il mistero del male

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IL DESTINO DI CAINO E DI GIUDA
NELLA LOTTA EVOLUTIVA
FRA IL BENE E IL MALE
Combattere o trasformare il male?
Nelle figure di Caino e di Giuda vanno ravvisate dimensioni fondamentali dell’umano: nel karma di due esseri
umani specifici si concentrano archetipicamente i molteplici aspetti della lotta evolutiva fra il bene e il male quali
vengono vissuti da ogni essere umano.
Non voglio dunque proporre riflessioni sulle azioni di un certo Caino e di un certo Giuda: il mio intento è di
cogliere nel suo significato oggettivo la realtà del Caino e del Giuda dentro a ognuno di noi.
Ciò significa, in fondo, affrontare il male secondo la prospettiva manichea. L’aspetto negativo delle cose è il loro
nonsenso e finché si rimane a questo livello vuol dire che si omettono i pensieri giusti, quelli capaci, nel nostro caso,
di comprendere come il male sia parte integrante della vicenda evolutiva globale del bene stesso.
La visuale manichea è quella della redenzione del male che viene colto come dimensione immanente, dialettica e
necessaria dell’evoluzione del bene; ed è anche un’ottica che è stata coltivata per quasi due millenni negli esigui
filoni esoterici, in gran parte ignorati dalla cultura ufficiale.
Sarebbe stato irresponsabile, infatti, dire a una umanità ancora bambina che il male fa parte del bene, che il male
è redimibile. Mancando ancora le forze morali necessarie per prendere veramente sul serio il male, si sarebbe potuto,
e si potrebbe ancora, cadere nell’errore di sottovalutarlo: se il male fa parte del bene, allora è tutto a posto, tutto è
bene!...
Nel tempo mediano dell’evoluzione è importante che gli esseri umani considerino il male come male, cioè come
l’opposto del bene: in analisi ultima non lo è - e lo vedremo più avanti - ma noi non siamo ancora nelle fasi
conclusive dell’evoluzione dove questa verità corrisponderà alle forze umane reali di redenzione del male.
Noi percorriamo ancora oggi stadi evolutivi intermedi e soltanto nella misura in cui una individualità anticipa in
chiave manichea, in chiave michaelita, certi gradini del cammino umano ha il diritto di cominciare a considerare il
male come un momento necessario del bene: perché avrà allo stesso tempo anche la forza morale di non prendere i
fenomeni maligni alla leggera.
Nella fase centrale dell’evoluzione il male è offerto al bene perché il bene lo combatta, perché vi si opponga e lo
respinga; nella fase compiuta il bene è chiamato non più a lottare contro il male ma a redimerlo e trasformarlo in
bene.
Questo mistero si manifesta anche nelle raffigurazioni artistiche di Michele alle prese col drago, che rappresenta
tutte le controforze dell’evoluzione, tutti gli ostacoli necessari al rafforzamento delle forze positive. Il significato di
ogni contro spinta è quello di favorire e accrescere la forza che le si oppone, così come in una palestra i pesi si
sollevano non per indebolire i muscoli, ma per fortificarli.
Nelle antiche rappresentazioni Michele non guarda neanche il drago, né lo trafigge, ma sovranamente troneggia:
sono immagini che consentono la lettura esoterica del male redento e inserito dentro alle forze del bene. Nelle
raffigurazioni successive, che hanno carattere essoterico e sono quindi maggiormente diffuse nell’umanità, emerge
invece il carattere di aggressività del bene che respinge il male. Qui Michele uccide il drago e se ne «sbarazza»...
Il bene che combatte il male è il «bene piccolo»; il bene che redime il male è «il bene grande» dell’evoluzione.
Mefistofele, il nemico-amico
Goethe, nel suo Faust, è stato uno dei primi a introdurre, in un’opera letteraria universale e sublime, a un livello
comprensibile per ogni uomo moderno, la prospettiva esoterica del male: Mefistofele fa parte del bene nel senso che
riceve dal Padre dei cieli un compito ben specifico da svolgere per l’evoluzione di Faust.
Se noi, dopo aver assistito alla rappresentazione teatrale di questo dramma, ci chiedessimo: «Ma questo
Mefistofele è buono o è cattivo?», la risposta, come il piatto di una bilancia, penderebbe dalla parte del buono perché
Faust deve la sua evoluzione in chiave positiva essenzialmente agli sforzi fatti grazie all’interazione con Mefistofele.
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Nel corso del Faust Mefistofele diventa quasi più simpatico per lo spettatore che non Faust stesso: in questa
grande opera teatrale l’elemento della redenzione del male viene inserito artisticamente, in modo profondissimo,
dentro alla vicenda evolutiva del bene.
Quando, nell’ultima scena, il tutto culmina nell’ascensione al cielo di Faust - «Colui che è sempre nel dinamismo
dell’evoluzione, costui noi possiamo redimere», canta il coro degli Angeli - lo spettatore che vede Faust salire in alto
non può far altro che immaginare, spiritualmente, che Mefistofele, pur non presente sulla scena, venga anche lui
preso e portato in alto, insieme con Faust.
Dopo la morte di Goethe sono stati trovati dei foglietti scritti a matita con su schizzato un titolo: In via verso
l’inferno; la critica accademica ne ha dedotto che, forse, Goethe aveva pensato di mandare Faust all’inferno.
R. Steiner si è opposto vigorosamente a questa aberrazione interpretativa: mai un artista come Goethe avrebbe
potuto pensare di condannare Faust, simbolo dell’umano stesso, l’uomo che dedica indefessamente tutte le sue
energie all’evoluzione, che vuole sempre essere in crescita e non si arresta mai!
E R. Steiner aggiunge che Goethe, invece, in quella scena appena abbozzata, aveva pensato di rimandare
Mefistofele all’inferno, quell’inferno da cui, all’inizio, l’aveva tirato su perché stipulasse il patto col Padreterno.
Goethe si astenne però dall’inserire questa scena finale.
Perché? Perché si era reso conto, da genio sommo qual era, che artisticamente ciò sarebbe stato una cosa
impossibile, assolutamente non sopportabile per l’animo umano che nel suo intimo vuole vedere il male redento dal
bene, proprio perché il male, il mistero della controforza, ha contribuito a rendere il bene sempre più forte e più
«buono». Se Goethe avesse ricacciato Mefistofele nell’inferno, avrebbe creato una specie di anti-climax
all’ascensione al cielo di Faust, contrario al senso estetico del bello, del vero e del buono.
Nel Faust il male morale come tale non viene allora visto in senso assoluto, ma in senso relativo. Il male non sta
nella qualità della controforza, non sta negli Esseri che hanno il compito di offrircela e ispirarcela: il male è il nostro
soccombere ad essi. Il male è l’omissione umana delle tappe evolutive che portano alla pienezza dell’umano. Solo
questo è male.
Quindi non esiste un male metafisico o un male fatto di Esseri «cattivi». Nel mondo umano è male unicamente la
carenza dell’umano, e questa carenza non può essere una qualità intrinseca di Esseri perché non è mai necessaria, non
è costitutiva di nulla.
La rottura dell’armonia cosmica
In che modo sorgono nel corso dell’evoluzione le figure di Caino e di Giuda? Qual è il significato del fatto che ai
primordi dell’evoluzione noi abbiamo, come elemento fondamentale della caduta, il racconto mitico,
l’immaginazione17 reale oggettiva di Caino che uccide il suo fratello Abele?
Cosa vuol dire che nell’evento del Golgota, momento centrale dell’evoluzione, si stagli la figura di Giuda come
passaggio fondamentale e imprescindibile per ogni essere umano alla redenzione, alla svolta che permette di risalire?
Per rispondere a queste domande che ci fanno entrare nei misteri del male a un livello ancora più profondo, la
scienza dello spirito ci riporta allo stadio iniziale dell’evoluzione terrestre.
Noi siamo ora nella quarta fase planetaria dell’evoluzione della Terra: ce n’è stata una prima chiamata Saturno;
una seconda chiamata Sole; una terza, Luna. Abbiamo quindi dietro di noi tre manifestazioni cosmiche del pianeta
Terra e siamo ora nella sua quarta incarnazione planetaria -la Terra propriamente detta-; seguiranno una fase di
Giove, una di Venere, una di Vulcano.
Come è sorto il tempo? Saturno è l’inizio del tempo: prima di Saturno (il Chronos dei Greci) esso non esisteva.
Devo riassumere qui cose molto complesse: per approfondirle è fondamentale L’evoluzione dal punto di vista della
veracità18, che comprende cinque conferenze dense di spunti di riflessione.
Dell’evoluzione saturnia R. Steiner descrive, come uno degli aspetti fondamentali, il sacrificio dei Cherubini che,
allora conduttori dell’evoluzione, mettono a disposizione dei Troni la loro sostanza di impulsi cosmici ricevuti dalla
17
Per «immaginazione» si intende qui il modo in cui gli esseri umani sperimentavano i nessi della propria vicenda evolutiva quando ancora
non avevano acquisito la facoltà del pensare logico, apparsa nell’umanità con la filosofia greca. Le forze immaginative spontanee consentivano
allora di percepire grandi quadri d’insieme dove gli eventi si presentavano attraverso l’immagine degli esseri stessi che li sostanziavano.
L’iniziato, che oltre ad avere accesso diretto alla visione spirituale sapeva anche interpretarla, ne comunicava al popolo il senso attraverso
le grandi narrazioni che noi oggi in parte conosciamo come Testi Sacri (i Veda, l’Avesta, il Libro dei Morti, la Bibbia...), miti, epopee, ecc.
18
O.O. 132. Le cinque conferenze (Berlino, 31 ott. - 7,14,21 nov. 5 dic. 1911) sono state pubblicate, nell’ordine, in italiano sulla Rivista
Antroposofia, Milano, nell’anno 1982 (I conf. pag. 5 - II conf. pag. 33 - III conf. pag. 65 - IV conf. pag. 97) e 1983 (V conf. pag. 1).
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Trinità divina.
I Troni vorrebbero far rifluire dentro ai Cherubini tutta quell’essenza d’amore evolutivo, avendola intrisa anche
della loro stessa sostanza volitiva; ma i Cherubini, che potrebbero accogliere totalmente l’offerta di ritorno,
rinunciano a una parte di essa.
E’ questo l’inizio primo del mistero dell’opposizione tra gli Esseri: una unità originaria si rompe, sorgono le
polarità e si creano i presupposti per l’evoluzione nel tempo.
Rinunciando all’unità che non permette opposizioni, la Gerarchia dei Cherubini fa sorgere una sostanza spirituale
di non totale identificazione, non completamente riassunta nel tessuto degli Esseri, e che diventa la sostanza spirituale
degli Spiriti del Tempo.
Ci vorrà, ora, tempo, per ritornare alla confluenza totale: è il tempo dell’evoluzione. E’ il tempo in cui gli Esseri
devono fare l’esperienza di porsi gli uni di fronte agli altri, gli uni contro gli altri; è il tempo in cui inizia la creazione
dell’uomo da parte delle Gerarchie celesti, e la vicenda umana è interamente investita da questo mistero
d’opposizione come presupposto dell’individuazione spirituale.
Perché avviene tutto ciò? Perché l’amore cosmico non sia un dato di partenza scontato, ma una conquista
evolutiva della libertà: perché l’armonia primordiale dell’essere gli uni dentro agli altri sia ritrovata attraverso un
processo evolutivo capace di risolvere ogni polarità, ogni frattura, ogni egoismo. Questa è la missione cosmica
dell’uomo.
La necessità dell’opposizione quale presupposto d’individuazione è nel cosmo la necessità stessa del sorgere del
cosiddetto male; ma il male non consiste, come abbiamo già detto, nell’opposizione in se stessa: essa diventa male
soltanto se si omette di trasformarla in bene. L’esperirci gli uni contro gli altri, dunque, non è il male, bensì è il nostro
compito evolutivo specifico.
L’acquisizione dell’autonomia deve percorrere una prima fase negativa di affrancamento e quindi di repulsa. E’ la
prima fase della libertà, quella dell’egoismo, dove essere indipendenti gli uni dagli altri viene vissuto come un essere
gli uni contro gli altri. Ma neppure qui è il male morale, perché questo stadio è necessario.
Male è restare in questo stadio, cioè omettere la trasformazione interiore che ci fa vivere l’autonomia individuale
come il modo migliore di essere gli uni per gli altri.
In questa luce possiamo reinterpretare tutta la creazione e l’evoluzione stessa: i Cherubini fanno sorgere gli
Spiriti del Tempo attraverso la loro rinuncia cosmica; nascono le qualità reali del «prima» e del «dopo» poiché la
rottura dell’armonia, il nascere di polarità e la loro risoluzione non possono avvenire nella contemporaneità, nel regno
della durata, cioè nella dimensione perfetta dello spirito divino.
Ci deve essere, allora, un intervallo, un divario di tempo che permetta lo squadernarsi, una dopo l’altra, della
realtà della caduta e della redenzione: questi eventi acquisiscono la loro natura sostanziale e differenziata grazie agli
Spiriti del Tempo che avviano la possibilità cosmica dell’evoluzione umana, in chiave di libertà. Attraverso la
vicenda umana è dunque il cosmo intero a sperimentare questo nuovo livello della libertà.
L’opposizione, mistero di individuazione
La Genesi - primo libro del Vecchio Testamento - riprende nell’ambito della cultura giudaica il mistero della
rinuncia cosmica primigenia. La Genesi è stata interpretata, nei duemila anni passati, a seconda dei mezzi conoscitivi
che si avevano a disposizione: la scienza dello spirito ci dà la possibilità di accedere a ulteriori livelli di significato.
L’offerta sacrificale di Abele, l’essere umano ancora in armonia col mondo spirituale, sale gradita a Jahve, ma
non viene accolta quella di Caino: gli eventi si susseguono, poi, fino al fratricidio.
Fondamentale per la comprensione di questi fatti è il gesto di Jahve che fa posto a Caino: Jahve sa che se tutto
nell’essere umano fosse già in partenza in armonia col divino, non ci sarebbe evoluzione; l’opposizione è il compito
evolutivo della libertà.
Nel testo sacro divengono allora centrali le parole di Jahve, forse troppo disattese nella tradizione cristiana:
«“Chiunque ucciderà Caino sarà punito sette volte tanto”. Poi il Signore pose un segno su Caino affinché chiunque lo
incontrasse non lo uccidesse» (Genesi, 4,15).
Caino viene protetto e viene espressa una condanna nei confronti di chiunque attenti alla sua vita. E’ questa
un’affermazione chiarissima della necessità della posizione di Caino per l’evoluzione (il numero sette, nella
tradizione esoterica, è, inoltre, il numero che scandisce l’evoluzione).
Caino è l’essere umano la cui sostanza sacrificale animica - cioè tutti i suoi impulsi di pensiero, di sentimento e di
volontà - si oppone alla divinità quale armonia primigenia. Questa «offerta» non è allora gradita alla divinità, non sale
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fino ad essa, viene respinta dal cielo alla Terra perché appartiene all’evoluzione specifica della Terra, che deve far
sorgere Io umani autonomi.
L’opposizione, abbiamo detto, fa parte del mistero dell’individuazione. Nessuno di noi può diventare un essere
autonomo senza dapprima affrancarsi da tutti gli altri esseri. Nella misura in cui ciascuno di noi è ancora identificato
con una qualsiasi anima di gruppo non può ancora dire «Io», non può rendersi individualmente e liberamente
responsabile per ciò che compie. Per far sorgere la responsabilità morale individuale, dunque, bisogna che l’essere
umano si separi, assuma dapprima una posizione di contrasto nei confronti di tutti gli altri esseri umani. Dapprima.
Nessun gradino evolutivo, in quanto tale, ha carattere statico e permanente: ma il compito di partenza resta
comunque quello che ogni essere, per acquisire la propria autonomia, deve imparare a respingere ogni gestione dal di
fuori. Ecco la necessità della «caduta» giù, dentro all’elemento cosmico della separazione degli esseri che è la
Materia, la grande Mater-Màtrix dell’Io umano individuale.
Il dramma della separazione non è dunque un fatto moralmente negativo, non è un male, ma è il presupposto
stesso dell’evoluzione che rende ogni essere umano capace di decisione propria, individualmente capace di bene e di
male, capace di libertà.
Possiamo considerare tre grandi immaginazioni evolutive: i Cherubini su Saturno fanno posto agli Spiriti del
Tempo, Esseri costituiti di sostanza spirituale non rifluita all’interno dell’armonia primigenia; Jahve, ai primordi
dell’evoluzione terrestre, fa posto all’opposizione di Caino; e come terzo grande quadro, nel centro dell’evoluzione
della Terra, il Cristo, l’Essere dell’Amore, fa posto a Giuda.
Meditando su questa serie di supreme immaginazioni reali dell’umanità, siamo indotti a entrare sempre più
profondamente nei misteri stessi del bene e del male: in Caino s’inizia la caduta, in Giuda s’inizia la redenzione.
In Caino viene vissuta la necessità primordiale dell’opposizione fra gli esseri: «Sono forse io il custode di mio
fratello?», così risponde Caino a Jahve che gli chiede dove sia Abele. Giuda è invece l’essere umano giunto alla
frammentazione egoico-egoistica, ormai inserito nella materialità: in lui sorge l’anelito alla redenzione, alla
riunificazione.
Il compito della separazione egoica ed egoistica per acquisire l’autonomia individuale da parte di ciascuno è il
compito globale di tutta la prima parte evolutiva; percorsa e compiuta questa prima metà del cammino, alla grande
svolta dell’evoluzione, nel Golgota, viene impresso l’impulso opposto: in Giuda si annuncia il compito della
riunificazione degli esseri, Giuda vive il dramma dell’anelito al ricongiungimento.
L’immaginazione di Caino e Abele nelle scuole misteriche
Nell’O.O. 14519 R. Steiner descrive, tra le altre cose, in quale modo sia sorta nell’umanità l’immaginazione di
Caino e di Abele, quale espressione della vicenda interiore di ogni essere umano: proprio come descritte nella Bibbia,
queste immagini si presentavano in certe scuole misteriche allo sguardo spirituale dell’iniziando a un determinato
gradino dell’iniziazione.
Egli vedeva un essere spirituale con l’Io rivolto verso il mondo spirituale e il corpo astrale rivolto verso il basso e
un altro essere spirituale con l’Io orientato verso il basso e il corpo astrale verso l’alto. Il neofita, nella
contemplazione di questa visione, sentiva che il primo essere, la cui astralità si dirigeva verso il basso, era
moralmente migliore dell’altro che spingeva l’astralità verso l’alto.
Questa visione aveva lo scopo di fargli comprendere che l’essere umano il cui Io, ancorato alle forze del mondo
spirituale, rivolge la propria astralità (o anima) verso la Terra, si rende responsabile della redenzione di tutti gli esseri
umani: infatti l’anima rivolta verso il basso offre attraverso se stessa le forze dell’Io, come una pioggia di grazia
rigeneratrice che scende su tutta l’umanità.
Invece l’altro Io, rivolto alla Terra con la sua coscienza egoica, cerca i mondi spirituali con le sole forze
dell’anima, col corpo astrale, perché si preoccupa unicamente della propria evoluzione. Un Io subissato dalle forze
terrestri non può purificare il corpo astrale e crede di poter procedere da solo, non si cura di conferire le proprie forze
a tutta l’umanità. Intriso di egoismo, non comprende ancora che ci si può salvare soltanto dentro all’organismo
spirituale di tutta l’umanità.
L’ispirazione interpretativa che accompagnava questa visione immaginativa risuonava così: «Vuoi tu diventare il
custode di tuo fratello? Guarda a questo essere così amante che rivolge i propri pensieri, sentimenti e atti volitivi
verso il basso per redimere tutta l’umanità: questo essere è moralmente più buono perché si fa custode del proprio
19
R. Steiner Lo sviluppo occulto dell’uomo nelle sue quattro parti costitutive O.O. 145 - Ed. Antroposofica. Milano 1986.
41
fratello». L’iniziando imparava che il compito dell’evoluzione è proprio quello di farsi custode di ogni altro uomo.
Procedendo sulla via iniziatica, il discepolo vedeva poi questa visione trasformarsi in un’altra: osservava in quale
modo ciò che gli era apparso nei mondi spirituali (al livello dell’Io e del corpo astrale) si esprimeva sulla Terra nelle
realtà eterica e fisica della compagine umana. Il corpo fisico e il corpo eterico, ai primordi dell’evoluzione, erano stati
concepiti divinamente come custodi e garanti delle azioni redentive provenienti dall’Io e dal corpo astrale, come
«casa vivente» capace di accogliere e conservare le azioni moralmente buone.
In base alla caduta e alla conseguente materializzazione degli esseri umani, questi due corpi, invece di permettere
all’astrale e all’Io di esprimersi in chiave amante, quasi li costringono all’egoismo, all’opposizione, all’esperienza
d’essere gli uni contro gli altri: è questa la prospettiva evolutiva ultima del male, quella della «guerra di tutti contro
tutti»20. L’annuncio di questa guerra appare sul cammino dell’umanità come il nostro esperirci alternativi gli uni agli
altri: o io o tu, o tu o io. Queste sono, rispettivamente, le posizioni di Caino e di Giuda.
Caino è l’uomo in quanto afferma il proprio vantaggio a svantaggio dell’altro: la mia vita è la tua morte - questa è la
massima dell’omicidio -; Giuda è l’uomo in quanto esperisce il vantaggio dell’altro come proprio svantaggio: la tua
vita è la mia morte - questa è la massima del suicidio -. Invece di favorirsi a vicenda nella loro crescita, gli uomini si
escludono reciprocamente.
L’omicida e il suicida in ognuno di noi
Ciascuno di noi porta dentro di sé sia Caino sia Giuda: tutte le potenzialità del male devono essere presenti in ogni
uomo altrimenti non potrebbero essere reali elementi di crescita e superamento. Un’autoconoscenza che non sia
illusoria comincia con l’ammettere in se stessi l’esistenza di tutti gli impulsi del male: ognuno di noi è
potenzialmente, e in modo assoluto, un omicida e un suicida nel suo rapporto con ogni altro uomo.
Ognuno di noi alberga interiormente tutti i possibili moventi per distruggere l’altro - Caino in noi - e per
distruggere sé - Giuda in noi -: essi vengono soltanto camuffati e oscurati dall’illusione e dalla paura che non ci
permettono di osservarci fino in fondo.
La realtà del male che l’essere umano porta organicamente dentro di sé viene altrettanto organicamente velata
attraverso la facoltà della memoria: noi abbiamo la memoria selettiva proprio grazie al fatto che non siamo in grado
di sostenere animicamente la globalità del male presente in noi.
La realtà del male è così vasta da investire le tre forze dell’anima - pensare sentire volere - quando esse sono
orientate sia verso l’esterno, sia verso l’interno.
1. Verso l’esterno noi manifestiamo la capacità di menzogna come perversione del pensiero; la capacità di
tradimento come perversione del sentimento; e la capacità di omicidio come perversione della volontà. Se riferiamo
queste tre forze del male agli uomini che vissero attorno all’ideale supremo dell’umano, il Gesù Cristo, abbiamo:
- in Pietro il mistero dell’oscuramento del pensiero e quindi del rinnegamento. L’enunciato che riassume l’impulso di
Pietro è: «Io non lo conosco», non è presente nella mia coscienza la figura della pienezza dell’umano;
- in Giuda abbiamo il tradimento del Figlio dell’Uomo attraverso un bacio, che è un’importante manifestazione
gestuale del sentimento:«Colui che io bacerò è Lui, prendetelo»; mancano, qui, le forze della compassione e
dell’amore;
- nella folla, spersonalizzata, disumana e feroce, che urla «Crocifiggilo! Crocifiggilo!» portando fino al parossismo
l’essere gli uni contro gli altri, possiamo ravvisare la volontà omicida presente dentro a ogni essere umano, la volontà
che per eccellenza nega ogni evoluzione propria e altrui.
2. Tutti gli impulsi del male volti alla distruzione di noi stessi sono invece sintetizzabili in queste tre grandi
malattie dell’anima:
- l’ottusità, quale errore perpetuato, quale grettezza e parzialità cronica del pensare, è la deviazione del nostro
pensiero, incapace di riconoscere se stesso come spirito (nel mistero del Golgota chi assomma in sé questo aspetto è
Pilato);
- l’indifferenza totale verso le autentiche forze del proprio Io (che va dalla superbia all’essere proni di fronte alle
norme morali codificate), è l’alienazione delle forze d’amore, è la distorsione del nostro sentimento dell’Io e ci
impedisce di incontrare l’altro, cioè il Cristo (Caifa, Anna e gli altri sacerdoti);
20
R. Steiner: L’Apocalisse op.cit.
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- il suicidio è la perversione finale della volontà che distrugge il proprio fondamento di incarnazione, negandosi
l’evoluzione (Giuda).
L’ottusità rivolta all’esterno diventa menzogna; l’indifferenza diventa tradimento; il suicidio, omicidio: sono le
due facce di una stessa medaglia. La manifestazione esteriore di Caino annuncia un Giuda interiore; il Giuda esteriore
parla di una interiorità cainita. Ritorneremo più avanti su questi aspetti paradossali del mistero del male, qui solo
accennati.
Le due razze morali dei buoni e dei cattivi
R. Steiner afferma che nell’epoca dell’anima cosciente noi ci troviamo all’inizio della formazione di due razze
morali nell’umanità: la razza dei buoni e la razza dei cattivi. Non si tratta dunque di razze fisiche, cioè di creazioni
corporee nate nel passato, perché non sono più questi gli elementi portanti dell’evoluzione.
Il compito evolutivo del futuro è far sorgere due razze morali, come risultanti delle scelte concrete e individuali
nella direzione del bene morale o del male morale. Alla fine del ciclo terrestre ogni uomo apparterrà all’una o all’altra
razza.
Ho già più volte detto che il bene morale consiste e consisterà sempre più nell’acquisire tutta la pienezza
dell’umano e che il male morale è e sarà una carenza sempre più abissale dell’umano.
Nel giudizio universale (Mt. 25) il Cristo, rivolgendosi ai dannati che sono alla sua sinistra, non enumera nessun
peccato di commissione, nessuna cosa «fatta male»; il Cristo fa soltanto un elenco di omissioni: «Io avevo fame e
non mi avete dato da mangiare; Io avevo sete e non mi avete dato da bere; Io ero nudo e non mi avete rivestito...».
Cosa significa ciò? Significa che tutto ciò che era possibile divenire in chiave di pienezza e creatività nel
pensiero, di amore grazie alle forze del cuore e di immolazione grazie alle forze della volontà al fine di costruire il
corpo spirituale dell’umanità diventando membri gli uni degli altri, tutto ciò queste anime lo hanno trascurato, non
l’hanno portato ad attuazione.
L’inadempienza dell’umano è dunque l’uccisione, l’annullamento da parte dell’uomo stesso della sua natura
umana: è questa la voragine ultima, la «lacuna dell’universo» della razza morale dei cattivi.
La morte è un male?
In queste nostre considerazioni abbiamo costantemente incontrato il tema della morte: ho già accennato al fatto
che R. Steiner descrive come per tutto il quarto periodo di cultura post-atlantico (quello greco-romano) gli esseri
umani si siano confrontati con questo mistero, conseguenza ultima dell’inserirsi nella materia. Sorse allora, in
quell’epoca, la domanda se la morte non fosse il male umano più grande.
Noi, nell’odierno quinto periodo di cultura, parliamo del male in termini morali: l’umanità del quarto periodo di
cultura lo riferiva, invece, all’evento ultimo e oggettivo del morire. Si diceva: se è vero che io mi esperisco
pienamente nella mia umanità soltanto grazie all’inabitazione nella corporeità, come potrò essere veramente e
pienamente umano quando il corpo mi verrà sottratto? Sarò una misera ombra d’uomo.
Questa esperienza corrispondeva al vero: poiché la forza dell’Io in quei tempi era incipiente nell’umanità e la
coscienza di sé era legata quasi del tutto all’interazione con la percezione sensibile, consentita dal corpo. Dopo la
morte, la coscienza della propria umanità veniva per il greco veramente oscurata, perché l’anima si ritrovava priva di
quella realtà fisica così decisa e incisiva, connessa alla percezione sensibile21.
La cultura greca rappresenta il grande passo evolutivo che gradualmente chiude le porte spirituali del prenatale:
già con Aristotele viene persa la prospettiva della preesistenza e l’essere umano non ricorda più, come ancora Platone
testimoniava, di essere stato nei mondi spirituali prima di nascere; non parla più della conoscenza come di un
ricordare ciò che si sapeva già prima della nascita.
Un grande Rubicone culturale viene qui varcato: Platone è l’ultimo grande pensatore che ancora sa che l’essere
umano può esistere anche senza l’interazione col corpo fisico; Aristotele è il primo grande pensatore che si esperisce
21
Ricordiamo il canto XI dell’Odissea dove Ulisse incontra l’ombra di Achille che, nel regno dei morti, rimpiange disperatamente la
vera pienezza della vita fisica: «Meglio essere un mendicante sulla Terra che un re nel regno dei morti».
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così essenzialmente congiunto con la corporeità da non riuscire più a concepire che l’essere umano, nella sua
pienezza di coscienza, possa pienamente e individualmente sopravvivere alla morte.
Per Aristotele l’uomo sorge, in quanto essere spirituale e animico, col nascere della corporeità: non esiste prima
del corpo. La grande domanda sul bene e sul male per la cultura greca è dunque drammatica: «Cosa ne è dell’uomo
dopo quel male supremo che è la morte?».
Aristotele stesso non riesce a concepire l’immortalità se non attraverso un riferimento di memoria che l’anima
trapassata ha, per tutta l’eternità, con la propria corporeità deposta: la coscienza di sé, come immortalità ombratile e
non piena, è sostanza di ricordo.
Questo gradino di autocoscienza umana noi siamo chiamati a superarlo: se riferiamo il male alla vicenda della
morte noi lo estrapoliamo, lo mettiamo fuori dell’essere umano e lo rendiamo oggettivo. La morte, oggi siamo in
grado di capirlo, è un evento di natura moralmente neutro.
Il nostro compito, nel quinto periodo di cultura, è quello di riportare il male dentro di noi, è di considerarlo una
vicenda puramente morale, una realtà interiore dell’essere umano. Il Caino dei primordi e il Giuda della svolta
dell’evoluzione, il gesto omicida e il gesto suicida - mali originari dell’essere gli uni contro gli altri - vengono
riconsegnati all’individuo singolo come compito globale della libertà che è sempre autoliberazione.
Va però superata anche l’illusione che, allora, il male sia alloggiato in qualche ricettacolo nella nostra anima
sotto la forma globale degli impulsi di Caino e Giuda: questi impulsi, in se stessi, sono tutt’altro che male poiché
costituiscono il presupposto per il bene morale che si può esercitare solo nel superamento degli ostacoli.
Spesso ho posto questa domanda che ha per risposta un uovo di Colombo: qual è la cosa più importante e
necessaria per superare gli impulsi omicidi e gli impulsi suicidi, il Caino in me e il Giuda in me? E’ che ci siano! Il
fatto che esistano è dunque il benvenuto per l’evoluzione umana, perché essi rappresentano continuamente la
possibilità reale di vincere l’illusione dell’alternativa fra gli esseri, opposta alla riconciliazione e al rimembramento
degli esseri stessi.
Il primo passo per venire coscientemente alle prese col mistero del male è dunque quello di capire che il male
morale vero è nell’omissione della quotidiana trasformazione degli impulsi di Caino e Giuda in noi.
Giuda è l’essere umano che dice: o tu o io. Nel mistero di Giuda si assommano il tradimento dell’incarnazione
più pura dell’umano, il Cristo Gesù, e il conseguente suicidio. Uccidere l’altro è, di fatto, uccidere sé: perché l’altro
io posso veramente ucciderlo soltanto dentro me stesso e così facendo mi autodistruggo. Quando io diminuisco
l’umano in un altro essere umano, altrettanto lo diminuisco in me stesso: abbiamo in Giuda il congiungersi misterioso
di questa polarità.
L’impulso del tradimento sfocia nell’omicidio perché nel Cristo Gesù viene uccisa l’interezza dell’umano; al
contempo si manifesta la realtà vera dell’omicidio: quando io uccido un altro essere umano anniento dentro di me
l’umano e l’impulso dell’amore e lascio svolgersi in me soltanto il disumano, l’odio e l’opposizione fra gli esseri.
O io o tu.
La leggenda di Giuda quale Edipo e Caino
Mi rivolgo ora al mistero di Giuda per approfondirlo a partire da una leggenda cristiana, molto diffusa
nell’Europa medioevale, che congiungeva le vicende di Edipo, Caino e Giuda. Questo racconto si trova nella
Leggenda Aurea di Jacopo da Varagine, all’inizio della trattazione di Mattia, che prese il posto di Giuda.
Essa narra che Giuda, prima di incontrare il Cristo, aveva ucciso un presunto fratello, poi aveva ucciso il padre e
si era congiunto con la madre; infine era stato accolto dal Cristo nella cerchia dei Dodici. Centrale, per la
comprensione di questa leggenda, è però capire il senso del mito di Edipo.
Così lo spiegavano gli iniziati: la vicenda dell’uccidere il padre e del congiungersi con la madre è il cammino
vero e proprio di iniziazione e l’essere umano che lo omette è costretto a proiettarlo fuori di sé, nella vita sociale; e
allora uccide materialmente il padre, e si unisce fisicamente con la madre.
«Uccidere il padre» e «unirsi con la madre» erano espressioni tecniche dal significato ben preciso: «Padre» era il
termine che indicava tutto il mondo fisico e «Madre» indicava il mondo del vivente, dell’eterico. Detto ancora più
precisamente: «Padre» indicava Io e corpo fisico, cioè l’autoesperienza diurna dell’uomo quale essere autocosciente
grazie alla percezione del mondo fisico. «Madre» indicava corpo eterico e corpo astrale, ciò che l’uomo antico
viveva nei mondi spirituali grazie all’uscire dal mondo fisico.
La vicenda di Edipo era l’iniziazione stessa: essa consisteva nel far morire dentro di sé il mondo fisico,
consisteva nel lasciare tutta la realtà materiale cessando di identificarsi con essa - ecco l’uccidere il «Padre» -; come
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conseguenza era possibile congiungersi con la matrice cosmica delle forze eteriche («il mondo delle idee» di Platone,
«il mondo delle Madri» di Goethe) e cominciare a sperimentare in esse lo spirituale - ecco l’unione con la «Mater
cosmica», con l’eterno femminino.
Questo significato esoterico del mito di Edipo veniva comunicato e affidato unicamente ai neofiti che avevano
compiuto il periodo di preparazione grazie alla purificazione interiore e venivano portati all’atto conclusivo
dell’iniziazione.
Per il popolo gli iniziati creavano miti che traducevano in immagini le esperienze iniziatiche. Il Cristo stesso, del
resto, ha seguito due livelli di insegnamento: uno fatto di parabole, ricche di immagini e perciò comprensibile per la
folla, un altro fatto di concetti esplicativi, riservato ai discepoli.
Per il popolo il mito di Edipo era il mito della caduta, per gli iniziati - chiamati a precorrere i futuri gradini
evolutivi - era il mito della redenzione (iniziazione). Al popolo esso narrava l’uccisione del padre cosmico e il
connubio con la madre terrena come mistero della prima metà dell’evoluzione. All’iniziato esso narrava l’evoluzione
della libertà - la seconda metà del cammino umano - dove l’essere umano uccide in sé il mondo della morte (il
«padre» del mondo fisico) e si ricongiunge con la madre spirituale cosmica22.
Ogni mito è passibile di infinite interpretazioni perché alberga in sé infiniti misteri. Una delle interpretazioni
popolari più significative del mito di Edipo non si riferiva all’iniziazione - che è il ritorno nel mondo spirituale da
parte dell’uomo caduto - ma si riferiva al presente di allora e riguardava tutta l’umanità. Ogni essere umano, per
diventare individuale, libero e autonomo nel suo Io, doveva uccidere in se stesso l’agire primigenio del padre
cosmico Urano, ogni esperienza originaria e non libera del mondo spirituale, e doveva unirsi alla materia, alla Terra,
madre dell’evoluzione.
Questa specie di esilio cosmico è proprio il significato fondamentale dell’evoluzione umana; ma per ogni greco,
anche a livello di popolo, restava la domanda: come si redime Edipo che ha perso la comunione iniziale con lo spirito
cosmico e che ora vive unicamente il suo connubio con la madre Terra, col mondo della frammentazione e della
disgregazione? Come uscirà Edipo da questo dramma evolutivo dell’isolamento dovuto all’egoismo?
Edipo, nella prosecuzione del mito, resosi conto dei delitti compiuti, si acceca proprio per indicare la necessità
futura di guardare di nuovo nei mondi spirituali, di diventare, cioè, un iniziato: il cieco nel mondo fisico è sempre
stata un’immagine privilegiata per indicare colui che ha accesso alla visione diretta dello spirituale, colui che vede
con gli occhi dello spirito. Anche Faust diventa «cieco» all’apogeo della sua odissea.
Riferendosi al momento evolutivo specifico del quarto periodo post-atlantico, il mito accenna al processo di
riscatto descrivendo Edipo come l’uomo che, posto di fronte alla Sfinge, è capace di risolverne l’enigma.
«Chi è quell’essere che all’alba cammina su quattro gambe, a mezzogiorno su due gambe e al tramonto su tre?».
Edipo risponde: «E’ l’uomo». Edipo, proprio perché è l’essere umano smembrato, singolarizzato e congiunto con
l’elemento materno della materia, ha acquisito un pensare egoico che gli permette di scandagliare i misteri
dell’umano secondo la Terra.
Il mito si conclude con il gesto della Sfinge che si getta nell’abisso: R. Steiner23 descrive questo sprofondare
come l’ingresso definitivo dell’evoluzione umana dentro al corpo fisico. La Sfinge, infatti, porta nella sua stessa
figura tutti e quattro gli elementi apocalittici, riassuntivi dell’essere e dell’evoluzione umana: leone, toro, aquila e
angelo.
La Sfinge è l’ultima visione immaginativa dell’evoluzione dovuta alle forze dell’astralità atavica, quelle forze
che dovevano andar perse proprio perché l’essere umano, nel quarto periodo di cultura, potesse congiungersi
definitivamente con il mondo terreno.
Il mistero dell’evoluzione umana - cioè l’enigma della Sfinge - termina di essere contemplato al livello di antica e
spontanea chiaroveggenza: la Sfinge si immerge nell’oscurità affinché all’essere umano resti unicamente la
percezione del mondo visibile, l’illusione e l’obnubilamento della maya.
E proprio questo essere umano - Edipo ritornato in Giuda - nella leggenda medievale cristiana cui accennavo
all’inizio, incontra il Cristo: in lui il Cristo accoglie, per redimerlo, colui che ha ucciso il fratello (Caino), che ha
ucciso il padre e si è congiunto con la madre (Edipo), e che infine tradirà l’umano e si suiciderà (Giuda). Questa
antica e sapiente leggenda cristiana fa del Giuda una specie di simbolo della totalità del male dentro all’essere umano.
Il Caino Edipo che entra nella cerchia dei Dodici non ha più un barlume di conoscenza spirituale, è totalmente
inserito e dedito al mondo della materia. E’ un essere umano bramoso di muoversi nel mondo fisico che lo ammalia,
lo seduce e gli appare totalmente esauriente l’umano: perciò può essere anche un Giuda, capace di tradire quello
22
Vedi: R. Steiner Il vangelo di Giovanni in relazione con gli altri tre e specialmente col vangelo di Luca O.O. 112 Ed. Antroposofica, Milano
1981, XI conferenza.
23
R. Steiner Der Zusammenhang des Menschen mit der elementarischen Welt O.O. 158 Rudolf Steiner Verlag, Dornach 1980.
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stesso umano per denaro, il canale d’accesso più immediato al potere e al possesso di tutte le cose materiali.
Il suicidio è la conseguenza ultima della depressione e l’omicidio è la conseguenza ultima dell’aggressione:
questo oscillare tra aggressività e depressività per risolvere in sé la polarità Caino Giuda è allora il compito stesso
evolutivo dell’uomo caduto (Edipo).
Il Caino Edipo diventato Giuda è l’essere umano passibile di redenzione al quale il Redentore indica il compito
evolutivo di tutta la seconda metà dell’evoluzione: riportare gli esseri umani gli uni nel cuore degli altri, far sì che
essi imparino a «ricordare», poiché il ricordare è la via per il «rimembrare».
Il Cristo ha amato Giuda?
Consideriamo due frasi fondamentali che si trovano nei vangeli e che è facile fraintendere: come reagisce il
Cristo di fronte a Giuda e come siamo chiamati, noi, a reagire di fronte al nostro Giuda interiore? «‘Ο ποιεις ποίησον
τάχιον »: «Ciò che devi fare, fallo presto» (Gv 13,27).
Giuda non può che essere se stesso. Quindi o bisognava evitare che sorgesse la realtà stessa di Giuda, oppure, se
c’era, si trattava di collocarla nell’evoluzione positiva dell’umanità. Il Cristo non nega la legittimità delle azioni di
Giuda, ma dice che non sono destinate a perpetuarsi: la posizione di quell’operare secondo la reciproca eliminazione
degli esseri evolverà nel senso del bene nella misura in cui sarà al più presto superata.
Il moralismo tradizionale cristiano si è sempre domandato, in questo contesto, come mai il Cristo abbia lasciato
che Giuda lo tradisse e poi si suicidasse: perché il Redentore non ha detto e fatto nulla per fermarlo, per dissuaderlo
da quei gesti estremi?
La comunione più profonda dell’umano è nell’amore che vuole talmente la libertà dell’altro da confermarlo nel
suo vero essere, qualunque esso sia e dovunque sia. Il Cristo ci ha amato e ci ama di incondizionato amore: questo
suo amore ha cercato anche il cuore di Giuda, così com’era, nel punto evolutivo dove si trovava, e l’ha confermato.
Gli ha detto soltanto: «Quello che devi fare, fallo presto». Ancora una volta c’è una fiducia infinita del Cristo
nella perfettibilità dell’umano. Agli occhi dell’Essere dell’Amore Giuda è apparso degno della compassione più
profonda, totale e benedicente.
Ciò che tu, uomo, compi nella fase dell’egoismo, fallo, devi farlo: ma fallo presto. Non ti soffermare oltre misura
in questo stadio infimo della caduta. Se non ometterai il superamento della tua posizione di Giuda potrai poi capirne
anche il significato. Il travaglio interiore di esperire te stesso contro gli altri e gli altri contro di te non ti è dato come
una condizione permanente: ma tu potresti snaturarlo tralasciandone la metamorfosi.
L’altra frase, ancora più fraintesa, è quella dove il Cristo direbbe di Giuda: «Meglio per quell’uomo se non fosse mai
nato», «Καλον ην αυτω ει ουκ εγεννήτη ο αντρωπος εκεινος» (Mt 26,24; Mc 14,21). Nel testo greco non c’è la parola
«mai»: viene aggiunta nelle traduzioni.
Dall’originale si evince questo significato: l’essere nato come Giuda, l’essere nato in chiave di opposizione, non è
per il meglio dell’essere umano, ma è per il peggio. La realtà di Giuda non è sorta perché sia il bene da conservare e
rincarare, né perché sia il male da evitare: è sorta per essere superata. E l’essere umano si adopera per oltrepassare e
trasmutare la posizione di Giuda soltanto quando si rende conto che è il peggio per la sua evoluzione e quindi non vi
vuol restare più a lungo dello stretto necessario.
Mi uccido per non morire più
Voglio qui ritornare, da un altro punto di vista, al mistero inesauribile dell’operare di Giuda: ho già messo in
rilievo che il tradimento del Figlio dell’Uomo è solo un passo verso l’evento ultimo del suicidio.
Abbiamo interpretato, finora, il male sempre come omissione del bene: ponendoci, però, di fronte al gesto
estremo di Giuda che uccide se stesso - e anche di Caino che uccide il fratello - non sembra di poter individuare
omissioni o carenze, ma fatti ben concreti. Non sono forse, per eccellenza, due azioni oggettive, due peccati ultimi di
commissione? No.
Proprio qui, infatti, vediamo in modo emblematico che la natura del male morale è sempre l’omissione, la
carenza del bene. Riferendoci, in particolare, al suicidio, possiamo dire che il motivo per cui un essere umano uccide
se stesso è perché decide di non voler più morire.
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L’aspetto più significativo e paradossale del suicidio non sta nel togliersi la vita, ma nella decisione di rifiutare la
morte quotidiana: ognuno di noi esperisce l’umano nel continuo morire al proprio egoismo per entrare nella
comunione con tutti gli esseri.
Questo esercizio del morire ogni momento è un immenso sforzo evolutivo, e allora colui che si toglie la vita in
realtà non vuole più morire, vuole smettere - e dunque omettere - di continuare a morire giorno per giorno.
Al suicida mancano le forze morali per vivere quotidianamente il morire al proprio egoismo grazie all’inesorabile
ma amante logorio del proprio destino. Non suicidarsi significa decidere di restare nell’umano, di non omettere
l’esercizio della propria umanità24.
Come il suicida vuol farla finita con se stesso in modo da poter omettere il pesante lavoro su di sé, così l’omicida
vuol farla finita con l’altro, per poter omettere l’impegnativa e difficile opera di interazione. Chi uccide sé non vuole
più la fatica erculea umana della libertà; chi uccide l’altro non vuole più la fatica dell’amore.
Anche in questo caso possiamo dire che proprio nella lacerazione interiore, necessaria per far posto agli altri, noi
esercitiamo la nostra umanità. L’omicidio è la decisione di eliminare le provocazioni evolutive che ci vengono
incontro dall’esterno.
Se è vero che Giuda rappresenta una delle dimensioni del male umano, presente in ogni uomo, è altrettanto vero
che questa realtà archetipica di Giuda si è incarnata alla svolta dei tempi in un ben preciso individuo.
Il Giuda uomo è colui che noi storicamente indichiamo come il traditore del Cristo: egli, oggettivamente, tradisce
(dal latino tradere = consegnare), cioè consegna, fa passare il Figlio dell’Uomo dalla cerchia dei Dodici alle autorità
che vogliono ucciderlo.
Tutto questo non afferma ancora nulla sulle reali intenzioni di Giuda perché egli ci potrebbe dire: «Conoscevo il
Maestro da tre anni e sapevo bene di che cosa era capace: ho cercato allora di costringerlo a mostrare la sua potenza
anche ai Romani e ai sacerdoti del Tempio. Potevo immaginare che si sarebbe fatto uccidere?».
La tentazione di Giuda è il potere. Tutti i dati del vangelo lo indicano come l’essere umano che è talmente
ancorato al mondo della materia da interpretare le opere e le parole del Cristo come l’annuncio di un regno terreno:
«Il mio regno è di questo mondo», è il motto di Giuda.
24
Spesso il suicidio viene interpretato come un estremo atto di coraggio, come una affermazione ultima della libertà: ma questo è un pensiero
sbagliato che ingenera l’illusione della positività del gesto in chi lo compie. Il suicidio in quanto «azione» è sempre un atto finale e non matura
in pochi giorni: è il calcolo integrale di un calcolo infinitesimale che si estende nell’arco di anni.
La genesi del suicidio ha a che fare proprio con la continua omissione dell’esercizio della libertà: e questo è un processo che conduce, nel
tempo, alla più completa incapacità di scegliere, al crollo interiore che consente il subentrare dei meccanismi di natura, cioè delle forze di
disgregazione e morte.
In realtà il suicidio, al di là di ogni interpretazione arbitraria, è la scelta di non scegliere perché, oggettivamente, significa eliminare il
sostrato fisico necessario per ogni esercizio della libertà. L’incarnazione è la decisione di entrare nel contesto totale delle possibilità della
libertà: suicidarsi è il tirarsene fuori, è il rinunciare al compito evolutivo per l’assolvimento del quale ci siamo incarnati.
Fa parte della libertà umana decidere di perdere la libertà: ma questa libertà, poi, la si perde davvero. E’ un’illusione pensare di perdere la
libertà restando intrinsecamente liberi! Possiamo meglio comprendere questa prospettiva se riflettiamo sui diversi livelli di libertà presenti negli
Esseri del cosmo:
- la libertà umana, quella che ci permette di scegliere tra il bene e il male, è sempre passibile di venir persa e perciò non è perfetta; l’unico
luogo dove l’essere umano può rafforzarla, dove può procedere fino a compenetrarsene, fino ad ancorarvisi, è la Terra;
- la libertà divina, invece, è perfetta perché è costantemente una scelta fra bene e bene, è una libertà che si conferma sempre e dunque non è più
perdibile;
- la libertà di tutti gli Esseri del male è, infine, sempre una scelta fra male e male: un diavolo è un buon diavolo soltanto se tutte le sue decisioni
sono per noi una costante sollecitazione al male.
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