Le api in chiesa. La veglia pasquale e l’Exultet La notte che precede la pasqua le comunità cristiane si radunano in preghiera per una veglia nella quale si celebra la resurrezione di Gesù. La veglia si compone di diversi momenti e riti, stracarichi di simboli e segni dell’immenso universo simbolico della Bibbia. E’ la notte in cui il diacono, davanti al cero pasquale acceso, canta il preconio. Termine latino questo, che significa “annuncio ufficiale del banditore”. Viene infatti proclamato che Cristo è risorto da morte, l’evento maggiore di tutta la storia cristiana. Il canto è detto anche Exultet, dalla prima parola, un congiuntivo esortativo latino, il cui infinito significa letteralmente “fare salti di gioia….”. L’invito a danzare, a far festa è rivolto all’universo intero, perché la luce del Risorto illumina ogni realtà. A far parte dell’Exultet, fin dai primi secoli cristiani, sono entrate anche le api. Non posso soffermarmi sui contenuti teologici della Laus Cerei, altro nome del preconio. Solo qualche cenno. Lode e ringraziamento a Dio Padre e a Gesù Cristo risorto agnello del sacrificio pasquale, luce gioiosa per il mondo, colonna di fuoco che illumina il cammino nel deserto, misericordia di Dio, salvezza, pace, concordia e giustizia, da cui immensa gioia ed esultanza, in cielo ed in terra. Si arriva perfino a “pazziare” dicendo che necessario fu il peccato di Adamo perché Cristo fosse per noi crocifisso! E felice la colpa che meritò d’avere un così straordinario Redentore! Notte della resurrezione in cui il Risorto strappa agli inferi i prigionieri, vince oscurità e tenebre, toglie colpe e peccati, abbatte odi discordie ingiustizie ed ogni male. Questa preghiera risale all’incirca al IV° secolo, opera probabilmente di sant’Ambrogio (339 circa-397). Sant’Agostino ricorda d’aver cantato l’Exultet quando ancora era diacono. Alcuni la dicono più antica, del III° o addirittura del II° secolo. Tramandata con varianti, secondo i luoghi ed i tempi e le diverse tradizioni religiose, conteneva sempre, più o meno ampio, un riferimento alle api, la laus apis, desunta pressoché integralmente dal IV° libro delle Georgiche di Virgilio (70-19 a.C.), giusta le dissertazioni sulle api di san Basilio di Cesarea (330-379) in Oriente e di sant’Ambrogio in Occidente(1). Il grande poeta, anche se pagano, era tenuto in ottima considerazione dagli scrittori cristiani antichi. Amatissimo poi nel Medio Evo, finì per essere considerato “quasi cristiano” e “profeta” dell’avvento di Cristo (2). Per questa ragione Dante lo prese come guida nel suo viaggio nell’oltretomba(3 ). Di qui anche il recepimento negli Exultet della virgiliana descrizione delle api. San Girolamo (331-420) criticò l’inclusione e l’esaltazione delle api in questo testo liturgico, anche perché da appassionato cultore qual era stato, nella sua giovinezza, della straordinaria plasticità e bellezza della lingua latina, più avanti negli anni era diventato avversario della bella forma a scapito del contenuto. Di qui la critica ad ogni riferimento, nei testi della Chiesa, a testi pagani (4). Era uso nell’Alto Medioevo che l’Exultet , cantato in cattedrale, venisse scritto a grandi caratteri, su pergamene, non paginate a modo di libro, ma riunite in rotoli legati di seguito l’uno all’altro, cosicché il diacono, man mano che procedeva nel canto, potesse farli scorrere giù dall’ambone, a mostrare ai fedeli le raffigurazioni miniate di quel che si stava pregando. Un fumetto ante litteram, la Biblia pauperum! In alcune pergamene, scriptor e miniatore hanno svolto il rispettivo compito all’inverso l’uno dall’altro, cosicché le illustrazioni, capovolte rispetto allo scritto, erano viste nel verso giusto da chi le guardava dal basso. Cattedrali e grandi centri monastici facevano a gara a chi avesse il rotolo più bello. Ne sono rimasti una trentina, quasi tutti del Mezzogiorno d’Italia. Composti tra il 900 ed il 1300. Alcuni integri, altri frammentari. Con scrittura longobarda, o carolingia, o gotica. Con ricche miniature o senza. Con la notazione musicale oppure no. Fu un avvenimento, nel 1994, la grande mostra sui rotoli dell’Exultet e la concomitante pubblicazione d’un grande catalogo (5). La rivista APITALIA, in quell’occasione, segnalò l’evento con una splendida copertina, un editoriale del direttore, Raffaele Cirone, e un bell’articolo di Angelo Camerini (6). Allora l’attenzione fu centrata soprattutto sulla “scoperta” delle numerose miniature riferite alle api presenti nei diversi codici degli Exultet. Ora è mio intento presentare la singolare laus apis del codice dell’Exultet 1 della cattedrale di Bari. Il contesto liturgico dell’Exultet Per comprendere che cosa ci stanno a fare le api negli Exultet, reputo opportuno delineare, per sommi capi, il rito del lucernario, che si svolge all’inizio della veglia pasquale e comprende la benedizione del fuoco nuovo e la benedizione del cero pasquale con il canto del preconio. Il rito comincia sul sagrato, fuori dalla chiesa, sul far della notte, con l’accensione d’un bel fuoco crepitante ed una grande luna di Pasqua nel cielo. Per tre volte il celebrante benedice il fuoco con l’acqua lustrale e per tre volte ancora lo incensa, caricandolo così del simbolismo di Cristo-Luce (Gv.1, 4-5. 9 e 8, 12), tema immane questo, che percorre e permea tutta la santa Scrittura, dal “Fiat lux” della Genesi all’ “Amen” dell’Apocalisse. Si prosegue con la benedizione del cero. Davanti al fuoco appena consacrato, viene portato un alto e grosso cero. Di regola, dovrebbe essere di pura cera d’api, profumato, giallino di colore, pesante molti chilogrammi. Nel passato, dagli apiari dei monasteri, si raccoglieva accuratamente la cera per l’uso liturgico. Ed anche i tributari delle abbazie dovevano consegnarla, perché cero e candele destinate al culto dovevano essere di pura cera d’api e non di grasso animale come il sego, utile peraltro per l’illuminazione. Oggi, essendo la cera d’api piuttosto costosa e rara, -certamene insufficiente a soddisfare la richiesta di migliaia di chiese- le cererie approntano i ceri con la più pratica ed economica paraffina, un derivato dagli idrocarburi (7). Molto spesso il cero porta impressa un’immagine di Cristo, applicata in decalcomania o dipinta da un artista. Con uno stiletto il sacerdote incide il cero, a circa metà altezza, tracciando una croce. Al di sopra e al di sotto del braccio verticale della stessa, applica la prima e l’ultima lettera dell’alfabeto greco, Alpha e Omega. All’incrocio dei due bracci, sopra e sotto, colloca i numeri dell’anno in corso, proclamando solennemente: Cristo / Ieri / e Oggi – Principio / e Fine - Alpha / e Omega - Suoi sono i tempi ed i secoli - A lui la Gloria e il Dominio- Per tutti i secoli dei secoli. Amen. E, come già fatto per il fuoco, anche il cero viene asperso con l’acqua santa per tre volte e per tre volte incensato. Segue l’ inserzione, ai quattro punti estremi della croce ed al suo centro, di 5 grani di profumato incenso a onore e memoria delle cinque piaghe gloriose del Crocifisso. Finalmente, prendendo la fiamma dal braciere, il celebrante accende il cero, nel mentre proclama: La luce di Cristo gloriosamente risorto dissipi le tenebre del cuore e della mente. Così “consacrato”, il cero si carica di tutta la simbologia polisemica dell’essere Cristo risorto Luce del mondo, del Cielo, della terra e degli inferi (là dove è sceso nella sua morte). Dalla fiamma del cero il sacerdote ed i fedeli accendono le loro candeline. E parte la processione verso la chiesa. Tre volte il sacerdote si ferma, e alzando il cero, ogni volta canta, con tono più forte e più alto: Luce di Cristo- Luce di Cristo – Luce di Cristo. Entrati nel tempio, nel buio totale, il cero è intronizzato, al centro del presbiterio, su un apposito candelabro. Nei secoli ne sono stati costruiti di grandiosi, lavorati finemente, intagliati e intarsiati nel legno, oppure scolpiti nel marmo, o fusi in bronzo. Il candelabro di Montecassino era alto 6 cubiti ( circa m.2,70)! La liturgia della luce raggiunge il suo culmine. Il diacono sale sull’ambone e prorompe nel canto dell’Exultet, preghiera che esprime lo stupore universale e la meraviglia e la lode ed il ringraziamento a Dio per la redenzione dell’umanità attuata da Cristo. L’antica melodia monodica suggestiva percorre e pervade gli spazi sacri con tanta struggente bellezza che, nel sentirla, Mozart stesso – così si tramanda-avrebbe dichiarato d’essere disposto a dare tutta la sua musica pur di poter essere lui l’autore di quella dell’Exultet! La veglia prosegue poi con una lunga serie di letture scritturali che ripercorrono la storia della salvezza dalla creazione del mondo alla venuta del Redentore. Verso la mezzanotte si canta il Gloria e si “sciolgono” le campane nel suono a distesa, dopo i quaranta giorni di silenzio quaresimale, per annunciare e ricordare a tutti la resurrezione di Cristo. Durante la messa, avviene anche la benedizione, con il cero santo, dell’acqua del fonte battesimale. Lo stesso cero sarà poi tenuto acceso tutte le feste fino a Pentecoste. Infine, durante l’anno, sarà riutilizzato nelle celebrazioni liturgiche di momenti forti della vita ecclesiale comunitaria come battesimi, cresime, matrimoni, funerali. Le api nel preconio pasquale di Bari Il rotolo dell’Exultet di Bari è forse il più bello e certamente tra i più importanti fra quelli pervenutici delle chiese dell’Italia meridionale. Scrittura, miniatura e notazione musicale lo fanno collocare tra la fine del 900 ed il 1050. Per la laus apis utilizzo il testo in latino medievale trascritto da Francesco Babudri nella sua grande monografia sull’Exultet barese (8). Della prosa poetica della lode fornisco una mia traduzione letterale in italiano. La laus apis è singolare rispetto a tutte quelle che si trovano in altre pergamene. Sui 24 capoversi che costituiscono la preghiera, ben 7 sono di lode alle api, vergini, caste generatrici di cera ed api, socievolissime e laboriosissime. Apes siquidem dum ore concipiunt Le api invero con la bocca concepiscono Ore parturiunt. con la bocca partoriscono Casto corpore. Intatto il corpo mantenendo Non fedo desiderio copulantur. non s’accoppiano per turpe passione. Denique virginitatem servantes. Vergini sempre Posteritatem generant. generano prole Sobole gaudent. della figliolanza si deliziano Matres dicuntur. chiamate madri Intacte perdurant. sempre caste Filios generant. Figliano Et viros non norunt (9). e non sanno che sia marito. Flore utuntur coniuge. Il fiore a loro è sposo Flore funguntur genere. dal fiore fan discendere la stirpe Flore domos instruunt. col fiore le dimore edificano Flore divitias conveunt. dal fiore ricavano opulenza Flore ceram concipiunt. Dal fiore generano cera. O admirandus apium fervor. o delle api laboriosità mirabile! Ad commune opus. al lavoro collettivo Pacifica turba concurrunt. marciano in pacifico esercito Et operantibus plurimis una augetur substantia. e numerosissime unite oprando il comune patrimonio ingrossa. O invisibile artificium. Quale maestria ascosa! Primo culmina pro fundamentis edificant. dai tetti edificano invece che dalle fondamenta et tam ponderosam mellis sarcinam. e di miele sì pesanti carichi pendentibus domiciliis. alle sospese dimore imponere non verentur. senza timore appendono. O virginitatis insignia. O preclare esponenti della verginità Que non possessori damno. che non detrimento al possidente Sed lucra convectant. ma guadagno apportano Auferunt quidem predam rubano sì il bottino Et cum preda minime tollunt peccatum. ma non si caricano di colpa alcuna. Spoliant quidem florum cutem. Depredano delle vestimenta i fiori Et morsuum non annotant cicatricem. ma dei morsi non lasciano i segni. Poesia e fantasia! “Dal fiore…Con il fiore… Per il fiore”: tutto accade, e la discendenza, e la cera, ed il nutrimento, e la costruzione dell’alveare. Occorre rifarsi alla mentalità antica e alto medievale che considerava la vita degli animali ed i loro comportamenti in tanto in quanto dovevano servire con la loro esemplarità alla comunità umana. Si riteneva che le diverse creature,-della terra, dell’acqua, dell’aria- per volontà stessa del Creatore, fossero portatrici di virtù da imitare (10). Sotto quest’aspetto le api godevano ottima fama. Un’organizzazione sociale comunitaria armoniosa, il lavoro collettivo, la difesa comune. Il miele poi, vero dono e cibo divino! La manna piovuta dal cielo nel deserto a sfamare il popolo ebraico in fuga dalla schiavitù “aveva il sapore di schiacciata con il miele” (Es. 16, 31), anticipo e caparra di quella terra tante volte promessa in cui il miele scorreva a fiumi (Es. 3, 8. 17; 13, 5; 33, 3; Lev. 20, 24; Num. 13, 28; 14, 8; 16,13; Deut. 6, 3; 8, 8; 11, 9; 26, 9.15; 27, 3; 31, 20; 2 Re 18, 32). Tanto prezioso era ritenuto il miele e quasi connaturale alle realtà religiose più sublimi che era invalso l’uso nella Chiesa, fin dal II secolo, di offrire ai neofiti, dopo il battesimo e la prima eucaristia, quasi a compimento degli stessi, una coppa con latte e miele. E’ singolare però che il poeta barese nel suo elogio delle api passi sostanzialmente sotto silenzio il prezioso miele, per insistere piuttosto sulla peculiare origine verginale della cera, e delle api stesse. E’ suo precipuo intento infatti affermare la verginità delle api nella produzione della cera, materia indispensabile per formare il cero pasquale. Dopo aver dichiarato al paragrafo 7°, con riferimento a Gesù°: “Integro e pieno sei Tu in Te medesimo. Tu che mentre insinuante scendi nel mondo attraverso viscere verginali. Raccomandi tuttavia la verginità della creatura” (11), il poeta, con immediata associazione d’idee, passa subito (paragrafi 8°, 9° e 10°) ad affermare la verginità altresì delle api in generale e, specificatamente, nel “generare” la cera e la progenie. Si badi che non inventa nulla, essendo l’idea della verginità delle api diffusa in tutta l’antichità. Si credeva che le api nascessero per “generazione spontanea” dalla carcassa d’un animale in putrefazione, come raccontano Virgilio nel mito di Aristeo e la Bibbia nel libro dei Giudici (12). E se anche le api fossero nate da altre api, si riteneva che nascessero da madri vergini (13). Il nostro poeta s’appoggia su questa tradizione e fa correre il suo ragionamento sull’assunto teologico: Cristo santo, da Maria santa; il Cero santo, da api sante. Il cero consacrato, che “è” Cristo-Luce, non può non essere costituito che da materia pura, prodotta da esseri puri, e di vita asessuata. Spesso nel passato la sessualità comportava per se stessa una negatività escludente dal sacro e dal divino. Di qui l’esaltazione della castità delle api nel figliare e, soprattutto, nel “generare” la cera. Se i nostri antenati avessero saputo come e quante volte la regina delle api s’accoppia con i fuchi, come concepisce e genera, come le api operaie succhiano il nettare dai fiori, come fuoriesce la cera dalle ghiandole ceripare delle operaie, probabilmente le api non sarebbero entrate negli Exultet. Soltanto sul finire del 1700 François Huber (1750-1831) scoprì la fecondazione della regina ad opera dei fuchi e l’essudazione della cera nelle api operaie, e più tardi ancora, nel 1800,venne descritta dall’ecclesiastico Giovanni Dzierzon (1821-1906)anche la nascita dei fuchi per partenogenesi dalla regina. Ma non soltanto gli antichi avevano fantasia teologica trattando di cero pasquale e di api. Trovo una sorprendente considerazione di un teologo contemporaneo, che, commentando la laus cerei dell’Exultet di Bari, a proposito dell’abilità delle api che iniziano a costruire i loro favi dall’alto, scrive: “Sembrerebbe un richiamo di carattere ecclesiologico. La Chiesa, formata dall’unità in Cristo di molteplici genti, resta pur sempre un mistero che incomincia dall’alto, frutto di un dono elargito per grazia di Dio. Essa è edificata anzitutto dallo Spirito e dai sacramenti che sono doni dall’alto e non frutto dell’impegno degli uomini: è edificata dal tetto, dunque, non dalle fondamenta”(14). La fantasia permette anche oggi voli straordinari e paragoni, forse, alquanto indebiti. Esistono altri elogi delle api, su rotoli successivi a quello di Bari, con contenuti alquanto diversi, sempre però tratti dalle stesse fonti (Virgilio e sant’Ambrogio). Per darne un’idea, ne riporto uno soltanto, quello della pergamena Casanatense:“L’ape è inferiore a tutti gli altri animali soggetti all’uomo. Molto piccola di corpo, riempie il suo petto angusto di grande laboriosità. E’ debole di forze, ma forte di volontà. Essa ha esplorato i mutamenti delle stagioni, e fabbrica la casa d’inverno, che la bianca brina ricopre; e quando il tempo moderato disgela il crudo seno del verno, le api escono subito al lavoro, e si spargono pei campi, fermandosi sulle zampe sospese per cogliervi una parte delle corolle dei fiori, e volando poi, cariche dei loro cibi, verso il loro luogo di ritrovo, ove altre api con arte inestimabile costruiscono con te il tenace glutine le cellette, altre condensano il miele fluido, altre tramutano in cera i fiori, altre partoriscono, altre racchiudono il nettare raccolto. O veramente beata e mirabile ape, cui basta la madre ape alla procreazione! Così concepì la Santa Vergine Maria”(15). L’autore di questo testo tralascia completamente il discorso sulla cera e mette invece direttamente sullo stesso piano la partenogenesi ad opera dell’ape regina con il concepimento di Gesù da parte di Maria, descritto da Dante con l’endecasillabo più strepitoso di tutta la Divina Commedia: “Vergine Madre, figlia del tuo figlio”(16). Revisione dell’Exultet. Le api estromesse dalla liturgia? Di tutto quanto sopra, oggi, nell’Exultet rimane ben poco. Ed anche questo poco, forse, è troppo. Il 16 novembre 1955, per ordine di Pio XII, la Congregazione dei Riti pubblicava il nuovo Ordo Hebdomadae Sanctae , che alle api, nell’Exultet, riserva due soli concisi riferimenti. Il primo per dire che “la Chiesa sacrosanta, per mano dei suoi ministri, offre solennemente al Padre il Cero frutto del lavoro delle api “(de laboribus apum). E fin qui nulla da eccepire. Il secondo afferma che il cero “è alimentato da cere liquefatte che l’ape madre ha prodotto per la sussistenza di questa preziosa luce” (Alitur enim liquantibus ceris, quas in substantiam pretiosae huius lampadis, apis mater eduxit)(17). Se con apis mater si intende indicare la regina, poiché questa non produce cera, si renderebbe necessario un aggiustamento. Se invece apis mater indica l’ape in generale intesa come “madre” o produttrice della cera, va bene. Anche se l’espressione resta un tantino ambigua. Al termine di questo lungo excursus devo dire che vedo con dispiacere uscire quasi del tutto le api dalla Chiesa, dopo essere state per secoli protagoniste nella liturgia della Veglia Pasquale e nell’utilizzo delle candele di pura cera d’api. Ma è inevitabile, perché non si possono mantenere nei testi sacri cose contrarie alla scienza. La Chiesa, tuttavia, riserva ancora un posto d’onore alle api, continuando a ornare i paramenti sacri con la loro immagine. Il papa emerito, Benedetto XVI, ha celebrato più volte con una casula ricamata con leggiadre api svolazzanti, in linea con quanto si può ammirare nel mosaico dell’abside di Sant’Apollinare a Ravenna, dove il santo vescovo patrono è rivestito con un paramento tutto ricoperto di api. Ancora oggi, poi, in molti monasteri, in specie benedettini e cistercensi, -a Praglia sui Colli Euganei, alle Tre Fontane a Roma o a Casamari nel frusinate, solo per nominarne qualcuno- continua la buona tradizione di mantenere consistenti apiari. La Chiesa, in particolare papa Francesco, ultimamente con la sua enciclica “Laudato si’, mi’ Signore”, chiama pressantemente tutti a vigilare e ad aver somma cura della casa comune, nostra e delle sorelle nostre api, sensibilissime sentinelle dell’ambiente. Nelle guerre le sentinelle sono le prime a cadere! Personalmente sogno che si possano introdurre corsi opzionali curriculari di apicoltura per i chierici delle numerose università pontificie di Roma, dove si formano giovani che poi sciameranno ad essere missionari in tutto il mondo, in specie nei paesi in via di sviluppo. Mi piace pensare che molti missionari siano anche apicoltori. Portando il Vangelo, potranno anche insegnare ad allevare le api e far sì che ogni paese diventi terra promessa in cui scorre il miele. Per i poveri, per i bambini, per gli ammalati. Mario Cecchetto (1) La descrizione virgiliana della vita delle api venne ripresa e rielaborata da primari autori cristiani con l’esplicito intento di ricavarne, a partire dalla vita e dai costumi delle api, esortazioni per la condotta civile e morale del popolo. San Basilio di Cesarea, durante le omelie quaresimali del 378, l’anno precedente la sua morte, trattando della creazione del mondo, ed in specie dei volatili, indugia sulla vita delle api: “Innumerevoli sono, come si è detto, le differenze dei loro modi di agire e di vivere. Fra gli animali ve ne sono alcuni che vivono in società, se è proprio della vita sociale far convergere ad uno scopo comune l’attività dei singoli, così come si può vedere nelle api. Esse vivono in comune, volano insieme e unico è il lavoro di tutte; e la cosa più straordinaria è che intraprendono le loro attività sotto la guida di un loro re e comandante, e non si decidono a volare sui prati prima di vedere il loro re volare alla loro testa. E il loro re non è eletto per voto (spesso la mancanza di giudizio nel popolo porta al potere la persona peggiore), né riceve la sua autorità per sorteggio (le congiunture dei sorteggi sono irrazionali conferendo spesso il potere al peggiore di tutti),né siede sul trono in base al diritto ereditario paterno (i quali ereditieri, come per lo più avviene, sono privi di educazione e scarsi d’ogni virtù, perché allevati nella mollezza e nell’adulazione); ma è dalla natura che ha ricevuto il primato su tutti, e si distingue per grandezza, per forma e per bontà del carattere. Il re, certo, è fornito di pungiglione, ma non lo usa per un’azione vendicativa. Queste sono come leggi della natura non scritte, secondo le quali coloro che hanno raggiunto i più alti gradi del potere devono essere lenti a punire. E le api che non avranno seguito l’esempio del re, si pentono presto della loro sconsideratezza, perché muoiono per aver confitto il loro pungiglione. Ascoltino i cristiani, ai quali è comandato di non rendere a nessuno male per male, ma di vincere il male col bene. Imita il comportamento proprio dell’ape: senza nuocere ad alcuno e senza rovinare l’altrui frutto, essa costruisce i suoi favi. Perché è chiaro che raccoglie la cera dai fiori, e il miele –quell’umore sparso come rugiada sui fiori – lo aspira colla bocca e lo depone negli alveoli dei favi. Perciò da principio è liquido, poi col tempo diventa denso e prende quella soavità e consistenza sue proprie. All’ape sono toccati elogi belli e appropriati nel Libro dei Proverbi, dove è detta saggia e <laboriosa>; essa attende con tanta laboriosità alla raccolta del cibo (<re e sudditi – dice la Scritturausano il frutto del suo lavoro per la loro salute>), e con altrettanta saggezza lavora industriosamente ai ricettacoli del miele (dopo aver disteso la cera in una membrana leggera, essa costruisce fitti e contigui alveoli) in modo tale che la frequenza di quei piccolissimi fori tra loro connessi costituisce un solido sostegno dell’insieme. Perché ogni celletta si attacca all’altra, separata e insieme congiunta dal leggero diaframma. E poi questi canaletti sono costruiti gli uni sugli altri a due e a tre piani. L’ape ha cura di non fare una sola cavità ininterrotta, affinché il liquido sotto il proprio peso non si spanda fuori. Nota come i ritrovati della geometria siano accessori per l’ape sapientissima. Le cavità dei favi infatti sono tutte esagonali ed equilatere, e non riposano direttamente le une sulle altre, perché la loro base appoggiandosi sui vuoti non finisca per cedere; ma gli angoli degli esagoni inferiori costituiscono la base e il sostegno per gli esagoni superiori, sicché possano con sicurezza sostenere i pesi sopra di loro, e il liquido deposto in ogni singola cavità vi sia ben conservato”(Basilio di Cesarea, Sulla Genesi ( Omelie sull’Esamerone), a cura di M. Naldini, Fondazione L. Valla/A.Mondadori 1990, Omelia VIII, 4, 1-9,testo greco e italiano a fronte, pp. 248-253). Pure sant’Ambrogio, nelle sue omelie quaresimali nove anni do Basilio, nel 387, però in modo più aderente al testo virgiliano, e con più accentuato tono idilliacobucolico, descrive con abbondanza di particolari la qualità ed il lavoro delle api: “Questo modo di comportarsi /generare rimanendo vergini/ è straordinario, ma è più straordinario nelle api, che, uniche fra tutte le specie di viventi, hanno una prole comune a tutte, tutte abitano in un’unica dimora, vivono dentro i confini di un’unica patria. Comune a tutte è il lavoro, comune il cibo, comune l’attività, comune l’uso e il provento, comune il volo, -che dire di più?- comune a tutte la procreazione, comune a tutte anche l’integrità del corpo verginale e il parto, poiché non si uniscono in alcun modo fra loro mediante l’accoppiamento né si sfiniscono con la libidine né sono scosse dai dolori del parto e danno alla luce ad un tratto un grandissimo sciame di figli raccogliendo dalle foglie e dai prati la prole con la loro bocca. /…/ Esse procedono poi attraverso i campi odorosi, dove vi sono giardini olezzanti di fiori, dove il ruscello fugge tra i prati, dove s’allungano le rive ridenti: là i giochi di quella gioventù vivace, là gli esercizi in campo, là il sollievo dalle preoccupazioni. Lo stesso lavoro riesce loro gradevole. Ricavandoli dai fiori, dalle erbe dal dolce sapore, pongono i primi fondamenti del loro accampamento. Che cos’è infatti un favo se non una forma di accampamento? Di conseguenza da questi ricoveri delle api il fuco viene cacciato via. Quale accampamento ben costruito può raggiungere tanta arte e bellezza quanta ne ha la compagine dei favi nei quali cellette minuscole e rotonde si reggono reciprocamente con vicendevole connessione? Quale architetto ha insegnato loro a costruire gli esagoni delle cellette dai lati perfettamente simmetrici e a stendere la cera sottile entro il recinto di ciascuna dimora, ad accumulare il miele ed a spalmare di non so qual nettare i granai intessuti di fiori? Le potresti vedere tutte compiere a gara le loro funzioni: alcune dedicarsi premurose alla ricerca del cibo, altre esercitare un’attenta vigilanza sull’accampamento, altre spiare l’avvicinarsi delle piogge ed osservare l’accumularsi delle nuvole, altre formare dai fiori la cera, altre raccogliere con la bocca la rugiada spruzzata sui fiori; nessuna tuttavia insidiare il lavoro altrui e procurarsi i mezzi per vivere rapinando ”.(Sant’Ambrogio, Exameron. I sei giorni della Creazione, Milano-Roma 1979, Omelia VIII, 64-76, testo latino e italiano a fronte, pp. 317-329). (2) Virgilio nella IV Egloga delle Bucoliche (vv. 5-9) prefigurava l’avvento d’un fanciullo, che avrebbe portato una palingenesi, che alcuni cristiani, erroneamente, identificarono con la venuta di Cristo: “Magnus ab integro saeclorum nascitur ordo /iam redit et Virgo, redeunt Saturnia regna/ iam nova progenies caelo dimittitur alto./Tu modo nascenti puero…” (3) Epist. 18, P. L. XXX, 182 ss. (4) Inferno, Canto II, 140: “Tu Duca, tu Signore e tu Maestro”. (5) Exultet. Rotoli liturgici del medioevo meridionale, I.P.Z.S.-Libreria dello Stato, Roma 1994. Il termine latino classico è Exsultet con la “s” interposta tra x e u, poi caduta nel latino medievale. (6) “Apitalia” 6/1995: CIRONE R., La cultura dell’ape già diffusa nel lontano Anno Mille; CAMERINI A., Vita delle api a colori nei rotoli sacri del Medio Evo. (7) Nelle Chiese orientali, nelle quali i segni e simboli del sacro sono curati e mantenuti più che nella Chiesa latina, la cera d’api è regola nelle funzioni liturgiche. Ricominciare a utilizzarla di nuovo nella Chiesa d’occidente potrebbe avviare un piccolo business della cera. (8) BABUDRI FRANCESCO, L’Exultet di Bari del sec. XI, in “Archivio Storico Pugliese”, a. X(1957), fasc. I-IV, pp. 66-67. (9) Esplicito riferimento alla risposta di Maria all’arcangelo Gabriele, che le annunciava la verginale maternità: “Quomodo fiet istud, quoniam virum non cognosco?” (Lc. 1, 34). (10)Sulla simbologia dei diversi animali nei tempi antichi: CICCARESE M.P., Animali simbolici. Alle origini del bestiario cristiano, 1, Bologna 2002. (11)O.c., p. 61. (12)Cf. VIRGILIO, Georgiche, L. IV, vv.530-558; Giud. 14, 5 -14. La generazione spontanea o nascita dalla putredine e dalla corruzione di carcasse di animali era in qualche modo collegata, in religioni antiche, anche alla fede nell’immortalità e/o nella reincarnazione. (13)PLINIO il Vecchio (23-79 d.C.), nella sua Naturalis Historia (L. XI, XVI, 46) sentenzia: “apium enim coitus visus est numquam”. (14)RONZANI ROCCO, Il rito e le fonti della laus Cerei e il testo dell’Italia Meridionale longobarda, in “Bibliotheca Montisfani”, 31, Hagiologica…, t. II, Monastero San Silvestro, Fabriano 2012, p.1140. (15) BABUDRI F., o.c., p. 68. (16)Formidabile sintesi di interi trattati teologici: Paradiso, c.XXXIII,1. (17)Cf. testo dell’Exultet riformato in Liber Usualis Missae et Officii pro Dominicis et festis cum canto Gregoriano…, Parisiis-Tornaci-Romae-Neo Eboraci 1956, pp. 776M-776N-776O. Mi sembra opportuno riportare per intero il testo in uso oggi nella Chiesa di rito latino, affinché se ne conosca integralmente il contenuto, che giudico di grande bellezza e profondità teologica: “Esulti ormai la moltitudine degli Angeli del Cielo; esultino le misteriose divine realtà, e squilli la tromba della salvezza per la vittoria di sì grande Re./ Gioisca anche la terra illuminata da tanta luce e constati che, rischiarata dallo splendore del Re eterno, le tenebre sono scomparse dall’orbe intero./ Anche la madre Chiesa s’allieti rivestita dei raggi di così grande luce, e rimbombi quest’aula dei vibranti canti dei popoli./Vi prego, perciò, fratelli carissimi, partecipi della mirabile luce di questa santa fiamma, d’invocare con me la misericordia di Dio onnipotente. Affinché Colui che si è degnato d’accogliermi, non per i miei meriti, nel numero dei Leviti, faccia in modo, infondendomi la luce della sua Sapienza, ch’io possa compiere degnamente la lode di questo Cero./Per il Signor nostro Gesù Cristo Figlio suo che vive e regna con Lui nell’unità dello Spirito Santo Dio per tutti i secoli dei secoli. Amen…./E’ veramente degno e giusto professare, con tutto l’amore del cuore e della mente e della voce, l’invisibile Dio Padre onnipotente ed il suo Figlio unigenito, il Signore Nostro Gesù Cristo. Che per noi ha pagato all’eterno Padre il debito di Adamo e cancellato con il suo sangue innocente il pegno della colpa antica./Queste sono infatti le feste pasquali, in cui quel vero Agnello viene ucciso, col sangue del quale sono rese sacre le porte dei fedeli./E’ questa la notte nella quale da prima ai padri nostri, i figli d’Israele tirati fuori dall’Egitto, hai fatto passare il Mar Rosso a piedi asciutti./E’ questa la notte che ha tolto le tenebre dei peccati con la luce della colonna di fuoco./E’ questa la notte che restituisce ora alla grazia e riporta alla santità i credenti in Cristo nell’universo intero, strappati ai vizi del mondo e dalle tenebre dei peccati./E’ questa la notte nella quale, spezzate le catene della morte, Cristo risale vittorioso dagl’inferi. A nulla infatti sarebbe giovato l’esser nati, se non fossimo stati redenti./O mirabile condiscendenza della tua bontà verso di noi! /O inestimabile dilezione d’amore! per riscattare lo schiavo, hai consegnato il Figlio./O peccato di Adamo veramente necessario, cancellato dalla morte di Cristo!/O felice colpa, che meritò d’avere un tale e così grande Redentore!/O notte veramente beata, che sola ha meritato di conoscere il tempo e l’ora nella quale Cristo è risorto dai morti! E’ questa la notte, della quale è stato scritto: e la notte risplenderà come il giorno, notte che sarà mia luce nei miei prediletti./E pertanto la santificazione di questa notte allontana i delitti, purifica dalle colpe, ai caduti ridona l’innocenza, gioia a quanti sono tristi. Allontana gli odi, prepara la pace, e piega gl’imperi./Accetta perciò, Padre santo, come ringraziamento per questa notte, il sacrificio vespertino di questa fiamma che a Te la Chiesa sacrosanta, per mano di noi ministri, dona in questa solenne offerta del Cero, frutto del lavoro delle api./Ma ormai abbiamo conosciuto le lodi di questa colonna (di fuoco) che in onore di Dio tiene viva una fiamma rutilante. Fiamma che, quantunque divisa in molte parti, non conosce tuttavia diminuzione. E’ infatti alimentata da cere liquefatte che l’ape madre ha generato per mantenere viva questa preziosa luce./O davvero felice notte, che spogliò gli Egizi ed arricchì gli Ebrei! Notte nella quale le realtà terrestri si uniscono alle celesti, le divine alle umane./ Ti preghiamo, perciò, Signore, perché questo Cero, consacrato a lode del tuo nome per distruggere l’oscurità di questa notte, continui a illuminare senza mai cessare la sua luce. Ed accolto dalla tua condiscendente amorevolezza, si fonda con le luci del Cielo. La stella del mattino lo trovi acceso. Lui, dico, Stella che non conosce tramonto. Lui, che risalito dagl’inferi, rifulse splendente all’umano genere./Ti preghiamo pertanto, o Signore, perché, in queste feste pasquali, donata tranquillità ai nostri giorni, Tu voglia degnarti di sostenere, governare e conservare con ininterrotta protezione noi tuoi servi e tutto il clero e il devotissimo popolo, insieme al nostro Papa…e al nostro Vescovo… /Volgiti anche a coloro, che ci governano, e, per dono indicibile della tua pietà e misericordia, guida i loro pensieri alla giustizia ed alla pace, perché possano giungere con tutto il tuo popolo dall’operosità su questa terra alla patria celeste…”.