INSEGNAMENTO DI
DIRITTO AMMINISTRATIVO
LEZIONE
“I PRINCIPI INFORMATORI DEL NUOVO CODICE DEL
PROCESSO AMMINISTRATIVO: L’INFLUENZA DEL
DIRITTO COMUNITARIO”
PROF. GIOVANNI SABBATO
Università Telematica Pegaso
I principi informatori del nuovo codice del processo
amministrativo: l’influenza del diritto comunitario
Indice
1
Premessa ----------------------------------------------------------------------------------------------------- 3
2
La ratio giustificativa del CPA -------------------------------------------------------------------------- 4
3
I principi generali codificati ----------------------------------------------------------------------------- 5
4
Il diritto comunitario: le fonti --------------------------------------------------------------------------- 7
5
Il diritto comunitario originario. ----------------------------------------------------------------------- 8
6
Il diritto comunitario derivato. ------------------------------------------------------------------------- 9
7
Il diritto comunitario originario: gli effetti--------------------------------------------------------- 10
8
Il diritto comunitario derivato: violazione e conseguenze -------------------------------------- 12
9
Le direttive c.d. self-executing ------------------------------------------------------------------------ 16
10
I rapporti tra le fonti comunitarie e le fonti nazionali: il principio di primazia si attua con
lo strumento della disapplicazione delle norme nazionali contrastanti. --------------------------- 18
11
La cd. disapplicazione in pejus. ----------------------------------------------------------------------- 19
12
Il contrasto tra atto comunitario e norma comunitaria di rango superiore. ---------------- 22
13
Le deroghe al principio di primazia del diritto comunitario: la teoria dei controlimiti. - 23
14
Rapporto tra giudicato giurisdizionale contrastante con il diritto comunitario e primazia
del diritto comunitario. --------------------------------------------------------------------------------------- 25
15
Il principio di tutela del legittimo affidamento e sue applicazioni in materia di autotutela
27
16
Integrazione tra ordinamento comunitario e diritto amministrativo nazionale. ----------- 29
17
Il rapporto tra norme comunitarie e costituzionali. ---------------------------------------------- 32
18
Il Trattato di Lisbona ed i suoi riflessi sulla formazione del diritto amministrativo
europeo. ---------------------------------------------------------------------------------------------------------- 33
Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto da copyright. Ne è severamente
vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale, ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore
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I principi informatori del nuovo codice del processo
amministrativo: l’influenza del diritto comunitario
1 Premessa
È ben noto agli operatori del settore che, con D.lgs. n. 104 del 2 luglio 2010, è stata
introdotta una fondamentale, se non addirittura epocale riforma del processo amministrativo, in
quanto con tale intervento normativo è stata emanato il nuovo Codice del Processo Amministrativo
(CPA), frutto di uno sforzo non solo compilativo delle norme preesistenti, ma anche profondamente
innovativo del ruolo e dell’azione del giudice amministrativo.
Per il primo aspetto, mette conto evidenziare che la disciplina anteatta del processo
amministrativo era disseminata tra svariati testi normativi, anche molto distanti sul piano
cronologico, consistenti in primis nel testo unico delle leggi del Consiglio di Stato, approvato con
r.d. 26 giugno 1926 n. 1054, quindi nella legge n. 1034/71, che ha accompagnato l’istituzione dei
Tribunali Amministrativi Regionali. Ma non si deve trascurare il ruolo assunto negli anni dalla
disciplina sugli appalti, culminato nella emanazione del Codice dei Contratti Pubblici (d.Lgs. n. 163
del 2006), siccome a sua volta contenente norme di carattere processuale, ovviamente riferite allo
speciale rito in materia di appalti. Per il secondo aspetto, quello per così dire qualitativo, il Codice
si segnala per talune profonde modifiche agli stilemi tipici del processo amministrativo, tra le quali
non si può non rammentare la trasformazione della competenza del G.A. da derogabile ad
inderogabile e la moltiplicazione delle ipotesi di competenza funzionale. Il nostro compito è quindi
senz’altro quello di dar conto delle più rilevanti modifiche introdotte dal legislatore, illustrando
innanzitutto quelli che ne costituiscono i principi ispiratori. Si tratta peraltro di un compito non
proprio agevole.
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2 La ratio giustificativa del CPA
Il sistema giuridico del diritto amministrativo, anche sul versante sostanziale, è stato
interessato da rilevanti fermenti riformatori che ne hanno sconvolto l’impianto originario in diversi
settori. Questa stagione di grandi riforme deve indurre l’interprete ad interrogarsi sulla ratio che
ispira il legislatore, eppure essa non traspare dal tenore di norme che spesso appaiono
contraddittorie ancorché ispirate da ragioni comunitarie.
Nel caso del Codice del Processo Amministrativo cospirano alla sua emanazione sia ragioni
simboliche che effettive.
Le prime si correlano alla dichiarata volontà di conferire alla disciplina del giudice
amministrativo la stessa dignità formale degli altri rami dell’ordinamento processuale, peraltro in un
momento in cui è emersa (trovando riconoscimento negli importanti arresti della Corte
Costituzionale) la consapevolezza della equivalenza delle tutele rispettivamente apprestate 1. Ma le
esigenze che sottende l’arresto normativo sono anche e soprattutto quelle esplicitate nella delega
conferita al Governo2, di fatto consistenti: nella necessità di adeguare le norme vigenti alla
giurisprudenza della Corte costituzionale e delle giurisdizioni superiori; coordinare tali norme con
quelle del codice di procedura civile in quanto espressione di principi generali; assicurare la
concentrazione delle tutele.
1
R. Chieppa, Il Codice del Processo Amministrativo, Commento a tutte le novità del processo amministrativo, Giuffré
Ed., 2010, p. 4.
2
art. 44, Legge 18 giugno 2009, n. 68.
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3 I principi generali codificati
Orbene, l’articolato testo codicistico (si compone di 137 articoli, escluse le Norme di
Attuazione) si apre proprio3 con l’enucleazione dei Principi Generali che informano la disciplina
processuale contestualmente introdotta e segnatamente:
1)
il principio di effettività: ―La giurisdizione amministrativa assicura una tutela piena
ed effettiva secondo i principi della Costituzione e del diritto europeo‖;
2)
il principio del giusto processo: ―1. Il processo amministrativo attua i principi della
parita' delle parti, del contraddittorio e del giusto processo previsto dall'articolo 111, primo
comma, della Costituzione. 2. Il giudice amministrativo e le parti cooperano per la realizzazione
della ragionevole durata del processo‖);
3)
il dovere di motivazione e sinteticità degli atti: ―1. Ogni provvedimento decisorio del
giudice È motivato. 2. Il giudice e le parti redigono gli atti in maniera chiara e sintetica‖.
La formulazione di tali principi impone alcuni chiarimenti, anche di natura sistematica.
Innanzitutto occorre rilevare che la loro introduzione riflette l’esigenza di offrire
all’interprete gli elementi di fondo che caratterizzano la disciplina che è chiamato ad applicare; da
ciò consegue che le controversie per le quali manca una precisa disposizione, anche se ricavabile in
sede analogica, vanno risolte alla luce dei principi anzidetti. Eppure l’art. 39 del Codice contiene un
rinvio esterno alle norme del codice di procedura civile, statuendone l’applicabilità per tutto quanto
non disciplinato, ―in quanto compatibili o espressione di principi generali‖, ma le norme
processual-civilistiche troveranno applicazione soltanto dopo che l’interprete abbia invano ricercato
la soluzione secondo gli illustrati principi informatori del processo amministrativo. Tra questi il più
importante è senz’altro quello dell’effettività della tutela, che peraltro ha sempre ispirato
l’applicazione delle norme processuali amministrative e si pone in diretta connessione con l’art. 24
della Costituzione (diritto di difesa), trovando la sua implicita applicazione attraverso l’incremento
dei poteri attribuiti al giudice amministrativo rispetto al passato.
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Non va nemmeno sottaciuta l’importanza ed il particolare significato del riferimento al
diritto europeo, contenuto nel richiamato articolo inaugurale del codice. Tale affermazione
contenuta nel Codice costituisce ulteriore indice significativo della progressiva costruzione di un
diritto amministrativo europeo, che rappresenti il superamento dell’antica mentalità che vuole
questa branca del diritto espressione del potere statuale e pertanto aliena da ogni forma di
condizionamento ed integrazione. Con l’espressione ―diritto europeo‖ si intende fare riferimento ai
principi sia dell’Unione europea, sia della CEDU, a loro volta frutto del contributo offerto dai diritti
nazionali nel quadro di un processo di integrazione circolare, definito cross fertilization.
3
Artt. 1 – 3 d.lgs. n. 104/2010.
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4 Il diritto comunitario: le fonti
L’importanza oggi assunta dal diritto comunitario nell’ambito dei rapporti Stato-cittadini ci
impone un approfondimento del tema.
Infatti,
i
precetti
comunitari
penetrano direttamente
nell’ordinamento nazionale,
condizionandone in modo sempre più incisivo interi settori e quindi l’attività normativa e quella
amministrativa. Prima di addentrarci negli addentellati della costruzione concettuale in esame pare
opportuno ripercorrere brevemente i connotati essenziali della disciplina comunitaria.
Il sistema giuridico comunitario è costituito dall’insieme di norme che regolano
l’organizzazione e lo sviluppo delle comunità europee ed i rapporti tra queste e gli Stati membri.
L’obiettivo principale delle Comunità europee - il conseguimento dell’unificazione europea - è
basato esclusivamente sullo Stato di diritto, nel senso di ordinamento che si fonda su norme
giuridiche. È ormai principio acquisito nei singoli ordinamenti nazionali, tra i quali il nostro, che il
diritto comunitario è un sistema giuridico indipendente che prevale sulle disposizioni giuridiche
nazionali.
In generale, il diritto dell’UE si compone di tre categorie diverse, ma tra esse
interdipendenti, di atti normativi:
1.
il diritto comunitario originario (o primario);
2.
il diritto comunitario derivato (o secondario);
3.
la giurisprudenza.
La distinzione tra diritto comunitario originario (o primario) e diritto comunitario derivato (o
secondario) è di particolare importanza solo se si considerino i diversi effetti che la natura delle
fonti produce sull’ordinamento nazionale.
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5 Il diritto comunitario originario.
Il diritto originario include, in particolare, i trattati e altri accordi con uno status simile. Esso
è generato dai negoziati diretti tra i governi degli Stati membri che se positivi si concludono in
accordi, ai quali si conferisce la forma dei trattati, soggetti poi alla ratifica dei singoli parlamenti
nazionali. La stessa procedura viene applicata per ogni successiva modifica dei trattati.
I trattati istitutivi sono stati modificati dai seguenti interventi:

L’Atto unico europeo (1987),

il trattato dell'Unione europea conosciuto come trattato di Maastricht (1992),

il trattato di Amsterdam (1997), entrato in vigore il 1° maggio 1999.

il trattato di Lisbona (2007), entrato in vigore per l’Italia il 9 agosto 2008.
I Trattati definiscono funzioni e responsabilità delle istituzioni e degli organismi dell’UE
che partecipano ai processi decisionali. Essi fissano inoltre le procedure legislative, esecutive e
giuridiche che caratterizzano il diritto comunitario e la sua applicazione.
Il diritto comunitario originario, e con esso gli accordi con gli stati terzi che traggono
validità giuridica dai trattati stessi, è costitutivo del quadro giuridico costituzionale della Comunità
ed è la fonte di primo grado del diritto comunitario (per l’appunto il diritto primario della
Comunità).
La fonte primaria non può essere derogata dagli atti delle istituzioni comunitarie e non è
suscettibile di interventi giurisdizionali.
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6 Il diritto comunitario derivato.
Il diritto comunitario derivato, invece, è costituito da fonti di secondo grado,
gerarchicamente subordinate ai trattati.
Secondo i trattati che istituiscono le Comunità europee, le fonti del diritto comunitario
derivato sono le seguenti:

Regolamenti: sono direttamente applicabili e vincolanti in tutti gli Stati
membri dell'UE senza che sia necessaria alcuna normativa di trasposizione nazionale.

Direttive: vincolano gli Stati membri agli obiettivi da conseguire entro un
limite di tempo determinato, lasciando alle autorità nazionali la scelta sulla forma ed i mezzi
da utilizzare. Le direttive devono essere attuate tramite atti normativi o di altra natura
conformemente alle procedure dei singoli Stati membri.

Decisioni: sono vincolanti in tutti i loro elementi per coloro a cui sono
destinate. Le decisioni, quindi, non richiedono una normativa di applicazione nazionale. Una
decisione può essere indirizzata a qualsiasi o a tutti gli Stati membri, a imprese o a singoli
individui.

Raccomandazioni e pareri, che non sono vincolanti.
La produzione normativa secondaria comunitaria è molto ampia e non è soggetta ad un
criterio gerarchico, il che ha creato soprattutto per il passato problemi di coordinamento e conflitto
tra le fonti. I trattati istitutivi, infatti, non introducono alcuna forma di gerarchia indicando solo i
mezzi che le istituzioni comunitarie devono adottare per svolgere la propria azione. La scelta poi del
tipo di fonte da adottare è lasciata alla discrezionalità delle istituzioni.
La giurisprudenza comprende le sentenze della Corte di giustizia europea e del Tribunale di
primo grado europeo, per esempio, in risposta ai ricorsi proposti dalla Commissione, dai tribunali
nazionali degli Stati membri o dai singoli individui. Questi tipi di diritto formano l' acquis
comunitario.
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7 Il diritto comunitario originario: gli effetti
I trattati contengono disposizioni che non esauriscono la loro efficacia cogente nei confronti
degli stati membri, potendo produrre effetti diretti anche all’interno degli ordinamenti statali. Ciò si
verifica quando le disposizioni negli stessi contenuti abbiano carattere chiaro, preciso e
incondizionato, sancendo cioè obblighi certi non condizionati dall’emanazione di atti di diritto
interno da parte degli ordinamenti nazionali (è il caso degli artt. 81 e 82 del trattato CE in tema di
intese e di abuso di posizioni dominanti). Queste disposizioni possono essere applicate direttamente
dagli organi giurisdizionali nazionali e dalle autorità amministrative degli Stati membri, e costituire
il presupposto per il riconoscimento del risarcimento del danno ai privati da responsabilità dello
Stato per mancata osservanza delle norme comunitarie.
Discorso analogo vale per le disposizioni dei trattati che sanciscono obblighi negativi e per
le prescrizioni che impongono il divieto di discriminazione e l’obbligo di parità di trattamento tra
lavoratori di entrambi i sessi.
Occorre sin da subito chiarire il problema dell’efficacia delle norme comunitarie
sull’ordinamento nazionale.
Una norma comunitaria, si dice, ha effetto diretto quando è idonea a creare diritti ed obblighi
direttamente ed utilmente in capo ai singoli, sia persone fisiche sia giuridiche, senza che occorra un
atto normativo o amministrativo di recepimento da parte dell’ordinamento nazionale.
Vi sono stati alcuni tentativi volti a distinguere la nozione di effetto diretto da quella di
diretta applicabilità del diritto comunitario, distinzione che si avverte non trova alcun riscontro nella
giurisprudenza la quale ricorre indifferentemente ad entrambe le espressioni.
Come è stato argutamente rilevato4 l’applicabilità diretta rileverebbe la qualità della norma,
l’effetto diretto guarda invece all’incidenza sulla posizione giuridica del singolo che non è
necessariamente il destinatario della norma.
Secondo il principio dell’effetto diretto una disposizione del trattato o di un atto
comunitario, qualora presenti determinate caratteristiche, crea diritti ed obblighi a favore dei privati,
i quali sono legittimati ad esigere, davanti alle giurisdizioni nazionali, la stessa tutela riconosciuta
per i diritti di cui sono titolari in base alle norme dell’ordinamento interno.
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Le caratteristiche sono:
-
imposizione ai destinatari di un comportamento non condizionato da alcuna riserva;
-
presentazione di una disciplina completa che non necessita di normativa derivata da
parte degli organi statali o comunitari; questa caratteristica va intesa con una certa elasticità, in
quanto la normativa direttamente applicabile può anche richiedere un’ulteriore regolamentazione
statale a fini meramente esecutivi
Più importante è la distinzione tra effetto diretto in senso verticale ed effetto diretto in senso
orizzontale.
L’effetto diretto verticale sottolinea la possibilità che il singolo invochi nei confronti dello
Stato l’applicazione della norma comunitaria.
L’effetto diretto orizzontale consiste nella possibilità per il singolo di far valere la norma
anche nei confronti di soggetti privati, siano essi persone fisiche o giuridiche, pubbliche o private.
Le norme dei trattati a carattere preciso e incondizionato producono effetti diretti non solo in
senso verticale ma anche in senso orizzontale.
In sostanza, la violazione di tali norme può fondare il presupposto della responsabilità
risarcitoria non solo a carico dei soggetti pubblici ma anche dei privati. Questo dato è
particolarmente rilevante poiché analogo principio non sembra applicarsi, secondo la
giurisprudenza prevalente, per la violazione delle direttive europee.
4
G. Tesauro, Il diritto comunitario, Cedam.
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8 Il diritto comunitario derivato: violazione e
conseguenze
Riguardo alla violazione del diritto comunitario derivato e in particolare delle direttive
europee occorre distinguere il caso di mancato recepimento da quello della non corretta
trasposizione delle direttive.
Il primo caso richiede tre condizioni concomitanti per l’attivazione della tutela risarcitoria
del danno :
1. la direttiva deve attribuire ad una categoria di soggetti posizioni di vantaggio:
2. il contenuto delle posizioni di vantaggio deve essere chiaramente individuato e non
condizionato;
3. vi deve essere un nesso di causalità tra la violazione ed il danno nel senso che per effetto
dell’inerzia dell’autorità nazionale, che non ha recepito la direttiva, i soggetti non abbiano avuto la
possibilità di esercitare o godere delle posizioni soggettive di vantaggio.
Il secondo caso, quello della scorretta trasposizione della direttiva, ha carattere eccezionale
dovendo ricordarsi che la direttiva per sua natura vincola lo stato membro solo per il risultato da
raggiungere, mentre i mezzi per l’attuazione sono affidati alla discrezionalità dell’ordinamento
nazionale.
La giurisprudenza ha, tuttavia, fissato alcuni principi generali che limitano la discrezionalità
nell’opera di trasposizione delle direttive nel diritto interno.
La Corte di giustizia ha chiarito che:
-
le forme e i mezzi per l’attuazione delle direttive devono essere quelli più idonei per
rendere realizzabile il risultato previsto dalla norma comunitaria, in modo da garantire la reale
efficacia delle direttive in relazione allo scopo. Può darsi il caso, ad esempio, che non sia sufficiente
l’emanazione di un semplice atto amministrativo, modificabile per sua natura dal potere esecutivo,
richiedendosi un atto di natura normativa. È quindi censurabile la scelta dello Stato di trasporre la
direttiva con modalità del tutto inidonee a conseguire lo scopo della direttiva;
-
le misure di trasposizione devono inoltre avere carattere chiaro e preciso, in modo da
assicurare adeguate garanzie di trasparenza e sicurezza giuridica nei confronti dei cittadini.
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infine, in pendenza del termine per il recepimento della direttiva, lo stato destinatario
deve astenersi dall’adottare disposizioni che possano compromettere gravemente il risultato delle
prescrizioni contenute nella direttiva. Si tratta dei cosiddetti obblighi di stand and still, applicati di
frequente in campo ambientale (artt. 10, secondo comma, e 249, terzo comma, del trattato)
Nei casi di non corretta trasposizione delle direttive, il presupposto per l’attivazione del
rimedio risarcitorio è che la direttiva produca un’efficacia immediata nei rapporti tra Stati membri e
singoli.
Dall’esame della giurisprudenza europea sono provviste di effetti diretti:
-
le direttive che impongono obblighi negativi nei confronti dei destinatari;
-
le direttive confermative di obblighi già previsti dai trattati e produttivi di effetti
diretti e le direttive precise ed incondizionate non attuate. In questo caso, ove la scorretta
trasposizione abbia cagionato un danno, lo Stato assume la correlativa responsabilità risarcitoria nei
confronti dei privati.
Specialmente a seguito della modifica del Titolo quinto parte seconda della Costituzione,
oggi la responsabilità per violazione del diritto comunitario connessa alla scorretta o mancata
esecuzione delle direttive può assumere le caratteristiche di una responsabilità per così dire solidale
tra Stato e Regioni. Il nuovo testo dell’art. 117 Cost. sancisce infatti che ―La potestà legislativa è
esercitata dallo Stato e dalle Regioni nel rispetto della Costituzione, nonché dei vincoli derivanti
dall’ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali‖.
Il comma 5 dispone che le regioni e le province autonome di Trento e Bolzano, nelle materie
di loro competenza, partecipano alle decisioni dirette alla formazione degli atti normativi
comunitari e provvedono all’attuazione e all’esecuzione degli accordi internazionali e degli atti
dell’Unione europea, nel rispetto delle norme di procedura stabilite dalla legge statale che disciplina
le modalità di esercizio del potere sostitutivo in caso di inadempienza.
La Costituzione dunque conferisce in via diretta anche alle Regioni il compito di attuare gli
atti comunitari, con conseguente possibilità di incremento dei casi di responsabilità civile della
Regione per inesatta trasposizione delle direttive europee.
Invero, per le ipotesi di responsabilità per omessa trasposizione delle direttive, la
responsabilità da l’illecito è imputabile sia allo Stato sia alle Regioni, dovendo considerarsi
l’obbligo del primo di attivare i poteri sostitutivi per le inadempienze delle Regioni, secondo la
procedura fissata dalla legge 1° marzo 2002, n. 39 (Legge comunitaria per il 2001) che prevede
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l’adozione di decreti legislativi destinati ad entrare in vigore alla data di scadenza del termine
stabilito per l’attuazione della normativa comunitaria, decreti che perdono efficacia non appena
ciascuna Regione non provveda con la propria normativa.
Le direttive, anche nei casi in cui abbiano contenuto precettivo ed incondizionato, possono
produrre esclusivamente effetti verticali, non essendo idonee a creare diritti e obblighi nei rapporti
tra i privati.
Da ciò consegue che la violazione della direttiva, per omessa o difforme attuazione, può
essere fatta valere solo nei confronti degli stati membri, non anche dei soggetti privati. Tuttavia,
secondo i principi comunitari, è possibile richiedere tutela risarcitoria nei confronti degli organismi
che, benché diversi dalla struttura organizzativa tipica delle pubbliche amministrazioni (e quindi
formalmente privati), dispongano di poteri eccedenti rispetto ai normali rapporti privatistici. Non a
caso l’ordinamento comunitario qualifica tali soggetti come ―organismi di diritto pubblico‖.
Sempre con riferimento ai casi di mancata trasposizione delle direttive, la giurisprudenza
comunitaria ha elaborato due principi.
1.
Il primo si riconduce al divieto di venire contra factum proprium o cd
estoppel, secondo cui lo Stato (o la Regione) che non abbia recepito la direttiva non può
applicare la propria normativa nei confronti di un soggetto che a sua volta invochi la
direttiva contro la normativa nazionale non conforme al diritto comunitario. Lo Stato (o la
Regione) non può peraltro avanzare pretese nei confronti dei privati sulla base di direttive
inattuate.
2.
Il secondo riguarda le ipotesi per le quali lo Stato (o la Regione) abbia
commesso la violazione del diritto comunitario in campi segnati da ampio potere
discrezionale. In questi casi, si realizza illecito qualora si sia in presenza di un manifesto e
grave abuso dei poteri discrezionali attribuiti al soggetto agente, tendendo col coincidere i
presupposti della responsabilità statale con quelli dell’illecito perpetrato dalle istituzioni
comunitarie (art. 282, comma 2, Trattato).
Un’ampia discrezionalità è riconosciuta allo Stato (o alle Regioni) nelle ipotesi di esercizio
di potestà normative, quale ad esempio il recepimento di direttive tramite atti legislativi, e di
esercizio dell’attività giurisdizionale.
Nel primo caso, indici rivelatori di una violazione grave e manifesta sono: il grado di
precisione e chiarezza della norma comunitaria, la scusabilità di un eventuale errore di diritto,
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l’attuazione della normativa comunitaria assunta in difformità ad una sentenza che abbia accertato
l’inadempimento contestato o ad una giurisprudenza consolidata della Corte di giustizia,
Il giudice europeo ha in particolare precisato che il risarcimento del danno spettante al
singolo in caso di violazione manifesta e grave del diritto comunitario non può essere subordinato
anche all’esistenza di una condotta dolosa o colposa da parte di un organo di uno Stato membro
(Corte giust. CE, 5 marzo 1996, n. 46, 48/93). Il linea di principio è il giudice nazionale che deve
valutare se la violazione del diritto comunitario ha il carattere della gravità.
Nel secondo caso, l’esercizio dell’attività giurisdizionale, il giudice europeo ha ammesso
una particolare categoria di danno extracontrattuale, affermando un principio molto innovativo: gli
Stati membri sono obbligati a risarcire i danni da essi stessi causati ai singoli per violazione del
diritto comunitario anche nelle ipotesi di violazione derivante da una decisione di un organo
giurisdizionale di ultimo grado; il risarcimento è però subordinato alla sussistenza dei seguenti
rigorosi presupposti:
- il giudice abbia violato in maniera manifesta il diritto vigente;
- la norma violata conferisca in maniera chiara diritti ai singoli;
- esistenza di un nesso di causa diretto fra la violazione e il danno.
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amministrativo: l’influenza del diritto comunitario
9 Le direttive c.d. self-executing
Alcune direttive, tradendo la loro indole fisiologicamente incompleta, vincolando esse lo
Stato membro nei fini ma non nei mezzi per attuarle, possono avere un contenuto sufficientemente
chiaro e preciso — con correlativa attribuzione di posizioni soggettive in capo a privati — tale cioè
da non lasciare margine di discrezionalità agli Stati, e incondizionato, tale cioè da non richiedere
l’emanazione di ulteriori atti: si tratta delle cosiddette direttive c.d. self-executing. Tali direttive,
quindi, una volta spirato infruttuosamente il termine per il loro recepimento da parte degli Stati
nazionali, diventano efficaci ed acquisiscono carattere vincolante.
La loro efficacia è tuttavia, al pari delle altre direttive, solo verticale, nel senso che i diritti
sanciti in modo pieno ed incondizionato da dette direttive complete possono essere fatti valere nei
confronti dello Stato e, in generale, degli enti pubblici (ivi compresi i soggetti privati investiti di
poteri pubblici); è esclusa invece l’efficacia orizzontale nei rapporti tra privati; non è ammesso
inoltre che i diritti possono essere fatti valere da parte di enti pubblici verso privati.
La ratio dell’efficacia meramente verticale delle direttive autoesecutive, risiede da un lato
nella funzione sanzionatoria, dall’altro nella necessità di tutelare il principio di certezza del diritto.
Infatti, se si considera che, per sua natura, la direttiva necessita di un atto di recepimento da parte
dello Stato nazionale e non gode sempre di adeguate forme di pubblicità, il riconoscimento di
un’efficacia anche in senso orizzontale sortirebbe come effetto che il singolo cittadino potrebbe
essere chiamato a rispondere per la violazione di una prescrizione difficilmente conoscibile ed
apprezzabile sia nella sua esistenza che nella portata effettivamente dettagliata. È evidente invece
come analoghe esigenze di garanzia non si pongano con riferimento alle amministrazioni pubbliche.
La soluzione adottata a livello comunitario, e fatta propria anche dalla giurisprudenza
interna, resta di non facile applicazione, in quanto non risulta agevole individuare i soggetti nei
confronti dei quali valgono i precetti contenuti nelle direttive auto esecutive.
Vi è poi il rischio di soluzioni che diano origine a disparità di trattamento. Il caso tipico è
quello della direttiva self-executing in materia di lavoro, i cui precetti potrebbero essere invocati dal
prestatore di lavoro alle dipendenze di una pubblica amministrazione e non di un soggetto privato.
Esempio peraltro particolarmente rilevante in relazione alla riforma che ha contrattualizzato e
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quindi ―privatizzato‖ il rapporto di pubblico impiego nel quale la pubblica amministrazione agisce
con i poteri propri del datore di lavoro privato
Sul tema va segnalata la decisione della Corte di Cassazione5, che, ribadita l’efficacia
meramente verticale delle direttive, si preoccupa di chiarire quando un soggetto privato possa essere
equiparato allo Stato ai fini dell’applicazione nei suoi confronti di una direttiva self-executing. A
questo fine la Cassazione reputa insufficiente la titolarità da parte del privato di un titolo
concessorio con il quale sia stato incaricato di svolgere un servizio di interesse pubblico sotto il suo
controllo, risultando altresì necessario che lo stesso sia titolare di poteri eccedenti i limiti risultanti
dalle norme applicabili ai rapporti tra singoli.
Va, infine, rammentato che lo Stato (inteso nella dimensione più ampia) risponde nei
confronti dei singoli per i danni cagionati dall’impossibilità o dalla difficoltà derivanti dal mancato
recepimento delle direttive (complete e non) all’esercizio dei diritti ivi contemplati.
5
Sez. Un., 9 novembre 2006, n. 23937
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10 I rapporti tra le fonti comunitarie e le fonti
nazionali: il principio di primazia si attua con lo
strumento della disapplicazione delle norme
nazionali contrastanti.
La relazione tra ordinamento comunitario e ordinamento nazionale è ispirata al principio di
primazia del diritto comunitario.
A partire dalla sentenza n. 170/1984 la stessa Corte Costituzionale ha infatti riconosciuto
che, in presenza di un eventuale conflitto tra norma nazionale sopravvenuta e norma comunitaria
preesistente, la primazia comunitaria si attua con l’immediata disapplicazione della norma nazionale
contrastante ad opera del Giudice del caso concreto (e, ancora più a monte della p.a. così come di
ogni operatore chiamato all’applicazione della norma), senza necessità di investire la Corte
Costituzionale ai fini dell’annullamento della norma interna difforme6.
Un sindacato della Corte delle Leggi sulla norma nazionale violativa dei precetti comunitari
è invece possibile solo in caso di ricorso principale avverso legge regionale o statale, caso nel quale
la Corte Costituzionale è il giudice del caso concreto7.
6
7
Da ultimo Corte giust. 8 settembre 2005, n. 303; Cons. Stato, sez. IV, 1° marzo 2006, n. 928.
Corte Cost. n. 384/1994 e n. 95/1995.
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11 La cd. disapplicazione in pejus.
Si è già detto che non solo il Giudice ma anche la p.a., nell’adottare un atto amministrativo,
è tenuta a disapplicare la norma nazionale che violi un precetto europeo.
Recentemente si è posto allora il problema se la disapplicazione in via amministrativa della
norma interna contrastante possa operare in pejus, con l’effetto di sanzionare amministrativamente
condotte che, pur se rispettose della normativa interna, siano contrarie alle disposizioni comunitarie
violate a loro volta dalla normativa nazionale.
In altri termini ci si chiede se l’illecito del legislatore, sub specie di violazione della
normativa comunitaria, possa produrre non l’illegittimità del provvedimento amministrativo
violativo della norma comunitaria ma, all’inverso, legittimare l’adozione di un provvedimento che
sanzioni la condotta dell’operatore che si sia erroneamente uniformato alla disciplina nazionale.
Il problema è stato affrontato da una ordinanza del T.a.r. Lazio che ha sollevato questione
pregiudiziale avanti alla Corte di Giustizia (causa 198/01) per verificare se sia un potere-dovere del
Garante della Concorrenza quello di disapplicare una norma interna che favorisce un’intesa
contraria alle regole comunitarie sulla concorrenza.
A favore della tesi positiva si evidenziano:
a) la natura generale del potere-dovere di disapplicazione, tale da legittimare anche la
disapplicazione in via principale, ed in malam partem, nell’esercizio dei poteri ordinari di
cognizione dell'Autorità, delle norme contrastanti con le regole del Trattato;
b) la necessità di esercitare il potere amministrativo in conformità all'art. 10 del Trattato, che
impone la collaborazione di tutte le autorità degli Stati membri al fine di garantire l'attuazione del
diritto comunitario;
c) la possibilità di evitare gli effetti iniqui della disapplicazione con la considerazione della
peculiarità della situazione al fine di escludere la gravità della colpa (nella condotta del soggetto che
abbia rispettato la norma nazionale) per evitare l'applicazione o contenere l'entità della sanzione.
In senso opposto alla sanzionabilità di condotte conformi alle norme nazionali, militano
invece i seguenti elementi:
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a) il principio generale secondo cui la disapplicazione della norma interna da parte
dell’autorità amministrativa è possibile solo al fine di consentire l’applicazione della norma
comunitaria che conferisce diritti disconosciuti da quella interna, ossia in bonam partem;
b) l’iniquità di una soluzione che sfocia nell'applicazione di una sanzione a fronte di
condotte che siano conformi alla normativa nazionale formalmente ancora vigente.
Una felice sintesi tra le opposte esigenze è stata raggiunta dalla Corte di Giustizia8.
La Corte ha sostenuto che, se pure è certo che l’art. 81 TCE riguardi esclusivamente la
condotta delle imprese e non le disposizioni legislative e regolamentari poste in essere dagli Stati
membri, ciò non toglie che i richiamati articoli vadano letti in combinato disposto con le
disposizioni comunitarie che prevedono l’obbligo di leale collaborazione (art. 10 TCE) e che
tutelano l’effetto utile delle disposizioni di diritto comunitario. Ne consegue che gli Stati membri
non possono e non debbono emettere o mantenere in vita disposizioni contrarie a detti principi9 e
che l’inottemperanza a tale obbligo ben possa essere incidentalmente rilevata dall’Autorità
nazionale di regolazione.
Il principio in questione, d’altronde risulta essere una coerente applicazione del principio del
primato del diritto UE, il quale esige la disapplicazione di una disposizione normativa nazionale che
si ponga in contrasto con la norma comunitaria, indipendentemente dal fatto che sia anteriore o
posteriore rispetto a quest'ultima10
L'Antitrust vede così notevolmente rafforzati i propri poteri di indagine e controllo, non
dovendo più attestarsi sul solo vaglio dei comportamenti posti in essere da privati alla luce dei
parametri nazionali, ma potendo estendere le proprie indagini fino a dichiarare l’incompatibilità con
il diritto UE della concorrenza di qualunque disposizione nazionale ed a pronunciarne
conseguentemente la disapplicazione (il che, se pure da un lato risulta conforme alla giurisprudenza
della Corte, dall'altro — con ogni probabilità — esula dalle intenzioni originarie del Legislatore del
1990 in tema di poteri da devolvere all'A.G.C.M.).
Sulla rilevanza della norma nazionale al fine di escludere o attenuare l’illiceità della
condotta che vi si sia adeguata, i Giudici di Lussemburgo non escludono a priori che in presenza di
8
Sentenza 9 settembre 2003 in C-198/01.
Cfr. sent. in causa C-267/86, Van Eycke.
10
Cfr. sent. in causa C-103/88, Fratelli Costanzo.
9
.
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una siffatta norma nazionale possa comunque sussistere, in capo ai privati, un profilo di
responsabilità, distinguendo però due ipotesi:
1) se la condotta anticoncorrenziale fosse stata effettivamente imposta dalla norma nazionale
(se del caso, con previsione di apposite sanzioni), la Corte ammette che ciò valga a fornire alle
imprese una causa di giustificazione idonea ad escludere qualunque sanzione;
2) se, invece, la norma si fosse solo limitata a sollecitare e facilitare le condotte
anticoncorrenziali, queste ultime rimangono assoggettate all'applicazione degli artt. 81 ed 82 del
Trattato, ma gli organi nazionali potranno valutare la buona fede dell'operatore privato alla stregua
di una vera e propria ―circostanza attenuante‖.
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12 Il contrasto tra atto comunitario e norma
comunitaria di rango superiore.
A conclusioni diverse si deve giungere qualora la violazione del diritto comunitario discenda
da un atto comunitario.
In questo caso secondo la Corte di Giustizia11, qualora all’interno di un procedimento di
rinvio pregiudiziale sia posto in contestazione un atto amministrativo nazionale, fondato su di un
regolamento comunitario sospettato di illegittimità, sia il giudice comunitario che quello nazionale
possono disporre la sospensione dell’efficacia del provvedimento amministrativo nazionale, dopo
aver valutato l’irreparabilità del danno che potrebbe subire il ricorrente, eventualmente tenuto a
prestare cauzione nel caso in cui la concessione della sospensione esponga la Comunità a rischi
finanziari.
11
Sentenza 6 dicembre 2005, C-453/03.
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13 Le deroghe al principio di primazia del diritto
comunitario: la teoria dei controlimiti.
Un limite alla primazia del diritto comunitario si rinviene nelle previsioni della Carta
Costituzionale che tutelano i diritti fondamentali della persona.
Il Consiglio di Stato12, ha
esaminato l’ipotesi dell’eventuale contrasto tra norma comunitaria e norma nazionale analizzando la
c.d. teoria dei controlimiti.
Il Consiglio ricostruisce i rapporti tra ordinamento nazionale e ordinamento comunitario,
nonché le relazioni esistenti tra Corte costituzionale e Corte di Giustizia, addivenendo alle seguenti
conclusioni:
A) il giudice nazionale non può limitarsi a disapplicare la norma di diritto interno
contrastante con il diritto comunitario, qualora difetti una disciplina comunitaria direttamente
applicabile, essendo necessario un intervento interpretativo della Corte di Giustizia. In caso
contrario il giudice nazionale, anziché risolvere il caso secondo la disciplina comunitaria adottata
dagli organi competenti, finirebbe per creare esso stesso la norma mancante, con inammissibile
stravolgimento della distinzione e della separazione tra le fondamentali potestà di creazione e
applicazione del diritto.
B) La posizione della Consulta che valuta l’ordinamento nazionale e quello comunitario
come ordinamenti separati, ha determinato l’elaborazione da parte della dottrina costituzionalistica
della teoria c.d. dei "controlimiti", secondo la quale la sovranità statale, lungi dall’essere assorbita
all’interno di una sovranità superiore, risulta essere soltanto limitata, ai sensi dell’art. 11 Cost..
Il Consiglio di Stato ha inteso preservare uno spazio giuridico statale sottratto all’influenza
del diritto comunitario; spazio nel quale lo Stato continua ad essere interamente sovrano, vale a dire
indipendente, e perciò libero di disporre delle proprie fonti normative. È appunto l’area dei diritti
fondamentali, la cui tutela funge da insopprimibile "controlimite" alle limitazioni spontaneamente
accettate con il Trattato.
In costanza, pertanto, di una sentenza della Corte costituzionale che lo vincola alla
applicazione della norma appositamente modificata in funzione della tutela di un diritto
12
Sentenza 8 agosto 2005, n. 4207.
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fondamentale, il giudice nazionale non può prospettare alla Corte del Lussemburgo un quesito
pregiudiziale della cui soluzione non potrà comunque tenere conto, perché assorbita dalla decisione
della Corte italiana, incidente nell’area della tutela dei diritti ad essa riservata.
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14 Rapporto tra giudicato giurisdizionale
contrastante con il diritto comunitario e primazia
del diritto comunitario.
Proseguendo nell’indagine relativa ai limiti di prevalenza del diritto comunitario e
dell’utilizzo dello strumento della disapplicazione, va segnalata l’importante pronuncia della Corte
di Giustizia13, che affronta il tema del rapporto tra giudicato giurisdizionale contrastante con il
diritto comunitario e primazia del diritto comunitario.
La Corte, in particolare, viene investita del seguente quesito: se il principio di cooperazione
sancito dall’art. 10 CE debba essere interpretato nel senso che anche un giudice nazionale, in
presenza dei presupposti fissati dalla sentenza della Corte di giustizia 13 gennaio 2000, causa C453/00, Kühne & Heitz, è obbligato a riesaminare e ad annullare una decisione giurisdizionale
passata in giudicato nel caso in cui risulti che questa viola il diritto comunitario; se, eventualmente,
il riesame e la revoca di decisioni giurisdizionali siano subordinate a condizioni ulteriori rispetto a
quelle valevoli per le decisioni amministrative.
La decisione del giudice comunitario chiarisce il suo autorevole precedente, dando risposta
negativa al quesito. La Corte, infatti, rammenta l’importanza che il principio dell’autorità di cosa
giudicata riveste sia nell’ordinamento giuridico comunitario sia negli ordinamenti giuridici
nazionali, al fine di garantire sia la stabilità del diritto e dei rapporti giuridici, sia una buona
amministrazione della giustizia. Da ciò deriva che il diritto comunitario non impone ad un giudice
nazionale di disapplicare le norme processuali interne che attribuiscono autorità di cosa giudicata ad
una decisione, anche quando ciò permetterebbe di accertare una violazione del diritto comunitario
da parte di tale decisione.
Nella stessa ottica, sia pure valutando il rapporto tra autotutela amministrativa e violazione
del diritto comunitario, si muove altra sentenza della Corte di Giustizia14. Richiamando il principio
della certezza del diritto la Corte ribadisce che il diritto comunitario non esige che un organo
amministrativo sia, in linea di massima, obbligato a riesaminare una decisione amministrativa che
ha acquisito carattere definitivo alla scadenza di termini ragionevoli di ricorso o in seguito
13
16 marzo 2006, C-234/04, in Dispensa amministrativo 1,
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all’esaurimento dei mezzi di tutela giurisdizionale. Tanto per evitare che atti definitivi vengano
rimessi in discussione all’infinito.
La Corte ha tuttavia riconosciuto la possibilità di limitare in taluni casi il detto principio: al
punto 28 della sentenza Kühne & Heitz, cit., ha affermato, infatti, che l’organo amministrativo
interessato è tenuto, in applicazione del principio di cooperazione derivante dall’art. 10 CE, a
riesaminare tale decisione, ed eventualmente a ritornare su di essa, ove siano soddisfatte le seguenti
quattro condizioni:
1) che disponga, secondo il diritto nazionale, del potere di ritornare su tale decisione;
2) che la decisione in questione sia divenuta definitiva in seguito ad una sentenza di un
giudice nazionale che statuisce in ultima istanza;
3) che tale sentenza, alla luce di una giurisprudenza della Corte successiva alla medesima,
risulti fondata su un’interpretazione errata del diritto comunitario adottata senza che la Corte fosse
adita in via pregiudiziale alle condizioni previste all’art. 234, n. 3, CE, e
4) che l’interessato si sia rivolto all’organo amministrativo immediatamente dopo essere
stato informato della detta giurisprudenza.
Ne discende a giudizio della Corte che nella fattispecie, se le norme nazionali di ricorso
obbligano a ritirare l’atto amministrativo illegittimo per contrarietà al diritto interno, pur se ormai
atto definitivo, allorché il suo mantenimento è «semplicemente insopportabile», identico obbligo
deve sussistere a parità di condizioni in presenza di un atto amministrativo non conforme al diritto
comunitario.
Spetta al giudice nazionale, pertanto, verificare sulla scorta della normativa interna se
sussistono i presupposti per il ritiro dell’atto amministrativo, risultando indifferente che lo stesso sia
viziato per violazione del diritto interno o del diritto comunitario.
14
19 settembre 2006, C-392/04 e C-422/04.
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15 Il principio di tutela del legittimo affidamento e
sue applicazioni in materia di autotutela
Un posto di particolare rilievo va attribuito al principio di tutela dell’affidamento.
Nell’ambito della giurisprudenza comunitaria, il principio di legittima aspettativa (legitimate
expectation) conduce a ritenere che una situazione di vantaggio, assicurata ad un privato da un atto
specifico e concreto dell’autorità amministrativa, non può essere successivamente rimossa, salvo
che non sia strettamente necessario per l’interesse pubblico e fermo in ogni caso l’indennizzo della
posizione acquisita. La particolare considerazione per tale posizione mostra come il principio di
certezza del diritto e di stabilità dei rapporti giuridici tende a prevalere, in determinati casi, su
quello di legalità. Atti dell'autorità, anche se illegittimi, possono aver prodotto nei destinatari un
affidamento circa i vantaggi loro assicurati, in relazione alle circostanze di fatto e di diritto
nell'ambito delle quali l'autorità ha operato; affidamento, che non può essere sacrificato in ragione
di motivi di interesse pubblico.
La legge 15/2005 si è fatta carico di tale principio, subordinando l’esercizio del potere di
annullamento d’ufficio al limite temporale del termine ragionevole oltre che ai criteri della
comparazione degli interessi (art. 21 nonies); e stabilendo la tutela indennitaria a vantaggio del
destinatario del provvedimento di revoca anticipata (art. 21 quinquies).
L’applicazione del principio di tutela dell’affidamento nel campo comunitario ci rende
quindi edotti che la primazia del diritto comunitario ed il valore della legalità formale non
assumono valore assoluto nel diritto europeo; dette esigenze possono infatti inchinarsi di fronte al
valore della stabilità dei rapporti giuridici stabilendo l’intangibilità di un provvedimento attributivo
di un vantaggio, nonostante la sua illegittimità, quando questo abbia assicurato un vantaggio ad un
soggetto che in buona fede, e grazie al decorso del tempo, confidi nella sua stabilità.
Sulla questione è intervenuto anche il Consiglio di Stato15. La Sezione premette che il
principio di non doverosità dell’esercizio del potere di autotutela e quello consacrato nel testo
dell’art. 21-nonies, l. 241/90 della necessità di valutare la presenza di un interesse pubblico attuale
ai fini dell’annullamento non vengono derogati quando l’asserito vizio di legittimità del
15
Sentenza della VI sezione, 3 marzo 2006, n. 1023.
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provvedimento da rimuovere consiste nella violazione del diritto comunitario. Pertanto, la presenza
di una violazione di diritto comunitario non muta in esercizio vincolato l’utilizzo del potere di
autotutela, nemmeno nel caso in cui la violazione del diritto comunitario consista nell’omesso
svolgimento della valutazione di impatto ambientale. E tanto proprio per il ruolo che assume
l’affidamento in campo europeo, tale da imporre sempre la valutazione della sussistenza di un
interesse pubblico che renda veramente necessario il ritiro dell’atto
Sempre in relazione alla definizione dell’ambito di operatività del principio del legittimo
affidamento, la Corte di Giustizia16 indica quali elementi minimi debbano ricorrere perché il
principio de quo possa essere invocato. Nella fattispecie il giudice comunitario si occupa di una
vicenda avente ad oggetto la materia degli aiuti di Stato, precisando che il legittimo affidamento
sulla regolarità dell’aiuto non può essere invocato dal beneficiario se l’aiuto stesso non è stato
concesso nel rispetto della procedura prevista dall’art. 88 del Trattato. Pertanto, se l’aiuto è stato
versato senza la previa notifica alla Commissione l’illegittimità derivante dal difetto di procedura
impedisce il sorgere dell’affidamento, come impedisce la possibilità di invocare il principio di
certezza del diritto posto che è prevedibile sin dall’esecuzione dell’aiuto che lo stesso sarà oggetto
di contenzioso.
16
Sentenza 15 dicembre 2005, C-148/04.
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16 Integrazione tra ordinamento comunitario e
diritto amministrativo nazionale.
La nuova nozione di diritto amministrativo europeo è intesa come il complesso delle
normative di fonte comunitaria (in particolare modo direttive e regolamenti) che incide sulla
disciplina dell’attività amministrativa. L’integrazione tra ordinamento comunitario ed ordinamento
nazionale è un processo graduale ed in costante crescita testimoniato dall’attenzione che il
legislatore costituzionale e quello ordinario dedicano all’argomento: l’art. 117, comma 1, cost.,
come modificato dalla legge costituzionale n. 3 del 2001, stabilisce che l’attività legislativa statale e
quella regionale devono rispettare i vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario. Non si
dimentichi poi che anche il legislatore della riforma della legge sul procedimento amministrativo
aveva inteso valorizzare l’importanza assunta dalla Grundnorm comunitaria in seno all’ordinamento
giuridico nel suo complesso, in quanto, nel fissare i principi generali dell’attività amministrativa,
aveva stabilito che ―L'attività amministrativa persegue i fini determinati dalla legge ed è retta da
criteri di economicità, di efficacia, di imparzialità, di pubblicità e di trasparenza secondo le
modalità previste dalla presente legge e dalle altre disposizioni che disciplinano singoli
procedimenti, nonché dai principi dell'ordinamento comunitario‖. Invero, la giurisprudenza
amministrativa si è abituata a far uso dei principi innanzi richiamati già da molto prima che nel
nostro sistema venisse introdotta la disposizione di cui all’attuale art. 1, comma 1, della legge nr.
241 del 1990 (come novellato dalla legge nr. 15 del 2005). Come è stato osservato, questa
previsione si differenzia da altre che l’hanno preceduta le quali avevano un carattere limitato a
specifici settori di rilevanza comunitaria, e anche dal rinvio ai ―vincoli‖ comunitari inserito nel già
citato art. 117, comma 1, Cost., in quanto quest’ultimo in definitiva altro non è che un richiamo al
rispetto del diritto dell’Unione laddove questa abbia esercitato le proprie competenze; laddove la
disposizione introdotta nella legge generale sul procedimento amministrativo ha una portata
generale, estesa a tutta l’attività della p.a. nell’ordinamento nazionale, confermando che il processo
di ―europeizzazione‖ investe il diritto amministrativo nella sua interezza. Ma l’importanza di tale
contributo normativo non deve essere trascurato se è vero che alcuni hanno sostenuto
l’incompatibilità del termine decadenziale per contestare gli atti amministrativi in ipotesi di
provvedimento viziato perché contrastante con le regole del diritto comunitario, muovendo
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dall’assunto che la legge italiana ―anticomunitaria‖ debba considerarsi nulla. I sostenitori della tesi
in commento quindi hanno concluso nel senso che l’atto amministrativo confliggente con il diritto
comunitario sarebbe da considerare a sua volta nullo o inesistente per carenza di potere, di talché
esso, siccome non in grado di produrre l’effetto degradatorio nei riguardi dei diritti soggettivi
preesistenti, sarebbe da porre all’attenzione del giudice ordinario invece che di quello
amministrativo.
La tesi è stata sonoramente respinta dal Consiglio di Stato con diverse pronunce17 che hanno
consolidato il seguente orientamento: ―L’atto amministrativo violativo del diritto comunitario è
affetto dal vizio di illegittimità per violazione di legge e non dal vizio della nullità ciò perché l’art.
21-septies l. 7 agosto 1990, n. 241, introdotto dalla l. 11 febbraio 2005, n. 15, ha codificato in
numero chiuso le ipotesi di nullità del provvedimento amministrativo, e non vi rientra la violazione
del diritto comunitario Ne consegue pertanto sul piano processuale, l'onere dell'impugnazione del
provvedimento contrastante con il diritto comunitario, dinanzi al giudice amministrativo entro il
termine di decadenza, pena la inoppugnabilità e sul piano sostanziale, l’obbligo per
l'Amministrazione di dar corso all’applicazione dell'atto, salva l’autotutela‖.
Per altro verso, la Corte di Giustizia, investita del problema, ha ritenuto la compatibilità di
un regime di impugnazione con termini di decadenza con la disciplina comunitaria, affermando che
la direttiva 89/665 non osta ad una normativa nazionale la quale preveda che qualsiasi ricorso
avverso un decisione dell’amministrazione aggiudicatrice vada proposto nel termine all’uopo
previsto e che qualsiasi irregolarità del procedimento di aggiudicazione invocato a sostegno di tale
ricorso debba essere sollevata nel medesimo termine, a pena di decadenza, di modo che, scaduto
tale termine, non è più possibile impugnare tale decisione o eccepire la suddetta irregolarità, a
condizione che il termine in parola sia ragionevole18.
Oggi si osserva però che il diritto europeo ha avuto una importante ricaduta anche sul
versante della tutela giurisdizionale avverso gli atti della p.a.: infatti, esperienze anche molto recenti
(basti pensare alla c.d. ―direttiva ricorsi‖ in materia di appalti) dimostrano come l’Unione europea
abbia ormai decisamente abbandonato la propria iniziale indifferenza rispetto ai modelli processuali
adottati dagli Stati membri, sintetizzata dal predetto tradizionale orientamento della Corte di
giustizia in ordine al principio di autonomia processuale temperato soltanto dai noti ―paletti‖ del
17
18
C. Stato, sez. VI, 31 marzo 2011, n. 1983.
Corte di Giustizia, sentenza 12 dicembre 2002, causa C-470/99, Universale-Bau, punti 76 e 79.
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rispetto dei principi di non discriminazione e di effettività della tutela. Negli ultimi anni, si
moltiplicano gli esempi di pronunce della Corte che investono anche direttamente aspetti cruciali
della disciplina processuale, e che hanno anche determinato interventi correttivi del legislatore
italiano: basti pensare alla tutela cautelare ante causam, introdotta nel Codice del processo
amministrativo proprio su impulso della Corte europea(v. Dispensa sul giudizio cautelare); al ruolo
determinante giocato dal diritto comunitario nel riconoscimento di spazi molto più ampi al possibile
sindacato giurisdizionale della discrezionalità tecnica dell’amministrazione; alle più recenti
pronunce che ammettono (vedi sopra) che l’attuazione del diritto comunitario possa avvenire anche
a scapito del giudicato che sulla specifica vicenda si sia formato nell’ordinamento interno.
Gli ultimi recentissimi esempi di questa tendenza in atto sono, sul versante europeo, una
sentenza con la quale la Corte di giustizia indurrà verosimilmente il legislatore e la giurisprudenza
italiana a rivedere alcune acquisizioni consolidate in tema di legittimazione processuale degli enti
esponenziali di interessi ―diffusi‖, e – soprattutto – nel nostro sistema interno, la sentenza (non a
torto definita ―storica‖ dai primi commentatori) con la quale la Sesta Sezione del Consiglio di
Stato19 ha ritenuto di poter mutuare dalla Corte europea il potere di omettere o differire nel tempo, a
maggior tutela del ricorrente, l’annullamento dell’atto impugnato, del quale pure sia stata accertata
l’illegittimità.
19
Cons. Stato, sez. VI, 10 maggio 2011, n. 2755, secondo cui ―In base alla giurisprudenza comunitaria - la quale ha da
tempo affermato che il principio dell'efficacia "ex tunc" dell'annullamento, seppur costituente la regola, non ha portata
assoluta e che la Corte di giustizia Ue può dichiarare che l'annullamento di un atto (sia esso parziale o totale) abbia
effetto "ex nunc" o che, addirittura, l'atto medesimo conservi i propri effetti sino a che l'istituzione comunitaria
modifichi o sostituisca l'atto impugnato - si deve ritenere, analogamente, che anche il g.a. abbia il potere di statuire la
perduranza, in tutto o in parte, degli effetti dell'atto risultato illegittimo, per un periodo di tempo che può tenere conto
non solo del principio di certezza del diritto e della posizione di chi ha vittoriosamente agito in giudizio, ma anche di
ogni altra circostanza da considerare rilevante. Ne deriva che anche il g.a. nazionale può differire gli effetti di
annullamento degli atti impugnati, risultati illegittimi, ovvero non disporli affatto, statuendo solo gli effetti
conformativi, volti a far sostituire il provvedimento risultato illegittimo‖.
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17 Il rapporto tra norme comunitarie e
costituzionali.
Altro profilo meritevole di indagine, in questa sede, è quello che riguarda il rapporto tra
norme comunitarie e costituzionali. Di recente, infatti, la Corte Costituzionale 20 ha affermato che
l’espressione ―obblighi internazionali‖, contenuta nell’art. 117, comma 1, Cost. si riferisce alle
norme internazionali convenzionali anche diverse da quelle comprese nella previsione degli artt. 10
e 11 Cost. Così interpretato, l’art. 117, primo comma, Cost. ha colmato la lacuna prima esistente
quanto alle norme che a livello costituzionale garantiscono l’osservanza degli obblighi
internazionali pattizi.
La conseguenza è che il contrasto di una norma nazionale con una norma convenzionale, in
particolare della CEDU, si traduce in una violazione dell’art. 11, primo comma, Cost..
Nel caso in cui si profili un contrasto tra una norma interna e una norma della Convenzione
europea, il giudice nazionale dove procedere ad una interpretazione della prima conforme a quella
convenzionale, ove ciò sia consentito dal testo della disposizione, altrimenti, non potendo procedere
alla applicazione diretta della norma della CEDU, deve sollevare la questione di costituzionalità.
Alla Consulta è però precluso di sindacare l’interpretazione della Convenzione europea fornita dalla
Corte di Strasburgo, cui tale funzione è stata attribuita dal nostro Paese senza apporre riserve.
Non si dimentichi, infatti, che le norme della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, a
differenza di quelle comunitarie provviste di effetto diretto, come quelle regolamentari, non sono
suscettibili di effetto diretto nell’ordinamento interno. Questa regola non vale in ogni caso. Come
evidenziato dal giudice amministrativo21 gli artt. 6 e 13 della CEDU trovano diretta applicazione nel
sistema nazionale, a seguito della modifica dell’art. 6 del Trattato, disposta dal Trattato di Lisbona,
entrato in vigore il 1° dicembre 2009.
20
Sentenze 26 novembre 2009, n. 311 e 12 marzo 2010, n. 93.
C. Stato, sez. IV, 2 marzo 2010, n. 1220, secondo cui, in relazione all’azione prevista dall’art. 389 c.p.c., in sede
interpretativa il giudice amministrativo deve adottare tutte le misure che diano effettiva tutela al ricorrente la cui pretesa
risulti fondata..
21
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18 Il Trattato di Lisbona ed i suoi riflessi sulla
formazione del diritto amministrativo europeo.
Va innanzitutto sgombrato il campo dall’equivoco che vuole il Trattato di Lisbona poco
meritevole di considerazione siccome ritenuto idoneo ad apportare soltanto lievi modifiche ed
integrazioni di tipo nominalistico, in quanto le novità complessivamente introdotte sono tali da
profondamente innovare strutturalmente l’Unione europea. Invero, in dottrina si afferma che << il
nuovo assetto dell’Unione si caratterizza certamente per un’ulteriore, decisa accentuazione
dell’integrazione ordinamentale, che si manifesta nella tendenza a “istituzionalizzare” i
meccanismi di compenetrazione tra il diritto europeo e i diritti degli Stati membri in quello che può
essere definito un sistema “multilivello” (o di multilevel governance), nel quale non è azzardato
intravedere i connotati di un assetto pre-federale >>22.
Un dato infatti che balza agli occhi evidente in virtù di una analisi anche approssimativa
dell’evoluzione del diritto europeo è il progressivo ampliarsi delle competenze dell’Unione,
all’affermarsi di una vasta e articolata amministrazione europea. Di questo sviluppo ha preso atto lo
stesso Trattato di Lisbona, come confermato dal nuovo art. 298 TFUE, secondo cui: ―nell’assolvere
i loro compiti le istituzioni, organi e organismi dell’Unione si basano su un’amministrazione
europea aperta, efficace ed indipendente‖. Tale disposizione, come è stato evidenziato in dottrina23,
pur non fornendo una definizione positiva della nozione europea di amministrazione, ne riflette la
complessità e la stratificazione, come testimoniato dall’inciso per cui la funzione amministrativa è
esercitata da ―istituzioni, organi e organismi‖ riconducibili all’Unione europea.
Volendo ora volgere lo sguardo al diritto amministrativo italiano e individuare gli aspetti nei
quali è maggiormente evidente l’influenza del diritto comunitario, è dato di comune esperienza che
in molti settori l’impatto delle direttive comunitarie ha comportato una vera e propria ―riscrittura‖
della nostra normativa interna (basti pensare alle materie degli appalti e dell’ambiente).
Ma in questa sede, più che enumerare le materie nelle quali il legislatore italiano è stato
influenzato da quello comunitario, interessa verificare quali siano i principi generali, oggi pacifici
22
23
R. Greco, Il diritto amministrativo europeo dopo il Trattato di Lisbona, in www.giustizia-amministrativa.it.
M.P. Chiti, Diritto amministrativo europeo, Milano, 2011.
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nel nostro ordinamento, nei quali è agevole rinvenire un precipitato del ―diritto amministrativo
europeo‖:
1)
anzitutto, anche nel nostro ordinamento si registra un profondo mutamento della
nozione stessa di ―amministrazione pubblica‖ come soggetto: si tratta di un fenomeno ovviamente
dovuto a una molteplicità di fattori, quali il superamento della tradizionale nozione centralistica
dello Stato in favore di un modello policentrico, il potenziamento delle autonomie regionali e locali,
la proliferazione delle autorità indipendenti, le privatizzazioni e il più generale abbandono del
classico strumento autoritativo in favore di strumenti consensuali e privatistici; ciò comporta che
anche nel nostro ordinamento interno si assiste all’adozione di una nozione ―flessibile‖, in grado di
variare per portata ed estensione a seconda dei contesti in cui è calata: basti pensare alla nozione di
organismo di diritto pubblico, notoriamente elaborata a livello comunitario per risolvere le questioni
pratiche connesse all’individuazione dell’area dei soggetti tenuti al rispetto delle regole
dell’evidenza pubblica e oggi recepita nel nostro ordinamento dall’art. 3, comma 26, del Codice dei
contratti pubblici (d.lgs. 12 aprile 2006, nr. 163);
2)
un altro settore in cui davvero eclatante è l’influenza del diritto europeo è quello
della responsabilità della p.a.; è noto che la caduta del dogma dell’irrisarcibilità degli interessi
legittimi, sancita dalla Corte di Cassazione con la storica sentenza nr. 500 del 1999, rappresentò
soltanto il punto terminale di un processo indotto dall’Unione europea, che in materia di appalti
pubblici aveva già portato alla positiva affermazione della risarcibilità del danno cagionato alle
imprese partecipanti alla gara dalle illegittimità verificatesi durante la stessa (l. 19 febbraio 1992,
nr. 142);
3)
per quanto poi attiene alla disciplina del procedimento amministrativo, si nota come
sia ormai consolidata la recezione da parte del diritto interno di principi generali elaborati a livello
comunitario e destinati a costituire il minimo comun denominatore per l’attività delle
amministrazioni nazionali. Alcuni di questi principi, riassunti sotto la formula del ―giusto
procedimento‖, sono già ben noti alla nostra esperienza interna: ci si riferisce ai principi della
motivazione, del contraddittorio, della certezza del diritto e in generale del rispetto delle garanzie
procedimentali poste a tutela dei destinatari dell’azione della p.a. Ma la nostra giurisprudenza ormai
da tempo fa largo impiego anche di altri principi di più evidente origine comunitaria, quali il
principio del legittimo affidamento e quello di proporzionalità: il primo, strettamente connesso a
quello di certezza del diritto, è stato da ultimo recepito nella disciplina dell’autotutela
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amministrativa introdotta nella legge nr. 241 del 1990 dalla novella del 2005; il secondo, nato
nell’ordinamento tedesco, è stato codificato nell’art. 5 del Trattato per tracciare i limiti della sfera di
competenze dell’Unione rispetto a quelle degli Stati membri, per essere poi trasformato dalla Corte
di giustizia in un vero e proprio principio generale del diritto europeo, alla cui stregua valutare
anche gli atti nazionali (legislativi e anche amministrativi).[86]
Ma è il tema della responsabilità della p.a. a fornire il destro per un’importante riflessione.
Si osserva che la tendenza del diritto europeo a conferire il proprio imprinting alla responsabilità
della p.a. comporta che molte delle riflessioni e delle regole elaborate dalla dottrina e dalla
giurisprudenza italiane potrebbero non conservare piena validità nel prossimo futuro: in altri
termini, dopo quello dell’irrisarcibilità degli interessi legittimi, altri ―dogmi‖ consolidati nella
nostra concezione dell’illecito aquiliano potrebbero presto cadere. Come notato da autorevole
dottrina24, l’incidenza del diritto europeo sulla disciplina interna della responsabilità
extracontrattuale della p.a. produce tre conseguenze fondamentali: la prima di esse, appunto, è il
riconoscimento della risarcibilità dell’interesse legittimo in quanto lesione ad un ―bene della vita‖
(al pari di quanto avviene per i diritti soggettivi); la seconda è la necessità di generalizzare il ristoro
delle lesioni ―procedimentali‖ nell’ambito di procedure a rilevanza europea (e si pensi all’odierno
dibattito in tema di ―danno da ritardo‖, dopo l’introduzione dell’art. 2 bis nella legge nr. 241 del
1990); la terza è la verosimile esigenza di rivedere a fondo tutta l’elaborazione in materia di ―colpa
dell’amministrazione‖, atteso che la responsabilità extracontrattuale degli Stati sul piano europeo si
atteggia sempre più come una responsabilità di tipo oggettivo, legata alla mera violazione di una
norma che sia chiaramente diretta a riconoscere diritti ai singoli, con conseguente forte
ridimensionamento dei profili connessi all’elemento soggettivo ex art. 2043 cod. civ.. È un tema
questo fondamentale, sul quale avremo modo di soffermarci nell’ambito di altra lezione, crocevia
delle tesi più disparate in tema di responsabilità da lesione di interesse legittimo. Per il momento ci
basta osservare che la Corte di Giustizia CE, Sez. III - 30 settembre 2010 (C-314/09) ha a chiare
lettere affermato che la direttiva del Consiglio 21 dicembre 1989, 89/665/CEE, che coordina le
disposizioni legislative, regolamentari e amministrative relative all’applicazione delle procedure di
ricorso in materia di aggiudicazione degli appalti pubblici di forniture e di lavori, come modificata
dalla direttiva del Consiglio 18 giugno 1992, 92/50/CEE, deve essere interpretata nel senso che essa
24
M.P. CHITI, La responsabilità dell’amministrazione nel diritto comunitario, in Riv. it. dir. pubbl. comunit., 2009, 34, 505 ss.
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amministrativo: l’influenza del diritto comunitario
osta ad una normativa nazionale, la quale subordini il diritto ad ottenere un risarcimento, a motivo
di una violazione della disciplina sugli appalti pubblici da parte di un'amministrazione
aggiudicatrice, al carattere colpevole di tale violazione, finanche se la normativa preveda una
presunzione di colpevolezza vincibile solo attraverso la dimostrazione della scusabilità dell’errore
(impossibilità soggettiva o inesigibilità, secondo buona fede, del comportamento diligente)25.
25
G. Veltri, La parabola della colpa nella responsabilità da provvedimento illegittimo: riflessioni a seguito del codice
del processo e della recente giurisprudenza, in web.
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