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Vol. 43 • N. 170
Aprile-Giugno 2013
INDICE numero 170 Aprile-Giugno 2013
Adolescentologia (a cura di Giovanni Cioni)
Presentazione
Disturbi psicopatologici in adolescenza: cosa cambia quando i bambini diventano adolescenti
e quando gli adolescenti diventano adulti
Eleonora Sanna, Gianluigi Melis, Alessandro Zuddas.............................................................................................................................. 63
La terapia farmacologica della depressione in età evolutiva: luci ed ombre
Gabriele Masi, Chiara Pfanner, Francesca Liboni..................................................................................................................................... 69
I disturbi del comportamento alimentare in adolescenza
Sandra Maestro, Giampiero I. Baroncelli, Silvia Ghione, Silvano Bertelloni............................................................................................. 74
Vaccinazioni (a cura di Alberto E. Tozzi e Alberto G. Ugazio)
Presentazione
La paura delle vaccinazioni: le motivazioni dell’opposizione e dell’esitazione da parte dei genitori
Alberto E. Tozzi........................................................................................................................................................................................ 87
La comunicazione per la promozione delle vaccinazioni
Pier Luigi Lopalco.................................................................................................................................................................................... 94
La memoria immunitaria e i richiami vaccinali
Rita Carsetti, Alberto E. Tozzi................................................................................................................................................................... 98
Frontiere (a cura di Andrea Biondi, Achille Iolascon, Luigi D. Notarangelo, Massimo Zeviani)
Basi molecolari dell’iperbilirubinemia congenita: sindromi di Gilbert e di Crigler-Najjar
Immacolata Andolfo, Achille Iolascon.................................................................................................................................................... 104
Focus (a cura di Generoso Andria)
Gestione clinica dei disturbi della differenziazione sessuale con cariotipo 46,XY: aspetti emergenti
Silvano Bertelloni, Eleonora Dati, Paolo Ghirri, Franco D’Alberton, Fulvia Baldinotti, Giampiero I. Baroncelli....................................... 110
Adolescentologia
Gli studi epidemiologici indicano che un adolescente su cinque va incontro ad un disturbo psicopatologico, e questo dato è costante anche
in paesi con caratteristiche socio-economiche e genetiche diverse, anche se vi sono differenze nell’incidenza relativa dei diversi tipi di
disturbo. I disturbi d’ansia, quelli depressivi e l’abuso/dipendenza da sostanze restano comunque tra i più rappresentati.
A partire da questo dato, impressionante per la frequenza di questi problemi, la redazione di “Prospettive in Pediatria” ha voluto dedicare
completamente questa edizione della Sezione di Adolescentologia ai disturbi psicopatologici, con l’intento di fornire ai pediatri italiani alcune
brevi sintesi scientifiche su temi di grande rilevanza per la salute mentale degli adolescenti.
Nel primo lavoro il gruppo di Alessandro Zuddas presenta una revisione della letteratura sulla epidemiologia dei disturbi mentali in adolescenza e su alcuni aspetti generali, fisiopatologici, età specifici di alcune psicopatologie di questa fascia di vita. Gli studi di neuroscienze ci
indicano come fenomeni neurobiologici di maturazione cerebrale di alcune strutture nervose molto importanti (l’amidgala, lo striato ventrale
e soprattutto la corteccia prefrontale dorso laterale) possono spiegare le caratteristiche peculiari del funzionamento mentale a quell’età.
Questi aspetti rendono gli adolescenti più vulnerabili a fattori genetici ed ambientali che, di solito insieme, determinano l’insorgenza dei
disturbi. La specificità neurobiologica e la fisiopatologia specifica della psicopatologia dell’adolescente è ben illustrata attraverso due tipi
di disturbi e cioè il suicidio ed una nuova categoria diagnostica, che sarà inclusa nel DSM V di prossima uscita e cioè il Disruptive Mood
Dysregulation Disorder (DMDP), caratterizzata da frequenti scoppi d’ira in risposta a semplici eventi stressanti.
La depressione è, come dicevamo, tra i disturbi psicopatologici più frequenti ed il suicidio è una delle cause di morte più comuni tra i giovani.
Il lavoro di Gabriele Masi e collaboratori presenta le evidenze più recenti della letteratura su questi due temi, in relazione ad un punto molto
controverso, spesso trattato anche dai media, e cioè l’utilità ed i rischi dell’uso dei farmaci antidepressivi a quell’età.
Si tratta senza dubbio di argomenti molto specialistici, gestiti dal neuropsichiatra infantile con cui collabora il pediatra, ma quest’ultimo ha
un ruolo molto importante nel cogliere i primi segni della depressione e, nella conoscenza autonoma degli aspetti principali del problema,
nel comprendere ed eventualmente condividere le scelte dello specialista.
Le evidenze indicano che, sempre insieme alla psicoterapia, i farmaci sono una scelta obbligata per le forme gravi di depressione, con prove
certe di efficacia, e per i casi di gravità intermedia che non rispondono alla psicoterapia. Il lavoro analizza anche in modo approfondito,
rivedendo gli studi più recenti, il rischio di comportamenti autolesivi legati all’uso di farmaci. Se le cautele e la valutazione attenta delle
comorbidità e di altri fattori individuali sono sempre necessari, queste precauzioni non giustificano l’astensione dalla somministrazione da
parte dello specialista, nei casi in cui tali farmaci siano necessari.
Infine è importante il lavoro di Silvano Bertelloni e collaboratori sui disturbi delle condotte alimentari (DCA), per la rilevanza epidemiologica e
per la gravità di questi disturbi, e come paradigmatico dell’importanza e dell’efficacia di modelli integrati di collaborazione tra gli specialisti
nella medicina dell’adolescenza.
Il lavoro fornisce le evidenze su quanto è osservazione di tutti e cioè l’aumento nella prevalenza dei DCA e la riduzione dell’età in cui essi
insorgono. Include anche molte tabelle riassuntive della letteratura che possono essere preziose per il pediatra, sui criteri diagnostici indicati
dal DSM IV e come essi cambieranno nel DSM V, sui segni clinici a carico dei vari organi ed apparati, sugli indicatori di laboratorio con cui
seguire l’andamento della malattia, sui sintomi che devono spingere alla pronta ospedalizzazione ed altro.
Appare evidente che per diagnosticare precocemente un DCA, la depressione, i disturbi d’ansia e tutti i disturbi psicopatologi così frequenti
negli adolescenti, è necessaria la costante e continua collaborazione tra pediatri e neuropsichiatri infantili. Questi specialisti conoscono
entrambi le dinamiche dello sviluppo, hanno l’indispensabile dimensione del cambiamento fisico e comportamentale, normale e deviante,
nelle diverse età. Anche grazie a questo insieme essi possono diagnosticare e curare, con enormi vantaggi nella difficile età adolescenziale,
ma anche con importanti ricadute nella qualità della vita ed anche economici per i futuri individui adulti.
Ci auguriamo che le informazioni di questa sezione possano in parte contribuire a questo obiettivo.
Giovanni Cioni
Dipartimento di Neuroscienze dello Sviluppo, IRCCS Stella Maris
Neuropsichiatria Infantile, Università di Pisa
61
Aprile-Giugno 2013 • Vol. 41 • N. 170 • Pp. 63-68
Adolescentologia
Disturbi psicopatologici in adolescenza:
cosa cambia quando i bambini diventano
adolescenti e quando gli adolescenti diventano
adulti
Eleonora Sanna1, Gianluigi Melis2, Alessandro Zuddas 1,2,
Centro Terapie Farmacologiche in Neuropsichiatria dell’Infanzia e dell’Adolescenza, Dipartimento di Scienze Biomediche, Università degli Studi di Cagliari
2
Clinica di Neuropsichiatria Infantile, Azienda Ospedaliero-Universitaria di Cagliari
1
Riassunto
La pubertà coincide con l’aumento delle capacità di “attivazione (arousal)” e di attribuzione di salienza agli stimoli motivazionali, modulata dalla più intensa
risposta agli stimoli sociali, rispetto sia all’infanzia che all’età adulta. Tale aumentata sensibilità agli stimoli viene modulata soprattutto dalla corteccia
prefrontale dorsolaterale, che però giunge a maturazione all’inizio dell’età adulta: ciò comporta specifiche e transitorie modalità di presentazione e decorso
della psicopatologia. L’irritabilità patologica è un classico esempio di disturbo ad esordio dell’infanzia, che in adolescenza può evolvere in diversi disturbi
psicopatologici: la diversificata presentazione clinica ha permesso la definizione del “nuovo” Disturbo di disregolazione dirompente dell’umore, finalizzata
alla caratterizzazione di più appropriati interventi terapeutici. La più intensa risposta agli stimoli sociali può anche spiegare l’aumentata ideazione suicidaria
osservabile in adolescenza rispetto all’infanzia: anche in età evolutiva la suicidalità appare modulata da fattori genetici ed ambientali. Non solo gli eventi di
vita stressanti, ma anche specifici aspetti delle “culture giovanili” e degli stili di vita (inclusi farmaci anche per patologie non psichiatriche), sconosciuti alle
generazioni precedenti, dovrebbero essere considerati target delle strategie di prevenzione del suicidio.
Summary
Puberty coincides with an increase of “arousal” and of the attribution of salience to motivational stimuli with a more intense response to social stimuli, in
relation to both childhood and adulthood. Increased sensitivity to stimuli is mainly modulated by the dorsolateral prefrontal cortex, which reaches maturation in the early adulthood: this involves specific and transitional modes of presentation and course of psychopathology. Irritability is a classic example of
psychopathological dimension with childhood onset; in adolescence it may evolve in different psychopathological disorders: the variable clinical presentation has allowed the definition of the “new” Disruptive Mood Dysregulation Disorder, with the aim of characterizing more appropriate therapeutic interventions. The stronger response to social stimuli may also explain the increased suicidal ideation observed in adolescence compared to childhood: in children
and adolescents suicidality is modulated by genetic and environmental factors. Not only stressful life events, but also specific aspects of “youth culture”
and lifestyles (including drugs for non-psychiatric diseases), unknown to previous generations, should be considered as targets for suicide prevention.
Introduzione: adolescenza e sviluppo
neurobiologioco “asimmetrico”
Per adolescenza s’intende il periodo della vita compreso tra la pubertà ed il raggiungimento della responsabilità legale: in questo
contesto, per pubertà s’intendono le modifiche nella maturazione
riproduttiva, mentre la responsabilità legale dovrebbe coincidere con
la transizione dalla dipendenza dai genitori ad una relativa indipendenza. A differenza degli altri mammiferi, nell’uomo tale transizione
è caratterizzata dal fatto che mentre i singoli individui divengono più
forti, agili e resistenti alle malattie, mostrando maggiori capacità di
ragionamento e migliori abilità nel prendere le decisioni rispetto ai
bambini, la mortalità aumenta del 200% (Centers for Disease Control, 2007), non per malattia, ma per altre prevenibili cause quali
incidenti, suicidi o omicidi (Casey et al., 2010).
Tale apparente paradosso ha portato a considerare l’adolescenza
come periodo di “crisi”, dovuto soprattutto ad uno sfasamento tra
la maturità sessuale (che viene raggiunta sempre più precocemente
negli ultimi 100 anni) e il raggiungimento di quella legale (che varia
a seconda dei paesi e degli ambiti). D’altra parte studi epidemiologici di popolazione mostrano come la gran parte degli adolescenti supera agevolmente questa fase, mantenendo una buona qualità della
vita, caratterizzata da rapporti sufficientemente buoni con i coetanei
e gli adulti (genitori compresi), suggerendo quindi la necessità di
“smontare” il mito dell’adolescenza (Offer e Schonert-Reichl, 1992).
In realtà una serie di studi mostra come nei mammiferi la pubertà (attivata dal rilascio degli ormoni sessuali, testosterone ed estrogeni) coincide con l’aumento di interesse e di attività sessuale e con modifiche
delle capacità di “attivazione (arousal)” e di attribuzione di salienza agli
stimoli motivazionali, modulata dalla più intensa risposta agli stimoli sociali dell’amidgala (percezione e codifica) e dello striato ventrale (nucleo
accumbens: attribuzione di salienza), rispetto sia all’infanzia che all’età
adulta (Casey et al., 2010). In età adulta tale aumentata sensibilità viene
modulata soprattutto dalla corteccia prefrontale dorso-laterale (DLPFC),
sede delle cosiddette funzioni esecutive. Numerosi studi mostrano come
nei primati la DLPFC sia una delle ultime a completare lo sviluppo, alcuni
anni dopo la “maturazione” delle aree temporali (amigdala, insula) e sottocorticali (Gogtay et al., 2004, Shaw et al., 2008).
63
E. Sanna, G. Melis, A. Zuddas
La maturazione neurobiologica che si osserva in adolescenza appare quindi responsabile dell’evoluzione della psicopatologia, piuttosto che della genesi della psicopatologia: in altre parole la psicopatologia dipende da alterazioni dello sviluppo, non dallo sviluppo
adolescenziale di per sè. Un esempio di ciò può essere considerata
l’irritabilità come dimensione psicopatologica.
Metodologia della ricerca bibliografica effettuata
La ricerca degli articoli rilevanti degli ultimi 5 anni è stata effettuata sul motore di ricerca PubMed, utilizzando le parole chiave:
adolescence AND irritability, adolescence AND disruptive mood,
adolescence AND suicide, adolescence AND suicidal ideation, adolescence AND neurobiology, adolescence AND psychopatology AND
prevalence, disruptive mood disregulation disorder. Sono state considerate anche altre pubblicazioni rilevanti degli anni precedenti
conosciute dagli autori ed altre ricavate dalla bibliografia delle pubblicazioni identificate mediante PubMed.
Irritabilità, disturbo bipolare
e Disruptive Mood Dysregulation Disorder
Per irritabilità s’intende una eccessiva risposta a stimoli ambientali,
situazionali o emotivi: il termine viene usato sia per la reazione fisiologica agli stimoli che per quella patologica (reazione eccessiva
a stimoli avversivi minimi); l’irritabilità patologica è considerata un
criterio diagnostico di diverse patologie dell’età evolutiva (disturbo
bipolare, depressione, distimia, disturbi d’ansia, disturbo oppositivoprovocatorio). A seconda di quanto i criteri per la sua definizione
siano stringenti, la prevalenza dell’irritabilità patologica può variare
dal 3% (criteri rigidi dello studio Great Smoky Mountain, Brotman et
al., 2006) al 20% (Pickles et al., 2009).
In realtà l’irritabilità può essere presente già nell’infanzia, spesso associata ad oppositività (headstrong) e aggressività (hurtful) e già prima
dell’adolescenza ognuna di tali dimensioni può apparire predominante, dando luogo a profili evolutivi differenti: l’irritabilità predispone
prevalentemente allo sviluppo di depressione e ansia generalizzata;
l’oppositività è un predittore del persistere dell’ADHD in adolescenza e
in età adulta, nonché dei sintomi non aggressivi (es. furto o violazione
delle regole) del disturbo di condotta; l’aggressività nell’infanzia predice i sintomi aggressivi ed i tratti “calloso-anemozionali (es. mancanza
di empatia e di senso di colpa) dello stesso disturbo della condotta
(Stringaris e Goodman, 2009; Stringaris, 2011).
Le ricerche degli ultimi anni si sono focalizzate sull’irritabilità, soprattutto a seguito della cosiddetta “epidemia del Disturbo Bipolare
in età evolutiva”: negli ultimi 15 anni i tassi di diagnosi di tale disturbo in età evolutiva sono aumenti in maniera esponenziale, con corrispondente aumento delle prescrizioni farmacologiche, soprattutto
nella prima adolescenza. Nella gran parte dei casi l’irritabilità, spesso cronica, piuttosto che la grandiosità e l’umore espanso, costituiva
il cardine della diagnosi (Leibenluft, 2011). Sebbene gli antipsicotici
atipici appaiano utili in questi disturbi (Zuddas et al., 2011), è interessante notare che nelle forme caratterizzate da cronica (nel senso
di non-episodica) disregolazione dell’umore, gli stabilizzanti come il
litio non appaiono efficaci (Dickstein et al., 2009), mentre il metilfenidato risulta efficace nella forme persistenti di oppositività (NICE,
2008) ed in quelle lievi o moderate di irritabilità.
Nella 5a edizione del Manuale Diagnostico e Statistico dell’American
Psychiatric Association (DSM), ormai in corso di stampa, il disturbo bipolare in età evolutiva riacquisterà i criteri del disturbo in età
adulta: presenza di episodi di mania (almeno 7 giorni) o ipomania (4
giorni) chiaramente identificabili (episodici e non cronici), con maggiore enfasi sui sintomi di grandiosità ed umore espanso. I casi di
irritabilità non-episodica potranno invece essere inclusi in una nuova categoria diagnostica denominata Disruptive Mood Dysregulation
Disorder (DMDD), caratterizzata da frequenti scoppi d’ira in risposta
a semplici eventi stressanti (Zepf e Holtmann, 2012, Axelson et al.,
2012, Copeland et al., 2013, vedi Tab. I). L’evoluzione in età adulta
del DMDD sembra essere verso la depressione unipolare e la distimia, piuttosto che verso il disturbo bipolare.
La definizione di tale “nuovo” disturbo (in realtà è nuova la definizione, non il disturbo, che prima riceveva altre definizioni) è finalizzata
all’individuazione di efficaci interventi terapeutici, sia psicoeducativi
o psicoterapeutici che farmacologici: il disturbo è compreso nella
categoria dei disturbi depressivi (con aspetti di confine con i disturbi
di sviluppo quali l’ADHD e i disturbi dirompenti).
Il suicidio e l’interazione gene/ambiente:
eventi di vita, serotonina ed uso di Internet
Il suicidio può essere concettualizzato come un atto di aggressione
distruttiva diretta verso di sé, spesso associato con comportamenti
violenti e impulsivi (Hawton et al., 2012): sebbene associato principalmente con la depressione, la suicidalità può essere presente
anche in adolescenti affetti da altri disturbi psichiatrici e in individui
apparentemente “normali” (Zalsman, 2010).
Tabella I.
Criteri diagnostici proposti per il Disruptive Mood Dysregulation Disorder per il DSM-V.
A
Severe e ricorrenti crisi di rabbia, in risposta ad agenti stressanti comuni, che si manifestano:
- con aggressività fisica o verbale, diretta verso persone o oggetti
- con intensità e durata eccessiva rispetto alla situazione ed al livello di sviluppo del soggetto
B
Le crisi di rabbia si manifestano 2-3 volte/settimana
C
Umore, nel periodo tra gli episodi di rabbia, persistentemente negativo (irritabile, arrabbiato e/o triste)
D
I criteri A-C sono presenti per almeno 12 mesi e i sintomi sono stati assenti per meno di 3 mesi
E
I sintomi sono presenti in almeno due contesti (casa, scuola, con i coetanei) e in almeno un contesto sono di elevata intensità
F
L’età deve essere di almeno 6 anni
G
L’esordio deve essere precedente i 10 anni
H&I
Non vengono soddisfatti i criteri per altri disturbi mentali (d. bipolare, depressione, psicosi), ma può esserci associazione con ADHD, d.
oppositivo-provocatorio, d. della condotta o abuso di sostanze.
64
Disturbi psicopatologici in adolescenza
Studi epidemiologici e ricerche mirate hanno messo in evidenza come
il suicidio sia una delle più comuni cause di morte tra i giovani. Durante l’infanzia e la prima adolescenza il suicidio è raro, ma la prevalenza
aumenta con l’età, per poi stabilizzarsi in età adulta e ri-aumentare
negli anziani (dopo i 60 anni): il tasso annuale di suicidio per 100.000
abitanti è dello 0.5 per le femmine e 0.9 per i maschi tra i 5-14 anni
di età, arrivando al 12.0 per 100.000 per le femmine e 14.2 per i maschi tra i 15 e 24 anni, rispettivamente (Pelkonen e Marttunen, 2003).
Poiché meno della metà dei giovani che commette suicidio non aveva
ricevuto cure psichiatriche, la prevenzione del comportamento suicidario costituisce una priorità. Un aspetto ancora controverso nella
prevenzione del suicidio è costituto dal comportamento autolesivo: la
progressione da ideazione suicidaria all’autolesionismo e poi al suicidio non è affatto assoluta (Carter et al., 2005). Tra i pazienti che si presentano in ospedale con autolesionismo, circa il 7% compirà il suicidio
in un periodo di 9 anni di follow-up (Owens et al., 2002).
L’interazione gene/ambiente può spiegare parte della varianza
nella relazione tra gravi eventi di vita stressanti, lo sviluppo e la
gravità di un episodio di grave depressione ed il comportamento suicidario. Una variante allelica del promoter del trasportatore
per la serotonina (S- 5HTTLPR) è stata infatti indicata quale modulatore della relazione tra eventi di vita stressanti, depressione
e ideazione suicidaria o tentativo di suicidio. Alcuni autori hanno
dimostrato che gli individui portatori di almeno una copia di tale allele S che abbiano avuto importanti eventi di vita stressanti prima
dei 21 anni mostrano un incremento dei sintomi depressivi, con
ideazione e tentativo di suicidio, alla età di 21-26 anni (Caspi et al.,
2010). Al contrario, altri autori studiando bambini con livelli gravi
di maltrattamento tali da richiedere la separazione dai genitori,
hanno invece rilevato un potenziale effetto dell’allele S solo per la
depressione, ma non per il suicidio (Kaufman et al., 2006; Hawton
et al., 2012).
Oltre agli eventi di vita stressanti, anche altri fattori sembrano modulare il comportamento suicidario in adolescenza (Hawton et al.,
2012). La diffusione di notizie relative al suicidio da parte dei media
sono state messe in relazione a un incremento del suicidio stesso tra
i giovani (Stack, 2003), anche alla luce delle evidenze di “cluster di
suicidi” tra persone che conoscono soggetti che hanno commesso
un suicidio (Johansson et al., 2006). È possibile ottenere informazioni via Internet, come ad esempio attraverso i social network o i
forum di discussione on line, incentrati su argomenti specifici come
il suicidio: esistono oltre 100.000 siti che parlano di metodi di suicidio e tre dei più frequentati esprimono opinioni pro-suicidio (Biddle
et al., 2008).
Uno studio condotto su 719 ragazzi tra i 14 e i 24 anni, ha indagato la loro conoscenza di persone che avevano tentato o commesso il suicidio o l’aver provato essi stessi sentimenti di disperazione
e ideazione suicidaria (Dunlop et al., 2011). Un anno dopo è stata
effettuata una valutazione di follow-up, che analizzava l’uso di varie piattaforme Internet con argomenti legati al suicidio o da fonti
conosciute personalmente. I risultati hanno evidenziato che le fonti
tradizionali di informazione sul suicidio sono molto frequenti (il 79%
delle informazioni deriva da giornali, amici, familiari), minori le fonti
online (59%). Le fonti tradizionali, come i giornali, sono associate
a incrementi nell’ideazione suicidaria, ma tale influenza dura pochi
giorni e riguarda coloro che sono già vulnerabili al suicidio.
L’uso di social network, di per sè non risultava associato ad un incremento dell’ideazione suicidaria, mentre lo era l’uso di forum online
incentrati sul suicidio (Dunlop et al., 2011).
Suicidalità indotta da farmaci
Recentemente è stato messo in evidenza come alcuni farmaci possano indurre ideazione suicidaria e come tale effetto possa essere
specifico per adolescenti e giovani adulti, ed estremamente più raro
in età adulta. Le prime evidenze di tale effetto sono state messe in
evidenza per i farmaci antidepressivi quali gli inibitori selettivi della
serotonina (SSRI) e per l’atomoxetina. Successivamente sono stati
osservati “segnali di rischio” anche per gli antipsicotici, per gli antiepilettici (FDA, 2008) e più recentemente per farmaci non neuropsichiatrici, quali gli agenti modificanti i leucotrieni come il Montelukast
(Bridge et al., 2007, Brunlof et al., 2008, Mula et al., 2010, Holzer e
Eap, 2006, Schumock et al., 2011).
In realtà le evidenze attualmente disponibili mostrano come negli
adulti sia il trattamento inadeguato della depressione (farmacoterapia
e/o psicoterapia), piuttosto che l’uso dei farmaci, ad essere associa-
Tabella II.
Fattori che modulano il rischio suicidario.
Fattori Genetici e biologici
• Polimorfismo COMT (V158M)
(Zalsman et al., 2008)
• Polimorfismo promoter 5-HTT-LPR
(Caspi et al., 2003; Zalsman et al., 2006)
• Ridotta densità del recettore
serotoninergico1A nella corteccia prefrontale
di individui morti per suicidio
(Arango et al., 2001)
• Polimorfismo FKBP5 (riduce la sensibilità del
recettore dei glucocorticoidi)
(Brent et al., 2010)
• Insensibilità dell’asse HPA al feedback e
aumento della secrezione di cortisolo (Mann
et al., 2007)
Fattori psicopatologici
(Hawton et al., 2012)
- Depressione Maggiore
- Disturbo Bipolare
- Disturbo della condotta
- Abuso di sostanze
- Psicosi
- Ansia
- Impulsività
- Bassa autostima
- Perfezionismo
- Sentimenti di disperazione
Fattori ambientali
(Hawton et al., 2012)
Fattori socio-demografici:
- Sesso maschile
- Basso stato socio-economico
- Scarsi successi scolastici
- Suicidio-contagio
- Orientamento omosessuale
- Siti Internet
Eventi di vita negativi:
- Separazione dei genitori
- Morte dei genitori
- Abuso sessuale
- Patologia psichiatrica dei genitori
- Familiarità per suicidio
- Bullismo
- Difficoltà di socializzazione con i pari
65
E. Sanna, G. Melis, A. Zuddas
Tabella III.
Prevalenza dei disturbi psichiatrici nel passaggio da infanzia ad adolescenza.
Aumentano
Si riducono
D. di panico- Agorafobia
1,2,3
D. d’ansia da separazione 1,2,3
D. d’ansia generalizzato (F) 3
D. d’ansia generalizzato (M) 1,2,3
Fobia sociale (F)
Fobia sociale (M) 3
1,2
D. Depressivi 1,2,3
Abuso di sostanze
Fobia specifica (F) 1,2,3
3
D. della condotta 1,2
ADHD 1,2,3
D. della condotta (M) 3
D. Oppositivo-Provocatorio (M) 1,2,3
M= maschi; F= femmine; D. = disturbo
1
Ford et al., 2003.
2
Green et al., 2005.
3
Costello et al., 2003.
to ad un aumentato rischio di comportamento suicidario. Nei bambini e negli adolescenti invece i risultati sono meno chiari e ulteriori
studi sono in corso per delineare meglio se i bambini beneficiano di
un trattamento o se possono essere a rischio come conseguenza del
trattamento. Essendo in ogni caso eventi rari (da 1/400 a 1/800 giovani pazienti trattati) ed essendo l’ideazione suicidaria relativamente
frequente non solo nei pazienti depressi ma anche negli adolescenti
normali, vi è un considerevole dibattito sulle modalità di comunicazione del rischio (Gibbon et al., 2011). Appare quindi importante una
valutazione sufficientemente accurata della psicopatologia e della
ideazione suicidaria degli adolescenti prima e durante la terapia con
qualsiasi farmaco che attraversi la barriera ematoencefalica.
Epidemiologia: modifiche diagnostiche nella
transizione dall’infanzia all’adolescenza ed all’età
adulta
Come descritto sopra le modifiche neurobiologiche proprie dell’adolescenza fanno sì che le manifestazioni psicopatologiche osservabili
in questa età della vita presentino caratteristiche particolari e transitorie: ciò comporta significative modificazioni anche diagnostiche
nelle fasi di transizione dall’infanzia all’adolescenza e da questa
all’età adulta.
In contrasto con molte patologie fisiche croniche, i disturbi psichiatrici iniziano spesso nelle prime fasi della vita, sia nell’infanzia, che
nell’adolescenza.
Gli studi epidemiologici in psichiatria dell’età evolutiva sono relativamente recenti: sino alla fine degli anni ’60 tali studi erano poco confrontabili tra di loro, sia per motivi metodologici (eterogenei mezzi
di valutazione) che di natura concettuale (Frigerio et al., 2007). Una
review non recente ha esaminato 52 studi, condotti tra la fine degli
anni ’50 e gli anni ’90, evidenziando la prevalenza di diversi disturbi psicopatologici in età evolutiva: le stime di prevalenza riportate
hanno evidenziato notevoli variabilità della prevalenza (dall’1% al
51% soddisfaceva i criteri diagnostici per un disturbo mentale) che
aumenta con l’età: 10,2% in età prescolare; 13,2% in preadolescenza, 16,5% in adolescenza (Roberts et al., 1998). I principali studi
epidemiologici condotti negli ultimi anni hanno evidenziato prevalenze variabili tra il 9,5% in Inghilterra e il 32,2% negli USA (Ford
et al., 2003, Costello et al., 1996). Una recente review ha analizzato
diversi studi epidemiologici svolti negli ultimi 15 anni, evidenziando
66
una prevalenza del 21,8% di disturbi psichiatrici in adolescenza. I
disturbi più frequenti sono risultati l’abuso/dipendenza da sostanze
(12,1%), disturbi d’ansia (10,7%) e depressione (6,1%) (Costello et
al., 2011).
In Italia lo studio maggiore, multicentrico, condotto sull’epidemiologia psichiatrica in età evolutiva, è lo studio PrISMA (Progetto Italiano Salute Mentale Adolescenti), che ha analizzato la prevalenza
delle patologie psichiatriche tra ragazzi di 10 e 14 anni (Frigerio et
al., 2007). Tale studio ha evidenziato che l’8,2% dei preadolescenti
partecipanti soffriva di un disturbo mentale: i più frequenti erano i
disturbi d’ansia e depressivi (6,5%), seguiti da quelli esternalizzanti,
presenti solo nell’1,2% del campione, contrariamente a quanto evidenziato in studi provenienti da altri paesi (Ford et al., 2003; Steinhausen et al., 2006).
Più recentemente è stata anche analizzata la stabilità di tali disturbi
nel tempo: è stato evidenziato un aumento della prevalenza di depressione, abuso di sostanze, disturbo di panico, agorafobia, disturbi
alimentari, disturbo bipolare e psicosi nel passaggio all’adolescenza, mentre diminuiscono ADHD e disturbo d’ansia da separazione
(Costello et al., 2011). Il disturbo della condotta e il disturbo oppositivo-provocatorio mostrano un decorso differente in diversi studi:
alcuni mostrano un modesto aumento nell’adolescenza, in altri tale
differenza è minore. Emergono inoltre alcune differenze legate al
sesso: tra i disturbi che si riducono in adolescenza i tic, l’ADHD e
secondo alcuni i disturbi pervasivi dello sviluppo (probabilmente per
modifica di diagnosi amministrativa durante la transizione tra servizi
per l’infanzia e quelli per l’adulto) tendono a essere più frequenti nei
maschi; tra quelli che aumentano, depressione, ansia e panico sono
più frequenti nelle ragazze, psicosi e abuso di sostanze nei maschi
(Costello et al., 2011).
La transizione dall’adolescenza all’età adulta evidenzia delle ulteriori
modifiche nella prevalenza e nel decorso delle diverse patologie psichiatriche: si verifica un incremento di abuso di sostanze, disturbo
di panico, agorafobia, disturbi alimentari; i disturbi dirompenti del
comportamento e l’ADHD continuano a diminuire, così come il disturbo d’ansia da separazione, la fobia sociale, le fobie specifiche, il
disturbo d’ansia generalizzata. Per quanto riguarda la depressione, i
dati rilevati appaiono in contrasto: secondo alcuni si verifica un lieve
aumento della prevalenza nel passaggio all’età adulta, mentre altri
evidenziano una lieve riduzione (7,2-5,2%; Costello et al., 2011).
Tabella IV.
Prevalenza dei disturbi psichiatrici nel passaggio dall’adolescenza
all’età adulta (Costello et al., 2003).
Aumentano
Si riducono
Disturbo di panico
Agorafobia
Disturbo d’ansia da separazione
Abuso di sostanze
Disturbo d’ansia generalizzato
Fobia sociale
Fobia specifica
ADHD
Disturbo della condotta
Disturbo Oppositivo-Provocatorio
Disturbi Depressivi
Disturbi psicopatologici in adolescenza
Conclusioni e prospettive per il futuro
L’adolescenza è caratterizzata da grandi cambiamenti in quasi tutti
gli aspetti dello sviluppo: biologici, psicologici e sociale. Negli ultimi
decenni, questi cambiamenti a livello individuale hanno avuto luogo
sullo sfondo di rapidi cambiamenti sociali. Lo sviluppo puberale inizia
prima che in passato, ma al tempo stesso il periodo di dipendenza dai
genitori è aumentato e vi è stata una crescita massiccia in “culture
giovanili” e stili di vita del tutto sconosciuti alle generazioni precedenti.
Abbiamo cercato di considerare alcuni aspetti importanti, forse poco
considerati nella pratica clinica quotidiana del pediatra, descrivendo come fattori biologici e sociali si intersecano per influenzare il
rischio di psicopatologia: l’augurio è la maggiore condivisione delle
conoscenze scientifiche e cliniche tra pediatri e neuropsichiatri infantili, finalizzate alla prevenzione e, quando necessario, alla terapia
della psicopatologia in questa cruciale età della vita.
Box di orientamento
L’ adolescenza è considerata come il periodo compreso tra la maturazione sessuale e il raggiungimento della responsabilità legale.
È caratterizzata da una maggiore risposta, rispetto all’infanzia e all’età adulta, agli stimoli sociali da parte dell’amigdala (percezione e codifica) e del
nucleo accumbens (attribuzione di salienza).
In età adulta è la corteccia prefrontale a modulare tale aumentata sensibilità, ma il suo sviluppo è più tardivo rispetto a quello delle aree temporali e
sottocorticali.
Tale maturazione neurobiologica è associata all’evoluzione della psicopatologia, più che alla sua genesi, e l’irritabilità è un esempio delle alterazioni
dello sviluppo tipiche dell’adolescenza.
Frequentemente la presenza di irritabilità in età evolutiva è stata considerata sintomo di disturbo bipolare, portando a un marcato incremento di tale
diagnosi. Nel DSM-V verrà inserita una “nuova” patologia caratterizzata da irritabilità cronica con scoppi d’ira, in assenza di elevazione del tono dell’umore, la Disruptive Mood Disregulation Dysorder.
Tale nuova entità “categoriale” è finalizzata alla definizione di nuove e più appropriate strategie terapeutiche sia psicologiche che farmacologiche.
Anche il suicidio in adolescenza può essere correlato all’aumentata risposta agli stimoli sociali, come emerge dalla presenza di cluster di suicidi tra
persone che conoscono soggetti che hanno commesso suicidio o dall’elevata influenza esercitata dai mezzi di comunicazione di massa come Internet.
Le modifiche neurobiologiche si associano inoltre a cambi di prevalenza delle diverse psicopatologie, che manifestano periodi di transizione nel passaggio tra le diverse epoche di vita.
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compresa tra i 6 e i 12 anni che hanno partecipato allo studio LAMS sui sintomi
maniacali. Secondo questo campione clinico il DMDD, presente nel 26% dei soggetti, non appare chiaramente delimitato dal disturbo oppositivo-provocatorio
e dal disturbo della condotta, ponendo quindi dei dubbi sull’utilità diagnostica
nella popolazione.
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** L’articolo indaga la comparsa di ideazione suicidaria/tentativi di suicidio nei
pazienti pediatrici a cui sono stati somministrati antidepressivi per il trattamento
di depressione maggiore, disturbo ossessivo-compulsivo e disturbi d’ansia, tramite l’analisi di reports pubblicati su Pub Med dal 1988 al 2006. I risultati indicano che i benefici di un trattamento farmacologico appaiono maggiori rispetto al
rischio di comparsa di ideazione suicidaria, sebbene il rapporto rischi-benefici si
modifichi in base alla diagnosi, all’età del paziente e alle condizioni dello studio.
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** L’articolo indaga i cambiamenti comportamentali ed emotivi degli adolescenti,
correlandoli ai substrati neurobiologici sottostanti a tali cambiamenti.
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** Gli autori indagano l’interazione gene/ambiente tramite l’analisi di diverse
ricerche sulle variazioni della regione del promoter del gene che codifica per
il trasportatore della serotonina (5-HTTLPR) e il suo rapporto con la sensibilità
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** Questo studio ha stimato la prevalenza e la comorbidità del DMDD nella popolazione, individuando tassi di prevalenza variabili tra 0,8% e 3,3%, con una
maggior frequenza in età prescolare. La maggiore comorbidità si è osservata
con i disturbi depressivi e il disturbo oppositivo-provocatorio.
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** L’articolo analizza la prevalenza dei disturbi psichiatrici separatamente per
67
E. Sanna, G. Melis, A. Zuddas
infanzia, adolescenza e inizio dell’età adulta, attraverso studi trasversali e longitudinali pubblicati negli ultimi 15 anni.
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** Lo studio indaga quanto l’influenza di Internet possa aumentare l’ideazione
suicidaria, tramite interviste somministrate a 719 ragazzi di età compresa tra i
14 e i 24 anni, che facevano parte di un precedente campione rappresentativo
nazionale.
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** L’articolo analizza i risultati dello studio PrISMA, che indaga, per la prima volta
in Italia, la prevalenza dei disturbi mentali nei preadolescenti tra i 10 e i 14 anni
che abitano in zone urbane.
Gibbons RD, Mann JJ. Strategies for quantifying the relationship between medications and suicidal behaviour: what has been learned? Drug Saf 2011;34:37595.
** L’articolo indaga la relazione tra l’uso di alcuni farmaci come gli antidepressivi
e la comparsa di ideazione suicidaria, attraverso lo studio di segnalazioni spontanee, dei tassi di suicidio nelle varie regioni, di studi clinici randomizzati, dell’analisi della letteratura scientifica più recente. Nel complesso non si evidenzia un
aumentato rischio suicidario in seguito all’uso di tali terapie.
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** L’articolo analizza i fattori eziologici implicati nell’autolesionismo e nel suicidio
in età adolescenziale, individuando influenze genetiche, psichiatriche, psicologiche, familiari, sociali e culturali. Sottolinea l’importanza dei media nella diffusione di notizie relative al suicidio e la necessità di una maggiore comprensione dei
meccanismi sottostanti il suicidio per poter attuare una più efficace prevenzione.
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** L’autore esamina le recenti scoperte sull’irritabilità in età evolutiva e la sua relazione con i disturbi dirompenti, paragonata alla relazione con i disturbi dell’umore e d’ansia. Esamina inoltre l’importanza che l’irritabilità riveste nel recente
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Corrispondenza
Alessandro Zuddas, Clinica di Neuropsichiatria Infantile, Via Ospedale, 119, 09124 Cagliari. Tel. +39 070 609 3509/3510. Fax 070 652593.
E-mail: [email protected]
68
Aprile-Giugno 2013 • Vol. 41 • N. 170 • Pp. 69-73
Adolescentologia
La terapia farmacologica della depressione
in età evolutiva: luci ed ombre
Gabriele Masi, Chiara Pfanner, Francesca Liboni
IRCCS Stella Maris per la Neuropsichiatria dell’Infanzia e dell’Adolescenza, Calambrone (Pisa)
Riassunto
La depressione colpisce l’1-2% dei bambini, e fino al 4-6% degli adolescenti, e se non adeguatamente trattata, comporta un aumentato rischio di suicidio, tentato o completato, cronicizzazione o ricaduta, con negative conseguenze a lungo termine. La psicoterapia è il trattamento di elezione nei quadri
depressivi meno gravi, ma può essere scarsamente efficace nelle forme più gravi. La farmacoterapia può essere valutata nella depressione moderata che
non ha risposto a psicoterapia ed interventi psicosociali, o nella depressione grave. L’uso di antidepressivi in età evolutiva è andato aumentando negli
anni ’90, ma più recentemente la possibilità che essi possano favorire l’emergere di ideazione o comportamento suicidario in corso del trattamento ha
suscitato legittimi timori. Scopo di questa revisione è valutare i dati sull’efficacia della farmacoterapia nella depressione in età evolutiva, e di esaminare i
dati sul rischio di suicidalità nel corso del trattamento. I dati disponibili suggeriscono che alcuni farmaci antidepressivi inibitori selettivi della ricaptazione
della serotonina (SSRI), in particolare la fluoxetina (l’unico con indicazione in scheda tecnica per l’età evolutiva), sono più efficaci del placebo sui sintomi
depressivi, che tale effetto è maggiore negli adolescenti rispetto ai bambini, e nelle forme moderate e gravi rispetto alle forme meno gravi. L’aumento del
rischio di suicidalità in adolescenza, anche se modesto, è riportato in tutti gli studi controllati, anche se i dati epidemiologici non confermano un rapporto
diretto tra antidepressivi e suicidi completati. In sintesi, un uso degli antidepressivi prudente e attentamente monitorato può rappresentare una possibile
opzione terapeutica nella depressione di entità moderata o grave, ma non nelle forme lievi. Tale intervento deve prevedere l’integrazione con interventi
psicoterapici, familiari ed ambientali.
Summary
Major Depressive Disorder affects 1 to 2% of children and 4 to 6% of adolescents. When untreated, MDD leads to a high immediate and subsequent suicide
risk, long-term chronicity and poor psychosocial outcome. Psychotherapy can be effective in mild and moderate depression, but it may be poorly effective in
severe depression. Pharmacotherapy should be considered in moderate depression that does not respond to psychotherapy, or in severe depression. The use
of antidepressants has markedly increased during the ’90s, but in recent years, it has decreased in relation to concerns regarding the emergence of suicidality
during antidepressant treatment. Aim of this review is to explore the efficacy of antidepressants in children and adolescents depression, as well as the emergent
risk of suicidality during treatment. When data from controlled studies are pooled, there is evidence that some Selective Serotonin Reuptake Inhibitors (SSRIs),
namely fluoxetine, can improve adolescent depression better than placebo. Efficacy is higher in adolescents than in children, and in the moderate or severe than
in mild depression. The increased risk of suicidality in adolescents is weak, but consistent across most studies, although epidemiological studies do not support
a relationship between use of antidepressants and suicide rate. In summary, a cautious and well monitored use of antidepressant medications, combined with
other psychotherapeutic or psychosocial interventions, is a possible option in moderate to severe, but not in mild depression.
Introduzione
Il disturbo depressivo è caratterizzato da un persistente e pervasivo
abbassamento del tono dell’umore, con irritabilità, perdita di interesse o piacere in gran parte delle attività, associato ad altri sintomi
quali alterazioni dell’appetito e del sonno, calo di energia, difficoltà
di memoria e concentrazione, sentimenti di indegnità e di colpa, ricorrenti pensieri di morte, con grave impatto sul funzionamento sociale e scolastico (Masi et al., 1998). Tale condizione può coinvolgere
l’1-2% dei bambini e fino al 4-6% degli adolescenti, con tendenza al
miglioramento nella gran parte dei casi, in genere dopo diversi mesi,
ma con rischio di cronicizzazione, possibili conseguenze negative
sul piano funzionale, frequenti ricadute, nel 40% entro 2 anni e fino
al 70% entro 5 anni, almeno nelle forme più gravi (Masi et al., 1998).
Trattamenti efficaci per la depressione dell’età evolutiva sono sia di
tipo psicoterapeutico che farmacologico, anche se non sono ancora
del tutto chiari i predittori di risposta per ciascuno di questi interventi, e per la loro combinazione. Resta il fatto che una depressione
non trattata in modo adeguato è un importante fattore di rischio per
tentativo di suicidio, cronicizzazione e compromissione funzionale a
lungo termine (Fombonne et al., 2001).
L’efficacia dei trattamenti psicoterapeutici è confermata da diver-
si studi controllati e meta-analisi, che indicano come l’efficacia sia
maggiore nelle forme di gravità lieve o moderata (62% di responders
contro il 36% nella lista di attesa) (Harrington et al., 1998; Compton
et al., 2004; Weisz et al., 2006), ma la gravità della depressione appare il predittore più importante di scarsa risposta (Harrington et al.,
1998; Compton et al., 2004; Weisz et al., 2006), e che nelle forme
di depressione adolescenziale più grave la sola psicoterapia appare
scarsamente efficace (TADS Team, 2004).
Nell’ambito degli interventi farmacologici, i farmaci di prima scelta
sono gli Inibitori Selettivi della Ricaptazione della Serotonina (Selective Serotonine Reuptake Inhibitors o SSRI). L’ente regolatorio
europeo per i farmaci, l’European Medicines Agency (EMA) e l’Agenzia Italiana del Farmaco (AIFA) hanno approvato la fluoxetina per il
trattamento della depressione di entità moderata o grave in soggetti
di età superiore a 8 anni, che non abbiano risposto a 4-6 sedute di
psicoterapia. L’uso degli antidepressivi in età evolutiva, nella pratica
clinica generalmente limitato a soggetti adolescenti, è andato aumentando nel corso degli anni ’90, ma in anni più recenti il loro uso
è andato calando, per il timore che essi possano favorire ideazione
o comportamento suicidario nel corso del trattamenti (Olfson et al.,
2006). In questa review valuteremo i dati utili per un corretto bilan-
69
G. Masi, C. Pfanner, F. Liboni
cio tra efficacia clinica e rischi, in particolare quello relativo alla suicidalità. Tali dati derivano da un’analisi critica della letteratura sulla
base dei dati di tutti gli studi randomizzati e controllati, in doppio cieco contro placebo, pubblicati su riviste recensite su PubMed e riferiti
esclusivamente a soggetti di età inferiore a 17 anni con diagnosi di
Depressione Maggiore. I dati relativi al rischio di suicidalità in corso
di trattamento con antidepressivi si riferiscono ad una analisi critica
di studi e meta-analisi che includono soggetti trattati con farmaci
antidepressivi, ed in cui sono disponibili informazioni specifiche su
soggetti in età evolutiva.
Farmacoterapia: i dati di efficacia
Studi randomizzati, controllati contro placebo
Una trattazione completa dei dati di efficacia degli SSRI è stata
recentemente riportata in una revisione critica (Masi et al., 2010).
Da tali dati emerge che la sola fluoxetina è sostenuta da tre studi
controllati che ne confermano l’efficacia (Emslie et al., 1997, 2002;
March et al., 2004). L’efficacia della sertralina è molto meno documentata, in quanto due studi controllati paralleli hanno raggiunto
la significatività clinica solo se combinati l’uno con l’altro (Wagner
et al., 2003). La superiorità del citalopram sul placebo è sostenuta
da uno studio (Wagner et al., 2004), ma non da un secondo (Von
Knorring et al., 2006), mentre in un più recente studio controllato e
limitato ad adolescenti l’escitalopram è risultato efficace e ben tollerato (Emslie et al., 2009), confermando un precedente studio in cui il
farmaco era risultato efficace negli adolescenti ma non nei bambini
(Wagner et al., 2006). La paroxetina è risultata efficace solo in alcuni
dei criteri secondari di risposta in un solo studio (Keller et al., 2001),
mentre due studi sono stati negativi (Emslie et al., 2006; Berard et
al., 2006), e quindi non appare sostenuta da evidenze empiriche. Tra
gli antidepressivi non SSRI, la venlafaxina (che agisce potenziando
sia la trasmissione serotonergica che quella noradrenergica), è risultata in due studi più efficace del placebo solo negli adolescenti (1217 anni), ma non nei bambini prepuberi (Emslie et al., 2007), mentre
in un terzo studio è risultata un’alternativa ugualmente efficace rispetto ad un SSRI in adolescenti che non avevano risposto in modo
sufficiente ad un primo trattamento con un SSRI (Brent et al., 2008).
In sintesi i dati da studi randomizzati e controllati in doppio cieco
contro placebo supportano la superiorità della fluoxetina come farmaco di prima scelta, mentre conferme più deboli sostengono sertralina, citaloproam, escitalopram, e, limitatamente all’adolescenza,
venlafaxina (Masi et al., 2010).
Meta-analisi
Una prima meta-analisi ha incluso 13 studi controllati con 2910 soggetti, il 61% dei quali è risultato rispondere in modo favorevole, rispetto al 50% dei soggetti trattati con il placebo (Bridge et al., 2007).
Tale differenza, molto modesta, può far sorgere il dubbio se sia legittimo utilizzare farmaci per una superiorità così scarsa. Il problema è
rappresentato essenzialmente dalla elevata risposta al placebo, che è
risultata ad una analisi più approfondita maggiore nei soggetti con depressione di lieve gravità e/o di età inferiore (Bridge et al., 2009). Se si
considera che nella pratica clinica la grande maggioranza dei soggetti
in età evolutiva trattati con farmaci sono adolescenti, e che i soggetti
con depressione lieve non devono ricevere farmaci, l’efficacia della
farmacoterapia della depressione adolescenziale di entità moderata
o grave dovrebbe essere chiaramente superiore rispetto al placebo.
In effetti, nello studio TADS, citato in precedenza, che include appunto
adolescenti di età superiore a 14 anni con depressione moderata o
70
Tabella I.
I farmaci antidepressivi (SSRI) nella depressione infantile.
Vantaggi
Svantaggi
Efficaci nel 50-60% dei pazienti
Non efficaci nel 40-50% dei pazienti
Sicurezza in overdose
Lento inizio di azione
Maggiore efficacia della
psicoterapia nella depressione
adolescenziale grave
Rischio di suicidalità
grave la fluoxetina era efficace nel 61% dei soggetti trattati rispetto
al 35% del placebo (effect size .69 con fluoxetina e .39 con placebo)
(March et al., 2007). Tali dati sono confermati da un’altra meta-analisi
(Usala et al., 2008), che include solo soggetti trattati con SSRI (11
studi e 1169 pazienti), con il massimo della efficacia per la fluoxetina
(OR=2.39), rispetto a sertralina (1.63) e citalopram (1.38), ma con differenze influenzate anche dagli strumenti di valutazione usati.
In sintesi, questi studi, ed in particolare il TADS, indicano che almeno nel breve termine la fluoxetina è superiore alla psicoterapia
ed al placebo, ma soprattutto se si escludono le depressioni lievi,
e soprattutto negli adolescenti. Che fare però nei soggetti che non
rispondono adeguatamente al primo trattamento con un SSRI come
la fluoxetina? Un altro studio controllato e con finanziamento pubblico, il Treatment of Resistant Depression In Adolescents (TORDIA) ha
esplorato la migliore strategia, confrontando l’efficacia del passaggio ad un secondo SSRI, oppure il ricorso alla venlafaxina, ed in entrambi i casi con o senza aggiunta della psicoterapia (Brente et al.,
2008). Circa il 40% dei soggetti resistenti al primo SSRI risponde alla
seconda strategia, senza significative differenza tra il secondo SSRI
e la venlafaxina, ma la aggiunta della psicoterapia aumenta la possibilità di risposta positiva (fino al 54% dei resistenti al primo SSRI).
Antidepressivi e suicidalità
Antidepressivi e rischio di suicidalità negli studi in età evolutiva
Il concetto di “suicidalità” è molto ampio, includendo i pensieri suicidari, che possono essere vaghi e sporadici o ricorrenti, ed eventualmente associati a progettazione del tentativo), i comportamenti
suicidari, che possono essere atti preparatori senza esito, o possono
evolvere verso veri e propri tentativi di suicidio. I tentativi di suicidio
a loro volta possono essere privi di implicazioni mediche, o presentare implicazioni mediche più e meno gravi, fino ad arrivare ad un
suicidio completato. L’andamento secolare di questi diversi tipi di
suicidalità è diverso, poiché negli ultimi anni si era registrato un calo
dei suicidi, ma non della ideazione suicidaria (Kessler et al., 2005).
L’ideazione suicidarla lifetime e in un anno in adolescenti USA è rispettivamente 30% e 19%, i comportamenti autolesivi sono rispettivamente 13% e 10% (Evans et al., 2005), mentre i suicidi completati
sono sia in USA che in Italia 4-5/100.000. è quindi importante distinguere queste diverse forme di suicidalità, in quanto l’effetto degli
antidepressivi potrebbe essere diverso nelle diverse forme.
Dopo i primi timori su un possibile effetto degli antidepressivi sulla
suicidalità in età evolutiva, nel 2003 le agenzie regolatorie in USA
ed in Europa hanno sollevato timori, confermati dalle analisi della
Division of Drug Risk Evaluation della FDA (Hammad et al., 2006;
Mosholder et al., 2006), che ha valutato 22 studi, di cui 14 sulla depressione, in 2298 bambini ed adolescenti. La suicidalità (in senso
lato, dalla ideazione al comportamento, ma nessun suicidio com-
La terapia farmacologica della depressione in età evolutiva
pletato era riportato nei 24 studi) era presente nel 4% dei soggetti
trattati con farmaci e nel 2% di quelli trattati con placebo. Questi dati
hanno indotto ad inserire nelle schede tecniche degli antidepressivi
una black box, che riporta il rischio di suicidalità in soggetti di età
inferiore a 18 anni (Whittington et al., 2004). Una successiva metaanalisi (Bridge et al., 2007), che include 13 studi e 2910 pazienti, ha
individuato ideazione suicidaria o comportamenti suicidari (nessun
suicidio completato) nel 3% di coloro che avevano ricevuto farmaci
e nel 2% di quelli con placebo. Anche lo studio TADS ha affrontato
il problema della suicidalità e, pur riscontrando una complessiva riduzione della suicidalità tra prima e dopo il trattamento, ha trovato
che il gruppo con maggiore miglioramento era quello che riceveva
psicoterapia associata al farmaco, mentre il gruppo che migliorava
meno era quello che riceveva solo fluoxetina (TADS Team, 2004).
Il predittore di maggiore rischio di suicidalità in questo studio era
la presenza di ideazione suicidaria prima del trattamento, valutata
con uno strumento specifico, ma anche una scarsa risposta al trattamento, con persistenza di sintomi depressivi valutati soggettivamente dai pazienti (Vitiello et al., 2009a). In altri termini, una depressione che non risponde al trattamento è di per sé un fattore di rischio
di comportamenti suicidari, mentre tale rischio non è significativo in
coloro che rispondono positivamente al trattamento.
Un elemento di rilievo è che confrontando l’effetto degli antidepressivi sulla suicidalità nelle diverse fasce di età (100.000 pazienti da
372 controllati contro placebo) (Stone et al., 2009) emerge che mentre nei soggetti anziani gli antidepressivi hanno un effetto protettivo su rischio suicidario, e negli adulti un effetto neutro, il rischio di
suicidalità aumenta nettamente nei soggetti più giovani, ed appare
quindi legato a fattori evolutivi, anche se le basi di questa maggiore
suscettibilità alla suicidalità nei più giovani è difficile da spiegare. È
comunque possibile che una parte dei comportamenti suicidari siano legati, oltre che ad un effetto diretto del farmaco, ad una sua non
corretta utilizzazione da parte dei clinici, in particolare in quelle condizioni che possono sembrare depressive, ma che in realtà appartengono all’ambito del disturbo bipolare, caratterizzato da una marcata instabilità dell’umore, in senso depressivo ma anche eccitato
(Masi et al., 2006, 2007, 2012). In questi soggetti la focalizzazione
sulle manifestazioni depressive con scarsa consapevolezza delle
componenti eccitate (euforia e megalomania, ma anche irritabilità,
agitazione, insonnia), può indurre ad incongrue somministrazioni di
antidepressivi, con effetto potenzialmente destabilizzante sull’umore e sul comportamento, con possibile aumento del rischio suicidario
(Masi et al., 2007). Per questo motivo sintomi di eccitazione che
emergano nel corso di un trattamento con antidepressivi dovrebbero
essere attentamente monitorati, ed in caso di loro comparsa indurre
ad una sospensione del trattamento.
Uso degli antidepressivi e suicide-rate in adolescenza
Secondo dati USA, dopo un significativo incremento del suicide rate
nella popolazione generale di adolescenti tra il 1970 e la metà degli
anni ’80, si è osservato un progressivo declino nella maggior parte
dei paesi occidentali negli anni ’90 (McKeown et al., 2006), ma con
una più recente ripresa dopo il 2003. Se si analizza l’andamento
dell’uso degli antidepressivi negli ultimi decenni, si è osservato un
forte incremento nell’uso di SSRI negli ’90, con successiva marcata
riduzione a seguito dei timori sul possibile effetto suicidario degli
antidepressivi successivo al 2003. Alcuni studi epidemiologici hanno
cercato di mettere in rapporto uso di antidepressivi e suicide rate
in bambini ed adolescenti (Olfson et al., 2003). Durante la fase di
aumento dell’uso di antidepressivi (1992-2001), il suicide rate si è
ridotto in USA dal 6,2 al 4,6 per 100,000 abitanti. Ad ogni aumen-
Tabella II
Monitoraggio in corso di terapia con antidepressivi.
Rivedere il paziente dopo 1 settimana, successivamente una volta al
mese nella fase di stabilizzazione, poi almeno una volta ogni 3 mesi
Nelle prime settimane monitorare la possibile attivazione comportamentale (irritabilità, agitazione, insonnia)
In ogni momento monitorare un possibile episodio maniacale
In ogni momento (in particolare nei primi 3 mesi) monitorare la possibile
comparsa di ideazione o comportamento autolesivo
Monitorare almeno ogni 3 mesi frequenza cardiaca, pressione arteriosa,
ogni 6 mesi altezza e peso
to dell’1% dell’uso di antidepressivi ha corrisposto una riduzione di
0,23 suicidi per 100.000 adolescenti ogni anno. Dopo il 2003 e 2004
l’uso di antidepressivi è sceso di circa il 22% sia in USA che in Olanda (Gibbons et al., 2007). In Olanda il suicide rate in adolescenza è
aumentato del 49%, con relazione inversa con la prescrizione di antidepressivi. In USA il suicide rate è aumentato del 14%, il maggiore
incremento annuale dal 1979. Naturalmente questa associazione
inversa tra suicide rate e uso di antidepressivi non deve far pensare
che gli antidepressivi siano un trattamento efficace contro il rischio
di suicidio, ma almeno suggerisce che nella popolazione generale
l’aumento di uso di antidepressivi non si associa ad aumento dei
suicidi completati.
Trattamento degli adolescenti con depressione che hanno
compiuto un tentativo di suicidio
Un elemento rilevante sul piano clinico è rappresentato dalla gestione clinica di soggetti che hanno commesso un tentativo di suicidio, e che continuano ad essere depressi, quindi a rischio di nuovo
tentativo di suicidio. Uno specifico studio del National Institute of
Health in USA (Treatment of Adolescent Suicide Attempters, TASA)
ha affrontato questo argomento in 124 adolescenti con tentativo
di suicidio negli ultimi 90 giorni (Vitiello et al., 2009a; Brent et al.,
2009). Dei 93 soggetti che hanno effettuato un trattamento intensivo
con farmaci (SSRI e associazione con litio nei non-responders) e
psicoterapia, si è osservata una remissione nel 50% dopo 6 mesi,
ed un miglioramento significativo nel 70%, con una riduzione della
ideazione e dei tentativi di suicidio paragonabile a quella dei soggetti
depressi non suicidari. Questi dati preliminari suggeriscono che una
strategia intensiva combinata, farmacologica e psicoterapeutica,
può rappresentare la prima scelta terapeutica in questi gravissimi
pazienti. Predittori negativi di efficacia sono la gravità (autovalutata)
della depressione, il numero di tentativi di suicidio, la scarsa tempestività dell’intervento, e la presenza di conflitti familiari o abuso
sessuale (Vitiello et al., 2009b).
Conclusioni
I dati dagli studi controllati indicano che gli SSRI possono migliorare la depressione adolescenziale più del placebo, mentre l’efficacia è minore nei bambini. Il trattamento farmacologico dovrebbe essere evitato nelle forme lievi, mentre nelle forme moderate
potrebbe essere considerato in coloro che non hanno risposto in
modo soddisfacente ad una psicoterapia per almeno tre mesi. Il
trattamento farmacologico dovrebbe essere considerato come
prima scelta nelle forme depressive più gravi, associato ad una
psicoterapia, soprattutto in presenza di ideazione suicidarla. L’in-
71
G. Masi, C. Pfanner, F. Liboni
tensità della risposta è variabile, ma spesso di intensità moderata,
e può essere significativamente potenziata dal concomitante intervento psicopterapeutico.
Il farmaco con maggior evidenza di efficacia è la fluoxetina, tra l’altro l’unico con indicazione per la depressione moderata o grave in
età evolutiva disponibile in Italia. Nei soggetti che non rispondono
ad un SSRI dopo 4-6 settimane di trattamento può essere utilizzato
un secondo SSRI (sertralina, citalopram, escitalopram) o, in soggetti
adolescenti, la venlafaxina, pur ricordando che tutte queste opzioni
vengono usate al di fuori delle indicazioni della scheda tecnica, quindi off-label. Nelle forme che hanno risposto positivamente alla terapia, il trattamento farmacologico dovrebbe essere mantenuto per
almeno 6-8 mesi, ed un anno in quelle forme che hanno presentato
una risposta più tardiva o meno intensa, o nelle recidive. Il rischio di
comparsa di sintomi di eccitazione nel corso di terapia antidepressiva deve essere attentamente valutato e monitorato, soprattutto in
presenza di familiarità positiva per disturbo bipolare.
Il rischio di suicidalità nel corso del trattamento antidepressivo è
probabilmente debole, ma costantemente riportato nei vari studi e
meta-analisi, e richiede quindi una grande attenzione preliminare ai
trattamenti (in particolare un’attiva esplorazione di ideazione suicidarla o precedenti tentativi di suicidio nel soggetto e/o nei familiari).
Tale rischio è significativamente maggiore nei giovani rispetto agli
adulti, e potrebbe riguardare l’ideazione suicidaria ed i comportamenti autolesivi, mentre maggiori incertezze riguardano il rapporto
tra antidepressivi e suicidi completati. Un predittore di rischio è la
persistenza della depressione, e quindi l’obiettivo della strategia terapeutica dovrebbe essere sempre quello di ridurre la sintomatologia depressiva. Esiste il rischio che il timore di eventi suicidari in
corso di terapia antidepressiva possa portare a non trattare farmacologicamente i soggetti con depressioni più gravi, che sono invece
quelli a maggiore rischio suicidario e con maggiore efficacia della
terapia farmacologica. In questi casi devono essere attentamente
valutati tutti i possibili fattori di rischio suicidario, a partire da precedenti tentativi (il predittore più importante), per arrivare a fattori
clinici (es. il disturbo bipolare, il disturbo borderline di personalità),
l’uso di sostanze, ma anche ovviamente fattori ambientali, familiari
e sociali. Lo studio TASA indica che in questi soggetti la combinazione di un trattamento farmacologico e psicoterapeutico intensivo
aumenta le possibilità non solo di miglioramento, ma anche di remissione clinica.
Naturalmente nei casi di rischio suicidario, ma più in generale in
ogni disturbo depressivo dell’età evolutiva, la complessità della diagnosi, la valutazione della interferenza funzionale, la considerazione
dei possibili disturbi in associazione ed il rischio di viraggio maniacale e di ideazione autolesiva in corso di trattamento con antidepressivi impongono che la definizione della strategia terapeutica, ed
in particolare la indicazione della farmacoterapia siano di spettanza
dello specialista in Neuropsichiatria Infantile, mentre il pediatra potrà utilmente rappresentare un importante presidio nel monitoraggio
medico del trattamento.
Box di orientamento
Cosa si sapeva prima
La depressione maggiore in adolescenza è frequente, tende a recidivare, ed è un fattore importante di rischio per suicidio (tentato o completato), altre
comorbidità psichiatriche, ed interferenza con il successivo sviluppo sociale e scolastico.
Cosa sappiamo adesso
La psicoterapia è l’intervento di prima scelta nelle depressioni non gravi, ma può essere scarsamente efficace come unico intervento nella depressione
grave. Il farmaco con maggiore supporto di efficacia sulla base di studi controllati, e l’unico con indicazione in scheda tecnica per la depressione in età
evolutiva, è la fluoxetina. Dati dagli studi controllati confermano un debole, ma costante aumento del rischio di suicidalità (ideazione suicidaria, condotte
suicidarie) nel corso di trattamenti con antidepressivi in adolescenza.
Quali ricadute sulla pratica clinica
Nelle forme di depressione grave, o nelle forme di intensità moderata che non hanno risposto ad un intervento psicoterapeutico per almeno tre mesi, la
strategia terapeutica più efficace è rappresentata dalla combinazione di psicoterapia e farmacoterapia. Nel corso della farmacoterapia, e in particolare
nei primi tre mesi, deve essere effettuato un attento monitoraggio circa l’emergere di possibili pensieri o condotte suicidarie, in particolare in soggetti
con precedente ideazione autolesiva o con persistenza anche parziale di sintomi depressivi.
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Corrispondenza
Gabriele Masi, IRCCS Stella Maris, Viale del Tirreno, 331, 56128 Calambrone (Pisa). Tel.: +39 050 886111. Fax: +39 050 886290.
E-mail: [email protected]
73
Aprile-Giugno 2013 • Vol. 41 • N. 170 • Pp. 74-83
Adolescentologia
I disturbi del comportamento alimentare
in adolescenza
Sandra Maestro1, Giampiero I. Baroncelli2, Silvia Ghione2, Silvano Bertelloni2
1
2
Sezione Clinica per i Disturbi della Condotta Alimentare, U.O. NPI 3: Psichiatria dello Sviluppo, IRCCS Stella Maris, Pisa
Medicina dell’Adolescenza, Dipartimento Materno-infantile, Azienda Ospedaliero-Universitaria Pisana, Pisa
Riassunto
I disturbi del comportamento alimentare sono un gruppo di condizioni estremamente complesse e strettamente intercorrelate tra loro dalla presenza di un
anomalo rapporto con il cibo e una distorsione dell’immagine corporea, ma con caratteristiche cliniche e psicopatologiche differenti. Attualmente questi
disturbi sono un rilevante problema di salute pubblica. Il pediatra deve avere un’adeguata conoscenza dei disturbi del comportamento alimentare, ai fini di
una diagnosi precoce, di una tempestiva presa in carico all’interno di un percorso multidisciplinare e di un miglioramento dell’evoluzione a lungo termine.
Summary
Eating disorders represent a heterogeneous group of diseases related to food intake and, in late childhood and adolescence, have at their core a morbid
fear of weight gain. Eating disorders are a serious concern of public health, that require early recognition and appropriate management. Multisciplinary
team approach is mandatory. Pediatricians should have appropriate knowledge and skills related to early diagnosis and assessment, acute management,
re-feeding and long-term monitoring in order to improve the care and the outcome of affected children.
Introduzione
I disturbi del comportamento alimentare (DCA) sono un gruppo di
condizioni estremamente complesse, caratterizzate da anomalie nei
pattern di alimentazione, da un eccesso di preoccupazione per la
forma fisica, da alterata percezione dell’immagine corporea e da
una stretta correlazione tra tutti questi fattori e i livelli di autostima
(Fairburn e Harrison, 2003; Sigel, 2008; American Academy of Pediatrics, 2010; Dalle Grave, 2011). A partire dagli anni ’50 del secolo scorso, si è assistito ad un progressivo aumento dei DCA (Dalle
Grave, 2011), tanto che nel Piano Nazionale della Prevenzione si
afferma che “la diffusione dei Disturbi Alimentari ha una rapidità ed
una rilevanza sconcertanti: non si ha alcun altro esempio di malattia
psichiatrica con una simile propagazione e con le caratteristiche di
una vera e propria epidemia sociale” (Ministero della Salute, 2010).
Contemporaneamente vi è stato un decremento dell’età di insorgenza (Favaro et al., 2009), tanto che sono sempre più frequenti
diagnosi prima del menarca, fino a casi di bambine di 8-9 anni (Dalla
Ragione, 2012). Ne deriva che, nell’ambito dell’assistenza pediatrica
è oggi necessario dedicare maggiore attenzione ai DCA, anche perché permane un eccessivo ritardo diagnostico che può influire negativamente sul percorso diagnostico-terapeutico e sulla prognosi
(American Academy of Pediatrics, 2010, Nicholls et al, 2011).
Obiettivi del lavoro e metodologia della ricerca
bibliografica
Questo articolo si propone di offrire al pediatra un aggiornamento su
alcuni aspetti salienti dei DCA e in particolare quelli dell’inquadramento diagnostico, anche in rapporto alle nuove teorie transdiagnostiche e alla prossima classificazione del DSM-V, dell’epidemiologia,
dell’approccio clinico e della valutazione delle indagini di laboratorio,
delle possibilità di trattamento del disturbo e dell’osteoporosi presente in queste pazienti. A tal scopo è stata condotta una ricerca bi-
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bliografica su Medline, utilizzando come motore di ricerca PubMed,
con le seguenti stringhe: anoressia nervosa, adolescenza, classificazione, teoria transdiagnostica, epidemiologia, aspetti clinici, terapia,
osteoporosi. Alcuni degli articoli citati sono poi derivati dall’analisi
delle referenze bibliografiche dei lavori selezionati. Sono stati applicati i seguenti limiti: lingua inglese e ultimi 10 anni di pubblicazione. Degli articoli identificati sono stati privilegiati i lavori secondari
più recenti di revisione sistematica e quelli di elaborazione di nuovi
meccanismi patogenetici, che tenessero conto delle nuove acquisizioni di genetica e neuroimaging. Sono stati inoltre individuati alcuni
lavori in lingua italiana di rilievo per specifiche problematiche del
nostro Paese.
Il problema dell’inquadramento nosografico
Attualmente, il DSM-IV individua due forme principali di DCA: l’anoressia nervosa (AN) e la bulimia nervosa (BN) (Tab. I). I soggetti
che non soddisfano pienamente i criteri per l’una o l’altra forma
vengono classificati come DCA non altrimenti specificati (EDNOS)
(Tab. I) (American Psychiatric Association, 1994). Tra i problemi di
questa classificazione, vi è l’elevata percentuale (~60% dei pazienti,
soprattutto tra i minori), che cadono all’interno degli EDNOS. Questa
situazione può derivare da diversi fattori (Dalle Grave, 2011):
• elevata percentuale di soggetti – soprattutto in adolescenza
– che realmente presentano EDNOS rispetto a AN o BN;
• mancanza di criteri per distinguere un periodo di remissione
da un’espressione parziale dei DCA, ad esempio quando una
paziente recupera l’Indice di massa corporea (BMI) ma persiste
l’amenorrea (Tab. I);
• instabilità dell’espressione sintomatica del disturbo per cui è
frequente una migrazione trans-diagnostica, ad esempio quando un soggetto con AN restrittiva modifica il suo comportamento
alimentare, virando in un’AN di tipo binge-eating, in un EDNOS
I disturbi del comportamento alimentare in adolescenza
Tabella I.
DCA: criteri diagnostici secondo l’attuale DSM-IV e il futuro DSM-V.
Criteri DSM IV
Criteri DSM V
Anoressia nervosa
Eccessiva importanza attribuita al peso, alle forme corporee e/o al controllo dell’alimentazione; percezione alterata del proprio peso o forme fisiche.
Mantenimento volontario di basso peso (per esempio,
Indice di Massa Corporea o BMI ≤17.5 kg/m2)° e intensa
paura di ingrassare anche quando si è sottopeso.
Nelle femmine post-menarca, amenorrea secondaria
(assenza di almeno tre cicli mestruali consecutivi).
Anoressia nervosa
• Restrizione dell’introito calorico in rapporto ai fabbisogni con significativa perdita di peso*,
in rapporto a età, sesso, traiettoria di crescita e salute fisica
• Intensa paura di prendere peso e di ingrassare o persistenti comportamenti che interferiscono con l’incremento di peso pur in condizioni di peso significativamente basso.
• Disturbo nella percezione dell’immagine corporea, influenza del peso corporeo o dell’immagine nella stima di sé, persistente mancanza di consapevolezza della gravità dell’attuale basso peso corporeo
• Sottotipi:
a) Forma restrittiva: durante gli ultimi 3 mesi il soggetto non ha mai avuto episodi di abbuffate o comportamenti di eliminazione (vomito autoindotto, uso di lassativi o di diuretici).
b) Forma con abbuffate e manovre di e/o manovre di eliminazione: negli ultimi 3 mesi
il soggetto ha avuto ricorrenti episodi di abbuffate o comportamenti di eliminazione
(vomito autoindotto o abuso di lassativi o diuretici).
Sottotipi:
a) con “restrizioni” (AN-R);
b) con “abbuffate/condotte di eliminazione” (AN-B/P).
Bulimia nervosa
Bulimia nervosa
a) Sottotipo con manovre di eliminazione.
a) Con manovre di eliminazione.
b) Sottotipo senza manovre di eliminazione.
b) Senza manovre di eliminazione.
1.Abbuffate ricorrenti (assunzione di grandi quantità
A. Episodi ricorrenti di abbuffate. Un episodio di abbuffata è definito da:
di cibo con perdita di controllo ricorrenti).
1. mangiare per un periodo discreto di tempo (circa 2 ore) una quantità di cibo che è
2.Comportamenti di controllo del peso estremi (per
decisamente superiore a quella che la maggior parte delle persone mangerebbero
esempio, dieta ferrea, vomito auto-indotto, uso imin uno stesso periodo o in analoghe circostanze.
proprio di lassativi o diuretici, esercizio fisico ec2. senso di mancanza di controllo durante l’episodio (per esempio sentire che non si
cessivo).
può smettere di mangiare o controllare la quantità di quello che si sta mangiando).
3.Eccessiva importanza attribuita al peso, alle forme
B. Ricorrenti e inadeguati comportamenti compensatori per prevenire l’incremento di
corporee e/o al controllo dell’alimentazione; per
peso (vomito auto indotto, abuso di lassativi, diuretici o altri medicinali, digiuno o eseresempio, giudicare se stessi in modo esclusivo o
cizio eccessivo).
predominante sulla base del peso, delle forme corC. Le abbuffate e i comportamenti compensatori inappropriati avvengono almeno una
poree e/o del controllo dell’alimentazione.
volta alla settimana per 3 mesi.
4.Non soddisfacimento dei criteri diagnostici dell’aD. La valutazione di sé è ingiustificatamente influenzata dal peso corporeo o dalla forma
noressia nervosa.
fisica. Il comportamento disturbato non si verifica esclusivamente durante un episodio
di anoressia nervosa.
Disturbi dell’alimentazione atipici o non altrimenti
specificati (EDNOS)
Per il sesso femminile, tutti i criteri per l’AN sono
presenti, ma il ciclo mestruale rimane regolare.
Tutti i criteri per l’AN sono soddisfatti, ma il peso attuale
è nella norma nonostante una significativa riduzione di
peso.
Tutti i criteri per la bulimia nervosa sono soddisfatti,
ma le abbuffate e le condotte eliminatorie hanno una
frequenza inferiore a 2 episodi/settimana per 3 mesi.
Disturbo dell’alimentazione incontrollata: ricorrenti
episodi di abbuffate, ma assenza delle regolari condotte
eliminatorie tipiche della bulimia nervosa.
Disturbo da alimentazione incontrollata
A. Ricorrenti episodi di abbuffate:
Un episodio di abbuffata è caratterizzato da:
1. Mangiare per un periodo discreto di tempo (circa 2 ore) una quantità di cibo che è
decisamente superiore a quella che la maggior parte delle persone mangerebbero
nello stesso periodo o in analoghe circostanze.
2. Un senso di mancanza di controllo durante l’episodio (p.e sentire che non si può
smettere di mangiare o controllare la quantità di quello che si sta mangiando). Gli
episodi di abbuffate sono associati con 3 o più dei seguenti comportamenti:
a. mangiare molto più rapidamente del normale.
b. mangiare fino a sentirsi pieno in modo sgradevole.
c. mangiare grandi quantità di cibo, anche quando non ci si sente affamati.
d. mangiare da soli, perché il soggetto si sente imbarazzato per la quantità di cibo
che sta mangiando.
e. sentirsi disgustato da se stesso, depresso o molto colpevole dopo essersi
abbuffato.
B. Il soggetto è significativamente stressato dagli episodi di abbuffate.
C. Gli episodi di abbuffate si verificano almeno una volta alla settimana per tre mesi.
D. Il comportamento disturbato non si verifica esclusivamente durante un episodio di anoressia nervosa o di bulimia nervosa.
Disturbi della nutrizione o dell’alimentazione non altrimenti specificati
Queste condizioni dovrebbero essere prese in considerazioni solo se il soggetto ha un
disturbo della nutrizione o dell’alimentazione clinicamente significativo, ma che non incontra
i criteri per nessuno dei disturbi già descritti.
Sebbene non sia stata definita una “gerarchia” decisionale, a ciascun individuo dovrebbe
essere assegnato il quadro clinico che più corrisponde ai sintomi presentati.
°valore di cut-off adeguato per l’adulto; per un adolescente si * Perdita significativa viene definita come un peso inferiore ai limiti inferiori della norma o, per i bambini
dovrebbe fare riferimento a criteri che tengono conto dei valori e gli adolescenti, inferiore al peso minimo previsto.
normali per età, sesso e statura.
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S. Maestro, G.I. Baroncelli, S. Ghione, S. Bertelloni
o in una BN (Fig. 1a). A questo proposito, i nuovi orientamenti di
ricerca, basati sulla convergenza di dati che derivano da studi
di neuroimaging funzionale dei neurocircuiti della serotonina
e della dopamina indirizzano verso una nuova concettualizzazione dei DCA, proponendo uno spettro psico-patologico unico,
con manifestazioni cliniche differenti in rapporto all’età e all’evoluzione clinica (Brooks et al., 2012). L’attitudine del soggetto
nei confronti del controllo degli impulsi caratterizzerebbe l’espressione fenotipica in questo modello caratterizzato da poli
contrapposti: uno legato a eccesso di controllo (AN restrittiva) e
l’altro a assenza di controllo (disturbo da alimentazione incontrollata o BED) (Fig. 1b) (Brooks et al., 2012).
• criteri eccessivamente restrittivi nel DSM-IV per le forme principali di DCA, che per quanto riguarda l’AN escludono ad esempio la
possibilità di fare diagnosi nei maschi o nelle femmine pre-puberi;
• emergenza di nuove condizioni, come il binge eating disorder,
che vanno a confluire negli EDNOS in assenza di un contenitore
nosografico appropriato.
Nel DMS-V previsto per quest’anno (American Psychiatric Association, 2013), è quindi in atto un’ampia revisione nella classificazione
dei DCA; i principali cambiamenti riguardano: a) i criteri per l’AN
con la sostituzione di alcuni termini, la ridefinizione del concetto di
basso peso con riferimento ai valori normali per età, sesso e statura,
l’eliminazione del criterio relativo all’amenorrea; b) l’introduzione di
una nuova entità nosografica (BED) (Tab. I).
In alternativa è stato proposto di creare un’unica entità nosografica
che contenga tutti i DCA (teoria transdiagnostica) (Fairburn & Bohn,
2005). Si verrebbero così a superare i problemi legati alla migrazione diagnostica (Dalle Grave, 2011) in accordo con le nuove proposte
patogenetiche (Brooks et al., 2012) (Fig. 1).
Il quadro epidemiologico
Pur nell’assenza di dati epidemiologi certi, la prevalenza dell’AN è
riportata intorno allo 0,5-1,0%, quella della BN all’1-3%, quella degli
EDNOS, che sono particolarmente frequenti nelle adolescenti e nelle
giovani adulte, intorno al 6-8% (Sigel, 2008; American Academy of
Pediatrics, 2010, Watson et al., 2012).
L’AN, la forma più tipica in adolescenza su cui sarà particolarmente
focalizzato questo articolo, ha un picco di esordio tra 12 e 17 anni
(Sigel, 2008); uno studio longitudinale italiano ha rilevato che l’età
media di insorgenza si è ridotta di circa un anno in un decennio
(1970: 18,6 anni; 1981: 17,6 anni), con un incremento quasi pari
al 100% delle diagnosi prima dei 16 anni (1970: 17%; 1981: 32%)
(Favaro et al., 2009). Inoltre, nell’ultima decade del secolo scorso
tutte le nuove diagnosi in questo centro italiano sono state effettuate
in ragazze di età inferiore a 18 anni (Favaro et al., 2009). Vi è una
netta predilezione per il sesso femminile rapporto femmine/maschi
= 9/1), ma la prevalenza tra i due sessi varia in rapporto all’età
(prepubertà o prime fasi della pubertà 1/1; media adolescenza 1/10;
tarda adolescenza o giovane adulto 1/20) (Gonzales et al., 2007).
Stanno comunque aumentando le diagnosi nei maschi (American
Academy of Pediatrics, 2010; Dalla Ragione, 2012). Le classi sociali
a rischio sono quelle medio-alte dei paesi occidentali, ma l’AN (e i
DCA in generale) si sta diffondendo a tutta la popolazione dei paesi
industrializzati e con una tendenza a un incremento anche nei paesi
extra-occidentali (Gonzales et al., 2007, Sigel, 2008; Dalla Ragione,
2012). Tra gli adolescenti, sono infatti in aumento i tentativi non necessari di dimagrimento, che possono rappresentare – in soggetti
predisposti – un fattore scatenante (Sigel, 2008), in conseguenza
della elevata percentuale di ragazze insoddisfatte della propria im-
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magine corporea nella fascia 14-17 anni (Dalla Ragione, 2012). In
USA, il 61% delle ragazze e il 32% dei ragazzi hanno cercato di perdere peso anche quando non necessario, con un netto incremento
negli ultimi 20 anni (Eaton et al., 2012). In Italia, il 17% dei ragazzi
tra 11 e 14 anni e il 27% di quelli tra 15 e 18 anni ha intrapreso una
dieta per dimagrire, spesso autoprescritta, anche se non necessaria
(Società Italiana di Medicina dell’Adolescenza, 2010). Il fenomeno si
sta estendendo all’età prepuberale: in bambini tra 5 e 8 anni è stato
rilevato che circa il 60% desidera un corpo più magro già a questa
età (Lowes et al., 2003). Stanno poi comparendo nuove forme di
DCA, come vigoressia e ortoressia, assenti solo fino a pochi anni fa
(Dalla Ragione, 2012).
Le pressioni sociali e i fattori di rischio familiari
Si ha oggi una pressione sociale per la magrezza, spesso estremizzata dai media (Bertelloni et al., 2011). I fattori “culturali” da soli non
spiegano tuttavia l’attuale e rapido incremento dei DCA, ma le “pressioni” esterne interagiscono con malesseri e sofferenze profonde.
Fattori neuro-biologici individuali di vulnerabilità (Brooks et al., 2012),
combinandosi con variabili socio-culturali, fanno dunque sì che il disagio psicologico trovi nell’AN una sorta di soluzione disfunzionale, che
permette all’adolescente un estremo autocontrollo con attivazione di
meccanismi neuroendocrini anche simili all’addiction e, al contempo,
la pone al centro delle attenzioni (Albayrak et al., 2012; Støving et al.,
2009).
A questo proposito, fattori di rischio vanno considerati aspetti familiari,
come avere i genitori con disturbi psichiatrici (Fairburn et al., 1999),
familiarità positiva per disturbi affettivi (Winokur et al., 1980; Gershon
et al., 1984), episodi depressivi nelle madri (Garcia de Amusquibar &
De Simone, 2003), tendenza all’abuso di sostanze (Stern et al., 1992),
o tratti specifici di personalità (elevati livelli di perfezionismo o maggiori preoccupazioni riguardo al peso e alla forma fisica) (Woodside et
al., 2002; Westerberg-Jacobson et al., 2010). Per quanto riguarda la
presenza di DCA nel contesto familiare, è stata riscontrata familiarità
positiva per AN (Strober et al., 1990), padri con maggiori punteggi al
test EAT (Westerberg-Jacobson et al., 2010); madri con alti punteggi
nella sottoscala BN del test EAT-26 e più episodi di abbuffate (Garcia
de Amusquibar & De Simone, 2003), obesità nei genitori di pazienti
che svilupperanno BN (Fairburn et al., 1999). Il rilievo di situazioni di
questo tipo da parte del pediatra deve suggerire un più attento followup della ragazza in particolare in adolescenza.
La comorbilità
Nei DCA, si ha frequentemente una co-morbidità con altri disturbi
psichiatrici. In età pediatrica, i disturbi d’ansia e i disturbi dell’umore costituiscono le co-morbidità più frequenti tanto da suggerire la
presenza di una connessione ezio-patogenetica fra le diverse entità
nosologiche (Brooks et al., 2012). Nelle ricostruzioni anamnestiche
viene spesso riferita l’insorgenza di disturbi affettivi e d’ansia precedenti la comparsa dei sintomi relativi al DCA (American Academy
of Pediatrics, 2010; Dalle Grave, 2011; Dalla Ragione, 2012). Alcuni
studi in passato hanno messo in evidenza la presenza di condizioni pre-morbose, tendenze temperamentali, che – se accentuate da
condizioni familiari – possono favorire, in adolescenza, il formarsi
di tratti atipici di personalità, come il perfezionismo, l’ossessività,
la rigidità, preludenti alle co-morbidità sull’ASSE II, ovvero i Disturbi
di Personalità (DP) (Costa e Montecchi 1996; Caretti et al., 2000).
Altri tratti tipici dei soggetti con DCA, comuni ai DP, riguardano la
I disturbi del comportamento alimentare in adolescenza
A
B
Figura 1.
Migrazione diagnostica dei DCA e tentativo di teoria unificante neurobiologica.
A. Rappresentazione schematica dell’evoluzione temporale dei DCA con la migrazione trasdiagnostica tra le varie forme cliniche individuate dal
DSM-IV. La dimensione delle frecce rappresenta la grandezza di migrazione del campione. Le frecce che escono dal cerchio indicano la percentuale di guarigioni (modificata da Fairburn & Harrison, 2003).
B. Modello teorico che cerca di unificare su basi neurobiologiche la migrazione trasdiasgnostica tra le varie forme di DCA in rapporto alla predominanza dei circuiti neuronali di tipo restrittivo o di tipo impulsivo; polimorfismi genetici potrebbero condizionare la maggiore espressività di
fenotipi restrittivi o impulsivi (Brooks et al., 2012, modificata).
DLPFC = corteccia prefrontale dorso-laterale
OFC = corteccia orbito-frontale
MPFC = corteccia prefrontale mediana
ACC = corteccia cingolato anteriore
DS = Striato dorsale
AMD = amigdala
CRV = cervelletto
IPT = ipotalamo
COMT = polimorfismo Val158Met nella catecol-o-metil transferasi
5HT2A = SNP associato al promotore del gene per il recettore 2a del 5-HT
BDNF = polimorfismo Val66 Met nel brain-derived neurotrophic factor
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S. Maestro, G.I. Baroncelli, S. Ghione, S. Bertelloni
Tabella II.
Anoressia nervosa: sintomi e segni principali.
Organo o apparato
Sintomi
Segni
Sistema nervoso
Confusione mentale, difficoltà di concentrazione, apatia,
letargia, astenia, facile faticabilità, cefalea, vertigini, lipotimia,
tintinnii, disturbi del sonno (risvegli precoci al mattino)
Neuropatia periferica, neuropatia ottica
Apparato gastrointestinale
Stipsi (anche importante), gonfiore addominale, senso di
ripienezza, gastralgie, flatulenza, dolori addominali
Stomatite angolare, erosioni dentali*,
paradontomegalia, ipertrofia delle parotidi*
Cardio-vascolare
Palpitazioni
Bradicardia, variazioni di polso e pressione arteriosa
tra clinostatismo e ortostatismo, polsi deboli
Apparato riproduttivo
Amenorrea (primaria o secondaria), ridotto interesse sessuale, Ipo- o atrofia del seno (femmina); riduzione/mancato
ipo-/infertilità (scarsamente riportata dall’adolescente)
incremento del volume testicolare(maschi)
Rene
Poliuria (per eccessiva assunzione di liquidi, o per pseudodiabete insipido conseguente a deficit di ADH)
Altri
Particolare sensibilità al freddo, eccessiva copertura con abiti
ampi (per l’ipotermia e per nascondere lo stato di magrezza),
aumentata attività fisica (in particolare al mattino), crisi
tetaniche
Capelli sottili e fragili con perdita della naturale
lucentezza; pallore, ipotermia, edemi periferici,
estremità fredde, debolezza muscolare,
ipercarotideremia del palmo delle mani e/o della
pianta del piede, ipertricosi/irsutismo.
* indice di vomito autoindotto.
scarsa compliance alla prima visita, la “non richiesta” di aiuto con
la convinzione di farcela da soli, la scarsa o nulla consapevolezza
di malattia, l’opposizione all’autorità costituita, l’errata percezione
della realtà, l’opposizione alle cure, la tendenza all’ascetismo e
all’idealizzazione, che spesso si esprimono con uno spiccato senso
della giustizia (Costa et al., 2009). Infine, la co-morbidità con i DP è,
secondo alcuni autori, più comune tra i pazienti con DCA rispetto a
tutte le altre diagnosi di Asse I (Bornstein, 2001; Grilo et al., 2003).
Gli aspetti clinici
Le manifestazioni dell’AN sono complesse e variabili in rapporto
a grado di denutrizione, coinvolgimento psichiatrico e socio-comportamentale. Un ridotto peso corporeo o un basso indice di massa
corporea (BMI, kg/m2) sono i cardini per sospettare la diagnosi di
AN (Gonzales et al., 2007, Sigel, 2008; American Academy of Pediatrics, 2010, Nicholls et al, 2011; Dalla Ragione, 2012). La definizione
di magrezza patologica è però più difficile in adolescenza rispetto
al soggetto adulto, in quanto si devono considerare le fisiologiche
variazioni per età, sesso e stadio puberale (Cole et al., 2007). Riduzioni di peso maggiori a 1 kg/settimana sono da considerare ad
alto rischio (Nicholls et al., 2011). Alla magrezza si associa un’eccessiva valutazione del peso e delle forme corporee, tanto che le
pazienti presentano un’alterata percezione del corpo, per cui si sentono grasse nonostante l’evidente stato di denutrizione e possono
percepire come gonfie e sproporzionate specifiche parti del corpo
(addome, cosce) (Nicholls et al., 2011). Alla restrizione dell’apporto
energetico, anche estremo, si associa spesso una “ritualità” rispetto
al ritmo dei pasti con pratiche di spezzettamento e selezione dei cibi
(food checking) (Sigel, 2008; Nicholls et al., 2011). Le adolescenti
più giovani possono presentare una diminuzione nell’assunzione dei
fluidi, mentre in quelle più grandi si può avere un’eccessiva assunzione di acqua, nel tentativo o di falsificare il peso o di ridurre il
senso di fame (Nicholls et al., 2011). A volte, la paziente può assumere una quantità più o meno elevata di cibo fino a vere e proprie
abbuffate. Questi episodi possono determinare comportamenti compensatori, come vomito autoindotto, uso di lassativi o attività fisica
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compulsiva (Gonzales et al., 2007, Sigel, 2008; American Academy
of Pediatrics, 2010). In un’ampia percentuale di pazienti (30-80%) è
presente un’eccessiva attività motoria fino a vera e propria iperattività; quest’ultima è stata correlata al deficit di leptina presente in
queste persone, è frequentemente associata alle forme ad esordio
precoce e può peggiorare sia il decorso del disturbo sia la compliance al trattamento (Holtkamp et al., 2006, Müller et al., 2009). In un
adolescente che non ha ancora raggiunto la statura adulta, si può
avere un rallentamento o un arresto della crescita staturale, che può
compromettere il raggiungimento di un’altezza adulta adeguata al
bersaglio genetico (Eckhardt e Ahmed, 2010); tale evoluzione sfavorevole sembra essere più frequente nei maschi (Modan-Moses et
al., 2003). Nelle ragazze – oltre all’amenorrea – vi può anche essere
ipotrofia del seno, mancata progressione nel suo sviluppo o vaginite
atrofica. Nel maschio, la regressione delle caratteristiche sessuali
secondarie è di meno immediata percezione, anche se può essere
presente un ritardo o un arresto dello sviluppo (Gonzales et al., 2007,
Sigel, 2008; American Academy of Pediatrics, 2010). Tutte le varie
manifestazioni (Tab. II) sono conseguenza della denutrizione e dei
mezzi utilizzati per mettere in atto le condotte eliminatorie.
Il laboratorio
Nessuna indagine è patognomonica (Wiston, 2011); le indagini di laboratorio servono a monitore le complicanze della denutrizione, ma è
necessaria una corretta interpretazione dei risultati, in quanto diversi
parametri potrebbero sembrare falsamente nella norma (Tab. III). Sono
presenti anomalie più o meno rilevanti a carico di tutti gli apparati endocrini (Tab. IV), che devono essere interpretate come un meccanismo
di adattamento allo stato di denutrizione; sono infatti sostanzialmente
reversibili con il miglioramento dello stato nutrizionale, il recupero del
peso e/o la guarigione (Misra & Klibanski, 2010; Warren, 2011). Poco
conosciuto è l’assetto endocrino che caratterizza gli EDNOS (Tab. IV).
Qualche nota di trattamento
Il trattamento dei pazienti con DCA necessita di un team multidi-
I disturbi del comportamento alimentare in adolescenza
Tabella III.
Anoressia nervosa e EDNOS: parametri di laboratorio utili nel monitoraggio clinico e loro interpretazione.
Parametro
Reperto di laboratorio
Note interpretative
Emocromo
Leucopenia, piastrinopenia, anemia di grado variabile (presenti
in fase avanzata di malnutrizione)
Un emocromo nella norma può essere dovuto a
disidratazione con emoconcentrazione (potendo portare
a false interpretazioni con mancato riconoscimento della
gravità della situazione)
Glicemia
Ridotta (in grado variabile)
L’ipoglicemia può contribuire ai disturbi neuro-psichici (per
deficit energetico a livello della sostanza grigia)
Elettroliti
Deficit di potassio, sodio e calcio; sono possibili anche deficit
magnesio e fosforo oltre che per la denutrizione, per diarrea o
abuso di diuretici
I livelli sierici possono risultare falsamente nella norma per
ridistribuzione idrica
Transaminasi
Aumentate (per steato-epatosi o autoepatofagocitosi).
Possono essere indice di alterazioni metaboliche e/o di
abuso di alcol/farmaci. L’ipertransaminasemia può essere
esacerbata dalla rialimentazione
Amilasi
Aumentate
Indice di vomito autoindotto
Proteine
Ridotte
A volte iperalbuminemia come conseguenza dell’ipovolemia
Creatinina
Normale
Se aumentata si deve pensare a disidratazione ed emoconcentrazione o diminuzione del filtrato glomerulare
Ferritina
Aumentata
Indice di contrazione del microcircolo e sequestrazione di
ferro dalle emazie
Colesterolo
Spesso aumentato
PCR/VES
Normali o ridotte
La normalità di tali parametri permette di escludere malattie
infiammatorie croniche come base della malnutrizione
Esame urine
Riduzione del peso specifico
Indice di anomala secrezione della vasopressina o
pseudodiabete insipido
ECG°
Aumento dell’intervallo QTcorretto°, bassi voltaggi, inversione
dell’onda T, depressione del tratto ST, aritmie (es. extrasistoli
sopraventricolari, tachicardia ventricolare)
Un prolungamento del tratto QT è un fattore di rischio per
morte improvvisa
Densitometria
ossea^
Riduzione della densità ossea di grado variabile, in rapporto alla
sede esaminata
È dovuta sia a un deficit di formazione ossea (modelling) che
di rimodellamento osseo (remodelling). Fattori condizionanti
la gravità del deficit di massa ossea sono l’età di insorgenza,
la durata della malattia, la durata dell’amenorrea, la massa
ossea all’esordio della malattia, l’entità dell’attività fisica
Imaging del sistema
nervoso centrale
Atrofia cerebrale generalizzata (sia della sostanza bianca che di
quella grigia); si possono rilevare perdite di volume specifiche
a livello del cingolo, del cervelletto e della regione occipitotemporale.
Vi possono essere anomalie funzionali delle regioni frontali,
limbiche, occipitali, striate e cerebellari.
Possono contribuire ad alcuni aspetti comportamentali/
deficit psicologici presenti in queste pazienti; in alcuni studi
è stata riportata la risoluzione delle anomalie cerebrali con il
recupero del peso corporeo.
° Il metodo più usato per il calcolo del QT corretto è la formula di Bazett, che prevede di dividere il QT misurato in un singolo battito, per la radice quadrata dell’intervallo
RR precedente in secondi (distanza tra due complessi QRS: un quadratino piccolo = 0,04 sec); può essere utile l’esecuzione di un ecografia cardiaca per documentare un
eventuale versamento pericardico.
^ eseguita con DXA (utilizzare metodi adeguati per il calcolo del deficit in rapporto ad età e altezza del soggetto), altri metodi (es densitometria a ultrasuoni) possono fornire
risultati del tutto diversi; i ridotti valori di densità ossea sono probabilmente conseguenza sia delle alterazioni endocrine, in particolare dell’ipogonadismo e del deficit di
leptina, sia dei deficit nutrizionali.
sciplinare in grado di affrontarne in maniera multidimensionale la
complessità, che coinvolge le problematiche psichiatriche, comportamentali e somatiche (Nicholls et al, 2011; Dalla Ragione, 2012).
L’équipe curante deve essere composta da neuropsichiatri infantili/
psichiatri, pediatri/internisti, psicologi, dietisti, infermieri, ma può essere integrata da vari specialisti “esterni” sulla base delle esigenze
del singolo paziente (es. cardiologo) e anche da figure non-sanitarie
(es. educatori, insegnanti di danza o di creatività manuale, etc) (NICE
2004; Sigel, 2008; American Academy of Pediatrics, 2010, Nicholls
et al., 2011; Della Ragione, 2012). Il team di cura deve sviluppare
l’attitudine ad elaborare per ogni singolo paziente un progetto coerente e condiviso, che reintegri la grave tendenza alla scissione che
questi soggetti operano tra mente e corpo. Questo è di estrema importanza anche da un punto di vista prognostico, in quanto le ricadute sono più frequenti se il paziente viene trattato presso un reparto
generale rispetto a un centro specialistico per DCA (Keel & Brown,
2010). In età pediatrica, un ulteriore fattore da tenere in considerazione riguarda la famiglia, che deve essere coinvolta nel percorso di
cura per supportare i genitori nel trasformare l’intensa conflittualità
con la figlia, di cui il rifiuto alimentare è l’epifenomeno, in flessibilità
e rinnovata capacità di negoziazione (Nicholls et al., 2011). Una recente review conclude che vi sono sufficienti evidenze in letteratura
a favore del trattamento familiare che rappresenta quello di scelta
in adolescenza, mentre nell’adulto nessuna specifica modalità tera-
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S. Maestro, G.I. Baroncelli, S. Ghione, S. Bertelloni
daliero (Nicholls et al., 2011); i criteri per decidere in questo senso
per l’età pediatrica sono riportati in tabella V (Bertelloni et al., 2010;
Nicholls et al., 2011). Si tratta però di indicazioni di massima, che
devono essere personalizzate in base delle singole situazioni cliniche e all’esperienza del team di cura. La denutrizione estrema e l’incapacità di sostenere un programma ambulatoriale o in day hospital
di riabilitazione psicologica e nutrizionale è comunque il motivo principale di ospedalizzazione, anche per evitare esiti fatali (Academy of
Pediatrics, 2010, Nicholls et al., 2011). A questo proposito, si deve
sottolineare che l’AN è la patologia psichiatrica a più alta mortalità,
anche per un elevato rischio di suicidio (Arcelus et al., 2011).
Tabella IV.
Anoressia nervosa e EDNOS: assetto endocrino.
Ormone
AN
EDNOS
LH/FSH
No
No
Estradiolo (femmine)
↓
↓
Testosterone (maschi)
↓
?
Leptina
↓
↓*
TSH
↓ (poco)
?
FT4
↓
?
reverseT3
­↑
?
GH
­↑
?
IGF1
↓
↓?
Cortisolo
­↑
↑­?
GHrelina
­↑
­↑ ?
Il problema dell’osteoporosi
* se perdita di peso; N = normale; ↑ = aumentato; ↓ ridotto
peutica sembra essere superiore rispetto alle altre (Watson & Bulik,
2012). Di certo più lungo è l’intervallo tra l’esordio del DCA e la presa
in carico, peggiori sono le prospettive prognostiche (Keel & Brown,
2010). La terapia farmacologica ha limitate indicazioni evidence based e non dovrebbe essere utilizzata di primo approccio o come
monoterapia (Watson & Bulik, 2012). Alcuni autori ritengono che la
farmacoterapia in questo disturbo fornisca più domande che risposte (Hebebrand, 2011). Pertanto, l’approccio con psicofarmaci si
dovrebbe valutare caso per caso, in base all’esperienza dell’équipe
di cura anche in rapporto alla presenza di co-morbilità. Al momento
non vi sono farmaci registrati in Italia con la specifica indicazione
AN (www.AIFA.it).
Alcune linee guida (NICE, 2004) indicano il livello ambulatoriale
come il setting più appropriato per il trattamento, ma tale rilievo si
basa su un singolo lavoro con limiti metodologici. In età pediatrica,
dove maggiore è la probabilità di incontrare le forme a esordio recente e i meccanismi fisiologici di adattamento al digiuno non sono
ancora consolidati, l’equilibrio clinico internistico è più instabile e il
rischio delle complicanze tende ad essere più accentuato può rendere più frequentemente necessario il ricovero in ambiente ospe-
Oltre il 50% degli adolescenti con AN presentano osteopenia, cioè
una densità minerale ossea (BMD) < 1 DS rispetto ai valori normali
per età e sesso e più del 10% presentano osteoporosi (BMD < 2 DS);
la patogenesi è multifattoriale, dipendendo da problematiche di tipo
nutrizionale ed endocrino (Tab. IV) (Misra e Klibanski, 2011). Sono
stati proposti diversi trattamenti per questa condizione (Tab. VI), che
determina un aumentato rischio di frattura (57% ad un follow-up
di 40 dalla diagnosi) (Lucas et al., 1999). Solo il recupero del peso
corporeo e il ritorno ad una normale ciclicità mestruale sembrano
essere in grado di migliorare il deficit di mineralizzazione ossea, in
particolare nelle adolescenti, dove la patogenesi è più complessa
derivando sia da un aumento del riassorbimento osseo, che da un
deficit di osteoformazione (Tab. IV) (Misra e Klibanski, 2011; Warren, 2011). Tuttavia un recente trial in doppio cieco ha suggerito
che l’utilizzo di estrogeni per via transdermica sarebbe in grado di
determinare un miglioramento del BMD, in quanto tale modalità di
somministrazione non interferirebbe con la sintesi epatica di IGF1
(Misra et al., 2011). Rimangono tuttavia da definire i dosaggi più
adeguati per questa fascia di età e per i vari stadi puberali e l’impatto psicologico della ciclicità mestruale su queste ragazze. Un altro
studio in doppio cieco ha prospettato l’utilizzo associato di estrogeni
e DHEA per os (Di Vasta et al., 2012). Non si hanno dati per quanto
riguarda i pazienti maschili. Inoltre, non è ancora conosciuto se negli
adolescenti la guarigione è in grado di assicurare il raggiungimento
di un picco di massa ossea adeguato al potenziale genetico.
Tabella V.
Anoressia nervosa: indicazioni all’ospedalizzazione nell’adolescente.
Parametro
Criteri medici
Criteri psichiatrici
Frequenza cardiaca, battiti/min.
Sintomatica o < 50
Ideazioni suicide
Pressione arteriosa, mmHg
< 80/50 (o ipotensione posturale)*
Incapacità ad un’alimentazione autonoma per via orale
Ipoglicemia, mg dl
Sintomatica o <54
Co-morbilità psichiatrica severa
Potassiemia, mEq/L
ridotta
Problematiche familiari gravi (es. abusi)
Fosfatemia
ridotta
Temperatura, °C
Ipotermia
Peso
Rapido decremento° o mancato incremento
(in trattamento domiciliare)
Altre
Convulsioni, pancreatite
°­ anche se peso > 75% del peso ideale
*sintomatica o asintomatica.
80
(<3 mEq/L)
Scarsa adesione al trattamento
ambulatoriale o insuccesso dello stesso
I disturbi del comportamento alimentare in adolescenza
Tabella VI.
AN e deficit di massa ossea: strategie terapeutiche nell’adolescente.
Terapia
Effetto su aumento BMD
Effetto su marker ossei
Vitamina D+ calcio
inefficace
inefficace
Correggere deficit, se presente
Estrogeni (per os)
inefficace
inefficace
Valutare rischio tromboembolico e effetto
psicologico
Estrogeni (transdermici)
efficace
efficace
1 solo studio, ma randomizzato in doppio cieco
Estrogeni os + DHEA
efficace
efficace
1 solo studio, randomizzato, dati meno sound
GH
inefficace
inefficace
IGF1
efficace
efficace
Bisfosfonati
Recupero BMI e del ciclo mestruale
inefficace
efficace
Il ruolo del pediatra nei DCA
I pediatri di famiglia hanno un ruolo primario nella diagnosi precoce
dei DCA, anche se l’estrema eterogeneità delle espressioni sintomatiche di questi disturbi ne rende complessa l’intercettazione. Persiste infatti un importante ritardo diagnostico, intorno a 8-12 mesi per
quanto riguarda l’AN, mentre l’urgenza nell’attivare tempestivamente i percorsi (in termini di strutture e figure specialistiche) più idonei
ad aiutare i minori con DCA e le loro famiglie nelle varie fasi cliniche
della malattia nasce dalla consapevolezza del determinismo psicopatologico di queste forme, che rende inutile semplici e soli consigli
nutrizionali e dal fatto che una precoce diagnosi e un trattamento
adeguato sono in grado portare alla guarigione entro 5 anni e a una
successiva buona qualità di vita per la maggioranza dei pazienti (Kell
e Brown, 2010). I segni di allarme per l’insorgenza di un DCA, cui si
deve porre particolare attenzione sono:
• preoccupazione per il cibo ed il peso: dieta eccessiva, conto delle calorie, pesarsi più volte al giorno;
Note
Associata a estrogeni per os, 1 solo studio con sole
pazienti adulte
Efficace nella donna adulta, lunga emivita (> 10
anni) con rischio teratogeno sconosciuto
efficace
Trattamento più fisiologico indicativo anche di un
recupero neuropsichiatrico
• sentimenti di colpa e di vergogna relativamente all’alimentazione (es. non volere mangiare di fronte agli altri);
• comportamenti bulimici e/o di eliminazione (compresa l’eccessiva attività fisica);
• sentirsi grassi pur essendo il peso normale;
• eccessiva attenzione all’esteriorità;
• ipersensibilità verso critiche di ogni tipo, in particolare rivolte al
corpo;
• cambiamenti emotivi: irritabilità, tristezza, ritiro sociale.
Il medico e tutto il personale sanitario devono poi essere consapevoli
che – soprattutto in età adolescenziale – possono anche svolgere
un ruolo “iatrogeno”, cioè rappresentare un elemento scatenante il
DCA, laddove la richiesta di una dieta dimagrante non venga adeguatamente vagliata e riconosciuta come incongrua o vengano inadeguatamente prescritte diete ipocaloriche troppo rigide in soggetti
in sovrappeso.
Box di orientamento
Cosa si sapeva prima
I DCA sono un gruppo di condizioni estremamente complesse dal punto di vista clinico e ezio-patogenetico e strettamente intercorrelate tra loro dalla
presenza di un anomalo rapporto con il cibo e di un’alterazione nella percezione del proprio peso e della propria immagine corporea. Spesso la loro
insorgenza si verifica in adolescenza e il rischio di mortalità elevato.
Cosa sappiamo oggi
I DCA:
• rappresentano un rilevante problema di salute pubblica (vera e propria emergenza sociale): si stima che in Italia ne siano affetti circa 2 milioni di
adolescenti, anche se non sono disponibili dati epidemiologici certi;
• hanno presentato un progressivo abbassamento della soglia d’insorgenza con una comparsa sempre più frequente in età peri-puberale, per cui il
loro riconoscimento è sempre più di pertinenza del pediatra;
• se diagnosticati precocemente e tempestivamente presi in carico all’interno di un percorso multidisciplinare di un team specialistico hanno buone
probabilità di evoluzione a lungo termine in termini di qualità della vita.
Cosa ci aspettiamo nei prossimi anni
Le nuove teorie transdiagnostiche potrebbero portare all’identificazione delle basi neurobiologiche comuni per tutti i DCA, con rilevanti ripercussioni in
termini di identificazione dei minori a rischio e di nuovi approcci terapeutici.
81
S. Maestro, G.I. Baroncelli, S. Ghione, S. Bertelloni
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Corrispondenza
Silvano Bertelloni, Sezione di Medicina dell’Adolescenza, Dipartimento Materno-Infantile, Azienda Ospedaliera Universitaria Pisana, Via Roma, 67,
56126 Pisa. Tel.: + 39 050 992 743. Fax: + 39 050 993 044. E-mail: [email protected]
83
Vaccinazioni
Molto bene e altrettanto opportunamente, sia Alberto Tozzi che Pierluigi Lopalco sottolineano in questo numero di Prospettive in Pediatria la
necessità, da parte del pediatra, di una sempre maggiore apertura al confronto con i genitori e i ragazzi su tutti gli aspetti più controversi
delle vaccinazioni e sull’urgenza di coinvolgere le famiglie, con un modello partecipativo, alle scelte di politica vaccinale. Dobbiamo finalmente imboccare la strade del parent and population empowerment. L’ostacolo principale che oggi incontrano le vaccinazioni è stato assai
ben sintetizzato da Heidi J. Larson et al. (Lancet 2011;378:536-5): “è essenziale fornire al pubblico un’informazione onesta, basata sulle
prove disponibili in merito alla sicurezza e al rapporto rischi-benefici di ogni vaccino. Ma quest’informazione, da sola, non sarà in grado
di vincere la sfiducia e il dissenso dell’opinione pubblica nei confronti dei vaccini”. Per soggiungere subito dopo: “Le scelte della gente in
merito alle vaccinazioni non sono determinate esclusivamente dall’evidenze scientifiche o economiche, ma anche da un insieme di fattori
scientifici, economici, psicologici, socioculturali e politici; fattori che vanno tutti compresi e tenuti in considerazione dai politici e da tutti gli
altri coinvolti nei processi decisionali”.
In ultima analisi “Dobbiamo costruire e mantenere la fiducia della comunità nelle vaccinazioni”.
Sembrano quindi confluire, in un quadro sociologico complesso, elementi di razionalità empirica da illuminismo scozzese (l’informazione
basata sulle prove disponibili, i rapporto rischi benefici…) ed elementi, come la fiducia, che ben poco hanno a che vedere con la razionalità.
D’altro canto, perché sorprendersi? La critica della razionalità, da Rousseau a Nietzsche e Heidegger, per arrivare agli esistenzialisti e ai loro
epigoni decostruttivisti, è ormai entrata a far parte, più ancora che della nostra cultura filosofica, della stessa vita vissuta di tutti i giorni.
Ma se la fiducia – piaccia o non piaccia – rappresenta il determinante, o quanto meno uno dei determinanti principali dell’adesione, allora
le vaccinazioni sembrano organizzarsi nel nostro Paese con l’obiettivo di ridurre ai minimi termini adesione e coperture. I genitori hanno
ovviamente fiducia nel pediatra di famiglia, che segue il loro bambino fin dalla nascita. Ma il pediatra ha un ruolo marginale e accessorio
nell’organizzazione delle vaccinazioni. Secondo le circolari ministeriali, dovrebbe informare le famiglie e promuovere le vaccinazioni. Incidentalmente, i dati dell’Istituto Superiore di Sanità dimostrano che il pediatra è il più ascoltato dai genitori in tema di vaccinazioni: molto
più degli uffici vaccinali, della stampa o di chiunque altro. Ma, al momento della vaccinazione, nell’ufficio di Igiene (o ambulatorio vaccinale,
poco cambia) genitori e bambino si troveranno di fronte ad un medico mai visto prima che, se tutto va per il meglio, spiegherà loro benefici
e rischi della vaccinazione e la praticherà o la farà praticare. Esattamente l’opposto di quanto avviene in quasi tutti i paesi industrializzati,
dove è il medico di famiglia (pediatra o meno) a praticare la vaccinazione. Nel Regno Unito è il General Practitioner (GP) a richiamare i
bambini, ad informare genitori e ragazzi sui benefici e sugli effetti collaterali e a praticare la vaccinazione nel proprio studio, comunicando
all’igiene pubblica l’avvenuta vaccinazione. Gli igienisti del NHS svolgono un ruolo di straordinaria importanza: tengono le anagrafi vaccinali
(tutte collegate online), informano il GP sulle coperture tra i suoi pazienti e sull’andamento delle malattie prevenibili con le vaccinazioni e
soprattutto elaborano le strategie vaccinali, sia globalmente che a livello locale.
È troppo sperare che anche il nostro Paese imbocchi infine questa strada? Tanto più che i problemi della memoria vaccinale, come si evince
chiaramente dalla bella review di Carsetti e Tozzi, sono destinate ad aggravarsi. Per fortuna, i meccanismi che assicurano la generazione
e il mantenimento della memoria immunitaria, per lungo tempo oscuri, cominciano a chiarirsi e queste nuove conoscenze contribuiranno
senz’altro alla costruzione di vaccini più efficaci.
Quello che occorre, però, è (anche) il coraggio di cambiare.
Alberto G. Ugazio
Ospedale Bambino Gesù, Roma
85
Aprile-Giugno 2013 • Vol. 41 • N. 170 • Pp. 87-93
Vaccinazioni
La paura delle vaccinazioni: le motivazioni
dell’opposizione e dell’esitazione
da parte dei genitori
Alberto E. Tozzi
Area di ricerca di Malattie Multifattoriali e Fenotipi Complessi, Ospedale Pediatrico Bambino Gesù, Roma
Riassunto
Il fenomeno dell’opposizione alle vaccinazioni e del timore degli effetti collaterali associati alle vaccinazioni ha radici lontane, all’origine delle strategie
vaccinali. Numerosi effetti collaterali attribuiti alle vaccinazioni hanno causato un incremento della preoccupazione del pubblico nei confronti della sicurezza
dei vaccini. Sono stati condotti numerosi studi per verificare una possibile associazione tra alcuni effetti collaterali gravi e vaccini specifici e invariabilmente
tali studi hanno dimostrato un bilancio rischi/benefici favorevole alle vaccinazioni. La difficoltà di trasmettere informazioni adeguate circa i presupposti delle
strategie vaccinali si è acutizzata in concomitanza della pandemia influenzale. È necessario ripensare alle risorse che dovrebbero essere offerte al pubblico
in termini di informazioni e partecipazione ai processi decisionali delle vaccinazioni.
Summary
The opposition to vaccines and the fear of side effects associated with immunizations have early roots at the start of immunization strategies. Several
adverse events alleged to immunization have increased the public concern about safety of vaccines. Several studies conducted to investigate the potential
association of specific vaccines and severe adverse events, have systematically demonstrated a risk/benefit balance in favor of immunizations. The issue
of correctly transmitting information on immunization strategies exacerbated during the 2009 influenza pandemic. We should re-think about the resources
that should be offered to the families, in terms of information and participation in decisional processes on immunizations.
Introduzione
Il fenomeno dell’opposizione alle vaccinazioni conosce in questi anni
una forte ripresa nei paesi industrializzati, Italia compresa. Nel solo
2012 si sono susseguiti nel nostro Paese numerosi episodi, che hanno
messo in discussione la credibilità delle strategie vaccinali e la fiducia
nelle vaccinazioni, con grande sconcerto dei genitori, specie di quelli
che si apprestano ad eseguire le vaccinazioni di routine per i propri
figli (vedi box).
La fitta sequenza di eventi ha innescato una vera tempesta mediatica
e, parallelamente, un aumento delle preoccupazioni dei genitori. Nello
stesso tempo, l’interesse dei media ha rimesso in evidenza l’attività
dei movimenti, che si oppongono alle vaccinazioni e che denunciano
la certezza dell’associazione tra vaccinazioni ed alcuni gravi eventi
avversi. Perché succede tutto questo? Un’analisi storica che permetta
di comprendere gli eventi scatenanti e le modalità per rispondere ai
pressanti quesiti dei genitori sono il tema di questo articolo.
Breve storia dei movimenti antivaccinali
Dopo la scoperta di Jenner e la pubblicazione del successo della
vaccinazione contro il vaiolo nel 1796, le vaccinazioni hanno presto
conosciuto una decisa opposizione. La nascita dei primi movimenti
di opposizione risale in Gran Bretagna al 1853, fino alla creazione di
un gruppo organizzato nel 1867, The Anti-compulsory Vaccination
League (Wolfe, 2002). A quell’epoca l’applicazione dell’obbligo vaccinale era inappellabile e i trasgressori venivano multati e talvolta
imprigionati. Negli Stati Uniti il primo gruppo contro le vaccinazioni
viene creato nel 1879, dopo la visita del leader delle organizzazioni
antivaccinali inglesi: è la Anti-Vaccination Society of America (Worl-
Box
Gli eventi sui vaccini con maggiore risonanza sui media del 2012
Nel mese di marzo 2012, il Tribunale di Rimini ha riconosciuto un indennizzo per danni causati dalla vaccinazione alla famiglia di un bambino,
che a breve distanza dalla vaccinazione contro morbillo, parotite e rosolia ha sviluppato disturbi dello spettro autistico, associati a un ritardo
cognitivo di media gravità (Tribunale Ordinario di Rimini, 2012).
Nel mese di settembre, il Tribunale di Rieti ha riconosciuto un ulteriore
indennizzo alla famiglia di un bambino, che dopo le vaccinazioni di routine del primo anno di vita, ha sviluppato un diabete di tipo 1 (Tribunale
di Rieti, 2012).
La Corte d’Appello di Torino, durante il mese di luglio, ha riconosciuto un
indennizzo milionario ad una famiglia, la cui figlia dopo la vaccinazione
contro difterite e tetano, ha sviluppato febbre, convulsioni e successivamente è entrata in coma. La Corte ha anche condannato il medico
che, secondo la sentenza, avrebbe dovuto somministrare un farmaco
cortisonico per prevenire l’accaduto (La Repubblica, 2012).
Il CODACONS, nel mese di luglio, durante la vivace discussione politica sulla spending review, ha proposto di sospendere la vaccinazione
contro pertosse e Hib, per conseguire un risparmio cospicuo dei fondi
sanitari (CODACONS, 2012).
Durante l’autunno, la distribuzione di un vaccino influenzale sul territorio italiano è stata sospesa per una possibile contaminazione durante la
produzione. I vaccini ritirati sono stati poi rilasciati, perché rispondenti
ai requisiti standard previsti dalla legge (Ministero della Salute, 2012).
Una commissione di inchiesta del Senato sta studiando la relazione tra
le vaccinazioni effettuate al personale militare in missione all’estero e
l’insorgenza di patologie tumorali (Senato della Repubblica, 2012).
87
A.E. Tozzi
fe, 2002). La letteratura del periodo è ricca di contributi da parte di
questi gruppi, che pubblicarono numerosi pamphlet, saggi e riviste
sull’argomento. Da allora ai giorni nostri, le azioni dei movimenti
contro le vaccinazioni si susseguono regolari con una sconcertante
costanza degli argomenti alla base dell’opposizione (Wolfe, 2002).
Nel 1973 un medico inglese, John Wilson, comparve in televisione per
commentare i risultati di un proprio studio, nel quale si concludeva che
a causa della vaccinazione contro la pertosse ogni anno in Gran Bretagna venivano osservati 100 bambini con danno cerebrale (Offit, 2012).
In quell’anno la copertura vaccinale per la pertosse era del 79%. La
Gran Bretagna sperimentò un’epidemia di pertosse memorabile negli
anni successivi, a causa della diminuzione della copertura vaccinale
che era del 31% nel 1977. Nel 1982, una TV americana mandò in
onda un documentario dal titolo Vaccine Roulette. Nel documentario
vennero presentati una serie di casi di malattia neurologica insorti
dopo la vaccinazione contro difterite, tetano e pertosse, attraverso la
testimonianza dei genitori (Offit, 2012). È l’inizio dei movimenti antivaccinali dell’era moderna ed il vaccino sotto accusa è la componente
pertosse del vaccino difterite-tetano-pertosse (DTP). Dal movimento di
opinione relativo a questa trasmissione nasce il movimento DPT, Dissatisfied Parents Together, che negli anni ’90 diventa National Vaccine
Information Center (Offit, 2012).
Nel più recente periodo, i movimenti che si oppongono alle vaccinazioni si sono concentrati sulla diffusione delle informazioni attraverso Internet. Alcuni di questi movimenti in realtà dichiarano di voler
sostenere le attività vaccinali in favore della sicurezza dei prodotti
disponibili (Poland e Jacobson, 2012). La maneggevolezza e la facilità d’uso di Internet hanno permesso alle comunità online che si
oppongono alle vaccinazioni di diventare popolari, oltrepassando i
confini nazionali e superando le barriere linguistiche (Kata, 2012).
I miti e i risultati controversi: gli effetti collaterali
gravi imputati alle vaccinazioni
Sindrome di Guillain-Barré e vaccino influenzale
Nella stagione influenzale, tra il 1976 e il 1977, venne segnalata
un’inusuale elevata frequenza di sindrome di Guillain Barré dopo
Figura 1.
Un disegno satirico che raffigura Edward Jenner mentre somministra il
vaccino del vaiolo ad alcune donne. La vaccinazione, nella vignetta, fa
crescere parti bovine sul corpo dei vaccinati.
(Fonte: Library of Congress, Prints & Photographs Division, LCUSZC4-3147; Wikimedia)
88
la vaccinazione influenzale contro un ceppo A(H1N1) negli USA
(Lngmuir et al., 1984). A seguito di quest’osservazione e dalla revisione di una serie di studi da parte dell’Institute of Medicine nel
2003, quest’ultimo concluse che le evidenze disponibili erano in
favore di una relazione causale tra il vaccino utilizzato nel 1976-77
e la sindrome di Guillain-Barré nell’adulto (Institute of Medicine,
2003). La relazione causale tra vaccino antinfluenzale e sindrome di Guillaine-Barré è stata messa in discussione nelle stagioni
influenzali successive, durante le quali non è emersa la presenza
di alcuna associazione. Alla luce della revisione di diversi studi,
l’Institute of Medicine ha concluso più recentemente che le evidenze epidemiologiche disponibili depongono per l’assenza di una
relazione causale tra vaccinazione ed evento, ma che questa non
può essere esclusa categoricamente e che le evidenze disponibili
sono insufficienti per accettare o rigettare tale relazione (Stratton
et al., 2012). Un recente studio effettuato in Canada ha mostrato
una modesta associazione tra la vaccinazione influenzale A(H1N1)
effettuata nel 2009 e l’insorgenza di sindrome di Guillain-Barré
(De Wals et al., 2012). In questo studio, in cui sono stati rivisti tutti
i casi di sindrome di Guillain-Barré verificatisi durante la stagione
influenzale, i 4 casi pediatrici riportati durante la sorveglianza in
età compresa tra 6 mesi e 9 anni non avevano ricevuto la vaccinazione o l’avevano ricevuta più di 8 settimane dall’insorgenza della
malattia (De Wals et al., 2012). Dall’insieme degli studi disponibili
sembra evidente che l’associazione tra vaccino influenzale e sindrome di Guillain-Barré, nella stagione tra il 1996-97, fosse sostanziale ma che nelle stagioni che si sono susseguite, se il rischio
esiste, questo è limitato alle persone oltre i 50 anni e che potrebbe
forse giustificare l’osservazione di un caso di malattia addizionale
ogni milione di dosi somministrate (Nelson, 2012).
Sclerosi multipla e vaccino contro l’epatite B
Tra il 1995 e il 1997 furono osservati diversi casi di sclerosi multipla
a distanza di poche settimane dalla somministrazione di vaccino antiepatite B, ricombinante durante una campagna vaccinale di massa
in Francia (Mashall, 1998). Sulla base di alcuni risultati preliminari
di alcuni studi condotti in Francia e in UK che fornivano risultati non
conclusivi, il governo francese decise di interrompere la campagna
vaccinale nel 1998 (Hall et al., 1999). Diversi studi hanno successivamente esaminato la possibile associazione tra vaccino epatite B
e sclerosi multipla. Una revisione sistematica di nove studi effettuati
sull’argomento non ha permesso di raggiungere evidenze conclusive circa questa associazione (Demicheli et al., 2003). La discussione
su questo argomento tuttavia è rimasta vivace fino al recente passato, quando due studi hanno suggerito la necessità di riesaminare i
dati a disposizione a causa di una possibile associazione (Mikaeloff
et al., 2009; Herna’n et al., 2004). I risultati di questi studi, ampiamente diffusi dalla stampa, non avevano una giustificazione statistica sufficiente per essere considerati solidi. Una più recente revisione
sistematica ha ripreso in esame l’argomento, includendo 12 studi
(Martínez-Sernández et al., 2012). Questa revisione ha escluso la
presenza di un’associazione ed ha discusso dettagliatamente i limiti metodologici degli studi, che invece sembravano suggerire una
relazione tra vaccinazione e malattie demielinizzanti. Data la genesi
presumibilmente multifattoriale della malattia, compresa una predisposizione genetica, gli autori ammettono tuttavia la difficoltà di
raggiungere risultati definitivi e la necessità di condurre ulteriori studi di grandi dimensioni. L’eventuale rischio associato alla vaccinazione, considerando le stime degli studi che hanno suggerito questa
associazione, è tuttavia estremamente modesto e non giustifica la
rinuncia al beneficio della vaccinazione.
La paura delle vaccinazioni
Encefalopatia e vaccino contro la pertosse
Nel gennaio 1974 venne pubblicato un articolo su una serie di 36
casi di bambini inglesi che secondo gli autori avevano sofferto di
gravi complicazioni neurologiche, causate dalla vaccinazione contro
la pertosse (Kulenkampff, 1974). Questo evento provocò una vera
tempesta mediatica in Gran Bretagna ed una serie di discussioni
sulla sicurezza del vaccino antipertosse a cellule intere, che allora
era il prodotto utilizzato per la vaccinazione. La copertura vaccinale
in UK crollò rapidamente e 3 epidemie si susseguirono fino all’inizio
degli anni ’80, con oltre 100.000 casi e circa 40 decessi (Baker,
2003). Una componente importante del fenomeno di opposizione
alle vaccinazioni in questa situazione fu dovuta ai numerosi medici,
che in buona parte sconsigliavano la vaccinazione ai propri pazienti
(Baker, 2003). Dalla vivace discussione nacque l’iniziativa di promuovere uno studio epidemiologico, il National Childhood Encephalopathy Study, per stabilire l’associazione causale tra vaccinazione
contro la pertosse ed eventi neurologici (Alderslade et al., 1981). Lo
studio in questione, uno studio caso-controllo, suggerì una modesta
associazione tra vaccino ed eventi neurologici permanenti, che in
termini assoluti era quantificabile in 1 danno neurologico permanente ogni 310.000 dosi (Alderslade et al., 1981). Numerosi studi, volti
a stabilire la validità di tali conclusioni, si sono susseguiti. Lo stesso
studio inglese, alla luce di una rianalisi dei dati, sebbene suggerisse
un modesto aumento degli eventi neurologici a breve distanza dalla
vaccinazione, dimostrava una riduzione degli stessi nel periodo successivo (MacRae, 1988). In un noto editoriale pubblicato nel 1990,
intitolato è ora di riconoscere che l’encefalopatia dopo la vaccinazione antipertosse è un mito, l’autore concludeva che era necessaria
l’introduzione di nuovi vaccini meno reattogenici, non a causa della
possibile associazione con l’encefalopatia, ma per ridurre una serie
di effetti collaterali relativamente frequenti anche se non gravi, come
febbre, pianto persistente, ed episodi di ipotonia (Cherry, 1990). Nel
1993 l’Institute of Medicine concluse, dopo una revisione della letteratura, che i dati disponibili erano coerenti con un’associazione
causale tra il vaccino a cellule intere contro la pertosse e l’encefalopatia, anche se le evidenze disponibili non potevano considerarsi
conclusive, e che le stesse evidenze erano insufficienti a indicare la
presenza o l’assenza di una relazione causale (Cowan et al., 1993).
A metà degli anni ’90, la maggior parte dei paesi industrializzati ha
optato per i vaccini acellulari contro la pertosse. Ulteriori studi sono
stati eseguiti per valutare retrospettivamente i casi di encefalopatia,
e per esaminare un’eventuale diminuzione della frequenza di encefalopatia dopo l’introduzione dei vaccini acellulari. Tali studi hanno
definitivamente escluso il rischio di questa complicanza, associato
ai vaccini a cellule intere contro la pertosse (Moore et al., 2004; Ray
et al., 2006).
Vaccinazioni e Sudden Infant Death Syndrom (SIDS)
Nel 1986 vennero osservati in Francia 5 casi di SIDS entro 24 ore
dalla vaccinazione contro difterite-tetano-pertosse-poliomielite, in
un periodo di tre settimane (Flahault et al., 1988). Durante quel periodo la componente antipertosse utilizzata era a cellule intere. Uno
studio del cluster di casi ed una revisione delle evidenze disponibili
concluse per l’assenza di un’associazione tra vaccinazione e SIDS
(Bouvier-Colle et al., 1989) ed altri studi fornirono risultati discordanti (Flahault et al., 1988; Walker et al., 1987). Il più grande studio
caso-controllo eseguito negli USA, che raccoglieva informazioni cliniche su circa 800 casi di SIDS, concluse per l’assenza di un’associazione causale (Hoffman et al., 1987). Alcuni di questi studi furono
rivolti alla ricerca di alterazioni del pattern della respirazione durante
il sonno in popolazioni ad alto rischio con esito negativo (Keens et
al., 1985; Loy et al., 1998). L’ipotesi di un’associazione tra vaccinazioni e SIDS è riemersa in letteratura anche recentemente (von Kries
et al., 2005; Traversa et al., 2011). La coincidenza temporale tra le
vaccinazioni ed il periodo di più elevata incidenza della SIDS ha reso
complesso l’approccio all’analisi delle informazioni disponibili per
questo problema. Anche tenendo conto dell’associazione temporale,
la revisione degli studi disponibili sull’argomento ha comunque mostrato l’assenza di un’associazione tra le vaccinazioni e l’insorgenza
di SIDS (Traversa et al., 2011; Kuhnert et al., 2012).
Vaccino morbillo-parotite-rosolia (MPR) e autismo
Il caso dell’associazione tra vaccino MPR e autismo rappresenta
forse l’esempio più noto di una distorta valutazione dei dati a disposizione in uno studio scientifico. Tutto iniziò con la pubblicazione, su
Lancet nel 1988, di una serie di 12 casi con malattia infiammatoria
cronica intestinale e autismo (Wakefield et al., 1998). L’ipotesi degli
autori era che il virus vaccinale del morbillo fosse responsabile di un
disordine a carico dell’intestino, che poi era progredito in una sindrome dello spettro autistico. L’articolo fu successivamente ritrattato
ed il primo autore perseguito per uso fraudolento dei dati e falsificazione (Flaherty, 2011). Una delle prove sulle quali si era discusso
riguardava la presenza di genoma virale del virus del morbillo nei
casi di autismo, che alcuni studi stimavano di proporzioni elevate
(Uhlmann et al., 2002). Gli studi che hanno tentato di confermare
questi risultati, utilizzando tecniche specifiche, hanno tuttavia escluso la presenza di genoma virale in campioni di leucociti di pazienti
con autismo e hanno imputato ad una potenziale contaminazione i
risultati degli altri autori (Afzal et al., 2006).
Numerosi studi sono stati pubblicati per verificare l’assenza di
un’associazione tra vaccinazione e autismo e tutti invariabilmente hanno dimostrato l’assenza di tale associazione, documentata
dall’Institute of Medicine che nel 2004, sulla base delle evidenze, riteneva queste ultime sufficienti per rigettare l’associazione causale
(Immunization Safety Review Committee, 2004). La più recente revisione sistematica degli studi disponibili sull’argomento conferma
che l’insieme degli studi disponibili sull’associazione vaccino MPR e
autismo esclude la presenza di una relazione tra questi eventi (Demicheli et al., 2012).
Thimerosal e sviluppo neuropsicologico
Uno studio eseguito nelle isole Faroe suggerì che una dieta ricca di
pesce di grossa taglia durante la gravidanza, ed un livello ematico
più elevato di metilmercurio, fossero associati ad un ritardo nello
sviluppo neuropsicologico del bambino (Grandjean et al., 1997).
Una modesta associazione tra i livelli ematici di metilmercurio e
alcune scale di misura dell’intelligenza furono anche osservate in
uno studio neozelandese (Kjellstrom et al., 1989). Uno altro studio,
condotto sullo stesso argomento nelle isole Seychelles, non fornì
conferma di tale associazione (Davidson et al., 1998). Anche se il
composto contenuto nel thimerosal (un conservante utilizzato nelle
preparazioni vaccinali) ha caratteristiche diverse da quello assunto
per via alimentare (etilmercurio), una serie di studi si concentrarono
sull’effetto delle vaccinazioni su una serie di eventi neurologici e sullo sviluppo neuropsicologico. Una delle associazioni riportate da alcuni autori riguardava ancora una volta l’autismo (Geier et al., 2003).
Dopo una sequenza di studi con conclusioni dubbie, due grandi studi
affrontarono il problema (Tozzi et al., 2009; Thompson et al., 2007).
Nello studio effettuato in Italia, condotto su una coorte di bambini
che avevano partecipato ad un precedente clinical trial, i gruppi a
confronto erano randomizzati a diverse dosi di etilmercurio (Tozzi et
89
A.E. Tozzi
al., 2009). I risultati di questi studi non dimostrarono associazioni
coerenti tra l’esposizione a etilmercurio e misure di outcome di sviluppo neuropsicologico. L’Organizzazione Mondiale della Sanità, alla
luce delle evidenze disponibili, ha concluso recentemente che non è
necessario condurre ulteriori studi sull’argomento e che le evidenze
disponibili sono sufficienti a supportare la sicurezza del thimerosal
contenuto nei vaccini (Global Advisory Committee on Vaccine Safety,
2012). Il thimerosal è comunque stato eliminato dalle preparazioni
vaccinali disponibili.
Il caso della pandemia influenzale
La risonanza mediatica che si è accompagnata alla pandemia influenzale del 2009 ha certamente avuto un impatto sulla percezione da
parte del pubblico dell’utilità di programmi vaccinali di popolazione. I
piani di preparazione per la pandemia influenzale erano stati intensificati a partire dal 2005, quando l’influenza aviaria A/H5N1 sembrava
rappresentare una minaccia globale (Hanquet et al., 2011). Nello scenario pandemico sono confluite due componenti principali percepite
dal pubblico: il timore di ricevere vaccini adiuvati, considerati nuovi e
scarsamente sperimentati, e la percezione di una modesta virulenza
del virus pandemico A(H1N1) (Tab. I). Questa situazione ha stimolato la
diffusione di numerose false informazioni che hanno freneticamente
percorso vari canali di comunicazione in particolare sulla sicurezza
del vaccino e sugli interessi economici delle campagne vaccinali. A
questo scenario non è sfuggita l’Italia dove, come altrove, la copertura vaccinale è stata scadente anche nelle categorie a rischio. I dati
disponibili in letteratura indicano chiaramente che la scarsa copertura
vaccinale ottenuta per il vaccino influenzale durante la pandemia è
stata associata ad una errata percezione del profilo di sicurezza ed
efficacia dei vaccini disponibili prodotta dalla pioggia di informazioni
conflittuali disponibili (d’Alessandro et al., 2012). Inoltre è stato anche
evidente che, piuttosto che dipendere dal livello informativo personale,
la decisione di vaccinarsi contro l’influenza A(H1N1) era associata alla
raccomandazione del proprio medico di fiducia (d’Alessandro et al.,
2012). L’efficacia sul campo dei vaccini disponibili negli USA era stata
stimata al 56% (Griffin et al., 2011) e l’impatto in termini di decessi
e ricoveri risparmiati della vaccinazione pandemica è documentato in
letteratura (Borse et al., 2013).
Le motivazioni delle preoccupazioni dei genitori
L’atteggiamento diffidente del pubblico e talvolta l’aperta opposizione alle vaccinazioni dei propri figli ha in principio diverse cause. Non
stupisce che una delle più importanti riguardi la percezione di una
elevata probabilità di incorrere in un grave effetto collaterale. Spesso tali preoccupazioni sono innescate da un evento locale, ma data
la rapidità e la diffusione su scala globale delle notizie di qualsiasi
tipo, eventi come i cambiamenti delle strategie (come l’interruzione
della campagna vaccinale per epatite B in Francia o una campagna vaccinale straordinaria come quella pandemica), l’introduzione
di nuovi prodotti vaccinali, o la discussione sulla credibilità del governo, della sanità pubblica, o delle aziende produttrici di vaccini,
sono potenti stimoli all’aumento delle preoccupazioni dei genitori.
Tabella I.
Le motivazioni addotte dai pazienti che hanno rifiutato la vaccinazione contro l’infezione da virus A(H1N1) in due periodi della pandemia, USA
(SteelFisher et al., 2010).
Motivo
Percentuale
Adulti che rifiutano
la vaccinazione
per se stessi
Genitori che rifiutano
la vaccinazione
per i propri figli
Sono preoccupato degli effetti collaterali del vaccino
30
38
Dubito di avere una malattia grave a causa di H1N1
28
27
È possibile curare la malattia
26
Potrei prendere l’infezione H1N1 con la vaccinazione
21
24
Potrei avere un’altra grave malattia causata dalla vaccinazione
20
33
Il vaccino costa troppo
20
13
Non credo a quello che dicono gli esperti di sanità pubblica
19
31
Dubito dell’efficacia del vaccino
17
23
Ho paura delle iniezioni
16
15
Farò la vaccinazione contro l’influenza stagionale che protegge anche contro H1N1
14
12
Il medico mi ha consigliato di non vaccinarmi
10
7
Ho difficoltà di accesso all’ambulatorio vaccinale
8
4
Dubito che l’epidemia sia seria, come dicono gli esperti di sanità pubblica
37
32
Ho paura degli effetti collaterali del vaccino
35
56
Dubito di avere una malattia grave a causa di H1N1
30
20
È possibile curare la malattia
27
33
È troppo tardi per vaccinarsi
11
11
Ho avuto l’infezione da virus A(H1N1)
8
14
Settembre 2009
Gennaio 2010
90
La paura delle vaccinazioni
È altrettanto evidente che l’incertezza dei genitori aumenta quando
uno degli interlocutori principali su argomenti di salute, il pediatra,
assume un atteggiamento incerto o addirittura ideologicamente
contrario alle vaccinazioni. Numerosi autori, infatti, ribadiscono che
la raccomandazione del medico curante è uno dei determinanti più
forti di vaccinazione (Briss et al., 2000). Insieme a queste circostanze, la mancanza di chiari riferimenti per le informazioni sulla salute,
lascia spesso insoddisfatta l’esigenza delle famiglie di raccogliere
notizie dettagliate sulle scelte di salute e la possibilità di partecipare
e condividere le scelte che riguardano i propri figli.
Etica ed epidemiologia delle vaccinazioni
L’efficacia delle vaccinazioni per la prevenzione delle malattie trasmesse da persona a persona si basa su un principio diverso da
quello che regola le altre scelte terapeutiche. Le vaccinazioni sono
in fondo farmaci, ma vengono somministrate a persone sane, in particolare bambini. Inoltre, per le vaccinazioni di popolazione, tutti gli
individui sono inclusi e non esiste un criterio individuale per selezionare alcune persone piuttosto che altre. Questo approccio permette
di ottenere non solo un vantaggio diretto per la persona vaccinata,
ma anche un vantaggio indiretto per tutta la popolazione, che deriva
dall’arresto della circolazione dell’agente patogeno. Della herd immunity, infatti, non solo beneficiano gli individui generalmente sani,
ma anche quelli, per quanto numericamente esigui, che hanno controindicazioni specifiche alle vaccinazioni, come i soggetti con allergia grave alle componenti del vaccino, o gli immunodepressi. Le strategie vaccinali sono inoltre coordinate per raggiungere il fine ultimo,
per le malattie trasmesse da persona a persona, di interrompere la
circolazione dell’agente patogeno e di eradicare la relativa malattia,
interrompendo quindi la vaccinazione. Risulta evidente come l’opposizione alle vaccinazioni mini alla base il principio di coordinare le
azioni per raggiungere il massimo impatto delle strategie vaccinali.
Tutti i programmi di vaccinazione dovrebbero essere supportati da alcuni sistemi indispensabili: una sorveglianza degli eventi
avversi, che permetta l’identificazione di segnali che richiedono
approfondimento, perché spia di problemi di tollerabilità e/o sicurezza di singoli vaccini; un sistema che sorvegli l’andamento delle malattie infettive prevenibili con la vaccinazione; e un sistema
che permetta di monitorare la copertura vaccinale. Questi sistemi
permettono di gestire le attività vaccinali e consentono di raccogliere informazioni fondamentali per aggiustare le strategie esistenti e per fornire risposte concrete al pubblico. I dati continuamente aggiornati, insieme agli studi epidemiologici per valutare
la sicurezza e l’efficacia dei vaccini, rappresentano la più solida
base possibile per guidare le strategie vaccinali. Queste ultime si
basano su un principio che in medicina viene continuamente applicato: quello della valutazione del bilancio tra rischi e benefici.
Questo approccio, naturalmente, non può evitare che talvolta si verifichino alcuni effetti collaterali, anche gravi, causati dalla vaccinazione. Tuttavia la probabilità che uno di questi si verifichi, in confronto
alla probabilità di avere una grave malattia o una sua complicazione
è estremamente più piccola.
Verso un’adesione alle vaccinazioni libera,
consapevole e partecipativa
La Regione Veneto ha adottato un approccio di estremo interesse per
la gestione della diffidenza dei genitori verso le vaccinazioni (Valsecchi et al., 2011). Introducendo l’abolizione dell’obbligo vaccinale, in-
fatti, questa Regione ha esplorato approfonditamente i determinanti
del rifiuto vaccinale. Le caratteristiche dei genitori che dissentono e
rifiutano le vaccinazioni sono quelli che non hanno ricevuto il libretto
vaccinale, che si sentono poco informati sugli effetti collaterali dei
vaccini, che cercano informazioni sulle vaccinazioni da fonti alternative come Internet o le associazioni antivaccinali (Valsecchi et al.,
2011). A questi genitori i pediatri propongono spesso soluzioni di
compromesso, come l’esecuzione di una sola parte delle vaccinazioni previste per l’età (Valsecchi et al., 2011).
Ma una parte numericamente rilevante dei genitori, pur non avendo
un atteggiamento apertamente contrario alle vaccinazioni, è intimorita e disorientata e finisce per rimandare ad oltranza le vaccinazioni
previste: in inglese questo atteggiamento si chiama immunization
hesitancy (Luthy et al., 2009).
Quali soluzioni possono essere esplorate per trovare una soluzione
ad un panorama che, paradossalmente, nel tentativo di perseguire
il benessere delle popolazioni, viene criticato per i potenziali rischi
associati?
Anche se indispensabile, la semplice comunicazione delle informazioni, basate sull’evidenza circa il bilancio rischio-beneficio, non è
sufficiente. L’accettabilità delle vaccinazioni è infatti il prodotto di
una serie di altri fattori inclusi quelli scientifici, economici, psicologici, socio-culturali, e perfino politici. Per raggiungere lo scopo, oltre
l’abolizione dell’obbligo vaccinale e della odiosa distinzione tra vaccinazioni obbligatorie e facoltative, è forse opportuno assumere un
atteggiamento che potrebbe comprendere le seguenti componenti:
a) una maggiore apertura e confronto tra il pediatra e i genitori
sulle vaccinazioni. Abbastanza spesso si assiste ad una certa
reticenza nell’aperta discussione sulla sicurezza dei vaccini. Nonostante questo atteggiamento sia in buona fede, è necessario
riconoscere che è del tutto controproducente. Naturalmente una
maggiore apertura sul tema dei vaccini significa dedicare più
tempo a questo argomento nella discussione con i genitori. Le
risorse da dedicare a questo scopo vanno identificate accuratamente;
b) una formazione migliore del pediatra sull’argomento delle vaccinazioni. Si tratta di un punto da tempo discusso, che tuttavia
non ha trovato applicazione completa. Oltre la formazione sulle
basi immunologiche ed epidemiologiche delle vaccinazioni, una
formazione specifica dovrebbe essere dedicata alla sicurezza e
alla tollerabilità delle vaccinazioni, gli argomenti più complessi
nel confronto con i genitori;
c) una maggiore trasparenza delle informazioni sulle vaccinazioni.
Tranne alcune realtà locali, dove questo principio viene applicato
sistematicamente, molto resta da fare nel rendere disponibili in
tempo reale i dati di base sulle vaccinazioni: quelli relativi al
monitoraggio delle malattie infettive, alla copertura vaccinale, e
alla tipologia e frequenza di eventi avversi, associati alle vaccinazioni;
d) un coinvolgimento diretto delle famiglie nelle decisioni di sanità
pubblica sulle vaccinazioni. Non vi è alcun dubbio che tutta la
medicina è destinata ad adottare un modello partecipativo nel
quale il paziente e la sua famiglia contribuiscono attivamente
alle decisioni sulle cure. È tuttavia il momento di riflettere sulla
possibilità che rappresentanti delle famiglie siedano ai tavoli decisionali per le scelte sulle strategie vaccinali. Questo approccio
permetterebbe una più pronta condivisione delle informazioni e
delle scelte strategiche.
91
A.E. Tozzi
Box di orientamento
• I movimenti che si oppongono alle vaccinazioni non rappresentano un fenomeno recente e rappresentano l’espressione di una scadente informazione sul razionale delle vaccinazioni.
• Gli eventi gravi che sono stati ipotizzati come associati alle vaccinazioni sono stati oggetto di numerosi studi per la verifica di una relazione causale,
e la maggior parte di essi ha concluso che tali eventi si verificano per una coincidenza temporale.
• Il timore nei confronti delle vaccinazioni si è acuito nel corso della pandemia influenzale, durante la quale la vaccinazione di massa è stata eseguita
con prodotti percepiti dal pubblico come sperimentali e potenzialmente pericolosi.
• L’approccio informativo verso il pubblico, da solo, non può essere sufficiente a migliorare l’adesione alle vaccinazioni e rispondere ai numerosi
interrogativi del pubblico. è necessario che le famiglie e il pubblico siano coinvolti in prima persona nelle decisioni di sanità pubblica.
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Corrispondenza
Alberto E. Tozzi, Area di ricerca di Malattie Multifattoriali e Fenotipi Complessi, Ospedale Pediatrico Bambino Gesù, Piazza S. Onofrio, 4, 00165 Roma,
tel. +39 06 68592401. E-mail: [email protected]
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Aprile-Giugno 2013 • Vol. 41 • N. 170 • Pp. 94-97
Vaccinazioni
La comunicazione per la promozione
delle vaccinazioni
Pier Luigi Lopalco
European Centre for Disease Prevention and Control, Stockholm, Sweden
Riassunto
Nel mutamento complessivo del panorama delle vaccinazioni, nel corso degli ultimi anni la comunicazione ha assunto un ruolo sempre più rilevante.
Promuovere le vaccinazioni è diventato oggi un lavoro a tempo pieno per tutti gli operatori sanitari coinvolti e, ovviamente, il pediatra assume in questo
un ruolo centrale. In una prospettiva comunicativa individuale è necessario che il pediatra consideri poche regole fondamentali per instaurare un efficace
patto terapeutico con la famiglia. Nella mai sopita querelle sull’utilità delle vaccinazioni dell’infanzia il pediatra e la famiglia si trovano sullo stesso lato
della barricata, nell’unico interesse della salute del bambino. In ogni caso, le strategie di comunicazione individuale dovrebbero sempre essere inserite in
un piano più ampio, dove la promozione delle vaccinazioni rappresenti solo una componente di una strategia globale, che miri a promuovere il concetto di
prevenzione nel suo insieme e ad aumentare il livello di fiducia generale nella sanità pubblica.
Summary
Vaccination paradigm has deeply changed over the last years and communication became more and more relevant in such new scenario. Vaccination
education and promotion is today a full-time job for many health care workers and, among those, paediatricians are in the frontline. Few communication
rules have to be taken always into consideration for vaccination counselling, in order to put in place an efficient link with the families based on trust and
respect. Parents should feel that paediatricians are on their own side, when it comes to take decisions on childhood vaccination. On the other hand, individual communication strategies should be part of a wider strategic plan of health promotion, where communication is only one component. Improving the
level of trust in public health will benefit the vaccination programme and paediatricians should play a central role in such strategy.
Introduzione
Nel corso degli ultimi decenni il panorama dei programmi vaccinali
dell’infanzia è profondamente mutato. Un mutamento certamente
positivo, favorito dai veloci passi avanti fatti dalla ricerca nello sviluppare nuovi vaccini contro malattie precedentemente non prevenibili e nell’incrementare sicurezza ed efficacia dei vaccini tradizionali. D’altro canto, paradossalmente, con il miglioramento dell’offerta
vaccinale e la conseguente virtuale scomparsa di molte malattie
infettive dell’infanzia, è andata sempre più aumentando una resistenza nei confronti delle campagne vaccinali che nel passato era
certamente meno agguerrita (Shetty, 2010).
Per questo motivo il paradigma vaccinale, secondo cui le vaccinazioni sono sempre state considerate la migliore arma della sanità
pubblica per la lotta contro le malattie infettive, è progressivamente
mutato in una larga fascia dell’opinione pubblica e la necessità di
vaccinare i propri figli secondo quanto raccomandato dalle autorità
sanitarie è messa di volta in volta in discussione.
In un simile scenario “comunicazione” e “promozione” sono divenuti termini sempre più familiari per gli operatori sanitari, che hanno
dovuto adattarsi alla nuova situazione quando, dal dover gestire le
lunghe file di genitori che si formavano dietro le porte degli ambulatori durante le campagne di vaccinazione, si sono trovati a dover
sviluppare nuove strategie per modificare l’atteggiamento resistente
dei genitori nei confronti delle vaccinazioni (Lamden, 2010).
Anche il mondo della ricerca ha manifestato un nuovo interesse verso questi aspetti che fino a pochi anni fa erano del tutto negletti o
stretto appannaggio di pochi specialisti. Una ricerca, tramite la banca dati quali Pubmed, mostra come il numero di articoli pubblicati
94
su riviste mediche che contengono le parole chiave immunisation,
communication e promotion sia aumentato di ben 5 volte a partire
dagli anni ’80 fino al 2011, mostrando un andamento esponenziale
(Fig. 1).
Promuovere le vaccinazioni è dunque diventata una necessità per la
sanità pubblica e gli operatori sanitari che, in prima fila come fonte
di informazione privilegiata per i genitori (Heininger, 2006; Stefanoff,
2010; Schmitt, 2007; Lopalco, 2010), hanno oggi la necessità di diventare efficaci comunicatori (Gagnon, 2009).
Una corretta comunicazione: il primo passo per
promuovere le vaccinazioni
Quello del counselling è un momento centrale nel processo decisionale dei genitori. Il genitore che porta il proprio bambino dal pediatra, a prescindere dalle conoscenze o convinzioni personali, ha bisogno di ricevere quelle informazioni che possano ridurre il livello di
ansia e fugare le preoccupazioni, che naturalmente accompagnano
i primi appuntamenti con le vaccinazioni. È pertanto fondamentale
che il pediatra si ponga nei confronti del genitore nella prospettiva
corretta, in modo da avviare una comunicazione efficace ed il più
possibile empatica. È fondamentale, durante l’approccio con il genitore, comunicare in maniera chiara che il pediatra è dalla sua stessa
parte e che la scelta vaccinale scaturirà da una chiara e trasparente
alleanza fra medico e genitore, nell’unico interesse del bambino.
Potremmo, a questo proposito, fornire poche importanti regole da
tenere presenti nel counselling vaccinale per raggiungere questo
scopo (ECDC, 2012):
La comunicazione per la promozione delle vaccinazioni
Figura 1.
Numero di articoli inclusi nella banca dati Pubmed, selezionati con le parole chiave immunisation AND [communication OR promotion]. Distribuzione per anno di pubblicazione.
Prendere il tempo necessario ad ascoltare dubbi
e preoccupazioni del genitore
I genitori che arrivano all’appuntamento con il pediatra hanno certamente raccolto informazioni dalle fonti più disparate e hanno sicuramente qualche dubbio da chiarire prima di prendere la decisione di
vaccinare. Questo non deve mai essere interpretato come una mancanza di fiducia verso il pediatra. Se i genitori esprimono i loro dubbi è
perché hanno bisogno di conferme e di un parere esperto, ed il pediatra deve fare di tutto per instaurare un registro di ascolto attivo: mantenere il contatto visivo, evitare interruzioni, quali chiamate telefoniche
o distrazioni al computer, riformulare le preoccupazioni del genitore, in
modo da dimostrare che si è prestata attenzione alle loro parole. Pochi
banali accorgimenti possono significativamente aumentare il livello di
fiducia nei confronti del medico e diminuire lo stress della decisione.
Dimostrare di aver fatto ciò che si consiglia agli altri di fare
Un pediatra che non abbia completamente vaccinato i propri figli o
che non sia egli stesso vaccinato è assai poco credibile. Il recente
fallimento della vaccinazione anti-pandemica in Italia è stato certamente figlio della scarsa fiducia che gli stessi medici avevano nei
confronti della vaccinazione. Mai come in questo campo l’esempio
vale più di mille parole.
Spiegare i fatti, raccontando storie ed esempi e cercare di
parlare dei rischi che si possono correre non vaccinando il
bambino.
Alcuni genitori possono essere facilmente raggiunti da un messaggio
efficace, esponendo dati ed evidenze scientifiche, ma nella maggioranza dei casi il racconto di storie raggiunge molto più direttamente
lo scopo comunicativo. Ogni pediatra avrà centinaia di storie da raccontare su casi di malattia in bambini non vaccinati: raccontare un
esempio di vita vissuto colpisce sia la ragione che il cuore del genitore
e facilita il processo di immedesimazione, necessario per prendere
una decisione positiva. Molto spesso il medico affanna e cerca di con-
vincere i genitori, riferendo dati sulla sicurezza dei vaccini, quando
sarebbe più facile comunicare l’utilità della vaccinazione raccontando
la storia di un proprio paziente colpito da una malattia infettiva, perché
non vaccinato. Molti giovani genitori non hanno mai sentito parlare di
difterite o poliomielite e probabilmente non hanno mai visto un caso
serio di morbillo o pertosse. È necessario spiegare cosa significhino
oggi queste malattie, quale sia il reale rischio di esposizione e di complicanze gravi. La protezione del bambino dalla malattia deve essere
il centro concettuale della comunicazione nel corso del counselling
(Natter e Berry, 2005; Loewenstein et al., 2001; Hagger e Orbell,
2003).
Infine, è importante sottolineare che promuovere qualcosa per poi
renderla scarsamente accessibile o poco confortevole è certamente
tempo perso. Molto spesso una mancata vaccinazione è il risultato
di piccole grandi mancanze sul piano organizzativo-logistico. (Warner e Seleznick, 2004; CDC, 2013; Mason e Donnelly, 2003). Primo
fra tutti un sistema attivo di avvisi/richiami, per ricordare ai genitori
l’appuntamento vaccinale. L’assenza di sistemi di richiamo attivo è
una delle prime cause di mancata vaccinazione per la seconda dose
di vaccino anti-morbillo, parotite, rosolia. Questa dose cade nel calendario piuttosto lontana dal ciclo primario di vaccinazioni; pertanto
i genitori, in mancanza di un avviso, se ne dimenticano facilmente.
Orari confortevoli di accesso, sale d’attesa che eventualmente possano permettere l’allattamento, assenza di barriere di alcuna natura,
sono elementi che certamente aumenterebbero l’adesione al calendario vaccinale.
Impostare la comunicazione a livello di popolazione:
one size fits all?
I dati di copertura vaccinale forniti dal Ministero della Salute mostrano
come nel nostro Paese esista ancora un gap fra vaccinazioni per cui
esiste un obbligo di legge e quelle cosiddette “raccomandate”. Infatti, mentre oltre il 95% dei genitori decide di vaccinare i propri figli per
95
P.L. Lopalco
difterite, tetano, epatite B e poliomielite (con un benefico effetto “trascinamento” per pertosse ed Hib, contenuti negli stessi prodotti combinati), le coperture per morbillo stentano a superare il 90% come media
nazionale, con cadute preoccupanti intorno all’80% in alcune regioni
(equamente distribuite fra nord e sud) (Dati Ministero della Salute).
Esiste dunque una proporzione di bambini variabile fra il 5% ed il
20% che ogni anno, negli ultimi anni, ha mancato l’occasione di
essere protetto nei confronti di malattie pericolose e potenzialmente
fatali. Fortunatamente si tratta di una minoranza, ma in un contesto
strategico di eliminazione di una malattia infettiva (come è il caso
per morbillo e rosolia) tale minoranza sarebbe in grado di vanificare
ogni sforzo, essendo necessarie coperture molto alte (superiori al
95%) per interrompere la circolazione dell’agente infettivo.
Identificare ed esaminare questa popolazione di “obiettori” è dunque
cruciale, in modo da poter sviluppare e mettere in campo le opportune strategie di promozione e comunicazione (Opel et al., 2009;
Rothman e Salovey, 1997). Sono infatti diversi i motivi che possono
portare ad una mancata vaccinazione e tali motivi sono alla base di
diversi livelli di resistenza più o meno attiva. Potremmo a tale proposito individuare quattro differenti gruppi di utenti:
• Gli ideologici, gli unici antivaccinisti in senso stretto, coloro cioè
che, per motivi filosofici o religiosi, sono contrari in principio alla
vaccinazione. Fra costoro operano diversi gruppi di attivisti che,
motivati da spinte ideologiche o interessi personali, conducono
una forte azione di propaganda, utilizzando soprattutto i nuovi
media;
• Gli scettici, che oppongono resistenza alle vaccinazioni apponendo
motivazioni specifiche, che vanno dalla paura per eventuali effetti collaterali ai dubbi circa la reale necessità della vaccinazione, o
all’inopportunità di iniziare il calendario nei primi mesi nella vita del
bambino, ecc.;
• I noncuranti, che – non avendo chiare idee sui rischi reali legati
alle malattie infettive in questione – non ritengono la vaccinazione importante e quindi trascurano gli appuntamenti del calendario vaccinale;
• Gli emarginati, gruppi che, per motivi legati a povertà, marginalità sociale, mancata integrazione, hanno scarso accesso ai servizi sanitari e sono dunque difficilmente raggiunti dai programmi
di vaccinazione universale.
Studiare l’utenza risulta di estrema importanza per definire il corretto
approccio comunicativo (Giuliani et al., 2008; Marino et al., 2009; Rimer
e Kreuter, 2006). Non può dunque andar bene un modello “taglia unica”,
come invece spesso avviene nelle campagne di comunicazione, che
generalmente sono disegnate per raggiungere il vasto pubblico (Grilli et
al., 2002; Abhyankar et al., 2008). Impegnare risorse per produrre materiale informativo (poster, depliant, gadgets, ecc.) rivolto ad un pubblico
generico potrebbe avere un impatto assai limitato sulla popolazione di
obiettori e certamente nullo su coloro che, vivendo in condizione di marginalizzazione sociale, non sarebbero nemmeno raggiunti dal messaggio (Hofstede, 2003).
Promuovere le vaccinazioni dell’infanzia: una
prospettiva di popolazione con al centro il pediatra
Alla base del successo di ogni campagna o programma vaccinale vi sono senza dubbio elementi organizzativi, ma anche il miglior
modello organizzativo potrebbe fallire in assenza di una strategia di
comunicazione efficace.
Il disegno generale di ogni campagna di comunicazione per la promozione delle vaccinazioni dovrebbe tenere in conto i diversi modelli di
comportamento dei diversi gruppi di popolazione a cui ci si indirizza.
Ancora una volta, anche a livello di popolazione, la comunicazione dovrebbe essere solo uno dei componenti dell’opera di promozione. Creare servizi facilmente accessibili, migliorare il livello di fiducia generale
verso la sanità pubblica, creare una cultura diffusa della prevenzione
sono tutti elementi indispensabili per promuove le vaccinazioni. Il bisogno di essere protetti verso rischi reali deve superare nell’immaginario collettivo la paura per rischi ipotetici o dichiaratamente falsi.
Il pediatra dovrebbe assumere un ruolo centrale in questo processo,
adoperando ogni contatto utile con i genitori dei piccoli pazienti e con i
pazienti stessi nelle età successive per promuovere una generale cultura della prevenzione basata sulle evidenze scientifiche (Nuttal, 2003). La
scelta di vaccinarsi deve essere rinforzata sia come mezzo di protezione
individuale che come segno di coscienza sociale e collettiva. Vaccinare i
propri figli significa proteggere anche la comunità: l’obiezione vaccinale,
almeno nello studio di ogni pediatra, deve essere chiaramente e insindacabilmente considerato socialmente inaccettabile.
Considerazioni conclusive
Il valore sociale, oltre che individuale, delle vaccinazioni impone che sia
messo in atto un forte patto tra pediatra e sanità pubblica. Il counselling
individuale deve integrarsi al meglio con una più ampia strategia di promozione della cultura della prevenzione, basata sulle evidenze scientifiche. Diversamente, tutti gli sforzi che una parte può mettere in campo
possono essere facilmente vanificati dagli errori fatti dall’altra parte. Non
ci può essere nulla di più deleterio per il genitore che ricevere messaggi
ambigui, incompleti o contrastanti da settori diversi del mondo sanitario.
Una strategia di promozione basata sull’alleanza professionale e supportata dalle evidenze scientifiche è oggi urgente. Accanto a questo, del buon
training per imparare a comunicare in maniera efficace sarebbe di grande
beneficio per tutti gli operatori sanitari coinvolti nei programmi vaccinali.
Box di orientamento
Gli enormi progressi fatti nel campo delle vaccinazioni negli ultimi decenni (più vaccini disponibili, maggior sicurezza, maggiore efficacia) sono stati
paradossalmente accompagnati da un generale movimento di sfiducia, o nella migliore delle ipotesi disinteresse, nei confronti della pratica vaccinale,
da una buona parte dell’opinione pubblica. Questo ha generato la necessità, per gli operatori sanitari, di migliorare le proprie capacità comunicative per
attuare una promozione attiva delle vaccinazioni. L’aumento esponenziale di letteratura scientifica sul tema è una prova dell’aumentato interesse nei
confronti della comunicazione nel campo delle vaccinazioni.
Basterebbero poche regole essenziali per migliorare la qualità del counselling vaccinale in pediatria, ma comunque resta necessario che le attività di
comunicazione individuale pediatra-genitori rientrino in una strategia più ampia di promozione della cultura della prevenzione in sanità pubblica il più
possibile basata sulle evidenze scientifiche. L’alleanza pediatra-sanità pubblica deve necessariamente rafforzarsi, per evitare che gli sforzi messi in atto
da una parte siano vanificati dagli errori dell’altra parte.
96
La comunicazione per la promozione delle vaccinazioni
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Corrispondenza
Pier Luigi Lopalco, European Centre for Disease Prevention and Control, Tomtebodavägen 11a, Stockholm, Sweden. Tel. +46 (0)8 586 010 00. E-mail:
[email protected]
97
Aprile-Giugno 2013 • Vol. 41 • N. 170 • Pp. 98-103
Vaccinazioni
La memoria immunitaria e i richiami vaccinali
Rita Carsetti, Alberto E. Tozzi
Ospedale Pediatrico Bambino Gesù, Roma
Riassunto
Negli ultimi 40 anni l’uso delle vaccinazioni, prima in età pediatrica e poi anche nell’adulto, ha cambiato l’epidemiologia delle malattie prevenibili e ha eradicato il vaiolo. Lo sviluppo di nuove strategie e calendari vaccinali si baserà non solo sulla disponibilità di prodotti innovativi, ma anche sulla comprensione
dei meccanismi della risposta immunologica e dell’effettivo valore dei possibili correlati di protezione.
La risposta ai vaccini genera le due componenti della memoria immunologica, le plasmacellule long-lived e le cellule B della memoria. Mentre le prime sono
responsabili per il mantenimento dei livelli anticorpali a distanza dalla vaccinazione, le seconde sono protagoniste delle reazioni scatenate da un nuovo
contatto con l’antigene. Il vaccino ideale dovrebbe indurre ambedue le componenti della memoria, per assicurare una protezione ottimale. L’integrazione tra
l’esperienza di sanità pubblica e le scoperte immunologiche è diventata imprescindibile per lo sviluppo di nuovi vaccini. Nell’epoca della medicina personalizzata, inoltre, dovremo tenere conto della biologia dei microrganismi e dei profili immunologici ricavati dalle varie popolazioni del mondo, per permettere
finalmente lo sviluppo di nuovi vaccini efficaci per tutti.
Summary
Over the last 40 years first pediatric and later adult immunization has changed the epidemiology of preventable diseases and eradicated smallpox. The
development of new vaccine strategies and calendars will be based not only on the availability of innovative products, but also on the comprehension of
the mechanisms of the immune response and the effective value of possible correlates of protection.
The response to immunization generates the two components of immunological memory, long-lived plasma cells and memory B cells. Whereas the first
are responsible for the maintenance of antibody levels years after vaccination, the latter are the main player of the reaction triggered by a renewed contact
with antigen. The ideal vaccine should induce both components in order to ensure optimal protection. The integration of public health experience with new
immunological discoveries has become indispensable for the development of new vaccines. In the era of personalized medicine we will also have to take
into account the biology of microorganisms and immunological profiles of populations all over the world to ensure the production of universally effective
vaccines.
Introduzione
A partire dagli anni ’70, i progressi nel campo delle vaccinazioni
sono stati talmente importanti da modificare radicalmente l’epidemiologia di numerose malattie prevenibili, fino all’eradicazione del
vaiolo. I primi risultati nell’ambito delle strategie di immunizzazione sono stati raggiunti con vaccini relativamente semplici e concentrandosi sulla prevenzione in età pediatrica. Con il passare del
tempo nuovi prodotti vaccinali si sono resi disponibili e le strategie
vaccinali hanno cominciato ad essere rilevanti per tutte le fasce di
età, compresa quella adulta. I principi alla base della definizione del
calendario vaccinale rispondono alla necessità di integrare l’aspetto immunologico (l’immunogenicità dei vaccini e l’età dell’individuo
alla quale è attesa la massima risposta) con l’aspetto epidemiologico per la individuazione del gruppo di età con la massima incidenza.
Insieme a questi fattori, altri elementi come il costo dell’implementazione della strategia vaccinale e l’accettabilità o la fattibilità della
stessa, contribuiscono a rendere complessa la scelta del calendario
più opportuno. Non è sorprendente che anche per vaccini consolidati
come quelli che includono la componente difterite-tetano-pertosse,
esista una ampia variabilità dei calendari, anche in una regione geografica relativamente omogenea come quella europea (Tab. I). Se poi
l’analisi dei calendari vaccinali va oltre il ciclo primario, le differenze
tra i paesi aumentano ulteriormente. Da un lato il coordinamento
delle strategie vaccinali può avere lo scopo di raggiungere obiettivi
globali come l’eradicazione (p. es. poliomielite), ed in questo caso
le strategie devono essere armonizzate per raggiungere l’obiettivo
prefissato. D’altra parte, la valutazione della durata della protezione
98
delle vaccinazioni rappresenta un elemento, ormai imprescindibile,
per l’individuazione del tempo più appropriato per effettuare i richiami vaccinali.
L’obiettivo di questo articolo è di esaminare le componenti che costituiscono la memoria immunologica indotta dalle vaccinazioni e
gli ulteriori elementi che contribuiscono alla scelta del calendario
vaccinale e dell’epoca in cui vengono effettuati i richiami vaccinali.
La memoria immunologica e la risposta indotta dai
vaccini
La memoria immunologica è la proprietà del sistema immunitario
per cui siamo protetti dalle re-infezioni provocate da ogni patogeno che ha già provocato un’infezione nel nostro organismo. Questo
avviene perché ogni infezione induce una risposta che modifica in
maniera permanente il sistema immunitario, generando un pool di
cellule e anticorpi specifici che sopravvivono nell’organismo per un
periodo lunghissimo ed hanno appunto il compito di prevenire una
nuova infezione. L’efficacia dei vaccini dipende proprio dallo loro
abilità di generare la memoria immunologica contro gli antigeni vaccinali (Lanzavecchia et al., 2009; McHeyzer-Williams et al., 2011).
Ogni infezione o vaccinazione causa una risposta immunologica
che, il più delle volte, avviene nei linfonodi drenanti il sito di infezione
o di somministrazione del vaccino. Qui le cellule B, in collaborazione
con le cellule T e le dendritiche, costituiscono il centro germinativo.
Le cellule B proliferano rapidamente, accumulano mutazioni somatiche, modificano l’isotipo prodotto da IgM a IgG (switch isotipico)
e vengono selezionate per la loro affinità e per l’antigene che ha
La memoria immunitaria e i richiami vaccinali
Tabella I.
Epoca di somministrazione delle componenti difterite-tetano-pertosse nei paesi della regione europea nei primi 24 mesi di vita, secondo i calendari nazionali (Fonte: World Health Organization).
Età, mesi
1
Albania
Andorra
Armenia
Austria
Azebaijan
Belarus
Belgio
Bosnia Erzegovina
Bulgaria
Cipro
Croazia
Danimarca
Estonia
Finlandia
Francia
Georgia
Germania
Gran Bretagna
Grecia
Irlanda
Islanda
Israele
Italia
Kazakistan
Kyrgyzstan
Latvia
Lituania
Lussemburgo
Macedonia
Malta
Moldavia
Montenegro
Norvegia
Olanda
Polonia
Portogallo
Repubblica Ceca
Romania
Russia
Serbia
Slovacchia
Slovenia
Spagna
Svezia
Svizzera
Tajikistan
Turchia
Turkmenistan
Ucraina
Ungheria
Uzbekistan
2
3
4
8
9
10 11 12 13 14 15 16 17 18 19 20 21 22 23 24
7
6
5
99
R. Carsetti, A.E. Tozzi
indotto la reazione. Dopo due settimane il centro germinativo regredisce, lasciando nell’organismo i prodotti che ha generato: anticorpi
altamente specifici, cellule B della memoria e plasmacellule longlived (Allen et al., 2007).
Gli anticorpi sono prodotti nel centro germinativo dalle plasmacellule
short-lived ed hanno il compito di eliminare completamente l’agente
infettivo che ha scatenato la reazione.
Sia le cellule B della memoria che le plasmacellule long-lived rimarranno per sempre nell’organismo a proteggerlo dalle re-infezioni.
Esse producono gli stessi anticorpi, ma hanno capacità e funzioni
distinte (Amanna e Slifka, 2007; Ahmed e Grey, 1996). Le plasmacellule long-lived migrano dal centro germinativo al midollo, dove
si localizzano in una nicchia a loro dedicata che ne assicura la sopravvivenza virtualmente per sempre. Nel midollo esse continuano a
produrre i loro anticorpi, che entrano nel pool delle immunoglobuline
sieriche (Kunkel et al., 2003; Manz et al., 1997; Tarlinton et al., 2008;
Manz et al., 1998; Manz et al., 2005). Quindi la maggioranza degli
anticorpi nel siero sono i prodotti utili delle reazioni immunologiche
passate e sono secreti dalle plasmacellule long-lived del midollo.
Quando misuriamo gli anticorpi che rimangono nell’organismo a
distanza di molto tempo dalla vaccinazione, valutiamo la funzione
e probabilmente il numero di plasmacellule long-lived. Le plasmacellule appartengono allo stadio più differenziato della linea B. Esse
non hanno un recettore di superficie e per questo non sono in grado
di legare e ricevere segnali dall’antigene. Sono piuttosto fabbriche
di anticorpi, che producono di continuo indipendentemente dalle
necessità dell’organismo. Nel caso di re-infezione, le plasmacellule continueranno indefesse a fare il loro lavoro, ma il compito di
generare la rapida reazione che definiamo recall è assegnato alle
cellule B della memoria (Manz et al., 2005). Queste esprimono un
recettore di superficie che è altamente specifico per l’antigene che
ne ha indotto la formazione nel centro germinativo. In risposta alla
nuova infezione le cellule B della memoria proliferano rapidamente e
si differenziano in plasmacellule short-lived secernenti gli anticorpi
in risposta al booster. Non sappiamo ancora se nuove plasmacellule
long-lived si differenzino dalle cellule B della memoria, in risposta ai
richiami vaccinali (Lanzavecchia et al., 2009; McHeyzer-Williams et
al., 2011; Yoshida et al., 2010).
In sintesi, ogni vaccinazione genera una memoria immunologica
rappresentata da plasmacellule long-lived e cellule B della memoria,
che producono gli stessi anticorpi in maniera continua (le plasmacellule) o al bisogno (le cellule B della memoria).
In caso di un secondo incontro con un patogeno noto, gli anticorpi già presenti nel siero rappresentano una difesa immediata che
limita l’infezione già nelle fasi iniziali. Le cellule B della memoria
aumentano gli anticorpi specifici ed eliminano definitivamente il microrganismo (Fig. 1).
Quindi le funzioni delle plasmacellule long-lived e delle memory
sono complementari e sinergiche.
Non sappiamo se ambedue le funzioni siano sempre indispensabili. Sicuramente gli anticorpi preformati nel siero sono necessari; se
siamo infettati da microrganismi che producono tossine, proliferano
rapidamente e causano una malattia sistemica. Se l’infezione insorge lentamente ed è localizzata, le cellule B della memoria hanno
tempo di entrare in azione, proliferare, migrare nel sito di infezione
e produrre grandi quantità di anticorpi che agiranno, sia localmente
che a distanza.
Studi recenti hanno dimostrato che il livello di anticorpi sierici specifici (cioè il numero di plasmacellule long-lived) non è proporzionale
al numero di B memory dirette contro lo stesso antigene, misurabili
nel sangue periferico (Ahmed e Grey, 1996; Rosado et al., 2011).
Questo probabilmente vuol dire che le due popolazioni non sono
prodotte con la stessa cinetica e alla stessa frequenza e che diversi vaccini generano preferenzialmente l’uno o l’altro tipo cellulare.
Conoscere quali componenti vaccinali influenzino la scelta potrebbe
portare allo sviluppo di vaccini più efficaci e protettivi.
Figura 1.
Le componenti e la funzione della memoria immunologica. In risposta a primo ciclo vaccinale (freccia) le cellule B mature formano il centro germinativo e si differenziano in cellule B della memoria, plasmacellule short-lived e plasmacellule long-lived. Questi tre tipi cellulari producono gli stessi
anticorpi specifici ad alta affinità per l’antigene. Le plasmacellule short-lived esauriscono la loro funzione in poco tempo nel centro germinativo.
Le plasmacellule long-lived migrano al midollo, dove persistono per anni. Le cellule B della memoria sono responsabili per la risposta ai richiami
vaccinali.
100
La memoria immunitaria e i richiami vaccinali
I correlati di protezione
L’individuazione di correlati di protezione, ovvero di marker biologici
che permettano di valutare lo stato di suscettibilità ad una malattia
infettiva, rappresenta un elemento importante per la valutazione della durata della protezione dei vaccini e per la programmazione delle
strategie vaccinali. La definizione di tali marker è anche importante
per la valutazione dell’efficacia protettiva delle vaccinazioni, quando
un vero e proprio studio epidemiologico (nel quale si confronta l’incidenza di malattia delle persone vaccinate con quella delle persone
non vaccinate) non è fattibile. I correlati di protezione corrispondono
in genere a livelli di anticorpi circolanti in quantità sufficiente da
essere considerati protettivi sulla base di studi epidemiologici che
hanno messo in relazione gli stessi livelli anticorpali con la suscettibilità alla malattia. Quando questi correlati sono noti e consolidati,
nella valutazione di nuovi vaccini risposta immune può essere giudicata facendo riferimento alla soglia identificata come protettiva senza condurre studi clinici sull’incidenza della malattia (WHO, 2004).
Purtroppo non è stato identificato un correlato di protezione per tutte
le malattia prevenibili con la vaccinazione. Ad esempio per la pertosse non è possibile stabilire un livello di anticorpi specifici che sia
associato alla protezione dalla malattia.
La tipologia degli anticorpi circolanti utili a definire lo stato di protezione da una malattia prevenibile con la vaccinazione è inoltre differente secondo il patogeno. I livelli di immunoglobuline G vengono
utilizzati per definire la protezione verso i batteri capsulati, come lo
pneumococco, il meningococco e l’Haemophilus influenzae. L’opsonofagocitosi è un altro meccanismo attraverso il quale è possibile
misurare i livelli protettivi, preferibile ai livelli anticorpali, nel caso di
infezioni da batteri capsulati (WHO, 2008).
Per diverse malattie esistono diversi correlati di protezione e diversi
test diagnostici per individuarli come illustrato in tabella II.
Le basi epidemiologiche
Qualsiasi strategia vaccinale dovrebbe basarsi sul monitoraggio
continuo dell’incidenza della malattia prevenibile per gruppo di età
e per residenza geografica, insieme alla copertura vaccinale. In
sintesi tali dati dovrebbero fornire gli elementi indispensabili per
individuare il numero e le caratteristiche dei gruppi di suscettibili
all’infezione naturale. Un’ulteriore informazione necessaria per la
programmazione delle strategie vaccinali è rappresentata dalla
durata della protezione conferita dalla vaccinazione. Allo scopo di
prendere decisioni strategiche, e per tenere conto dello stato di
suscettibilità all’infezione prevenibile attraverso la vaccinazione,
è possibile ricorrere a studi di sieroepidemiologia (Wilson et al.,
2012). L’obiettivo principale di questi studi è quello di monitorare
la proporzione di individui, suscettibili per età e sesso e per area
geografica, allo scopo di implementare strategie vaccinali che abbiano la massima efficienza nella riduzione del numero di suscettibili. Oltre l’uso di semplici proporzioni, inoltre, è possibile utilizzare
le informazioni ottenute da questi studi per la messa a punto di
modelli matematici utili per la previsione dei trend delle malattie
prevenibili e delle eventuali epidemie. Gli studi di sieroepidemiologia si basano sull’individuazione delle persone che hanno livelli
circolanti di anticorpi a concentrazioni considerate protettive verso
specifici patogeni. Ne consegue che questi studi non permettono
di distinguere gli individui che hanno elevati livelli anticorpali a
causa dell’infezione naturale, da quelli che invece li hanno a causa della vaccinazione. Dal punto di vista delle strategie vaccinali,
naturalmente, questa distinzione non è utile. D’altra parte è chiaro
che questi studi possono essere condotti solo per malattie che
hanno un correlato di protezione noto. La combinazione delle informazioni disponibili dal monitoraggio delle strategie vaccinali, dalle
notifiche di malattie infettive e dagli studi di sieroepidemiologia. è
importantissima per adattare le strategie vaccinali alla dinamica
della popolazione dei suscettibili, identificare i gruppi che dovrebbero essere vaccinati, e per prevenire l’insorgenza di epidemie
(Wilson et al., 2012).
Per le malattie trasmesse da persona a persona, inoltre, esiste un
importante principio che permette il controllo della circolazione degli
agenti patogeni. In presenza di una copertura vaccinale sufficientemente elevata, variabile secondo il patogeno, quest’ultimo non è
più in grado di circolare nella popolazione. Questo effetto, chiamato
herd immunity, permette di interrompere non solo la circolazione
dell’agente patogeno, ma in taluni casi di eliminare una particolare
patologia in un’area geografica anche in assenza di una copertura vaccinale del 100% e anche se non esistono vaccini che han-
Tabella II.
Correlati sierologici di protezione per alcune vaccinazioni (Plotkin, 2008).
Vaccino
Test
Correlato di protezione
Tetano
Neutralizzazione della tossina
0.01-0.1 UI/mL
Difterite
Neutralizzazione della tossina
0.01-0.1 UI/mL
Poliomielite
Neutralizzazione
diluizione 1:4-1:8
Epatite B
ELISA
10 mUI/mL
Morbillo
Microneutralizzazione
120 mUI/mL
Rosolia
Immunoprecipitazione
10-15 mUI/mL
Pneumococco coniugato
ELISA
0.20-0.35 µg/mL
OPA
diluizione 1:8
Hib coniugato
ELISA
0.15 µg/mL
Influenza
Inibizione dell’emoagglutinizzazione
diluizione 1:40
Epatite A
ELISA
10 mUI/mL
Varicella
ELISA
≥ 5UI/mL
FAMA
diluizione 1:64
101
R. Carsetti, A.E. Tozzi
no un’efficacia del 100%. Ovviamente questo effetto dipende dalla
durata della protezione conferita dalle vaccinazioni (Zinkernagel,
2012).
Alcuni esempi
Tetano
La durata della protezione immunitaria contro il tetano è stata motivo di discussione tra ricercatori. Il tetano è una malattia causata
dall’effetto della tossina tetanica, e quindi non c’è una fase batteriemica. L’incubazione del tetano è di alcuni giorni e l’infezione
naturale non conferisce immunità permanente. Dal punto di vista
epidemiologico è molto raro individuare casi di malattia in individui
che hanno avuto un ciclo vaccinale primario completo (Wassilak SGF
et al, 20048). Dopo l’immunizzazione primaria i livelli anticorpali misurabili nel siero rimangono elevati a lungo, ma decrescono a partire
dal terzo anno, dopo la somministrazione di una dose di richiamo
(Weston et al., 2011). La raccomandazione di effettuare richiami
decennali contro il tetano è basata sul presupposto che i livelli di
anticorpi circolanti potrebbero non essere più sufficienti a garantire
la protezione. Tuttavia l’epidemiologia della malattia suggerisce che
la durata della protezione conferita dal ciclo primario di vaccinazione
è sufficiente a coprire un periodo di tempo molto più lungo (Mathias
et al., 1965). La risposta immunitaria al tetano impiega per essere
efficace tra qualche giorno a 2 settimane (Stevens e Saxon, 1979).
Epatite B
I livelli anticorpali misurabili dopo la vaccinazione contro l’epatite B
hanno rappresentato a lungo un marker di protezione a lungo termine. Il rilievo di modesti livelli anticorpali contro l’epatite B, in bambini
che avevano effettuato un regolare ciclo primario di vaccinazione con
un vaccino esavalente, si sono rivelati a distanza modesti e in buona
parte sotto la soglia considerata protettiva (Zanetti et al., 2012). L’incubazione della malattia è lunga, tanto che prima che la vaccinazione
diventasse disponibile, la somministrazione di immunoglobuline entro
due settimane dall’esposizione era efficace nel prevenire la malattia.
La malattia naturale conferisce immunità permanente. Gli studi effettuati per esplorare la necessità di un richiamo vaccinale nei bambini
che esibivano livelli anticorpali modesti a distanza di anni hanno dimostrato che, nonostante tali livelli, la risposta anamnestica ad una
dose supplementare di vaccino è evidente (Zanetti et al., 2012). Inoltre, in questa popolazione è chiara la presenza di cellule B memory
anche prima della somministrazione della dose di richiamo (Rosado
et al., 2011). In questo caso, la lunga incubazione della malattia permetterebbe al meccanismo della memoria di montare una risposta
sufficiente in tempi utili per la prevenzione della malattia (Fig. 2). Per
questo motivo la somministrazione di una dose di richiamo precoce in
questi pazienti non è stata raccomandata.
Streptococcus pneumoniae
Per i batteri capsulati sussistono condizioni differenti. Se pensiamo alle infezioni invasive causate da S pneumoniae (ma lo stesso
accade per N meningitidis oppure per Hib) lo scenario è quello di
un’infezione a incubazione breve e progressione molto rapida. Come
è noto, infatti, questi batteri sono in grado di esercitare la loro azione
infettiva nel giro di poche ore. La prevenzione di queste infezioni
richiede la presenza di anticorpi funzionali diretti verso i polisaccaridi della capsula batterica. In questo caso non è sufficiente avere,
come nel caso dell’epatite B, livelli anticorpali anche modesti che
aumentano per effetto della memoria immunitaria. Un caso parti-
102
Figura 2.
Dinamica della risposta anticorpale alla vaccinazione contro l’epatite B.
colare riguarda i pazienti con asplenia funzionale o chirurgica (Ram
et al., 2010). In questi pazienti è compromesso il meccanismo per
la produzione delle cellule B della memoria e la loro suscettibilità
alle infezioni invasive provocate da S pneumoniae è molto elevata e
per questo motivo è necessario garantire una protezione duratura a
questi pazienti attraverso la vaccinazione. Il fatto che questi pazienti abbiano un meccanismo deficitario nella produzione delle cellule
B della memoria impedisce loro di esibire una risposta immune ai
vaccini polisaccaridici tale da innescare la produzione dello switch
di cellule B memory switched (Clutterbuck et al., 2012). I vaccini
coniugati sembrano invece in grado di esercitare la funzione stimolante anche in questi pazienti.
Conclusioni
L’introduzione delle vaccinazioni è stata sicuramente l’intervento di
sanità pubblica più efficace del secolo scorso. Tuttavia non abbiamo
ancora strumenti per prevenire malattie diffuse e gravi come quelle
sostenute da l’HIV, la malaria, la tubercolosi e le enteriti batteriche
e virali, che affliggono i paesi del Sud del mondo. Fondazioni come
la Bill and Melinda Gates e la GAVI Alliance (Global Alliance for Vaccines and immunization) hanno lo scopo di finanziare gli studi di
base, epidemiologici e di sperimentazione che portino allo sviluppo
di nuovi vaccini.
Non tutti i problemi sono risolti per quanto riguarda i vaccini già disponibili ed efficaci nella maggioranza della popolazione. Dobbiamo
ancora affrontare il problema dei non responder e migliorare i calendari vaccinali, disegnandoli per tutta la vita e non solo per l’infanzia.
Se riuscissimo ad integrare l’esperienza di sanità pubblica con le
nuove scoperte immunologiche potremmo finalmente fare dei passi
avanti. Gli studi recenti sui componenti della memoria immunologica
ci aiuteranno a valutare meglio la scelta dei correlati di protezione,
anche se dobbiamo accettare che sarà sempre più difficile utilizzare
clinical trials per dimostrarne l’attendibilità, vista la bassa incidenza
della maggior parte delle malattie prevenibili attraverso la vaccinazione. Inoltre ricordiamo che siamo nell’epoca della medicina personalizzata: oggi sappiamo che non siamo tutti uguali nella malattia,
ma nemmeno nelle risposte fisiologiche. Quindi sarà necessario
trovare nuovi metodi per valutare l’efficacia e per scegliere i vaccini
più adatti a ciascuno di noi. Gli studi sulla biologia e la genetica dei
microrganismi da combattere si dovranno integrare con i profili immunologici ricavati dalle varie popolazioni del mondo, per permettere finalmente lo sviluppo di nuovi vaccini efficaci per tutti.
La memoria immunitaria e i richiami vaccinali
Box di orientamento
• Le vaccinazioni prima pediatriche e poi nell’adulto hanno cambiato l’epidemiologia delle malattie trasmissibili riducendone l’incidenza e persino
eradicandole. Il livello degli anticorpi nel siero è un affidabile correlato di protezione.
• La memoria immunologica ha due componenti : le plasmacellule long-lived che mantengono costante il livello di anticorpi e le cellule B della memoria che sono responsabili della reazione di difesa ad un nuovo contatto con l’antigene. Ambedue queste componenti sono necessarie per una
protezione ottimale e dovrebbero essere tenute in conto nel disegno di nuovi vaccini.
• Lo sviluppo di più efficaci strategie e calendari vaccinali richiede l’integrazione tra le osservazioni di sanità pubblica e le più recenti scoperte
immunologiche e dovrà tenere conto sia della biologia dei microrganismi che vogliamo combattere, che dei profili immunologici delle popolazioni
che vogliamo proteggere.
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Corrispondenza
Rita Carsetti, Area di Ricerca di Immunologia, Ospedale Bambino Gesù, Piazza S Onofrio, 4, 00165 Roma. Tel.: +39 06 68592647.
103
Aprile-Giugno 2013 • Vol. 41 • N. 170 • Pp. 104-109
Frontiere
Basi molecolari dell’iperbilirubinemia congenita:
sindromi di Gilbert e di Crigler-Najjar
Immacolata Andolfo 1,2 e Achille Iolascon 1,2
1
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Dipartimento di Medicina Molecolare e Biotecnologie Mediche, Università “Federico II” di Napoli
CEINGE, Biotecnologie Avanzate, Napoli
Riassunto
L’iperbilirubinemia neonatale interessa il 6-10% dei neonati durante la prima settimana di vita. In molti casi si tratta di un ittero senza gravi conseguenze;
in altri casi, più gravi, si sviluppa kernicterus, che può provocare anomalie nello sviluppo neuronale, quali perdita dell’udito, atetosi e, raramente, deficit intellettuali. La coniugazione, l’assorbimento e l’escrezione della bilirubina possono essere inficiati in diverse condizioni, acquisite o ereditarie, che includono
malattie infettive, ostruttive, immunitarie e malattie/sindromi genetiche. In questa review saranno prese in considerazione le basi molecolari dei disordini
ereditari del metabolismo della bilirubina non coniugata, quali le sindromi di Gilbert e di Crigler-Najjar di tipo I e II, per spiegare l’impatto che la conoscenza
di queste ha avuto sulla classificazione clinica e sulle valutazioni diagnostiche di queste patologie.
Summary
Neonatal hyperbilirubinemia affects 6-10% of infants during the first week of life. In many cases, it is a physiological jaundice without serious consequence,
in other, more serious cases, kernicterus may develop and cause abnormalities in neuronal development, such as hearing loss, athetosis, and, rarely, intellectual deficits. Conjugation, absorption and excretion of bilirubin are abnormal in different, acquired or hereditary conditions that include infectious diseases, obstructive, immune and genetic diseases/syndromes. In this review, we will take into account the molecular basis of inherited metabolic disorders
of unconjugated bilirubin, such as Gilbert syndrome and Crigler-Najjar syndromes type I and II, and explain the impact of their knowledge on the clinical
and diagnostic classification of these diseases.
Metodologia di ricerca bibliografica
La ricerca degli articoli rilevanti è stata effettuata sulla banca bibliografica PubMed, utlizzando come parole chiave: “Bilirubin metabolism”, “Bilirubin coniugation”, “UGT1A1”, “Gilbert syndrome”, “Crigler-Najjar syndromes type I” and “Crigler-Najjar syndromes type II”.
Introduzione
La bilirubina deriva dalla degradazione della protoporfirina del gruppo eme presente in alcune proteine, quali emoglobina, mioglobina,
e citocromo P-450 (Kadakol et al., 2000). È un anione organico con
scarsa solubilità in acqua e non trasportabile nella sua forma nativa. Nel fegato, la bilirubina è coniugata con l’acido glucuronico,
divenendo bilirubina digluronide, solubile in acqua e secreta nella
bile (Fig. 1). I livelli di bilirubina sierica aumentano quando la sua
produzione eccede la capacità metabolica (4 mg/kg/die) e di escrezione (Roy Chowdhury et al., 2000). Lo sbilancio tra produzione ed
eliminazione può risultare sia da un eccesso di rilascio di precursori
nel circolo ematico, sia da un difetto di uptake epatico, di metabolismo o di escrezione. Le concentrazioni di bilirubina sierica in un
soggetto normale variano da 0.3 a 1.0 mg/dL. L’ottanta per cento
della bilirubina circolante deriva dai globuli rossi senescenti distrutti
dalle cellule reticolo endoteliali. La restante parte origina da altre
fonti, incluse l’eritropoiesi inefficace e le proteine contenenti eme,
come i citocromi epatici e la mioglobina muscolare. Circa il 90%
della bilirubina sierica circola legata all’albumina nella forma detta
non coniugata (Roy Chowdhury et al., 2000). La bilirubina non coniugata entra negli epatociti per diffusione o trasporto attivo attraverso
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la membrane plasmatica ed è legata alla proteina ligandina, che
ne previene il suo efflusso nel plasma. Nel reticolo endoplasmatico
degli epatociti avviene la detossificazione della bilirubina tramite la
glucuronazione operata dall’enzima bilirubina UDP-glucuronosiltransferasi 1A1 (UGT1A1), che la rende solubile in acqua. La bilirubina coniugata all’acido glucuronico può a questo punto essere
secreta dagli epatociti tramite la bile.
Nella pratica clinica, l’iperbilirubinemia può essere divisa in due
grandi categorie: iperbilirubinemia non coniugata o indiretta e
iperbilirubinemia coniugata o diretta. La coniugazione, l’uptake e
l’escrezione della bilirubina possono essere inficiati da numerose
condizioni acquisite ed ereditabili che includono infezioni, tossicità,
patologie immunitarie e genetiche. Questo lavoro è focalizzato sui
disordini ereditari della coniugazione della bilirubina, quali la sindrome di Gilbert e le sindromi di Crigler-Najjar di tipo I e II. Tali patologie sono causate da mutazioni nel gene UGT1A1 codificante per
l’enzima responsabile della coniugazione della bilirubina all’acido
glucuronico.
La coniugazione della bilirubina ed il ruolo del gene
UGT1A1
Negli epatociti, la bilirubina indiretta viene coniugata con l’acido
glucuronico tramite l’attività dell’enzima UDP-glucuronosiltransferasi 1A1 (UGT1A1), che appartiene alla grande famiglia degli enzimi
UDP-glucuronosiltransferasi (UGTs) (Fig. 2). Questa famiglia è composta da enzimi microsomiali legati alla membrana che catalizzano
la coniugazione di bilirubina, steroidi, acidi biliari e xenobiotici con
l’UDP- acido glucuronico (UDP-GlcUA) (Takashi et al., 1998). I geni
UGTs sono divisi in due famiglie sulla base dell’identità della se-
Basi molecolari dell’iperbilirubinemia congenita
Figura 2.
Coniugazione della bilirubina nell’epatocita.
Figura 1.
Tappe fondamentali del metabolismo della bilirubina nell’uomo.
1. L’eme derivante dalla degradazione di alcune proteine, quali emoglobina degli eritrociti, mioglobina, e citocromo P-450, viene trasformato in
biliverdina, poi ridotta a bilirubina ad opera della biliverdina reduttasi. 2.
La bilirubina viene complessata all’albumina per essere trasportata nel
circolo sanguigno. 3. La bilirubina viene separata dall’albumina ed entra nell’epatocita. 4. La bilirubina subisce il processo della coniugazione
con l’acido glucuronico e viene secreta nei dotti biliari tramite la bile. 5.
La bile arriva nell’intestino, dove nel colon, tramite l’azione degli enzimi
della flora batterica intestinale, è scissa in acido glicuronico e bilirubina,
la quale viene in seguito convertita in urobilinogeno, mesobilinogeno e
stercobilinogeno.
quenza aminoacidica, UGT1 and UGT2, localizzati sul braccio lungo
del cromosoma 2 e 4, rispettivamente. Le proteine da essi codificate
condividono gli stessi 245 aminoacidi nella regione carbossi terminale, mentre hanno poca omologia nella regione amino-terminale
(circa 37-49%) (Ritter et al., 1992).
La regolazione trascrizionale del locus UGT è molto particolare; il primo esone è specifico di ogni isoforma e codifica per i primi 287-289
aminoacidi della regione amino-terminale dell’enzima. Questa regione
è critica per la determinazione della specificità del substrato. Gli altri
4 esoni, localizzati in una regione di 6 Kb, codificano per la regione
carbossi-terminale e sono in comune tra tutte le isoforme degli enzimi
UGTs. La serie degli esoni 1 (12 in totale) copre invece, una regione di
85Kb. Ogni esone 1 subisce un diverso processo di splicing per essere
legato con i 4 esoni comuni e produrre un unico RNA maturo (Fig. 3).
L’isoforma UGT1A1 è responsabile per il 99% dell’attività di glucoronazione della bilirubina; la sua espressione è modulata durante lo
sviluppo: infatti, da 17 a 30 settimane di gestazione la sua attività è
0,1% rispetto ai livelli dell’adulto, per poi aumentare a 1% tra la 30a40a settimana di gestazione e raggiunge i livelli dell’adulto dopo 14
settimane dopo la nascita (Ikushiro et al., 1995).
Il promotore dei geni UGTs contiene un elemento TATAA con 6 ripetizioni TA (A(TA)6TAA). Una variante polimorfica della sequenza TATAA,
contenente una ripetizione TA in più (A(TA)7TAA) è stata associata
ad una ridotta espressione del gene, responsabile della sindrome di
Gilbert (Sampietro et al., 1999).
Rappresentazione schematica di un epatocita. La bilirubina entra dopo
essere stata separata dall’albumina e viene coniugata con l’acido glucuronico tramite l’azione dell’enzima UDP-glucuronosiltransferasi 1A1
(UGT1A1); la reazione è schematizzata in basso, mostrando la struttura
chimica della bilirubina e del prodotto della reazione di coniugazione, la
bilirubina diglucuronide.
Figura 3.
Organizzazione del locus UGT.
Il locus UGT è localizzato sul cromosoma 2 (2q37; in alto). In basso
è mostrata una rappresentazione schematica dei singoli esoni 1 (12
esoni) della famiglia UGT e gli esoni 2-5 comuni a tutte le isoforme.
Tramite il processo di splicing alternativo l’esone 1 è unito agli esoni
2-5 per formare il trascritto del gene UGT1A1, codificante per l’enzima
responsabile della coniugazione della bilirubina all’acido glucuronico.
Caratteristiche cliniche e genetiche della sindrome
di Gilbert
All’inizio del secolo scorso, Gilbert e Lereboulette descrissero per la
prima volta una nuova sindrome “cholémie simple familiale” (Gilbert
et al., 1902). Questa sindrome è caratterizzata da lieve iperbilirubinemia in assenza di bilirubinuria o segni di emolisi e malattie epatiche. L’iperbilirubinemia non coniugata è solo lievemente aumentata
(superiore a 3 mg/dL) e la glucoronazione è ridotta di circa 30%
rispetto ad un soggetto sano (Berk et al., 1994; Arias et al., 1957;
Black et al., 1969) (Tab. I). Questa sindrome è molto comune, infatti
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I. Andolfo, A. Iolascon
Tabella I.
Caratteristiche cliniche e genetiche delle sindromi di Gilbert e Crigler Najjar.
Iperbilirubinemie congenite indirette
Caratteristiche
Gilbert
Crigler-Najjar tipo II
Crigler-Najjar tipo I
Severità clinica
Bassa
Media
Alta
Bilirubina totale
<5 mg/dL
<20 mg/dL
>20 mg/dL
Ereditarietà
AR#
AR#
AR#
Attività di UGT1A1*
50%
<10%
assente
Variante (TA)7 nel promotore
Missenso
Non-senso o di stop
Tipo di mutazione in UGT1A1*
* UGT1A1. UDP-glucuronosiltransferasi 1A1.
#
AR. autosomica recessiva
è presente in circa il 9-15% della popolazione generale (Fretzayas et
al., 2012). La caratterizzazione del gene UGT1A1 e delle sue varianti
è stato uno strumento utile per capire i meccanismi genetici e l’epidemiologia della sindrome di Gilbert.
In particolare, i pazienti presentano nel promotore del gene una ripetizione in più del dinucleotide (TA) nell’elemento TATAA che dà
origine alla sequenza (A(TA)7TAA), piuttosto che (A(TA)6TAA). Questa ripetizione (TA) extra inficia l’attività trascrizionale riducendo, di
conseguenza, l’attività dell’enzima UGT1A1 (Watchko et al., 2009). I
soggetti con sindrome di Gilbert (GS) sono omozigoti per la variante
(A(TA)7TAA) nel promotore. La frequenza genica della variante risulta
pari a 0,3: quindi il 9% della popolazione generale è omozigote ed il
42% risulta eterozigote (Fretzayas et al., 2012).
Correlazione tra sindrome di Gilbert ed altre
patologie
Ittero neonatale ed anemie emolitiche
Questa malattia è comunemente diagnosticata nell’adulto, ma è
stato dimostrato che può contribuire all’aumento della bilirubinemia
indiretta nel periodo neonatale (Sampietro et al., 1999). Gourley e
collaboratori furono i primi a confermare l’associazione tra la sindrome di Gilbert e l’ittero neonatale (Bancroft et al., 1998). I neonati
con la variante (A(TA)7TAA) nel promotore del gene UGT1A1 mostrano un aumento dell’iperbiribulinemia in epoca neonatale ed una
ridotta escrezione fecale di bilirubina mono e di- glucuronata. RoyChowdhury e collaboratori in uno studio analogo hanno dimostrato
che la presenza della variante A(TA)7TAA è associata, nei neonati, a
livelli più alti di bilirubina sierica rispetto ai neonati che non presentano la variante (Roy-Chowdhury et al., 2002).
L’iperbilirubinemia, in presenza di una normale funzione epatica, si
riscontra spesso in condizioni associate ad elevata produzione di
bilirubina. La causa più frequente di sovraproduzione di bilirubina è
l’emolisi, come accade nell’anemia falciforme, nella sferocitosi ereditaria, e nelle reazioni avverse a determinati farmaci. Tutte queste
condizioni sono associate ad una distruzione prematura degli eritrociti. Inoltre, anche l’eritropoiesi inefficace presente nella talassemia
ed in altri disordini ematologici è associata ad iperbilirubinemia
(anemie diseritropoietiche). Lo studio delle varianti del gene UGT1A1
e della sindrome di Gilbert ha permesso di verificare l’associazione
tra aumento di bilirubina e disordini ematologici ereditari (Sampietro
et al., 1999).
La sferocitosi ereditaria (HS) è un’anemia emolitica erditaria caratterizzata da anemia, ittero e splenomegalia. Diventa evidente a
livello clinico nel periodo neonatale con ittero che richiede spesso
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fototerapia. L’esame di 178 neonati con HS con 112 (63%) pazienti,
che avevano ricevuto fototerapia durante i primi giorni di vita, ha
permesso di verificare che l’ittero (curato con fototerapia) era presente nel 97% dei pazienti HS omozigoti per la variante (TA)7 della
sindrome di Gilbert. Questi risultati indicano che, l’ittero, nei pazienti
con HS, è aumentato dall’interazione tra emolisi e variazione genetica nel promotore del gene UGT1A1. La formazione di calcoli, inoltre,
nei pazienti HS è più frequente di 4,5 volte in presenza della variante
Gilbert (Miraglia del Giudice et al., 1998). Il rischio di sviluppo dei
calcoli nei pazienti HS (e forse anche in altri pazienti emolitici) sembra aumentare in maniera diretta con la dose allelica, vale a dire in
presenza di uno o due alleli mutati di UGT1A1.
Il deficit di glucosio-6-fosfato deidrogenasi (G6PD) è il disordine
enzimatico del globulo rosso più frequente nell’area mediterranea.
L’esame della variante Gilbert in soggetti con G6PD, durante una
crisi favica ha dimostrato che i soggetti con GS hanno livelli di bilirubina significativamente più alti rispetto ai soggetti senza la variante.
Kaplan et al., in uno studio simile condotto in neonati ebrei sefarditi, hanno trovato che la G6PD in associazione con la GS aumenta
l’incidenza dell’iperbilrilubinemia (Kaplan et al., 1997). Sampietro et
al. e Galanello et al., esaminando il ruolo di GS nella G6PD e nella
β-talassemia evidenziarono la predominanza del genotipo (TA)7 tra
i pazienti con alti livelli di bilirubina (Sampietro et al., 1997; Galanello et al., 1997). L’espressione di UGT1A1 sembra quindi essere
un fattore modificatore nelle malattie emolitiche ereditarie. Questo
è un chiaro esempio di gene modificatore che co-ereditato con un
altro gene malattia determina l’eterogeneità clinica nelle malattie
monogeniche.
Sindrome di Gilbert e calcoli biliari
La sindrome di Gilbert è anche associata ad aumentato rischio di
sviluppo di colelitiasi. In particolare, la co-eredità di GS e HS aumenta ancora di più questo rischio (Fretzayas et al., 2012). Il genotipo
Gilbert influenza sia la prevalenza che l’età di sviluppo dei calcoli nei
pazienti con talassemia major (Sampietro et al., 1998), e nei pazienti
con anemia falciforme (Berk et al., 1998). Una significativa associazione è stata descritta anche nei pazienti con anemia diseritropoietica di tipo II (CDAII) e GS, che sviluppano un’aumentata incidenza
di calcoli biliari. Gli effetti della GS sono chiaramente visibili quando
i pazienti CDAII sono comparati ai pazienti della stessa famiglia, ma
con diverso genotipo Gilbert (Perrotta et al., 2000).
Sindrome di Gilbert e antiossidanti
La bilirubina ha potenti effetti antiossidanti, infatti, tra i pazienti con
GS esiste una bassa prevalenza di ischemia cardiaca, forse spiegabile con l’aumentata concentrazione di antiossidanti in circolo
Basi molecolari dell’iperbilirubinemia congenita
(Strassburg, 2010). Questi effetti protettivi si evidenziano nei pazienti GS anche per quanto riguarda il rischio inferiore di sviluppare cancro dell’endometrio ed una prognosi migliore nel linfoma di Hodgkin.
D’altra parte, però, la ridotta glucuronazione degli estrogeni e dei
mutageni aumenta il rischio di cancro del colon-retto e della mammella (Strassburg, 2010).
Sindrome di Gilbert e farmacogenetica
Il sistema degli enzimi UDP-glucuronosiltransferasi è responsabile
della glucoronazione di molti farmaci e la sua attività diminuita nei
pazienti GS inficia il metabolismo di alcuni farmaci.
GS rappresenta, infatti, un fattore di rischio farmacogenetico per la
tossicità all’irinotecano (farmaco antineoplastico) e all’atazanavir
(farmaco antivirale) (Strassburg, 2010). In particolare, in pazienti
trattati con irinotecano la presenza della variante (TA)7 di UGT1A1
determina un aumento dei livelli del metabolita attivo 7-etil-10-idrossicamptotecina (SN-38) con conseguenti effetti collaterali (mielosoppressione, diarrea). Nel caso di trattamento con atazanavir, la
presenza della variante comporta un’ulteriore diminuzione dell’attività enzimatica, con conseguente iperbilirubinemia. L’analisi di
tale polimorfismo può dunque essere di grande rilevanza clinica per
individuare pazienti che possono maggiormente beneficiare di un
trattamento o predire gravi effetti collaterali.
Le sindromi di Crigler-Najjar di tipo I e II
La sindrome di Crigler-Najjar di tipo I (CN-I), fu descritta per la prima
volta da Crigler e Najjar nel 1952 come un ittero congenito, severo
e non emolitico, in assenza di disfunzioni epatiche o anormalità del
sistema biliare (Crigler et al., 1962) (Tab. I). La sindrome è caratterizzata da sviluppo progressivo e severo di sintomi neurologici,
quali kernicterus, che conduce i pazienti alla morte entro i primi due
anni di vita. Studi necroscopici condotti sui pazienti con CN-I hanno
mostrato l’accumulo massiccio di bilirubina in organi e tessuti, ittero
della corteccia cerebrale, di altre strutture del sistema nervoso centrale e perdita neuronale (Sampietro et al., 1999). I livelli di bilirubina
totale sono in un intervallo tra 15 e 50 mg/dL e tutta la bilirubina è
di tipo indiretto. La dimostrazione del difetto di coniugazione della
bilirubina si ebbe per la prima volta tramite studi in vivo sul metabolismo e poi tramite studi in vitro, che dimostrarono l’incapacità dei
pazienti con CN-I di coniugare la bilirubina con l’acido UDP-glucuronico (Arias et al., 1969). Questo difetto è analogo a quello presente
nel modello animale spontaneo, il ratto Gunn, che si presenta con
una condizione fenotipicamente simile all’uomo (Gunn, 1938). L’esistenza di questo tipo di ratto fu descritta nel 1938, molto prima della
sindrome di Crigler-Najjar, solo in seguito l’analisi molecolare permise di correlare il fenotipo osservato nel ratto Gunn alla sindrome di
Crigler-Najjar. Questo modello animale ha contribuito notevolmente
allo studio della patofisiologia e a possibili approcci terapeutici per la
sindrome di Crigler-Najjar di tipo I. La malattia, sorta spontaneamente, era ereditata in maniera autosomica recessiva. Recentemente,
mediante tecniche di manipolazione genetica, è stato sviluppato un
topo knock-out (topo UGT1A1-/-) (Nguyen et al., 2008). In questo
modello animale il locus genico UGT1 è stato reso non funzionale.
Nei topi UGT1A1-/- i livelli di bilirubina non coniugata sono molto alti
e tali animali generalmente muoiono entro 2 settimane dalla nascita.
Questa sindrome è molto rara, con sole poche centinaia di casi descritti
in letteratura. L’analisi degli alberi genealogici ha permesso di identificare
una trasmissione autosomica recessiva, poi confermata dai dati genetici.
L’unico trattamento per questi pazienti è il trapianto di fegato ortotopico, poiché non rispondono alla terapia con fenobarbitale, che
induce l’attività enzimatica di UGT1A1 (Sampietro et al., 1999). La
fototerapia è utilizzata per ridurre i livelli di bilirubina nei bambini,
ma alcuni soggetti si vedono costretti ad utilizzarla per tutta la vita.
Trasfusioni e plasmaferesi sono utilizzate come misura di emergenza prima del trapianto di fegato. Il primo trapianto di fegato riuscito
con successo in un paziente CN-1 fu fatto nel 1982 (Sampietro et
al., 1999). In questi pazienti è importante programmare il trapianto
in epoca precoce per prevenire danni neurologici irreversibili.
Per quanto riguarda la sindrome di Crigler-Najjar tipo II, i primi pazienti furono descritti da Arias et al. nel 1962. (Arias et al., 1962).
CN-II è un ittero congenito, non emolitico, in assenza di disfunzioni
epatiche o anormalità del sistema biliare, con livelli di bilirubina più
bassi rispetto ai pazienti con CN-I (10-20 mg/dL) (Tab. I). I danni al
sistema nervoso centrale sono rari e la maggior parte dei pazienti
sopravvive alla vita adulta senza complicazioni (Arias et al., 1962).
La somministrazione di fenobarbitale induce l’attività enzimatica di
UGT1A1 riducendo i livelli di bilirubina.
La modalità di trasmissione della CN-II era sta inizialmente ipotizzata
come autosomica dominante con penetranza incompleta (Arias et al.,
1962), le analisi genetiche hanno invece mostrato un’eredità autosomica recessiva o etrozigosità composita con la sindrome di Gilbert
(i pazienti hanno un allele con una mutazione missenso di UGT1A1,
ereditata in trans con la variante (TA)7 sull’altro allele) (Sampietro et
al., 1999). L’analisi del gene UGT1A1, che causa le sindromi di CN ha
permesso di classificare le mutazioni in due categorie: i) mutazioni
che inducono la sintesi di un enzima disfunzionale e ii) mutazioni che
aboliscono completamente l’attività enzimatica. Mutazioni in omozigosi o in eterozigosi composita per il primo tipo causano CN-II, mentre
la CN-I è associata a mutazioni in omozigosi o in eterozigosi composita per il secondo tipo. La posizione della mutazione nel gene (per
esempio esone 1 o esoni 2-5) non è critica nel determinare la gravità
del quadro clinico, mentre il tipo di mutazione è discriminante; infatti,
mutazioni non-senso o di stop prevalgono nella CN-I. La variante nel
promotore (A(TA)7TAA) non ha un ruolo nella CN-I, poiché l’espressione del gene è già abolita o molto ridotta dalle mutazioni nella regione codificante. Nella CN-II, l’interazione tra la variante nel promotore
con mutazioni missenso nella regione codificante può complicare il
fenotipo; infatti, pazienti che presentano un allele con una mutazione
esonica di UGT1A1 e uno con la variante (TA)7 nel promotore hanno
CN-II (Chalasani et al., 1997). Lo studio della genetica molecolare di
UGT1A1 ha permesso di definire la complessità della GS e la sua differenziazione con la CN-II.
In conclusione, nella pratica clinica lo studio delle mutazioni genetiche di UGT1A1 consente la classificazione delle sindromi di Gilbert e
Crigler-Najjar e la diagnosi differenziale, permettendo di spiegare la
variabilità fenotipica sulla base dell’eterogenità genetica.
Conclusioni
L’iperbilirubinemia comprende un’ampia gamma di condizioni che
richiedono un vasto lavoro di diagnosi, oggi coadiuvato anche dalle
indagini genetiche. Le sindromi di Gilbert e di Crigler-Najjar sono
caratterizzate da iperbilirubinema congenita causata da deficit
dell’attività dell’enzima UGT1A1, che conducono a differenti gradi
di severità della malattia, ma le variazioni nel gene UGT1A1 e nel
suo promotore non spiegano tuttavia tutti i casi di iperbilirubinemia
non coniugata. L’esperienza maturata dall’analisi clinica e genetica
dei nostri pazienti, infatti, ci dimostra che circa il 10% dei pazienti presenti nella nostra casistica non presenta mutazioni nel gene
UGT1A1. A conferma della nostra esperienza, in un recente lavoro di
Datta et al. è stato effettuato uno studio di genome-wide association
107
I. Andolfo, A. Iolascon
in 200 pazienti con iperbilirubinemia, che non presentavano mutazioni nel gene UGT1A1, al fine di poter identificare altri geni causativi
(Datta et al., 2012). Lo studio ha condotto all’identificazione di una
variante genetica vicina al gene NUP153, significamente associata
all’iperbiliribinemia. NUP153 codifica per una nucleioporina associata al trasporto della biliverdina reduttasi, un enzima fondamentale
nel processo di coniugazione della bilirubina.
Studi futuri nei campi della biologia molecolare e della genetica
medica permetteranno di identificare nuovi geni causativi di queste
sindromi, per migliorare la diagnosi di questi pazienti. La crescente
letteratura sulla terapia genica della sindrome di Crigler-Najjar di
tipo I ci incoraggia a pensare che presto verrà sviluppata una terapia genica efficace anche nell’uomo, che permetterà di evitare il
trapianto di fegato.
Box di orientamento
Cosa si sapeva prima
Le sindromi Gilbert e di Crigler-Najjar di tipo I e II sono itteri congeniti non emolitici, che si manifestano in assenza di disfunzioni epatiche o anormalità
del sistema biliare e con diverso grado di severità. Esse rappresentano un gruppo di disordini genetici della coniugazione della bilirubina con l’acido
glucuronico.
Cosa sappiamo adesso
Mutazioni a carico del gene UGT1A1, codificante per l’enzima responsabile della coniugazione della bilirubina all’acido glucuronico sono causative delle
sindromi di Gilbert e di Crigler-Najjar di tipo I e II. Lo studio di queste condizioni dal punto di vista genetico, anche nel modello animale, il ratto Gunn, ha
permesso di definire il ruolo essenziale giocato dal gene UGT1A1 nel metabolismo epatico della bilirubina.
Ricadute in ambito clinico
L’identificazione delle basi molecolari di queste iperbilirubinemie non coniugate ha permesso di eseguire una diagnosi clinica più dettagliata e di
stabilire il rischio prognostico nei singoli pazienti. Lo studio delle mutazioni genetiche in UGT1A1 permette la classificazione delle sindromi di Gilbert e
Crigler-Najjar e la diagnosi differenziale, consentendo di distinguere la variabilità fenotipica sulla base dell’eterogeneità genetica.
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** Primo lavoro di descrizione della sindrome di Gilbert.
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1938;29:137-9.
** Lavoro di identificazione del primo modello animale, il ratto Gunn.
Ikushiro S, Emi Y, Iyanagi T. Identification and analysis of drug-responsive
expression of UDP-glucuronosyltransferase family 1 (UGT1) isozyme in rat
hepatic microsomes using anti-peptide antibodies. Arch Biochem Biophys
1995;324:267-72.
108
Kadakol A, Ghosh S, Sappal B, et al. Genetic Lesions of Bilirubin Uridine-diphosphoglucuronate Glucuronosyltransferase (UGT1A1) Causing Crigler-Najjar and
Gilbert Syndromes: Correlation of Genotype to Phenotype. HUMAN MUTATION
2000;16:297-306.
** Lavoro fondamentale per la prima correlazione genotipo-fenotipo di queste
patologie.
Kaplan M, Renbaum P, Levy-Lahad E, et al. Gilbert’s syndrome and glucose6-phosphate dehydrogenase deficiency: a dosedependent genetic interaction
crucial to neonatal hyperbilirubinemia. Proc Natl Acad Sci USA 1997;94:1212832.
Miraglia del Giudice E, Perrotta S, Nobili B, et al. Coinheritance of Gilbert’s syndrome increases the risk for developing gallstones in patients with hereditary
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Miranda PS, Bosma PJ. Towards liver-directed gene therapy for Crigler-Najjar
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Nguyen N, Bonzo JA, Chen S, et al. Disruption of the ugt1 locus in mice resembles human Crigler-Najjar type I disease. J Biol Chem 2008;283:7901-11.
Pastore N, Nusco E, Vaníkova J, et al. Sustained reduction of hyperbilirubinemia
in Gunn rats after adeno-associated virus-mediated gene transfer of bilirubin
UDP-glucuronosyltransferase isozyme 1A1 to skeletal muscle. Hum Gene Ther
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Perrotta S, del Giudice EM, Carbone R, et al. Gilbert’s syndrome accounts for the
phenotypic variability of congenital dyserythropoietic anemia type II (CDA-II). J
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Ritter JK, Chen F, Sheen YY, et al. A novel complex locus UGT1 encodes human
bilirubin, phenol, and other UDP-glucuronosyltransferase isozymes with identical
carboxyl termini. J Biol Chem 1992 267:3257-61.
* Primo lavoro che ha caratterizzato il complesso UGT.
Roy Chowdhury J, Wolkoff AW, Roy Chowdhury N, et al. Hereditary jaundice
and disorders of bilirubin metabolism. In: Scriver RC, Beaudet AL, Sly WS, Valle
D, editors. The metabolic and molecular bases of inherited disease. New York:
McGraw Hill, Inc. 2000.
** Libro che racchiude le basi molecolari di tutti i disordini del metabolismo della
bilirubina.
Roy-Chowdhury N, Deocharan B, Bejjanki HR, et al. Presence of the genetic
marker for Gilbert syndrome is associated with increased level and duration of
neonatal jaundice. Acta Paediatr 2002;91:100-1.
Sampietro M, Iolascon A. Molecular pathology of Crigler-Najjar type I and II and
Gilbert’s syndromes. Haematologica 1999;84:150-7.
* Primo lavoro di revisione delle nuove scoperte in campo genetico su queste
patologie.
Basi molecolari dell’iperbilirubinemia congenita
Sampietro M, Lupica L, Perrero L, et al. TATA-box mutant in the promoter
of the uridine diphosphate glucuronosyltransferase gene in Italian patients with Gilbert’s syndrome. Ital J Gastroenterol Hepatol 1998;30:1948.
Sampietro M, Lupica L, Perrero L, et al. The expression of uridine diphosphate
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** Importante review sugli aspetti clinici e genetici di queste sindromi.
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genetic disorders of bilirubin metabolism. Biochimica et Biophysica Acta
1998;1407:173-84.
Watchko JF, Lin Z, Clark RH, et al. Complex multifactorial nature of significant
hyperbilirubinemia in neonates. Pediatrics 2009;124:e868-77.
Corrispondenza
Immacolata Andolfo, CEINGE Biotecnologie Avanzate, Via Gaetano Salvatore, 486, 80145 Napoli. Tel.: +39 081 3737898. Fax: +39 081 3737804.
E-mail: [email protected]
109
Aprile-Giugno 2013 • Vol. 41 • N. 170 • Pp. 110-120
Focus
Gestione clinica dei disturbi della
differenziazione sessuale con cariotipo 46,XY:
aspetti emergenti1
Silvano Bertelloni1, Eleonora Dati2, Paolo Ghirri3, Franco D’Alberton4, Fulvia Baldinotti5,
Giampiero I. Baroncelli1
Medicina dell’Adolescenza, UO Pediatria Universitaria, Azienda Ospedaliero-Universitaria Pisana, Pisa
UO Oncoematologia Pediatrica, Azienda Ospedaliero-Universitaria Pisana, Pisa
3
UO Neonatologia, Azienda Ospedaliero-Universitaria Pisana, Pisa
4
Unità Operativa di Pediatria, Dipartimento Salute della Donna, del Bambino e dell’Adolescente, Azienda
Universitaria-Ospedaliera di Bologna, Bologna
5
Laboratorio di Genetica Medica, Dipartimento di Medicina di Laboratorio, Azienda Ospedaliero-Universitaria
Pisana, Pisa
1
2
Riassunto
I disordini della differenziazione sessuale con cariotipo 46,XY (46,XY DSD) rappresentano un gruppo eterogeneo di condizioni complesse. Il quadro clinico è
estremamente variabile, estendendosi da un fenotipo femminile normale a quello di un maschio infertile o con lieve ipovirilizzazione. La nuova classificazione (elaborata nella Conference di Chicago) e le nuove acquisizioni di biologia molecolare permettono oggi un migliore inquadramento clinico e un migliore
percorso assistenziale, che non può prescindere da: una più razionale assegnazione del sesso, il management presso centri di riferimento, un’adeguata
terapia ormonale sostitutiva per età e sesso dall’adolescenza in poi (se le gonadi sono non funzionanti o rimosse), e un adeguato supporto psicologico,
unitamente a un’informazione chiara e completa sulla condizione clinica al paziente e alla famiglia, al fine di ottimizzare l’outcome a lungo termine (benessere fisico, psichico e sociale). Le associazioni dei genitori rappresentano un valore aggiunto per gli stimoli che possono dare in ambito di care e ricerca.
Summary
Disorders of sex differentiation with 46,XY karyotype (46,XY DSD) represent a heterogeneous group of clinical disorders, characterized by overlapping clinical features. The increased knowledge of the genetic mechanisms involved in the pathogenesis resulted in a new classification (Conference of the disorders
and in novel approaches to the management of patients.
Thus, new guidelines are emerging in order to optimize sex assignment and general principles of care to improve long-term outcome. Psychological
research emphasizes the importance to provide clear and complete disclosure of medical information to 46,XY DSD individuals and their families. Patient
advocacy groups demand a more conservative approach regarding surgical procedures and prompt for innovative research plans.
Introduzione
I disordini della differenziazione sessuale con cariotipo maschile
normale (46, XY DSD) sono condizioni cliniche rare, nelle quali individui con gonadi disgenetiche o differenziatesi in testicoli presentano
un fenotipo femminile o caratterizzato da vari gradi di ambiguità dei
genitali interni e/o esterni e/o non in accordo con il cariotipo (Hughes
et al., 2006). Una condizione di questo tipo può rendersi evidente
in epoca neonatale, potendo determinare anche dei dubbi sull’attribuzione del sesso, durante l’età prepuberale o anche in quella
adolescenziale/adulta (Hughes et al., 2006; Hughes, 2008; Rey e
Grinspon, 2011). A partire dalla metà degli anni 2000, vi è stata una
profonda revisione della nomenclatura di queste condizioni, dell’approccio clinico alle persone con 46,XY DSD – anche in conseguenza
di una Conference tenutasi a Chicago nel 2006 promossa congiun-
tamente da European Society for Paediatric Endocrinology/Lawson
Wilkins Pediatric Endocrine Society (Hughes et al., 2006; Pasterski
et al., 2010) – e delle nuove conoscenze di biologia molecolare (Hughes, 2008; Rey e Grinspon, 2011; McClelland et al., 2012; Sekido
e Lovell-Badge, 2009; Stukenborg et al., 2010). L’inquadramento
clinico e di laboratorio rimane tuttavia complesso, in considerazione
del fatto che varie forme possono manifestarsi con lo stesso quadro fenotipico e che difficoltà tecniche ancora persistono, a volte,
per giungere a una diagnosi definitiva (Hughes, 2008; Mendonca et
al., 2010), che è il presupposto per un miglior management clinico
(Brain et al., 2010; Lux et al., 2009). Questo focus si propone di
offrire al pediatra una breve sintesi sui meccanismi della differenziazione sessuale, sul nuovo inquadramento nosografico dei 46,XY
DSD e sulle più attuali indicazioni per ottimizzare il percorso di care.
Lavoro dedicato a Roberto G. Burgio, Maestro di Pediatria e pioniere della ricerca pediatrica nell’ambito della differenziazione sessuale in Italia.
1
110
Gestione clinica dei disturbi della differenziazione sessuale con cariotipo 46,XY
Obiettivi del lavoro e metodologia della ricerca
bibliografica
È stata condotta una ricerca bibliografica su Medline, utilizzando
come motore di ricerca PubMed con le seguenti stringhe: disorders
of sex development, altered androgen biosynthesis, androgen resistance, vaginal hypoplasia, gonadectomy, clinical management. Alcuni degli articoli selezionati sono derivati dall’analisi delle referenze
bibliografiche dei lavori citati o da conoscenze personali nell’ambito di
gruppi di lavoro e progetti di ricerca internazionali. Sono stati applicati
i seguenti limiti: lingua inglese, ultimi 10 anni di pubblicazione. Degli
articoli identificati sono stati privilegiati i lavori secondari più recenti
di revisione, di proposte di nuovi meccanismi patogenetici e di nuove
acquisizioni di care. Sono stati inoltre individuati alcuni lavori in lingua
italiana di rilievo per l’approccio diagnostico-assistenziale nel nostro
Paese, soprattutto in età neonatale.
Nuovi meccanismi molecolari e nuova
classificazione dei DSD
Secondo la Conference di Chicago, con la dizione DSD s’intendono
tutte quelle condizioni congenite, nelle quali il sesso cromosomico,
Figura 1.
Rappresentazione schematica del processo di differenziazione sessuale maschile: nella figura sono riassunte le linee di sviluppo a partire dalla
gonade primordiale bipotente e i processi di determinazione e differenziazione sessuale, unitamente ai geni e ai principali ormoni coinvolti nel
processo. In rosso sono rappresentati gli androgeni (T= testosterone, DHT = didrotestosterone) e le loro azioni principali. In particolare, SOX9 è un
diretto target molecolare di SRY, il quale – formando un complesso con SF1 – determina una sua upregulation, legandosi a uno specifico enhancer
(TESCO = testis specific enhancer of Sox9 core element); successivamente elevati livelli di SOX9 si automanterrebbero nella gonade XY tramite
un loop di autoregolazione (Sekido e Lovell-Badge, 2009; McClelland et al., 2012)
Nel riquadro è rappresentata la stretta finestra temporale (nel topo) necessaria per determinare la virlizzazione della gonade bipotente da parte di
Sry (A); sia livelli di Sry sottosoglia (B) o adeguati, ma fuori finestra temporale (C), determinano la nascita di topi con ambiguità genitale (Sekido e
Lovell-Badge, 2009).
AMH = Ormone antimulleriano
DHT = Diidrotestosterone
FGF9 = Fibroblast growth factor 9
Insl-3 = Insulin-line growth factor-3
RSPO1 = R-spondin 1
SF1 = Steroidogenic factor 1
SOX9=SRY (sex determinig region Y)-box 9
SRY = Sex-determining gene of Y chromosome
T = Testosterone
WT1 = Wilms tumor 1
111
S. Bertelloni, E. Dati, P. Ghirri, F. D’Alberton, F. Baldinotti, G.I. Baroncelli
Figura 2.
Rappresentazione schematica dei livelli sierici dei principali ormoni testicolari, dalla vita intrauterina all’età adulta: le concentrazioni di testosterone
(ng/dl, linea blù) e inibina B (pg/ml, linea nera) sono riferite all’asse Y di sinistra, mentre quelle di AMH (ng/ml, linea rossa) sono riferite all’asse Y
di destra (modificato da Bertelloni et al., 2010a).
gonadico o anatomico risulta non conforme rispetto agli usuali processi di sviluppo embrionario delle gonadi e/o dei genitali (Hughes
et al., 2006), che – in estrema sintesi – può essere riassunto in
due fasi principali (Fig. 1) (McClelland et al., 2012; Sekido e LovellBadge, 2009). In pratica, nell’embrione umano, intorno alla IV settimana, dopo la fecondazione si sviluppa la cresta urogenitale a partire
da un ispessimento del mesonefrio coperto dall’epitelio celomatico,
che dà poi origine al sistema urinario e genitale. In questa fase, sia
la gonade indifferenziata sia gli abbozzi dei genitali interni ed esterni risultano uguali tra feti con assetto cromosomico 46,XX o 46,XY e
bipotenti, potendo svilupparsi sia in senso maschile che femminile.
Durante la VII settimana di vita intrauterina, la gonade dell’embrione
XY inizia a differenziarsi in testicolo, grazie all’azione di un complesso
pattern genetico, in cui un ruolo chiave è giocato dal gene SRY (Sex
determing gene of Y chromosome) (McClelland et al., 2012; Sekido
e Lovell-Badge, 2009; Stukenborg et al., 2010). Altri geni autosomici
intervengono in questo processo) in particolare SF1 (o NR5A1) e SOX9
(Lin e Achermann, 2008; McClelland et al., 2012) (Fig. 1). SRY può
esercitare la sua azione solo in una stretta finestra temporale e con
il raggiungimento di determinati valori soglia (Sekido e Lovell-Badge,
2009) (v. riquadro in Fig. 1). Una volta differenziatisi i testicoli, le cellule
di Sertoli producono l’ormone antimulleriano (AMH) e l’inibina B, mentre le cellule di Leydig secernono ormoni androgeni ed INSL3 (Insulin
Like Factor 3) (Stukenborg et al., 2010) (Fig. 1). Nel periodo embrionale, l’AMH, secreto in elevati livelli dal periodo della determinazione
testicolare alla pubertà (Fig. 2), è responsabile della regressione dei
dotti di Müller, che nella femmina danno origine a utero, tube di Falloppio e terzo superiore della vagina. L’espressione di AMH è attivata
da SOX9, potenziata da SF1 e WT1 e indipendente dal controllo delle
gonadotropine. Solo successivamente l’FSH stimolerà la produzione di
AMH, la cui sintesi alla pubertà viene inibita dagli androgeni (Stukenborg et al., 2010) (Fig. 2). Il testosterone è sintetizzato dalle cellule di
Leydig a partire dal colesterolo, per azione coordinata dei vari enzimi
della steroidogenesi gonadica (Tab. I), molti dei quali sono regolati o
co-regolati da SF1 (Lin e Achermann, 2008; Stukenborg et al., 2010).
Durante il primo trimestre di gravidanza, il testosterone è responsabile
direttamente della differenziazione dei dotti di Wolff in epididimo, vasi
112
deferenti e vescichette seminali. Questo processo richiede concentrazioni ottimali locali di testosterone, in assenza delle quali i dotti di
Wolff vanno incontro ad involuzione. Il testosterone agisce anche con
un’azione endocrina sul sistema nervoso centrale (SNC) determinandone un imprinting in senso maschile (Hughes, 2008; Rey e Grinspon,
2011). Tale effetto è poi rafforzato dalla secrezione dell’ormone nei
primi mesi di vita e dalla pubertà in poi (Fig. 2).
A livello di altri tessuti bersaglio, il testosterone è convertito dall’enzima 5α-reduttasi in diidrotestosterone (DHT), che determina la virilizzazione del seno urogenitale e dei genitali esterni tra la decima e
la quattordicesima settimana di gestazione; successivamente questo
ormone determinerà lo sviluppo dei caratteri sessuali secondari dalla
pubertà in poi (Hughes, 2008; Rey e Grinspon, 2011) (Fig. 1). INSL3 è
l’altro ormone prodotto dalle cellule di Leydig, che sembra intervenire
insieme agli androgeni nello sviluppo del gubernaculum testis e nella
discesa dei testicoli nello scroto durante il III trimestre di gestazione (Stukenborg et al., 2010); nella vita postnatale INSL3 potrebbe poi
avere un ruolo nello sviluppo e nel mantenimento della massa ossea
(Ferlin et al., 2008).
Ogni variazione in uno degli eventi sopra sintetizzati può causare un
46,XY DSD e ha portato nella Conference di Chicago ad elaborare una
nuova Classificazione su base patogenetica (Tab. I) (Hughes et al.,
2006), che ha avuto un profondo impatto in letteratura (Pasterski et
al., 2010).
Quadri clinici principali
In tabella II sono sintetizzate le principali forme cliniche di 46,XY DSD
con i geni responsabili, la prevalenza, il quadro fenotipico e il profilo
endocrino (Bertelloni et al., 2009, Cheon, 2011, Hughes, 2008; Mendonca et al., 2010; Rey e Grinspon, 2011).
La sindrome da insensibilità agli androgeni completa (SIA) rappresenta probabilmente la forma di 46,XY DSD più frequente (Tab. II) (Hughes
e Deeb, 2009; Lux et al., 2009). A conferma, nella nostra casistica,
relativa a 56 bambine/donne con 46,XY DSD, una diagnosi di certezza
di SIA è stata geneticamente dimostrata nel 75% (Fig. 3). Nella SIA
Gestione clinica dei disturbi della differenziazione sessuale con cariotipo 46,XY
Tabella I.
Principali 46,XY DSD: classificazione secondo la Consensus di Chicago (Hughes et al., 2006).
46,XY DSD da
gene(i) coinvolti
A. Disturbi dello sviluppo gonadico
1. Disgenesia gonadica (completa o parziale)
2. Sindrome da regressione testicolare
SRY, SOX9$, SF1#, WT1*, DHH§
SF1# , WT1
B. Difetti nella biosintesi del colesterolo
1. Sindrome di Smith-Lemli-Opitz °
DHCR7
C.Disturbi nella biosintesi o nell’azione degli androgeni
1. Aplasia/ipoplasia delle cellule di Leydig
LH/hCGR
2. Alterata biosintesi degli androgeni
Deficit di Steroidogenic acute regulatory protein**
StAR
Deficit di Cholesterol side-chain cleavage (CYP11A1)**
CYP11A1
Deficit di 3β-idrossisteroidideidrogenasi tipo 2**
HSD3B2
Deficit di 17α-idrossilasi**/17,20-liasi
CYP 17
Deficit di P450 ossidoreduttasi (POR)*
POR
Deficit di 17β-idrossisteroidodeidrogenasi tipo 3
17β-HSD3
3. Alterata azione degli androgeni
Sindrome da insensibilità agli androgeni (completa, parziale, minima)
AR
4. Difetti nel metabolismo del testosterone
Deficit di 5α-reduttasi tipo 2
5. Sindrome da persistenza dei dotti mülleriani^
RD5A2
AMH^^
associato a displasia camptomelica; # noto anche come NR5A1; § associato a neuropatia fascicolare in alcune persone; ° associa ai genitali ambigui dismorfie multiple e
ritardo mentale; * associata usualmente ad alterazioni della funzionalità renale, anche ad insorgenza in età adolescenziale/adulta, ** forme associate a deficit surrenalico,
^ genitali esterni maschili normali con criptorchidismo e presenza di utero/tube di Falloppio in cavità pelvica;; ^^ da alterazione nel gene dell’AMH o del suo recettore
(deficit di azione).
StAR = Steroidogenic acute regulatory protein; AR = recettore degli androgeni; LHCGR = recettore di LH/hCG; AMH = ormone anti-mülleriano.
$ Figura 3.
Diagnosi molecolari 56 bambine/donne con 46,XY DSD, fenotipo femminile o con minimi segni di virilizzazione (dati in percentuale dell’intero
gruppo, casistica personale, Clinica Pediatrica Pisa 2005-2012) (dati non pubblicati).
completa, il fenotipo è quello di una donna normale, sia prima che
dopo la pubertà, con testicoli localizzati nell’addome, nel canale inguinale o nelle grandi labbra, che possono determinare l’insorgenza
di un’ernia inguinale (principale segno di sospetto clinico in età prepubere). La discordanza tra fenotipo femminile alla nascita e cariotipo
maschile in diagnosi prenatale è un altro motivo di diagnosi in epoca
prenatale o perinatale. In adolescenza, il menarca è assente (principa-
le motivo di consultazione medica in epoca puberale) (Hughes et al.,
2006; Hughes e Deeb, 2006). La vagina, sebbene di lunghezza ridotta,
risulta usualmente adeguata per i rapporti sessuali, senza la necessità
di interventi chirurgici e/o dilatativi (Wilson et al., 2011). Nelle forme di
SIA incompleta, il quadro clinico può variare da quello di neonate con
minimi segni di virilizzazione a bambini con elevato grado di ambiguità
genitale, fino a maschi con infertilità, ma fenotipicamente normali o
113
S. Bertelloni, E. Dati, P. Ghirri, F. D’Alberton, F. Baldinotti, G.I. Baroncelli
Figura 4.
Figura 4. Approccio diagnostico in un neonato con 46,XY DSD; ad ogni “time point” è necessario valutare il peso corporeo (modificato da Ghirri e
Scaramuzzo, 2011)
T = testosterone
DHT = diidrotestosterone
D4 = β4-androstenedione
17-OHP = 17-idrossiprogesterone
17-OHPreg. = 17-idrossipregnelone
DHEA = deidroepiandrosterone
11β-DOC = 11β-deossicortisolo
ACTH = ormone adrenocorticotropo
LH = ormone luteinizzante
FSH = ormone follicolostimolante
SAG = sindrome surreno-genitale
con solo modesta ginecomastia (SIA minima) (Hughes et al., 2006;
Hughes e Deeb, 2006). Questo ampio spettro fenotipico, almeno fino
alla pubertà, accomuna le varie forme di 46,XY DSD (Tab. II) (Hughes
et al., 2006; Hughes, 2008; Bertelloni et al., 2009; Cheon, 2011), tanto che non è possibile porre una diagnosi differenziale in base alla
sola clinica. Al fine di effettuare indagini genetiche mirate è pertanto
necessaria un’accurata valutazione endocrina, che in prepubertà non
può prescindere dalla determinazione di AMH e inibina B, la cui presenza è indicativa dello sviluppo delle cellule di Sertoli, e dall’esecuzione di un test hCG per la valutazione dinamica di testosterone, DHT
e loro precursori (Tab. II); rimane però da definire il protocollo migliore
e il prodotto più idoneo a questo scopo (Ahmed et al. 2011; Bertelloni
et al., 2010a).
Le problematiche in epoca neonatale
La nascita di un neonato con 46,XY DSD e ambiguità dei genitali determina un grande stress psicologico per i familiari. Oltre alla malformazione dei genitali, alcuni DSD possono poi essere potenzialmente pericolosi per la vita, se associati a deficit surrenalico o ad altre
114
malformazioni congenite (Tab. I) (Hughes et al., 2006; Hughes, 2008;
Massanyi et al., 2012; Mendonca et al., 2010).
Si tratta pertanto di una vera e propria emergenza, che deve essere
affrontata con lo scopo di individuarne con certezza le cause e le eventuali anomalie associate, di informare esaustivamente i genitori, con
parole semplici e non allarmanti, e di aiutarli a decidere sull’assegnazione del sesso (Faisal Ahmed et al., 2011; Ghirri e Scaramuzzo, 2011;
Massanyi et al., 2012). Un protocollo diagnostico che ha lo scopo di
promuovere la diagnosi precoce fin dai primi giorni di vita è riportato in figura 4 (Ghirri e Scaramuzzo, 2011), in modo da escludere le
forme 46,XX che hanno problematiche mediche differenti, anche per
un maggior rischio di insufficienza surrenalica (Hughes et al., 2006;
Massanyi et al., 2012). Un corretto iter diagnostico deve sempre partire dall’anamnesi familiare e gravidica, dall’analisi dei genitali e del
fenotipo del neonato, valutando l’eventuale presenza di gonadi palpabili, le dimensioni del pene/clitoride, la posizione del meato uretrale e
il grado di ipospadia (se presente), l’aspetto dello scroto e l’eventuale
iperpigmentazione, la presenza di altre malformazioni, di restrizione di
crescita intrauterina (IUGR) e di ipotonia (Hughes et al., 2006; Faisal
Ahmed et al., 2011; Ghirri e Scaramuzzo, 2011). Il solo metodo per
Gestione clinica dei disturbi della differenziazione sessuale con cariotipo 46,XY
Tabella II.
Caratteristiche cliniche dei principali 46,XY DSD (senza insufficienza surrenalica) (Bertelloni et al, 2009; Hughes et al, 2006; Lin e Achermann,
2008; Rey e Grinspon, 2011; Mendonca et al, 2010).
Prevalenza
Deficit
di SF1^
Ipoplasia
del Leydig
Deficit di
17β-HSD3
Deficit di
5α-reduttasi
SIA
?
?
147.000*
?°
1: 20.000/1: 99.000
Cariotipo
46,XY
Ereditarietà
AD (AR)
AR
AR
AR
X-linked recessivas
Gene mutato
NR5A1 (SF1)
LHGCR
17β−HSD3
SRD5A2
Recettore androgeni
∼30
diverse
∼30
∼50
>500
Mutazioni descritte
9q33.3
2p21
9q22
2p23
Xq11-12
Patogenesi
Localizzazione cromosomica
Alterato sviluppo del
testicolo/alterazione
della steroidogenesi
Alterazione del
recettore per LH con
mancata risposta a
LH e hCG
Alterata
conversione del
∆4-androstenedione
in testosterone
Alterata conversione
del testosterone in
DHT
Mancata risposta
(completa o parziale)
dei tessuti bersaglio
a tutti gli androgeni
Genitali esterni
Da femminili
a maschili con
agenesia testicolare/
criptorchidismo/
ipospadia
Femminili o ambigui
Femminili o ambigui
Femminili o ambigui
Da femminili a
maschili
presente
(nelle forme con
femminilizzazione)
presente (70-80%)
presente (80%)
presente (50%)
presente
(forme complete)
Strutture wolffiane
da assenti a presenti
maschili
(ipoplasiche)
usualmente maschili
usualmente maschili
assenti o maschili
(usualmente
ipoplasiche)
Strutture mülleriane
presenti
(∼30-50%)
assenti
assenti
assenti
assenti
(raro: rudimentali)
Streak o testicoli
(variamente
sviluppati)
Testicoli intra- o
extra addominali*
Testicoli extraaddominali
(∼90%)
Testicoli extraaddominali
(∼90-100%)
Testicoli intraaddominali
o extra
↓ variabile di tutti gli
androgeni
↓ variabile di tutti gli
androgeni
∆4-A ↑; T ↓, T/
∆4-A ↓; T/DHT N,
estrogeni N or ↓
∆4-A N; T N or ↑,
DHT ↓, T/DHT ↑,T/
∆4-A N, estrogeni N
∆4-A N, T N or ↑, T/
∆4-A N, T/DHT N or
↓, estrogeni ↑ o N
Incremento assente
o sub-normale di
tutti gli androgeni
testicolari
Incremento assente
o sub-normale di
tutti gli androgeni
testicolari
Incremento del ∆4-A
maggiore di quello
del T (T/ ∆4-A ratio <
0.8-1.0)
Normale incremento
del T con mancato
incremento del
DHT [T/DHT ratio
> 8 (lattanti) o 16
(bambini prepuberi)]
Normale incremento
di tutti gli androgeni;
mancato decremento
dell’SHBG al termine
del test
(nelle forme
complete)
Vagina a fondo cieco
Gonadi
Profilo steroideo
Risposta hCG test
↓ o normale
Normale o ↑
Normale
Normale
Normale o ↑
Fenotipo alla nascita
Da femminile
a maschile con
cfiptorchidismo/
ipospadia
Femminile o ambiguo
Prevalentemente
femminile
Femminile o ambiguo
Da femminile a
maschile
Fenotipo alla pubertà
infantilismo
sessuale/
virilizzazione
infantilismo
sessuale/
virilizzazione
virilizzazione
virilizzazione
da femminilizzazione
a virilizzazione
assente o minimo
assente
variabile
assente
presente (variabile)
Peluria androgenica
variabile
variabile
maschile normale
maschile normale
assente o scarsa
Cambiamento sesso
raro
assente
presente
(30-50%)
presente
(∼ 75%)
non presente
(nelle forme
complete o minime)
variabile
variabile
variabile
usualmente presente
variabile**
AMH/inibina B
Svilippo seno
Androgenizzazione SNC
^possibile associazione con deficit surrenalico in particolare nelle forme in omozigosi (rare); **assente nelle forme complete.
*1: 300 - 1: 150 maschi nella popolazione araba della striscia di Gaza; °relativamente frequente nella Repubblica Dominicana, in Libano e Nuova Guinea.
AD = autosomica dominante; AR = autosomica recessiva; T = testosterone; N = normale; ↑ = aumentato, ↓ = ridotto; ∆4-A = ∆4-Androstenedione, T = testosterone,
DHT = diidrotestosterone
115
S. Bertelloni, E. Dati, P. Ghirri, F. D’Alberton, F. Baldinotti, G.I. Baroncelli
Figura 5.
Rappresentazione schematica di approccio ideale di gestione [alla care] dei 46,XY DSD. In esso è incluso un team multispecialistico centrale, che
si confronta e si rapporta con le numerose competenze – sia a livello periferico sia centrale – necessarie per ottenere i migliori risultati. Le frecce
sono indicative del flusso principale delle informazioni e dei servizi (modificato da Brain et al. 2010).
correlare il fenotipo al grado di deficit androgenico è rappresentato dal
masculinization score (Ahmed et al., 2000), sebbene rimanga troppo
poco utilizzato. È indicata un’ecografia per l’individuazione dell’utero
ed eventualmente delle gonadi – se non palpabili – nonché di una
genitografia per la rilevazione di un seno urogenitale (Ahmed et al.,
2011; Ghirri e Scaramuzzo, 2011). Come accennato, i diversi fenotipi
clinici non sono di per sé caratteristici di una determinata condizione
(Tab. II); per la diagnosi sono quindi necessari esami ormonali, eseguiti con una precisa sequenza temporale in relazione alle variazioni
fisiologiche degli ormoni steroidei nei primi giorni di vita (Fig. 4) (Ghirri
e Scaramuzzo, 2011). I metodi immunometrici attualmente più usati
sono poco specifici, per cui l’introduzione nella pratica clinica della
determinazione dell’intero profilo steroideo con cromatografia liquida associata a spettrometria di massa (LC/MS/MS), che ha elevata
sensibilità e specificità, potrà permettere una diagnostica precoce più
accurata (Honour, 2010).
Il problema dell’assegnazione del sesso in un
momento di cambiamento nel management dei DSD
La decisione circa il sesso da assegnare a un bebè con un 46,XY DSD,
soprattutto con una diagnosi genetica non ancora certa o non conosciuta, costituisce un compito poco frequente, ma molto arduo, sia dal
punto di vita medico che etico (Massanyi et al., 2012). Questo tipo di
decisione appassiona, ma al tempo stesso sfida le conoscenze personali dei singoli professionisti, le certezze etiche e morali, le opinioni
personali (Brain et al., 2010; D’Alberton, 2010; Wieseman, 2010). Inoltre, le conoscenze mediche in questo campo variano velocemente e
concetti come quello di identità di genere e di ruolo di genere, benché
studiati nelle loro origini biologiche, psicologiche e sociali, sono ben
116
lungi dal vedere una teoria unitaria comprensiva e condivisa (Fast,
1999; Fonagy et al., 2006). Come afferma la Conference di Chicago
(Hughes et al., 2006), le migliori condizioni per minimizzare il rischio di
non fare le scelte più adeguate, si realizzano attraverso la formazione
di centri di riferimento, anche policentrici, dove nel tempo si consolida
un team interdisciplinare, che condivida modalità di lavoro e riunisca
molteplici competenze, con comprovata esperienza nel settore (Fig. 5)
(Brain et al., 2010; Moran e Karkazis, 2012), che deve favorire un coinvolgimento attivo dei genitori nel percorso assistenziale (Brain et al.,
2010; D’Alberton, 2010). Ogni decisione sull’assegnazione di sesso
dovrebbe essere presa attraverso un processo di valutazione dei dati
medici, dei fattori psicologici, delle aspettative dei genitori sul/la loro
figlio/a e, a partire da una certa età, l’espressione dell’orientamento individuale della persona direttamente interessata, posponendo
gli interventi sanitari non strettamente necessari – es. ricostruzione
vaginale – ad età successive, in cui sarà possibile coinvolgere la persona con 46,XY DSD nella scelta (Hughes, et al., 2006; Massanyi et
al., 2012, Wiesemann, 2010). Ogni sorta di preoccupazione e di angoscia si possono presentare in questo percorso sia nei genitori sia
nello staff sanitario; solo un effettivo lavoro di gruppo con “tempi non
ristretti” può consentire di affrontarle, evitando di prendere pericolose
“scorciatoie”, che sul momento possono sembrare più facili (D’Alberton 2010, Wiesemann, 2010). Una di quelle più comuni e insidiose
consiste nell’utilizzare opinioni psicologiche del passato (Money et al.,
1955a e 1955b; Stoller, 1984), considerandole verità scientifiche e
usarle al posto dell’attuale e innovativo approccio ai DSD (Hughes et
al., 2006; Massanyi et al., 2012).
Una di queste opinioni del passato, che le nuove realtà cliniche mettono fortemente in discussione, è quella che spinge a prendere decisioni
definitive e presumibilmente immodificabili sul sesso di assegnazione
Gestione clinica dei disturbi della differenziazione sessuale con cariotipo 46,XY
Tabella III.
Assegnazione del sesso nei 46,XY DSD: alcune indicazioni (Hughes et al, 2006, mod).
Forma clinica
Sesso da assegnare
Note
Deficit di sintesi del testosterone
preferibilmente maschile
(soprattutto se diagnosi precoce)
Considerare la possibilità di riassegnazione del sesso maschile in
soggetti allevati come femmine in rapporto a diagnosi molecolare,
valutazione psico-comportamentale e storia di altre persone con
stesso difetto genetico (se presenti in letteratura).
Deficit di 5α-reduttasi
preferibilmente maschile
(soprattutto se diagnosi precoce)
SIA completa
femminile
Sesso femminile mai in dubbio, orientamento sessuale e attitudini
femminili
SIA parziale
femminile o maschile
Da valutare caso per caso anche i rapporto alla teorica possibilità
di androgenizzazione alla pubertà e alla storia di altre persone con
stesso difetto genetico (se presenti in letteratura).
Deficit di virilizzazione grave “senza
diagnosi”
Da valutare caso per caso anche in
rapporto al livello di androgenizzazione del fenotipo*.
*calcolato con il “masculinization score” (Ahmed et al, 2000).
Tabella IV.
46,XY DSD: schemi di terapia ormonale sostitutiva per l’induzione e il mantenimento delle caratteristiche sessuali secondarie (Bertelloni et al,
2008; Bertelloni et al, 2011).
Maschi
Femmine°
Testosterone iniettabile:
Esteri: 25-50 mg/4-6 sett. (dose iniziale) fino a 150-250 mg/2-4 sett.
(dose adulto).
Undecanoato (Nebid®)* 1000 mg/90 giorni (dose adulto).
Estrogeni iniettabili depot*:
17β-estradiolo depot: 0.2 mg/mese, aumentando 0.2 -mg ogni 6 mesi
fino a 1.0 mg, poi aumentare 0.5 mg ogni 6 mesi fino a un massimo di
3.0 mg/mesi.
Testosterone orale:
Undecanoato (Andriol®cps 40 mg): 40 mg/die per 6-12 m. (solo come
dose iniziale)
Estrogeni per via orale:
Etinil-estradiolo: 2.5 - 5 µg/die (= 50-100 ng/kg/die), questa dose iniziale
dovrebbe essere gradualmente aumentata fino alla dose di mantenimento
per adulte (20-25 µg/die).
17βestradiolo micronizzato: 5 µg/kg/die; questa dose iniziale dovrebbe
essere gradualmente aumentata fino alla dose di mantenimento
dell’adulto (meglio se per via transdermica)
Testosterone per via transdermica:
Cerotti: 2.5 – 5.0 mg/24 ore;
gel (1 o 2%): 2.5-5.0 mg/24 ore (dose adulto)
Estrogeni per via transdermica (dosi per adulte)^:
17βestradiolo patch: 25-200 µg/24 h
17βestradiolo gel: 25-200 µg/24 h
°aggiungere un progestinico alla comparsa di spotting o dopo 12-18 mesi dall’inizio dell’induzione della pubertà; non vi sono dati a favore dell’utilizzo di un progestinico in
donne prive di utero; *disponibile solo in alcuni paesi; ^alcuni autori utilizzano per l’induzione della pubertà i cerotti a matrice iniziando con 1/4 o 1/8 di cerotto ogni 3-4 giorni.
prima che si sia consolidata l’identità nucleare di genere, che si riteneva si stabilisse fra i 18 e i 36 mesi di vita (Stoller, 1984). In realtà, nelle
condizioni in cui si hanno elementi diagnostici sufficienti per operare
una realistica assegnazione di sesso (Tab. III), quanto prima questa
avviene meglio è (Hughes et al., 2006; Ahmed et al., 2011). Nelle altre
situazioni, la scelta effettuata non deve essere ritenuta vincolante, in
quanto variazioni di sesso possono essere intraprese con successo
anche dopo i 36 mesi di vita (D’Alberton, dati non pubblicati). Purtroppo, la vecchia tesi della necessaria e definitiva precocità dell’assegnazione di sesso (Money et al., 1955a e 1955b) continua a essere
un punto di riferimento in alcuni ambienti clinici non adeguatamente
formati ad affrontare la complessa gestione dei 46,XY DSD (Brain et
al., 2010; Hughes et al., 2006; Massanyi et al., 2012; Warne e Raza,
2008). Ciò accade per varie ragioni: il prestigio e l’autorità accademica
delle persone che hanno sostenuto le precedenti indicazioni, come
delle istituzioni a cui essi appartenevano, la relativa mancanza di conoscenze che non consentiva di mettere in discussione opinioni personali di professionisti autorevoli, non da ultimo, il fatto che essi riducevano l’estrema complessità della problematica a un sistema binario
maschio/femmina, che proponeva qualcosa di apparentemente certo
in un campo dove le incertezze erano e rimangono molte (D’Alberton
2010, Massanyi et al., 2012; Warne e Raza, 2008; Wiesemann, 2010),
come indicato anche dal fatto che persistono incertezze circa l’identità
di genere (Schweizer et al., 2009) e che mutamenti di sesso possono
avvenire con successo anche dopo la pubertà e non sono infrequenti
in alcune forme di 46,XY DSD (Tab. II) (Cohen-Kettenis, 2005). Ne deriva che non è mai troppo tardi per cambiare un’assegnazione di sesso
precedentemente effettuata, quando la scelta originaria non è sentita
dal soggetto come quella più adeguata (D’Alberton, dati non pubblicati) e che un’attribuzione certa e immodificabile di sesso non deve
essere obbligatoriamente fatta entro una certa età, ma è soprattutto
necessario operare in maniera e con tempi non ristretti per il bene
futuro delle persone; soprattutto è necessario operare, di concerto con
la famiglia, per il bene futuro delle persone tenendo conto di tutte le
variabili (Hughes et al., 2006; Wieseman, 2010).
Qualche indicazione di terapia ormonale in adolescenza
Negli adolescenti con 46,XY DSD, in cui sia stata effettuata la rimozione delle gonadi o queste non siano funzionanti, deve essere assicurata
117
S. Bertelloni, E. Dati, P. Ghirri, F. D’Alberton, F. Baldinotti, G.I. Baroncelli
un’adeguata terapia ormonale sostitutiva, che ha i seguenti obiettivi
(Bertelloni et al., 2008; Bertelloni et al., 2011; Warne et al., 2005):
• indurre e mantenere le caratteristiche sessuali secondarie;
• ottimizzare lo spurt puberale di crescita;
• raggiungere una statura finale adeguata alle potenzialità genetiche e normali proporzioni corporee in età adulta;
• ottimizzare il picco di massa ossea;
• ridurre il rischio cardiovascolare;
• assicurare una vita sessuale normale e preservare la fertilità
(quando possibile);
• garantire lo sviluppo ed il mantenimento del benessere psicologico, emotivo relazionale e sociale.
Lo sviluppo puberale dovrebbe essere indotto ad un’età cronologica adeguata e rispettando i tempi per il sesso assegnato (Tanner e
Whitehouse, 1976). In tabella IV sono riassunti alcuni possibili schemi
terapeutici per maschi e femmine. Il testosterone è l’androgeno fisiologicamente prodotto dalle gonadi nella SIA completa, per cui alcuni
report aneddotici prospettano l’uso di questo ormone in donne con
questa condizione, se geneticamente certa; una sperimentazione è in
corso su questo nuovo approccio terapeutico (Birbaum et al., 2011).
Rischio oncologico delle gonadi
Nei 46,XY DSD è presente un aumentato rischio di degenerazione maligna delle gonadi (Hughes et al., 2006, Cools et al., 2011; Pleskacova
et al., 2010), che ha determinato il ricorso alla gonadectomia nei primi
anni di vita, anche allo scopo di non dover rivelare il motivo dell’intervento in età adolescenziale/adulta (Deans et al., 2012). In diverse
situazioni, l’intervento di rimozione delle gonadi ha inoltre lo scopo
di prevenire un’eventuale virilizzazione del fenotipo alla pubertà nelle
persone a cui sia stato assegnato il sesso femminile (Tab. II) (CohenKattenis, 2005; Bertelloni et al., 2009; Rey e Grinspon, 2011).
Sebbene il rischio neoplastico nella donna adulta con SIA completa
si collochi tra l’1 e il 22%, suggerendo la validità della gonadectomia
profilattica (Deans et al., 2012), alcuni autori ritengono che questa
evenienza sia relativamente rara in questa condizione, almeno fino
al completamente dello sviluppo puberale (Hughes et al., 2006; Pleskacova et al., 2010) (Tab. V). Nella SIA completa sembra pertanto
possibile la rimozione delle gonadi – se necessaria – solo dopo il raggiungimento della maggiore età, tenendo conto dei vantaggi di ordine psicologico e pratico di una pubertà spontanea, del basso rischio
neoplastico nelle prime decadi di vita (Massanyi et al., 2012) e della
migliore mineralizzazione ossea nelle donne che mantengono le loro
gonadi (Bertelloni et al., 2010b). Questo tipo di scelta permette inoltre
di far prendere decisioni sulla propria condizione direttamente dalla
donna, ma naturalmente comporta una piena consapevolezza sulla
sua situazione biologica (Cohen-Kattenis, 2005). Negli altri 46,XY DSD
possono essere di ausilio i dati riassunti in tabella V, per dare indicazioni alle famiglie (Hughes et al., 2006; Pleskacova et al., 2010).
Evoluzione psico-sociale in età adulta
La gestione clinica di una persona con 46,XY DSD dovrebbe permettere il soddisfacimento a lungo termine oltre che degli aspetti medici, compresa l’adozione di adeguate modalità di transizione dalle
cure pediatriche a quelle dell’adulto, anche di quelli sociali (Brain et
al., 2010; Massanyi et al., 2012). Ad eccezione delle persone con SIA
completa o disgenesia gonadica XY completa, che vengono ovviamente cresciute come donne e hanno un’indubbia identità di genere
femminile (Hughes et al., 2006; Wilson et al., 2011), per ottimizzare
questo obiettivo non esistono regole prestabilite, ma ogni situazione
richiede una approfondita valutazione degli aspetti biologici, della storia naturale della specifica condizione – quando conosciuta – e anche
del contesto socio-culturale e etnico in cui il soggetto vive (Warne e
Raza, 2008; Warne, 2008; Brain et al., 2010), ad esempio quando si
propongono eventuali interventi chirurgici non strettamente necessari, soprattutto in un campo dove non ci sono dati evidence based a
supporto delle scelte (Dean et al., 2010; Guarino et al., 2013; Hughes
et al., 2006; Massanyi et al., 2012). Questo comporta ovviamente che
genitori e medici devono decidere insieme per i bambini sul loro futuro, in base alle conoscenze e alle indicazioni ritenute più valide in
determinati momenti, che possono poi cambiare nel corso degli anni
con il miglioramento delle conoscenze.
In questo ambito, un aspetto di rilievo è quello della comunicazione
della famiglia o del soggetto stesso con gli “altri”, che può essere
sintetizzato dalla frase: “è più dannoso vivere una vita normale con un
segreto personale importante, rispetto a vivere una vita senza segreti
ma con la ragionevole possibilità di stigma e vergogna?” (Ismail e
Creighton, 2005) e alla quale attualmente non si può dare una risposta
univoca. Il problema della comunicazione riguarda anche il rapporto
medico/genitori, medico/paziente e genitori/figli, per quanto riguarda
la completa e corretta rivelazione delle informazioni mediche (Brain et
al., 2010; D’Alberton, 2010; Wiesemann, 2010; Warne e Reza, 2008).
Un altro momento delicato della comunicazione in una persona con
46,XYDSD è quello relativo alla spiegazione in età adolescenziale sulla
necessità di terapie per indurre e mantenere i caratteri sessuali secondari, se necessarie, e sulla infertilità/ipofertilità, spesso presente
(Bertelloni et al., 2011; Hughes et al., 2006; Rey e Grinspon, 2011;
Warne et al., 2005). Ogni informazione può infatti sollevare rilevanti
e psicologicamente impegnative problematiche emotive, per cui ogni
messaggio deve essere autorevole, comprensibile, ripetuto/integrato
negli anni e adeguato alla capacità di comprensione dei genitori e del
Tabella V.
Rischio neoplastico delle gonadi nelle persone con 46,XY DSD (Hughes et al, 2006; Pleskacove et al, 2010, mod)*.
Rischio neoplastico
Forma clinica
Prevalenza, %
Alto
Disgenesie gonadiche 46,XY
30
Intermedio
SIA parziale
Deficit di Deficit di 17β-HSD3
15
17
Basso
SIA completa
0.8
Non conosciuto
Deficit di SF1
Ipoplasia del Leydig
Deficit di 5α-reduttasi
?
?
?
* Il reale rischio oncologico per alcune condizioni rimane sconosciuto e le conoscenze attuali potranno migliorare nei prossimi anni con la pubblicazioni di ulteriori casistiche
ben caratterizzate anche dal punto di vista genetico e istologico.
118
Gestione clinica dei disturbi della differenziazione sessuale con cariotipo 46,XY
minore (Ismail e Creighton, 2005). Tutto ciò non sempre è facile da
attuare nella pratica clinica, perché si scontra spesso con le resistenze
dei genitori ad una completa rivelazione dei dati biologici. Tuttavia, le
persone informate con completezza ed adeguatezza, durante i vari
momenti della crescita presentano usualmente maggiori possibilità di
affrontare le varie problematiche e di sviluppare una migliore immagine positiva di sé (Ismail e Creighton, 2005), anche in rapporto all’innamoramento, alla capacità di costruire relazioni intime, alla possibilità
di sposarsi e di crescere dei bambini (Hughes et al., 2006). Tutti gli
adolescenti si affacciano a tutto ciò con ansia e preoccupazione; quelli
con 46,XY DSD possono avere molti motivi di amplificazione di queste
ansie e paure, al superamento delle quali devono essere accompagnati con tatto e competenza (D’Alberton, 2010; Brain et al., 2010),
anche perché un’ampia percentuale di persone adulte con 46,XY DSD
continuano ad avere problemi più o meno importanti nel vivere la loro
sessualità (Schonbucher et al., 2010).
Un’ultima riflessione riguarda il consiglio che molti genitori si sono
sentiti dare, cioè che in occasione di una ri-assegnazione di sesso,
che avvenga nel corso dell’infanzia o dell’adolescenza, sia opportuno un cambio di domicilio. Ciò sembra un residuo dell’atmosfera di
segretezza e di non comunicazione che ha circondato i DSD fin da
quando, Morris affermò che “non c’è bisogno di dire, che non sarebbe
saggio informare il paziente del reale stato delle cose” (Morris, 1953).
Si tratta di un modo implicito per affermare che la realtà di un 46,XY
DSD non può essere spiegata, accettata, compresa ed elaborata dai
pazienti, dalle loro famiglie e dai loro amici e conoscenti e che la verità
dovrebbe essere celata ad ogni costo. Con il consiglio di cambiare
domicilio, spostando nella realtà esterna ciò che si ritiene non possa
essere accettato nel mondo psicologico interno, si sposta e si evita
provvisoriamente il problema, ma si è ben lontani dal dare una qual-
che forma concreta della sua risoluzione (D’Alberton, 2010).
Conclusioni
La corretta gestione di una persona con 46,XY DSD continua a rappresentare una difficile sfida, fin dal momento del sospetto diagnostico,
e richiede un approccio olistico da parte di un team multidisciplinare
specialistico, che in condizioni ideali dovrebbe essere composto come
delineato in figura 5 (Brain et al., 2010). In questo contesto, si inserisce a volte l’orgoglio del medico, che pensa di trovarsi a gestire il
“caso della vita”, mentre dovrebbe lasciare il posto a considerazioni
etiche tese ad offrire il miglior percorso assistenziale possibile (Wieseman, 2010). A quest’ultimo scopo risultano indispensabili i gruppi di
supporto e le associazioni di genitori (v. Box di orientamento) (Cull e
Simmons, 2010), che rappresentano un concreto “valore terapeutico
aggiunto”, per il miglioramento continuo dei percorsi di care e per la
promozione della ricerca ai fini un management sempre più adeguato
ai reali bisogni di neonati, bambini adolescenti e adulti con 46,XY DSD
(Hughes et al., 2006).
Ringraziamenti
Gli autori ringraziano tutte le famiglie, con cui nel corso della loro professione sono venuti in contatto, e l’AISIA per la preziosa collaborazione e per gli stimoli ad una crescita culturale ed etica nell’ambito
della care alle persone con 46,XY DSD. Alcuni lavori degli autori che
hanno permesso questa revisione sono stati in parte condotti nell’ambito del Consorzio EuroDSD finanziato dalla Comunità Europea - 7th
Framework Programme (FP7/2007-2013) con il contratto numero
201444.
Box di orientamento
La voce dell’Associazione: AISIA, che si occupa in Italia delle persone con 46,XY DSD
I DSD con cariotipo XY non sempre richiedono interventi chirurgici o terapie invasive, né – nella maggioranza dei casi – comportano rischi per la vita o
per la salute fisica del paziente. Ciò nonostante l’impatto della diagnosi è molto forte, talvolta sconvolgente. Vengono infatti toccate le sfere più intime e
delicate: l’identità, il pudore, i rapporti affettivi, sentimentali e sessuali. Spesso la risposta della persona o dei genitori, in caso di bambini, è la chiusura
in se stessi, il tentativo di circoscrivere il problema non parlandone. A lungo andare ci si sente soli, gli unici a portare il peso, e nella solitudine il peso
del problema aumenta.
Il medico può limitare molto i danni, se comunica in modo sereno, chiaro, trasparente. Lo psicologo può offrire un supporto indispensabile nei momenti
difficili e nelle scelte. Ma, anche con il miglior approccio, il problema resta ancora “medico” e individuale.
Le associazioni di pazienti possono aggiungere un’opportunità nuova, che facilita la ripresa di una vita serena. Nell’associazione si può parlare, non
solo degli aspetti medici, ma delle cose della vita quotidiana: l’iscrizione all’asilo, la condivisione con amici e parenti, le parole da usare con il figlio, il
rapporto con il partner, le ansie, i successi… Si può parlare di tutto e le altre persone capiscono. È un ambiente protetto. E poi non ci sente intimiditi
dall’ambiente medico (l’ospedale, lo studio dello psicologo), perché ci s’incontra in contesti abituali: la pizzeria, l’agriturismo, la passeggiata serale.
Altri obiettivi dell’Associazione sono: aumentare le informazioni disponibili sui 46,XY DSD e contribuire alla loro diffusione; incoraggiare i medici, i genitori, la società ad una maggiore apertura verso i problemi legati ai disordini nella differenziazione sessuale; migliorare l’informazione e il trattamento
medico e chirurgico; sostenere un approccio globale ai problemi delle persone da parte del personale sanitario.
Invitiamo perciò i medici e gli psicologi che incontrano persone con 46,XY e/o i loro genitori di consigliare di mettersi in contatto con un’associazione.
La serenità del paziente rende più agevole il lavoro dei professionisti della salute, ma soprattutto aiuta il paziente stesso a vivere meglio.
Contatti: www.aisia.org, [email protected], [email protected]
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Corrispondenza
Silvano Bertelloni, Sezione di Medicina dell’Adolescenza, Dipartimento Materno-Infantile, Azienda Ospedaliera Universitaria Pisana, Via Roma, 67,
56126 Pisa. Tel.: +39 050 992 743. Fax: +39 050 993 044. E-mail: [email protected]
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