PRECARIZZAZIONE Beppi Zambon – insegnante di Discipline Giuridiche scuola superiore – (Padova). Chi si ricorda della cacciata di Luciano Lama, segretario generale della CGIL, e del suo codazzo di funzionari sindacali alle idi di marzo del ’77, ricorda anche lo sviluppo del significato sociale, politico e lessicale del termine precarizzazione. Allora dal sistema della comunicazione vennero divulgati e pompati neologismi quali ‘garantiti’ e ‘non garantiti’ per identificare figure sociali che avevano comportamenti collettivi affatto diversi e spesso contrapposti interessi. Semplificando, per il ‘mainstream’ della comunicazione, anche in ambito sindacale e politico, i ‘garantiti’ configuravano quei lavoratori, adulti e padri di famiglia, con un reddito da lavori continuativi, affiliati ai sindacati confederali tradizionali, venivano identificati quale la maggioranza compatibile e democratica della classe operaia , mentre i ‘non garantiti’ venivano qualificati come appartenenti alle fasce giovanili con un reddito da lavori saltuari e/o in nero, simpatizzanti del movimento, e additati come una minoranza, per di più violenta. Ho fatto questo richiamo, non per il gusto dell’ermeneutica del movimento ma per affermare come il processo di precarizzazione abbia tanto delle lontane radici nelle trasformazioni del modo di produrre quanto dei sostanziosi – seppur carsici – percorsi sindacali e sociali. Seguiamo per dislocazioni sociali e temporali questa traccia. Per stoppare l’assalto al cielo degli anni 70, sul finire degli stessi, a livello globale nei punti alti del conflitto, si mise in moto un grandioso processo ristrutturativo del modo di produrre le merci, del fare società, del modo di vivere collettivo. Alla produzione lineare di tipo fordista si principiò a sostituire quella proposta per isole di montaggio, tratta dalle sperimentazioni produttive della Volvo e Saab, e di seguito con l’applicazione del modello toyotista, affiancando il tutto con un decentramento selvaggio della produzione nel territorio, tipicizzato dai modelli delle Marche e del Veneto e con la delocalizzazione della stessa filiera produttiva in aree del globo con minor conflittualità, quasi a voler sottrarre e nascondere i luoghi della produzione e del conflitto agli occhi della società. Questo processo ebbe in Italia una sua rappresentazione politica e sociale nell’espulsione di 30.000 operai FIAT nella primavera del 1980: anche i ‘garantiti’ più garantiti diventavano dei possibili “non garantiti”. A cavallo di questo decennio nella scuola, dall’altra parte del banco, entravano molti dei soggetti che sono stati partecipi della riappropriazione sociale dei saperi all’Università e, subito, pongono il tema della garanzia del reddito, dando vita ad una stagione di lotte trasformative in tutto il sistema scolastico italiano, con l’uso diffuso del blocco degli scrutini, creando i presupposti per il superamento della tradizionale cooptazione nella funzione docente attraverso le forme concorsuali e culmina, poi, con la grande assunzione generalizzata attraverso la L.463/78, che calmiera quella larga fascia di giovani insegnanti (i precari della scuola) che risponde alle esigenze dei flussi della scolarizzazione di massa. I primi anni 80 risentono ancora dell’onda lunga del decennio antecedente e vedono quindi ancora dei momenti nei quali il movimento dei precari porta a casa dei risultati in termini di lotte e di risultato, infatti con la L.285/80 una nuova leva di lavoratori, spesso scolarizzata, entra nella P.A. e negli EE.LL, scombussolando il tran-tran dei ‘mezzemaniche’ italiani; anche in ambito scolastico vengono indetti gli ultimi grossi concorsi a cattedra che formeranno, per tutto il decennio successivo il tappo attraverso cui il Ministero dell’Istruzione centellinerà il ricambio dei docenti nella scuola italiana. Così gli anni della ‘Milano da bere’ si aprono con la devastazione di quel humus fatto di coesione – solidarietà – alterità costituitosi attorno alle lotte egualitarie e per il reddito prodottesi nelle grandi fabbriche, poi tracimate nelle città, nei territori e con la caparbia spinta dei nuovi soggetti, il precariato del ciclo produttivo socializzato, che rivendica, con creatività, stabilità e reddito. Qui siamo alla vigilia di quella rivoluzione tecnologica nel modo di produzione in cui tutt’ora siamo avviluppati, qui si intravede la figura di quell’operaio sociale che sarà il soggetto politico attraverso cui i valori sociali, politici, etici espressi nel precedente ciclo di lotte, riescono a passare il setaccio della ‘grande ristrutturazione e trasformazione del modo di produrre e della grande repressione ed involuzione sociale’. Gli anni 90 si aprono con la fine del ‘bipolarismo’ e con l’ingresso dall’Est Europa e dal Sud del mondo dei ‘nuovi schiavi’ che affiancano i precari nostrani nella frammentazione del mercato del lavoro. Un noto economista (Lester Turrow) afferma che al crollo del Muro di Berlino e del Sistema Sovietico hanno contribuito molto di più i pregi del p.c. (personal computer) che non gli errori del PCUS (il Partito Comunista dell’Unione Sovietica). Potremmo usare lo stesso aforisma per descrivere il portato dell’informatizzazione della produzione nel mercato del lavoro e nella società tutta. Quello del precario era uno status temporaneo, di transito verso la stabilità del lavoro/reddito, limitato numericamente rispetto ai vari settori dell’attività produttiva, diventa – nel volgere di un decennio – il nuovo paradigma, maggioritario politicamente e numericamente determinante, della forza lavoro nel modo di produzione socializzato e globalizzato della società del III millennio. Negli anni recenti l’avvenuta precarizzazione di tutta la società posta al lavoro emerge come fattore, anche statisticamente, imponente e strutturale. Infatti sono 6 milioni 152 mila – ufficialmente - i lavoratori invisibili italiani. I dati sono stati ottenuti incrociando i rapporti di diversi istituti, dall'Istat all'Inps, dall'Inail allo Svimez e all'Oil e provengono da uno studio condotto da A. Genovesi per conto della CGIL di recente pubblicazione. A questi dati indicativi di fonte istituzionale, si possono affiancare alcune proiezioni fatte dal Centro studi dell’Associazione Artigiani di Mestre-Venezia, in cui si indicano in oltre 8 milioni il numero dei lavoratori in nero, includendo in essi i lavoratori migranti e gli atipici smaccatamente irregolari. Da questa variegata moltitudine, che percentualmente rappresenta il 24% dei lavoratori dipendenti del centro Italia, il 19% del nord est, il 20% del nord ovest, quasi il 37% di quelli del sud, viene prodotto il 20% del PIL. A queste considerazioni vanno aggregati i dati provenienti dalle trasformazioni introdotte nel mercato del lavoro dalla pletora di contratti atipici – quelli, oggi, definiti dalla L. 30/04 ‘la Maroni –Biagi’ - ma che nella realtà venivano praticati già da anni: dal `99 al 2003 c'è stato un boom dei contratti atipici, si parla di altri 4 milioni di lavoratori, che sommati ai precedenti 8 da un totale complessivo di circa 12 milioni di lavoratori, 2/5 dell’intero mercato del lavoro e del 30% circa della ricchezza del Paese (PIL). Dunque anche la Riforma Moratti (L.53/03) è in perfetta sincronia col processo generale di precarizzazione degli ambiti produttivi e sociali. Infatti dà una strutturazione affatto moderna alla dimensione dei lavoratori precari nella scuola: accanto ad uno standard educativo e formativo a cui afferiranno un blocco di insegnanti doc, si formerà una articolazione di materie secondarie in offerta speciale in appannaggio ad una massa fluttuante di insegnanti precari o di serie B e ciò si combina con un processo di esternalizzazione dei servizi ausiliari mentre per quelli amministrativi si prevede di concentrarli in poli di riferimento territoriali. Oggi, chi sono i ‘non garantiti’, i precarizzati, gli invisibili,? Un insieme di figure sociali, una moltitudine, dove il manovale albanese sta al precario della scuola, come il socio lavoratore di una coop sta al cognitivo di una software house. Sono gli sfruttati della globalizzazione: spedizionieri, commessi, operatori dei call center, agenti finanziari e immobiliari, non più lavoratori impiegati solo in industria, agricoltura o nella scuola ma diffusissimi soprattutto nel commercio, nel turismo e nel terziario in generale. Insomma la precarizzazione del lavoro (e della produzione) è diventata una condizione strutturale e dominante nelle relazioni economiche e sociali della fase che stiamo attraversando, fissata anche nell’immaginario collettivo dalle May Day Parade di Milano.