti, in caso di impossibilità di ricostituire il tribunale arbitrale,
divengono di competenza dell’organo giurisdizionale che sarebbe stato competente a conoscere della causa devoluta in arbitrato.
4. – Altro effetto naturale della sentenza arbitrale è costituito dall’idoneità
a produrre l’autorité de la chose jugée, fin dalla sua emanazione, ma, come vedremo, il codice non prevede che la decisione arbitrale acquisisca anche la force
de chose jugée (25). L’art. 1476 deve essere coordinato con l’art. 1486, comma
––––––––––––
(25) Nell’ordinamento processuale civile francese l’autorità della cosa giudicata è un
effetto immediato della sentenza (statale e arbitrale), essendo inerente a quest’ultima fin
dalla sua pronuncia. L’art. 480 stabilisce che « le jugement qui tranche dans son dispositif
tout ou partie du principal, ou celui qui statue sur une exception de procédure, une fin de
non-recevoir ou tout autre incident a, dès son prononce, l’autorité de la chose jugée relativement à la contestation qu’il tranche ». Dal momento in cui la sentenza (statale e arbitrale)
è immediatamente dotata dell’autorità della cosa giudicata, quest’ultima è indipendente
dalla stabilità dell’atto all’interno del processo. Il fenomeno dell’esaurimento dei mezzi di
impugnazione ordinari viene identificato con il concetto di forza di cosa giudicata (art. 500
NCPC, secondo cui « a force de chose jugée le jugement qui n’est susceptible d’aucun recours suspensif d’exécution », ossia un mezzo ordinario di impugnazione). Mentre si considera irrevocabile, la sentenza che non è più soggetta ai mezzi di impugnazione straordinari
(L. Cadiet, Droit judiciaire privé, cit., p. 614, secondo cui la qualificazione di jugement irrévocable è « réservée au jugement insusceptibles de recours »; R. Perrot, N. Fricerio, Autorité de la chose jugée, in Juris-Classeur. proc. civ., fasc. 554, Paris 1998, p. 13). La giurisprudenza (citata da D. Tomasin, Essai sur l’autorité de la chose jugée en matière civile,
Paris 1975, p. 132) ha chiarito quale sia il significato e la portata dell’autorità immediata di
cosa giudicata della sentenza di primo grado, stabilendo che « tant qu’un jugement en premier ressort n’est point attaqué par la voie de l’appel, celui contre qui il a été rendu n’est
pas recevable à élever en justice une prétention contraire à ce qui a été jugé ». L’autorità di
cosa giudicata ha, quindi, un carattere provvisorio, potendo essere rimessa in discussione
con l’esercizio dei mezzi di impugnazione, sia ordinari che straordinari. In tal senso, la stessa legge stabilisce che « l’appel remet la chose jugée en question devant la juridiction
d’appel pour qu’il soit à nouveau statue en fait et en droit. » (art. 561). Si veda sul tema: R.
Martin, D. Mas, Voies de recours - Dispositions communes, in Juris-Classeur proc. civ.,
fasc. 705, Paris 1995, p. 2, i quali sostengono che la « chose jugée est attachée en puissance
au jugement dès qu’il est prononcé, mais qu’elle ne peut être mise en acte que sous reserve
des voies de recours »; R. Perrot, N. Fricerio, op. ult. cit., p. 13; J. Foyer, De l’autorité de la
chose jugée en matière civile. Essai d’une définition, thèse, Paris 1954, p. 193, il quale specifica che « une fois rendu tout jugement est revêtu de l’autorité de la chose jugée qui, cependant, n’a qu’un caractère provisoire, étant l’acte qui la contient soumis aux voies de
recours. L’autorité devient parfaite seulement après l’épuisement des voies de recours ordinaires »; D. Tomasin, op. ult. cit., p. 132; X. Lagarde, Réflexion critique sur le droit de la
preuve, Paris 1994, p. 399, ove si specifica che l’autorità immediata del jugement « ne lie
pas la jurisdiction saisie d’une voie de recours qui a toute liberté pour se prononcer sur le
fond des prétentions dont elle est saisi »; G. Wiederkehr, Chose jugée, in Enc. giur. Dalloz
proc. civ., Paris 2004, p. 32; Id., Autorité de la chose jugée, in Dictionnaire de la justice,
diretto da L. Cadiet, Paris 2004, p. 85 ss.
680
RIVISTA DI DIRITTO PROCESSUALE
2°, ove si prevede l’impugnabilità immediata della sentenza, fin dalla sua emanazione, indipendentemente dall’exequatur (26). Il legislatore del 1980-1981, al
fine di superare i contrasti sorti sotto l’imperio del codice abrogato, ha voluto
consacrare l’opinione della dottrina e dell’ultima giurisprudenza favorevole all’immediata efficacia dell’autorità di cosa giudicata, al fine di rendere impugnabile la sentenza arbitrale, a prescindere dall’exequatur (27). In applicazione
del principio di cui all’art. 1476, la giurisprudenza ha sottratto la sentenza arbitrale alle normali impugnazioni negoziali (28). La cosa giudicata si produce,
––––––––––––
(26) Sul riconoscimento dell’attribuzione immediata alla sentenza arbitrale dell’autorità della cosa giudicata, vedi dopo la riforma dell’arbitrato: App. Paris, 29 avril 1982,
in Revue de l’arbitrage 1983, p. 342; Cass., 2° civ., 19 avril 1985, cit.
(27) Le ragioni dell’introduzione della disposizione, di cui all’art. 1476, derivano dal
fatto che, sotto l’imperio del codice abrogato, la giurisprudenza dominante riteneva che
l’autorità di cosa giudicata della sentenza arbitrale fosse subordinata alla concessione
dell’ordinanza di esecutorietà e che, di conseguenza, l’appello non potesse essere proposto
nei confronti della decisione arbitrale priva di exequatur, si veda: Cass., req., 6 mars 1865,
in Recueil Dalloz 1865, I, p. 249; App. Lyon, 12 janvier 1901, ivi 1903, II, p. 137; Cass., 3
novembre 1936, ivi 1936, p. 569; App. Bordeaux, 1 décembre 1948, ivi 1949, p. 240; App.
Lyon, 2 mai 1955, in Juris-Classuer périodique 1955, IV, p. 171; Cass., sez. com., 22 décembre 1959, in Bull. Civ., III, n. 438; App. Paris, 17 mars 1960, in Juris-Classeur périodique 1961, II, 12329. Una parte della giurisprudenza di merito e la dottrina dominante si erano, invece, espresse favorevolmente all’ammissibilità dell’appello contro la sentenza priva
di exequatur, in tal senso: App. Paris, 18 novembre 1952, in Recueil Dalloz 1952, p. 804;
App. Paris, 14 janvier 1955, ivi 1955, p. 137; App. Paris, 30 octobre 1958, ivi 1958, p. 771
ss.; Hébraud, Chronique, in Revue trimestrielle de droit civil 1960, p. 346 e 712; Id., Chronique, ivi 1961, p. 535; Id., Chronique, ivi 1962, p. 162 e p. 697; H. Motulsky, Note sous
App. Paris, 5 janvier 1961, in Juris-Classeur périodique 1961, II, 12204; P. Level, observations sous App. Paris 6 juillet 1971, ivi 1972, II, 16993; Ryziger, Existe-t-il un lien entre
l’exequatur et l’appel des sentences arbitrales, in Revue de l’arbitrage 1961, p. 210 ss.; R.
Boulbès, Sentence arbitrale, autorité de la chose jugée et ordonnance d’exequatur, in JurisClasseur périodique 1961, I, 1660; Id., L’exequatur des sentences arbitrales. Suggestions
pour une réforme, ivi 1964, I, 1822; J. Rubellin-Devichi, L’arbitrage. Nature juridique,
Paris 1965, p. 326 ss. Successivamente, App. Paris, 6 juillet 1971, in Juris-Classeur périodique 1972, II, 16993, con nota di P. Level, e in Revue de l’arbitrage 1971, p. 119 ss., affermò che « il n’est pas possible de priver les sentences arbitrales de l’autorité de la chose
jugée, que l’article 2052 du Code civil accorde aux simples transactions, cette autorité
permettant à une partie d’opposer à l’autre ce qui a été jugée par les arbitres ... qu’en conséquence, il n’est pas possible de subordonner l’appel des jugements arbitraux à
l’ordonnance d’exequatur ». In seguito, anche la Suprema Corte (Cass., 2° civ., 7 juin 1972,
in Revue de l’arbitrage 1974, p. 91, con nota di Loquin; e Cass. com., 3 février 1981, in
Recueil Dalloz 1981, p. 377, con nota di Derrida) ammise l’impugnabilità della sentenza arbitrale « avant l’ordonnance d’exequatur », senza tuttavia riconoscerle, in maniera esplicita,
l’idoneità a produrre l’autorità della cosa giudicata.
(28) In tal senso: App. Paris, 3 décembre 1981, in Revue de l’arbitrage 1983
LA NOZIONE E GLI EFFETTI DELLA SENTENZA ARBITRALE ECC.
681
naturalmente, solo in relazione a quella parte della domanda decisa, e non riguarda la fissazione degli onorari degli arbitri (29). Inoltre, in relazione alla
sentenza arbitrale la giurisprudenza ha stabilito che l’eccezione di autorità di
cosa giudicata costituisca une fin de non-recevoir non avente carattere di ordine
pubblico, dunque non rilevabile d’ufficio dal giudice (30).
Il legislatore non pone, tuttavia, una netta identità di regime tra sentenza
arbitrale e jugement étatique. Rispetto alle decisioni dei giudici statali l’art. 480
dispone che solo ciò che viene deciso nel dispositivo venga coperto dal giudicato, mentre un’analoga prescrizione non si rinviene all’interno dell’art.
1476 (31). Tale differente formulazione normativa non è sfuggita alla giuri-
––––––––––––
p. 210, che ha negato che la mancata esecuzione di una sentenza arbitrale potesse dar
luogo ad un’azione di risoluzione contrattuale, nè che possano essere oggetto di una tale
azione contrattuale i contratti oggetto della sentenza arbitrale. Sotto il codice di rito abrogato: Cass., req., 31 mai 1902, in Recueil Dalloz 1902, I, p. 351, ha negato che la sentenza arbitrale potesse essere oggetto di un’azione di rescissione contrattuale per lesione.
(29) Nel senso che l’autorità di cosa giudicata non riguarda la fissazione degli onorari degli arbitri, si veda: Cass., 2° civ., 28 octobre 1987, in Revue de l’arbitrage 1988,
p. 149, con nota di Jarrosson; App. Paris, 18 décembre 1996, ivi 1998, p. 121, con nota di
C. Jarrosson.
(30) Così: Cass., soc., 19 mars 1981, in Revue de l’arbitrage 1982, p. 44 ss., ma
relativa a una sentenza emanata dalla Commissione arbitrale dei giornalisti, che costituisce un’ipotesi di arbitrato obbligatorio; App. Paris, 21 mars 1991, ivi 1993, p. 94 ss.,
sempre in relazione alla Commissione arbitrale dei giornalisti, che rigetta l’impugnazione
proposta in ragione del fatto che la sentenza impugnata non era stata resa in « violation
d’une règle d’ordre public, à savoir le respect de l’autorité de la chose jugée »; App.
Paris, 9 juin 1983, ivi 1983, p. 497. Anche in relazione ai jugements étatiques, la giurisprudenza era ferma nel ritenere il carattere privato dell’eccezione di cosa giudicata, tra
le tante pronunce: Cass., 3° civ., 20 mai 1992, in Bull. civ., III, n. 159; Cass., 2° civ., 4
décembre 2003, in Bull. civ., II, n. 365. Mentre il giudicato interno e su diritti indisponibili è considerato rilevabile d’ufficio dal giudice, si rinvia: Cass., 2° civ., 28 mars 1979,
in Bull. civ., II, n. 96; Cass., 19 mai 1976, in Juris-Classeur périodique 1976, IV, 227;
Cass., 1° civ., 29 octobre 1990, ivi 1990, IV, 424. La soluzione adottata in materia dalla
giurisprudenza è stata smentita dal legislatore con il decreto n. 2004-836, che ha inserito
all’interno della categoria della fin de non-recevoir, che il giudice ha facoltà (ma non
l’obbligo) di rilevare d’ufficio, anche la chose jugée, oltre al défaut de qualité. Sul decreto n. 2004-836 si vedano: R. Perrot, H. Croze, Fin de vacances pour la procédure: le
décret du 20 août 2004 fait sa rentrée, in Juris-Classeur périodique-Procédure octobre
2004, p. 3; G. Wiederkehr, Chose jugée, cit., p. 35; N. Fricerio, Le jugement, in AA.VV.,
a cura di S. Guinchard, Droit et pratique de la procédure civile, Paris 2005-2006, p. 787
ss. In conseguenza della riforma del 2004, giurisprudenza e dottrina dovranno occuparsi
del problema se anche la fin de non-recevoir relativa all’autorità di cosa giudicata della
sentenza arbitrale sia rilevabile d’ufficio dal giudice, al pari di quella relativa alla sentenza statale.
(31) Analogamente, l’art. 455 stabilisce che il giudice statale debba enunciare la
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RIVISTA DI DIRITTO PROCESSUALE
sprudenza, la quale non ha mancato di sottolineare che la soluzione della lite,
oggetto dell’autorità della cosa giudicata, non deve essere necessariamente
contenuta nel dispositivo della sentenza arbitrale, purchè quest’ultima enunci
chiaramente la soluzione adottata (32). Il legislatore ha adottato, quindi, delle
prescrizioni meno rigorose per la forma della sentenza arbitrale, in ragione della
sua origine contrattuale (33).
Per ciò che riguarda gli effetti della sentenza arbitrale nei confronti dei terzi (l’opposabilité), in questa sede, possiamo solamente accennare ad alcuni problemi sorti in materia di garanzia (34). Secondo la teoria francese della rappresentazione processuale, se viene ritenuto, per ovvie ragioni, che la sentenza arbitrale, contenente la condanna del debitore principale, non potrà essere direttamente utilizzata dal creditore contro il garante, terzo rispetto alla sentenza, si
afferma che tale decisione potrà essere posta alla base di un nuovo giudizio nei
confronti di quest’ultimo. In virtù dell’efficacia riflessa della decisione, nell’ambito del secondo giudizio instaurato dal creditore, il garante potrà sollevare
esclusivamente eccezioni personali, ma non potrà ridiscutere l’esistenza del
rapporto di debito principale, da cui dipende l’esistenza del rapporto dipendente
di garanzia (35).
––––––––––––
propria decisione « sous forme de dispositif », mentre tale prescrizione non si rinviene
nell’art. 1471.
(32) In tal senso Cass., 2° civ., 25 mars 1999, in Rev. arb. 1999, p. 311, con nota di
J.-B. Racine.
(33) In tal senso J.-B. Racine, Note sous Cass., 25 mars 1999, in Rev. arb. 1999, p.
312 ss., il quale fa notare che la forma della sentenza è « légèrement assouplie ».
(34) Nel diritto francese il fenomeno dell’efficacia ultra partes della sentenza (giurisdizionale e arbitrale) viene denominato opposabilité. Sul tema, tra i tanti, si veda: E.
Loquin, Arbitrage et cautionnemment, in Revue de l’arbitrage 1994, secondo cui
« l’autorité de la chose jugée assure l’immutabilité du jugement entre les parties, alors
que l’opposabilité étend le rayonnement de la décision dans le milieu juridique, en imposant la situation juridique née du jugement aux tiers »; C. Blery, L’efficacité substantielle
des jugements civils, cit., p. 360, secondo cui il termine opposabilité è sinonimo di quello
di effet indirect.
(35) In questi termini, rispetto all’arbitrato, App. Paris, 4 janvier 1960, in Revue de
l’arbitrage 1960, p. 122 ss., secondo cui la sentenza arbitrale costituisce « une donnée de
fait » che, avuto riguardo alla qualità dell’arbitro e in mancanza di serie contestazioni sulle
attestazioni contenute nella decisione, permette di condannare il garante al pagamento degli
stessi danni e interessi cui è stato condannato il debitore principale con sentenza arbitrale;
nello stesso senso App. Paris, 21 mai 1964, in Recueil Dalloz 1964, p. 602 ss. Per altre ipotesi: Cass., 1° civ., 10 mai 1988, in Revue de l’arbitrage 1989, p. 51 ss., sull’estensione
dell’efficacia della sentenza arbitrale, in quanto emanata a favore di un terzo; App. Paris, 15
décembre 2004, in Gaz. Pal. 22 octobre 2005, n. 295, sommaire, p. 40, secondo cui la sentenza arbitrale è opponibile al bailleur. Per alcuni casi di non estensione dell’efficacia della sentenza arbitrale nei confronti dei terzi: Cass., 2° civ., 8 juillet 1975, in Revue de l’arbitrage
LA NOZIONE E GLI EFFETTI DELLA SENTENZA ARBITRALE ECC.
683
Posto il principio dell’opponibilità della sentenza arbitrale, si nega, tuttavia, che il terzo abbia nei confronti di tale atto gli stessi strumenti di difesa che,
invece, gli spettano rispetto alla sentenza statale. In primo luogo, è lo stesso legislatore francese a prevedere che solo la sentenza arbitrale interna sia impugnabile con l’opposizione di terzo, ma non anche quella internazionale (36).
Inoltre, in conseguenza del carattere relativo della convenzione arbitrale e dell’origine contrattuale dell’arbitrato, giurisprudenza e dottrina ritengono inammissibile l’intervento volontario dei terzi (non soggetti all’efficacia del patto
compromissorio), salvo il consenso delle parti originarie. Naturalmente viene
esclusa la configurabilità di qualsiasi tipo di intervento coatto (37). Se il negare
la possibilità di intervenire in via innovativa (intervention principal, di cui
all’art. 329), deve essere approvata, alcuni dubbi crea la netta esclusione dell’intervento adesivo dipendente (intervention accessoire, di cui all’art. 330) del
terzo destinato a risentire dell’efficacia ultra partes della sentenza arbitrale,
sempre che si voglia accettare l’idea che la sentence arbitrale abbia la stessa
efficacia riflessa del jugement étatique. Lampante, in tale ipotesi, si dimostra
essere il trattamento che la giurisprudenza francese riserva al garante, che deve
risentire dell’efficacia della sentenza emanata tra creditore e debitore principale,
senza avere la facoltà di intervenire volontariamente nel corso del giudizio arbitrale, essendogli concesso esclusivamente il potere di proporre opposizione di
terzo in caso di frode tra le parti a suo danno, a norma dell’art. 576.
5. – Se il codice prevede che la sentenza arbitrale produca l’autorité de la
––––––––––––
1977, p. 123, secondo cui la sentenza emanata nei confronti di una società non può spiegare
effetti nei confronti dei soci; Cass., com., 9 janvier 1979, ivi 1979, p. 478 ss. In dottrina si
veda: E. Loquin, Arbitrage et cautionnement, cit., p. 247 ss.; Bigot, Arbitrage et assurance
sous l’angle du droit français, in ICC. Pub., suppl. spec. 2000, p. 39 ss.
(36) In tal senso depone l’art. 1507 NCPC, su cui si rinvia alle critiche espresse da
E. Loquin, Les voies de recours, in Revue de l’arbitrage 1992, p. 321 ss.
(37) Così: M. de Boisséson, Le droit français de l’arbitrage, Paris 1990, p. 246; H.
Solus, R. Perrot, Droit judiciaire privè, Paris 1991, vol. III, p. 889; C. Jarrosson, La notion
d’arbitrage, cit., p. 105; Id., Réflexions sur l’imperium, in Mélanges Bellet, Paris 1991,
p. 245; Id., Note sous App. Paris, 27 février 1997, in Revue de l’arbitrage 1998, p. 159 s.; E.
Loquin, Arbitrage et cautionnement, cit., p. 247 ss.; P. Level, La jonction de procédures, intervention de tiers et demandes additionnelles et reconventionnelles, in Bull. ICC 1996, vol.
7, n. 2, p. 36, T. Clay, L’arbitre, cit., p. 179; J.F. Poudret, M. Besson, Droit comparé de
l’arbitrage, cit., p. 210; App. Paris, 19 décembre 1986, in Revue de l’arbitrage 1987, p. 359
ss.; App. Paris, 5 avril 1990, in Recueil Dalloz 1990, Inf. Rap., p. 116 ss.; App. Paris, 27
février 1997, in Revue de l’arbitrage 1998, p. 159, con nota di C. Jarrosson, secondo cui « ni
l’intervention volontaire ni l’intervention forcée sont compatibles avec la nature contractuelle de l’arbitrage »; App. Paris, 8 mars 2001, ivi 2001, p. 567, con nota di C. Legros.
Mentre per l’ammissibilità del solo intervento adesivo dipendente (intervention accessoire) si
pone A. Mourre, L’intervention de tiers à l’arbitrage, in Gaz. Pal. 2001, p. 640 ss.
684
RIVISTA DI DIRITTO PROCESSUALE
chose jugée, tace circa la sua idoneità a produrre la force de chose jugée. L’art.
1486 stabilisce solamente che l’appello o l’impugnazione per nullità possano
essere esercitati fin dalla pronuncia della sentenza e che non sono più proponibili trascorso un mese dalla notificazione della sentenza munita di exequatur
(art. 1486). Mentre all’interno dell’art. 528-1 NCPC (ove è previsto il termine
lungo per l’esercizio dei gravami contro le sentenze statali) non viene fatto alcun riferimento alle sentenze arbitrali (38). Ne deriva che in mancanza
dell’exequatur e della successiva notificazione della decisione arbitrale, quest’ultima potrà essere impugnata secondo i normali termini previsti per gli atti
negoziali, ossia trenta anni (art. 2262 CC). Infatti, non sarebbe agevole supporre
un’applicazione analogica dell’art. 528-1 alla sentenza arbitrale, poichè tale disposizione si riferisce esclusivamente ai jugements, termine che il legislatore
francese riserva alle sole decisioni dei giudici appartenenti all’organizzazione
giudiziaria statale. Inoltre, sebbene l’art. 1487 stabilisca che l’appello e il recours en annulation debbano essere proposti, istruiti e giudicati secondo le regole relative alla procedura contenziosa dinanzi alla corte d’appello (artt. 899949), manca pur sempre il richiamo alle disposizioni sulle impugnazioni in generale (artt. 528-537), le quali, facendo parte del primo libro del codice sono
applicabili esclusivamente alle giurisdizioni appartenti all’ordine giudiziario
(art. 749), ma non al procedimento arbitrale.
Di fronte al dato normativo degli artt. 1486 e 528-1 del NCPC, la Corte di
Cassazione ha espressamente stabilito l’inapplicabilità del termine lungo alle
sentenze arbitrali, annullando due pronunce delle corti di merito che avevano
dato una soluzione opposta (39). Successivamente anche la giurisprudenza di
merito si è allineata alla posizione della Cassazione, come è accaduto a proposito di una recente decisione con la quale la Corte d’appello di Parigi ha rigettato un recours en révision, data la possibilità di proporre il ricorso in annullamento, essendosi proceduto alla notificazione della sentenza arbitrale non rive-
––––––––––––
(38) Bisogna ricordare, a tali fini, che la previsione di un termine lungo per
l’esercizio delle impugnazioni delle sentenze statali si deve alla riforma del 1989 (décret
n. 89-511 du 20 juillet 1989), con la quale si è inserito nel codice di rito l’art. 528-1, secondo cui « si le jugement n’a pas été notifié dans le délai de deux ans de son prononcé,
la partie qui a comparu n’est plus recevable à exercer un recours à titre principal après
l’expiration dudit délai ». Sull’art. 528-1 si veda: L. Cadiet, Droit judiciaire privé, cit.,
p. 579, nota 41; Cass. 2° civ., 30 janvier 2003, in Bull. civ., II, n. 23 e in Juris-Classeur
périodique 2003, I, 128, n. 20, con osservazioni di L. Cadiet.
(39) Si tratta di: Cass, civ. 2°, 18 octobre 2001, in Revue de l’arbitrage 2002,
p. 157, con nota di P. Pinsolle, la quale molto chiaramente afferma che « les dispositions
de l’article 528-1 NCPC ne s’appliquent pas aux sentences arbitrales »; Cass., civ. 2°, 15
février 1995, ivi 1996, p. 223, con nota di B. Moreau, secondo cui « le délai pour former
appel contre une sentence arbitrale ne cesse à l’expiration du mois suivant la signification de la sentence que si cette sentence est revêtue de l’exequatur ».
LA NOZIONE E GLI EFFETTI DELLA SENTENZA ARBITRALE ECC.
685
stita dell’exequatur (40). Non avendo acquisito il carattere dell’irrevocabilità, è
chiaro che la decisione arbitrale non possa essere impugnata con un mezzo (il
recours en révision) che tende per la stessa definizione legislativa a « faire rétracter un jugement passé en force de chose jugée pour qu’il soit à nouveau
statué en fait et en droit » (art. 593 NCPC).
Di fronte alla chiarezza del dato normativo, a parte alcune eccezioni, nella
dottrina non si ritrova un orientamento favorevole all’applicazione analogica
dell’art. 528-1 alle sentenze arbitrali. Gli autori sono al riguardo divisi tra coloro che considerano tale deroga come ingiustificata, data la natura di atto giurisdizionale in senso lato della decisione arbitrale, e altri che legano la possibilità
dell’impugnabilità secondo il termine trentennale al carattere privato dell’atto in
discorso. In quest’ultima direzione, si riconosce che esistono alcuni attributi, tra
cui la capacità di acquisire il carattere di irrevocabilità, che appartengono alle
sole decisioni statali e che, pertanto, non sono riconducibili alla sentenza arbitrale, se non in presenza di un’espressa disposizione in tal senso. Al contrario,
coloro i quali sostengono che la decisione arbitrale abbia pienamente il carattere
di atto giurisdizionale ritengono che sia più logico prevedere, anche per la sentenza arbitrale, il termine lungo per impugnare (41).
Dall’analisi del diritto francese dell’arbitrato si deve, quindi, dedurre che
––––––––––––
(40) App. Paris, 25 octobre 2001, in Recuil Dalloz 2001, Inf. Rap., p. 3488, e in Revue
trimestrielle de droit commercial 2002, p. 41, con osservazioni di J.B. Dubarry, E. Loquin.
(41) In senso favorevole alla soluzione del codice vedi in particolare B. Moreau, La
signification des sentences arbitrales, note sous Cass., civ. 2°, 15 février 1995, in Revue
de l’arbitrage 1996, p. 46 ss., spec. p. 49, secondo cui gli « attributi del jugement », derivanti dal carattere di atto di un pubblico magistrato, non possono essere estesi alla sentenza arbitrale, come accade per la regola della « péremption du recours à titre principal
prévu par l’article 528-1 NCPC ... propre à l’organisation judiciaire ». Nello senso P.
Pinsolle, L’inapplicabilité de l’article 528-1 NCPC aux sentences arbitrales: une nouvelle illustration de la conception française du rôle du siège de l’arbitrage, note sous
Cass., civ. 2°, 18 octobre 2001, ivi 2002, p. 157. Mentre si pongono in senso critico J.B.
Dubarry, E. Loquin, Le point de départ du délai de l’article 1486, al. 2 NCPC, in Revue
trimestrielle de droit commercial 1995, p. 587, secondo cui, logicamente, niente dovrebbe vietare che la sola notificazione della sentenza arbitrale, pur non dotata di exequatur,
possa far decorrere il termine breve per l’impugnazione. Solo J. Mestre, Observations, in
Dr. et patrimoine juill.-août 2002, p. 111 s., ritiene che dall’analisi complessiva degli
articoli relativi all’impugnazione della sentenza arbitrale, e in particolare dall’art. 1487, si
potrebbe dedurre che anche alla decisione arbitrale vada applicato il termine lungo.
Mentre dà per scontata l’interpretazione adottata dalla giurisprudenza L. Cadiet, Observations, in Juris-Classeur périodique 2002, I, p. 824, secondo cui « de lege data la solution s’impose », riconoscendo che « de lege referenda, c’est une affaire dont il est permis
de discuter, tout comme il est permis de se demander s’il ne conviendrait pas, aujourd’hui, de supprimer la disposition de l’art. 749 », relativo alla limitazione dell’applicazione del primo libro del codice alle giurisdizioni dell’ordine giudiziario.
686
RIVISTA DI DIRITTO PROCESSUALE
in tale ordinamento l’exequatur gioca un ruolo essenziale ai fini dell’inattaccabilità della decisione arbitrale, visto che quest’ultima, se priva del provvedimento del tribunal de grande instance, non può acquisire una vera e propria
stabilità (42). In altre parole, l’irrevocabilità della sentenza arbitrale viene, da
un lato, lasciata alla libera disponibilità delle parti, non essendo imposta direttamente dall’ordinamento come per i jugements, e, dall’altro lato, è comunque
subordinata ad un controllo giurisdizionale.
6. – Oltre agli effetti naturali espressamente previsti dalla legge, dottrina e
giurisprudenza ritengono che la sentenza arbitrale sia idonea a produrne ulteriori. Tra gli effetti naturali innominati ritroviamo la force probante absolue della
sentenza, consistente nella sua idoneità a porsi come atto autentico (acte
authentique), da cui la possibilità di contestare la veridicità delle affermazioni
in essa contenute esclusivamente con la procedura di inscription de faux (artt.
303-316 NCPC). Tale force probante absolue non è illimitata, riguardando le
sole attestazioni relative ai fatti svoltisi nel corso del procedimento alla presenza degli arbitri (43). Infatti, in conseguenza del carattere contrattuale dell’ar––––––––––––
(42) Bisogna, pur sempre, notare che il controllo della sentenza arbitrale in sede di
exequatur è alquanto limitato. Sul punto: Cass., 2° civ., 17 juin 1971, ivi 1972, p. 10, secondo cui il ruolo del giudice, ai fini del conferimento dell’exequatur, « est strictement
limité », poiché questi non può rifiutare l’emanazione del relativo provvedimento che nel
caso in cui « l’acte qui lui est soumis n’a pas un caractère contentieux et ne constitue pas
une sentence arbitrale, ou si ses disposition sont contraires à l’ordre public »; App. Paris, 11 juillet 1978, ivi 1978, p. 538. Sulla questione si rinvia a J. Rubellin-Devichi,
L’arbitrage, nature juridique, cit., p. 309 ss.; M.-C. Rondeau-Rivier, L’arbitrage. Sentence arbitrale, fasc. 1042, cit., p. 24 ss.; M. de Boisséson, Le droit français de
l’arbitrage, cit., p. 333.
(43) Sulla force probante absolue della sentenza arbitrale si veda, in giurisprudenza: Cass., req., 7 janvier 1857, in Recueil Dalloz 1857, 1, p. 406; App. Poitiers, 15 juin
1937, in D.H. 1937, p. 402 ss., circa la sede dell’arbitrato; App. Paris, 30 mars 1962, in
Juris-Classeur périodique 1962, II, 12843, con nota di P. Level, sulla proposizione di una
domanda riconvenzionale e sulla partecipazione al contraddittorio degli avvocati; App.
Aix, 16 octobre 1962, ivi 1962, p. 144 ss., sulla data della sentenza; TGI Lille, 21 octobre
1966, ivi 1967, IV, p. 149, sull’accordo delle parti sulla sostituzione dell’arbitro; Cass.,
2° civ., 16 février 1972, in Revue de l’arbitrage 1972, p. 123 ss., con nota di J. RubellinDevichi; Cass., 1° civ., 18 novembre 1983, ivi 1987, p. 77 ss.; Cass., 2° civ., 12 décembre
1990, ivi 1991, p. 317 ss., con nota di P. Théry, sulle enunciazioni della sentenza relative
all’audizione delle parti; App. Paris, 25 février 1994, ivi 1995, p. 129 ss., con nota di P.
Véron, in relazione al deposito di documenti nel corso del procedimento, ove si afferma
chiaramente che « la sentence fait foi jusqu’à inscrition de faux de ses énunciation relatives au déroulement de la procédure »; App. Paris, 10 mars 1995, ivi 1996, p. 143 ss., con
nota di Y. Derains; App. Paris, 30 mai 1996, ivi 1996, p. 533 ss., con nota di L. Kiffer;
App. Paris, 26 octobre 2000, ivi 2001, p. 203, sull’accordo delle parti per la proroga del
termine per la pronuncia della sentenza.
LA NOZIONE E GLI EFFETTI DELLA SENTENZA ARBITRALE ECC.
687
bitrato, viene escluso che gli arbitri possano autoaccertare il fondamento del
loro potere, né la loro partecipazione alla deliberazione della sentenza (44).
La dottrina si affatica a trovare una giustificazione teorica al carattere di
prova legale della sentenza arbitrale, vista la correlazione posta dall’art. 1317
del Code civil tra l’autenticità dell’atto e la qualità di pubblico ufficiale (non
posseduta dagli arbitri). La ragione della pubblica fede viene, dunque, rinvenuta
nell’idoneità all’autorità di cosa giudicata della decisione arbitrale o, più semplicemente, in un’esigenza di carattere essenzialmente pratico (45).
Altro effetto innominato è costituito dall’idoneità dell’atto arbitrale a porsi
come décision de justice, ai sensi dell’art. 68 della legge del 1991 sulla
procédure civile d’exécution, in base al quale il creditore può ottenere una
mesure conservatoire sui beni del debitore senza l’autorizzazione preliminare
del giudice, nel caso in cui sia fornito di « un titre exécutoire ou d’une décision
de justice qui n’a pas encore force exécutoire ». La giurisprudenza di merito,
––––––––––––
(44) In tal senso: Tr. Seine, 24 avril 1952, in Gaz. Pal. 1952, I, p. 407 ss., ove si afferma che « les seules énonciations d’une sentence ne peuvent faire foi d’un compromis »; App. Paris, 20 juin 1957, in Recueil Dalloz 1958, p. 374; App. Paris, 18 novembre
1952, in Juris-Classuer périodique 1953, II, 17470, secondo cui l’attestazione della partecipazione di alcuni arbitri « aux débat de la cause » non è coperta da pubblica fede;
App. Paris, 18 octobre 2001, in Revue trimestrielle de droit commercial 2002, p. 44.
(45) Per questi motivi, la dottrina esprime dei dubbi sul fondamento e sull’ampiezza della force probante absolue, si veda: P. Théry, Note sous Cass., 12 déc. 1990, in
Revue de l’arbitrage 1991, p. 318 ss., spec. p. 324 s., secondo cui il fondamento dell’autenticità dell’atto va ricercata nell’esigenza pratica della « confiance des parties, qui fait
la base de l’arbitrage »; P. Véron, Note sous App. Paris 25 février 1994, ivi 1995, p. 129
ss., il quale ammette che sia difficile trovare il fondamento teorico del carattere di atto
autentico della sentenza arbitrale, e data la sua rilevanza pratica auspica che gli arbitri
facciano un buon uso del loro potere di attestazioni dei fatti avvenuti nel corso del procedimento; L. Kiffer, Note sous App. Paris 30 mai 1995, ivi 1996, p. 534 s., che ritiene come sia poco giustificabile il carattere di autenticità della sentenza arbitrale, visto che né la
natura dell’arbitrato, né la qualità soggettiva dell’arbitro, porterebbero a conferire tale
attributo all’atto; H.-J. Nougein, Y. Reinhard, P. Ancel, M.-C. Rivier, A. Boyer, P. Genin, Guide pratique de l’arbitrage et de la mediation commercial, Paris 2004, p. 65, secondo cui « il a toujours été assez difficile d’expliquer » la force probante absolue « dès
lors que l’arbitre est un juge privé ». Non a caso una parte della dottrina più risalente
dubitava della pubblica fede della decisione arbitrale, si veda: Hébraud, Raynaud, Chronique de procédure civile, in Revue trimestrielle de droit civil 1962, p. 687 ss., spec. p.
693, i quali affermano che, non essendo rinvenibile all’interno del sistema « une identification complète » della sentenza arbitrale al jugement, la force probante absolue deve
essere limitata al solo dispositivo della sentenza dotata di exequatur. Tra le altre giustificazioni: R. Perrot, in H. Solus, R. Perrot, Droit judiciare privé, vol. III, Paris 1991,
n. 690, secondo cui l’autenticità della sentenza arbitrale deriva dalla produzione dell’autorità di cosa giudicata; M. de Boisséson, Le droit français de l’arbitrage, cit., p. 330, si
richiama alla circostanza che gli arbitri esercitano una funzione giurisdizionale.
688
RIVISTA DI DIRITTO PROCESSUALE
dopo aver inizialmente negato alla sentenza arbitrale la natura di décision de
justice, ha successivamente optato per la soluzione positiva (46). L’idoneità
della sentenza arbitrale a porsi come titolo per ottenere una mesure conservatoire è, ugualmente, controversa in dottrina, anche se prevale la soluzione positiva (47). Si è, invece, escluso che la sentenza arbitrale, anche se munita di
exequatur, rientri nella categoria della décision de justice, di cui all’art. 61,
della legge sulla procédure civile d’exécution, relativo ai titoli idonei a legittimare l’espulsione e l’evacuazione di un immobile (48).
Infine, un ulteriore effetto dei jugements di condanna è costituito dalla
produzione di interessi moratori, di cui all’art. 1153 Code civil. Se la giurisprudenza ha generalmente ritenuto applicabile alle sentenze arbitrali la citata disposizione, incontrando le critiche di una parte della dottrina, una recente decisione della Corte d’appello di Parigi ne ha escluso l’applicabilità (49).
––––––––––––
(46) Per la soluzione negativa: TGI Lyon, 25 janvier 1994, in Revue de l’arbitrage
1994, p. 525 ss., con nota contraria di M.-C. Rondeau-Rivier, ove si afferma che, ai fini
dell’art. 68 della legge sull’esecuzione forzata « une décision de justice ... est celle qui
émane d’une autorité judiciaire, ce qui n’est pas le cas d’une sentence arbitrale, même
rendue exécutoire ». Per la soluzione affermativa TGI Chaumont, 31 janvier 2001, secondo cui nella formula décision de justice rientrano tutti gli actes juridictionnels, anche
provenienti da un « juge prive », come la sentence arbitrale; confermata da App. Dijon,
23 avril 2002, entrambe in Revue de l’arbitrage 2002, p. 743 ss., con nota favorevole di
M.-C. Rivier. Ugualmente per la soluzione affermativa, ma anteriormente all’entrata in
vigore della legge sull’esecuzione del 1991, si veda: TGI Paris, 22 novembre 1989, ivi
1990, p. 693 ss.; App. Paris, 9 juillet 1992, ivi 1994, p. 133 ss.
(47) In senso favorevole: R. Perrot, P. Théry, Procédure civiles d’exécution, Paris
2005, p. 790 ss.; R. Perrot, L’arbitrage, une autre justice?, cit., p. 38; P. Théry, Quelques
observations à propos de la loi du 9 juillet 1991 portant réforme des procédures civiles
d’exécution, in Revue de l’arbitrage 1991, p. 727 ss.; Id., Les procédures civiles d’exécution
et le droit de l’arbitrage, ivi 1993, p. 157 ss.; H.-J. Nougein, Y. Reinhard, P. Ancel, M.-C.
Rivier, A. Boyer, P. Genin, Guide pratique de l’arbitrage et de la médiation commercial, cit.,
p. 64. In senso contrario: T. Fossier, Les mesures conservatoires, in AA.VV., a cura di S.
Guinchard, T. Moussa, Droit et pratique des voies d’exécution, Paris 2004/2005, p. 376, il
quale afferma che la sentenza arbitrale è « étrangère à la notion de décision de justice, puisque émanée de juges privés »; F. Ruellan, Les titres autorisant les mesures conservatoires,
ivi, p. 56. Si ricorda che la possibilità di ottenere una mesure conservatoire è ugualmente
concessa al creditore sulla base di titoli esecutivi stragiudiziali, quali una lettre de change
acceptée, un billet à ordre, un chèque o « un loyer resté impayé dès lors qu’il résulte d’un
contrat écrit de louage d’immeubles » (art. 68 legge 1991 sull’esecuzione civile).
(48) Così TGI Paris, 30 janvier 1997, in Revue des huissiers 1997, p. 1002 ss.
(49) Secondo l’art. 1153 CC « en toute matière, la condamnation à une indemnité
emporte intérêts au taux légal même en l’absence de demande ou de disposition spéciale du
jugement. Sauf disposition contraire de la loi, ces intérêts courent à compter du prononcé
du jugement à moins que le juge n’en décide autrement ». Per l’applicabilità della disposizione alla sentenza arbitrale: App. Paris, 19 avril 1991, Revue de l’arbitrage 1991, p. 673,
LA NOZIONE E GLI EFFETTI DELLA SENTENZA ARBITRALE ECC.
689
7. – Nel diritto francese, sentence arbitrale e jugement étatique sembrano
avere, dunque, un regime e degli effetti analoghi (50). Infatti, la sentenza arbi––––––––––––
con nota di E. Loquin; App. Paris, 18 janvier 2001, ivi 2002, p. 935 ss., con nota di E. Jeuland, ove si motiva in base alla natura di décision juridictionnelle della sentenza arbitrale;
App. Paris, 6 novembre 2003, ivi 2004, p. 631, con nota di D. Bensaude; App. Paris, 25
mars 2004, ivi 2004, p. 671, con nota critica di J. Ortscheidt; Cass., 30 juin 2004, 1° civ., ivi
2005, p. 646, con nota di R. Libchaber. Al contrario, per la non applicabilità: App. Paris, 30
juin 2005, in Gaz. Pal. 22 octobre 2005, n. 295, sommaires de jurisprudence, p. 45, nel presupposto che vi sia « une différence entre l’exercice de la fonction de juger par un juge étatique et par un arbitre dont la juridiction a une origine conventionnelle ». Nello stesso
senso, in dottrina, T. Clay, France, terre d’asile de sentences non exècutèes, in Recueil
Dalloz 2004, sommaires, p. 3185, il quale fa notare come sia più logico far decorrere gli
interessi dal giorno dell’emanazione dell’exequatur o dal giorno della relativa istanza.
(50) In tal senso C. Punzi, Relazioni fra l’arbitrato e le altre forme non giurisdizionali
di soluzione delle liti, in Riv. arb. 2003, p. 385 ss., spec. p. 394. Nel senso che la sentenza
arbitrale francese abbia effetti equivalenti a quelli del jugement étatique, si veda nella dottrina italiana: E.F. Ricci, La « natura » dell’arbitrato rituale e del relativo lodo: parlano le
Sezioni Unite, in Riv. dir. proc. 2001, p. 254 ss., spec. p. 264; Id., « La funzione giudicante » degli arbitri e l’efficacia del lodo (Un grand arrêt della Corte Costituzionale), in Riv.
dir. proc. 2002, p. 351 ss., spec. p. 358; G. Tarzia, Conflitti tra lodi arbitrali e conflitti tra
lodi e sentenze, in Riv. dir. proc. 1994, p. 631 ss., spec. p. 639; V. Vigoriti, Verso un diritto
comune dell’arbitrato, in Foro it. 1994, V, c. 217 ss.; N. Rascio, « Immodificabilità » del
lodo rituale ed efficacia esecutiva, in Riv. arb. 1997, p. 275 ss., spec. p. 283; M. Marinelli,
Le Sezioni Unite fanno davvero chiarezza sui rapporti tra arbitrato e giurisdizione?, in
Corr. giur. 2001, p. 64 ss. Non sempre nella dottrina straniera si afferma la completa identità di effetti tra sentence arbitrale e jugement étatique. Per un breve panorama della dottrina si veda: R. Perrot, L’arbitrage, une autre justice, cit., p. 37, il quale, da un lato, afferma
che la sentenza arbitrale « a une consistance juridictionnelle immédiate, comme un jugement ordinaire peut avoir », ma, dall’altro lato, ritiene che « que la décision rendue par des
arbitres se distingue du jugement à plusieurs points de vue »; M.-C. Rondeau-Rivier, Arbitrage. La sentence arbitrale, cit, p. 1, secondo cui la sentenza arbitrale è « un acte de juridiction contentieuse », rispetto al quale l’exequatur non influisce sulla determinazione della
natura, ma prosegue dicendo che (p. 5) l’avvicinamento tra sentenza e jugement « trouve
nécessairement sa limite dans la spécificité de la juridiction arbitrale, laquelle doit à son
origine conventionnelle tout à la fois une plus grande souplesse en raison du champ laissé
à la liberté contractuelle, et une efficacité réduite en raison de l’absence d’imperium de
l’arbitre »; J.F. Poudret, M. Besson, Droit comparé de l’arbitrage international, cit., p. 9,
affermano che gli arbitri hanno il potere di mettere « définitivement fin au litige par une
sentence ayant des effets analogues à un jugement »; A. Kassis, Problème de base de
l’arbitrage, cit., p. 13, il quale, inizialmente, afferma che « la sentence arbitrale que rend
l’arbitre participe du caractère juridictionnel du jugement étatique », per poi proseguire
ritenendo che « la sentence arbitrale est donc presque un jugement » e che (p. 27) la decisione arbitrale « n’est pas absolument identique au jugement du juge étatique », in ragione
della necessità dell’exequatur; M. de Boisséson, op. ult. cit., p. 282, per il quale la sentenza
arbitrale è un acte juridictionnel, ma non un « acte judiciaire », proveniendo da soggetti
690
RIVISTA DI DIRITTO PROCESSUALE
trale, dotata dell’autorità di cosa giudicata fin dalla sua pronuncia, diviene incontrovertibile solo se munita del provvedimento di exequatur e se, successivamente, notificata (51). La regola e le eccezioni al principio del dessaisissement hanno una portata parzialmente differente nel processo arbitrale rispetto a
quello statale, non avendo gli arbitri alcun potere in caso di extrapetizione (52).
La force probante absolue riguarda solamente alcune, ma non tutte le enunciazioni contenute nella sentenza arbitrale. Non è pacifico che la sentenza arbitrale
rientri sempre nella categoria di décision de justice, di cui alla legge del 1991
sull’esecuzione forzata. Ugualmente controversa è l’applicabilità alla sentenza
arbitrale della disposizione relativa agli interessi moratori, di cui all’art. 1153
CC. Infine, si ritiene in dottrina che la disposizione, di cui all’art. 618 NCPC,
relativa alla disciplina della contrarietà dei jugements, non trovi applicazione
rispetto alle sentenze arbitrali (53).
GIOVANNI BONATO
Dottorando di ricerca
nell’Università « La Sapienza » di Roma
––––––––––––
privati; H.-J. Nougein, Y. Reinhard, P. Ancel, M.-C. Rivier, A. Boyer, P. Genin, Guide
pratique de l’arbitrage et de la médiation commercial, cit., p. 64, secondo i quali « acte
juridictionnel, la sentence se voit dotée de ce type d’acte, ce qui le rapproche considérablement du jugement étatique »; J. Robert, L’arbitrage, cit., p. 170, che afferma « le caractère juridictionnel de la sentence arbitrale »; L. Cadiet, Droit judiciaire privé, cit., p.
874, secondo cui « parce qu’elle est un acte juridictionnel, la sentence arbitrale produit,
intrinsèquement, tous les effets attachés aux jugement »; J. Vincent, S. Guinchard, Procédure civile, cit., p. 1183, secondo i quali la sentenza arbitrale « est un acte juridictionnel, émanant d’un juge privé ».
(51) Senza contare che, secondo l’art. 2052 CC, « les transactions ont, entre les
parties, l’autorité de la chose jugée en dernier ressort », come ricorda C. Punzi, Disegno
sistematico dell’arbitrato, cit., vol. II, p. 83, nota 246; Id., Diritto comunitario e diritto
nazionale dell’arbitrato, in Riv. arb. 2000, p. 235 ss., spec. p. 240; Id., Relazioni fra
l’arbitrato e le altre forme non giurisdizionali di soluzione delle liti, cit., p. 397; Id., Natura dell’arbitrato e regolamento di competenza, in Studi G. Tarzia, Milano 2005, p.
2131 ss., spec. p. 2137, nota 23. Per un’analisi della disposizione di cui all’art. 2052 si
rinvia C. Boillot, La transaction et le juge, Paris 2003.
(52) In senso opposto, sull’art. 1475, C. Jarrosson, Note sous Cour de Cassation 16
mai 1988, in Revue de l’arbitrage 1989, p. 59 ss., secondo il potere di supplenza del giudice statale, nel caso in cui sia impossibile riunire il tribunale arbitrale, dimostrerebbe che
il secondo ha gli stessi poteri giurisdizionali del primo.
(53) In tal senso: C. Jarrosson, L’affaire Hilmarton: suite et à suivre ..., note sous
Versailles, 29 juin 1995, in Revue de l’arbitrage 1995, p. 651 ss., spec. p. 655, il quale
aggiunge che « poser un principe d’extension des règles de droit commun à l’arbitrage
dénature cette justice originale et met les textes relatifs à l’arbitrage en position de porte-à-faux par rapport à ceux de droit commun. Cette idée se vérifie à propos de l’art. 618
NCPC »; J. Vincent, S. Guinchard, Procédure civile, cit., p. 1082.
RECENSIONI E SEGNALAZIONI
AA.VV., Crisi dell’impresa e insolvenza, Giuffrè, Milano 2005, pp. XII-359.
Il volume raccoglie gli atti del Convegno su « Il diritto delle imprese in
crisi (nella prospettiva di riforma) » tenutosi ad Isernia il 18 ottobre 2003 ed
organizzato dalle Facoltà di Economia e Giurisprudenza dell’Università degli
Studi del Molise.
Come si sa, quelle che al tempo del Convegno erano solo prospettive si
sono oggi trasformate nel decreto legislativo n. 5 del 9 gennaio 2006 che ha attuato la riforma organica della disciplina delle procedure concorsuali; ciò non
ostante, il volume mantiene intatto il suo interesse.
La riforma delle procedure concorsuali, nella cui prospettiva il Convegno
si proponeva di esaminare il diritto delle imprese in crisi, era la così detta Riforma Trevisanato, che nelle relazioni pubblicate viene affrescata sia nelle sue
linee generali, sia in molti aspetti per così dire di settore, ma sempre qualificanti.
Anzitutto, della riforma sono diffusamente illustrati i principi ispiratori ed
è dettagliatamente narrata la storia, con un occhio anche alla prospettiva comparatistica; ed inoltre sono ampiamente trattati sia gli istituti di allerta e prevenzione, sia la procedura di composizione concordata della crisi, sia la procedura
di liquidazione concorsuale (vale a dire i tre pilastri, sui quali si reggeva l’impianto della riforma).
Alla trattazione in generale delle procedure si aggiungono poi relazioni più
specifiche circa il procedimento prodromico alla apertura della procedura di
liquidazione e la sua chiusura, il presupposto oggettivo delle procedure, la revocatoria fallimentare, l’azione di responsabilità, i reati fallimentari.
Non mancano infine relazioni che affrontano le prospettive di riforma
delle procedure concorsuali sotto la visuale dell’analisi economica del diritto,
ed in particolare dal punto di vista dell’informazione dei soggetti coinvolti circa
fatti rilevanti quali l’insolvenza e della riallocazione degli elementi aziendali
potenzialmente creatori di ricchezza (Angelo Castagnola).
692
RIVISTA DI DIRITTO PROCESSUALE
Guido Alpa, Tommaso Galletto (a cura di), Processo, arbitrato e conciliazione
nelle controversie societarie, bancarie e del mercato finanziario. Commento al D.Lgs. 17 gennaio 2003, n. 5, Giuffrè, Milano 2004, pp. XVI472.
Il volume contiene, nella prima parte, il commento articolo per articolo, al
decreto legislativo 17 gennaio 2003, n. 5. Si occupano del commento Carlo Lodovico Fava, Francesco Fazio, Luca Guerrini, Valentina Manica, Filippo Rossi
Alessandro Saccomani e Antonio Bisignani.
Seguono alcuni saggi nei quali sono approfonditi temi rilevanti come
« L’arbitrato e la conciliazione stragiudiziale nel nuovo diritto societario » di T.
Galletto, « Le controversie nelle c.d. società miste per la gestione dei servizi
pubblici » di F. Montaldo, « La delega legislativa per la riforma del diritto societario: i rapporti tra la legge di delega ed il d.lgs. n. 5/2003. Profili di costituzionalità » di I. Cavanna e S. Guglielminetti, « L’istituzione del Registro degli
organismi di conciliazione » di C.L. Fava .
L’opera, che merita di essere segnalata all’attenzione degli studiosi e dei
pratici, è corredata con un’appendice contenente i documenti più significativi
per agevolarne la lettura (Rita Maruffi).
Gaetano Annunziata, Il processo nel diritto di famiglia, Cedam, Padova 2005,
pp. XIX -288.
L’opera, composta da dieci capitoli e corredata da un’ampia ed aggiornata
appendice, ha il merito di operare un ragionamento unitario delle tante norme,
spesso contenute nelle fonti più disparate, che si dividono il campo del diritto di
famiglia e delle norme processuali ad esso relative.
Fedele alla sua collocazione nell’ambito della collana, relativa al diritto di
famiglia, finalizzata all’osservazione degli orientamenti dei tribunali, la ricostruzione dell’autore, illuminata dalla analisi critica della legge n. 80 del 2005,
ha quale filo conduttore la riflessione sulle decisioni, di legittimità e di merito,
rese dalla giurisprudenza.
La finalità, dichiarata dall’autore, è stata quella di tentare di far luce su
quegli aspetti delle vicende processuali, in materia di diritto di famiglia, che risultano ancora oscuri o non pienamente convincenti; in particolare la riflessione
si è soffermata sull’analisi delle interferenze tra giudizio di separazione e di divorzio, nel tentativo di sciogliere i nodi delle possibili, reciproche, implicazioni
di essi nell’ipotesi della loro contestuale esistenza.
Particolare attenzione è stata dedicata ai rapporti tra giurisdizione italia-
RECENSIONI E SEGNALAZIONI
693
na e giurisdizione ecclesiastica, anche alla luce della normativa dell’Unione
Europea.
L’autore rende conto, tentandone una razionalizzazione, anche delle problematiche derivanti dalla competenza del tribunale dei minori e del giudice
tutelare.
Specifica analisi è dedicata alle questioni processuali in tema di disconoscimento di paternità (o di maternità), sia in relazione alle decisioni prese al riguardo dalla Corte Costituzionale, sia in merito all’utilizzazione dei mezzi di
prova, che, in materia, oggi la tecnologia offre ed alla loro efficacia probatoria.
Nell’ultimo capitolo, il decimo, del suo lavoro, l’autore affronta l’esame
della eccessiva cameralizzazione del rito di famiglia, alla luce del dettato degli
artt. 330 e 336 c.c., riflettendo, al riguardo, sul portato della modifica dell’art.
111 Cost., in tema di « giusto processo », per ciò che concerne il contenzioso in
materia di diritto di famiglia, nonché sulla decisione del giudice della legittimità
delle leggi n. 1, del 2002, della quale detta una chiave di lettura finalizzata a
portare l’analisi degli articoli del codice civile in un contesto più ampio nel
quale, anche alla luce della legge n. 143 del 2001, è possibile ravvisare un impianto di tutela conforme alla normativa costituzionale.
L’autore cerca, con detta ricostruzione, di superare, anche se in modo non
sempre convincente, le perplessità sollevate da una parte autorevole della dottrina (Piero Sandulli).
Giovanni Bonilini, Augusto Chizzini, L’amministrazione di sostegno, Cedam,
Padova 2004, pp. XI-390.
L’opera che si segnala contiene un approfondito studio dell’istituto dell’amministrazione di sostegno, introdotto con l. 9 gennaio 2004, n. 6, di novella
del codice civile e del codice di procedura civile. Se ne apprezza particolarmente la struttura, trattandosi non già di un commento ai nuovi articoli, bensì di
un’analisi dell’essenza dell’istituto stesso e del suo impianto all’interno dei codici, tanto più attenta in quanto svolta a partire da una duplice prospettiva:
quella del sostanzialista e quella del processualista.
La prima parte del lavoro, riservata, appunto, allo studio del diritto sostanziale, consta di sette capitoli, dedicati: a) all’analisi dei profili oggettivi – specialmente quello dei presupposti – e funzionali dell’istituto; b) all’analisi dei
profili soggettivi: requisiti e compiti dell’amministratore di sostegno e del beneficiario; c) all’analisi del profilo normativo: norme applicabili all’istituto dell’amministrazione di sostegno e aspetti patologici che possano condurre all’invalidità degli atti compiuti; d) alla cessazione dell’istituto. La seconda parte,
invece, riservata allo studio del diritto processuale, consta di due capitoli dedi-
694
RIVISTA DI DIRITTO PROCESSUALE
cati, l’uno, al procedimento di istituzione e revoca dell’amministrazione di sostegno; l’altro, alla pubblicità degli atti, alla sua funzione e ai suoi effetti.
Risulta immediatamente palese, al lettore, la funzione vera dell’istituto in
esame, evidenziata attraverso l’individuazione, in più punti, della linea di confine tra lo stesso e i tradizionali istituti dell’interdizione e dell’inabilitazione,
affatto soppiantati dall’amministrazione di sostegno. Quest’ultima si dirige a
quei soggetti che, innanzitutto, subiscono una limitata e, generalmente, temporanea incapacità di provvedere ai propri interessi e che, pertanto, abbisognano non già di qualcuno che si sostituisca a loro nella gestione di quelli, ma
che li affianchi, appunto li sostenga. Ciò comporta il rispetto e la valorizzazione, comunque, della sia pur dimidiata capacità del beneficiario, evitandosi
l’isolamento sociale ed economico in cui vengono, invece, a trovarsi l’interdetto e l’inabilitato.
Il secondo elemento adeguatamente posto in evidenza nel lavoro è quello,
già accennato, della temporaneità: quello dell’amministrazione di sostegno, proprio in quanto istituto di protezione, è dotato di grande elasticità, sempre modulabile in funzione delle esigenze del beneficiato, destinato alla revoca, motivata da una serie di ragioni attentamente analizzate, non ultima l’esigenza di
passare all’interdizione o all’inabilitazione del soggetto.
La flessibilità dell’istituto si riscontra anche attraverso la forma del provvedimento: decreto motivato del giudice tutelare e non già sentenza, all’esito –
come si sottolinea nella seconda parte del lavoro, dedicata ai profili processuali
– di un procedimento definito di giurisdizione volontaria. Anche in questa seconda parte è molto attenta la disamina di tutti gli aspetti del procedimento, con
particolare interesse per quelli relativi alla revocabilità e impugnabilità dei
provvedimenti, nonché ai rapporti con il procedimento (eventuale) di interdizione o di inabilitazione.
Egualmente rispondente alla finalità di tutelare le persone beneficiate,
« con la minore limitazione possibile della capacità di agire », è ritenuto pure il
sistema di pubblicità degli atti voluto dal legislatore, destinato a realizzare, in
capo ai terzi, la piena conoscenza delle situazioni protette (Giorgetta Basilico).
Giovanni Campese, L’espropriazione forzata immobiliare, Giuffrè, Milano
2005, pp. XVI-602.
La rinnovata attenzione dottrinale tesa al superamento della crisi di funzionalità del processo esecutivo ha ispirato il recente intervento riformatore
che ha inciso notevolmente sull’impianto originario del codice di rito; ciò è
avvenuto in particolare per l’espropriazione immobiliare ed invero più della
metà delle disposizioni del capo IV, del II titolo del libro terzo, sono state in-
RECENSIONI E SEGNALAZIONI
695
teressate dal complesso delle novelle. Un tale profondo « ammodernamento »
di questa disciplina ha conseguenzialmente sollecitato approfondimenti monografici sulla citata materia, volti ad esporre una « prima lettura » della riforma.
Il volume recensito è inserito nella collana « fatto&diritto » diretta dal
Cendon e – come dichiaratamente si legge nella prefazione e nella quarta di copertina – intende proporre una trattazione sistematica dell’istituto, aggiornata
alla luce delle innovazioni introdotte dalla legge 14 maggio 2005, n. 80, e soprattutto volta a fornire un valido strumento per affrontare gli innumerevoli
problemi pratici che quotidianamente interessano gli operatori del processo esecutivo immobiliare. L’opera si articola in undici capitoli, accortamente suddivisi in paragrafi (in premessa dei quali evidenziati gli articoli del codice di procedura civile e delle disposizioni di attuazione modificati dalla riforma), il tutto
per circa 550 pagine di trattazione (oltre ad un ampio indice bibliografico e di
pronunce, nonché attento indice analitico).
Stante la convulsa attività riformatrice di fine legislatura, il libro in esame
(stampato prima della l. 28 dicembre 2005, n. 263 e della l. 24 febbraio 2006
n. 52, e che tiene soltanto rapido conto, in appendice, del d.d.l. 3439/2005) si
trova a trattare non completamente il corpus novellato entrato in vigore il 1°
marzo del 2006. Una tale circostanza, peraltro, non ne sacrifica eccessivamente
l’attualità, poiché in tema di espropriazione immobiliare le modificazioni successive alla originaria formulazione della l. n. 80/2005 hanno riguardato soprattutto un ridimensionamento della irrevocabilità della offerta nella vendita
senza incanto ed un più attento coordinamento fra la disciplina della delega
delle vendite immobiliari (o di mobili iscritti nei pubblici registri) ai professionisti con il nuovo procedimento di vendita.
Nell’intento di offrire una trattazione esaustiva della materia, l’autore dedica diffusa attenzione agli istituti dell’espropriazione forzata in generale, in
particolare se interessati dalla riforma (capitoli 1, 3 e 10) e completa l’opera con
una sintetica disamina di espropriazione di beni indivisi e contro il terzo proprietario (capitolo 9).
Il momento centrale del volume è di certo costituito dall’esame degli
istituti più profondamente modificati dai conditores, nonché della disciplina
relativa all’attività di controllo ed ai poteri esercitati dal giudice dell’esecuzione (ove traspare la qualificazione professionale dell’autore); si tratta
dei capitoli da 5 ad 8, e del capitolo 11 (istanza di vendita e documentazione
che la correda; controlli del giudice e udienza per l’autorizzazione della vendita; custodia e amministrazione giudiziaria dei beni; vendita e assegnazione;
decreto di trasferimento e distribuzione della somma ricavata; delega delle
operazioni di vendita). In tale indagine si fa apprezzare un’esposizione piana e
completa della materia, che guarda con equilibrio alle innovazioni introdotte e
tiene adeguatamente conto della ricostruzione offerta dalla giurisprudenza sul
diritto previgente, nonché dei più significativi contributi dottrinali (Luigi Iannicelli).
696
RIVISTA DI DIRITTO PROCESSUALE
Bruno Capponi (coord.), Il procedimento d’ingiunzione, Zanichelli Editore, Torino 2005, pp. XXI-578.
Nel presentare l’opera qui segnalata, Capponi definisce il procedimento
monitorio un istituto che, se collocato nel quadro di una giustizia civile in
cronica crisi di efficienza, appare godere di buona salute. Ciò grazie anche
alle più recenti modifiche apportate alla sua disciplina che ne avrebbero garantito la modernità con l’estensione del suo ambito di applicazione alle prestazioni di servizi, da un lato, e il suo candidarsi, dall’altro, a strumento di
integrazione dei diritti dell’Unione, consentendo la rapida formazione di un
titolo esecutivo.
Non mancherebbero però aspetti della stessa disciplina di indubbia
opacità. Sarebbe il caso dell’art. 649 c.p.c., norma della quale Capponi coglie l’occasione per insistere nel denunciarne il contrasto con gli artt. 3, 24
e 111, comma 2°, Cost. D’altra parte il curatore dell’opera rileva l’eccessiva
problematicità che la disciplina attuale, articolata in una fase monitoria e
in una eventuale fase di opposizione presenterebbe rispetto alla stessa finalità pratica ed al contenuto obbiettivo della tutela che attraverso queste
forme processuali viene assicurata. Più precisamente viene giudicata inappagante, anche se inevitabile alla luce della particolare costruzione del giudizio
di opposizione e della previsione stessa di impugnazioni straordinarie avverso il decreto divenuto esecutivo, l’opinione più consolidata in dottrina e in
giurisprudenza che riconosce al decreto ingiuntivo non opposto la stessa autorità di giudicato sostanziale attribuita alla sentenza di merito, soluzione che
sembrerebbe « in contrasto con l’assoluta irrilevanza della decisione di rigetto in termini anche di semplice preclusione alla riproponibilità tout
court ».
Ma proprio la considerazione che la tutela assicurata dal procedimento di
ingiunzione in termini di accertamento non differisce dall’ordinario processo
dichiarativo, consente di affermare a Capponi che, malgrado le incertezze e la
vischiosità della disciplina, essa continuerà ad occupare un posto importante nel
nostro sistema, senza che la stessa possa temere di venir rimpiazzata da quelle
altre forme di tutela sommaria, quale quella introdotta nel c.d. rito societario
all’art. 19 del d.lgs. n. 5 del 2003, che assicura un titolo esecutivo, senza
null’altro aggiungere in termini di accertamento e stabilità. Si giustifica così
l’attenzione dedicata ai molteplice aspetti del procedimento d’ingiunzione affidata alla penna di diversi autori.
L’opera, inserita nella collana Dottrina Casi Sistemi, corredata da CD
ROM, è di chiara lettura e si presenta ricca di riferimenti dottrinali e giurisprudenziali, offerti in chiave di risoluzione dei diversi problemi che la disciplina
presenta. Essa appare, quindi, particolarmente utile agli operatori del diritto
(Maria Francesca Ghirga).
RECENSIONI E SEGNALAZIONI
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Maria Grazia Coppetta (a cura di), Profili del processo penale nella Costituzione europea, Giappichelli, Torino 2005, pp. 259.
Non sembri intempestivo segnalare un’opera dedicata alla Costituzione europea dopo le note vicende referendarie, intervenute proprio all’indomani della
pubblicazione di questo volume. Ove, infatti, si muova dall’idea che la Costituzione si situava comunque all’interno di un percorso da tempo intrapreso
dall’Europa alla ricerca di principi comuni, anche nel campo della giustizia penale, che difficilmente la contingente bocciatura potrà arrestare in modo definitivo, le riflessioni condotte in questo volume mantengono comunque interesse
per lo studioso. Per di più, gli scritti che vi sono contenuti, dove si presentano i
risultati del lavoro condotto da tre unità locali (Università di Urbino, Macerata e
Bologna) nell’ambito di una ricerca nazionale MIUR su « Spazio giuridico europeo e processo penale », si innestano pure su questa più ampia ed attuale tematica.
Dopo un’introduzione della curatrice, la prima parte dell’opera, dedicata ai
principi, contiene saggi sulla libertà personale nella Costituzione europea (O.
Mazza), sulla disciplina delle comunicazioni, rapportata anche alle regole della
Convenzione europea dei diritti dell’uomo (C. Pansini) e sull’indipendenza,
l’imparzialità e la naturalità del giudice, anche nell’ottica di uno spazio comune
europeo (L. Caraceni e M. Panzavolta); nella seconda parte, imperniata sulle
figure soggettive, si affrontano, invece (nei contributi di M. Panzavolta e S.
Allegrezza), le problematiche legate all’Eurojust e alla vagheggiata figura di un
pubblico ministero europeo (Roberto E. Kostoris).
Marcello Daniele, Profili sistematici della sentenza di non luogo a procedere,
Giappichelli, Torino 2005, pp. VIII-260.
Il volume, edito nella collana « Procedura penale. Studi », si propone di
offrire una ricostruzione sistematica di quel peculiare esito proscioglitivo che é
rappresentato dalla sentenza di non luogo a procedere.
La linea di indagine si svolge in tre tappe successive. La prima consiste
nell’individuazione, sulla base delle più rilevanti vicende storiche del sistema
processuale italiano e francese a partire dalla Rivoluzione del 1789, di due
grandi modelli di organizzazione della fase procedimentale che precede la celebrazione del giudizio, rispettivamente denominati modello dell’« istruzione preliminare » e modello dell’« investigazione preliminare ». Quest’ultimo, recepito
dal vigente codice di procedura penale, diviene nell’ottica della ricerca un prezioso parametro metodologico sulla base del quale poter impostare la soluzione
698
RIVISTA DI DIRITTO PROCESSUALE
delle più importanti questioni interpretative poste dalla disciplina della sentenza
di non luogo a procedere.
Conclusa questa indagine storico-dogmatica, l’attenzione dell’autore si focalizza su tre fondamentali nodi problematici: la regola di giudizio che presiede
alla pronuncia della decisione, che é stata oggetto di notevoli modifiche legislative dal 1993 al 2000, il quadro dei mezzi di critica esercitabili nei confronti del
provvedimento, rivisitato a fronte dell’esigenza, oggi imposta dalla Costituzione, che la legge assicuri la ragionevole durata dei processi, e la valenza operativa dell’efficacia preclusiva della sentenza di non luogo a procedere.
Il complesso di questa analisi consente infine di affrontare, nella parte
conclusiva del volume, il problema della natura giuridica della sentenza di non
luogo a procedere, la cui identità è da sempre contesa tra la categoria delle decisioni di rito e la categoria delle decisioni di merito. La via percorsa dall’autore è
quella di delineare un tertium genus di decisione, che appare meglio in grado di
cogliere le singolarità di questa tipologia di proscioglimento (Hervè Belluta).
Alessandro Jommi, Il référé provision. Ordinamento francese ed evoluzione
della tutela sommaria anticipatoria in Italia, Giappichelli, Torino 2005,
pp. IX-245.
Ormai da tempo molti sono convinti che la tutela anticipatoria dei diritti di
obbligazione, volta alla creazione di un titolo esecutivo « senza giudicato », sia
uno strumento indispensabile per un efficiente sistema di giustizia. Per tradizione culturale, siamo abituati a porre al centro della nostra attenzione il processo
idoneo a conseguire il « giudicato », con tutte le (inevitabili) complicazioni che
un tale processo reca con sé. Dal punto di vista pratico, peraltro, l’esigenza di
una celere soddisfazione dei diritti è molto più importante del conseguimento
del « giudicato »: chi vede soddisfatto il proprio diritto, del « giudicato » fa a
meno volentieri; e molto spesso chi ha soddisfatto il diritto altrui rinuncia al
« giudicato » in ipotesi capace di consentirgli una restituzione di quanto prestato. Né sarebbe ragionevole chiudere gli occhi di fronte a questa realtà.
L’efficienza dell’intero sistema di tutela dei diritti si gioca oggi, in larghissima
misura, sul terreno della tutela anticipatoria dei diritti di obbligazione.
Vale dunque la pena di segnalare questo libro sul référé provision. Il référé
francese costituisce il modello principe, al quale fare riferimento quando si immagina una tutela anticipatoria antecedente al processo idoneo a conseguire il
« giudicato » o comunque indipendente da quest’ultimo; e l’importanza assunta
dall’istituto nel diritto francese (ove la juridiction de référé assorbe oltre il novanta per cento delle controversie civili) costituisce una ragione più che valida
per un’analisi approfondita. A questa analisi è dedicato il libro di Jommi, che,
RECENSIONI E SEGNALAZIONI
699
focalizzando l’attenzione soprattutto su quel particolare référé, che è il così
detto référé provision, consente al lettore italiano di fare il punto proprio
sull’ipotesi più interessante per quanto concerne la tutela anticipatoria. Il libro
merita di essere letto, poiché oggi – quando sempre più urgente è l’esigenza di
un’armonizzazione tra i diritti dei vari paesi, soprattutto in ambito europeo –
non avrebbe senso ignorare l’istituto, al quale oltre Alpe la tutela dei diritti è
dovuta nella stragrande maggioranza dei casi.
Nel capitolo finale, l’autore getta poi uno sguardo anche sul diritto italiano, considerando sia la tutela cognitoria senza « giudicato » (e preordinata
all’esecuzione) prevista in via generale dal progetto elaborato dalla Commissione Vaccarella, sia la tutela anticipatoria propria del processo societario; e non
manca, in quest’ultima parte del lavoro, un riferimento al fondamento costituzionale della tutela anticipatoria, ancorato al problema dei tempi della tutela
giurisdizionale (Niccolò Nisivoccia).
Crisanto Mandrioli, Diritto Processuale Civile, XVII ed., 4 vol., Giappichelli,
Torino 2005, pp. 502 (vol. I), 570 (vol. II), 447 (vol. III), 412 (vol. IV).
Che un corso di insegnamento della nostra materia possa giungere alla diciassettesima edizione credo che sia una vera rarità, se non addirittura un unicum; e sfugge qui alla mia memoria a quando risalga la prima edizione, sì da
poter quantificare in numero d’anni la eccezionale longevità dell’opera del nostro collega ed amico. Essa si articola ormai (crescit eundo) in quattro volumi:
rispettivamente dedicati a « Nozioni introduttive e disposizioni generali », « Il
processo di cognizione », « I procedimenti speciali di cognizione e i giudizi arbitrali », « L’esecuzione forzata. I Procedimenti speciali non cognitori. Procedimenti cautelari - Giurisdizione volontaria »; ed ecco così dispiegata agli occhi dello studente e dello studioso l’intera area del nostro diritto, nelle sue partizioni tradizionali ma arricchite, come subito l’occhio dell’esperto può notare, di
ampliamenti e risistemazioni organiche di settori o argomenti della materia,
conseguenti a rimeditazioni maturate nella dottrina e nella pratica nei tempi più
recenti: v. il largo spazio dedicato ora ai procedimenti speciali di cognizione,
cui è riservato quasi tutto il terzo volume, passando dai procedimenti sommari a
quelli non sommari, e percorrendo tutta la gamma delle varietà vecchie e nuove
– dai procedimenti in materia di stato e capacità delle persone ai giudizi divisori
ai processi su controversie individuali di lavoro, in materia di previdenza e assistenza obbligatoria, di statuto dei lavoratori, locatizia, agraria, per finire con la
ricca, e ancora non si sa bene quanto risolutiva, panoplia dei procedimenti societari, per finire con i procedimenti di delibazione e arbitrali, accostati questi
ultimi ed in certo qual modo se non proprio assimilati ai giudizi speciali coglito-
700
RIVISTA DI DIRITTO PROCESSUALE
ri quanto meno catalogati come una componente di tale categoria, partecipi
della stessa funzione e paralleli alle vie della giurisdizione ordinaria, con somiglianze di struttura e perseguendo gli stessi effetti. Ed ancora va sottolineato che
per dominare, classificando ed inquadrando, la congerie di discipline speciali
trattate nel volume a ragione l’autore opportunamente distingue ed illustra in
apertura del terzo volume i due differenti concetti di « riti speciali » e « procedimenti speciali », il cui attuale fiorire non so quanto giovi a lungo andare
alla maneggevolezza e veloce praticabilità della macchina procedurale.
Della sua opera l’autore, in una Premessa riportata praticamente identica
in tutti e quattro i volumi, illustra minuziosamente a qual grado di novità delle
fonti, sempre in tumultuoso e caotico divenire, essa é aggiornata. Tale Premessa
è datata dal settembre 2005; lo sguardo presago dell’autore si spinge fino al 1
gennaio 2006, come discrimine temporale per le fonti e per gli effetti da lui ivi
precisati, e si sofferma anche su fonti in fieri nel circuito parlamentare nel momento in cui chiude la sua trattazione; ma, come adesso sappiamo, l’insonne
legislatore qualcosa ancora ha aggiunto alla sua fatica riformatrice, e dal 1 gennaio siamo passati al 1 marzo 2006. Per fortuna, o per merito, l’impianto concettuale dell’opera è, in specie nel volume dedicato ai concetti fondamentali ed
alle disposizioni generali, così saldo e maturo da conservare integra la sua utilità formatrice e per gli studenti che al processo civile si accostano nelle aule
universitarie e per quanti altri – studiosi, magistrati, avvocati – debbano servirsi
di questo affaticato e affaticante strumento di giustizia, in ciò aiutati dal ricchissimo apparato di note di dottrina e giurisprudenza.
In conclusione, sia lode all’amico ed alla sua opera, ed una sommessa preghiera al legislatore perché lasci per un po’ stagionare norme e libri di procedura civile (Sergio La China).
Marino Marinelli, La clausola generale dell’articolo 100 c.p.c. Origini, metamorfosi e nuovi ruoli, Università degli studi di Trento, Dipartimento di
scienze giuridiche, Quaderni del dipartimento, Trento 2005, pp. IX-261.
Come reso evidente dal titolo del libro, l’autore torna sul classico e dibattuto tema dell’interesse ad agire, che, come tutti sanno, nell’arco di poco più
mezzo secolo è stato oggetto specifico delle due ormai classiche monografie di
Aldo Attardi e Bruno Sassani.
Nel primo dei tre capitoli in cui si snoda questo nuovo informatissimo lavoro vengono, innanzitutto, ricostruite accuratamente l’evoluzione dogmatica
del concetto e la sua applicazione pratica, ponendo a confronto il sistema processuale francese e quello tedesco.
Si pone qui in adeguata evidenza il passaggio dal frastagliato concetto ti-
RECENSIONI E SEGNALAZIONI
701
pico della giurisprudenza francese a quello, molto noto, di bisogno di tutela giuridica proprio del sistema tedesco: più in particolare, è analizzato il passaggio
dello strumento da criterio d’ordine pratico a quello d’ordine teorico-sistematico. Secondo Marinelli, questa metamorfosi sta alla base della elaborazione
della dottrina italiana classica, per la quale, l’interesse ad agire disegna uno
stato di lesione della situazione sostanziale dedotta in giudizio, per poi passare
successivamente, a seguito degli approfondimenti stimolati soprattutto dalla
dottrina d’oltralpe, a costituire un filtro processuale diretto ad evitare il dispendio di un’attività giurisdizionale priva di utilità.
Il secondo capitolo del libro è, invece, dedicato all’analisi critica delle varie tesi elaborate dalla dottrina italiana sulla figura dell’interesse ad agire: inteso, cioè, come stato di lesione del diritto tutelando o come utilità per l’attore del
processo come mezzo o come risultato o, infine, come strumento per individuare la « zona di tutela giuridica » offerta dall’azione di mero accertamento.
Con particolare riferimento a quest’ultima problematica, s’indaga con attenzione il tema del rilievo dell’interesse ad agire come criterio, per ripetere la
terminologia tedesca, d’accesso selettivo alla tutela dichiarativa sulle cosiddette
Vorfragen, ossia degli elementi di carattere preliminare di una situazione giuridica soggettiva; quindi, oggetti di giudizio diversi e minori rispetto al diritto
soggettivo vantato dall’attore.
Compiuta questa scrupolosa ricognizione nelle varie tesi elaborate sulla figura dell’interesse ad agire e del relativo ambito di rilievo, nel terzo ed ultimo
capitolo, l’autore si occupa di verificare la peculiare ricostruzione ed applicazione dello strumento nell’ambito del diritto processuale civile internazionale e
comunitario, in cui l’interesse ad agire concerne una situazione radicalmente
diversa rispetto alla sua più comune ricostruzione come stato di lesione del diritto fatto valere o come filtro volto ad impedire l’esercizio di un’inutile attività
processuale: in questo peculiare ambito, infatti, l’interesse ad agire pertiene alla
scelta del luogo e del tempo di esercizio dell’azione giudiziale.
In sostanza, secondo questa differente prospettiva, vi sarebbe carenza di
interesse ad agire quando, dinanzi ad una pluralità di fori astrattamente competenti, quello scelto dall’attore possa rivelarsi in concreto, secondo il giudice
adito, quello meno adatto a prestare la tutela giurisdizionale invocata.
Come ben mette in luce l’autore, va peraltro notato come quest’ulteriore
concezione dell’interesse ad agire è stata elaborata al prevalente scopo di risolvere la nota e controversa questione della contemporanea ed inversa proposizione dell’azione di accertamento negativo del credito e di condanna al pagamento del medesimo.
Ed in proposito mi sembra pienamente condivisibile la critica di questa
nuova visione, troppo lontana dalla figura, ancorché ampiamente controversa,
ma tecnicamente intesa, di interesse ad agire, svincolata dalla sua necessaria
connessione con la domanda giudiziale e rapportata invece soltanto all’idoneità
e razionalità della scelta operata dall’attore del tempo e del luogo di sua proposizione (Stefano Recchioni).
702
RIVISTA DI DIRITTO PROCESSUALE
Mauro Rubino Sammartano, Il diritto dell’arbitrato, 4a ed., Cedam, Padova
2005, pp. XXX -1230.
Questo libro giunge alla quarta edizione, rinnovato nella veste tipografica
e arricchito con numerosi capitoli dedicati a nuove tematiche sull’arbitrato.
L’a., raccogliendo i risultati di ricerche sviluppate nel corso degli anni, offre
una trattazione completa dell’arbitrato, che si presenta di grande interesse per
gli studiosi e di sicura utilità per tutti gli operatori del diritto.
Dopo essersi occupato nella parte generale del problema dell’individuazione dell’arbitrato nell’area degli strumenti alternativi per la soluzione delle
controversie, prendendo posizione sulla natura dell’arbitrato, l’a. ha affrontato
la distinzione tra arbitrato interno, estero e internazionale.
Operata questa premessa generale, l’a. ha approfondito le problematiche
poste dall’arbitrato interno, sviluppando, con dovizia di informazioni, l’analisi
del procedimento arbitrale, nonché dei mezzi di tutela avverso la decisione degli arbitri.
Altrettanto approfondita e completa appare la trattazione dell’arbitrato
estero ed internazionale, opportunatamente completata con l’analisi dei problemi relativi al riconoscimento ed all’esecuzione delle decisioni arbitrali straniere
ed internazionali.
Degno di particolare segnalazione è anche il nuovo capitolo dedicato
all’arbitrato e la pubblica amministrazione, ove l’a. individua le questioni poste
dall’arbitrato in materia di appalti e opere pubbliche e ne delinea le possibilità
di concreta e condivisibile soluzione (Carmine Punzi).
Nicolò Trocker, Vincenzo Varano (a cura di), The Reforms of Civil Procedure
in Comparative Perspective, Giappichelli, Torino 2005, pp. X-275.
Mi preme qui, anzitutto, ricordare come i contributi scientifici, raccolti in
questo volume, traggano origine da una conferenza internazionale sulle riforme
dei processi civili nella prospettiva comparatistica, svoltasi a Firenze nei giorni
12-13 dicembre 2003, ma siano poi stati dedicati – come opportunamente avvertono i curatori dell’opera negli opening Remarks, pervasi dal commosso ricordo del loro Maestro (pp. 1-5) – alla memoria di Mauro Cappelletti (deceduto
il 1° novembre 2004). Ed è, lo dico subito con sincerità, senza alcuna enfasi di
circostanza, una memoria a me pure assai cara, poiché a quel medesimo grande
Maestro debbo anch’io un personale tributo di riconoscenza e di affetto, per i
suggerimenti e gli stimoli da Lui sovente ricevuti nel corso della mia carriera di
studioso comparatista.
RECENSIONI E SEGNALAZIONI
703
Il quadro delle diverse riforme a raffronto, succedutesi in questi anni nei
più significativi ordinamenti di civil e di common law, si rivela, alla luce dei
cospicui contributi raccolti, di particolare significato, nell’ottica della politica
giudiziaria ed in quella storico-evolutiva. Il contrasto che ne risulta – rispetto ai
ritmi quasi « sincopati » degli interventi legislativi ed alle linee di riforma, spesso incoerenti e caratterizzate da veri e propri « salti all’indietro », quali sono
ricavabili dalla legislazione processuale italiana degli ultimi decenni – è posto
impietosamente in luce dal commento, fortemente critico e talvolta « corrosivo », di M. Taruffo (Recent and Current Reforms of Civil Procedure in Italy,
pp. 217-232).
La comparazione si sviluppa secondo alcuni grandi temi – quali sono, ad
es., la razionalizzazione della fase preparatoria e della fase di discovery,
l’accrescimento del ruolo attivo del giudice nella direzione del procedimento, il
potenziamento delle forme alternative di risoluzione delle liti – che gli stessi
curatori del volume sintetizzano nei loro concluding Remarks (pp. 243-267). In
tale prospettiva, per quanto concerne i sistemi continentali di civil law, F. Ferrand (The respective Role of the Judge and the Parties in the Preparation of the
Case in France, pp. 7-32) delinea ed analizza le caratteristiche fondamentali
della giustizia civile in Francia dopo il c.p.c. del 1975; I. Díez-Picazo Giménez
(The principal Innovations of Spain’s recent Civil Procedure Reform, pp. 3366) si occupa delle importanti novità, introdotte nel processo civile spagnolo
dalla LEC del 2000; G. Walter (The German Civil Procedure Reform Act 2002:
Much Ado about Nothing?, pp. 67-89) sottopone ad indagine critica le innovazioni, talvolta più significative sul piano sistematico che non su quello
dell’effettività (si pensi, ad es., al nuovo § 139 sulla materielle Prozessleitung),
apportate alla ZPO tedesca del 1877 dalle riforme del 2002; E.M. Bajons (Civil
Procedure for Austria revisited. An Outline of recent Austrian Civil Procedure
Reforms, pp. 117-130) espone ed approfondisce gli interventi del legislatore del
2002 (ed, in particolare, quelli attinenti al contraddittorio: cfr., ad es., il nuovo §
182a della ZPO) nella disciplina del processo civile austriaco; ed, infine, G.R.
Rutgers e J.W. Rutgers (Reform of the Code of Civil Procedure in Netherlands,
pp. 131-142) offrono un quadro aggiornato delle ultime novità processuali in
Olanda.
Dal canto loro, i contributi degli Studiosi di common law (A.A.S. Zuckerman, Court Control and Party Compliance – The Quest for effective Litigation
Management, pp. 143-161; O.G. Chase, Reflections on Civil Procedure Reform
in the United States: What has been learned? What has been accomplished?,
pp. 163-184; J.A. Epstein, The quiet Revolution in Australia – The changing
Role of the Judge in Civil Proceedings, pp. 185-215; cui si aggiunge, per il
Giappone, J. Taniguchi, Japan’s recent Civil Procedure Reform: its seeming
Success and left Problems, pp. 92-113) concorrono, soprattutto, a porre in chiara luce i consolidati trends verso un effettivo potenziamento del ruolo attivo del
giudice nel c.d. caseflow management.
Se a tutto ciò si accompagna, per l’Europa unita, una perspicua visione dei
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RIVISTA DI DIRITTO PROCESSUALE
rapporti fra i sistemi di giustizia nazionale e la legislazione comunitaria (A.
Biondi, Minimum, adequate or excessive Protection? The Impact of EC Law on
national procedural Law, pp. 234-242), non credo ci voglia altro ancora, per
sottolineare il grande interesse che il volume è destinato a suscitare, sia negli
specialisti della materia che negli operatori del diritto in genere (Luigi Paolo
Comoglio).
Giovanni Verde (a cura di), Diritto dell’arbitrato, 3a ed., Giappichelli, Torino
2005, pp. XII-599.
Nel luglio 2005 è stata pubblicata, a cura di Giovanni Verde, la terza edizione del volume collettivo di Ferruccio Auletta, Gian Paolo Califano, Bruno
Capponi, Giuseppe della Pietra, Nicola Rascio e dello stesso Giovanni Verde,
dedicata ad una trattazione sistematica dell’arbitrato nel diritto italiano, e quindi
non già soltanto alla disciplina dell’arbitrato c.d. rituale, contenuta negli
artt. 806 ss. del codice di rito, e peraltro oggetto di una recente ulteriore riforma
ad opera del decreto legislativo 2 febbraio 2006, n. 40, ma anche alle normative
speciali dettate dal legislatore per disciplinare, con riferimento a particolari
settori dell’esperienza giuridica, l’istituto dell’arbitrato, tenuto peraltro rigorosamente distinto da altre forme di composizione dei conflitti aventi anche esse il
loro fondamento nell’autonomia dei privati, ma che con l’arbitrato non hanno
nulla a che spartire, quali l’arbitraggio e la transazione.
L’opera, già arricchita nella seconda edizione da un capitolo dedicato da
B. Capponi all’arbitrato in materia di lavoro dopo le riforme del 1998, viene
così completata da numerosi e puntuali riferimenti, effettuati dai singoli autori
nella trattazione degli argomenti di volta in volta trattati, alla disciplina
dell’arbitrato societario (d.lgs. 17 gennaio 2003, n. 5), alla disciplina dell’arbitrato in materia di opere pubbliche (art. 32 legge 11 febbraio 1994, n. 109,
come recentemente modificato dall’art. 5, comma 16-sexies della legge 14
maggio 2005, n. 80; d.p.r. 21 dicembre 1999, n. 544; d.m. 2 dicembre 2000,
n. 398; d.m. 19 aprile 2000, n. 145), alla disciplina dell’arbitrato in materia di
controversie concernenti le subforniture nelle attività produttive (art. 10 legge
18 giugno 1998, n. 192) e alla giustizia sportiva.
Pregiudiziale alla suddetta trattazione è peraltro l’annosa questione relativa
alla distinzione tra arbitrato rituale ed irrituale, della quale pure i singoli autori
danno compiutamente conto nell’affrontare gli istituti loro affidati, e che
G. Verde affronta ex professo, oltre che in un paragrafo del primo capitolo, dedicato alle complicazioni nascenti dalla convivenza tra i due arbitrati, in un
nuovo secondo capitolo dal titolo « L’arbitrato e gli arbitrati ».
L’idea di fondo, espressa dall’a. in dichiarato e motivato dissenso rispetto
RECENSIONI E SEGNALAZIONI
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all’attuale orientamento giurisprudenziale, è che il fondamento privatistico
dell’arbitrato non impedisca al legislatore di scegliere se attribuire rilevanza
all’atto conclusivo dello stesso come atto di autonomia negoziale, ovvero come
atto eteronomo, rilevante per l’ordinamento non perché voluto dalle parti, ma
perché « atto di giustizia » proveniente da un terzo al quale le parti abbiano preventivamente riconosciuto la funzione di giudicante; ed è proprio questa libertà
di scelta del legislatore che consentirebbe di recuperare la tradizionale distinzione tra l’arbitrato rituale, destinato a concludersi con un lodo-sentenza, e
l’arbitrato irrituale, destinato invece a concludersi con un lodo-negozio.
Si tratta di un’idea che non può essere evidentemente sottoposta ad esame
critico in questa sede, e rispetto alla quale è ovviamente possibile dissentire. Di
essa peraltro, per l’equilibrio e la problematicità con la quale è espressa, non
sarà possibile non tenere conto nel dibattito dottrinale destinato ad accendersi
sulla riforma introdotta dal recente decreto legislativo 2 febbraio 2006, n. 40,
che ha riconosciuto al lodo rituale gli effetti della sentenza pronunciata dall’autorità giudiziaria, qualificando invece « determinazione contrattuale » il lodo conclusivo dell’arbitrato irrituale (G. Ruffini).
Teresa Arruda Alvim Wambier, Omissão judicial e embargos de declaração,
Editora Revista dos Tribunais, São Paulo 2005, pp. 437.
In diritto brasiliano, si chiama embargos de declaração un istituto collocato tra i mezzi di impugnazione (recursos) e disciplinato dagli artt. 535-538
del Código de Processo Civil. Tale mezzo può essere proposto contro la decisione monocratica (sentença) o collegiale (acordão) in due casi: quando « vi è,
nella decisione monocratica o collegiale, oscurità o contraddizione » e quando
« è stato omesso un punto sopra il quale il giudice monocratico o collegiale doveva pronunciarsi »; e pone capo a nuova decisione del medesimo organo giurisdizionale.
Proprio all’istituto chiamato embargos de declaração, con particolare riferimento all’omissione di pronuncia, è dedicata questa monografia di Teresa Arruda Alvim Wambier: opera nella quale la nota processualcivilista brasiliana
(direttrice della importante Revista de Processo) si occupa sia della struttura e
della disciplina di questo mezzo di gravame, del quale sottolinea anche il fondamento costituzionale come garanzia connessa con il « dovuto processo legale » (prima parte dell’opera), sia della omissione di pronuncia come vizio della
sentenza al quale porre rimedio (seconda e più ampia parte).
La parte della monografia dedicata all’omissione di pronuncia costituisce
un contributo alla definizione teorica di questa figura, non soltanto nei termini
entro i quali essa può assumere rilievo in diritto brasiliano, ma anche da un
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RIVISTA DI DIRITTO PROCESSUALE
punto di vista più generale. Mi riferisco, sotto quest’ultimo punto di vista, alla
netta distinzione tra il caso di omessa statuizione imperativa (mancata decisione
su una domanda o parte di essa) e il caso di omessa considerazione di una questione pregiudiziale: distinzione utile non soltanto per distinguere sotto il profilo logico e concettuale due ipotesi molto diverse l’una dall’altra, ma anche per
mettere a fuoco la diversità dei problemi che dall’una e dall’altra possono scaturire in diritto positivo.
Leggendo, non ci si limita a prendere atto dei particolari problemi posti dal
diritto brasiliano, ma si ottiene anche un altro risultato: la possibilità di qualche
riflessione più generale sull’influenza che, in ordine alla definizione, alla rilevanza ed al trattamento della omissione di pronuncia, possono avere le caratteristiche dei mezzi di impugnazione (ed in particolare: l’attitudine di questi mezzi a consentire o non consentire la riproposizione di domande e questioni assorbite) (E.F. Ricci).
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RIVISTA DI DIRITTO PROCESSUALE
GIURISPRUDENZA
CORTE DI GIUSTIZIA CE, sez. IV, sentenza 27 gennaio 2005 (C-125/04)
Pres. Lenaerts - Rel. Cunha Rodrigues
Denuit c. Transorient - Mosaïque Voyages et Culture SA
Nell’arbitrato volontario, gli arbitri non sono legittimati a proporre la
questione pregiudiziale comunitaria (1).
(Omissis). – 11. In via preliminare, occorre esaminare se il Collège
d’arbitrage de la Commission de Litiges Voyages debba essere considerato una
giurisdizione ai sensi dell’art. 234 CE.
12. Per valutare se l’organo remittente possegga le caratteristiche di un
giudice di uno Stato membro ai sensi dell’art. 234 CE, la Corte tiene conto di un
insieme di elementi quale l’origine legale dell’organo, il suo carattere permanente, l’obbligatorietà della sua giurisdizione, la natura contraddittoria del procedimento, il fatto che l’organo applichi norme giuridiche e che sia indipendente (v., in particolare, sentenze 17 settembre 1997, causa C-54/96, Dorsch
Consult, Racc. p. I-4961, punto 23 e giurisprudenza ivi citata, nonché 30 maggio 2002, causa C-516/99, Schmid, Racc. p. I-4573, punto 34).
13. Secondo la giurisprudenza della Corte, un collegio arbitrale convenzionale non costituisce una giurisdizione nazionale di uno Stato membro ai sensi dell’art. 234 CE perché per le parti contraenti non vi è alcun obbligo, né di
diritto né di fatto, di affidare la soluzione delle proprie liti a un arbitrato e perché le autorità pubbliche dello Stato membro interessato non sono implicate
nella scelta della via dell’arbitrato né sono chiamate a intervenire d’ufficio nello
svolgimento del procedimento dinanzi all’arbitro (v. sentenze 23 marzo 1982,
causa 102/81, « Nordsee » Deutsche Hochseefischerei, Racc. p. 1095, punti 1012, e 1° giugno 1999, causa C-126/97, Eco Swiss, Racc. p. I-3055, punto 34).
14. Nella causa principale, si evince dalla decisione di rinvio che il deferimento al Collège d’arbitrage de la Commission de Litiges Voyages risulta da
una convenzione arbitrale stipulata tra le parti.
15. La normativa belga non impone il ricorso a tale collegio arbitrale come
solo mezzo di composizione di una controversia tra un privato e un intermediario di viaggi. È vero che un giudice ordinario adito per una controversia oggetto di una convenzione arbitrale deve dichiararsi incompetente in applica-
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RIVISTA DI DIRITTO PROCESSUALE
zione dell’art. 1679, n. 1, del codice giudiziario belga. Nondimeno, la giurisdizione del Collège d’arbitrage de la Commission de Litiges Voyages non è
obbligatoria nel senso che, in mancanza di una convenzione arbitrale stipulata
tra le parti, un privato può rivolgersi ai giudici ordinari per risolvere la controversia.
16. Poiché, nella causa principale, per le parti non vi è alcun obbligo, né di
diritto né di fatto, di affidare la soluzione delle proprie liti a un arbitrato e poiché le autorità pubbliche dello Stato membro interessato non sono implicate
nella scelta della via dell’arbitrato, il Collège d’arbitrage de la Commission de
Litiges et Voyages non può essere considerato giurisdizione nazionale di uno
Stato membro ai sensi dell’art. 234 CE.
17. Se ne desume che la Corte non è competente a pronunciarsi sulle questioni sottopostele dal Collège d’arbitrage de la Commission de Litiges Voyages. (Omissis).
(1) Arbitrato volontario e pregiudiziale comunitaria
1. – Con la decisione qui pubblicata la Corte di Giustizia CE conferma
l’orientamento già espresso in precedenti due decisioni: quella resa il 23 marzo
1983 sulla causa Nordsee (1) e quella resa il 1° giugno 1999 sulla causa Eco
Swiss (2). Secondo la Corte, nel caso di arbitrato volontario gli arbitri non hanno il potere di sollevare la questione pregiudiziale comunitaria, perché non possono essere qualificati come « una giurisdizione di uno degli Stati membri » e
come una « giurisdizione nazionale » ai sensi dei commi 2° e 3° dell’art. 234
(già art. 177) nel Trattato CE.
Anche se l’affermazione compiuta dalla Corte non è nuova, qualche parola
di commento è opportuna sotto due profili. In primo luogo, infatti, vale la pena
di fare il punto sui criteri, con i quali la Corte – trovandosi di fronte ad un arbitrato – riconosce o nega la presenza della « giurisdizione nazionale » menzionata dall’art. 234 del Trattato CE. In secondo luogo non ci si può esimere da
una sia pur veloce presa di posizione sul merito della tesi, che la Corte fa propria.
2. – Per quanto concerne i criteri, con i quali la Corte – trovandosi di
fronte ad arbitri – afferma o nega la presenza di una « giurisdizione nazionale »
ai sensi dell’art. 234 del Trattato CE, di un punto si deve prendere atto in via
preliminare: nella prospettiva della Corte, nessun rilievo ha il problema, se gli
effetti del lodo arbitrale siano assimilabili a quelli della sentenza giudiziaria o a
––––––––––––
(1) Vedila in Foro it. 1982, IV, c. 357 ss.
(2) Vedila in European Court reports 1999, p. I-03055 ss.
GIURISPRUDENZA
711
quelli di un negozio (o se si preferisce, di un contratto, visto che la nozione di
negozio giuridico – pur essendo saldissima nell’apparato concettuale dei giuristi
tedeschi e italiani, nonché dei paesi che recepiscono la tradizione di pensiero
tedesca e italiana – è totalmente estranea ai giuristi di altre aree, a loro volta inserite nell’ambito della Comunità Europea).
Commentando la decisione Eco Swiss, un autorevole studioso dell’arbitrato (e mio caro amico) ha ritenuto di ricavarne una conferma della tesi, secondo la quale il lodo arbitrale avrebbe effetti di tipo negoziale, come se questa
tesi costituisse il fondamento dell’opinione della Corte (3). Ma nella decisione
in questione la Corte, in un non equivoco passaggio della motivazione, attribuisce in modo espresso al lodo arbitrale (nella specie, si trattava di un lodo olandese) gli effetti della decisione giudiziaria, negando agli arbitri la qualifica di
« giurisdizione nazionale » per altre ragioni (4). Inoltre, affermazioni analoghe
sono contenute anche nella decisione Nordsee, a proposito di un lodo arbitrale
tedesco (5); e a tali precedenti la decisione qui pubblicata non aggiunge niente
di nuovo, perché il problema relativo all’identificazione e qualificazione degli
effetti del lodo non è neppure menzionato. Nella prospettiva fatta propria dalla
Corte, insomma, il problema concernente gli effetti del lodo arbitrale è collocato tra le questioni irrilevanti (6).
Inoltre, la Corte si preoccupa molto poco sia del carattere contraddittorio
del procedimento, sia dell’indipendenza degli arbitri; e svaluta in modo radicale
anche il rilievo, secondo il quale gli arbitri – alla pari del giudice togato – devono risolvere la controversia applicando le norme di diritto. Nella motivazione, la
Corte dichiara di tener conto, in via generale, anche di questi temi. Se si fosse
interrogata circa la presenza dei requisiti in parola nell’arbitrato volontario, tuttavia, la Corte non avrebbe potuto fare a meno di riconoscerli presenti secondo
tutte le legislazioni dei Paesi inclusi nella Comunità Europea; e ne sarebbe
scaturito qualche elemento a favore della qualificazione degli arbitri come
« giurisdizione nazionale ». Naturalmente, l’eventuale mancanza di altri requisiti avrebbe poi dovuto avere il suo peso, nella valutazione complessiva; e sarebbe stato necessario procedere ad un’attenta valutazione dei pro e dei contra,
in un discorso piuttosto impegnativo. Ma la Corte resta lontana da una simile
prospettiva. In realtà, il problema di sapere, se l’arbitrato abbia o non abbia
struttura contraddittoria, se l’arbitro sia o non sia indipendente, se l’arbitro applichi o non applichi norme giuridiche, non è neppure sfiorato.
––––––––––––
(3) C. Punzi, Diritto comunitario e diritto nazionale dell’arbitrato, in Riv. arb.
2000, p. 235 ss., spec. p. 240.
(4) Cfr. i parr. 5 e 6 della decisione (loc. cit. nella nota 2).
(5) Cfr. i parr. 10, 11, 12, 13 della decisione (loc. cit. nella nota 1, c. 363).
(6) Cfr. al riguardo, se vuoi, i rilievi da me compiuti in La « funzione giudicante »
degli arbitri e l’efficacia del lodo (un grand arrêt della Corte Costituzionale), in Riv. dir.
proc. 2003, p. 351 ss., spec. p. 383 ss.
712
RIVISTA DI DIRITTO PROCESSUALE
I criteri, in base ai quali la Corte riconosce o nega l’esistenza di una
« giurisdizione nazionale », sono in realtà altri, a loro volta ricordati in motivazione: la così detta « origine legale dell’organo », il « carattere permanente »
dell’organo stesso, l’« obbligatorietà della sua giurisdizione »; e d’altronde sono
proprio queste le ragioni, in virtù delle quali – prima delle decisioni Nordsee e
Eco Swiss – la Corte aveva affermato la presenza di una « giurisdizione nazionale » di fronte a procedimenti arbitrali. Ci riferiamo alla decisione del 30 giugno 1966 sulla causa Vaassen Goebbels ed alla decisione 6 ottobre 1981 sulla
causa Broekmeulen (7). Su queste ultime decisioni non è il caso di tornare qui,
dopo i numerosi commenti loro dedicati dalla dottrina (8). Ma le ragioni, in
virtù delle quali la Corte ha qualificato come « giurisdizioni nazionali » gli organismi arbitrali che avevano sollevato la questione pregiudiziale comunitaria,
sono con buona approssimazione quelle appena dette.
Insomma: l’arbitrato può aspirare ad integrare gli estremi della così detta
« giurisdizione nazionale », secondo la Corte, soltanto se è qualche cosa di profondamente diverso da quell’arbitrato volontario, al quale normalmente si pensa
quando si parla di « arbitrati » senza aggettivi qualificativi. Elementi identificanti come « l’origine legale dell’organo », il suo « carattere permanente »,
« l’obbligatorietà della sua giurisdizione » fanno pensare, più che all’arbitrato
vero e proprio, a delle giurisdizioni speciali formate da laici secondo regole
precostituite, capaci di imporsi alle parti a prescindere dalla loro volontà, destinate a limitare per regola cogente l’ambito di giurisdizione o competenza dei
giudici togati.
3. – Veniamo ora al più delicato tema della discussione di merito sui criteri
impiegati dalla Corte; e non desidero spendere nemmeno una parola contro la
qualificazione quale « giurisdizione nazionale » degli organi arbitrali dotati di
« origine legale », di « carattere permanente », di « giurisdizione obbligatoria ».
Proprio perché si abbandona qui il terreno dell’arbitrato vero e proprio, per entrare in quello delle sostanziali « giurisdizioni speciali », il problema può essere
risolto in senso positivo in modo piuttosto agevole; e sarei anche incline a non
dare peso eccessivo, ai fini della soluzione positiva della questione, all’applicazione delle norme di diritto da parte dell’organo, o al carattere più o meno
garantito (dal punto di vista del contraddittorio e dell’indipendenza del giudicante) del procedimento. Naturalmente, le « giurisdizioni » non garantite sono
da combattere; ma la mancanza di garanzie è ugualmente grave nel processo
davanti agli organi arbitrali (o sedicenti tali) e nel processo davanti al giudice
togato; e la « giurisdizione » non assistita da garanzie resta pur sempre una
––––––––––––
(7) Sulle quali vedi ampiamente A. Briguglio, Pregiudiziale comunitaria e processo civile, Padova 1996, p. 781 ss.
(8) A loro volta passati in rassegna da A. Briguglio, Pregiudiziale ecc., cit., loc. ult.
cit.
GIURISPRUDENZA
713
« giurisdizione » ai fini dell’art. 234 del Trattato CE, ancorché debba essere
criticata (o addirittura combattuta) la sua disciplina positiva.
A questo punto, tuttavia, due precisazioni mi paiono necessarie.
In primo luogo, quanto appena detto suppone che la funzione svolta
dall’organo arbitrale a volta a volta considerato sia equivalente – dal punto di
vista funzionale – a quella che nel caso di specie potrebbe essere svolta in
astratto da un giudice togato (o se si vuole, e per essere più precisi: a quella che
sarebbe svolta dal giudice togato, se l’organo arbitrale in questione non esistesse). Senza una equivalenza funzionale tra il compito dell’organo arbitrale e il
compito del giudice togato (da precisare in relazione al caso di specie), credo
che la qualifica di « giurisdizione nazionale » dovrebbe essere negata agli arbitri nonostante la presenza dei requisiti valorizzati dalla Corte; e credo dunque
che la Corte – quando fissa lo sguardo sulla « origine legale dell’organo », sul
suo « carattere permanente », sul carattere « obbligatorio » della sua « giurisdizione », a prescindere da qualsiasi raffronto tra il compito obiettivamente
svolto dall’organo arbitrale e il compito obiettivamente svolto dal giudice togato – dimentichi l’essenziale a beneficio dell’accessorio. Vi è qui una sopravvalutazione del profilo organizzativo rispetto a quello funzionale, che mi riesce
difficile accettare senza riserve. La mia convinzione (per quello che può valere)
è diametralmente opposta, e si riassume in una decisa prevalenza del profilo
funzionale su quello strettamente organizzativo.
In secondo luogo, credo che – ovunque esista una identità funzionale tra
l’attività degli arbitri e l’attività del giudice togato – la qualifica di « giurisdizione nazionale » ai sensi dell’art. 234 del Trattato CE non debba essere
negata agli arbitri, quand’anche manchino i profili lato sensu organizzativi
valorizzati dalla Corte: e qui, entrandosi finalmente nello specifico tema
dell’arbitrato volontario, il mio dissenso dall’orientamento della Corte diventa
radicale. Secondo me, infatti, l’equivalenza funzionale tra il compito degli arbitri volontari e il compito del giudice togato dovrebbe indurre (ovviamente, se
riconosciuta) a non negare la qualifica di « giurisdizione nazionale » agli arbitri;
e l’orientamento della Corte mi sembra dunque criticabile anche sotto questo,
ulteriore profilo. Di fronte a organismi arbitrali di « origine legale », forniti di
« carattere permanente », caratterizzati dalla « obbligatorietà » della loro
« giurisdizione », la Corte rischia di riconoscere una « giurisdizione nazionale »
anche ove (per decisive ragioni di carattere funzionale) essa dovrebbe essere
negata; mentre di fronte agli arbitri volontari la presenza di una « giurisdizione
nazionale » viene negata per ragioni, che con il centro del problema sembrano
aver poco a che vedere.
Naturalmente, l’identità funzionale tra il compito degli arbitri volontari e il
compito del giudice togato va poi verificata in concreto; ed ove il discorso vada
a cadere è intuitivo: in quel problema degli effetti del lodo, al quale la Corte
non attribuisce alcuna rilevanza. In realtà, mi pare che proprio questo sia il
punto decisivo: quello di sapere se il lodo arbitrale abbia o non abbia effetti assimilabili a quelli della decisione giudiziaria. Negli altri Paesi della Comunità
714
RIVISTA DI DIRITTO PROCESSUALE
Europea, l’assimilazione degli effetti del lodo arbitrale agli effetti della sentenza
giudiziaria è un punto pacifico, per virtù di espresse norme o dell’unanime opinione degli interpreti (9); mentre in diritto italiano si è continuato a discutere,
perché ad una tesi analoga a quella sostenuta negli altri Stati membri della Comunità si è contrapposta la diversa opinione, secondo la quale il lodo arbitrale
ha gli effetti del negozio giuridico (10). Sulla base di questa premessa il carattere di « giurisdizione nazionale » non dovrebbe essere negata agli arbitri volontari degli altri Paesi membri della Comunità (11); ed altrettanto dovrebbe dirsi
per il diritto italiano sulla base del nuovo art. 824-bis c.p.c., come delineato dal
d.lgs. n. 40/2006 in attuazione della delega contenuta nella l. n. 80/2005. Ma su
quest’ultimo tema già si delineano interpretazioni dottrinali riduttive o abrogantes, in virtù delle quali una continuazione della discussione è forse prevedibile.
EDOARDO F. RICCI
––––––––––––
(9) Per una rassegna sul tema cfr. E.F. Ricci, La « funzione giudicante » ecc., cit., p.
358 ss. Adde, se vuoi: E.F. Ricci, La crise de l’arbitrage juridictionnel en Italie (La Cour
de Cassation italienne et l’apprenti sorcier), in Revue de l’arbitrage 2002, p. 857 ss.,
spec. p. 863 ss.; Id., Die Krise der italienischen jurisdiktionellen Schiedsgerichtsbarkeit,
in Zeitschrift für Zivilprozess International 2003, p. 261 ss., spec. p. 268 ss.
(10) Cfr. per un panorama, con citazioni, ancora una volta E.F. Ricci, La « funzione
giudicante » ecc., cit., p. 352 ss. Oggi, stante il tenore del nuovo art. 824-bis c.p.c. (come
stabilito dal d.lgs. n. 40/2005), l’equivalenza tra lodo e sentenza dovrebbe essere, a mio
parere, incontroversa. Ma vedi comunque in senso contrario, a commento della delega
contenuta nella legge n. 80/2005, C. Punzi, in Riv. dir. proc. 2005, p. 971 ss.
(11) In questo senso, d’altronde, è ampia dottrina straniera (vedila richiamata da A.
Briguglio, Pregiudiziale comunitaria ecc., cit., p. 786 ss., nota 38).
I
CORTE DI CASSAZIONE, sez. un. civ., sentenza 27 luglio 2005, n. 15661
Pres. Carbone – Rel. Roselli
L.F. c. I.N.A.I.L.
Il giudice non può rilevare d’ufficio i fatti impeditivi, estintivi e modificativi del diritto vantato dall’attore ogniqualvolta il convenuto, se li deducesse in
via di azione, dovrebbe proporre una domanda costitutiva (1).
Il giudice può rilevere d’ufficio i fatti impeditivi, estintivi e modificativi del
diritto vantato dall’attore ogniqualvolta il convenuto, che li deducesse in via di
azione, proporrebbe domanda dichiarativa (2).
Il giudice può rilevare d’ufficio l’interruzione della prescrizione (3).
II
CORTE DI CASSAZIONE, sez. un. civ., sentenza 13 settembre 2005, n. 18128
Pres. Carbone – Rel. Lo Piano
S. c. Condominio di Via Ischia di Castro
Il giudice può ridurre d’ufficio la penale (4).
I
(Omissis). – Il primo motivo è fondato.
Con esso il ricorrente pone alla Corte la questione se l’eccezione di interruzione della prescrizione debba considerarsi come eccezione in senso lato, ossia rilevabile anche dal giudice in ogni stato e grado del processo purché sulla
base di elementi probatori ritualmente acquisiti, oppure come eccezione in senso stretto, ossia non rilevabile d’ufficio e perciò assoggettata, nel processo del
lavoro, alle preclusioni disposte nei capoversi degli artt. 416 e 437 c.p.c. (e nel
processo ordinario nell’art. 345, secondo comma, dello stesso codice).
716
RIVISTA DI DIRITTO PROCESSUALE
È da osservare che il legislatore presuppone la distinzione tra i due tipi di
eccezione ma non la definisce e l’affida così all’interprete; infatti l’art. 112 cod.
cit., secondo cui il giudice non può pronunciare d’ufficio su eccezioni che possono essere proposte soltanto dalle parti, suole essere considerato come norma
in bianco, ossia da completare in sede di applicazione quanto alla nozione di
eccezione officiosa oppure riservata all’iniziativa di parte.
Talvolta è lo stesso legislatore ad esonerare l’interprete da questo compito,
escludendo espressamente la rilevabilità d’ufficio: così, fra i numerosi possibili
esempi, nell’art. 1242, primo comma, c.c. quanto all’eccezione di compensazione; nell’art. 1442, quarto comma, quanto all’eccezione di annullabilità del
contratto; nell’art. 1460, primo comma, quanto all’eccezione di inadempimento;
e, per ciò che più da vicino attiene alla materia qui in questione, nell’art. 2938
quanto all’eccezione di prescrizione.
Al di fuori di questi casi, nei quali l’interprete deve semplicemente uniformarsi alla chiara lettera della legge, la nozione di eccezione in senso stretto è
rimasta a lungo controversa anche nella giurisprudenza di questa Corte, la quale
tuttavia con la sentenza, pronunciata a Sezioni unite, 3 febbraio 1998 n. 1099,
ha provveduto alla sistemazione della materia.
La semplice contestazione dei fatti posti dall’attore a base della propria
pretesa viene considerata come « mera difesa » (non è stato accolto il termine
« obiezione », proposto dalla dottrina fra le due guerre) mentre l’ammissione di
quei fatti, accompagnata dalla deduzione dei fatti modificativi, impeditivi o
estintivi (ad es. il pagamento del debito) è definita come « eccezione in senso
lato ».
La suddetta sentenza considera come « eccezione in senso stretto » quella
consistente nella contrapposizione, da parte del convenuto in giudizio, di fatti
che, senza escludere il rapporto affermato dall’attore, attribuiscano per legge un
potere ad impugnandum ius, ossia rivolto ad estinguere in tutto o in parte il diritto dell’avversario. In questi casi, aggiungono le Sezioni unite, il legislatore
costruisce la fattispecie in modo tale che la presenza di determinati fatti non ha
di per sé efficacia modificativa, impeditiva o estintiva, ma la consegue per il
tramite di una manifestazione di volontà dell’interessato, da sola ovvero seguita
da un accertamento giudiziale.
Le Sezioni unite si riferiscono in tal modo all’esercizio di un diritto potestativo da parte del convenuto (diritto di annullamento, di rescissione, di risoluzione), il cui esercizio in giudizio da parte del titolare è necessario perché si verifichi il mutamento della situazione giuridica. In questi casi la manifestazione
della volontà dell’interessato come elemento integrativo della fattispecie difensiva esclude che, pur acquisita al processo la conoscenza di fatti rilevanti, possa
il giudice desumerne l’effetto senza l’apposita istanza di parte.
Soltanto a questa è rimessa la scelta del mezzo difensivo, così che l’interesse a valersi dell’eccezione non è necessariamente legato all’interesse a
resistere alla pretesa attrice e, ulteriore conseguenza, la volontà di non valersi di quel mezzo rende facilmente tollerabile – per usare espressioni di una
GIURISPRUDENZA
717
ormai risalente dottrina – l’eventuale ingiustizia della sentenza: la parte dovrà imputare la soccombenza solo a se stessa, ossia alla propria assenza di
volontà.
La nozione di eccezione in senso stretto accolta nella sentenza n. 1099 del
1998 viene riaffermata dalle stesse Sezioni unite con la sent. 25 maggio 2001
n. 226, in tema di rilevabilità d’ufficio dell’eccezione di giudicato esterno, nonché dalle sentenze 1 aprile 2004 n. 6450, 8 aprile 2004 n. 6943 e 21 agosto 2004
n. 16501.
Malgrado la sistemazione della materia nel senso testè illustrato, sulla questione, ora in esame, della qualificazione dell’eccezione di interruzione della
prescrizione, permane un contrasto di giurisprudenza.
Prima della citata pronuncia di queste Sezioni unite n. 1099 del 1998 la
giurisprudenza della Corte la definiva costantemente come eccezione in senso
stretto, non affrontando però la generale questione del concetto di eccezione
processuale e le relative distinzioni, ma semplicemente parlando di « controeccezione », da opporre a quella, omogenea, di prescrizione (tra le numerose,
Cass. 7 dicembre 1996 n. 10904, 1 ottobre 1997 n. 9583, 25 ottobre 1997
n. 10526).
Non mancava tuttavia una giurisprudenza secondo cui, estintosi il giudizio
ed iniziato un nuovo processo, il giudice di questo poteva rilevare l’interruzione
istantanea, prodotta dal primo atto introduttivo ex art. 2945, terzo comma, c.c.,
in presenza della sola eccezione di prescrizione (Cass. 6 agosto 1966 n. 2167,
24 ottobre 1974 n. 3111, 24 ottobre 1978 n. 4810).
L’affermazione dell’eccezione in senso stretto permaneva anche dopo la
sent. n. 1099 del 1998, con numerose pronunce, che unificavano ancora il regime dell’eccezione ex art. 2938 e della controeccezione,senza peraltro confutare, almeno espressamente, gli argomenti di detta sentenza (tra le più recenti, Cass. 20 giugno 2002 n. 9016, 27 giugno 2002 n. 9378, 12 luglio 2002
n. 10137, 14 novembre 2002 n. 16032, 28 luglio 2003 n. 15188, 14 luglio
2004 n. 14276).
Cass. 25 marzo 2002 n. 4219 contrasta esplicitamente la sentenza delle
Sezioni unite attraverso il richiamo al principio di speditezza del processo, che
verrebbe ostacolato dalla rilevabilità officiosa dell’eccezione in questione in
ogni stato e grado; di questa pronuncia si dirà oltre.
L’opposta asserzione, ossia quella della rilevabilità d’ufficio, si trova in
Cass. 28 marzo 2000 n. 3276, la quale ritiene che l’eccezione di prescrizione
devolva al giudice l’accertamento di ogni fatto relativo alla vicenda estintiva,
compreso quello interruttivo, il cui rilievo è perciò sottratto all’iniziativa
esclusiva della parte interessata. L’argomentazione di questa soluzione è
espressamente appoggiata sul qui più volte citato precedente del 1998.
Non ritengono ora queste Sezioni unite che fra l’eccezione di prescrizione, ascritta dall’art. 2938 c.c. al novero delle eccezioni in senso stretto, e la
controeccezione di interruzione ex artt. 2943-2945, di natura non definita dal
legislatore, sussista una somiglianza tale da consentirne la stessa disciplina
718
RIVISTA DI DIRITTO PROCESSUALE
processuale. Nè il principio di speditezza, ora espressamente canonizzato nel
capoverso dell’art. 111 Cost. e da bilanciare sempre con le garanzie di difesa
di cui al precedente art. 24 (Cass. 22 aprile 2005 n. 8540), permette di ravvisare preclusioni processuali prive di base normativa ed anzi contrarie ad un
sistema legale che vede come eccezionale, per quanto detto sopra, la riserva
alla parte del potere di eccepire fatti estintivi, impeditivi o modificativi del
diritto soggettivo dedotto in giudizio.
Nessuno sostiene che l’eccezione di interruzione, vale a dire l’affermazione
dell’avvenuto compimento di un atto d’esercizio del diritto, giudiziale o stragiudiziale (art. 2943 c.c.) oppure dell’altrui riconoscimento (art. 2944), corrisponde
al contenuto di un diritto potestativo di realizzazione giudiziale ossia ad un’azione
costitutiva e perciò stesso possa senz’altro ricondursi alla figura delle eccezioni in
senso stretto non di espressa previsione legale.
Ma deve altresì escludersi che a questo risultato possa condurre un’asserita
identità di sostanza fra l’eccezione di prescrizione e quella di interruzione, tale
da permettere la sussunzione di quest’ultima, pur sempre e per ragioni di sostanza, sotto la previsione dell’art. 2938.
Il titolare passivo del diritto soggettivo dedotto in giudizio dall’attore, ossia il debitore oppure il proprietario quanto ai diritti reali limitati (l’istituto della
prescrizione estintiva è di portata generale, come risulta dall’art. 2934: « ogni
diritto »), fu correttamente definito in dottrina come a sua volta titolare di un
diritto potestativo di provocare l’estinzione del diritto trascurato, ottenendo la
liberazione dal debito oppure dal peso gravante sul proprio fondo. Infatti
l’effetto estintivo della prescrizione non si produce automaticamente allo scadere del termine ma entra nella disponibilità del soggetto passivo del diritto, cosiddetto « prescrivente », il quale decide se sollevare o meno la relativa eccezione. Ciò spiega perché l’art. 2937, primo comma, parli di irrinunciabilità della
prescrizione da parte di « chi non può validamente disporre del diritto ». Questa
espressione, introdotta col codice del 1942 e assente in quello del 1865, si riferisce verosimilmente alla non disponibilità della materia controversa, anche se
può rilevarsene l’improprietà giacché colui che rinunzia alla prescrizione non è
il titolare del diritto prescritto bensì il soggetto passivo, che della prescrizione
potrebbe avvalersi.
L’espressione impropria, che attribuisce un « diritto » al prescrivente,
spiega in ogni caso perché la scadenza del termine di prescrizione sia stata definita come species adquirendi a favore del prescrivente (cfr. da ult. Cass. 24
marzo 1994 n. 3445), in conformità all’antico carattere unitariamente acquisitivo delle prescrizioni, oggi distinte in usucapione e prescrizione estintiva: carattere unitario posto in evidenza dai romanisti e conservato nell’art. 2105 c.c.
1865, secondo cui la prescrizione è « il mezzo con cui, col decorso del tempo e
sotto condizioni determinate, taluno acquista un diritto o è liberato dall’obbligazione » (la liberazione comporta l’acquisto di una posizione di vantaggio).
Esclusi i casi eccezionali di rilevabilità d’ufficio della prescrizione (cfr.
Cass. 16 agosto 2001 n. 11140), la scadenza del termine attribuisce al titolare
GIURISPRUDENZA
719
passivo del diritto prescrivendo la potestà di farne valere l’effetto estintivo o, al
contrario, di non giovarsene, preferendo di servirsi di altri mezzi di difesa in
giudizio: per tali ragioni il legislatore include l’eccezione di prescrizione fra
quelle in senso stretto.
Diverso è il carattere dell’eccezione di interruzione. Qui l’attore, di fronte
all’eccezione di prescrizione, non può considerarsi titolare di alcuna posizione
soggettiva diversa da quella dedotta in giudizio ma semplicemente è in grado di
contrapporre all’eccipiente un fatto dotato di efficacia interruttiva. L’interesse a
giovarsi di questo atto è compreso nell’interesse sottostante il diritto azionato,
né certo potrebbe sottostare ad una distinta azione costitutiva. Il legislatore collega immediatamente l’effetto interruttivo ai fatti previsti dagli artt. 2943 e
2944 c.c. onde l’eccezione non amplia i termini della controversia ma – come si
è rilevato in dottrina – concorre a realizzare l’ordinamento giuridico nell’orbita
della domanda, su cui il giudice deve pronunciarsi tota re perspecta, ossia
prendendo in considerazione d’ufficio gli atti interruttivi.
Spetta dunque a lui di decidere la questione di prescrizione, ritualmente
introdotta dal convenuto attraverso l’eccezione di cui all’art. 2938, tenendo
conto del fatto, anche dedotto in giudizio prima dell’eccezione, idoneo a produrre l’interruzione, qualora l’attore abbia affermato il proprio diritto ritualmente e rettamente provandone sussistenza e persistenza.
La situazione processuale non è diversa da quella che si verifica a proposito dell’eccezione di rinuncia alla prescrizione, che questa Corte quasi sempre
ritiene rilevabile d’ufficio (Cass. 13 ottobre 1976 n. 3409, 7 febbraio 1996
n. 963, 14 maggio 2003 n. 7411).
Non vale affermare in contrario, come fa Cass. n. 9209 del 2002 cit., che eccezione di prescrizione ed eccezione di interruzione sono caratterizzate dalla medesima natura e debbono essere assoggettate allo stesso regime a fini di speditezza del procedimento e per « sgombrare il campo dalla questione »: il principio di
speditezza, già implicito nell’art. 24 Cost. ed ora espresso, come s’è ricordato, nel
capoverso dell’art. 111, si realizza nelle forme di legge (« ...La legge ne (del processo) assicura la ragionevole durata ») e non comporta l’obliterazione della distinzione fra eccezioni rilevabili d’ufficio e non, voluta dal legislatore.
In altre parole la sent. n. 9209 del 2002 opera una completa assimilazione
fra eccezione in senso stretto e controeccezione, che è priva di fondamento positivo: si pensi all’eccezione di compensazione ed alla controeccezione di pagamento.
In conclusione si deve affermare il principio di diritto secondo cui
l’eccezione di interruzione della prescrizione, in quanto eccezione in senso lato,
può essere rilevata d’ufficio dal giudice in qualunque stato e grado del processo
sulla base di prove ritualmente acquisite agli atti.
Nel caso di specie la sentenza impugnata non nega la rituale produzione
del documento epistolare di contenuto interruttivo, nè la produzione è negata
dal controricorrente, il quale nell’ultima pagina del suo scritto difensivo vi fa
esplicito riferimento (lettera 5 luglio 1996), limitandosi a negarne la provenien-
720
RIVISTA DI DIRITTO PROCESSUALE
za dal creditore, ossia dal soggetto legittimato ad interrompere la prescrizione.
È altresì pacifico il detto contenuto interruttivo, ossia la manifestazione della
pretesa creditoria, avente ad oggetto la prestazione previdenziale (cfr. Cass. 28
giugno 1979 n. 3618, 27 giugno 1997 n. 5733). (Omissis).
II
(Omissis). – 6. La censura pone il problema se il potere di ridurre la penale, conferito al giudice dall’art. 1384 c.c., possa essere esercitato d’ufficio ovvero se sia necessaria la domanda o la eccezione della parte tenuta al pagamento.
6.1. Il dato normativo, come detto, è costituito dall’art. 1384 c.c. secondo
cui « La penale può essere diminuita equamente dal giudice, se l’obbligazione
principale è stata eseguita in parte ovvero se l’ammontare della penale è manifestamente eccessivo, avuto sempre riguardo all’interesse che il creditore aveva
all’adempimento ».
6.2. Fin dall’entrata in vigore del codice civile del 1942, la giurisprudenza
della Corte di Cassazione è stata concorde nell’affermare che il potere del giudice di ridurre la penale non può essere esercitato d’ufficio, pur manifestando
nell’ambito di questo orientamento, notevoli oscillazioni in ordine al modo ed
ai tempi in cui le parti avrebbero dovuto esercitare il loro riconosciuto dovere di
sollecitare la pronuncia del giudice, giungendo, in taluni casi, ma con affermazione poi superata dalla successiva prevalente giurisprudenza, a ritenere che la
richiesta di riduzione della penale dovesse ritenersi implicita nell’affermazione
di nulla dovere a tale titolo.
Tale orientamento è stato, tuttavia, posto in discussione dalla sentenza
n. 10511/1999 di questa Corte, la quale ha, invece, ritenuto che la penale possa
essere ridotta dal giudice anche d’ufficio.
Questo nuovo orientamento non ha però trovato seguito nella successiva
giurisprudenza della Corte, che (fatta eccezione per la sentenza n. 8188/2003
che ad esso si è adeguata) ha ribadito l’orientamento tradizionale, con le sentenze n. 5324/2003, n. 8813/2003, n. 5691/2002, n. 14172/2000.
6.3. Queste sezioni unite, chiamate a risolvere il richiamato contrasto,
ritengono di dover confermare il principio affermato dalla sentenza
n. 10511/1999, cui si è adeguata la sentenza n. 8188/2003.
6.4. Non vi è dubbio che la svolta operata dalla sentenza n. 10511/1999 è
stata influenzata da due concorrenti elementi.
Il primo relativo al riscontro nella giurisprudenza, che fino ad allora aveva
negato il potere del giudice di ridurre d’ufficio la penale, di taluni cedimenti,
individuati nel fatto che, in alcune delle pronunzie, l’ossequio al principio tradizionale appariva solo formale, poiché si giungeva talvolta a ritenere la domanda
di riduzione implicita nell’assunto della parte di nulla dovere a titolo di penale
ovvero l’eccezione relativa proponibile in appello.
Il secondo fondato sull’osservazione che l’esegesi tradizionale non appari-
GIURISPRUDENZA
721
va più adeguata alla luce di una rilettura degli istituti codicistici in senso conformativo ai precetti superiori della Costituzione, individuati nel dovere di solidarietà nei rapporti intersoggettivi (art. 2 Cost.), nell’esistenza di un principio di
inesigibilità come limite alle pretese creditorie (Corte cost. n. 19/1994), da valutare insieme ai canoni generali di buona fede oggettiva e di correttezza
(artt. 1175, 1337, 1359, 1366, 1375 c.c.).
6.5. Quanto al primo elemento sopra ricordato, non v’è dubbio che le variegate posizioni assunte dalla giurisprudenza, in ordine ai tempi ed ai modi in
cui la richiesta di riduzione della penale debba avvenire ed alle ragioni per le
quali la stessa possa essere richiesta, denotano quanto meno una debolezza dei
fondamenti giuridici sui quali si basa la tesi della non riducibilità d’ufficio della
penale, nonché una implicita contraddittorietà, individuabile specie in quelle
pronunce le quali affermano che la norma dell’art 1384 c.c. – che attribuisce al
giudice il potere di diminuire equamente la penale – non ha la funzione di proteggere il contraente economicamente più debole dallo strapotere del più forte,
bensì mira alla tutela e ricostituzione dell’equilibrio contrattuale, evitando che
da un inadempimento parziale o, comunque, di importanza non enorme, possano derivare conseguenze troppo gravi per l’inadempiente (v. Cass. 6 aprile
1978, n. 1574), ovvero ritengono che la riduzione della penale, per effetto di
parziale adempimento dell’obbligazione, a norma dell’art. 1384 c.c., non integra un diritto del debitore, ma è rimessa all’equa valutazione del giudice, in relazione all’interesse del creditore al tempestivo ed integrale adempimento (v.
Cass. 7 luglio 1981, n. 4425).
6.6. Quanto al secondo elemento non può che condividersi la necessità di
una lettura della norma di cui all’art. 1384 c.c. che meglio rispecchi l’esigenza
di tutela di un interesse oggettivo dell’ordinamento alla luce dei principi costituzionali richiamati.
6.7. Naturalmente una lettura di questo tipo, consentita dal fatto che
l’art. 1384 c.c. non contiene alcun riferimento ad un’iniziativa della parte rivolta a sollecitare l’esercizio del potere di riduzione da parte del giudice, non
può prescindere dalla necessità di sottoporre a vaglio le argomentazioni addotte dalla giurisprudenza che ritiene necessaria quella iniziativa e di verificare nel contempo se sussistano altre ragioni, che consentano quella lettura della
norma adeguata ai principi costituzionali posti bene in luce dalla sentenza
n. 10511/1999.
6.8. Gli argomenti addotti dalla giurisprudenza che nega il potere del giudice di ridurre d’ufficio la penale sono principalmente tre.
6.8.1. Il primo argomento si fonda sul principio generale, al quale
l’art. 1384 c.c. non derogherebbe, secondo cui il giudice non può pronunciare se
non nei limiti della domanda e delle eccezioni proposte dalle parti.
Sennonché questo argomento non appare decisivo e sembra fondarsi
sull’assunto della esistenza di un fatto che è, invece, da dimostrare.
Occorre partire dal testo dell’art. 112 c.p.c., secondo cui «Il giudice deve pronunciare su tutta la domanda e non oltre i limiti di essa; e non può
722
RIVISTA DI DIRITTO PROCESSUALE
pronunciare d’ufficio su eccezioni, che possono essere proposte soltanto dalle parti ».
Ora, il giudice che riduca l’ammontare della penale, al cui pagamento il
creditore ha chiesto che il debitore sia condannato, non viola in alcun modo la
prima proposizione del richiamato art. 112 c.p.c., atteso che il limite postogli
dalla norma è, in linea generale, che egli non può condannare il debitore ad una
somma superiore a quella richiesta, mentre può condannarlo al pagamento di
una somma inferiore.
Ma l’art. 112 c.p.c. dispone anche che il giudice non può pronunciare
d’ufficio su eccezioni che possono essere proposte soltanto dalle parti.
La norma lascia intendere che vi sono, oltre alle eccezioni proponibili soltanto dalle parti, anche eccezioni che non lo sono e, in quanto tali, rilevabili
d’ufficio.
Se così è, allora, il problema della riducibilità della penale non è risolto
dall’art. 112 c.p.c., ma dalla risposta al quesito se la riduzione della penale sia
oggetto di una eccezione che può essere proposta soltanto dalla parte.
Nel codice civile sono espressamente individuate varie ipotesi di eccezioni
proponibili soltanto dalla parte; in via esemplificativa: art. 1242, primo comma.
c.c. – eccezione di compensazione; art. 1442, comma quarto, c.c. – eccezione di
annullabilità del contratto, quando è prescritta l’azione; art. 1449, secondo
comma, c.c. – eccezione di rescindibilità del contratto, quando l’azione è prescritta; art. 1460, primo comma, c.c. – eccezione di inadempimento; art. 1495,
terzo comma, c.c. – eccezione di garanzia, nella vendita, anche se è prescritta
l’azione; art. 1667, terzo comma, c.c. – eccezione di garanzia, nell’appalto –
anche se l’azione è prescritta; art. 1944, secondo comma, c.c. – eccezione di
escussione da parte del fideiussore; art. 1947, primo comma, c.c. – beneficio
della divisione nella fideiussione; art. 2938 c.c. – eccezione di prescrizione; art.
2969 c.c. – eccezione di decadenza, « salvo che, trattandosi di materia sottratta
alla disponibilità delle parti, il giudice debba rilevare le cause d’improponibilità
dell’azione ».
L’art. 1384 c.c., al contrario delle ipotesi sopra indicate, non fa alcuna
menzione della necessità della eccezione della parte o, quantomeno, della necessità che il giudice debba essere sollecitato ad esercitare il potere di riduzione
della penale conferitogli dalla legge.
Il silenzio della norma sul punto non depone certamente a favore della tesi
secondo cui la riduzione della penale debba essere chiesta dalla parte, ma fa
propendere, se mai, a favore della tesi contraria, specie se si guardi ad altre previsioni del codice civile nelle quali l’intervento del giudice è visto in funzione
correttiva della volontà manifestata dalle parti (v. Cass. sez. un. 17 maggio
1996, n. 4570, che espressamente parla di « funzione correttiva » del giudice,
non solo nell’ipotesi della riduzione della penale manifestamente eccessiva (art.
1384 c.c.), ma anche nei casi di riduzione dell’indennità dovuta per la risoluzione della vendita con riserva di proprietà (art. 1526 c.c.) e di riduzione della posta di giuoco eccessiva (art. 1934 c.c.).
GIURISPRUDENZA
723
6.8.2. Il secondo argomento addotto è che la riduzione della penale fissata
dalle parti è prevista dalla legge come istituto a tutela degli specifici interessi
del debitore, al quale quindi deve essere rimessa, nell’esercizio della difesa dei
propri diritti, ogni iniziativa al riguardo ed ogni consequenziale valutazione
della eccessività della penale ovvero della sua sopravvenuta onerosità, in relazione alla parte di esecuzione che il contratto ha avuto.
Anche questo argomento si fonda su un dato non dimostrato e cioè che
l’istituto della riduzione della penale sia predisposto nell’interesse della parte
debitrice.
Intanto una affermazione di questo tipo appare contraddetta dall’osservazione che la penale « può » ma non « deve » essere ridotta dal giudice,
avuto riguardo all’interesse che il creditore aveva all’adempimento; dal che
si desume che non esiste un diritto del debitore alla riduzione della penale e
che il criterio che il giudice deve utilizzare per valutare se una penale sia eccessiva ha natura oggettiva, atteso che non è previsto che il giudice debba
tenere conto della posizione soggettiva del debitore e del riflesso che sul suo
patrimonio la penale può avere, ma solo dello squilibrio tra le posizioni delle
parti, mentre il riferimento all’interesse del creditore ha la sola funzione di
indicare lo strumento per mezzo del quale valutare se la penale sia manifestamente eccessiva o meno.
Ne discende che, pur sostanziandosi la riduzione della penale in un provvedimento che rende in concreto meno onerosa la posizione del debitore e che
deve essere adottato tenuto conto dell’interesse che il creditore aveva all’adempimento, il potere di riduzione appare attribuito al giudice non per la tutela
dell’interesse della parte tenuta al pagamento della penale, ma, piuttosto, a tutela di un interesse che lo trascende.
Del resto il nostro ordinamento conosce altri casi in cui l’intervento equitativo del giudice pur risolvendosi in favore di una delle parti in contesa non è
tuttavia predisposto specificamente per la tutela di un suo interesse.
Si pensi all’ipotesi in cui una delle parti abbia chiesto il risarcimento del
danno in forma specifica; il giudice, in questo caso, anche se l’esecuzione specifica sia possibile, ha tuttavia il potere di disporre che il risarcimento avvenga
per equivalente « se la reintegrazione in forma specifica risulta eccessivamente
onerosa per il debitore » (art. 2058 c.c.).
È un potere che il giudice può esercitare pacificamente d’ufficio avuta presente l’obiettiva difficoltà che il debitore può incontrare nell’eseguire la prestazione risarcitoria; la difficoltà, appunto perché obiettiva, non riguarda però la
situazione economica del debitore, ma piuttosto l’esecuzione stessa della prestazione, ad esempio quando venga a mancare una proporzione tra danno, costo
ed utilità. L’onerosità per il debitore viene cioè in rilievo come metro di giudizio perché il giudice possa effettuare la sua valutazione e non come interesse
tutelato dalla norma.
Si pensi ancora al potere attribuito al giudice di liquidare il danno con valutazione equitativa se lo stesso non può essere provato nel suo preciso am-
724
RIVISTA DI DIRITTO PROCESSUALE
montare (art. 1226 c.c.), pacificamente esercitabile indipendentemente dalla richiesta delle parti.
Già, quindi, dall’esame critico della giurisprudenza maggioritaria, emergono elementi per affermare che il potere di riduzione della penale è concesso
dalla legge al giudice per fini che prescindono dalla tutela dell’interesse della
parte, che al pagamento della penale sia tenuta per effetto del suo inadempimento o ritardato adempimento.
6.8.3. Il terzo argomento addotto dalla giurisprudenza prevalente è che il
giudice, nell’esercizio dei poteri equitativi diretti alla determinazione dell’oggetto dell’obbligazione della clausola, non dispone di altri parametri di giudizio
che di quelli dati dai contrapposti interessi delle parti al fine esclusivo di verificare se l’equilibrio raggiunto dalle parti stesse, nella preventiva determinazione
delle conseguenze dell’inadempimento, sia equo o sia rimasto tale.
Ma anche questo argomento non appare decisivo ove si consideri che la
mancata allegazione (o la impossibilità di riscontri negli atti acquisiti) della eccessività della penale incide sul piano fattuale dell’accertamento della sussistenza delle condizioni per la riduzione della penale medesima, ma non
sull’esercizio officioso del potere del giudice.
In proposito è sufficiente ricordare ciò che accade in tema di nullità del
contratto, che il giudice può dichiarare d’ufficio purché risultino dagli atti i presupposti della nullità medesima (Cass. n. 4062/1987), senza che per l’accertamento della nullità occorrano indagini di fatto per le quali manchino gli elementi necessari (Cass. n. 1768/1986, 4955/1985, 985/1981), e più di recente
Cass. n. 1552/2004, secondo cui « La rilevabilità d’ufficio della nullità di un
contratto prevista dall’art. 1421 c.c. non comporta che il giudice sia obbligato
ad un accertamento d’ufficio in tal senso, dovendo invece detta nullità risultare
ex actis ossia dal materiale probatorio legittimamente acquisito al processo, essendo i poteri officiosi del giudice limitati al rilievo della nullità e non intesi
perciò ad esonerare la parte dall’onere probatorio gravante su di essa », nonché
da ultimo Cass., sez. un., 4 novembre 2004, n. 21095.
6.8.4. Sembra, quindi, che nessuno dei tre argomenti prospettati dalla giurisprudenza maggioritaria sia decisivo per la soluzione del quesito oggetto del
contrasto, mentre, come in parte anticipato, vi sono argomenti che appaiono
sufficientemente probanti a sostegno della tesi fin qui minoritaria, i quali assumono una valenza decisiva alla luce dei principi costituzionali posti in luce
dalla sentenza n. 10511/1999.
6.9. Poiché nella discussione sull’esistenza del potere del giudice di ridurre
d’ufficio la penale è stato spesso introdotto il tema dell’autonomia contrattuale
è bene prendere le mosse proprio da tale punto.
L’art. 1322 c.c. – la cui rubrica è appunto intitolata all’autonomia contrattuale – attribuisce alle parti:
a) il potere di determinare il contenuto del contratto;
b) il potere di concludere contratti che non appartengono ai tipi aventi
una disciplina particolare.
GIURISPRUDENZA
725
Nel primo caso l’autonomia delle parti deve svolgersi « nei limiti imposti
dalla legge », nel secondo caso la libertà è limitata per il fatto che il contratto
deve essere diretto « a realizzare interessi meritevoli di tutela secondo l’ordinamento giuridico ».
La legge, quindi, nel riconoscere l’autonomia contrattuale delle parti, afferma che essa ha comunque dei limiti.
L’osservanza del rispetto di tali limiti è demandato al giudice, che non può
riconoscere il diritto fatto valere, se esso si fonda su un contratto il cui contenuto non sia conforme alla legge ovvero sia diretto a realizzare interessi che non
appaiono meritevoli secondo l’ordinamento giuridico.
L’intervento del giudice in tali casi è indubbiamente esercizio di un potere
officioso attribuito dalla legge.
Se nel nostro ordinamento non fosse stato previsto e disciplinato l’istituto
della clausola penale e, tuttavia, le parti avessero introdotto in un contratto una
clausola con tale funzione, il giudice, chiamato a pronunciarsi in ordine ad una
domanda di condanna del debitore al pagamento della penale pattuita per effetto
dell’inadempimento, avrebbe dovuto formulare, d’ufficio, un giudizio sulla validità della clausola; giudizio che avrebbe potuto avere esito negativo, ove fosse
stato ravvisato un contrasto dell’accordo con principi fondamentali dell’ordinamento, ad esempio per il fatto che la penale doveva essere pagata anche se
il danno non sussisteva.
In questo caso vi sarebbe stato un controllo d’ufficio sulla tutelabilità
dell’accordo delle parti e, ove il controllo si fosse concluso negativamente, la
tutela non sarebbe stata accordata.
Nel nostro diritto positivo questo controllo non è necessario perché
l’istituto è riconosciuto e disciplinato dalla legge (artt. 1382 e ss. c.c.).
Nel disciplinare l’istituto la legge ha ampliato il campo normalmente riservato all’autonomia delle parti, prevedendo per esse la possibilità di predeterminare, in tutto o in parte, l’ammontare del risarcimento del danno dovuto dal debitore inadempiente (se si vuole privilegiare l’aspetto risarcitorio
della clausola), ovvero di esonerare il creditore di fornire la prova del danno
subito, di costituire un vincolo sollecitatorio a carico del debitore, di porre a
carico di quest’ultimo una sanzione per l’inadempimento (se se ne vuole privilegiare l’aspetto sanzionatorio), e ciò in deroga alla disciplina positiva in
materia, ad esempio, di onere della prova, di determinazione del risarcimento
del danno, della possibilità di istituire sanzioni private.
Tuttavia, la legge, nel momento in cui ha ampliato l’autonomia delle parti,
in un campo normalmente riservato alla disciplina positiva, ha riservato al giudice un potere di controllo sul modo in cui le parti hanno fatto uso di questa
autonomia.
Così operando, la legge ha in sostanza spostato l’intervento giudiziale, diretto al controllo della conformità del manifestarsi dell’autonomia contrattuale
nei limiti in cui essa è consentita, dalla fase formativa dell’accordo – che ha ritenuto comunque valido, quale che fosse l’ammontare della penale – alla sua
726
RIVISTA DI DIRITTO PROCESSUALE
fase attuativa, mediante l’attribuzione al giudice del potere di controllare che la
penale non fosse originariamente manifestamente eccessiva e non lo fosse successivamente divenuta per effetto del parziale adempimento.
Un potere di tal fatta appare concesso in funzione correttiva della volontà
delle parti per ricondurre l’accordo ad equità.
Vi sono casi in cui la correzione della volontà delle parti avviene automaticamente, per effetto di una disposizione di legge che ne limita l’autonomia e che sostituisce alla volontà delle parti quella della legge (in tali
casi l’accordo delle parti, che non rispecchia il contenuto tipico previsto
dalla legge, non viene dichiarato nullo ma viene modificato mediante la sostituzione della parte non conforme); ve ne sono altri, in cui una inserzione
automatica della disciplina legislativa, in sostituzione di quella pattizia, non
è possibile perché non può essere determinata in anticipo la prestazione dovuta da una delle parti, che quindi non può essere automaticamente inserita
nel contratto; in tali casi la misura della prestazione è rimessa al giudice, per
evitare che le parti utilizzino uno strumento legale per ottenere uno scopo
che l’ordinamento non consente ovvero non ritiene meritevole di tutela, come è reso evidente, proprio in tema di clausola penale, dal fatto che il potere
di riduzione è concesso al giudice solo con riferimento ad una penale che
non solo sia eccessiva, ma che lo sia « manifestamente », ovvero ad una penale non più giustificabile nella sua originaria determinazione, per effetto del
parziale adempimento dell’obbligazione.
In tale senso inteso, il potere di controllo appare attribuito al giudice non
nell’interesse della parte ma nell’interesse dell’ordinamento, per evitare che
l’autonomia contrattuale travalichi i limiti entro i quali la tutela delle posizioni
soggettive delle parti appare meritevole di tutela, anche se ciò non toglie che
l’interesse della parte venga alla fine tutelato, ma solo come aspetto riflesso
della funzione primaria cui assolve la norma.
Può essere affermato allora che il potere concesso al giudice di ridurre la
penale si pone come un limite all’autonomia delle parti, posto dalla legge a tutela di un interesse generale, limite non prefissato ma individuato dal giudice di
volta in volta, e ricorrendo le condizioni previste dalla norma, con riferimento
al principio di equità.
Se così non fosse, apparirebbe quanto meno singolare ritenere, sicuramente con riferimento all’ipotesi di penale manifestamente eccessiva, in
presenza di una clausola valida (si ricordi che è valida la clausola ancorché
manifestamente eccessiva), che l’esercizio del potere del giudice di riduzione della penale debba essere condizionato alla richiesta della parte, quasi
che, a questa, fosse riconosciuto uno jus poenitendi, e, quindi la facoltà di
sottrarsi all’adempimento di un’obbligazione liberamente assunta (quella
appunto del pagamento di una penale che fin dall’origine si manifestava
come eccessiva).
Se si considera che il potere di riduzione della penale può essere esercitato solo in presenza di una clausola che sia valida (e quindi esente da vizi
GIURISPRUDENZA
727
che ne determino la nullità o l’annullabilità) più coerente appare allora qualificare detto potere come officioso nel senso sopra specificato, di riconduzione dell’accordo, frutto della volontà liberamente manifestata dalle parti, nei
limiti in cui esso appare meritevole di ricevere tutela dall’ordinamento.
Non è privo di significato il fatto che la giurisprudenza, pur affermando
la tesi della necessità della domanda o eccezione della parte al fine di sollecitare il potere di riduzione affidato al giudice, non ha potuto tuttavia non
riconoscere (come del resto la quasi unanime dottrina) la natura inderogabile
della disposizione di cui all’art. 1384 c.c., attributiva al giudice del potere di
ridurre la penale, riconoscendo che essa è posta principalmente a salvaguardia dell’interesse generale, per impedire sconfinamenti oltre determinati limiti di equilibrio contrattuale (v. in tal senso Cass. 4 febbraio 1960, n. 163 e
successivamente, in modo conforme circa la natura inderogabile della norma,
Cass., sez. un., 5 dicembre 1977, n. 5261; Cass. 7 agosto 1992, n. 9366;
Cass. 29 marzo 1996, n. 2909; Cass. 5 novembre 2002, n. 15497 – queste
ultime tre in motivazione), in tale modo riconoscendo l’esistenza dei presupposti per un intervento officioso del giudice, non tanto per la tutela di interessi individuali, ma piuttosto per una funzione correttiva di riequilibrio
contrattuale (se si vuole privilegiare la tesi della natura risarcitoria della penale) ovvero di adeguatezza della sanzione (se si vuole privilegiare la tesi
della funzione sanzionatoria).
Aspetto quest’ultimo particolarmente sottolineato da Cass. 24 aprile
1980, n. 2749, secondo cui il potere conferito al giudice dall’art. 1384 c.c. di
ridurre la penale manifestamente eccessiva è fondato sulla necessità di correggere il potere di autonomia privata riducendolo nei limiti in cui opera il
riconoscimento di essa, mediante l’esercizio di un potere equitativo che ristabilisca un congruo contemperamento degli interessi contrapposti, valutando l’interesse del creditore all’adempimento, cui ha diritto, tenendosi conto
dell’effettiva incidenza di esso sull’equilibrio delle prestazioni e sulla concreta situazione contrattuale.
Pare, quindi, a queste sezioni unite, che la lettura della norma interessata, svolta nel quadro dei principi generali dell’ordinamento e dei principi
costituzionali posti in luce dalla sentenza n. 10511/1999, consenta di giungere alla conclusione che il potere del giudice di ridurre la penale possa essere
esercitato d’ufficio, e ciò sia con riferimento alla penale manifestamente eccessiva, sia con riferimento all’ipotesi in cui la riduzione avvenga perché
l’obbligazione principale è stata in parte eseguita, giacché in quest’ultimo
caso, la mancata previsione da parte dei contraenti di una riduzione della penale in caso di adempimento di parte dell’obbligazione, si traduce comunque
in una eccessività della penale se rapportata alla sola parte rimasta inadempiuta.
7. È questa lettura della norma che porta ad affermare il principio che « il
potere di diminuire equamente la penale, attribuito dall’art. 1384 c.c. al giudice,
può essere esercitato anche d’ufficio ». (Omissis).
728
RIVISTA DI DIRITTO PROCESSUALE
(1-4) Sui poteri ufficiosi del giudice in tema di interruzione della
prescrizione e di riduzione della penale
1. – Le due decisioni qui pubblicate sono importantissime, perché le Sezioni
Unite intervengono su uno dei profili centrali del processo: quello della distinzione tra ciò che il giudice può rilevare e disporre d’ufficio e ciò che il giudice può
rilevare e disporre soltanto su istanza della parte interessata. Il quesito è sempre di
grande rilievo, quale che sia la struttura del procedimento. Ma in un processo come il nostro, nel quale le istanze di parte sono sottoposte a rigide preclusioni cui
sfugge l’esercizio dei poteri attribuiti al giudice, l’importanza della questione è
ulteriormente sottolineata: se l’istanza di parte è necessaria, preclusioni e decadenze particolarmente rigide sono in agguato. Per tale motivo, le due decisioni
non soltanto costituiscono un contributo alla costruzione dei principi che presiedono al rapporto dialettico parti-giudice, ma anche recano un colpo all’ambito di
applicazione delle preclusioni: esse fanno capire che, in certa misura, il nostro
processo è meno « precluso » di quanto potrebbe sembrare a prima vista.
Con la prima delle due sentenze (la n. 15661/2005), le Sezioni Unite affrontano il problema di fronte alla controeccezione con la quale l’attore, essendosi
sentito eccepire la prescrizione dal convenuto, si avvale di un fatto interruttivo di
tale prescrizione: secondo la Corte, del fatto interruttivo il giudice deve tener
conto (si capisce, se esso emerge in qualsiasi modo dagli atti del processo), anche
se l’attore non lo chiede. La Corte applica alla controeccezione dell’attore la stessa distinzione tra eccezioni in senso proprio (ancorate alla necessaria istanza della
parte) ed eccezioni in senso improprio (rilevabili d’ufficio), che la dottrina classica ha elaborato a proposito delle eccezioni del convenuto; afferma che – salva
diversa disposizione di legge – l’eccezione può essere definita come « in senso
proprio » soltanto nelle ipotesi nelle quali il fatto favorevole al convenuto, se dedotto in via di azione, darebbe vita ad una domanda costitutiva (come sostenuto
da autorevole dottrina) (1); e conclude che la controeccezione di interruzione
della prescrizione è controeccezione « in senso improprio », perché la domanda
dell’attore fondata su quel fatto non sarebbe, per l’appunto, costitutiva.
L’affermazione di carattere generale, secondo la quale le eccezioni in senso proprio sono speculari a possibili domande costitutive del convenuto (che costituisce
il nucleo del ragionamento della Corte dal punto di vista concettuale), è ricavato
dalla definizione chiovendiana della eccezione in senso proprio come « controdiritto » del convenuto: « controdiritto » da identificarsi soprattutto con un diritto potestativo, avente ad oggetto la modificazione del rapporto sostanziale con
l’attore.
––––––––––––
(1) In questo senso, prima della sentenza commentata, cfr. R. Oriani, Eccezioni rilevabili (e non rilevabili) d’ufficio. A proposito dell’interruzione della prescrizione e di
non condivisibili interpretazioni dell’art. 345, comma 2, c.p.c. (I), in Corr. giur. 2005,
p. 1011 ss., spec. 1014.
GIURISPRUDENZA
729
Con la seconda sentenza (la n. 18128/2005) la Corte afferma invece
l’ammissibilità di una riduzione d’ufficio della penale inserita in un contratto, ai
sensi dell’art. 1384 c.c. Dopo aver negato che la riduzione della penale a favore
del convenuto costituisca oggetto di un’autonoma domanda di quest’ultimo, ed
aver ricondotto il tema nell’ambito delle eccezioni, le Sezioni Unite affermano
il potere ufficioso del giudice in base ad un ragionamento assai complesso ma
riconducibile nel suo nucleo a due punti fondamentali. In primo luogo, per
quanto concerne il tenore dell’art. 1384 c.c., si nota che la norma non richiede
in modo espresso l’istanza dell’interessato, convenuto. In secondo luogo, e per
quanto riguarda la ratio della disposizione, si ricollega la disposizione stessa
non tanto all’esigenza di proteggere l’interesse del debitore come parte più debole, mediante una riconduzione del contratto ad equità, quanto su una più generale esigenza di solidarietà sorretta dall’interesse pubblico.
2. – Per quanto concerne il merito delle affermazioni compiute dalla Corte,
dico subito che la prima delle due sentenze (la n. 15661/2005) desta in me una
reazione ammirata più che semplicemente positiva. Dico questo sia per il contributo, che la motivazione reca alla distinzione tra eccezioni in senso proprio
ed eccezioni in senso improprio, sia per la soluzione affermata sullo specifico
problema della interruzione della prescrizione.
Quanto al primo tema (distinzione tra eccezioni in senso proprio ed eccezioni in senso improprio), in una breve nota di commento non è evidentemente possibile darvi fondo. Basta tuttavia uno sguardo alla dottrina, per percepirne la difficoltà: giacché, se la distinzione tra i due tipi di eccezione è in
sé chiara per quanto concerne gli effetti (ammissibilità o inammissibilità di un
esame d’ufficio da parte del giudice), non altrettanto può dirsi per quanto
concerne il criterio distintivo da applicare. In dottrina molteplici sono i criteri
suggeriti, quando si tratta di collocare nell’una o nell’altra categoria una qualsiasi eccezione, per la quale il problema della rilevabilità o non rilevabilità
d’ufficio non sia risolto espressamente dalla legge (2); ed in giurisprudenza si
trova quasi sempre (come d’altronde è inevitabile che accada) una casistica
piuttosto che un’elaborazione concettuale. Ma questa volta la Corte ha il coraggio di impegnarsi anche sul terreno della teoria, con una scelta precisa. La
tesi accolta (secondo la quale sono qualificabili come « in senso proprio »
soltanto le eccezioni fondate su quei fatti, che potrebbero essere dedotti in via
di azione con domanda costitutiva) può piacere o non piacere; ma anche chi in
ipotesi non la condivida deve ammettere che si tratta di una tesi particolarmente chiara, applicabile nei singoli casi concreti molto più facilmente di altre; e la certezza ne guadagna non poco. Finalmente, accanto alle tesi a volta a
––––––––––––
(2) Rinvio qui, anche per riferimenti, a R. Oriani, Eccezione, in Digesto delle discipline privatistiche, VII, Torino 1991, p. 262 ss., spec. p. 266 ss.; idem, op. cit. nella nota
1, p. 1011 ss.
730
RIVISTA DI DIRITTO PROCESSUALE
volta sostenute in dottrina si può da ora in poi ricordare anche una tesi accolta
dalla giurisprudenza.
Chiara è poi la necessità di applicare lo stesso criterio anche alle controeccezioni; e la Corte ha qui il merito di restare fedele alle premesse fissate come
criterio generale, resistendo alla tentazione cui avevano ceduto altri precedenti
giurisprudenziali (diligentemente passati in rassegna nella motivazione della
sentenza): quella di pensare alla disciplina dell’intero tema della prescrizione
come a qualche cosa di rigorosamente unitario, tanto da sottoporre l’interruzione della prescrizione al divieto di esame d’ufficio fissato dall’art. 2938 c.c.
Vero è che, nel resistere a tale tentazione, la Corte è stata ancora una volta aiutata da autorevole dottrina (3); ma la giurisprudenza, che nel risolvere i problemi tiene conto della dottrina, proprio per questo merita di essere apprezzata.
3. – Alla luce dei principi affermati dalla sentenza di cui sopra, l’altra decisione (la n. 18128/2005) sulla riduzione della penale è tuttavia incomprensibile. La riduzione della penale è infatti, all’evidenza, un provvedimento costitutivo; e se supponiamo che il convenuto possa avvalersi dell’iniquità della penale
in via di eccezione, per ottenere un rigetto totale o parziale della domanda
avente ad oggetto il pagamento, tale eccezione dovrebbe essere considerata per
ciò stesso non rilevabile d’ufficio. Nell’affermare l’ammissibilità di una riduzione d’ufficio della penale, dunque, la sentenza n. 18128/2005 va ben oltre gli
esiti ricavabili dalla sentenza n. 15661/2005, aprendo uno scenario diverso: la
rilevabilità d’ufficio anche di fatti estintivi, modificativi o impeditivi del diritto
vantato dall’attore, che proposti in via di azione provocherebbero domande costitutive anziché di mero accertamento o condanna.
Le perplessità, allora, sono inevitabili; ed in primo luogo mi pare sorprendente che le Sezioni Unite, dopo aver pronunciato una decisione concettualmente impegnata come la n. 15661/2005, subito se ne dimentichino, affrontando ex novo lo stesso problema (quello della distinzione tra eccezioni in senso
proprio ed eccezioni in senso improprio) con soluzioni diverse da quelle precedentemente affermate. Vero è che già in precedenti decisioni la Cassazione
aveva affermato l’ammissibilità di una riduzione d’ufficio della penale (4). Ma
penso che lo sforzo costruttivo compiuto con la sentenza n. 15661/2005 avrebbe
dovuto, per coerenza, indurre a riconsiderare la precedente giurisprudenza sulla
riduzione della penale con atteggiamento critico.
Né mi convincono gli argomenti addotti dalla Corte in motivazione, che
riecheggiano quelli esposti nelle altre sentenze orientate nello stesso senso.
––––––––––––
(3) Cfr., infatti, anche per riferimenti, R. Oriani, Processo di cognizione e interruzione della prescrizione, Napoli 1977, p. 232; idem, Eccezioni rilevabili ecc., cit. (II), in
Corr. giur. 2005, p. 1156 ss.
(4) Cass., 23 maggio 2003, n. 8188, in Nuova giur. civ. comm. 2004, I, p. 553 ss.;
Cass., 4 giugno 2004, n. 3490, in Rep. Foro it. 2004, voce Contratto in genere, n. 486.
GIURISPRUDENZA
731
Quanto al tenore letterale dell’art. 1384 c.c., la Corte ha evidentemente ragione
nel notare che la norma non richiede in modo espresso l’istanza del convenuto;
ma non per questo il potere ufficioso del giudice può essere affermato a contrario: vero è invece che proprio per il silenzio della legge il problema resta aperto,
per richiedere una soluzione fondata su argomenti sistematici (come quelli
esposti nella sentenza n. 15661/2005). Né più convincenti sono le osservazioni
relative alla ratio della norma.
Nessuno nega i valori di solidarietà (e di tutela della parte contrattuale più
debole), che sorreggono l’art. 1334 c.c.; e nessuno nega che tali valori meritino
di essere considerati come appartenenti all’intera collettività. Ma altrettanta solidarietà sorregge ad esempio gli artt. 1447 e 1448 in tema di rescissione; sono
ancora dei valori di solidarietà quelli che presiedono all’annullamento del contratto per vizi del consenso ai sensi degli artt. 1427 ss. c.c.; tornano ancora una
volta in primo piano valori di equità e solidarietà, quando ci si interroga sulla
ratio della risoluzione per eccessiva onerosità prevista dall’art. 1467 c.c.: e tutti
questi sono casi, nei quali nessuno dubita della necessaria istanza della parte
convenuta, che desideri far respingere la domanda di adempimento proposta
dall’attore. A me pare che i valori di solidarietà ed equità niente altro siano, se
non la ragion d’essere di una certa protezione accordata a certi soggetti in certe
occasioni; e che spetti in ultima analisi alla parte interessata la decisione, se avvalersi o non avvalersi della protezione concessale.
4. – Sulla sentenza n. 18128/2005, tuttavia, vorrei aggiungere ancora qualcosa. In realtà dubito che il potere di chiedere la riduzione della penale possa
dar vita, da parte del convenuto, ad una vera e propria eccezione. Secondo me,
l’istanza del convenuto può essere soltanto una domanda riconvenzionale; e le
Sezioni Unite creano in realtà un caso di decisione privo di domanda.
Consideriamo, come punto di riferimento orientativo, quanto accade in
tema di annullamento, risoluzione o rescissione del contratto. Alla possibilità di
una domanda costitutiva si affianca l’ammissibilità di un’eccezione, per una
ragione molto precisa: la legge consente al convenuto, in modo espresso, di
evitare l’adempimento pur senza chiedere la caducazione del contratto. Quei
medesimi fatti, in virtù dei quali il contratto potrebbe essere eliminato, attribuiscono al convenuto anche il potere di sottrarsi a quanto preteso nei suoi confronti; ed in tal modo la domanda di manutenzione contrattuale è respinta senza
che la fonte del diritto dell’attore (il contratto) venga caducata una volta per
tutte. È qui la ragione, per la quale sarebbe scorretto parlare di « eccezione di
annullamento », o di « rescissione » o di « risoluzione »: si deve parlare invece
di « eccezione di (mera) annullabilità », o « (mera) rescindibilità, o « (mera)
risolubilità, ecc.
Ma si può dire lo stesso, quando la legge non consente in modo espresso al
convenuto di ottenere il rigetto della domanda sulla base della mera possibilità
che la fonte del diritto dell’attore sia caducata? In astratto si può anche pensare
che il convenuto, se ha il potere di far caducare la fonte del diritto dell’attore,
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RIVISTA DI DIRITTO PROCESSUALE
per ciò stesso (e per principio generale) abbia anche il potere di fare respingere
la domanda senza il bisogno di provocare tale caducazione (5). Non da oggi,
tuttavia, nutro riserve contro questa tesi. Credo che in linea di massima chi ha il
potere di eliminare un atto (con i suoi effetti) ne abbia anche l’onere; e che la
eliminazione dell’atto sia necessaria, per chi pretenda di non tenerne conto.
Solo per ragioni specifiche e di settore la legge prevede talora che la mera caducabilità di un atto qualsiasi consenta di considerarlo tamquam non esset, senza che l’iniziativa necessaria alla sua eliminazione sia effettivamente presa e
coltivata sino all’esito positivo (6); né tale soluzione può essere generalizzata.
L’art. 1384 c.c., nel prevedere la riduzione della penale, ci dice che cosa il
convenuto può chiedere con domanda modificativa del contratto; ed è ovvio
che, ove tale domanda sia proposta e accolta, il contratto va poi applicato come
modificato anche ai fini dell’accoglimento o rigetto della domanda dell’attore.
Ma niente dice la norma circa la possibilità di evitare in tutto o in parte il pagamento mediante la semplice allegazione dei fatti, in virtù dei quali la penale
potrebbe essere ridotta. Due sono dunque i casi: o la domanda (costitutiva) di
riduzione è proposta, o la domanda avente ad oggetto il credito di cui alla penale va accolta, quale che sia la situazione di fatto dedotta dal convenuto in ordine ai presupposti della riduzione stessa. Non vi è dibattito sulle mere eccezioni (in senso proprio o improprio), che possa condurre a soluzione diversa; ed a
me pare che le Sezioni Unite non abbiano non dico mal risolto, ma nemmeno
percepito il cuore del problema.
EDOARDO F. RICCI
––––––––––––
(5) È questa, in sostanza, la posizione assunta da E.T. Liebman, L’eccezione revocatoria e il suo significato processuale, ora in Idem, Problemi del processo civile, Napoli
1962, p. 76 ss.
(6) Rinvio sul punto, anche per riferimenti, a E.F. Ricci, Sulla natura dichiarativa
della revocatoria fallimentare, in Riv. dir. proc. 2000, p. 19 ss., spec. p. 33 ss.
CORTE DI CASSAZIONE, sez. II civ., sentenza 24 maggio 2005, n. 10918
Pres. Pontorieri – Rel. Napoletano
Piacentini ed altra c. Capri ed altri
Proposta dal convenuto eccezione di prescrizione del diritto di accettare
l’eredità, l’attore può, per la prima volta in appello, allegare che vi sono stati
atti tempestivi di accettazione dell’eredità (1).
(Omissis). – Col primo motivo i ricorrenti principali censurano la sentenza
impugnata per violazione e falsa applicazione degli artt. 112 e 345 c.p.c., 2697
c.c., adducendo che erroneamente la Corte d’Appello ha qualificato come nuova
eccezione, ritenendola conseguentemente inammissibile in appello, quella che
era soltanto una richiesta di prova, avanzata al fine di adempiere all’onere, ritenuto non adempiuto dal primo giudice, di provare che i loro danti causa avevano acquistata la proprietà dell’immobile, avendo tempestivamente accettata
l’eredità. Si trattava, dunque, di prova diretta a dimostrare l’esistenza di un fatto
costitutivo del diritto dedotto in giudizio, prova della quale il giudice d’appello,
tenendo conto anche che la prova era precostituita, essendo contenuta in un documento non contestato, avrebbe dovuto valutare l’ammissibilità e rilevanza.
Col secondo motivo i ricorrenti principali denunciano che l’erronea qualificazione evidenziata col precedente motivo è stata attribuita apoditticamente,
non essendo sorretta da sufficiente motivazione.
Col terzo motivo i ricorrenti principali si dolgono di violazione e falsa applicazione dell’art. 345 c.p.c., osservando che l’opinione della Corte di merito,
secondo cui il divieto di nuove eccezioni che non siano rilevabili anche d’ufficio posto dal 2° comma dell’art. 345 c.p.c. precluderebbe anche la deduzione
in appello di fatti che non siano stati oggetto di tempestiva e rituale allegazione
negli atti introduttivi del giudizio di primo grado, sembra far proprio un concetto di eccezione talmente ampio da ravvisarlo anche in qualsiasi nuova deduzione, anche se posta a base della prova.
In tal modo – sostengono i ricorrenti – verrebbe snaturato il concetto di
eccezione e della stessa prova, che, invece, consiste proprio nell’allegazione di
fatti e circostanze a sostegno della domanda, e verrebbe ristretta, fino ad annullarla, la facoltà concessa alle parti dall’art. 345, comma 3°, c.p.c.
In ogni caso, concludono i ricorrenti, il suddetto divieto concerne solo le
eccezioni in senso proprio, non anche le eccezioni in senso improprio, che
concernono questioni inerenti ai fatti costitutivi posti a fondamento della domanda.
Il ricorso è fondato.
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RIVISTA DI DIRITTO PROCESSUALE
L’errore di diritto che vizia la sentenza impugnata sta nel ritenere che il
divieto di nuove eccezioni, che non siano rilevabili anche d’ufficio, posto dal 2°
comma dell’art. 345 c.p.c., comprenda comunque l’allegazione di fatti non ritualmente dedotti in primo grado, poiché esso, in tal modo, come correttamente
rilevato dai ricorrenti, finisce col dilatare a dismisura il divieto, estendendolo
dalle eccezioni vere e proprie o riconvenzionali, che sono riservate alla disponibilità della parte nei casi espressamente previsti dalla legge o che abbiano ad
oggetto fatti estintivi, impeditivi o modificativi del diritto fatto valere ex adverso, alle eccezioni in senso lato od improprio, che hanno, invece, ad oggetto fatti
costitutivi della domanda e che operano ipso iure.
La deducibilità in appello di eccezioni in senso lato non può essere condizionata dal fatto che le circostanze ad esse sottostanti siano già state introdotte
nel giudizio di primo grado, poiché i fatti operanti ipso iure possono essere assunti a tema del giudizio d’appello non solo se già acquisiti al contraddittorio
delle parti nel precedente grado del giudizio ma anche se per la prima volta allegati in appello ed accertati con i mezzi di prova che il giudice d’appello ritenga ammissibili e rilevanti.
La diversa conclusione cui perviene la sentenza impugnata, oltre a snaturare
la nozione di eccezione in senso stretto, finisce col restringere notevolmente le
stesse possibilità di deroga al divieto di nuovi mezzi di prova in appello previste
dal terzo comma dello stesso art. 345 c.p.c., tali possibilità essendo quasi sempre
collegate a nuove allegazioni di fatto operate dalle parti. Nel caso in esame le
nuove allegazioni degli attori in appello e la correlata richiesta di nuovi mezzi
istruttori erano dirette a dimostrare, in contrasto con l’eccezione di prescrizione
del diritto di accettare l’eredità sollevata dai convenuti e ritenuta fondata dal primo giudice, che i danti causa degli attori avevano accettata tempestivamente
l’eredità degli originari proprietari Arcangelo Capri ed Angela Pellegrini e che,
pertanto, l’acquisto degli attori, in quanto proveniente a domino, era efficace.
Si trattava, dunque, di allegazioni volte a dimostrare un elemento costitutivo del diritto posto a fondamento della domanda, come tali escluse dal divieto
di nuove eccezioni posto dal secondo comma dell’art. 345 c.p.c., con la conseguenza che il giudice d’appello avrebbe dovuto valutare la rilevanza della relativa richiesta di prova nonché la sua ammissibilità ai sensi del terzo comma
dello stesso articolo.
Il ricorso principale va, pertanto, accolto (Omissis).
(1) Sulle eccezioni proponibili in appello
1. – Gli attori deducono di aver acquistato la quota di comproprietà di un
fondo e chiedono la divisione giudiziale nei confronti degli altri comproprietari,
alcuni dei quali sostengono l’inefficacia dell’atto di acquisto della quota da
parte degli attori; gli alienanti e i loro danti causa, infatti, non avevano tempestivamente esercitato il diritto di accettare l’eredità, nella quale era compresa la
quota di comproprietà. Il giudice di primo grado ritiene fondata l’eccezione di
prescrizione del diritto dei danti causa degli attori di accettare l’eredità e conseguentemente nega che gli attori abbiano acquistato la quota di comproprietà del
GIURISPRUDENZA
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bene in forza di un valido atto traslativo; rigetta pertanto la domanda di divisione. In grado di appello, gli attori appellanti deducono e provano attraverso prove documentali la presenza di atti di tempestiva accettazione dell’eredità da
parte dei loro danti causa. La Corte di appello ritiene inammissibili in secondo
grado, perché non prospettate nel giudizio di primo grado, le nuove circostanze
addotte dagli appellanti al fine di paralizzare l’eccezione di prescrizione del diritto di accettare l’eredità. Ad avviso dei giudici di secondo grado, « la trasformazione del giudizio di appello da novum iudicium in revisio prioris instantiae,
determinata dalla nuova formulazione dell’art. 345 c.p.c., nel precludere la proponibilità di “nuove eccezioni, che non siano rilevabili di ufficio” restringe la
valutazione del giudice d’appello al solo riesame delle questioni che siano state
ritualmente introdotte nel giudizio di primo grado, con la conseguenza che in
grado di appello non potrebbero essere dedotti fatti che non siano stato oggetto
di rituale e tempestiva allegazione in primo grado ».
Il ricorso per cassazione proposto dall’appellante è accolto. Secondo la
sentenza annotata, « l’errore di diritto che vizia la sentenza impugnata sta nel
ritenere che il divieto di nuove eccezioni che non siano rilevabili anche di ufficio, posto dal secondo comma dell’art. 345 c.p.c., comprenda comunque l’allegazione di fatti non ritualmente dedotti in primo grado, perché esso in tal modo
(…) finisce col dilatare a dismisura il divieto, estendendolo dalle eccezioni vere
e proprie o riconvenzionali, che sono riservate al