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PREFAZIONE
È da salutare con grande apprezzamento la comparsa di questa opera che si impone
all’attenzione del lettore per la vastità delle competenze e la novità dell’impostazione critica con cui lo studioso opera su un fenomeno del passato e del presente che ha una importanza capitale per la vita del nostro continente.
L’Autore del libro è uno storico del giure, allievo a Milano del grande canonista Orio
Giacchi e professore di diritto ecclesiastico comparato e di diritto dei Paesi dell’Europa
Orientale nella Facoltà di Scienze Politiche dell’Università di Trieste.
Il titolo del libro riprende un argomento da sempre al centro delle attenzioni dello
studioso, che ne ha fatto oggetto di molte sue opere a partire dall’inizio degli anni Settanta del secolo scorso.
Il titolo ci promette una storia dei rapporti fra trono e altare in Russia dalle origini
ai giorni nostri. In realtà la trattazione comincia di fatto dalla seconda metà del Quattrocento, dal momento della formazione di uno Stato russo centralizzato attorno a Mosca, diventata sede anche titolare di una metropolia indipendente da Costantinopoli e
soprattutto sede di un granducato che, rotta la servitù tatara, progressivamente assoggettava a sé tutte le terre russe.
Sembrano omessi dunque i cinque secoli precedenti, divisi in due parti tra la storia
della Rus’ di Kiev – una costellazione di principati nata e formata culturalmente sul modello bizantino – e il periodo della dominazione mongola, che tra la prima metà del Duecento e la seconda del Quattrocento determina una trasformazione importante nelle istituzioni e nei costumi delle terre russe.
In realtà questa prima parte, a sua volta bipartita, della storia russa non è dimenticata
dall’Autore, tanto è vero che il primo paragrafo della parte I dell’opera è dedicato a «La
sinfonia dei poteri» che sul modello bizantino avrebbe dovuto segnare anche in Russia i
rapporti tra sacerdotium e imperium, altare e trono, il patriarca e lo zar. Ma è chiaro che
un tale rapporto non poteva esistere in maniera completa senza l’esistenza dei due ultimi personaggi, i quali formalmente saranno presenti in Russia nella seconda metà del
Cinquecento, salvo il fatto che già dalla seconda metà del Quattrocento delle figure ne
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anticipavano i caratteri istituzionali e in parte le titolazioni. Il metropolita infatti era diventato autonomo dal Patriarcato di Costantinopoli e quindi, dal punto di vista giurisdizionale, indipendente quanto lui; il granduca, poi, non solo era un sovrano indipendente, ma, a causa del crollo dell’Impero bizantino, si candidava ad ereditarne il possesso
ideale come nuovo capo dell’ecumene cristiana. Di conseguenza, un discorso sulla sinfonia dei poteri poteva essere impostato correttamente dall’Autore solo partendo da questo momento della storia istituzionale della Russia.
È da allora infatti che cominciano a formarsi le ideologie fondanti della autocrazia
russa. L’Autore ne registra attentamente i vari fatti rivelatori, come quello del metropolita Zosima, che nel 1492, non essendo finito il mondo, come tutti avevano aspettato,
compila le nuove tabelle pasquali e per l’occasione saluta Ivan III, il nonno del Terribile,
regnante – egli dice – come «nuovo Costantino» nella «nuova Costantinopoli», Mosca.
Questo saluto era stato anticipato, venti anni prima, dal matrimonio dello stesso Ivan III
con la Paleologa Zoè, con il quale si ambiva a collegare il trono di Mosca con quello di
Bisanzio. Ma poco più tardi di Zosima, forse già nel secondo decennio del Cinquecento,
ecco la nascita letteraria dei due miti su cui in seguito farà leva l’esaltazione dello Stato
moscovita: l’idea di Mosca Terza Roma, dovuta al monaco Filofej di Pskov, e la tesi sulla
origine della dinastia dei principi russi, fino al Terribile, dal sangue dell’imperatore romano Augusto. A questa seconda idea era molto legato Ivan il Terribile, che se ne vantava, svillaneggiandoli, anche con i regnanti dell’Europa occidentale. Questa pretesa origine gli permetteva di baipassare la mediazione bizantina per la discendenza augustea,
ancora sentita (quella mediazione) come attuale nel mito della Terza Roma; del resto anche per la storia ecclesiastica Ivan preferiva non rifarsi al padrinato bizantino, come testimonia il fatto che sosteneva, in colloquio con il Possevino, l’origine apostolica – attraverso l’apostolo Andrea – della Chiesa russa e quindi la sua uguale dignità rispetto anche
alla Chiesa di Roma, come ricordato dall’Autore (p. 54).
In tutto questo discorso il Codevilla ha il merito di aver messo insieme tutti gli elementi, anche laici, che si intrecciano nella tessitura del nascente mito russo. Alla stessa
maniera egli procede nel descrivere e documentare il processo di formazione della concezione autocratica del potere dello zar: è una concezione che tocca direttamente anche
il rapporto tra i due sommi poteri dello Stato cristiano, il sacerdozio e l’impero. Da un
punto di vista storico l’Autore scrive di una sopravvenuta subordinazione «volontaria»
della Chiesa al potere temporale a cominciare dall’opera di Iosif Volockij, grande riformatore monastico e scrittore, che dopo il 1507, nel «discorso» XVI del Prosvetitel’ (l’«Illuminatore») teorizza il potere dello zar in terra come uguale a quello di Dio in cielo ed
esteso a tutti i sudditi, compreso il clero. Iosif partiva invero dalle posizioni tradizionali del pensiero politico greco-bizantino, come Agapito, Nikon della Montagna Nera ed
altri; ma in ambito russo l’idea autocratica tendeva a rendersi anche più integrale, priva come era dell’entroterra culturale che legava Bisanzio alla memoria storica dell’antichità classica e suggestionata dalla concezione e dalla pratica del potere che avevano
i mongoli, recenti padroni delle terre russe. Basti leggere quanto scrivevano rispettivamente Sigmund von Herberstein (1517 e 1526) e Antonio Possevino (1586) – come ricorda l’Autore – sulla idea che del potere avevano Vasilij III e Ivan IV il Terribile: questo
ultimo si riteneva, secondo le parole del Possevino, «intero signore de i beni, de i corpi, degli animi et quasi de i pensieri de’ sudditi» (La Moscovia, Ferrara 1592, pp. 5-6). A
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tale potere non si sottraeva la gerarchia ecclesiastica, come rilevava anche Sigmund von
Herberstein: nel 1521 Vasilij III depose il metropolita Varlaam per il no al suo divorzio
e secondo matrimonio; nel 1569 il metropolita Filippo, che si era opposto alle crudeltà di Ivan IV, fu da questi non solo deposto e confinato in monastero, ma in monastero
fatto strangolare.
Secondo il pensiero dell’Autore l’idea bizantina della sinfonia tra trono e altare, mai
rinnegata a livello teorico e dottrinale, ha trovato in Russia una applicazione assai limitata nel tempo, e precisamente nel periodo che va dall’istituzione del Patriarcato di Mosca (1589) al grande scisma dei Vecchi credenti (1654), cioè ai tempi dei primi Romanov,
Michail Fëdorovi/ (1613-1645) e Aleksej Michajlovi/ (1645-1676).
Il libro del Codevilla illustra i rapporti tra lo zar Aleksej Michajlovi/ e il patriarca Nikon, due figure emblematiche, protagoniste dell’ultima fase della sinfonia tra i due poteri e poi della sua rottura. Nikon si riteneva detentore di un potere di livello pari a quello dello zar; Aleksej a sua volta, riferendosi anche all’uso di titoli sovrani che Nikon si
attribuiva, riteneva che non ci potessero essere due zar e per questo costrinse il patriarca a ritirarsi in monastero.
Il conflitto tra i due poteri, per natura loro totalizzanti, è endemico in ogni società
dove essi esistono separati, e in mancanza di accordi ognuno di essi tende ad erodere,
o addirittura a fagocitare, il terreno dell’altro. La fine della collaborazione tra i due poteri non è causata dallo scisma dei Vecchi credenti, ma dal fatto che il potere temporale
non si riconosce limiti: con Aleksej Michajlovi/ e successori decade l’idea del reggimento sinfonico dell’ecumene cristiana; in particolare con Pietro il Grande tramonta la concezione teocentrica – o addirittura cristiana – della vita, oltre che dello Stato. Per opera
di Pietro il Grande viene abolito il Patriarcato (1721) e viene istituito al suo posto il Santo Sinodo, i cui membri debbono giurare fedeltà a Pietro, mentre la Chiesa viene amministrata come un dicastero statale, controllata nel suo funzionamento e nelle spese da
funzionari statali laici (come l’oberprokuror e i fiskaly).
È proprio a cominciare dalla trattazione su Pietro il Grande che il Codevilla sviluppa, seguitando poi fino alla fine del libro, la sua straordinaria competenza in campo giuridico, fissando l’attenzione su codici, regolamenti, leggi, decreti, costituzioni o statuti
settoriali, disposizioni transitorie, attività degli organi statali di tutti i gradi eccetera, illustrando nel contempo con grande equilibrio i vari aspetti, anche contradditori, delle
figure protagoniste di quella storia, a cominciare da quella di Pietro, blasfemo e tuttavia riformatore del caos monastico, persecutore dei Vecchi credenti eppure emanatore
del primo decreto di tolleranza religiosa (1702), irrispettoso delle tradizioni della vecchia Russia eppure creatore della nuova Russia lanciata provocatoriamente al confronto con l’Europa.
Un altro personaggio su cui si sofferma l’attenzione del Codevilla – che invece dedica con scelta secondo me oculata poche pagine a Caterina la Grande – è lo zar Nicola I (1825-1855), che egli considera evidentemente come simbolo di un’epoca, o addirittura di un secolo. Ebbene è uno zar incrollabilmente cesaro-papista (attribuisce tra
l’altro a se stesso il titolo di «Capo della Chiesa») che imposta il suo regno sulla triade
programmatica elaborata da Uvarov di Autocrazia, Ortodossia, Russicità, che non fa distinzione fra Stato e Chiesa, politica e cultura, paternalismo e polizia, e che dedica molta attenzione ai costumi del clero, alla disciplina dei monasteri, alle missioni estere, ma
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che contemporaneamente usa ogni rigore per difendere l’Ortodossia contro le sette dei
Vecchi credenti e per combattere i greco-cattolici (gli «uniati») dei territori occidentali
dell’Impero, perlopiù delle terre già polacche. A proposito degli «uniati» l’Autore dedica una particolare attenzione alle vicende che hanno portato all’Unione di Brest (1596)
e alla nascita della Chiesa greco-cattolica (pp. 55ss.), sottolinea l’attualità della figura di
Petro Mohyla (pp. 75ss.) e analizza in modo approfondito le ragioni che hanno decretato la soppressione di quella Chiesa nei secoli XVIII (pp. 147ss.) e XIX (pp. 177ss.) e nuovamente alla fine della Seconda guerra mondiale in Ucraina, Belorussia, Transcarpazia,
Slovacchia e Romania (pp. 434ss.). Con pari attenzione ed equilibrio l’Autore illustra la
rinascita di queste Chiese dopo il crollo dei regimi comunisti e pone in evidenza i problemi delle relazioni tra queste e i diversi Stati di appartenenza.
Sul piano normativo e in relazione alla politica religioso-confessionale si elabora sotto Nicola I e poi sotto Alessandro II una complessissima legislazione (fondamentale il
Codice delle confessioni straniere del 1880) che distingue, nell’ordine, la religione cristiano-ortodossa, le religioni riconosciute e protette (le confessioni cristiane non ortodosse), le confessioni riconosciute e tollerate (le non cristiane), le confessioni non riconosciute e non tollerate.
Il Codevilla descrive e commenta le disposizioni legislative, ne segue i mutamenti
nel tempo, come segue nel tempo l’evoluzione delle leggi sui Vecchi credenti fino al decreto di tolleranza del 1905 e all’ukaz del 1906 con cui si concedeva loro diritto di culto anche pubblico. Sullo sfondo di queste vicende c’è tutta la storia della Russia, politica, intellettuale e religiosa, nelle sue condizioni interne e nelle connessioni esterne con
il resto dell’Europa.
Così come per il secondo Settecento non era da lui dimenticata la rinascita spirituale portata dalla riforma monastica di Paisij Veli/kovskij che reintroduceva in Russia il
vecchio patrimonio mistico dell’esicasmo bizantino-slavo (poi greco-slavo e greco-balcanico), per l’Ottocento egli parla anche dell’influsso sulla Russia delle correnti religiose
protestanti e cattoliche, così come segue l’evoluzione del pensiero politico dei russi, divisi tra slavofili e occidentalisti e poi sempre più oscillanti tra maturazione di un pensiero liberale e suggestioni socialiste fino al nichilismo e all’anarchismo. Ma l’Autore tiene
questo sottofondo in sordina, così come in sordina esso ha avuto un qualche ruolo nella
legislazione politico-religiosa russa e nei rapporti politico-religiosi tra Chiesa e Stato in
Russia. È chiaro che la opera del Codevilla presenta in controluce tutta la storia religiosa
della Russia nella cornice di una sua storia integrale, ma la caratteristica che ne connota
la originalità, e vorrei dire la unicità, risiede nel fatto che al suo centro egli pone, con tenace consequenzialità, quanto in quella storia c’è di meno religioso, la struttura normativa, la legge: quella ecclesiastica, quella statale, fino a quella dello Stato persecutore mirante a distruggere la religione e la Chiesa.
L’era sovietica, che costituisce l’oggetto della penultima parte dell’opera, è un esempio tragico di uno Stato dove la legge si propone il compito di distruggere la religione
«oppio dei popoli». Il Codevilla, che ha passato tutta la vita a studiarla, si muove qui nel
suo terreno più stretto di competenza, ma evita le descrizioni superflue e persino ogni
enfatizzazione delle atrocità commesse dal regime sovietico nella lotta antireligiosa. Solo
in un punto accenna quasi di sfuggita ai dati di alcune commissioni di inchiesta secondo
le quali furono alcune centinaia di migliaia le persone condannate per motivi religiosi,
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con un picco di almeno 80.000 ecclesiastici fucilati nel solo 1937 (p. 393). Il compito al
quale egli si attiene è di illustrare e analizzare gli strumenti legali – o solo amministrativi
– di cui il regime si servì per la sua lotta antireligiosa. La legislazione antiecclesiastica del
1929 (pp. 386ss.), la Costituzione staliniana del 1936 (pp. 397ss.), la ripresa della campagna ateistica e la politica antireligiosa dopo il 1948 e poi in epoca chruš/ëviana (pp.
508ss.), la Costituzione brežneviana del 1977 (pp. 538ss.): il tutto superato con il crollo
del bolscevismo e la proclamazione della libertà religiosa nel 1990 (pp. 557ss.).
Ma è di singolare interesse il paragrafo che il Codevilla dedica alle «leggi non scritte» (pp. 385ss.) con le quali il regime colpisce la Chiesa: le risoluzioni del partito comunista o dei Congressi dei Soviet, le ordinanze dei Soviet dei commissari del Popolo, del
Comitato centrale dell’URSS o di quelli delle Repubbliche Federate; a cui si aggiungono le ordinanze, direttive, circolari, istruzioni di organi partitici o statali (come l’NKVD)
a livello centrale o periferico che, a differenza delle disposizioni precedenti, non escono a stampa ed esprimono l’arbitrio illegale a cui il potere ricorre. Di fronte allo Stato
c’è la Chiesa, non solo falcidiata numericamente e vessata da norme tributarie insostenibili, ma divisa al suo interno tra i fedelissimi alla fede e alla Chiesa senza compromessi con il regime, e i collaboratori con il regime per la stessa sopravvivenza della Chiesa.
In questa cornice si colloca la grossa questione del discusso comportamento del metropolita (dal 1924), poi patriarca (dal 1943) Sergio per la dichiarazione di lealtà (1927) al
regime e per la collaborazione offerta ad esso anche in seguito in campo internazionale. Il Codevilla non partecipa alla discussione e si astiene dai giudizi, anche in attesa che
gli archivi forniscano tutta la verità sull’uomo e il capo ecclesiastico. La stessa discrezione egli mostra a proposito dei due successori di Sergio, Alessio I (1944-1970) e Pimen
(1971-1990); ma è singolare quanto egli dice del primo patriarca non «sovietico», Alessio II (1990-2008), da lui definito «uomo dell’apparato» come i precedenti, la cui carriera si era tutta svolta con il preventivo nulla osta del regime. Questa imparzialità non gli
impedisce tuttavia di esprimere un apprezzamento quanto mai positivo del metropolita Nikodim, maestro dell’attuale patriarca Kirill, per la pietà, la carità, l’impegno profuso per l’unione dei cristiani.
Nell’ultima parte del libro, dedicata a «La nuova Russia», tutta giocata su vicende
degli ultimi due decenni, l’Autore entra invece nel merito delle leggi che riguardano i
nuovi rapporti tra Chiesa (o meglio Chiese) e Stato, a cominciare dalla Costituzione della Federazione Russa del 1993, con la quale si proclama lo Stato laico e la sua separazione dal potere ecclesiastico, anche esso nel suo ambito sovrano e indipendente. Ma tutta la attenzione critica dell’Autore è rivolta alla Legge federale del 1997, in particolare
al suo Preambolo, nel quale il legislatore, implicitamente contraddicendo al principio
della laicità dello Stato e quindi alla uguaglianza di tutte le credenze religiose di fronte
alla legge, stabilisce tra loro una gerarchia di valore, accordando una «speciale benevolenza» alle religioni «tradizionali» della Russia, con in testa la fede ortodossa. E a questo punto lo studioso imposta un lungo discorso su che cosa, nel Preambolo e nelle interpretazioni successive, si sia inteso per religioni tradizionali, o storiche, della Russia. Il
Preambolo elenca, dopo la Ortodossia e in ordine decrescente di valore, il «Cristianesimo» (evidentemente il Cattolicesimo e il Protestantesimo nelle sue varie forme e formazioni), l’Islam, il Buddismo, il Giudaismo, nonché le altre religioni storiche della Russia
non meglio identificate.
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Ma la pubblicistica ortodossa, alla quale ha dato voce anche l’attuale patriarca Kirill,
ha teso ad estromettere dal novero delle religioni tradizionali il Cattolicesimo e il Protestantesimo, limitandone l’elenco a Ortodossia, Islam, Buddismo e Giudaismo: e su questa linea si è mossa non tanto la giurisprudenza, quanto la pratica giudiziaria anche degli ultimi tempi. Lo studioso attribuisce questo spostamento di attenzione a scapito di
Cattolicesimo e Protestantesimo in parte alla preoccupazione dei politici russi di garantirsi la lealtà delle repubbliche di fede islamica e buddista e quindi la compattezza della Federazione, ma soprattutto alla paura che la Chiesa ortodossa russa ha del proselitismo delle fedi, vecchie e nuove, dell’Occidente, particolarmente acuta nei confronti
della Chiesa cattolica. Per questo non manca di registrare anche le disposizioni, le istruzioni, le dichiarazioni su questa materia della gerarchia ortodossa, e la dottrina elaborata dal suo ceto intellettuale. Con Putin e Medvedev – e così l’Autore arriva ai nostri giorni – si tende a ricostituire il sistema sinfonico tipico del vecchio Stato ortodosso, con la
concessione di una posizione privilegiata alla Chiesa (in parte usata come instrumentum
regni), in cambio della legittimazione che questa dà alla sovranità dello Stato (in parte
funzionante come brachium saeculare).
Come nelle parti precedenti, anche in questa ultima l’Autore è ricchissimo di dati
fattuali, e di resoconti di dibattiti dottrinali, oltre alle considerazioni di carattere giuridico, tra le quali ultime si colloca la citazione del pensiero di Rodolfo Sacco (Antropologia giuridica, Il Mulino, Bologna 2007, p. 141), secondo il quale «la libertà religiosa distrugge la base religiosa del potere politico», perché «il potere di legittimare non può
spettare a più religioni nello stesso tempo»: e tutto questo a spiegare la tendenza che si
ha anche nella Russia contemporanea a privilegiare la propria Chiesa per eccellenza tradizionale, la Chiesa ortodossa. In questo senso l’Autore parla del «ritorno della Russia
al passato», di «attualità di Mosca Terza Roma», di nascita di nuove forme di integralismo religioso e patriottico, nelle quali non è ben definibile il confine tra sacro e profano.
L’Autore non trascura un cenno al movimento euroasista, di carattere a tal punto antioccidentale (come era già negli anni Venti del Novecento) da difendere la non appartenenza della Russia all’Europa.
L’opera resta unica nel suo genere; abbiamo avuto molte trattazioni dedicate al tema
«il patriarca e lo zar» (ricordo di sfuggita Uspenskij e Živov, peraltro debitamente citati
anche dall’Autore); ma riguardavano letteralmente il patriarca e lo zar, mentre in Codevilla è raccontata la storia dei rapporti tra il potere civile e quello ecclesiastico anche quando lo zar e il patriarca in Russia non c’erano ancora, o non c’erano più. Anche per questa
sua specifica unicità, a parte i pregi di cui abbiamo parlato, l’opera deve essere considerata indispensabile per chi si occupa di questo genere e di questo campo di studi.
SANTE GRACIOTTI
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