IL LAVORO SUBORDINATO

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Capitolo secondo
IL LAVORO SUBORDINATO
SOMMARIO: Sez. A: Lavoro autonomo e lavoro subordinato: profili storici e sistematici. –
1. La collocazione del rapporto di lavoro nel Libro V del Codice civile dedicato all’impresa. –
2. Il Codice civile del 1865: la «locazione delle opere». – 3. Il rischio dell’utilità del lavoro e
quello dell’impossibilità del lavoro. – 4. La distinzione tra attività e risultato del lavoro e
l’emersione della subordinazione contrattuale. – 5. La subordinazione come sottoposizione del lavoratore alla direzione e al controllo del datore di lavoro nell’impresa industriale.
– 6. La legge sull’impiego privato del 1924 e il Codice civile del 1942: la collaborazione come connotato specifico della subordinazione. – Sez. B: Contratto e rapporto di lavoro.
Qualificazione del contratto e individuazione della fattispecie tipica. – 7. La distinzione
tra il contratto di lavoro subordinato ed il contratto di lavoro autonomo (artt. 2094 e 2222
c.c.). – 8. I contratti di lavoro autonomo; il contratto d’opera. – 9. La causa del contratto: la
collaborazione e la sua relazione di scambio con la retribuzione. – 10. La continuità o disponibilità nel tempo della prestazione di lavoro come aspetto essenziale della collaborazione. – 11. Collaborazione e subordinazione nella giurisprudenza. – 12. La dottrina della
subordinazione come situazione di soggezione socio-economica: critica. – 13. La collaborazione come inserzione del lavoratore subordinato nell’azienda e come connotato del lavoro autonomo coordinato e continuativo (c.d. parasubordinazione). – 14. La parabola
delle collaborazioni coordinate e continuative: dal lavoro a progetto alla riconduzione al
lavoro subordinato. – 15. Il lavoro accessorio. – 16. L’utilità e l’attuale significato della distinzione tra lavoro subordinato e lavoro autonomo: gli effetti diretti ed indiretti del rapporto di lavoro subordinato. – 17. Il rapporto di previdenza sociale. L’attuale sistema previdenziale. – 18. Le pensioni di anzianità e vecchiaia. La c.d. tendenza espansiva del diritto
del lavoro. – Sez. C: Lavoro gratuito e prestazione di lavoro nei rapporti associativi. – 19.
Il lavoro gratuito ed il volontariato, l’impresa sociale. – 20. Il lavoro familiare e l’impresa
familiare prevista dall’art. 230 bis c.c. – 21. I c.d. rapporti associativi. La prestazione di lavoro nei contratti di società; l’associazione in partecipazione; gli amministratori di società. –
22. Le cooperative di produzione e lavoro: il socio lavoratore. Le cooperative sociali. I rapporti associativi in agricoltura.
Sez. A: Lavoro autonomo e lavoro subordinato: profili storici e sistematici.
1. La collocazione del rapporto di lavoro nel Libro V del Codice civile
dedicato all’impresa.
Il rapporto di lavoro è regolato dagli artt. 2094 ss. c.c. (oltre che dalle
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Diritto del lavoro
leggi speciali). Il Codice non prevede nominandolo direttamente il contratto di lavoro da cui lo stesso rapporto trae la sua origine (fonte delle
obbligazioni: cfr. art. 1173 c.c.); e disciplina le obbligazioni che ne derivano non nel Libro IV dedicato alle obbligazioni (e ai contratti) ma nel titolo
II, capo I, del Libro V, intitolato «Del Lavoro» e dedicato, essenzialmente,
alla disciplina dell’impresa.
Questa collocazione corrisponde all’esigenza di istituire uno stretto
collegamento tra l’ordinamento del rapporto di lavoro subordinato e quello dell’impresa, secondo una prospettiva conforme all’obiettivo perseguito dal legislatore del Codice civile, il quale ha inteso realizzare l’unificazione del diritto civile con il diritto commerciale, amalgamandone gli
istituti in modo da evitare che uno stesso tipo economico di negozio giuridico sia disciplinato diversamente a seconda che venga posto in essere
o meno nell’esercizio di un’attività commerciale (oggi si direbbe da un
imprenditore).
Per il vero, la finalità di promuovere il processo di fusione che ha portato alla c.d. commercializzazione del diritto civile, tutto sommato è rimasta circoscritta al c.d. sistema esterno ai singoli istituti, mentre non ha
comportato grandi mutamenti nella sostanza degli stessi. Per quanto attiene al rapporto individuale di lavoro, il Codice vigente, pur introducendo
una disciplina organica assente nel codice precedente, ne riafferma la natura contrattuale e la sostanza giuridica ed economica tradizionale, caratterizzata essenzialmente dallo scambio tra la retribuzione e la prestazione
lavorativa, intellettuale o manuale.
Se dunque il legislatore ha collocato la disciplina del rapporto di lavoro
nell’ambito della disciplina dell’impresa posta dal Libro V, la ragione di
tale sistemazione è da ricercare nella prospettiva adottata dal Codice civile
del 1942, secondo cui il rapporto di lavoro, anche quando non sia inerente
all’esercizio di un’impresa, viene tuttavia modellato sulle esigenze tipiche
di questa. Nello stesso Libro V sono infatti collocate, accanto alle norme
del titolo II relative al lavoro nell’impresa, quelle concernenti i rapporti di
lavoro che si svolgono al di fuori dell’impresa (titolo IV, art. 2239 c.c.)
quali il lavoro autonomo (titolo III, artt. 2222 ss. c.c.) o il lavoro domestico (titolo IV, artt. 2240 ss. c.c.). Tuttavia, il lavoro organizzato nell’impresa viene considerato come il più rilevante socialmente e come il modello
normativo tipico di rapporto di lavoro, intorno al quale si dispongono a
corona i c.d. rapporti di lavoro speciali.
2. Il Codice civile del 1865: la «locazione delle opere».
La normativa codicistica rappresenta la prima disciplina organica ed
unitaria del rapporto di lavoro che sia stata introdotta nell’ordinamento
positivo italiano.
Il lavoro subordinato
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In passato il lavoro subordinato non trovava una specifica ed organica
regolamentazione né nel Codice di commercio del 1882 – dove pure trovava organica disciplina il contratto di arruolamento marittimo (artt. 521
ss.) – in quanto non era riconosciuta la connessione istituzionale tra impresa e lavoro, né nel Codice civile del 1865. Questo disciplinava in generale la «locazione delle opere», nella quale erano ricompresi tanto il lavoro subordinato (locatio operarum) che il lavoro autonomo (locatio operis).
L’art. 1570 infatti, definiva la «locazione delle opere» come «il contratto per
cui una delle parti si obbliga a fare per l’altra una cosa mediante la pattuita
mercede». L’art. 1627 (il primo del capo III, titolo IX, Libro III, capo dedicato specificamente alla locazione delle opere) precisava, poi, che «vi sono
tre principali specie di locazione di opere e d’industria: 1° quella per cui le
persone obbligano la propria opera all’altrui servizio; 2° quella de’ vetturini
sì per terra come per acqua, che s’incaricano del trasporto delle persone o
delle cose; 3° quella degli imprenditori di opere ad appalto o cottimo».
Come si può notare, dalle norme riportate non emergevano con chiarezza i connotati giuridici del fenomeno, pur ben conosciuto nella realtà
sociale, del lavoro subordinato. Questo veniva definito con la generica espressione usata nel n. 1 dell’art. 1627 come locazione della «propria opera all’altrui servizio»; mentre era da riferire soprattutto al lavoro autonomo la
successiva elencazione contenuta al n. 2 (trasporto delle cose e delle persone) e al n. 3 (opere ad appalto o cottimo) delle altre specie (o tipi sociali) di locazione di opere. Vale la pena di notare come questa sistemazione
lasciasse nell’ombra la distinzione tra lavoro subordinato e autonomo, collocandola all’interno della figura della locazione di opere considerata, in
contrapposizione alla locazione di cose (secondo la tradizione che risaliva
a Pothier), quale tipo unitario del contratto di lavoro.
In tale ambito la disciplina del contratto di locazione delle opere si occupava quasi esclusivamente del lavoro autonomo o locatio operis contemplato nelle sue forme tipiche del trasporto e dell’appalto, regolando le
obbligazioni e la responsabilità delle parti. L’unica norma specificamente
(anche se non esclusivamente) riferibile al lavoro subordinato era l’art.
1628, dove si disponeva che «nessuno può obbligare la propria opera all’altrui servizio che a tempo o per una determinata impresa», con ciò vietando,
in sostanza, la perpetuità o la tendenziale perpetuità del contratto anche
se, di fronte alla prassi addirittura dominante di contratti a tempo indeterminato, era concordemente ammessa la stipulazione del contratto sine
die, giustificato come contratto sottoposto a disdetta e pertanto pur sempre a termine, anche se incerto.
Naturalmente, questa carenza legislativa non sta a dimostrare che la
locatio operarum fosse un contratto di scarso rilievo sociale (e cioè che il
fenomeno del lavoro subordinato non fosse importante e, tanto meno, diffuso): dimostra, piuttosto, che gli artt. 1627 e 1628 (i quali trovano, poi,
rispettivamente, negli artt. 1779 e 1780 del Codice Napoleone del 1804 il
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Diritto del lavoro
loro diretto precedente storico) rappresentavano il punto di arrivo di una
tradizione millenaria, risalente addirittura al pensiero e all’insegnamento
dei giuristi romani, secondo cui la determinazione del contenuto della locatio operarum era lasciata alla più ampia ed indiscriminata autonomia
della volontà privata.
La locatio operarum veniva costruita dagli interpreti e implicitamente
dal legislatore come una sottospecie della locazione delle opere e d’industria, la quale, a sua volta, era una specie o, meglio, un adattamento del
più generale schema contrattuale della locazione.
3. Il rischio dell’utilità del lavoro e quello dell’impossibilità del lavoro.
Nella dottrina pandettistica (secoli XVIII e XIX) la distinzione tra locatio operis e locatio operarum, ricavata dalle fonti romane e dalla tradizione del diritto intermedio, anche se scarsamente elaborata aveva rilievo al
fine, tutto sommato limitato, di stabilire la diversa imputazione e ripartizione tra le parti dei rischi inerenti alla realizzazione della prestazione lavorativa.
Il primo di tali rischi, detto anche rischio del lavoro, è quello incidente
sull’utilità prodotta dalla prestazione di lavoro (c.d. commodum obligationis). È cioè l’alea che incide per sua natura sul risultato produttivo dell’erogazione delle energie di lavoro ed è dipendente dalla difficoltà tecnico-economica del risultato medesimo (e, in definitiva, attiene alla produttività e alla stessa organizzazione del lavoro).
Il secondo rischio è quello dell’impossibilità (o mancanza) del lavoro,
sopravvenuta per effetto del caso fortuito o della forza maggiore eventualmente ostativi dell’esecuzione della prestazione (c.d. periculum obligationis):
si tratta dell’alea incidente sulla perdita totale o parziale del corrispettivo
da parte del lavoratore.
Qualche esempio può servire a chiarire la distinzione tra i due tipi di
rischio e, quindi, tra locatio operis e locatio operarum. Esempi di rischio dell’impossibilità del lavoro si possono ravvisare in tutte le ipotesi di fortuito
impedimento del lavoratore a prestare le proprie energie, sia per cause soggettive (gravidanza, malattia, infortunio, invalidità) che per cause oggettive (si pensi ai classici casi d’interruzione dell’attività produttiva per eventi
artificiali o naturali che possono andare dalla mancanza della forza motrice oppure della materia prima nelle lavorazioni industriali, fino alle inondazioni o anche soltanto alla pioggia che impedisca l’esecuzione dei lavori
edili o agricoli). Come esempi, invece, di rischio incidente sull’utilità della
prestazione, possono essere richiamati i vari fattori ostativi della produttività del lavoro tali da influenzare il rendimento della prestazione: si va dai
fattori naturali (il classico fulmine che distrugge il prodotto finito dal lavoratore prima che il creditore possa disporne) ai fattori di natura tecnica
Il lavoro subordinato
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ed economica, quali gli imprevisti difetti del materiale da lavorare che allunghino i tempi di lavorazione o, ancora, il rincaro della materia prima o
semilavorata o della forza motrice tale da accrescere i costi di lavorazione
(e, di riflesso, da abbassare il margine di utile della prestazione).
In linea di principio il rischio dell’impossibilità o c.d. mancanza di lavoro è sempre sopportato dal lavoratore, sia nella locatio operis che nella locatio operarum, giusta la regola comune alla generalità dei contratti di
scambio, secondo la quale casum sentit debitor (cfr. artt. 1225 e 1226 c.c.
del 1865 e art. 1463 c.c. vigente): in virtù di tale principio il debitore è
esonerato dall’obbligo di eseguire la prestazione divenuta impossibile, ma
perde il diritto alla controprestazione. A tutela del lavoratore, per altro,
l’ordinamento interviene per evitare tale perdita nelle ipotesi protette (malattia, infortunio e simili) previste dalla legge (v. infra Cap. V, Sez. C).
Il rischio dell’utilità del lavoro è invece collegato concretamente alla variabilità economica del rendimento delle energie di lavoro prestate dal locatore (sia delle opere che dell’opera) e perciò all’incertezza del valore del risultato produttivo delle energie stesse. Questo rischio della difficoltà della prestazione o del risultato del lavoro è ripartito tra i contraenti in modo diverso
nella locazione d’opera e nella locazione delle opere: nella prima è integralmente a carico del locatore o lavoratore autonomo, il quale si obbliga appunto a prestare l’opus perfectum (opera finita), qualunque sia il costo sopportato per ottenere il risultato futuro. Nell’altra, il rischio del risultato del
lavoro è a carico del conduttore o imprenditore, poiché il lavoratore subordinato si obbliga a prestare le proprie energie di lavoro limitandosi a sopportare soltanto il periculum (rischio) della mancanza di lavoro.
4. La distinzione tra attività e risultato del lavoro e l’emersione della
subordinazione contrattuale.
La distinzione tra lavoro subordinato e lavoro autonomo emerge dunque da un processo di elaborazione concettuale a conclusione del quale si
perviene alla classificazione, tradizionalmente accolta dalla giurisprudenza fino ai giorni nostri, che distingue l’attività del lavoro e il risultato del
lavoro come oggetto della locazione, rispettivamente, di opere e dell’opera.
Ma, per quanto apparentemente chiara e netta, la distinzione tra attività e risultato del lavoro, in realtà è ambigua. Essa, infatti, se da un lato
mette in rilievo la sostanziale identità dell’oggetto della prestazione (che è
sempre il bene economico della forza-lavoro) dovuta dal lavoratore nei
due tipi di contratto, dall’altro ne differenzia la natura secondo la diversa
imputazione del rischio (dell’utilità o produttività) del lavoro, senza nulla
dire intorno al contenuto oggettivo-funzionale delle due specie di obbligazioni (e, in pratica, al comportamento dovuto dal debitore delle opere oppure dell’opera). Si spiega così il successivo ricorso al criterio della subor-
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Diritto del lavoro
dinazione o dipendenza verso il conduttore, nel quale viene identificato il
connotato socialmente tipico della locatio operarum e, nello stesso tempo,
il tratto saliente della relativa obbligazione. L’art. 1779 del Codice Napoleone, infatti, riferisce testualmente ai domestici e agli operai o, in genere,
agli altri lavoratori manuali (gens de travail) l’obbligazione di mettere la
propria opera all’altrui servizio.
Si perviene così, muovendo dall’utilizzazione della categoria della locazione delle opere, ad estendere ai lavoratori subordinati la disciplina
della antica locazione di cose per poi maturare gradualmente il distacco
del contratto di lavoro subordinato dall’originario tronco – comune anche
ai differenti tipi di contratto di lavoro autonomo (appalto, trasporto, deposito, mandato, locatio operis o contratto d’opera) – della locatio-conductio
rei et operis.
5. La subordinazione come sottoposizione del lavoratore alla direzione
e al controllo del datore di lavoro nell’impresa industriale.
È questa, in effetti, la via seguita fin dalle origini dalla dottrina e, almeno implicitamente, dallo stesso legislatore, il quale tende a far coincidere la figura del contratto di lavoro con la nozione di lavoro manuale salariato o dipendente per eccellenza: così l’art. 8 della l. 5 giugno 1893, n.
215, demandava alla competenza dei collegi probivirali tutte le controversie relative al contratto di lavoro tra industriali e operai (capi operai o
lavoranti, ivi compresi gli apprendisti).
Nella stessa prospettiva, secondo le leggi sociali dell’epoca, il fenomeno
della subordinazione (o dipendenza) del lavoratore da un padrone o sorvegliante, veniva individuato in chiave prevalentemente descrittiva sulla
base del collegamento tra la prestazione e l’azienda industriale: si parla,
così, di operai addetti «agli opifici industriali nei quali si fa uso di macchine» (art. 1, l. 17 marzo 1898, n. 80 sull’assicurazione infortuni), nonché all’esercizio delle miniere, alle imprese di trasporto e costruzioni varie (edilizie, elettriche, portuali, navali, ecc.), oppure, in genere, di lavoranti negli
opifici industriali (cfr. l. 7 luglio 1907, n. 489 sul riposo settimanale e festivo).
Il riferimento alla figura economico-sociale dell’operaio o lavoratore
manuale industriale in fabbrica è dunque evidente, ed altrettanto evidente
è la tendenza alla progressiva sostituzione alla nozione di locatio operarum, di quella più moderna di contratto di lavoro subordinato.
Va tuttavia notato come nella legislazione del periodo esaminato fosse
assente una definizione positiva della subordinazione (l’art. 2 della citata
legge sugli infortuni definiva operaio «chiunque, in modo permanente o avventizio e con remunerazione fissa o a cottimo, è occupato nel lavoro fuori
della propria abitazione»). Piuttosto, è stata la giurisprudenza, in particola-
Il lavoro subordinato
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re quella dei probiviri, ad utilizzare la nozione del rapporto di servizio
come criterio distintivo dell’obbligazione del lavoratore a sottoporsi alle
determinazioni dell’imprenditore per ciò che concerne sia l’organizzazione del lavoro (in specie l’assegnazione e la variazione delle mansioni) sia
la disciplina aziendale (multe, orario di lavoro).
In questi termini – e cioè intesa come sottoposizione del debitore-locatore delle opere alla direzione o controllo del creditore-conduttore – la
subordinazione (o dipendenza) tendeva ad identificarsi con il comportamento dovuto dal lavoratore in attuazione della propria obbligazione.
Essa, tuttavia, non poteva essere sufficiente a cogliere l’essenza del contratto di lavoro salariato, tant’è che ai fini del rapporto di scambio con il
salario la situazione di dipendenza veniva ricondotta dalla stessa giurisprudenza non tanto all’esistenza dell’organizzazione di fabbrica intesa
come dato esterno al contratto di lavoro, quanto alla disponibilità del
prestatore di opere il quale, a differenza del lavoratore autonomo, ha diritto al salario per tutto il tempo in cui è rimasto a disposizione dell’imprenditore.
6. La legge sull’impiego privato del 1924 e il Codice civile del 1942: la
collaborazione come connotato specifico della subordinazione.
Come si vede, fin dalle origini l’elaborazione giurisprudenziale della
nozione di subordinazione si presenta ambivalente: alla tradizionale distinzione tra attività e risultato del lavoro si sovrappone la dipendenza dall’organizzazione del lavoro, caratteristica della nuova figura sociale e professionale dell’operaio o lavoratore salariato.
In una prospettiva analoga si colloca anche il legislatore del Codice civile
del 1942 e, prima ancora, la legge sul contratto di impiego privato identificato con il lavoro non prevalentemente manuale (r.d.l. 13 novembre 1924,
n. 1825). Questo, infatti, ha ravvisato nell’attività professionale e nell’esercizio di mansioni di collaborazione (art. 1) c.d. fiduciaria – intesa cioè come svolgimento di funzioni continuative di amministrazione e di fiducia
nell’azienda – il connotato specifico della subordinazione dell’impiegato.
Nel Codice civile il legislatore, muovendo dall’inserzione nell’impresa del
lavoratore (sia intellettuale che manuale), ha ripreso il concetto della collaborazione per precisare, a sua volta, quello della subordinazione: l’art. 2094
c.c., in particolare, identifica la collaborazione con lo scopo o, meglio, con il
risultato tecnico-funzionale della prestazione di lavoro alle dipendenze e
sotto la direzione dell’imprenditore, resa dal lavoratore in cambio della retribuzione.
In effetti, l’elemento della collaborazione è stato inserito nel Codice quale omaggio alle ideologie dominanti al tempo della sua emanazione, se-
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Diritto del lavoro
condo le quali l’ordinamento del rapporto di lavoro doveva essere progettato in funzione del superamento del conflitto tra le classi sociali, ritenuto
incompatibile con il sistema corporativo di disciplina dei rapporti di produzione.
Tuttavia, se l’art. 2094 c.c. viene trasferito nel sistema normativo nato
dalla Costituzione, ispirato a principi profondamente diversi da quelli corporativi, l’elemento della collaborazione si può ritenere tuttora attuale, in
quanto genericamente indicativo dell’istituzionalizzazione del vincolo sussistente tra il datore e il prestatore di lavoro nella loro qualità di parti di
un rapporto obbligatorio.
In questo senso ampio può dirsi che la collaborazione è l’espressione
storicamente datata della funzione organizzativa assegnata dal legislatore
al contratto di lavoro; e perciò della finalità di realizzare l’integrazione nell’impresa, intesa come organizzazione del lavoro, dell’attività prestata dai
collaboratori dell’imprenditore.
Sez. B: Contratto e rapporto di lavoro. Qualificazione del contratto e individuazione della fattispecie tipica.
7. La distinzione tra il contratto di lavoro subordinato ed il contratto
di lavoro autonomo (artt. 2094 e 2222 c.c.).
L’evoluzione storica sottolinea la continuità esistente tra la nozione
moderna del contratto di lavoro e quella tradizionale della locatio operarum, ma dimostra altresì come l’alternativa tra risultato ed attività del
lavoro sia stata progressivamente sostituita da quella tra autonomia e subordinazione della prestazione resa dal lavoratore.
In effetti, il concetto di subordinazione comunemente richiamato in dottrina e giurisprudenza ai fini della qualificazione del contratto di lavoro
subordinato, si ricava direttamente e testualmente dall’art. 2094 c.c. Questo fornisce la definizione di prestatore di lavoro subordinato, qualificando come tale colui che si obbliga a collaborare all’impresa prestando il
proprio lavoro manuale o intellettuale alle dipendenze e, perciò, sotto la
direzione dell’imprenditore. Da tale definizione legislativa è, quindi, desumibile la nozione tecnico-funzionale della subordinazione quale dipendenza del prestatore nell’esecuzione dell’attività di lavoro rispetto alla direzione del datore. E questo concetto della subordinazione tecnico-funzionale è riaffermato in negativo anche dalla norma dell’art. 2222 c.c., in
certo modo simmetrica a quella dell’art. 2094 c.c. (nella definizione del
contratto d’opera il legislatore ha infatti messo in rilievo l’assenza, nel
rapporto di lavoro autonomo che ne scaturisce, del vincolo della subordinazione).
Il lavoro subordinato
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D’altra parte, il concetto di subordinazione si presenta sostanzialmente
ambiguo già sul piano empirico e sociologico: subordinato è (o può essere) il figlio al padre, il discepolo al maestro, il suddito al sovrano, il debitore al creditore, l’operaio al capo, cioè chiunque si trovi in una situazione
di soggezione ad un potere altrui.
Da qui l’esigenza di precisare il ruolo e quindi la rilevanza della subordinazione del prestatore nel rapporto di lavoro. In questa prospettiva, la
subordinazione è stata identificata con la sottoposizione del debitore al
potere del creditore del lavoro e, in particolare, all’autorità dell’imprenditore (arg. ex art. 2086 c.c.): ed infatti il prestatore è vincolato all’osservanza delle direttive e delle altre disposizioni per la disciplina e l’esecuzione del lavoro impartite dal datore nella sua qualità di titolare del potere direttivo (art. 2104 c.c.) e disciplinare (art. 2106 c.c.).
In questo modo, però, la subordinazione si identifica con il contenuto
tipico dell’obbligazione di lavoro: si tratta, infatti, della definizione del comportamento solutorio del debitore di fronte al creditore del lavoro (e, in particolare, della situazione soggettiva del lavoratore di fronte all’autorità dell’imprenditore) e si configura perciò come un elemento esterno all’oggetto
della prestazione e quindi alla struttura dell’obbligazione di lavoro.
Al riguardo, non sembra possibile ritenere la struttura dell’obbligazione
di lavoro autonomo diversa da quella di lavoro subordinato: in entrambi i
casi, infatti, oggetto dell’obbligazione è il lavoro come prestazione di facere e quindi come attività personale economicamente utile. Tale connotato
(c.d. faciendi necessitas) è comune tanto all’obbligazione del lavoratore subordinato quanto all’obbligazione del lavoratore autonomo, mentre l’elemento differenziale è dato proprio dall’assenza del vincolo della subordinazione, per cui sarà diverso il contenuto finale o scopo della prestazione.
Questo nel contratto d’opera è un facere finalizzato al compimento di
un’opera o di un servizio con l’attività prevalentemente personale del lavoratore (cfr. art. 2222 c.c.); viceversa nel lavoro subordinato il facere è finalizzato alla collaborazione e cioè all’utilizzazione dell’attività del debitore,
il quale è obbligato a mettere le proprie energie od opere a disposizione
del creditore e della sua organizzazione.
Qualche esempio può illustrare la distinzione tra lavoro autonomo e
subordinato. Si pensi al caso di un sarto artigiano al quale venga commissionato un abito: egli si obbliga alla confezione per un prezzo da corrispondersi al compimento dell’opera, indipendentemente dalle energie lavorative e dal tempo occorrenti. Viceversa, si pensi ad un altro sarto che si
obblighi a lavorare, in cambio di una mercede o salario, non più per un
cliente ma per una sartoria: anche qui oggetto della prestazione è la confezione di abiti, ma la retribuzione viene pattuita in funzione delle energie
lavorative erogate e, pertanto, sarà corrisposta in base al tempo dell’attività necessaria a tale erogazione. Lo stesso varrà per l’avvocato che presti il
suo lavoro presso un ente, mentre (per fare un esempio di locatio operis
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Diritto del lavoro
relativa a prestazione di servizi) si pensi allo stesso professionista, il quale
si obblighi a svolgere la propria attività in difesa del cliente: anche in questo caso, il corrispettivo viene attribuito in funzione non della durata della
prestazione lavorativa ma del suo risultato complessivo (la trattazione della causa e non, ovviamente, la vittoria sull’avversario).
8. I contratti di lavoro autonomo; il contratto d’opera.
Proprio la finalizzazione al risultato dell’opera finita (opus perfectum)
è il connotato tipico che contraddistingue la categoria dei contratti di lavoro autonomo, nella misura in cui ne accomuna i diversi tipi. Nel sistema del codice tale categoria comprende in primo luogo il contratto d’opera previsto dall’art. 2222 c.c. nel quale si ha la prestazione di un’opera o
un servizio mediante il lavoro personale del debitore ma a suo rischio e
quindi senza vincolo di subordinazione. Accanto a questa fattispecie minimale e, nello stesso tempo, residuale si collocano quattro figure specifiche, aventi ciascuna un diverso elemento di tipicità sociale: 1) l’appalto
(artt. 1655 ss. c.c.), nel quale si ha la prestazione di un’opera o un servizio
da eseguirsi con organizzazione di mezzi e gestione a rischio dell’appaltatore; 2) il trasporto (artt. 1678 ss. c.c.), che assolve alla funzione di
trasferire persone o cose da un luogo ad un altro; 3) il deposito generico
(artt. 1776 ss. c.c.), che assolve alla funzione di custodia di beni (il deposito alberghiero e quello nei magazzini generali sono, invece, da intendersi
come accessori ad altri contratti tipici); 4) il mandato (artt. 1703 ss. c.c.), e
le sue sottospecie (commissione: artt. 1731 ss. c.c.; spedizione: artt. 1737
ss. c.c. e agenzia: artt. 1742 ss. c.c.), che hanno come elemento tipico comune la gestione di affari nell’altrui interesse mediante la conclusione di
contratti (normalmente nell’esercizio di una attività professionale).
Resta fermo che in tutte queste ipotesi di lavoro autonomo la prestazione tende alla realizzazione di un risultato prodotto dall’attività organizzata
dal debitore e a suo rischio, mentre nel lavoro subordinato il risultato è costituito dalla attività del debitore in se stessa e come tale messa a disposizione dell’organizzazione del creditore.
Vale la pena di aggiungere che un vincolo, avvicinabile alla subordinazione, di sottoposizione del debitore all’ingerenza del creditore nell’esecuzione della prestazione si può avere nel contratto d’opera come negli altri contratti di lavoro autonomo: il committente, infatti, può stabilire nel
contratto le condizioni per l’esecuzione dell’opera pattuita, fissando altresì
unilateralmente il termine entro il quale il prestatore è tenuto a conformarsi alle stesse, pena il recesso per giusta causa ed il diritto del committente al risarcimento del danno (art. 2224 c.c.; per l’appalto si v. l’art. 1661
c.c. sul c.d. ius variandi del progetto e l’art. 1662 c.c. sul diritto di verifica
nel corso di esecuzione dell’opera nonché l’art. 1665 c.c. sulla verifica del-
Il lavoro subordinato
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l’opera compiuta; per il mandato si v. l’art. 1711 c.c., relativo all’obbligo
del mandatario di attenersi alle istruzioni ricevute dal mandante).
Carattere comune a queste obbligazioni di lavoro autonomo è, peraltro,
la coesistenza dell’(eventuale) ingerenza o direzione del committente con
l’esecuzione dell’opera a rischio del prestatore dell’opera o servizio, il quale è dunque obbligato al risultato della propria attività personale oppure
organizzata (appalto: cfr. art. 1655 c.c.). Diversamente dal prestatore di
opere o lavoratore subordinato che è obbligato ad una mera attività alle
dipendenze del datore, il lavoratore autonomo può essere vincolato alle
direttive, ma non può essere alle dipendenze del committente.
9. La causa del contratto: la collaborazione e la sua relazione di scambio con la retribuzione.
Da un punto di vista generale, si deve premettere che la causa è l’elemento del contratto (art. 1325, n. 2, c.c.) che – richiesto a pena di nullità
(cfr. art. 1418, co. 2, c.c., nonché artt. 1343 e 1344 c.c. in tema di causa illecita) – ne individua la funzione economica e quindi l’interesse meritevole di tutela (cfr. art. 1322, co. 2, c.c.) concretamente perseguito dalla volontà delle parti. Nel contratto di lavoro subordinato – come negli altri
contratti tipici o c.d. nominati – la causa o funzione è individuata in astratto dal legislatore il quale la identifica nello scambio tra le obbligazioni,
rispettivamente, del prestatore e del datore di lavoro e dunque tra la collaborazione e la retribuzione. La subordinazione, invece, può essere definita come l’effetto giuridico essenziale del contratto: essa si identifica con
la prestazione di lavoro alle dipendenze e sotto la direzione dell’imprenditore ed insieme si presenta come il contenuto del vincolo obbligatorio (e
quindi della situazione soggettiva) strumentale alla realizzazione del risultato della prestazione, che l’art. 2094 c.c. configura come la collaborazione nell’impresa.
Nella struttura dell’obbligazione di lavoro, l’elemento oggettivo è rappresentato non dalla subordinazione, ma dalla collaborazione. Questa sottolinea l’importanza dell’aspettativa del creditore al risultato della prestazione e, perciò, del suo interesse al coordinamento e quindi all’organizzazione
dell’attività lavorativa del debitore. Non si tratta, peraltro, del risultato finale
dell’organizzazione produttiva nel suo complesso, ma di quello dell’attività
prestata dal lavoratore nell’adempimento della sua obbligazione.
In questo senso specifico nella collaborazione è da ravvisare lo scopo
della prestazione e quindi il criterio per la tipicizzazione della subordinazione e nello stesso tempo il riflesso del fenomeno dell’organizzazione sull’obbligazione di lavoro e, perciò, anche della sopportazione, a carico del
creditore, dell’alea tecnico-economica della prestazione e quindi dell’organizzazione del lavoro (c.d. rischio del lavoro). Perciò, essa funge da crite-
12
Diritto del lavoro
rio di valutazione del comportamento che il prestatore ed il datore di lavoro devono tenere in osservanza del generale dovere di correttezza che
vincola creditore e debitore nell’attuazione di qualsiasi rapporto obbligatorio (cfr. art. 1175 c.c.).
Da un lato, dunque, si può parlare di collaborazione del creditore come
cooperazione all’adempimento dell’obbligazione da parte del debitore del
lavoro; dall’altro, si può parlare di collaborazione del debitore per indicare
l’obbligo di conformare l’esecuzione della prestazione alle concrete e variabili esigenze dell’organizzazione produttiva.
La collaborazione nell’impresa, si identifica, insomma, con lo scopo tipico della prestazione e quindi con la stessa causa individuatrice del tipo
negoziale del contratto di lavoro subordinato.
10. La continuità o disponibilità nel tempo della prestazione di lavoro
come aspetto essenziale della collaborazione.
Da quanto precede viene in evidenza l’identificazione almeno tendenziale della subordinazione, finalizzata al risultato della collaborazione,
con l’inserzione del prestatore di lavoro nell’organizzazione dell’impresa
e, in definitiva, con la continuità o disponibilità nel tempo della prestazione di lavoro verso il datore, nella quale è da ravvisare l’essenza del vincolo della subordinazione tecnico-funzionale.
In effetti la continuità caratterizza l’attività promessa dal lavoratore in
relazione allo scambio tra retribuzione e svolgimento nel tempo della prestazione. Ma la continuità quale specifico modo di essere dell’intervento
del datore sull’attività del lavoratore (intervento questo diverso dal generico potere di verifica del committente nel lavoro autonomo), caratterizza la
prestazione anche in relazione alla collaborazione e quindi all’organizzazione del lavoro e all’adempimento dell’obbligazione.
Da questo punto di vista la subordinazione si presenta in forme variabili e anche molto diverse secondo i differenti contesti organizzativi e
produttivi: si va dalla eterodirezione o controllo gerarchico al coordinamento soltanto funzionale – purché continuo – sull’attività del prestatore
di lavoro. In sintesi: la figura del lavoratore eterodiretto all’interno della
fabbrica taylorista-fordista non è più l’unico referente per l’interpretazione dell’art. 2094 c.c., ma lascia spazio ad una pluralità di figure sociali e
professionali originate dalla diffusione dei nuovi tipi di lavoro e di nuove
forme organizzative di collaborazione nell’impresa.
In conclusione, intesa come disponibilità al coordinamento della prestazione nello spazio e nel tempo, la continuità qualifica la subordinazione come dipendenza dal controllo dell’imprenditore (o eterodirezione),
e si colloca su un piano – teleologico e non temporale – differente rispetto
all’esecuzione continuata, oppure periodica, della prestazione e cioè al sem-
Il lavoro subordinato
13
plice distribuirsi nel tempo (esecuzione a tratto successivo) dell’adempimento dell’obbligazione. In altre parole, la durata attiene alla struttura
della prestazione (delle opere) ed incide sul modo di esecuzione e sulla determinazione quantitativa e qualitativa della stessa: essa attiene essenzialmente al profilo programmatico o della causa del contratto e si deve intendere in senso non materiale, ma ideale, come dipendenza o disponibilità funzionale del prestatore all’impresa altrui.
Tale disponibilità si identifica in concreto con la persistenza nel tempo
dell’obbligo primario di prestazione e degli obblighi secondari che lo integrano e da essa discende, tra l’altro, che il prestatore di lavoro subordinato resta obbligato, e quindi idealmente alle dipendenze del datore di lavoro, anche durante le pause interruttive (intervalli giornalieri, riposi, ferie)
dell’esecuzione, pur non essendo tenuto alla prestazione (si pensi alla
permanenza dell’obbligo di fedeltà: art. 2105 c.c.).
Ancora, a tale disponibilità o dipendenza – e indirettamente al rischio
dell’organizzazione del lavoro – va fatta risalire anche la responsabilità
che grava, ai sensi dell’art. 2049 c.c., sul datore di lavoro per i danni prodotti ai terzi in conseguenza del fatto illecito commesso dal lavoratore nell’esecuzione della prestazione. Va notato che questa responsabilità ha natura oggettiva (vale a dire senza colpa), essendo posta a carico del datore
esclusivamente in ragione della subordinazione vincolante i prestatori di
lavoro anche nello svolgimento dell’attività dannosa.
11. Collaborazione e subordinazione nella giurisprudenza.
Questa ricostruzione, per cui la continuità si configura come un attributo essenziale della subordinazione, trova riscontro nell’insegnamento
della giurisprudenza, secondo cui la subordinazione si concretizza nell’eterodirezione e cioè nella sottoposizione del prestatore al potere di direzione del datore di lavoro, mentre la collaborazione si concretizza essenzialmente nella disponibilità delle energie lavorative messe al servizio dell’imprenditore e rese in modo tale da inserire la relativa prestazione nell’organizzazione aziendale.
Tradizionalmente la giurisprudenza è solita indicare nei quattro requisiti dell’onerosità, della collaborazione, della continuità e della subordinazione, gli elementi costitutivi della fattispecie tipica del rapporto di lavoro subordinato; e ne precisa altresì il contenuto facendo riferimento ad
una pluralità di elementi non tutti esplicitamente indicati dal legislatore
per l’individuazione in concreto della natura subordinata del rapporto:
l’oggetto della prestazione, identificato non con il risultato prodotto dal lavoratore ma con l’applicazione delle energie lavorative e quindi con l’attività stessa da lui messa a disposizione del creditore; la collaborazione, intesa come inserzione del lavoratore nell’organizzazione produttiva dell’im-
14
Diritto del lavoro
presa; la continuità ideale e cioè come durata nel tempo del vincolo di disponibilità funzionale del lavoratore all’impresa; l’incidenza del rischio dell’attività lavorativa, e quindi dell’organizzazione, sul datore di lavoro.
Questi criteri di qualificazione non sono tuttavia sufficienti. La loro applicazione infatti viene integrata dalla stessa giurisprudenza mediante l’utilizzazione di una molteplicità di criteri o c.d. indici empirici per la distinzione sul piano concreto tra fattispecie di lavoro autonomo e fattispecie di lavoro subordinato (e ciò con particolare riguardo alle aree di frontiera o c.d. casi-limite). Si tratta di criteri presuntivi o c.d. indiziari i quali
sono prodotti dall’apprezzamento giudiziario degli elementi e delle circostanze che compongono le singole fattispecie concrete (di modo che la loro applicazione, risolvendosi in un giudizio di fatto, non è censurabile in
Cassazione ex art. 360, n. 3, c.p.c.).
In particolare, secondo la giurisprudenza più recente della Corte di Cassazione, ai fini della distinzione tra rapporto di lavoro subordinato ed autonomo rimane fondamentale l’assoggettamento del lavoratore al potere direttivo, organizzativo e disciplinare del datore di lavoro, che si estrinseca
nell’emanazione di ordini specifici, nell’esercizio di un’assidua attività di vigilanza e controllo sull’esecuzione della prestazione e che deve essere concretamente apprezzato con riferimento alla specificità dell’incarico conferito al lavoratore 1. Da tale assoggettamento deriva una limitazione dell’autonomia del lavoratore ed il suo inserimento nell’organizzazione aziendale.
Tuttavia vanno utilizzati in via sussidiaria elementi quali l’assenza del rischio, la continuità della prestazione, l’osservanza di un orario e la cadenza
1
Cfr.: Cass. 23 aprile 2001, n. 5989, relativa all’attività di alcuni assistenti sociali presso
amministrazioni comunali; Cass. 13 maggio 2004, n. 9151, relativa all’attività di un’impiegata di un servizio di autonoleggio; Cass. 6 agosto 2004, n. 15275, relativa all’attività di un
geometra disegnatore; Cass., sez. lav., 29 maggio 2008, n. 14371 con riferimento ai compiti
di infermiere presso una clinica; Cass., sez. lav., 12 febbraio 2008, n. 3320, con riferimento
alla attività giornalistica; di recente cfr. Cass., sez. lav., 13 giugno 2013, n. 14804, nella quale emblematicamente si legge che «l’attività di segretaria svolta dalla sorella del titolare di
studio professionale, che in ragione del vincolo di parentela godeva di una certa libertà di
movimento, deve pur sempre considerarsi quale attività lavorativa subordinata laddove le
mansioni svolte, riconducibili a quelle previste dal CCNL di settore, siano conseguenza di
precise direttive da parte del datore di lavoro, titolare del potere direttivo ed organizzativo;
il lavoratore sia tenuto all’osservanza dell’orario di lavoro ed a giustificare le assenze; sia
soggetto al potere disciplinare esercitato dal titolare. E dunque nel complesso si possano
rinvenire i fattori caratterizzanti il vincolo di subordinazione»; v. anche Cass., sez. lav., 3
maggio 2013, n. 10396, che esclude la configurabilità di un rapporto di lavoro subordinato
nel caso di un componente di un consiglio di amministrazione di una s.r.l. quando non sia
provato che egli sia assoggettato al potere direttivo, di controllo e disciplinare da parte dell’organo di controllo della società; conforme Cass., sez. lav., 1° agosto 2013, n. 18414, che ai
fini della configurabilità di un rapporto di lavoro subordinato del dirigente che rivesta anche cariche sociali, ritiene necessario accertare se il lavoro dallo stesso svolto risulti inquadrato all’interno di una specifica organizzazione aziendale e assoggettato, anche in forma
lieve o attenuata, alle direttive e agli ordini nonché ai controlli del datore di lavoro.
Il lavoro subordinato
15
e la misura fissa della retribuzione 2. Si noti che la Cassazione sottolinea
spesso come tale assoggettamento possa diventare poco significativo dell’esistenza della subordinazione a seguito dell’evolversi dei sistemi di organizzazione del lavoro e ritiene che in tali casi l’indice determinante sia rappresentato dall’assunzione per contratto dell’obbligazione di porre a disposizione del datore di lavoro le proprie energie lavorative e di impiegarle con
continuità, fedeltà e diligenza, secondo le direttive di ordine generale impartite dal datore di lavoro e in funzione dei programmi cui è destinata la
prestazione di lavoro 3.
2
Cfr.: Cass. 4 febbraio 2002, n. 1420, relativa ad addetti ad un negozio di abbigliamento;
Cass. 23 gennaio 2004, n. 1218, relativa a rapporti di lavoro in agricoltura; Cass. 18 marzo
2004, n. 5508, relativa allo svolgimento di prestazioni didattiche presso un istituto professionale parificato; Cass., sez. lav., 7 gennaio 2009, n. 58 con riferimento alle prestazioni rese, ancorché saltuariamente, da un lavoratore come cameriere ai tavoli di un ristorante;
Cass., sez. lav., 23 gennaio 2009, n. 1717, fattispecie relativa al riconoscimento della qualifica di ispettore di terzo livello nell’ambito di una impresa assicurativa; Cass., sez. lav., 1°
agosto 2008, n. 21031 con riferimento alla natura subordinata della prestazione di scaricatori portuali; Cass., sez. lav., 27 febbraio 2007, n. 4500, con riferimento alla natura subordinata del rapporto di lavoro di un fisioterapista; Cass., sez. lav., 30 gennaio 2007, n. 1893 per
la natura subordinata della prestazione lavorativa svolta dalle hostess a congressi e manifestazioni fieristiche; Cass., sez. lav., 24 febbraio 2006, n. 4171 con riferimento alla natura
subordinata del messo notificatore consistente nel fatto che il lavoratore ricevesse quotidianamente specifiche direttive in ordine alle notifiche, nonché agli altri compiti da svolgere;
Cass., sez. lav., 17 ottobre 2011, n. 21439, ritiene che «l’elemento che contraddistingue il
rapporto di lavoro subordinato rispetto al rapporto di lavoro autonomo è il vincolo di soggezione personale del lavoratore al potere organizzativo, direttivo e disciplinare del datore
di lavoro, con conseguente limitazione della sua autonomia e inserimento nell’organizzazione aziendale, mentre altri elementi, quali l’assenza di rischio, la continuità della prestazione, l’osservanza di un orario e la forma della retribuzione, pur avendo natura meramente sussidiaria e non decisiva, possono costituire indici rivelatori della subordinazione,
idonei anche a prevalere sull’eventuale volontà contraria manifestata dalle parti, ove incompatibili con l’assetto previsto dalle stesse»; Cass., sez. lav., 12 gennaio 2012, n. 248, in
tema di qualificazione del rapporto di lavoro intercorrente fra un professionista e uno studio professionale, esclude il vincolo di subordinazione nel caso in cui dalle risultanze istruttorie emerga l’assenza degli indici di sottoposizione gerarchica (inosservanza degli orari di
lavoro predefiniti, non necessità di giustificare le assenze) a fronte dell’accertato svolgimento di prestazioni lavorative tipicamente riconducibili all’attività libero-professionale (ricevimento di clienti propri, ricezione di pratiche relative a clienti di terzi, svolgimento di altra
attività lavorativa esterna allo studio).
3
Cfr. Cass. 6 luglio 2001, n. 9167, relativa ad una propagandista di prodotti farmaceutici; Cass., sez. lav., 5 marzo 2012, n. 3418, secondo cui per l’individuazione del datore di lavoro, al criterio dell’apparenza del diritto, il giudice deve preferire il criterio dell’effettività
del rapporto, in quanto la subordinazione è la soggezione del lavoratore all’altrui effettivo
potere direttivo, organizzativo, di controllo e disciplinare; Cass., sez. lav., 25 giugno 2013, n.
15922, ha escluso la configurabilità di un lavoro a progetto, nonostante il “nomen juris”
adottato dalle parti, e ravvisato la subordinazione del lavoratore, verificando proprio la sussistenza dell’eterodirezione.
16
Diritto del lavoro
12. La dottrina della subordinazione come situazione di soggezione
socio-economica: critica.
Quanto si è detto conferma come la subordinazione vada ricostruita
quale situazione soggettiva tipica del contratto individuale di lavoro ed
emergente dal suo interno. Non si può quindi condividere l’indirizzo dottrinale che configura la subordinazione non come vincolo obbligatorio nascente dal contratto ma come un presupposto economico-sociale del rapporto, derivante dalla situazione di debolezza contrattuale del lavoratore,
necessitato dalle esigenze di vita ad offrire la propria forza-lavoro.
In quest’ordine di idee, tale situazione di inferiorità contraddistingue la
posizione del lavoratore non soltanto nel rapporto, ma già nel mercato e
quindi nella fase antecedente alla sua costituzione; e si presenta all’interno
del rapporto come estraneazione o alienazione del lavoratore rispetto al
risultato e all’organizzazione del lavoro nonché rispetto ai mezzi produttivi di proprietà dell’imprenditore-capitalista.
Questa dottrina però, pur essendo giustificata sul terreno empirico in
cui effettivamente una condizione sociale di alienazione o comunque d’inferiorità economica del lavoratore è riscontrabile nella maggioranza dei
casi, appare viziata da un vistoso apriorismo ideologico. Infatti non vi è
coincidenza tra subordinazione e condizione di alienazione rispetto alla
proprietà o controllo dei mezzi di produzione. Ciò è confermato dalla
constatazione che una simile situazione di inferiorità o di c.d. dipendenza
economica può essere assente nel rapporto di lavoro tutte le volte che il
prestatore sia fornito di adeguata forza contrattuale; invece, essa può ricorrere quando una prestazione lavorativa sia dedotta in un rapporto di
lavoro diverso da quello subordinato: ad esempio nell’area dei rapporti associativi in agricoltura (tipiche in passato la mezzadria e le varie forme di
colonia parziaria), oppure – a seguito della crescente diffusione di prestazioni di lavoro autorganizzato all’interno e all’esterno dell’impresa – nell’area dei rapporti di lavoro autonomo caratterizzati da una prestazione di
attività personale ed allo stesso tempo da una situazione di dipendenza
economica del lavoratore.
In conclusione, se si può ammettere che la posizione d’inferiorità economica del lavoratore ne condizioni l’autonomia contrattuale e ne caratterizzi
la posizione sociale (collocandosi, tra l’altro, alle radici del conflitto di classe), tale effetto condizionante non è sempre e nella stessa misura generatore
di disuguaglianza effettiva, in quanto non è omogeneamente distribuito all’interno della classe dei lavoratori; ed in ogni caso non è sufficiente a privare il contratto della sua funzione genetica e regolamentare del rapporto; né,
in particolare, può essere confuso con la subordinazione del prestatore di
lavoro al potere di direzione e organizzazione dell’impresa.
Del resto, a parte ogni altra considerazione di ordine storico o sociologico, un argomento decisivo in senso contrario all’equivalenza tra presta-
Il lavoro subordinato
17
zione di energie o attività lavorativa e subordinazione è offerto sul piano
sistematico dalla lettera e dalla ratio dell’art. 2222 c.c., il quale esclude esplicitamente una simile equivalenza allorché ravvisa nel lavoro prestato senza vincolo di subordinazione, esclusivamente o anche solo prevalentemente proprio del prestatore di opera, l’elemento tipico del rapporto di lavoro
autonomo. E nello stesso senso si potrebbe ulteriormente argomentare anche dall’art. 2223 c.c., laddove è prevista l’eventualità e non la necessità della fornitura della materia dell’opera da parte del lavoratore autonomo.
13. La collaborazione come inserzione del lavoratore subordinato nell’azienda e come connotato del lavoro autonomo coordinato e continuativo (c.d. parasubordinazione).
Su queste premesse si può concludere che non la situazione di sottoprotezione sociale – esterna al rapporto e comune ad altre categorie di soggetti – ma la collaborazione del prestatore nell’impresa qualifica la subordinazione come vincolo finalizzato all’obiettivo dell’organizzazione del
lavoro sotto il controllo e la responsabilità dell’imprenditore e funge da criterio per l’identificazione della causa del contratto. Per qualificare il rapporto di lavoro come subordinato, oppure autonomo, occorre verificare se
sia o meno sussistente in concreto il requisito della continuità come situazione di dipendenza funzionale alla collaborazione nell’impresa. In effetti
per qualificare il rapporto occorre prima interpretare il contratto che lo
ha instaurato e lo regola.
Se si può convenire in linea generale che l’inserzione del prestatore nell’organizzazione aziendale 4 è un sicuro indice presuntivo della sussistenza
della collaborazione – così come, d’altronde, l’osservanza dell’orario di lavoro (art. 2107 c.c.) e l’obbedienza alle direttive impartite dall’imprenditore
per l’esecuzione e la disciplina del lavoro (art. 2104, co. 2, c.c.) lo sono della
subordinazione – non si può dire che tale presunzione abbia valore assoluto
e che collaborazione e subordinazione siano la necessaria conseguenza dell’inserimento nell’azienda e del vincolo dell’orario di lavoro (il quale attiene
piuttosto – cfr. gli artt. 2107 e 2108 c.c. – alla determinazione della durata
della prestazione di lavoro). Altrimenti, ogni prestazione di lavoro resa ad
un’impresa o ad un’organizzazione di lavoro assimilabile, sarebbe necessariamente di natura subordinata: il che, oltre ad irrigidire enormemente il
mercato del lavoro, sarebbe in contrasto con l’esplicita previsione legislativa
4
Cass., sez. lav., 23 gennaio 2009, n. 1717; Cass., sez. lav., 4 marzo 2009, n. 5217; Cass.,
sez. lav., 12 febbraio 2008, n. 3320; Cass., sez. lav., 18 luglio 2007, n. 1597; Cass., sez. lav., 1°
agosto 2013, n. 18414, per la configurabilità di un rapporto di lavoro subordinato di un dirigente che rivesta anche cariche sociali va accertato l’inquadramento nell’organizzazione
aziendale.
18
Diritto del lavoro
dei rapporti di collaborazione continuativa, ma non subordinata.
In particolare, si pensi al contratto di agenzia 5 nel quale l’agente – che è
a sua volta imprenditore – assume stabilmente l’incarico di promuovere la
conclusione di contratti – o affari – nell’interesse del preponente: cfr. art.
1742 c.c.) 6.
L’art. 409, n. 3, c.p.c. 7 ha previsto l’equiparazione al rapporto di lavoro
subordinato – limitatamente alla disciplina processuale e della composizione anche stragiudiziale delle controversie di lavoro (incluso lo speciale
regime limitativo della disposizione dei diritti in tema di rinunzie e transazioni sancito dall’art. 2113 c.c.: v. Cap. VIII) – di talune categorie di rapporti di lavoro autonomo (in specie di agenzia: artt. 1742 ss. c.c.; e di rappresentanza commerciale: institori e procuratori, artt. 2203 ss. c.c.) nonché in genere degli altri rapporti di collaborazione i quali si concretino in
una prestazione d’opera prevalentemente personale continuativa e coordinata ma senza vincolo di subordinazione. In questo modo il legislatore ha
riconosciuto che la collaborazione e quindi l’inserzione del lavoratore nell’impresa è un elemento tipico ma non esclusivo del lavoro subordinato ed
ha implicitamente confermato e precisato i connotati della collaborazione
nel suo significato oggettivo di attività lavorativa continuativa e coordinata prestata nell’interesse di un creditore (datore di lavoro oppure committente).
La possibilità che la prestazione un’attività continuativa e coordinata
verso un committente possa conferire anche al contratto di lavoro autonomo una funzione di collaborazione analoga a quella prevista dall’art.
2094 c.c. per il lavoro subordinato è stata riconosciuta – anche se all’origine limitatamente alla disciplina processuale – dal legislatore proprio
come elemento di atipicità – che la volontà delle parti può introdurre nei
contratti di lavoro autonomo e, in particolare, nel contratto d’opera – e di
assimilazione al rapporto di lavoro subordinato. L’assimilazione è tuttavia
solo parziale perché il lavoro autonomo resta al di fuori della disciplina e
delle tutele tipiche del lavoro subordinato.
Detto questo, tutte le volte che il lavoro autonomo si presenta finalizzato
alla produzione di un servizio (arg. ex art. 2222 c.c.) e cioè risultato o di una
5
La l. 17 agosto 2005, n. 173, nel prevedere la figura di «incaricato alla vendita diretta a
domicilio», ha stabilito che la relativa attività possa essere svolta «con o senza vincolo di subordinazione», specificando che, in questo secondo caso, essa «può essere esercitata come
oggetto di una obbligazione assunta con contratto di agenzia». È esplicitamente previsto, peraltro, che l’attività medesima possa essere svolta, sempre senza vincolo di subordinazione,
«senza necessità di stipulare un contratto di agenzia», e dunque, è da presumere, sulla base
di un contratto di lavoro autonomo, anche di carattere occasionale (ove il reddito annuo
derivante da essa non superi i 5.000 euro annui).
6
Modif. con d.lgs. 15 febbraio 1999, n. 65; e, in precedenza, l. 12 marzo 1968, n. 316; l.
28 luglio 1971, n. 559; l. 3 maggio 1985, n. 204; d.lgs. 10 settembre 1991, n. 307.
7
Nel testo novellato dall’art. 1, l. 11 agosto 1973, n. 533.
Il lavoro subordinato
19
sequenza di risultati integrati stabilmente nell’attività del committente (e
perciò nel caso socialmente più rilevante del lavoro autonomo coordinato
ad una impresa), anche il contratto d’opera, nonostante sia qualificato proprio per l’assenza del vincolo della subordinazione (cfr. l’art. 2222 c.c.), si
caratterizza sul piano economico e giuridico per la sua natura di durata e
quindi per la prestazione di una attività rivolta al soddisfacimento di un interesse durevole del creditore.
Tale interesse nel lavoro coordinato, ma non subordinato (c.d. parasubordinato), si può dire continuativo sul piano della reiterazione nel tempo
delle singole prestazioni di risultato, ma non sul piano della programmazione o coordinamento nello spazio e nel tempo dell’attività e quindi della
disponibilità del lavoratore. Ed infatti nella prestazione d’opera coordinata e continuativa, il lavoratore non è vincolato a tenersi a disposizione del
committente – di solito un imprenditore – benché la sua attività sia collegata stabilmente al ciclo produttivo e quindi inserita nell’azienda.
In simili casi, tuttavia, gli elementi della continuità (o disponibilità dell’attività lavorativa nello spazio e nel tempo) e della dipendenza economica del prestatore d’opera verso il committente, finiscono spesso con il sovrapporsi, avvicinando nella realtà sociale i due tipi legali della locatio operis e della locatio operarum. Nell’area delle prestazioni flessibili nel tempo
e nel risultato del lavoro, alla tradizionale separazione tra questi due modelli contrattuali si sostituisce un continuum tra le diverse forme di organizzazione del lavoro dipendente e indipendente, rendendoli intercambiabili secondo criteri di fungibilità economica tali da realizzare l’obiettivo
della flessibilità del lavoro all’interno e all’esterno dell’impresa.
14. La parabola delle collaborazioni coordinate e continuative: dal lavoro a progetto alla riconduzione al rapporto di lavoro subordinato.
Proprio i tratti caratteristici delle collaborazioni coordinate e continuative, sempre più diffuse nell’odierno mercato del lavoro, hanno messo
in luce l’esigenza di reagire a tale diffusione, disciplinando il fenomeno
ed introducendo criteri distintivi specifici tra lavoro autonomo coordinato e lavoro subordinato. Questo allo scopo di impedire l’uso fraudolento
del primo in luogo del secondo, quando fosse considerato antieconomico
o comunque rifiutato dal datore di lavoro.
In effetti il ricorso alle collaborazioni coordinate e continuative allo
scopo di eludere l’apparato delle tutele proprie del lavoro subordinato è
stato per lungo tempo fronteggiato soltanto dal giudice chiamato, su domanda della parte interessata, ad accertare la natura effettivamente subordinata del rapporto. Da ciò una grave situazione di incertezza per entrambe le parti esposte all’alea del giudizio.
L’esigenza di reprimere l’abuso delle collaborazioni pseudo autonome
20
Diritto del lavoro
è stata all’origine dell’intervento legislativo in materia. Il primo è stato il
d.lgs. 10 settembre 2003, n. 276 che, nell’intento di differenziare i rapporti di collaborazione autonoma genuini da quelli che mascherano un rapporto di lavoro effettivamente subordinato, agli artt. 61-69 ha introdotto
una disciplina specifica del contratto di collaborazione (o lavoro a progetto). La stessa prospettiva antielusiva è stata seguita anche dai successivi
interventi del legislatore: la l. 12 giugno 2012, n. 92 che (art. 1, co. 23-25)
ha profondamente modificato in senso restrittivo la suddetta disciplina
altresì estendendola, in pratica e salvo alcune eccezioni, alle prestazioni di
lavoro autonomo economicamente dipendente (c.d. partite Iva); e poi il
d.lgs. 15 giugno 2015, n. 81, il quale ha previsto il “superamento” dell’istituto del contratto di lavoro a progetto: da un lato (art. 1), introducendo nuovi e più stringenti criteri per stabilire la distinzione tra le collaborazioni autonome, previste dall’art. 409, n. 3, c.p.c. e le prestazioni di
lavoro subordinato; e, dall’altro, abrogando (art. 52, co. 1) espressamente
gli artt. 61-69 bis, d.lgs. n. 276/2003, anche se è stato disposto che dette
norme continuano ad applicarsi esclusivamente ai contratti in atto alla
data di entrata in vigore della nuova legge (25 giugno 2015). Alla efficacia
transitoria della normativa precedente si accompagna così – a regime – il
divieto di stipulazione di nuovi contratti a progetto, mentre resta aperta la
possibilità di instaurare rapporti di collaborazione coordinata e continuativa come previsto dall’art. 409, n. 3, c.p.c. (che il co. 2 dello stesso art. 52
fa espressamente salvo).
Senza entrare in una esposizione dei dettagli di una normativa ormai
in corso di esaurimento, va comunque detto che il d.lgs. n. 276/2003 aveva
fissato alcuni requisiti essenziali del contratto a progetto (costruito come
un sottotipo del contratto d’opera previsto dall’art. 2222 c.c.) disponendo
(art. 61, co. 1) che i rapporti di collaborazione coordinata e continuativa
prevalentemente personale e senza vincolo di subordinazione, di cui
all’art. 409, n. 3) c.p.c. devono essere «riconducibili a uno o più progetti
specifici o programmi di lavoro o fasi di esso determinati dal committente e
gestiti autonomamente dal collaboratore in funzione del risultato nel rispetto
del coordinamento con l’organizzazione del committente e indipendentemente dal tempo impiegato per l’esecuzione dell’attività lavorativa». Con questa
disposizione il legislatore del 2003 aveva inteso definire la nuova fattispecie contrattuale in modo tassativo individuando l’oggetto dell’obbligazione
del collaboratore mediante la nozione di progetto specifico quale elemento caratteristico del rapporto di collaborazione parasubordinata ed integrando tale nozione nella figura – invero generica – della prestazione d’opera continuativa e coordinata prevista dall’art. 409, n. 3, c.p.c.
Pertanto il progetto o programma di lavoro doveva considerarsi, da un
lato, come la specificazione dell’oggetto della prestazione d’opera e quindi
dell’obbligazione di risultato del collaboratore e, dall’altro, come il limite
della durata del rapporto di collaborazione. Infatti la natura temporanea
Il lavoro subordinato
21
del progetto o comunque la limitazione temporale dell’attività necessaria per
realizzarlo, si configurava quale necessaria giustificazione causale e quindi
requisito legale per la sua validità. Da questo punto di vista, è evidente la somiglianza con il contratto di lavoro subordinato a tempo determinato.
Da un punto di vista sistematico va sottolineato che il legislatore aveva
configurato la collaborazione a progetto come contratto a causa c.d. rigida o tipo contrattuale vincolato. Ciò si desume dall’art. 69, co. 1, d.lgs. n.
276/2003 [successivamente modificato per effetto delle lett. f) e g) del co.
23 dell’art. 1, l. n. 92/2012], secondo il quale «i rapporti di collaborazione
coordinata e continuativa instaurati senza l’individuazione di uno specifico progetto o programma ai sensi dell’art. 61, co. 1, sono considerati
rapporti di lavoro subordinato a tempo indeterminato sin dalla data di
costituzione del rapporto».
Il co. 1 dell’art. 69 è stato interpretato già dai primi commentatori e
dalla giurisprudenza 8, nel senso che l’individuazione di uno specifico progetto costituisce elemento essenziale di validità del contratto, la cui assenza determina la costituzione di un rapporto di lavoro subordinato a
tempo indeterminato dalla data della instaurazione e dunque ex tunc. Si
produceva così una trasformazione o c.d. conversione del rapporto (o, come detto comunemente, una c.d. presunzione di subordinazione, la quale
non ammette la prova contraria della natura autonoma del rapporto di lavoro nel caso di mancanza del progetto specifico). Come si può comprendere la presunzione legale assoluta così stabilita (in realtà qualificazione
imperativa del rapporto) aveva una chiara funzione antielusiva, essendo
rivolta a sanzionare l’impiego del contratto parasubordinato in luogo di
quello subordinato.
Va aggiunto che, una volta definita la fattispecie, il legislatore del 2003
aveva dettato una completa disciplina del rapporto. In particolare oltre a
stabilire i requisiti di contenuto e di forma del contratto, ha introdotto a
tutela del collaboratore un apparato di diritti “leggero” ma comunque ab8
In questo senso in giurisprudenza v. Trib. Napoli 4 luglio 2012, n. 19891: «Il rapporto
di lavoro con descrizione del contenuto delle mansioni attribuite, dell’obiettivo che si intende raggiungere e delle attività prodromiche e funzionali al suo conseguimento, con la generica collaborazione nello svolgimento dell’attività imprenditoriale del committente, non può
identificarsi come lavoro a progetto. Il progetto deve, infatti, essere dotato di una compiutezza ed autonomia da parte del lavoratore con propria prestazione e reso all’impresa quale
adempimento della propria obbligazione lavorativa. La mancanza dunque di un progetto
specifico o fase di lavoro non può configurare lavoro a progetto, con la conseguente trasformazione del rapporto di lavoro a progetto in rapporto di lavoro a tempo indeterminato»; Trib. Milano 10 novembre 2011: «Ove il progetto si caratterizzi per un’illustrazione oggettivamente oscura e generica, limitandosi sostanzialmente a indicare un’attività di consulenza e assistenza per la realizzazione di un (non meglio precisato) servizio di assistenza su
tecnologie, il rapporto è da considerarsi fin dalla sua costituzione di natura subordinata in
forza dell’art. 69, d.lg. 10 settembre 2003 n. 276, trattandosi di presunzione assoluta che
non ammette prova contraria da parte del datore di lavoro».
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Diritto del lavoro
bastanza rilevante e modellato sull’apparato protettivo del lavoratore subordinato. Tale apparato – notevolmente rafforzato dal legislatore del
2012 – riconosceva alcune tutele essenziali: importante era la disposizione 9 secondo cui il compenso corrisposto al collaboratore deve essere proporzionato alla quantità e alla qualità del lavoro eseguito. Il richiamo al
principio di proporzionalità contenuto nell’art. 36, co. 1, Cost. era poi accompagnato da un complicato sistema di rinvii ai minimi salariali previsti
dai contratti collettivi specifici e cioè applicabili ai collaboratori di un determinato settore o, in loro assenza, alle retribuzioni minime previste dai
contratti collettivi nazionali di categoria per i lavoratori subordinati addetti ad attività e mansioni similari. In virtù di questa e altre disposizioni
si era avuto un sostanziale avvicinamento al lavoro dipendente.
L’istituto del contratto a progetto non ha dato buona prova soprattutto
perché la centralità assegnata all’elemento del progetto si è dimostrata incapace di offrire una linea di distinzione affidabile tra lavoro autonomo
coordinato e continuativo e lavoro subordinato, alimentando un diffuso contenzioso. Del resto la stessa distinzione tra progetto o programma di lavoro era incerta; infatti, mentre la nozione di progetto specifico allude ad un
livello sufficientemente elevato di competenza o capacità professionale del
collaboratore e, comunque, può essere raccordata ad una vera e propria
prestazione d’opera, ben più ampia e generica è la nozione di programma
o fase di lavoro. Qui l’attività programmata e il risultato promesso dal collaboratore possono senza difficoltà tradursi in qualsiasi tipo anche elementare di lavoro, mentre può essere difficile ravvisare in concreto un’autonomia di gestione nella prestazione. Da qui la difficoltà di distinguere in
concreto la prestazione effettivamente autonoma da quella subordinata e
la propensione dei giudici a riconoscere nella gran parte dei casi la natura
subordinata della collaborazione e ad applicare nel modo più ampio la
presunzione assoluta posta dalla legge, con l’effetto di ostacolare non solo
l’abuso ma l’uso stesso del contratto a progetto.
La disciplina ulteriormente restrittiva introdotta dalla l. n. 92/2012 non
poteva evidentemente cambiare questa situazione: cosa che ha suggerito
al legislatore del 2015 la soppressione dell’istituto e il suo sostanziale assorbimento nell’area del lavoro subordinato. Viene così confermata la prospettiva antielusiva anche se diversamente articolata.
In effetti l’art. 2, d.lgs. n. 81/2015 dispone (co. 1) la estensione «a far data dal 1 gennaio 2016» della disciplina del rapporto di lavoro subordinato
alle collaborazioni organizzate dal committente. Sono da considerare tali i
«rapporti di collaborazione che si concretano in prestazioni di lavoro esclusivamente personale, continuative e le cui modalità di esecuzione sono organizzate dal committente anche con riferimento ai tempi e al luogo di lavo9
Art. 63, d.lgs. n. 276/2003, come sostituito dall’art. 1, co. 23, lett. c), l. 28 giugno 2012,
n. 92.
Il lavoro subordinato
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ro». Più che una presunzione assoluta di subordinazione la norma sembra
stabilire un criterio di qualificazione o meglio un indicatore legale della
natura effettivamente subordinata della prestazione lavorativa. Il potere di
organizzazione esercitato dal committente ha infatti due note caratteristiche: a) deve incidere sulla esecuzione e quindi sull’attività e non sul risultato della prestazione; e b) deve necessariamente vincolare i tempi e il
luogo dell’attività del collaboratore. Da ciò una equivalenza tra subordinazione ed eterorganizzazione della prestazione. D’altra parte si è visto (supra, n. 12) che la subordinazione non si identifica unicamente con la etero
direzione ma comprende anche il coordinamento nello spazio e nel tempo
dell’attività del lavoratore vincolandolo con continuità nella esecuzione della
prestazione.
La norma ha quindi una duplice funzione: da un lato di specificazione
della definizione di subordinazione contenuta nell’art. 2094 c.c., affiancando alla tradizionale nozione di eterodirezione la nozione più aggiornata di eterorganizzazione: l’una e l’altra invero implicite nella dipendenza,
in quanto a sua volta funzionale alla disponibilità continuativa del lavoratore; dall’altro, di delimitazione dell’area delle collaborazioni autonome previste dall’art. 409, n. 3, c.p.c. nelle quali l’attività del collaboratore può non
essere esclusivamente personale e il coordinamento da parte del committente – non potendo riguardare il tempo e il luogo della prestazione – può
incidere soltanto sul risultato finale e non sull’attività necessaria per la
sua esecuzione. Ciò importa una delimitazione più rigorosa della tradizionale figura della parasubordinazione e determina indubbiamente una
notevole restrizione della possibilità di instaurare rapporti di collaborazione continuativa e coordinata secondo la previsione dell’art. 409, n. 3, c.p.c.:
questa rimane tuttavia applicabile ai rapporti nei quali le modalità di tempo e di luogo della prestazione siano stabilite in autonomia dal collaboratore, nonché nelle ipotesi di esclusione dalla nuova disciplina stabilite dallo
stesso legislatore.
L’art. 2, co. 2 – in parte riprendendo la precedente normativa sul lavoro
a progetto – ha infatti previsto alcune importanti ipotesi di esclusione dalla applicazione del criterio della subordinazione-eterorganizzazione stabilito nel co. 1.
La prima di tali ipotesi [co. 2, lett. a)] riguarda i rapporti di collaborazione per i quali il trattamento economico e normativo sia specificamente
disciplinato, a livello nazionale, da accordi collettivi stipulati da associazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale.
È, dunque, rimessa, all’autonomia collettiva la facoltà di sottrarre alla presunzione legale, e quindi alla disciplina del lavoro subordinato, determinate tipologie di collaborazione, purché l’esclusione sia giustificata da particolari esigenze produttive ed organizzative del relativo settore. Per altro, poiché dette esigenze non sono specificate dalla legge, alla contrattazione è
conferita una libertà molto ampia nella loro individuazione: di tal che il
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Diritto del lavoro
limite così posto si presenta alquanto elastico e comunque resistente al
sindacato del giudice. Scompare così la speciale disciplina che rimandava
ai contratti collettivi nazionali di riferimento per autorizzare il lavoro a
progetto nei call center 10.
In realtà la norma del co. 1 che impone la regola (c.d. presunzione) della subordinazione-eterorganizzazione ha natura seminderogabile ed è
quindi cedevole nei confronti dell’autonomia collettiva.
Sono poi previste – nello stesso co. 2 – altre ipotesi di esclusione collegate alla natura dell’attività svolta e/o alla qualità del committente o del
collaboratore. Così sono escluse [lett. b)] le collaborazioni prestate nell’esercizio delle professioni intellettuali per le quali è obbligatoria l’iscrizione in appositi albi professionali. Si noti che l’iscrizione del collaboratore
ad un albo professionale non è circostanza idonea di per sé a determinare
l’esclusione dall’applicazione della presunzione. Per esempio se un soggetto
è iscritto nell’albo degli avvocati non può per questo essere assunto con un
contratto di collaborazione coordinata e continuativa per fare l’impiegato o
il custode o l’addetto alle fotocopie.
Sono altresì escluse le collaborazioni prestate dai componenti di organi
di amministrazione e controllo delle società nonché in genere di collegi e
commissioni [lett. c)]; e [lett. d)] le collaborazioni prestate a fini istituzionali in favore di società sportive dilettantistiche e nelle attività connesse nonché in favore di enti di promozione sportiva riconosciuti dal CONI ai sensi
dell’art. 90, l. 27 dicembre 2002, n. 289.
Infine, sono espressamente escluse anche le collaborazioni nel settore
pubblico per la cui disciplina l’art. 2, co. 4, rinvia al futuro riordino dei contratti di lavoro flessibile con le pubbliche amministrazioni. Nell’attesa la
norma stabilisce il divieto a partire dal 1° gennaio 2017 della stipulazione di
nuovi contratti di collaborazione e pertanto consente l’utilizzo dei contratti
in essere nonché di quelli che possono essere instaurati sino a tutto il 2016.
Va aggiunto che il co. 3 autorizza le parti a richiedere alle competenti
commissioni la certificazione dell’assenza dei requisiti della eterorganizzazione previsti nel co. 1. La norma, in sé superflua, ha lo scopo di incentivare
le parti a precostituire un elemento di prova in favore della natura autonoma del rapporto ma non preclude l’eventuale riqualificazione giudiziale del
rapporto.
In conclusione la nuova disciplina ha conservato, benché ridimensionata, la categoria delle collaborazioni coordinate e continuative che restano
nell’ambito del lavoro autonomo e della relativa disciplina. Non vi è invece
spazio per una figura di collaborazione eterorganizzata come tertium genus tra la autonomia e la subordinazione.
10
Art. 61, co. 1 come modif. dall’art. 24 bis, co. 7, d.l. 22 giugno 2012, n. 83. La norma si
riferisce al caso dei lavoratori a progetto che sono assunti nei call center per servizi outbound in cui l’operatore contatta l’utenza per la presentazione di un prodotto.
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