La Chiesa è nuda In serata ho passeggiato a lungo nel porto della bellissima Otranto e sono stato attratto e consolato da un’immagine che mi ha fatto molto riflettere. Tra le molte imbarcazioni ormeggiate, e perlopiù pensate per il turismo più che per il lavoro dei pescatori, se ne distingueva una. Appena arrivata dal largo è stata ormeggiata tra le altre deserte e un uomo già anziano dopo averla assicurata – la sua barca era certamente meno attraente e più sgangherata delle fiammanti imbarcazioni turistiche – si è con calma seduto e ha cominciato a riparare le reti. Il porto deserto, con il dolce rumore dello sciabordio delle onde calme, in una serata di tarda estate pur in pieno autunno, dava a questa figura uno spessore e una forza magnifici. Sono passato e ripassato davanti a quella barca quasi nella speranza di poter attirare l’attenzione di quell’uomo, ma questi era completamente assorto nel suo delicato lavoro, in una solitudine operosa per nulla isolata, ma assolutamente parte del mondo misterioso del mare. Ho capito per la prima volta, in modo così intenso, che cosa deve aver impressionato il Signore Gesù, che era falegname e non pescatore, in quegli uomini che riassettavano le reti sulla riva del mare e che chiamò a diventare suoi discepoli e apostoli: la calma assorta di uomini che fanno un lavoro, quasi da donne, con una cura e una concentrazione che fanno pensare e che inducono a fermarsi e a riflettere. L’immagine di quel pescatore che, all’inizio della notte, se ne stava così tranquillo e operoso nella sua barca, che forse coincide con tutto il suo mondo, con cui va ad incontrare il mondo prendendo il largo, mi ha fatto pensare alla Chiesa di questi giorni. Mi ha fatto pensare, anche per una somiglianza fisica che mi ha sorpreso, a papa Francesco. Infatti, la conclusione di quello che potremmo definire il primo “round” del Sinodo sulle sfide della famiglia nel contesto del mondo contemporaneo, in cui siamo chiamati a portare il lievito del Vangelo, forse ha lasciato l’amaro in bocca. La relazione, che aveva inaugurato la seconda settimana del Sinodo, dal sapore chiaramente aperto e capace di inglobare cammini nuovi, cominciando con l’assunzione di un linguaggio nuovo che evitava accuratamente parole come “irregolari” e “peccato”, aveva fatto esclamare a qualche padre sinodale: <si sente lo stesso respiro della Gaudium et spes>. Al contempo, proprio questa relazione <post disceptationem>, salutata da alcuni giornalisti – e a ragione – come un vero <terremoto> nell’attitudine della Chiesa nei confronti di temi come divorziati e omosessuali, ha fatto tremare altri. Questi ultimi hanno chiesto rettificazioni e sottolineature che, per quanto accettabili, rischiano di aver troncato in realtà il dialogo con chi ha bisogno di una mano veramente allungata e quasi teologicamente disarmata per sentire di poter veramente riprendere a parlare e ad esprimersi. Come ha ricordato papa Francesco, prendendo la parola alla fine del Sinodo: il Sinodo c’è stato ed è stato un vero camminare insieme nella franchezza ed è stata un’esperienza di ascolto dello Spirito che va sempre di pari passo con l’esperienza della tentazione. Papa Francesco ha avuto il suo consueto coraggio nell’elencare le tentazioni in modo semplice, chiaro, efficace. L’immagine della Chiesa, alla fine di questo Sinodo, è ancora una volta quella di una <barca> scossa dalle onde di varie correnti. Una barca in cui alcuni marinai, felici del fatto che si è alzato un vento ritenuto favorevole, issano le vele per riprendere alacremente la navigazione. Al contempo, altri marinai calano l’ancora per paura che quel medesimo vento, ritenuto pericoloso, porti la barca alla deriva o la faccia incagliare tra gli scogli. Chi ha ragione? Chi ha torto? Mentre tutto ciò avviene, il Signore sembra dormire placidamente sul suo <cuscino> (Mc 4) non certo ignaro di questo trambusto, ma forse abbastanza disinteressato. Il Signore, ancora una volta, lascia che ci agitiamo, che ci impauriamo, persino che ci arrabbiamo e, solo quando avremo dato fondo alle nostre risorse e alle nostre liti e andremo a svegliarlo chiedendogli di aiutarci e salvarci, riporterà la pace che si può ritrovare solo nel più profondo del nostro cuore. Papa Francesco ha sottolineato come il Sinodo continua e ha ribadito, beatificando Paolo VI, che non bisogna temere il lavoro creativo di una fedeltà al Vangelo difficile, ma necessaria. Ed io immagino il Vescovo di Roma come quell’anziano pescatore solitario e assorto che, nella notte di una solitudine palpabile, ripara la rete, pensando ai pesci che dovrà raggiungere nel profondo del mare per poterli catturare. Raggiungere le persone nel loro elemento normale di vita per lasciare che entrino nella rete del Vangelo… questa è la sfida perenne per la Chiesa che non è chiamata a salvaguardare se stessa, ma a farsi mediazione di salvezza esperibile in ogni situazione e in ogni contesto di vita. Eppure non bisogna impressionarsi, né allarmarsi troppo! Nella storia della Chiesa abbiamo conosciuto momenti persino più difficili di malintesi e di opposizioni. Non ultimo, il Concilio Vaticano II con la fatica a gestire la minoranza e la maggioranza tolse il sonno al nuovo beato Paolo VI. Andando più in là nel passato, la crisi ariana ha fatto vivere pagine di contrapposizione spinte ad una violenza non solo verbale che ci fa arrossire. Forse, nel nostro contesto ecclesiale, stiamo vivendo una crisi che si potrebbe definire, per analogia, una sorta di arianesimo antropologico o di docetismo buonista. Facciamo fatica – ed è normale – a trovare un equilibrio tra le esigenze irrinunciabili dell’incarnazione e dell’incardinazione nella storia e nella cultura del messaggio del Vangelo e la salvaguardia della trascendenza e delle esigenze di fedeltà al disegno e al desiderio di Dio che crea come salva e salva come crea. Tenere insieme in modo ordinato e vitale l’esperienza della salvezza come finestra per intuire le ragioni della creazione, senza dimenticare il messaggio di conversione già presente nella creazione, non è facile. Per questo, giustamente, papa Francesco parla di <tentazioni> da saper attraversare con coraggio e discernimento. Proprio per questo, papa Francesco se ha invitato all’inizio del Sinodo a <parlare chiaro>, ci ha tenuto a non nascondere agli occhi del mondo che guarda la Chiesa e forse spera dalla Chiesa un segno per rianimare la speranza, quello che è successo nell’aula del Sinodo. Dal Sinodo non escono fuori né vincitori né vinti, il cammino è aperto e ci sarà – nel 2015 – il secondo round di questa ricerca, in occasione del Sinodo ordinario. Ora ci sarà tempo di lavorare, riflettere, ponderare, proporre. Pertanto una cosa è certa: l’immagine di Chiesa che il Sinodo ha presentato al mondo che guarda e attende è quella di una Chiesa ferita. C’è nel cuore della comunità di fede, che è la Chiesa cattolica, una ferita che è il frutto di un combattimento antico tra le ragioni dell’ispirazione e la continua necessità di ermeneutica, tra il dovere di insegnare e quello altrettanto urgente di ascoltare, tra la tendenza a ribadire e l’attesa di molti di ripensare, tra la fedeltà a Dio e al Vangelo eterno che si invera in una fiducia nell’uomo e una simpatia cordiale per la storia. In realtà, non è nuovo che la Chiesa sia ferita, se essa è il Corpo di Cristo crocifisso e risorto questo corpo è ferito e piagato da sempre e per sempre. Ciò che è forse nuovo, alla fine di questo Sinodo, è che la Chiesa è non solo ferita, ma nuda. In questo dobbiamo riconoscere a papa Francesco di non aver voluto imporre la sua linea e di essere riuscito a non impaurire i membri del Sinodo che non hanno la sua stessa sensibilità e che rischiano di essere la maggioranza. Nello stesso tempo, il Vescovo di Roma, non ha voluto che la ferita e la fatica rimanesse segreta e nascosta, ma è stata con semplicità esibita al mondo che ci circonda e che abbiamo la missione o la pretesa di voler curare e guarire. Da questo Sinodo la Chiesa di Cristo si presenta ai nostri fratelli e sorelle in umanità ferita e nuda. Mi sembra di poter dire che questo è il grande messaggio di speranza per il mondo: la Chiesa vive al suo interno la stessa fatica che vivono tantissime persone, soprattutto nelle relazioni affettive e di cura reciproca. Si tratta della fatica a capire se stessi per aprirsi ad un cammino di comprensione, di accoglienza, di cura degli altri. Un grande passo è stato compiuto, quasi inconsapevolmente, da questo Sinodo: la Chiesa si è umanizzata, accettando di riconoscersi e di presentarsi nella sua fragilità di identità e di missione. Questo è stato possibile proprio per la volontà e la capacità di dare e fare spazio a chi si fa garante di una chiarezza di identità e di missione. Quasi due anni fa, il gesto di Benedetto XVI, con la sua dimissione, ha rotto l’incantesimo dell’identità tra persona e ministero. Siamo ormai abituati ai gesti di papa Francesco che ha fatto del suo ministero petrino un cammino di spoliazione del papato da tutto ciò che non è evangelicamente compatibile e necessario. La celebrazione di questo primo Sinodo – sotto e con papa Francesco – ha fatto maturare ulteriormente questo processo e non più solo nella figura del 2 papa ma del Collegio Episcopale dando un’immagine di Chiesa ferita e nuda – come lo è dai tempi apostolici – senza inutili veli. Da qui si può veramente ripartire nella duplice e inscindibile fedeltà a Dio e all’umanità, immaginando una nuova sintesi calcedoniana - a livello antropologico questa volta – e comunque senza confusione né separazione. Fr. MichaelDavide www.lavisitation.it 3