Gian Enrico Rusconi Pur non volendo fare il professore, rilevo che ci sono alcuni concetti da chiarire per dialogare efficacemente; ho preparato tre momenti di riflessione. Per primo, discutere la formula che a me piace molto: «etsi Deus non daretur»; è un modo per sottrarmi alla definizione di “non credente” continuamente citata, ma a me non piace. Cercherò di capirne la validità; difatti laico è diventato abusato: ormai tutti sono laici, cardinali compresi; “non credente” mi sembra una cosa brutale perché ho delle radici profondissime. Per secondo, la laicità come statuto della cittadinanza. Terzo, forse un po’ polemico-­‐ siamo qui anche per fare questo -­‐ l’ambiguità del concetto che, però, ieri sera non è mai stato detto, il concetto di “non negoziabilità dei valori”, un punto critico, su cui anche la differenza tra Cesare e Dio sta china un po’. 1. «Etsi Deus non daretur» Per il credente, il riferimento a Dio, al Dio della religione cui appartiene, è parte costitutiva della sua visione della vita, della sua idea di natura umana ed è fondativo dei diritti. Per il laico, invece, la questione di Dio rimane aperta ed enigmatica e, quindi, la determinazione delle regole del comportamento morale e la fondazione dei diritti prescinde da ogni riferimento a Dio. Questa posizione può essere sinteticamente espressa nella necessità per il laico di agire «etsi Deus non daretur» che si può tradurre «come se e anche se Dio non ci fosse». Io sono affezionato a questa forma. Non è una dichiarazione circa l’esistenza o inesistenza di Dio, come talvolta lasciano intendere anche alcuni laici, ma è un postulato di ordine etico. È la rivendicazione dell’autonomia e della responsabilità morale dell’uomo e della donna davanti a un Dio che si astiene dal parlare direttamente, (a me fa un po’ paura di parlare continuamente di Dio così. ”Non abusare di Dio” ho scritto una volta un libretto), oppure che parla attraverso un ceto di interpreti professionali autorizzati a rappresentarne l’autorità. Non si tratta di disconoscere l’immenso valore culturale e morale che il riferimento a Dio creatore e legislatore ha svolto storicamente nel corso dell’umanizzazione e della civilizzazione dell’uomo. Non si tratta neppure di contestare al credente la convinzione personale che i diritti fondamentali dell’uomo siano radicati nella condizione “naturale”, comunque dell’uomo creatura di Dio. Ma l’etica ha un altro appoggio che è l’autonomia della ragione o ragionevolezza, consapevole dei suoi limiti. Quando è in gioco l’etica pubblica, il laico si aspetta che a questo criterio si adeguino anche l’uomo e la donna religiosi. È una prospettiva che inquieta molti credenti, anche coloro che, riferendosi alla tradizione dell’umanesimo cristiano, ammettono in linea di principio un’autonomia di razionalità naturale dell’uomo. Senza sviluppare l’idea, il vero punto critico è l’idea di natura che probabilmente ci divide, discorso sovente problematico: cos’è la natura umana? Questa convinzione si è storicamente costruita nel mondo cristiano, ma forse meglio dire cattolico, sul postulato dell’armonia tra fede e ragione, anche se l’implicita ammissione era per il primato della fede. Su questo postulato, alla base della filosofia tomista, che rimane un punto di riferimento della dottrina cattolica, si è sviluppato nella modernità, in modo più specifico, la dottrina giusnaturalistica che riconosce i diritti umani radicati nella natura umana razionale, sia pure collegata, in qualche modo, all’idea di Dio. E qui devo fare una prima citazione inevitabile: Ugo Grozio nel suo libro Prolegomeni al De iure belli ac pacis (1632) ha inventato per la prima volta la formula «etsi Deus non daretur», con questa frase che è molto bella: «Tutto ciò che abbiamo detto sul diritto e sulle leggi avrebbe, comunque, la sua rilevanza anche se ammettessimo (cosa che non può darsi senza sommo crimine) che non ci fosse Dio o non si curasse delle faccende umane». Questa è la prima idea forza, può considerarsi la prima formulazione di stampo giusnaturalistico del «come se o anche se Dio non ci fosse». Con la secolarizzazione matura e con lo sviluppo delle scienze naturali dell’uomo, la formula viene ripresa e interpretata in maniera radicale religiosa dal teologo luterano Bonhoeffer: «L’intera nostra predicazione e teologia cristiane è costruita sull’apriori religioso dell’uomo. Il cristianesimo è sempre stata una forma, forse la vera forma, della religione. Ma quando un giorno sarà evidente che questo apriori non esiste, ma è soltanto una forma di esprimersi storicamente determinata e transitoria dell’uomo, quando cioè gli uomini diventeranno realmente non religiosi in maniera radicale cosa significherà per noi cristianesimo?» E poi prosegue: «Non possiamo essere onesti senza riconoscere che dobbiamo vivere nel mondo “etsi Deus non daretur”. Proprio questo dobbiamo riconoscere davanti a Dio. Dio stesso ci costringe a questo riconoscimento» e così via. Bonhoeffer non è andato oltre in queste affermazioni problematiche. Mi fanno un po’ sorridere i bonhoefferiani che tornano indietro all’etica. Queste cose le ha scritte in lettere avventurosamente arrivate al suo amico nel ’44 e non ha dato una risposta. Questa seconda formulazione (si pensi ai temi religiosi radicali) smentisce categoricamente il sospetto che l’«etsi Deus non daretur» nasconda un disimpegno che conduce sempre più sull’orlo dell’abisso, verso l’accantonamento totale dell’uomo. Non è affatto così. Pertanto, mi dispiace ma non regge la controproposta di comportarsi« come se Dio esistesse». È un’altra cosa. Questo invito si muove in una logica completamente diversa, elude, piuttosto, in modo maldestro la famosa scommessa di Pascal secondo la quale è più razionale o ragionevole credere in Dio che non credere. Non mi sembra una grande cosa credere per una scommessa che si auto-­‐assicura. È stato obiettato che la formula giusta potrebbe essere «etsi ecclesia non daretur». Per me va benissimo. Il problema è che gli uomini del Magistero della Chiesa, e chiedo scusa, ritengono di parlare invece, in esclusiva, in nome di Dio. Questo discorso, un po’ pungente, del «etsi Deus non daretur» si pone in una diversa prospettiva, è congruente con il concetto di democrazia laica, di etica pubblica e del ruolo della sfera pubblica dell’età cosiddetta post-­‐secolare. 2. La laicità, statuto della cittadinanza In democrazia la laicità non è un’opzione privata, non è un insieme di credenze omologo alla fede: credi o non credi, cosa credi. Ma è uno statuto della cittadinanza: tutti i cittadini, in quanto tali, sono laici. Si rovescia il ragionamento che soggiace alla domanda: tu sei laico o credente?, per partire dalla laicita quale statuto della cittadinanza. La laicità è la disponibilità a far funzionare le regole della convivenza democratica partendo dalla convinzione che la molteplicità delle visioni della vita, delle concezioni del bene della natura umana non è una disgrazia pubblica a cui ci si deve rassegnare, non è il famigerato relativismo, ma è l’essenza stessa della vita democratica. Questo è un punto dominante, perché relativismo è un’altra cosa e mancano sempre le paroleper evidenziare la differenza, perché, è chiaro, a nessuno piace essere relativista. L’assunto principale della democrazia laica consiste nel distinguere i cittadini non con il criterio della fede religiosa, ma con quello della garanzia autentica della pluralità delle visioni e degli stili morali di vita, non fermandosi a chi, limitandosi a tollerare il pluralismo, ne vanifica la sostanza trattandolo in modo opportunistico: «Poveretto, tu sei senza fede! Eh, ma vai bene, però!» La famosa marcia di cui parla Giuliano Amato, a mio avviso, una battuta infelice rispetto a questo ragionamento ma forse anche rispetto alla relazione del cardinale Ravasi. Aldilà delle buone intenzioni, si rischia di mettere in gioco i fondamenti costituzionali del sistema democratico e lo si fa anche quando, disponendo di una maggioranza parlamentare, in nome dei propri valori non negoziabili, si impone la propria visione del mondo senza preoccuparsi di contraddire, in qualche modo, lo spirito costituzionale. L’etica laica è rispettosa delle convinzioni e dei comportamenti delle donne e degli uomini che seguono le indicazioni della Chiesa. Ma, quando il credente di Chiesa si atteggia talvolta a vittima e protesta di essere discriminato nell’esercizio del suo diritto di costruire una società buona secondo i suoi criteri, dovrebbe innanzi tutto ricordare che l’edificio politico e legislativo delle società democratiche secolarizzate in cui vive non lede in nulla l’autonomia, la libertà di espressione, di pratica, di testimonianza del suo credo. Naturalmente, il credente può protestare che lui non può adagiarsi in questa situazione di fatto perché l’impegno alla diffusione della verità di cui si sente testimone è costitutivo della sua identità. Ma, replica il laico, se questa diffusione della verità non si accontenta della testimonianza evangelica e intende utilizzare gli strumenti politico-­‐istituzionali della democrazia, non può e non deve adottare nei loro riguardi un atteggiamento strumentale opportunistico. 3. Valori non negoziabili E qui arrivo al punto, probabilmente, più polemico per chi mi ascolta. Ciò accade quando la formula “non negoziabilità dei valori” da galvanizzante strategia comunicativa diventa criterio politico in generale. Nessuno contesta al cattolico il diritto di comportarsi come tale pubblicamente e di usare tutti gli strumenti democratici a sua disposizione; ma quando di fronte a norme che riguardano tutti i cittadini, la sua rivendicazione della intrattabilità dei propri valori pregiudica il diritto di altri cittadini, non è più in gioco l’utilizzo ottimale dei diritti politici ma la funzionalità stessa della vita democratica. Non voglio essere affermativo in quel che sto dicendo; soltanto, me lo chiedo. È un punto delicatissimo, tant’è vero, e qui torno al discorso che non posso sviluppare, che questa intrattabilità viene motivata dalla natura umana, cioè si introducono argomenti che non sono propriamente tecnicamente religiosi. Ciò appare contraddittorio: il punto critico di tutto rimane il concetto di natura umana che ci sta crollando addosso. Secondo me, tutto quanto ruota attorno al concetto di natura: il matrimonio, l’omosessualità, la famiglia, cioè problemi pubblicamente molto importanti in Italia. Non si usa dire ma è la natura umana; a un certo punto non c’è più la differenza tra credente e non credente. È una sfida concettuale fortissima, vecchissima ma fortissima. In democrazia non negoziabile sono soltanto i diritti fondamentali, tra i quali, al primo posto c’è la pluralità di convincimenti pubblicamente argomentati. Al pluralismo dei convincimenti, deve essere subordinato il diritto di far valere i propri valori legittimi, soggettivamente nei confronti dell’altro cittadino. Questa problematica investe la dimensione della sfera pubblica, del discorso pubblico che, come sappiamo, sono requisiti centrali per la funzionalità della democrazia contemporanea. Concordo con l’idea di Habermas, che il discorso pubblico può introdurre anche argomenti religiosi, perché no? Però, ad un certo punto, si deve fermare quando è in gioco il principio sopra enunciato. Non è casuale, l’insistenza con cui i credenti (in Italia dovremmo dire più realisticamente la Chiesa come istituzione) rivendica il diritto di avere accesso, senza restrizioni, al discorso pubblico. Ma quando, almeno alcuni uomini di Chiesa, parlano di discorso pubblico non pensano semplicemente all’utilizzo ottimale del sistema comunicativo mediale, bensì hanno in mente un’operazione strategicamente mirata, per tempi, modi e destinatari, e trasformare le loro indicazioni dottrinali in normative di legge che devono essere valide per tutti. È evidente qui l’intenzione di far coincidere la presenza nello spazio pubblico e mediatico, di cui la Chiesa in Italia non soffre, con l’aspettativa di fare valere, con strumenti di legge, le sue direttive in materia di bioetica, di politica familiare, di gestione della sessualità e sui temi scientifici di grande rilevanza culturale, come l’insegnamento qualificato della teoria dell’evoluzione nelle scuole. Parentesi grandissima che apro e che dico ai cattolici nel Cortile, un pubblico, cioè colto: vi rendete conto che la religione si sta occupando di queste cose, ma che i concetti fondamentali, Incarnazione, Redenzione, Salvezza, rimangono sullo sfondo? Mi si scusi la provocazione: Sembra esserci una de-­‐teologizzazione del messaggio pubblico; voi cosa capite della prima parte del Credo che recitate regolarmente? Voi pensate che cosa non hanno fatto i Padri per costruire il discorso teologico? È diventato irrilevante? O è irrilevante la mia domanda perché ci si preoccupa soltanto della famiglia, del sesso? La Chiesa è ridotta a fare questo? E che fine ha fatto tutto il resto? È irrilevante? Non sto offendendo, perché io sono abbastanza vecchio e, forse, avete capito, ho una formazione. Era tutta una costruzione diversa. Capisco che questo sembra fuori argomento, però mi sono concesso una parentesi piuttosto ampia e provocatoria, perché siamo nel Cortile. Tornando all’argomento, è chiaro che, in questi casi, non si tratta più di presenza attiva della Chiesa nella sfera pubblica, ma di discorso politico orientato alla deliberazione legislativa. Non saprei dire se questo è in sintonia con la cosiddetta età post-­‐secolare, e quindi, con un nuovo rapporto tra cittadini credenti e non credenti, oppure è un equivoco da correggere. Sono provocatorio, ma desidero porre domande in quanto io credo a quel che, una volta, si chiamava dialogo. Se la religione è ridotta ormai soltanto a etica sessuale o ciò che veramente sta a cuore sembra ridursi a questo, che fine fa tutto il resto? Cosa veramente sta a cuore? Questa è la vera sfida. Voglio finire con un’altra battuta. Si dice che l’età post-­‐secolare è la dimostrazione che la secolarizzazione è finita, che è stato tutto un equivoco e così via. Siete sicuri che l’età post-­‐secolare, a cui non interessa più la Teologia, non sia invece il culmine della secolarizzazione, la secolarizzazione compiuta? Poiché il problema della riproduzione e del sesso occupano una natura umana come tale, non c’è bisogno di una Rivelazione per dire ciò! Ultimo paradosso: l’età post-­‐secolare anziché essere la negazione della secolarizzazione è la sua forma ultima, compiuta, oserei dire, e provocatoria! Sono arrivato troppo sul confine, adesso qualcuno mi fulmina!