Il capitale sociale: un`introduzione

annuncio pubblicitario
INTRODUZIONE – CHE COS’È IL CAPITALE SOCIALE, E PERCHÉ È IMPORTANTE?
7
2
Introduzione
Che cos’è il capitale sociale,
e perché è importante?
La teoria del capitale sociale, nelle sue linee essenziali, è piuttosto semplice.
La sua tesi di fondo potrebbe essere riassunta con uno slogan elementare: le
relazioni contano. Ponendosi in relazione gli uni con gli altri, e mantenendo queste relazioni nel corso del tempo, è possibile cooperare per conseguire obiettivi
che, da soli, non sarebbe possibile raggiungere se non, magari, al prezzo di uno
sforzo assai maggiore. È possibile mettersi in relazione con gli altri attraverso
molteplici reti diverse, in ciascuna delle quali si condivideranno determinati valori
con le altre persone che ne fanno parte. Tali reti si possono considerare una
forma di capitale sociale, nella misura in cui esse costituiscono una risorsa per
le persone coinvolte al loro interno. Oltre a essere utile nel contesto immediato
in cui si crea, questa dotazione di capitale sociale può rivelarsi preziosa anche in
situazioni o circostanze diverse. Ne deriva quindi, in linea generale, che quante
più persone si conoscono, e quanto più si condivide con loro una determinata
visione delle cose, tanto più si sarà ricchi di capitale sociale. È questa, in parole
povere, la tesi che illustrerà il libro.
Come concetto sociologico, il capitale sociale si è guadagnato, nel corso degli
ultimi anni, una posizione di crescente rilievo. Per una sorta di effetto domino, si è
propagato dall’ambito delle discipline accademiche alla sfera della politica, sino a
raccogliere addirittura, di tanto in tanto, l’attenzione dei mass media. Gli studi sociologici al riguardo si moltiplicano di anno in anno, ma non ci risulta sia stata ancora
formulata, sino a oggi, una guida di carattere introduttivo; è proprio a questo livello
che intende collocarsi il presente volume. Cercheremo anzitutto di ripercorrere gli
8
IL CAPITALE SOCIALE: UN’INTRODUZIONE
elementi cardine delle teorie elaborate al riguardo dai tre sociologi che più hanno
influito, ciascuno secondo la propria prospettiva, su questo dibattito. Entreremo
quindi nel merito dei principali modi in cui il capitale sociale può condizionare, in
positivo come in negativo, il corso della vita di ciascuno di noi. Passeremo quindi
a verificare l’ipotesi secondo cui anche il capitale sociale, nel mondo di oggi, sta
attraversando una drastica trasformazione, per effetto dei radicali mutamenti che
investono la società nel suo insieme. Si tratterà quindi di ricavare qualche indicazione
operativa da questa analisi teorica. Non ci pare valga la pena, in effetti, indugiare
eccessivamente sulle possibili radici del capitale sociale nella teoria sociologica; è
questo un compito di cui nessuno si è ancora fatto compiutamente carico, visto
anche l’ammontare relativamente modesto delle ricerche empiriche condotte sino
a oggi. Partiamo comunque dal presupposto che il lettore non sia del tutto estraneo ai rudimenti delle scienze sociali, almeno per quanto riguarda le idee chiave
di figure come Marx, Durkheim, Smith e Weber. Una volta detto questo, lo scopo
che ci poniamo con questo libro è quello di fornire uno strumento accessibile alla
platea più ampia possibile; dopo tutto, stiamo parlando di un concetto che ha
suscitato vastissimo interesse extra-accademico — dai policy makers agli addetti
ai lavori di estrazione più diversa, dal campo del management d’impresa a quello
delle politiche sociali — e che ha avuto il merito di influire, in modo trasversale,
sull’agenda della teoria e della ricerca di quasi tutte le scienze sociali.
INTRODUZIONE – CHE COS’È IL CAPITALE SOCIALE, E PERCHÉ È IMPORTANTE?
15
L’interesse per il capitale sociale
L’importanza del capitale sociale per il corso di vita di ciascuno di noi è
un dato di cui, per lo meno a livello di «senso comune», si è ormai consapevoli
da tempo; nel caso delle scienze sociali, tuttavia, questa consapevolezza è stata
acquisita soltanto in tempi recenti. Nel corso degli ultimi anni, in effetti, l’interesse per il capitale sociale è cresciuto sia in ambito accademico, sia nella sfera
della politica. L’enfasi crescente su tale concetto, in sede di dibattito politico,
andrebbe considerata prima di tutto come reazione all’eccessivo individualismo
che è prevalso tra i politici (ma anche tra gli elettori) del decennio dominato dal
connubio Reagan-Thatcher. Quando Margaret Thatcher ebbe a dire, nel corso
di una famosa intervista, che «non esiste una cosa che si possa definire società»,
molti lessero in questa dichiarazione un’esortazione — nemmeno tanto velata
— a un individualismo sfrenato. Il Primo ministro tentò poi di rimediare alla gaffe,
precisando che alludeva semplicemente al fatto che la «società», come nozione,
è alquanto astratta, a paragone dei bisogni concreti che sono propri di soggetti
più circoscritti — famiglie, singoli individui, comunità locali (Thatcher, 1993,
pp. 626-627). La verità è che nessuno ha mai creduto più di tanto a una simile
precisazione. Non che questa, a rileggere il testo dell’intervista, fosse priva di
plausibilità; nei fatti, comunque, quella battuta si era già elevata a simbolo dell’individualismo dell’epoca thatcheriana. In simili circostanze, non stupisce che
nuove idee di riscoperta della dimensione sociale, come il capitale sociale, abbiano
raccolto interesse sia nell’opinione pubblica, sia tra i decisori politici.
L’interesse per il capitale sociale è stato anche rafforzato dalla percezione
dei cambiamenti avvenuti sul piano dei comportamenti e delle relazioni sociali.
Basti pensare alla «crisi dei valori della comunità» che, vera o presunta, occupa
ormai le prime pagine dei giornali. Vale la pena citare, tra i molti esempi possibili,
un caso concreto: quello di un ex direttore di Marxism today, Martin Jacques,
rientrato da poco in Europa dopo un soggiorno di quattro anni in un ambiente
dinamico — non certo un ambiente tradizionalista alla vecchia maniera, che
potrebbe influenzare atteggiamenti di difesa della «comunità» — come quello di
Hong Kong. Guardando ai Paesi europei, Jacques si è detto costernato dalla
crisi delle relazioni sociali, messe a dura prova dall’arrembante individualismo
di mercato, che ha riscontrato in tutto il continente. Quello in cui viviamo oggi,
lamenta Jacques, è «un mondo sempre più instabile, precario ed effimero, in cui
non c’è quasi più nulla che si possa ritenere definitivo, e la gratificazione individuale conta più di ogni altra cosa». Per molti di noi, il matrimonio si è ridotto a
16
IL CAPITALE SOCIALE: UN’INTRODUZIONE
un mero accordo temporaneo, se non a un evento sgradito che è meglio evitare
tout court; per non parlare poi della scelta di procreare, che si fa sempre più
rara. Jacques critica apertamente la «balcanizzazione della società», che sarebbe
responsabile di problemi come i bassissimi tassi di natalità, o la difficile socializzazione delle giovani generazioni; non si può non temere, conclude l’autore, che
gli anni che ci attendono siano «tempi bui» (Jacques, 2002, p. 24).
Se mettiamo da parte gli eccessi retorici, tipici del giornalismo, l’impressione è che il modello sociale «normale», per lo meno in Occidente, sia davvero
entrato in una profonda crisi. C’è oggi tutta una serie di variabili — le relazioni
interpersonali che si fanno sempre più informali, la crisi dei costumi e dei modelli
di comportamento tradizionali, l’aumento della divisione del lavoro, l’erosione di
ogni barriera tra dimensione «pubblica» e «privata», l’affermarsi dei nuovi mezzi
di comunicazione — che ci interpella rispetto ai modi possibili in cui mantenere, date le condizioni attuali, l’ordine e la coesione sociale. Le relazioni sociali
in cui è inserito ciascuno di noi sono sempre meno simili a quelle del passato,
delimitate da rigidi codici di comportamento, non di rado slegati dalla nostra
stessa volontà; in misura crescente, tali relazioni si prestano a essere assunte o
«dismesse» a seconda delle scelte, o delle convenienze, individuali. Non è necessario essere d’accordo in toto con i postmoderni, per riconoscere che l’identità
e la soggettività non sono più caratteristiche «naturali» o univocamente definite,
bensì esperienze aperte alla negoziazione e all’indeterminatezza, anche quando
risentono di attributi ascrittivi come quelli del genere o dell’appartenenza etnica.
Non dobbiamo neppure dimenticare, d’altra parte, che le tradizionali barriere di
classe, di genere, ecc. non sono certo venute meno, come dimostrano le persistenti disuguaglianze tra individui e tra gruppi sociali diversi.
Il nuovo interesse per il capitale sociale è scaturito anche da quella «svolta
culturale» che ha avuto luogo nell’insieme delle scienze sociali contemporanee. È
cresciuta l’attenzione per i risvolti culturali del comportamento sociale, ma anche
per il «microlivello» dei comportamenti e delle esperienze dei singoli individui. Non
sono pochi gli scienziati sociali, anche di primissimo piano, che hanno cominciato
a occuparsi delle relazioni di intimità o di fiducia — due ambiti strettamente legati
al tema del capitale sociale (Beck e Beck-Gernsheim, 1994; Giddens, 1991;
Jamieson, 1998; Luhmann, 1988; Misztal, 1996; Sztompka, 1999).6 La maggior parte di questi autori non ha mostrato, è vero, particolare interesse per il
capitale sociale come tema a sé stante (fatta eccezione per Misztal e Sztompka);
nondimeno, essi testimoniano la crescente importanza che si attribuisce oggi alla
dimensione quotidiana della vita sociale, al «microtessuto» delle relazioni e delle
interazioni sociali che segnano il corso di vita dei singoli individui. È in questo
scenario di rinnovato interesse per le relazioni interpersonali che si colloca la
nuova attenzione per il capitale sociale.
6
Si veda anche Z. Bauman, Amore liquido, Roma/Bari, Laterza, 2004. [ndr]
INTRODUZIONE – CHE COS’È IL CAPITALE SOCIALE, E PERCHÉ È IMPORTANTE?
17
Infine, la ricerca sul capitale sociale ha raccolto un interesse notevole, e per
certi versi imprevisto, anche nel campo dell’economia. Sono evidenti, sotto questo
profilo, le somiglianze con il concetto di «capitale umano», introdotto nel corso
degli anni Sessanta per indicare il valore economico di attributi come competenza
professionale, conoscenza e buone condizioni di salute. Nel suo noto studio sul
funzionamento delle scuole nelle città americane, James Coleman si è avvalso
di un concetto come il «capitale sociale» al fine di integrare teoria sociale e teoria
economica, nella convinzione che capitale sociale e capitale umano siano, in linea
di massima, due risorse complementari (Coleman, 1988; 1989). In questa stessa
direzione si sono pronunciate alcune importanti istituzioni internazionali, come
la Banca mondiale e l’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (Oecd, 2001a; 2001b; World Bank, 2001). In una recente pubblicazione
dal titolo The wellbeing of nations («Il benessere delle nazioni»), ad esempio,
l’Ocse ha sostenuto l’esistenza di «un evidente legame di complementarità» tra
capitale umano e sociale; la crescita dell’uno dovrebbe per ciò stesso alimentare
la crescita dell’altro, in una dinamica di reciprocità virtuosa (Oecd, 2001b, p.
13). Non tutti, peraltro, la pensano in questo modo; Schuller, ad esempio, tende
piuttosto a vedere nel capitale sociale un paradigma concettuale alternativo al
capitale umano, nella misura in cui esso mette in luce l’importanza della dimensione collettiva, anziché — come tende a fare, con una certa miopia, il concetto
di «capitale umano» — il semplice perseguimento del self-interest individuale
(Schuller, 2000). C’è persino chi ha obiettato che l’interesse per il capitale sociale
sarebbe frutto di un’indebita intrusione nel campo della sociologia (una vera e
propria «colonizzazione») da parte degli economisti, nel momento in cui costoro
hanno preso atto dell’inadeguatezza della loro visione del comportamento umano, improntata al puro individualismo (Fine, 2000). Questo è forse vero, ma si
potrebbe sostenere anche il contrario: che il capitale sociale segnali un tentativo
dei sociologi di appropriarsi di una delle idee cardine dell’economia, per poi applicarla, rivendicandone una (indebita) paternità, al fine di «insinuarsi» nel campo
della disciplina confinante (e più ricca di tradizione). Entrambe le posizioni, a
mio giudizio, contengono qualche elemento di verità; in ogni caso, il crescente
interesse per il capitale sociale è segnale del tentativo di modificare il tradizionale
«focus individualistico» degli economisti, tenendo conto della base sociale che è
presente, in qualche misura, in ogni decisione individuale.
18
IL CAPITALE SOCIALE: UN’INTRODUZIONE
Contenuti e finalità dell’opera
Il principale scopo di questo libro è quello di fare da guida ragionata al recente dibattito sul capitale sociale e al contempo di fornire qualche indicazione
rispetto ai prevedibili sviluppi futuri di tale dibattito. Non è facile, come si vedrà,
riepilogare i contenuti della letteratura in materia, che tende a «esorbitare» dalle
tradizionali separazioni tra le discipline accademiche. È soprattutto in sociologia
che si parla di «capitale sociale», ma per certi versi questo tema ha interessato
anche scienziati politici ed economisti, per non parlare di discipline come storia,
pedagogia, studi femministi e di ambiti più specialistici come politica sociale e
politica urbana. Anche tra i responsabili politici, del resto, si avverte oggi un
interesse sempre maggiore per il capitale sociale. Dal punto di vista delle politiche pubbliche, infatti, investire sul capitale sociale» può voler dire affrontare,
al medesimo tempo, tutta una serie di questioni diverse: sviluppo economico,
promozione della salute, sviluppo tecnologico e innovazione di impresa, riduzione
della povertà, inclusione sociale e riduzione della criminalità.
Il volume ha inizio con un’analisi dettagliata degli approcci teorici che più
hanno contribuito, negli ultimi anni, a portare a galla il capitale sociale: parliamo
delle teorie sociologiche di Pierre Bourdieu, James Coleman e Robert Putnam
(capitolo primo). Ciascuno di questi autori, nella peculiarità della sua impostazione
teorica, è giunto a riconoscere la rilevanza strategica del capitale sociale, pur
definendo tale concetto in termini radicalmente diversi da un caso all’altro. Un
dato che raccoglie il consenso di tutti gli autori citati, comunque, è rappresentato
dall’importanza delle reti di relazioni; è questo il tema del capitolo secondo, in
cui passeremo in rassegna le principali ricerche empiriche condotte, nella cornice teorica del capitale sociale, nel campo dell’educazione, della sanità e della
criminalità. Gran parte di queste ricerche si è risolta in una visione positiva, e in
taluni casi acritica, del capitale sociale; si tratta invece di mettere in luce, come
faremo nel capitolo terzo, che esiste anche l’altra faccia della medaglia, rappresentata dagli effetti negativi (ed empiricamente documentati) del capitale sociale. Il
capitolo quarto è invece dedicato alle interrelazioni createsi, negli ultimi decenni,
tra capitale sociale e altri importanti fenomeni sociali; più precisamente, analizzeremo l’ipotesi di Putnam secondo cui tali «fenomeni» tenderebbero a esaurire
le nostre «scorte» di capitale sociale. Conclude il volume la proposta di cinque
brevi osservazioni, con le quali cercheremo di riepilogare lo stato dell’arte del
dibattito sul capitale sociale alla luce delle elaborazioni teoriche e delle ricerche
empiriche sviluppate sino a oggi. La personale opinione di chi scrive è che il
concetto di «capitale sociale» abbia ancora molto da offrirci e che nei prossimi
INTRODUZIONE – CHE COS’È IL CAPITALE SOCIALE, E PERCHÉ È IMPORTANTE?
19
anni tanto la comunità accademica, quanto i decisori politici e i comuni cittadini
continueranno a farne un uso massiccio. Rimane da capire come si evolveranno
i significati e le applicazioni empiriche di tale concetto; appare fondamentale,
da questo punto di vista, arrivare a una più chiara definizione teorica del capitale
sociale, così da evitare quegli «abusi verbali» — peraltro già in atto — che ne
fanno un semplice slogan o parola passe-partout, con il risultato di svilirne le
grandi potenzialità esplicative.
IL POTERE DELLE RETI DI RELAZIONI
59
2
Il potere delle reti
di relazioni
L’idea di «capitale sociale» ha raccolto negli ultimi anni un largo interesse in
tutte le scienze sociali, sia a livello teorico sia sul piano della ricerca empirica. Non
pochi studiosi, partiti dalle intuizioni dei tre autori «classici», hanno cominciato ad
approfondire l’impatto delle reti sociali sulle opportunità disponibili alle persone
che le compongono. La stessa attenzione comincia a registrarsi tra i decisori
politici, così come tra altri soggetti pubblici o privati interessati alle ripercussioni
pratiche di questo concetto. Nel presente capitolo, però, guarderemo più che
altro a come il concetto è stato utilizzato nell’ambito delle scienze sociali: sociologia, scienza politica ed economia, ma anche storia, scienze dell’educazione e
criminologia, fino al servizio sociale e alle discipline sanitarie. In ciascuno di questi
campi, l’idea delle relazioni come risorsa sociale è stata più volte testata a livello
empirico. Di per sé, l’affermazione secondo cui «le reti sociali contano» (al pari
delle norme che le mantengono coese) non è certo una novità. Che le reti siano
una risorsa importante è un dato già ben noto alle scienze sociali, oltre che al
normale buonsenso. Come recita un vecchio adagio popolare, «non importa tanto
ciò che conosci, quanto chi conosci». Solo da quando si è cominciato a parlare
di «capitale sociale», però, si è sviluppata la riflessione sugli utili che si possono
ricavare da tali relazioni.
L’idea che il capitale sociale produca benefici tangibili, naturalmente, non è
nulla più che un’ipotesi: un assunto teorico da testare, di volta in volta, a livello
empirico. Questo capitolo inizia proprio da una rassegna dei risultati prodotti dalle
ricerche sull’argomento, al fine di verificare la corrispondenza tra teoria e realtà
60
IL CAPITALE SOCIALE: UN’INTRODUZIONE
dei fatti. Si tratta, com’è inevitabile, di una rassegna parziale e selettiva: il capitale
sociale si presta a tante applicazioni diverse e anche la qualità delle ricerche sul
tema tende a variare, da un caso all’altro. Oltretutto, uno degli aspetti centrali nel
dibattito sul capitale sociale — quello dell’impegno civico — sarà approfondito
più avanti, nel corso del capitolo quarto. Nelle pagine che seguono, invece, ci
occuperemo di quattro grandi aree tematiche: istruzione, crescita economica,
salute, criminalità. L’impressione che si trae dalle ricerche, in linea di massima,
tende ad avallare le ipotesi formulate a livello teorico: per dirla in breve, i soggetti
che possono contare sull’aiuto degli altri godono per lo più di migliori condizioni
di salute, rispetto a chi non dispone di tale opportunità; sono anche, generalmente, più felici e più benestanti; i loro figli, tendenzialmente, vanno meglio a
scuola; le comunità in cui abitano sono meno esposte a comportamenti violenti
o antisociali. La lista dei risvolti positivi è molto lunga, ma non esaurisce affatto
quelle che sono, nella realtà di tutti i giorni, le possibili ripercussioni del capitale
sociale. Rivolgeremo quindi l’attenzione ad altre possibili «declinazioni operative» del
concetto, affrontando soprattutto due elementi che hanno fatto sorgere parecchi
dubbi in merito alla sua effettiva coerenza. Ci chiederemo, in primo luogo, se la
fiducia sia un «ingrediente» costitutivo del capitale sociale o non semplicemente
un suo sottoprodotto; in secondo luogo, se — e fino a che punto — la metafora
del «capitale» sia appropriata allo studio dei rapporti umani.
Capitale sociale e istruzione
Sia Bourdieu sia Coleman hanno influenzato non poco la sociologia dell’educazione e, in modo particolare, dell’istruzione. La nostra rassegna può quindi
cominciare, a buon diritto, dall’analisi dei rapporti tra capitale sociale e istruzione
scolastica. Il contributo di Coleman è particolarmente degno di nota, sia per la
sua analisi empirica (frutto dell’elaborazione dei dati di una grande survey), sia
per le sue riflessioni sui rapporti tra capitale sociale e capitale umano. Come si
è visto, la prima ricerca di Coleman riguardava il rendimento degli studenti di
pelle nera nelle scuole superiori del suo Paese.1 I risultati di quella ricerca hanno
raccolto non poca attenzione, anche perché erano tutt’altro che prevedibili. In
generale, i sociologi che si occupano di questi temi ipotizzano che gli studenti
con un background «privilegiato», quanto a condizioni economiche e familiari,
tendono ad avere un rendimento scolastico superiore a quello degli studenti svantaggiati. Non che questa ipotesi, in sé, sia sbagliata: il più delle volte, il capitale
1
Si veda la descrizione riportata nel capitolo primo, nel paragrafo dedicato a Coleman.
IL POTERE DELLE RETI DI RELAZIONI
61
culturale ed economico di una famiglia si rispecchia nel capitale umano — ossia
nelle competenze, nelle conoscenze, nelle credenziali educative — dei propri figli.
Se questa è la regola, però, non mancano le eccezioni: la ricerca di Coleman è
servita proprio a metterne in luce una.
Giacché tale ricerca aveva prodotto risultati sorprendenti, e certo non universalmente condivisi, tutti i successivi studi di Coleman sono passati al vaglio
di una critica accurata. In una recente panoramica delle analisi sui rapporti tra
istruzione e capitale sociale, qualcuno ha notato che le ricerche condotte nei
primi anni Novanta — per la precisione, nell’intervallo 1990-1995 — si sono
concentrate, in buona parte, sul ruolo delle minoranze etniche (Dika e Singh,
2002, p. 36). Lo stesso Coleman ha condotto diversi studi empirici di follow-up,
dedicati al rendimento scolastico degli alunni appartenenti a minoranze, nelle
scuole private e in quelle pubbliche (Coleman et al., 1982; Coleman e Hoffer,
1987). I dati emersi hanno confermato l’influenza positiva degli istituti scolastici
confessionali sul rendimento degli studenti; stando ai dati di Coleman, sono
soprattutto le scuole cattoliche che possono vantare livelli di drop-out ben più
bassi delle altre, a parità di caratteristiche degli alunni. Altri ricercatori si sono
sforzati di verificare, sul piano della ricerca empirica, l’effettiva tenuta della tesi
di Coleman, anche a partire da fonti e da metodologie di ricerca diverse. Buona
parte di questi studi ha confermato le conclusioni di Coleman, specie per quanto riguarda i tassi di dispersione scolastica e i diversi livelli di rendimento degli
alunni; ne emerge un quadro in cui la maggiore efficacia degli istituti cattolici si
avverte soprattutto tra gli studenti delle minoranze che vivono nelle aree urbane.
Negli ultimi anni, tuttavia, c’è chi ha criticato Coleman per non aver considerato
l’influenza sortita, rispetto al rendimento degli alunni, dalle scelte compiute dai
loro genitori in merito al tipo di scuola (Heckman e Neal, 1996, pp. 94-96). Il
dibattito, quindi, è ancora apertissimo. I risultati di gran parte delle ricerche tendono ad avallare le idee di Coleman, ma non è da escludere che le differenze di
rendimento siano legate alle scelte dei genitori, più che ad altri fattori; è possibile,
cioè, che il campione analizzato da Coleman (o da chi ne ha seguito l’esempio)
soffrisse di un bias di partenza. Oltretutto, come osservano Dika e Singh (2002,
p. 37), parecchie ricerche si sono allontanate dalla definizione di «capitale sociale»
di Coleman, arrivando persino a sostenere — in taluni casi — che la padronanza
della propria lingua d’origine potrebbe rappresentare anch’essa, per le minoranze etniche, una specie di risorsa collettiva (vedi, ad esempio, Stanton-Salazar e
Dornbusch, 1995).
A giudicare dagli studi empirici più recenti, comunque, è innegabile vi sia
una correlazione tra capitale sociale e rendimento scolastico. Delle quattordici
ricerche esaminate da Dika e Singh in questa prospettiva, emerge un quadro in
62
IL CAPITALE SOCIALE: UN’INTRODUZIONE
cui entrambe le variabili assumono, per lo più, un valore positivo (Dika e Singh,
2002, pp. 41-43). Quasi tutte le ricerche citate, in altri termini, sono accomunate
dalla stessa conclusione: il rendimento scolastico dipende anche dal capitale sociale della famiglia di provenienza. In un caso soltanto è emersa una correlazione
negativa tra successo scolastico e due degli indicatori di capitale sociale (l’interesse
dei genitori per il rendimento scolastico dei figli e la loro supervisione, rispetto ai
progressi fatti da questi ultimi); per tutti gli altri indicatori, la relazione tra le due
variabili risultava — ancora una volta — di segno positivo. Le ricerche che hanno
analizzato anche il capitale sociale degli allievi, e non solo quello dei loro familiari,
sono meno numerose; anch’esse tendono comunque a suggerire l’esistenza di
una correlazione positiva con il successo tra i banchi di scuola. Rimangono ancora parecchie ambiguità rispetto alle possibili interrelazioni tra capitale sociale,
definito nei suoi vari aspetti, e rendimento degli studenti a livello universitario. Si
tratta di un aspetto che dovrebbe essere oggetto di ulteriori ricerche, accanto ai
diversi fattori che permettono di «avere accesso al capitale sociale e mobilitarlo
a proprio favore» (Dika e Singh, 2002, p. 43).
Stando ai risultati delle ricerche, il capitale sociale può anche assumere una
funzione di «contrappeso» rispetto a una situazione di svantaggio economico
e sociale. Buona parte delle ricerche, come si è detto, ha affrontato proprio
l’impatto del capitale sociale sui percorsi scolastici dei figli di immigrati, o degli
alunni appartenenti a minoranze etniche. Stanton-Salazar e Dornbusch (1995),
ad esempio, hanno trovato una «parziale conferma» delle tesi di Coleman nel loro
studio sulle reti di sostegno sociale tra gli studenti ispanici delle scuole superiori
della California. Di questi studenti, quelli che avevano i voti più alti (e le maggiori
aspirazioni) erano gli stessi che risultavano, dati alla mano, maggiormente «dotati»
di capitale sociale (Stanton-Salazar e Dornbusch, 1995, p. 130). Secondo gli
autori, la disponibilità di capitale sociale appariva particolarmente importante per
gli studenti bilingui, più che per quelli di madrelingua inglese: come se il capitale
sociale, per gli studenti ispanici, tendesse a compensare la mancanza di risorse
di altro tipo (Stanton-Salazar e Dornbusch, 1995, pp. 131-132). Questi risultati
parrebbero confermare l’intuizione di Coleman: il capitale sociale è una risorsa
importante per tutti, ma nel mondo della scuola esso si rivela particolarmente
prezioso per gli studenti che sono, per altri versi, svantaggiati. Più di quanto non
abbia fatto Coleman, però, gli autori citati hanno messo in luce una correlazione
importante: quella tra il rendimento di questi studenti e il numero e la varietà dei
«legami deboli» (compresi quelli esterni alla cerchia dei parenti o dei coetnici) a
cui possono accedere. Anche i legami deboli possono dunque agire come fattore
di contrasto della debolezza economica e sociale; ritorneremo su questo aspetto
più avanti, nel corso del capitolo.
IL POTERE DELLE RETI DI RELAZIONI
63
Nell’insieme, le ricerche degli ultimi anni hanno confermato l’importanza
concettuale del capitale sociale, ma hanno sollevato anche alcuni nodi critici,
specie rispetto all’approccio di Coleman; un autore, questo, che ha influenzato
l’agenda delle ricerche sul tema ben più di Bourdieu. Come si ricorderà, la sua
visione di capitale sociale è ancorata alla centralità della famiglia, sia rispetto ai
processi di sviluppo cognitivo delle nuove generazioni, sia per l’esercizio di un adeguato controllo sociale nei loro confronti. A giudizio di Coleman, questa funzione
centrale della famiglia risulta gravemente a repentaglio quando si verificano dei
processi migratori; di conseguenza anche lo sviluppo dei figli dovrebbe risentirne
negativamente. Questo corollario, però, è stato smentito da più di una ricerca:
in linea di massima, il rendimento scolastico dei figli degli immigrati è migliore
di quello che ci si potrebbe aspettare viste le condizioni economiche e sociali
dei genitori (Stanton-Salazar e Dornbusch, 1995; Lauglo, 2000). Vale la pena
citare, al riguardo, i risultati di una ricerca empirica su quattro scuole superiori,
condotta a Toronto: benché non tutti i figli di immigrati completassero l’anno
scolastico, a causa dei frequenti spostamenti, la perdita del sostegno della comunità era spesso mitigata dal maggiore coinvolgimento dei loro genitori (Hagan et
al., 1996, p. 381). In una ricerca analoga svolta a Oslo, Lauglo ha riscontrato,
tra gli studenti dei Paesi in via di sviluppo, atteggiamenti più aperti e costruttivi
verso la scuola, rispetto a quelli di altri gruppi etnici e degli stessi studenti «autoctoni». Che non si trattasse di differenze apparenti, lo confermava il diverso
rendimento scolastico degli uni e degli altri (Lauglo, 2000, pp. 149-151). Né,
conclude l’autore, tali differenze dipendevano dall’estrazione sociale dei genitori,
o dal loro capitale culturale; una conclusione — questa — che almeno in parte
va in controtendenza rispetto alla teoria di Coleman e anche rispetto a quella di
Bourdieu (Lauglo, 2000, p. 154).
L’approccio di Coleman è stato anche oggetto di critiche perché eccessivamente orientato in senso conservatore. Esemplare, al riguardo, è la sua visione
del ruolo materno (Morrow, 1999): tra le altre cose, Coleman riteneva che l’occupazione femminile tendesse a indebolire il capitale sociale trasmesso da ogni
famiglia ai propri figli. Quanto più fosse aumentata la partecipazione delle donne
al mercato del lavoro, tanto più — in questa prospettiva — ci sarebbero state da
temere gravi perdite di capitale sociale. Tuttavia, una prima verifica di questa tesi
sotto il profilo empirico, realizzata con i dati della National Longitudinal Survey
of Youth, non ha trovato che «una correlazione debolissima, seppure di segno
negativo, tra occupazione materna e rendimento scolastico dei figli». Secondo gli
autori di questa analisi, le caratteristiche della famiglia di appartenenza influenzano
senz’altro le abilità verbali e i modelli di comportamento dei figli; il fatto che la
madre lavori, tuttavia, condiziona soltanto (in negativo) le capacità di ragionamento
64
IL CAPITALE SOCIALE: UN’INTRODUZIONE
verbale e soltanto nei casi in cui si tratti di un lavoro poco qualificato. Anche la
sotto-occupazione del padre, del resto, può sortire — così concludono gli autori
— effetti negativi sul comportamento dei figli (Parcel e Menaghan, 1994).
C’è anche chi ha criticato Coleman perché, di fatto, si è occupato soltanto
di un tipo di istituzione scolastica. Non ha considerato più di tanto, ad esempio, i
rapporti tra capitale sociale e mondo della scuola nella fase dell’adolescenza; tanto
meno si è occupato delle tappe successive del percorso scolastico, e meno ancora
dei luoghi di apprendimento informale, come il posto di lavoro. Bourdieu, d’altra
parte, ha analizzato il ruolo delle grandes écoles nel riprodurre i privilegi delle
élite del suo Paese; nella sua grande ricerca sul sistema dell’istruzione superiore,
tuttavia, ha analizzato l’impiego del capitale sociale più dal punto di vista degli
insegnanti — che, specie in ambito accademico, ne fanno uso per migliorare le
proprie posizioni — che da quello degli studenti (Bourdieu, 1988).
Non c’è alcun motivo, comunque, per credere che il rapporto virtuoso tra
capitale sociale e processi di apprendimento interessi soltanto il mondo della scuola. È vero, semmai, il contrario. Basti pensare agli esiti di un’importante ricerca
svolta in Francia, alla fine degli anni Settanta, sui processi di apprendimento degli
adulti in una comunità di minatori, nei pressi di Lille. La formazione degli adulti
era una variabile che non influenzava i livelli di partecipazione alle festività o alle
occasioni di ritrovo «tradizionali», ma condizionava visibilmente la partecipazione
ad attività più «moderne», che creavano occasioni di scambio e di incontro con
i «notabili del luogo» (Hedoux, 1982, p. 264). Di segno opposto sono i risultati
di uno studio condotto, in anni più recenti, sulle attività di formazione permanente dei lavoratori in Irlanda del Nord. Stando a questa ricerca, un alto livello
di capitale sociale può rafforzare l’interesse dei giovani per un buon rendimento
scolastico, ma può anche generare, tra gli adulti, un «effetto sostituzione»: questi
ultimi possono puntare ad acquisire nuove informazioni o competenze tramite
i canali informali dei vicini, degli amici e dei parenti, piuttosto che attraverso
corsi di formazione veri e propri (Field e Spence, 2000; McClenaghan, 2000).
Analoga è la conclusione di uno studio sul mondo delle piccole imprese in Gran
Bretagna, che sottolinea l’importanza del learning by doing, con l’accompagnamento di modelli di ruolo come i genitori, i parenti, gli amici o i lavoratori più
anziani e affidabili, a tutto discapito dell’investimento nei corsi di formazione,
che richiedono sforzi notevoli, senza alcuna garanzia di risultato (Hendry et al.,
1991, pp. 20-22; Matlay, 1997).
C’è anche chi ha cercato di studiare il rapporto istruzione-capitale sociale
in senso inverso: di analizzare, cioè, l’influenza dei percorsi scolastici o formativi
rispetto al capitale sociale di cui si dispone. Per certi versi, tale «influenza» è
semplicemente l’esito della prossimità fisica in ogni setting di apprendimento.
IL POTERE DELLE RETI DI RELAZIONI
65
A scuola si cresce insieme con gli amici e c’è persino chi continua a mantenersi
in contatto, anche ad anni (o a decenni) di distanza. Non sono numerose, però,
le ricerche sulle reti amicali che si creano nel mondo della scuola. Una di queste, condotta su tre gruppi di giovani scozzesi — studenti delle scuole superiori
e dell’università, lavoratori a tempo pieno, disoccupati — ha messo in luce «la
posizione privilegiata [quanto a capitale sociale] degli studenti, a paragone dei
disoccupati» (Emler e McNamara, 1996). Rispetto agli altri due gruppi, gli universitari (specie quelli che vivevano fuori casa) disponevano di reti sociali molto
più estese, incontravano più gente, e — in tal modo — gettavano le basi di quei
«legami deboli» che sarebbero serviti, anche in futuro, a facilitarne la carriera. I
lavoratori a tempo pieno avevano meno contatti degli studenti, ma disponevano comunque di molti amici in più rispetto ai disoccupati (Emler e McNamara,
1996, p. 127). Ora, che esista una relazione tra i percorsi scolastici di élite e le
reti in cui si è inseriti è cosa ben nota. È soltanto negli ultimi anni, però, che si è
cominciato a rileggere tale «relazione» in termini di «capitale sociale».
In generale, sono sempre più numerose le ricerche che provano l’influenza
del capitale sociale rispetto al capitale umano. Si tratta, in linea di massima, di
un’influenza di segno positivo: a un maggiore capitale sociale corrisponde, per
lo più, un migliore rendimento scolastico. Questa correlazione si avverte in modo
particolare tra i giovani provenienti da comunità svantaggiate. Per dirla con Lauglo,
il capitale sociale può «battere» gli svantaggi legati all’estrazione sociale o a un
debole capitale culturale (Lauglo, 2000). Non è ancora chiaro, però, se questa
correlazione abbia valenza generale — se sia valida, cioè, per qualsiasi forma di
svantaggio sociale — o se dipenda dallo specifico contesto di riferimento. Per
quanto riguarda il campo della formazione extrascolastica, è difficile arrivare ad
analoghe conclusioni, viste anche le poche ricerche empiriche effettuate sino a
oggi; l’impressione, però, è che non sia possibile ipotizzare un’influenza unilaterale
del capitale sociale, in senso positivo, come quella che si riscontra nel mondo
della scuola. Va detto che gli studi condotti sul rapporto tra istruzione e capitale
sociale suggeriscono un quadro complesso e ambivalente, ben più di quanto
non appaia da Coleman; le relazioni «significative» per il capitale sociale, tanto
per dire, non sono sempre, o soltanto, quelle legate alla famiglia (che appare,
negli scritti del nostro autore, sin troppo enfatizzata). Nell’insieme, comunque,
la correlazione tra capitale umano e capitale sociale è stata definita come «uno
dei dati meglio comprovati, quanto a ricorsività empirica, di tutta la letteratura
sul capitale sociale» (Glaeser et al., 2002, p. 455). C’è quindi una stretta interrelazione — anche se la ricerca empirica, sotto questo profilo, ha ancora molto
da dirci — tra le reti sociali di cui dispone ciascun individuo e il suo rendimento
all’interno del mondo della scuola.
Scarica