231 Capitolo 11. Bolle speculative, mispricing e

Capitolo 11. Bolle speculative, mispricing e limiti dell’arbitraggio
Nei capitoli precedenti, si è dimostrato che i prezzi di equilibrio sono determinati dai “fondamentali”
dei titoli, ovvero dal valore atteso dei flussi di cassa futuri scontati con il fattore stocastico di sconto.
Tuttavia spesso vediamo i prezzi dei titoli crescere in modo sfrenato senza che vi siano sostanziali
novità circa i loro flussi di cassa futuri, né circa le determinanti del loro fattore di sconto (per esempio
sui tassi di interesse futuri), e poi crollare improvvisamente, a volte senza un motivo preciso. In questi
casi, quindi, i prezzi dei titoli sembrano deviare in modo significativo e persistente dai “fondamentali”,
per poi improvvisamente ritornare ad essi.
Queste deviazioni crescenti dei prezzi dai fondamentali sono note come “bolle speculative”. Questi
episodi, spesso clamorosi, sono stati presenti nella storia dei mercati finanziari fin dagli albori della
loro storia, e spesso lo scoppio delle bolle speculative si è accompagnato a profonde crisi e recessioni
dell’economia reale (Paragrafo 1).
È perciò interessante chiedersi perché si sviluppino delle bolle speculative, e in che misura esse
riflettano l’irrazionalità degli investitori: come si vedrà in questo capitolo, esistono in realtà diverse
spiegazioni delle bolle speculative, alcune delle quali non sono in contrasto con l’ipotesi di razionalità
degli investitori, e altre che invece partono dall’ipotesi che almeno alcuni investitori siano irrazionali,
ma che l’influenza di quelli razionali può essere insufficiente a contrastarli (Paragrafo 2).
Quale che ne sia la causa, le bolle speculative sono fonte di rischio per gli investitori, in aggiunta a
quello intrinsecamente dovuto alla rischiosità dei fondamentali: come mostrato da Robert Shiller e da
altri economisti, i prezzi di mercato dei titoli sono caratterizzati da un’eccessiva variabilità rispetto a
quanto sarebbe giustificato dai fondamentali dei titoli stessi (Paragrafo 3).
Tuttavia, non sempre la deviazione dei prezzi dei titoli dai propri fondamentali (“mispricing”) è
caratterizzata dall’andamento esplosivo tipico delle bolle speculative: a volte vediamo i prezzi dei titoli
divergere in modo persistente dalle relazioni di arbitraggio che, come spiegato nel capitolo 8,
dovrebbero ancorarli gli uni agli altri. Secondo la teoria studiata in quel capitolo, le relazioni basate
sull’assenza di arbitraggio dovrebbero valere continuamente o tutt’al più, qualora infrante, dovrebbero
essere rapidamente restaurate dall’attività degli arbitraggisti. Invece, sorprendentemente, il mispricing
(sopravvalutazione o sottovalutazione) di un titolo rispetto a un altro può a volte durare a lungo, e
addirittura accentuarsi nel tempo prima di essere finalmente eliminato. Come vedremo, il mispricing
può protrarsi nel tempo a causa dei molteplici limiti a cui è sottoposta l’attività degli arbitraggisti: il
costo e la rischiosità delle operazioni arbitraggio; l’insufficienza del capitale degli arbitraggisti, e
quindi la loro dipendenza da capitali di finanziatori esterni che possono improvvisamente venir meno;
limiti regolamentari, come ad esempio il divieto delle vendite allo scoperto (Paragrafo 4).
231
1. Esempi famosi di bolle speculative
Le bolle speculative violano il principio dell’efficienza informativa trattato nel Capitolo 10, anche se si
tratta di una violazione diversa rispetto a quella dovuta alla prevedibilità dei prezzi dei titoli: infatti
secondo tale principio, i prezzi dei titoli riflettono tutta l’informazione pubblica disponibile sui fattori
fondamentali, cosicché le bolle speculative – essendo una deviazione persistente dei prezzi dai
fondamentali – non dovrebbero esistere. Eppure negare l’esistenza delle bolle speculative appare
difficile di fronte ai numerosi episodi di aumenti molto violenti e persistenti dei prezzi dei titoli seguiti
da altrettanto spettacolari crolli, che si sono verificati almeno dal secolo XVII.
Si consideri ad esempio il famoso caso della “mania dei tulipani”, che si scatenò in Olanda all’inizio di
quel secolo: i tulipani sono stati sempre amati in Olanda, ma divennero oggetto di una folle moda
quando alcuni tipi di bulbi contrassero un virus non-fatale che faceva loro produrre tulipani con strisce
di colore bizzarre. I prezzi di questi bulbi raggiunsero prezzi sempre maggiori, e man mano che i loro
prezzi aumentavano, la gente cominciò a considerarli un impiego sempre più attraente dei propri
risparmi. Ciò a sua volta induceva ulteriori aumenti di prezzo, e attraeva sempre nuovi investitori nel
mercato. Tutti si aspettavano che l’incremento dei prezzi dei bulbi fosse inarrestabile, perché sarebbe
stato sostenuto da una passione indefinitamente crescente per questi tipi di tulipani. All’inizio del 1637,
un singolo tulipano arrivò a valere un ammontare sufficiente ad acquistare il castello di un aristocratico.
Nel solo mese di gennaio 1637, i prezzi di molti bulbi rari aumentarono di 20 volte. A quel punto, però,
come in tutti gli episodi simili, alcuni decisero che fosse meglio esser prudenti e vendere i propri bulbi.
Altri li seguirono, e i prezzi iniziarono a scendere. A questo punto altri imitarono i primi venditori, e
fecero deprimere ulteriormente i prezzi. Lo stesso processo che prima aveva gonfiato i prezzi dei bulbi
si mise in moto al contrario: come prima l’aumento dei prezzi richiamava altri compratori e così
stimolava l’ulteriore aumento dei prezzi, così ora la loro caduta seminava il panico tra i proprietari dei
bulbi e li induceva a venderli, generando un’ulteriore caduta dei prezzi. Nel mese di febbraio 1637, i
prezzi dei bulbi scesero più di quanto fossero aumentati a gennaio dello stesso anno.
Un esempio altrettanto famoso di bolla speculativa fu quella della South Sea Company che ebbe luogo
in Inghilterra nel 1720. La South Sea Company era una società per azioni creata nel 1711 con lo scopo
di commerciare con l’America del Sud, e su questi commerci aveva ottenuto dalla corona inglese il
monopolio in cambio dell’acquisto di £10.000.000 di debito pubblico. Tuttavia, all’epoca della sua
costituzione, la Gran Bretagna era coinvolta nella Guerra di Successione Spagnola, e la Spagna
controllava l’America del Sud, per cui all’epoca la South Sea Company non aveva prospettive
realistiche di mettere a frutto il suo monopolio. Tuttavia a un certo punto si cominciò a diffondere un
crescente ottimismo sulle grandi fortune che la società avrebbe potuto fare in futuro, specie dopo che la
guerra finì. Il prezzo della società crebbe quasi 10 volte nella prima metà del 1720, per poi crollare a
livelli simili a quelli precedenti nella seconda metà del 1720 e nel 1721, come mostrato dalla Figura 1.
Molti investitori che avevano deciso di entrare nel mercato dopo che la bolla era già avviata subirono
perdite ingenti. Tra loro, anche lo scienziato Isaac Newton, che resistette a lungo alla tentazione di
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investire nella South Sea Company, e infine cedette alla tentazione non molto tempo prima che la bolla
esplodesse, e da ciò concluse: “so calcolare i moti dei corpi celesti, ma non la follia della gente”.
Figura 1. Prezzo delle azioni della South Sea Company, 1717-1722
(fonte: Larry Neal, The Rise of Financial Capitalism, Cambridge University Press, 1990)
Venendo più vicini ai nostri giorni, la fine degli anni ’20 del XX secolo ha visto il boom di borsa che
ha preceduto il crollo del settembre 1929. Dal marzo 1928 al settembre 1929, i prezzi crebbero più che
nei 5 anni precedenti; le azioni di alcune società a volte aumentavano del 10% o 15% al giorno. Come
negli altri episodi, l’aumento dei prezzi richiamava folle crescenti di investitori, spesso del tutto a
digiuno di qualsiasi nozione di finanza, richiamati dalla speranza di guadagni facili. Il 2 settembre, gli
indici di borsa statunitensi raggiunsero vette che non sarebbero più state sfiorate per un quarto di
secolo. Tra il 21 e il 29 marzo del 1929 i prezzi crollarono violentemente. In particolare, il 28 ottobre
(Lunedì Nero), l’indice Dow Jones Industrial Average scese del 12,8%, e il giorno dopo (Martedì Nero)
perse un altro 12%. L’indice continuò a scendere fino a quota 200 alla fine del 1930: una caduta del
50%, che lo riportò approssimativamente ai livelli dell’inizio del 1928, come si vede nella Figura 2. E
la caduta tendenziale proseguì ancora, sia pure con occasionali riprese, fino al giugno 1932.
233
Figura 2. Dow Jones Industrial Average, 1915-1942
(fonte: WSJ Markets Data Group)
Altri episodi sono ancora più vicini a noi. Per esempio, l’esplosione dei prezzi degli immobili e delle
azioni in Giappone nel corso degli anni ’80: l’indice Nikkei crebbe del 500% nel corso della decade,
fino al punto che nel dicembre del 1989 le azioni giapponesi avevano prezzi pari a 60 volte gli utili,
mentre quelle statunitensi e britanniche valevano rispettivamente 15 e 12 volte i propri utili. La
capitalizzazione della borsa di Tokio era pari a una volta e mezzo quella di tutte le borse statunitensi.
Similmente, il prezzo degli immobili era cresciuto tanto che nel 1990 il valore complessivo degli
immobili e della terra in Giappone era pari a 5 volte quello degli Stati Uniti. La Banca del Giappone si
convinse che era in corso una pericolosa bolla, sostenuta dalla grande disponibilità di credito, e decise
di arrestarla alzando i tassi di interesse e restringendo il credito. L’esito fu un crollo dei prezzi di borsa
e degli immobili: l’indice Nikkei scese del 63% tra la fine del 1980 e metà agosto del 1992. Le perdite
che le banche subirono, soprattutto per effetto del crollo dei prezzi degli immobili accettati in garanzia
dei propri prestiti, le lasciarono sottocapitalizzate e incapaci di espandere nuovamente il credito,
portando a una stagnazione più che ventennale dell’economia giapponese.
Un altro episodio, ancora più recente, è quello della bolla immobiliare statunitense associata con
l’espansione dei cosiddetti subprime loans tra il 2000 e il 2007, cioè i prestiti fatti a famiglie con
elevata probabilità di insolvenza (in contrasto con i prime loans, cioè i prestiti a creditori sicuri). Il
diagramma della Figura 3 mostra l’andamento del prezzo di una tipica casa unifamiliare statunitense, al
netto dell’inflazione: nel 1999 il prezzo reale medio delle case era pari a quello di un secolo prima, ma
tra il 2000 e il 2007 è raddoppiato, in buona misura a causa dell’incremento del credito immobiliare,
234
esteso in misura sempre più generosa anche a creditori rischiosi (subprime loans, appunto). Tale
aumento del credito è stato il risultato di una politica monetaria molto espansiva (con tassi di interesse
tenuti bassi a lungo) e della capacità delle banche commerciali di rifinanziarsi cartolarizzando i crediti
già erogati e vendendoli a banche di investimento o altre istituzioni finanziarie (la cosiddetta
securitization).
Figura 3. Indice Case-Shiller dei prezzi delle case negli Stati Uniti al netto dell’inflazione, 18902010 (fonte: Burton Malkiel, “Bubbles in Asset Prices”, CEPS Working Paper n. 200, 2010)
Non appena la Federal Reserve, alla fine del 2007, aumentò il Federal Funds rate, cioè il tasso di
riferimento della politica monetaria, i prezzi delle case cominciarono a scendere, e già intorno alla metà
del 2009 avevano perso oltre un terzo del loro valore. Rendendosi conto che il prezzo delle case da loro
acquistate a credito era ormai inferiore al valore del loro mutuo, molte famiglie preferirono dichiararsi
insolventi e restituire la casa alle banche che le avevano finanziate. Man mano che tali mutui
diventavano inesigibili, il valore dei titoli prodotti con la cartolarizzazione di questi mutui crollò,
causando ingenti perdite alle istituzioni che li avevano acquistati, in particolare le maggiori banche di
investimento. Essendo queste istituzioni fortemente indebitate, esse stesse entrarono in crisi, come
mostrato dal fallimento di Lehman Brothers – una delle maggiori banche di investimento del mondo –
nel settembre 2008. L’esplosione della bolla portò alla crisi dell’intero sistema finanziario, e questa a
una profonda recessione economica, come già era avvenuto nella grande crisi del 1929 e nella crisi
giapponese del 1990.
235
2. Cosa determina le bolle speculative?
Visto che l’evidenza storica ed econometrica è coerente con l’idea che a volte i prezzi dei titoli siano
determinati da bolle speculative invece che dai loro fondamentali, vale la pena chiedersi cosa determini
l’insorgere delle bolle speculative. Gli economisti hanno proposto una varietà di modelli per spiegarle,
alcuni basati sull’idea che comunque gli investitori siano razionali, e altri sull’idea che almeno alcuni di
loro si comportino in modo irrazionale.
2.1. Bolle con investitori razionali
Può apparire sorprendente che le bolle speculative possano essere compatibili con l’ipotesi di
razionalità degli investitori, ma sotto alcune condizioni ciò è possibile. Si parla in tal caso di “bolle
razionali”. Si consideri l’equazione fondamentale di valutazione dei titoli, che come si è visto nel
capitolo 10 si ottiene dalla condizione di primo ordine degli investitori:
.
(1)
Per semplicità, supponiamo che gli investitori siano indifferenti al rischio, cosicché u '( ct +1 ) e u '( ct )
sono pari alla stessa costante, e m t +1= β= 1 / (1 + r f ) , per cui l’equazione (1) diventa
=
pt Et  β ( dt +1 + p t +1 )  ,
(2)
in ogni data t. Risolvendo quest’equazione alle differenze in avanti, per sostituzione di p t +1 , p t + 2 , e
usando la legge la legge delle aspettative iterate come abbiamo visto nel capitolo 10, dopo T − 1
iterazioni l’equazione (2) diventa
 T −t i

pt Et  ∑ β dt +i  + Et β T −t p T .
=


 i =1

(
)
(3)
Se il titolo ha scadenza finita, per esempio pari a T, il suo prezzo alla scadenza è pari a zero ( p T = 0 ),
perché un’azione non ha più alcun valore se in futuro non darà più dividendi. In tal caso, il prezzo del
titolo deve essere pari a quello dei suoi fondamentali, cioè il valore scontato dei suoi dividendi attesi.
Quindi nel mercato di un titolo con scadenza finita non possono esserci bolle razionali: se il prezzo
fosse inferiore al valore dei fondamentali, investitori razionali lo acquisterebbero, realizzando un
profitto, mentre nel caso opposto lo venderebbero, in entrambi i casi ottenendo un profitto atteso.
236
La cosa è diversa se il titolo non ha scadenza. In tal caso, come sappiamo, il prezzo del titolo è pari al
suo valore fondamentale v , cioè alla somma di tutti i dividendi attesi scontati, solo se oltre alla
condizione di ottimo (1) vale anche la condizione di trasversalità lim β T −t Et ( p T ) = 0 : in tal caso
T →∞
∞ i


=
pt E=
t  ∑ β d t + i  vt .
 i =1

(4)
Ma se non si impone la condizione di trasversalità, la soluzione (4) è solo una delle tante soluzioni
dell’equazione alle differenze (2). Per esempio, se nel prezzo vi è un’ulteriore componente bt che
cresce in valore atteso al tasso di interesse:
(
bt =
b Et bt +1
)
(
)
1
⇔ Et bt +1 =
bt =
(1 + r f )bt ,
b
(5)
si ottiene un’altra espressione del prezzo:
∞

pt = Et  ∑ b i dt +i  + bt = vt + bt ,


 i =1

(6)
che anch’essa è una soluzione dell’equazione (2). Per vederlo, si noti che per definizione
vt ≡ β  Et ( dt +1 ) + Et ( vt +1 )  . Quindi, se vale la (6), abbiamo
pt= b  Et ( dt +1 ) + Et ( vt +1 )  + bt
 Et ( dt +1 ) + Et ( vt +1 )  + Et bt +1
= bb
= b  Et ( dt +1 + p t +1 ) 
(
)
dove nel secondo passaggio abbiamo utilizzato la definizione (5) di bt , e nel terzo abbiamo applicato
l’espressione (6) al prezzo del periodo t+1. Ciò dimostra che anche l’espressione (6) è una soluzione
dell’equazione (2), e quindi che il prezzo di mercato può deviare dal suo valore fondamentale senza
violare la condizione di ottimo degli investitori, purché il valore atteso della bolla cresca
indefinitamente nel tempo a un tasso pari al tasso di interesse.
Si potrebbe obiettare che la deviazione tra prezzo e valore fondamentale dovuta alla variabile bt ha un
comportamento molto diverso da quello delle bolle descritte nel paragrafo 1, che sono tutte
caratterizzate da un’eccessiva e protratta crescita del prezzo poi seguita da un improvviso crollo, cioè lo
“scoppio della bolla”. Questa obiezione sarebbe appropriata se la variabile bt fosse deterministica e
quindi crescesse a un tasso costante pari al tasso di interesse: bt +1= (1 + r f )bt . Tuttavia va notato che
in questo modello la variabile bt +1 è aleatoria: l’andamento futuro della bolla non è noto in anticipo, e
237
quindi può avere un andamento simile a quelli osservati nella realtà. Per esempio, Blanchard e Watson
(1982) 1 hanno suggerito il seguente esempio, in cui la bolla può assumere due valori, il primo che
corrisponde alla prosecuzione della bolla e il secondo al suo scoppio:
 1
 bt

bt +1 =  pb
µ
 t +1
con probabilità p ,
con probabilità 1 − p ,
dove Et ( µt +1 ) = 0 . Come si vede, in valore atteso la bolla cresce a un tasso pari al tasso di interesse:
(
)
1
bt + (1 − )Et ( µt +1 ) = (1 + r f )bt ,
Et bt +1 = ππ
πb
ma non in modo deterministico: essa continua a crescere con probabilità π , e scoppia con probabilità
1 − π . Fin quando la bolla dura, il tasso di crescita è superiore al tasso di interesse, per compensare gli
investitori per il rischio dello scoppio della bolla: il rendimento del titolo durante la bolla è pari a
(1 + r f ) / πππ
− 1 = r f + (1 + r f )(1 − ) / > r f . Questo esempio può essere esteso per cogliere un altro
aspetto delle bolle, cioè la tendenza del prezzo ad accelerare man mano che la bolla prosegue: se la
probabilità che la bolla prosegua, π , diventa minore via via che la bolla prosegue (o, equivalentemente,
si riduce al crescere della deviazione del prezzo dai fondamentali), l’apprezzamento del titolo accelera
nella fase finale della bolla, quando è maggiore la probabilità che essa scoppi.
La bolla può anche esser legata all’evoluzione dei fondamentali. Per esempio, si consideri una società
che produce armamenti, il cui dividendo è pari a 1 per periodo in tempo di guerra e 0 in tempo di pace.
Supponiamo che, una volta che scoppia una guerra, essa prosegua con probabilità π e finisca per
sempre con probabilità 1 − π , cosicché il valore fondamentale delle azioni della società è
∞ i
 ∞ i i
1
.
vt Et  ∑ β=
dt +i  ∑
βπ
=
=


1
βπ
−
=
 i 1=
 i 1
Durante la guerra, il valore fondamentale delle azioni della società si mantiene costante a questo valore,
ma si può sviluppare una bolla a causa dell’aspettativa di futuri aumenti di prezzo delle sue azioni
finché la guerra dura. Per esempio, supponiamo che se la guerra inizia nel periodo 0, la bolla in quel
periodo è pari a b0 e in ogni periodo successivo è
 1
b =  pb bt
t +1
0

se c'è guerra nel periodo t + 1,
se c'è pace nel periodo t + 1.
1
Olivier J. Blanchard e Mark W. Watson, “Bubbles, Rational Expectations, and Financial Markets,” in Crisis in the
Economic and Financial Structure, a cura di Paul Wachtel, Lexington, 1982, pp. 295-315.
238
Quindi il prezzo p=
t vt + bt aumenterà in misura pari a b0 allo scoppio della guerra, continuerà a
crescere finché la guerra dura, e poi crollerà (tornando al valore fondamentale) appena la guerra finisce.
Fino a questo punto abbiamo fatto varie ipotesi semplificatrici. In primo luogo, abbiamo supposto che
gli investitori siano indifferenti al rischio. Tuttavia il modello può essere esteso al caso in cui essi sono
avversi al rischio: questo caso è lasciato come un esercizio (esercizio 1 alla fine di questo capitolo).
Abbiamo anche supposto che tutti gli investitori abbiano le stesse informazioni, cosicché hanno tutti le
stesse aspettative condizionate dei prezzi e dividendi futuri, e anche riguardo all’evoluzione futura della
bolla. Invece può accadere che diversi gruppi di investitori abbiano diversi insiemi di informazioni. Per
esempio, alcuni sono consci che è in corso una bolla speculativa mentre altri non lo sono. Oppure tutti
sanno che è in atto una bolla, non tutti sanno che anche gli altri investitori lo sanno. In quest’ultimo
caso, una bolla speculativa può svilupparsi perfino se il titolo ha scadenza finita, se gli investitori
restano imperfettamente informati anche dopo aver osservato i prezzi e gli scambi sul mercato (cioè il
prezzo non rivela completamente le informazioni di tutti), se non è possibile vendere allo scoperto il
titolo in ogni circostanza, e se gli investitori si aspettano di guadagnare anche sapendo di acquistare un
titolo sopravvalutato. Per esempio, un gestore di un fondo di investimento può guadagnare
dall’acquisto di un titolo sopravvalutato, se in tal modo riesce a convincere i suoi clienti di avere
informazioni migliori degli altri investitori, oppure se il suo compenso è legato all’andamento del
portafoglio amministrato, ma egli non risponde con il suo patrimonio personale in caso di forti perdite,
essendo protetto dalla responsabilità limitata.
2.2. Bolle con (alcuni) investitori irrazionali
Un numero crescente di economisti sostiene che i modelli delle bolle razionali analizzati finora sono
insufficienti a coglierne aspetti importanti. Questa linea di ricerca, che va sotto il nome di “finanza
comportamentale” (behavioral finance), si basa sull’idea che un elemento chiave nella formazione
delle bolle e nel loro scoppio finale è dato dalla presenza di un gruppo di investitori irrazionali (o
almeno non completamente razionali) le cui decisioni di investimento sono guidate da un meccanismo
di retroazione (feedback): un aumento del prezzo di un titolo li porta a entusiasmarsi, spingendoli ad
accrescere la domanda del titolo, così causando ulteriori rialzi del suo prezzo, che attizza ulteriormente
il loro entusiasmo, e così via. La loro elevata domanda è sostenuta dal ricordo degli elevati rendimenti
recenti del titolo e/o dall’ottimismo sui flussi di cassa futuri che esso potrà generare. Poiché però gli
incrementi di prezzo che non sono giustificati dai fondamentali del titolo non possono esser sostenuti
indefinitamente, prima o poi il meccanismo di retroazione positivo viene sostituito da un meccanismo
di retroazione negativo, che conduce la bolla a scoppiare.
Questa interpretazione delle bolle fa però sorgere un’ovvia domanda: se, oltre a questi investitori
irrazionali, ce ne sono anche almeno alcuni razionali, come mai questi ultimi non si oppongono alla
bolla speculando in senso opposto agli altri, per esempio vendendo allo scoperto il titolo che essi
239
considerano giustamente sopravvalutato dal mercato? Se così fosse, essi dovrebbero addirittura
stroncare la bolla sul nascere, per cui non dovremmo osservare bolle speculative. La risposta che è stata
data di recente a questa domanda è che esistono “limiti all’arbitraggio”, cioè all’azione con cui gli
investitori razionali possono speculare contro una bolla. Tali limiti hanno tre possibili motivazioni:
1) Una prima ragione per cui gli investitori razionali possono voler limitare la propria attività
speculativa contro una bolla è il rischio del valore fondamentale dei titoli: questo tipo di attività
speculativa espone gli speculatori razionali al rischio. In tal senso, non si tratta di un vero e proprio
arbitraggio, sebbene somigli ad esso perché si propone di eliminare la sopravvalutazione di un
titolo. Per esempio, se il valore fondamentale del titolo dovesse crescere inaspettatamente oltre il
valore della bolla, un investitore che ha venduto il titolo allo scoperto subirebbe perdite ingenti.
2) Gli investitori razionali devono sopportare anche il rischio derivante dalla bolla stessa, e
specificamente dalle impennate impreviste del valore del titolo derivanti dalle ondate di acquisti da
parte degli investitori irrazionali (noise trader risk), come evidenziato da DeLong, Shleifer,
Summers e Waldmann (1990). 2 Ovviamente questo non sarebbe un problema se, in presenza di
una sopravvalutazione del titolo, gli investitori razionali potessero evitare di liquidare le proprie
posizioni scoperte sul titolo. Tuttavia, è raro che uno speculatore possa mantenere le proprie
posizioni speculative aperte per molto tempo. Più spesso, gli speculatori hanno un orizzonte
temporale breve, anche perché in presenza di perdite possono esser costretti a liquidare le proprie
posizioni dai propri finanziatori: per esempio, i gestori di fondi sanno che in presenza di perdite i
loro fondi subiranno un deflusso di investitori, oppure possono vedersi costretti dalle banche che
hanno finanziato le loro strategie a restituire tali crediti. Quindi un inatteso aumento della
sopravvalutazione di un titolo, infliggendo perdite agli speculatori razionali, può costringerli a
liquidare le proprie posizioni nel momento peggiore, prima che la bolla sia scoppiata. Questo
pericolo ovviamente tende a limitare la loro attività speculativa contro la bolla, come mostrato dal
modello dei “limiti dell’arbitraggio” di Shleifer e Vishny (1997), 3 di cui il paragrafo 4 di questo
capitolo presenta una versione semplificata.
3) Gli investitori razionali sono esposti anche a un rischio di sincronizzazione: è difficile che un
singolo speculatore riesca a sconfiggere una bolla, perché ciò potrebbe richiedere aprire posizioni
speculative molto grandi e quindi molto rischiose, come appena spiegato. Perciò, per riportare il
prezzo di mercato verso il valore fondamentale del titolo, in genere è necessario che un numero
sufficiente di speculatori riesca a coordinare le proprie azioni: ogni speculatore cercherà di
prevedere quando gli altri partiranno all’attacco della bolla. Ma capire quale sia il momento giusto
non è in generale facile, e ciò può limitare l’attività di ciascuno speculatore, o addirittura spingere
2
J. Bradford De Long, Andrei Shleifer, Lawrence H. Summers e Robert J. Waldmann. “Noise Trader Risk in Financial
Markets”, Journal of Political Economy, volume 98, numero 4, pp. 703-738, agosto 1990.
3
Andrei Shleifer e Robert W. Vishny, “The Limits of Arbitrage”, Journal of Finance, volume 52, numero 1, pp. 35-55,
marzo 1997.
240
alcuni di loro ad assecondare la bolla piuttosto che attaccarla, come mostrato da Abreu e
Brunnermeier (2003). 4 Ovviamente, se invece gli investitori razionali riescono a trovare il modo di
coordinarsi, anche sulla base dell’annuncio di una notizia apparentemente di scarsa rilevanza, essi
possono far scoppiare la bolla con relativa facilità. Questo contribuisce a spiegare come mai a volte
le bolle scoppiano in assenza di notizie importanti o sorprendenti.
3. Bolle speculative e variabilità dei prezzi delle azioni
Gli esempi descritti nel paragrafo 1 suggeriscono che le bolle speculative tendono a generare una
variabilità dei prezzi delle azioni superiore a quella dei fondamentali. La domanda è se questo sia vero
in generale, oppure se questo accada solo in specifici episodi. Il primo studio in cui si è cercato di dar
risposta a questa domanda è quello di Shiller (1981). 5
In questo studio, Shiller parte dall’osservazione che se il prezzo delle azioni pt è pari al valore atteso
della somma dei dividendi scontati, come previsto dall’equazione (4) sotto l’ipotesi di indifferenza al
rischio, allora la variabilità di tale prezzo non dovrebbe superare la variabilità di quello che egli
definisce come “prezzo razionale ex post”, ovvero la somma dei dividendi scontati effettivamente
realizzati fino a una qualche data T:
=
pt*
T −t
∑ β i dt +i + β T pT .
(7)
i =1
Questo prezzo razionale ex post pt* deve obbedire alla relazione:
(
=
pt* β pt*+1 + d t +1
)
dove β è il fattore di sconto. Si noti però che il prezzo razionale ex post è una delle possibili
realizzazioni del prezzo (razionale ex ante) pt dell’equazione (4). Quindi, se gli investitori sono
razionali, il prezzo di mercato è il valore atteso del prezzo razionale ex post:
pt = Et ( pt* ) ,
(8)
*
cosicché il prezzo razionale ex post p=
pt + ut , dove ut è l’errore di previsione. Se la previsione
t
nella (8) è formata razionalmente, il prezzo pt non sarà correlato con l’errore di previsione, cioè
cov( pt , ut ) = 0 , per cui la sua varianza sarà:
4
Dilip Abreu e Markus K. Brunnermeier, “Synchronization Risk and Delayed Arbitrage”, Journal of Financial Economics,
volume 66, pp. 341-360, 2002.
5
Robert J. Shiller, “Do Stock Prices Move Too Much to be Justified by Subsequent Changes in Dividends?,” American
Economic Review, volume 71, numero 3, pp. 421-36, giugno 1981.
241
var( pt* ) = var( pt ) + var(ut ) .
(9)
In altri termini, il prezzo realizzato ex post deve essere più variabile di quello effettivo.
Per verificare tale predizione, Shiller costruisce una serie storica del prezzo razionale ex post pt* sulla
base dei dividendi realizzati. Uno dei grafici da lui prodotti è riportato nella Figura 4. La linea continua
indicata con p è lo Standard and Poor Composite Stock Price Index, mentre la linea tratteggiata
indicata con p* è il prezzo razionale ex post, dal 1871 al 1979. Entrambe le serie sono depurate della
loro crescita tendenziale (trend) dividendole per il loro fattore di crescita di lungo periodo. La variabile
p* è il valore scontato dei dividendi effettivamente realizzatisi in seguito, depurati del trend.
Chiaramente, la serie dei prezzi effettivi ha una volatilità molto maggiore di quelli razionali ex post,
contrariamente a quanto previsto dalla (9). Shiller attribuisce questo eccesso di volatilità dei prezzi dei
titoli a ondate irrazionali di ottimismo (mode) e di pessimismo (panico) che li fanno deviare dal loro
valore fondamentale, tra cui episodi di bolle speculative.
Figura 4. Prezzi azionari effettivi e prezzi razionali ex post, 1871-1979
(fonte: Figura 1 in Shiller (1981))
242
L’articolo di Shiller (1981) è stato seguito da molti altri studi, anch’essi basati sull’idea che l’equazione
fondamentale di valutazione dei titoli comporta un limite massimo alla volatilità dei prezzi di equilibrio
(volatility bounds). Molti di questi studi – anche se non tutti – confermano la conclusione di Shiller
che i prezzi di mercato tendono spesso a deviare dai loro fondamentali, il che rivela la presenza di bolle
speculative o di altre forme di sopravvalutazione o sottovalutazione (mispricing) dei titoli.
4. Mispricing e limiti dell’arbitraggio
Come si è visto nel Capitolo 8, l’assenza di arbitraggio è un cardine della teoria della finanza: due titoli
con lo stesso flusso di pagamento devono avere lo stesso prezzo. Tuttavia, nella realtà accade a volte
che questo principio sia violato, cioè accade che vi sia mispricing (sopravvalutazione o
sottovalutazione) di uno dei due titoli.
Consideriamo ad esempio il mercato dei titoli di Stato negli Stati Uniti, in cui esistono sia Buoni
ordinari del Tesoro (BoT, lì denominati Treasury bills), che sono titoli a breve scadenza, sia Certificati
del Tesoro con cedola zero e lunga scadenza (CTZ, in inglese denominati Treasury notes). Entrambi i
tipi di titoli sono privi di cedole, per cui l’intero valore di rimborso è pagato alla scadenza, e presentano
lo stesso rischio di insolvenza, essendo entrambi emessi dal governo statunitense. Ovviamente in ogni
dato momento buona parte dei due tipi di titoli in circolazione hanno diversa vita residua, ma vi sono
anche BoT e CTZ con la stessa vita residua e lo stesso valore di rimborso. Data la loro omogeneità in
termini di rischio e flusso di cassa, il principio dell’arbitraggio dovrebbe far sì che in un mondo senza
frizioni (come costi di transazione o asimmetrie informative) essi siano venduti o acquistati allo stesso
prezzo per unità di valore di rimborso. Amihud e Mendelson (1991) invece mostrano che negli Stati
Uniti il prezzo dei CTZ è tipicamente minore di quello dei BoT con identica vita residua; in media,
considerato un campione con vita residua media di circa 95 giorni, il rendimento annuale dei primi
eccede quello dei secondi di 43 punti base. 6 Gli elevati profitti che potrebbero essere ottenuti creando
portafogli di arbitraggio tra questi due tipi di titoli dovrebbe spingere gli speculatori ad acquistare CTZ
e vendere BoT fino ad azzerare la differenza di prezzo. Perché ciò non accade?
Uno dei motivi per cui la differenza di prezzo persiste nel tempo sta nel fatto che gli arbitraggisti
potrebbero non avere ricchezza sufficiente per sfruttare questa opportunità. In tal caso, essi possono
prendere a prestito, ma se poi dovessero esser chiamati a restituire il prestito prima del previsto e non
trovassero fonti alternative di finanziamento, sarebbero costretti liquidare il proprio portafoglio di
arbitraggio prima che il CTZ giunga a scadenza. In tal caso, essi potrebbero subire delle perdite se al
momento della liquidazione la sottovalutazione dei CTZ rispetto ai BoT si fosse accentuata. Nel
6
I Treasury notes sono meno liquidi dei Treasury bills: si veda Yakov Amihud e Haim Mendelson, “Liquidity, Maturity,
and the Yields on U.S. Treasury Securities”, Journal of Finance 46, 1991, pp. 1411-1425.
243
peggiore scenario possibile, gli investitori potrebbero essere costretti a liquidare la posizione proprio
quando la sottovalutazione dei CTZ è massima, e quindi quando le perdite in caso di liquidazione
prematura del portafoglio sono anch’esse massime.
È importante capire che in pratica per sfruttare le opportunità di arbitraggio occorre avere a
disposizione somme di denaro da investire. Per esempio, supponiamo che nel mercato vi siano CTZ
con un prezzo pari al 95% di quello dei BoT con la stessa scadenza; l’ovvia strategia di arbitraggio è
vendere allo scoperto BoT (per esempio, €100.000) e usare il ricavato per acquistare CTZ (per
€95.000). Come sappiamo, la differenza (€5.000) è il profitto di arbitraggio. Nella realtà, completare
quest’operazione richiede denaro: negli Stati Uniti, ad esempio, per vendere allo scoperto dei titoli (nel
nostro esempio, BoT) un arbitraggista deve prenderli a prestito da un broker, il quale chiede come
garanzia un margine pari al 150% del valore della vendita (nel nostro esempio, €150.000); da questo
esborso, bisogna detrarre il profitto dell’operazione di arbitraggio: l’arbitraggista spende €95.000 per
l’acquisto dei CTZ, ma incassa €100.000 dalla vendita allo scoperto, quindi guadagna €5.000. In
definitiva, il capitale complessivo necessario per l’operazione è pari a €145.000 (cioè €150.000 come
margine da dare in garanzia meno €5.000 di profitto): una somma ingente, a confronto con un profitto
di arbitraggio di soli €5.000!
Se si dispone di risorse limitate, quindi, l’arbitraggio richiede che si attinga a finanziamenti esterni, e se
questi sono nella forma di debito a breve scadenza, gli arbitraggisti corrono il rischio di non riuscire a
rifinanziare la loro posizione. Per evitare questo rischio, si può cercare di ottenere finanziamenti a
lungo termine con patti vincolanti (lock-up covenants): ciò impedisce ai finanziatori di chiedere la
restituzione delle somme prestate prima di un periodo minimo garantito. Infatti i fondi altamente
speculativi detti hedge funds generalmente raccolgono denaro in cambio di quote di partecipazione che
possono essere rimborsate al valore di mercato solo dopo un periodo minimo, detto di lock-up.
Tuttavia, in genere chi finanzia operazioni speculative preferisce farlo con credito a breve termine,
perché ciò consente ai finanziatori di controllare più facilmente l’utilizzo dei propri fondi e il
comportamento degli arbitraggisti: se i risultati ottenuti non sono quelli sperati, i finanziatori esterni
possono decidere di ritirare o ridurre le somme investite. Questo tipo di “minaccia” può infatti
disciplinare i comportamenti degli speculatori, che cercheranno perciò di evitare scelte troppo
rischiose. Un finanziatore può preferire dare un prestito a breve scadenza anche perché non si fida
completamente delle scelte degli investitori finanziati: in tal modo, nel corso del rapporto, il
finanziatore potrà decidere se e quanto modificare il capitale investito, a seconda di come cambia la sua
fiducia nei confronti dell’arbitraggista.
Ci sono molti casi in cui il rischio di liquidazione anticipata sembra essere la ragione principale per cui
le opportunità di arbitraggio a volte persistono nel tempo. Per esempio, Rosenthal e Young (1990) 7,
7
Leonard Rosenthal e Colin Young, “The Seemingly Anomalous Price Behavior of Royal Dutch/Shell and Unilever
N.V./PLC”, Journal of Financial Economics, volume 26, pp. 123-141, 1990.
244
Froot e Dabora (1999) 8, e de Jong, Rosenthal e Van Dijk (2009) 9 hanno mostrato che spesso i
cosiddetti “titoli gemelli”, cioè quelli che generano lo stesso flusso di cassa, abbiano prezzi diversi. 10 In
particolare, de Jong, Rosenthal e Van Dijk (2009) hanno evidenziato che per cercare di sfruttare queste
differenze di prezzo si deve mantenere la propria posizione speculativa per periodi di tempo piuttosto
lunghi, esponendosi pertanto al rischio di liquidazione anticipata.
Forse l’esempio più famoso dei danni che la liquidazione anticipata può infliggere agli arbitraggisti è
dato dal collasso del fondo di investimento Long-Term Capital Management (LTCM) nel 1998. LTCM
era un hedge fund creato nel 1994 con un capitale di 1,3 miliardi di dollari: per partecipare al fondo,
ogni investitore aveva dovuto versare un capitale minimo di 1 milione di dollari, e il tempo minimo di
partecipazione era di tre anni. I primi quattro anni furono rosei. Il fondo si focalizzò principalmente su
operazioni di “market-neutral arbitrage”, ossia portafogli di arbitraggio che non comportavano rischio
sistematico ma consistevano nell’acquistare titoli illiquidi con elevato rendimento (ad esempio titoli
emessi in mercati emergenti e titoli di società con basso rating) e simultaneamente vendere allo
scoperto titoli liquidi con rendimento basso. Molte di queste posizioni di arbitraggio venivano assunte
indirettamente tramite derivati noti come “rate swaps”. LTCM scommetteva sul fatto che il
differenziale tra i rendimenti si sarebbe ridotto. L’indebitamento di LTCM divenne enorme (20 dollari
di debito per ogni dollaro di capitale sociale), cosicché persino una leggera differenza tra i rendimenti
dei due tipi di titoli si traduceva in grossi profitti.
Nella primavera del 1998, tuttavia, il divario tra i rendimenti dei titoli illiquidi e quelli liquidi aumentò,
invece di ridursi, in seguito alla crisi finanziaria in Asia Meridionale e Russia. La situazione peggiorò
ancor più ad agosto, quando la Russia svalutò il rublo e dichiarò una moratoria sui pagamenti del
proprio debito pubblico. A settembre, il differenziale dell’indice di JP Morgan dei titoli a reddito fisso
dei mercati emergenti rispetto a quelli statunitensi crebbe di più di 17 punti percentuali,
quintuplicandosi rispetto all’ottobre 1997. Anche il differenziale tra i rendimenti delle obbligazioni
societarie ad alto rischio rispetto ai tassi dei titoli di Stato statunitensi aumentò di cinque volte in quel
periodo. LTCM iniziò ad avere grosse perdite, e dovette ridurre il valore del capitale a 600 milioni di
dollari a settembre (a partire da 4,8 miliardi all’inizio del 1998). Stessi problemi ebbero anche altri
fondi di investimento che avevano adottato le stesse strategie: la pressione per far fronte alle richieste
di copertura finanziaria e garanzie aggiuntive fatte dai creditori e dalle controparti nei contratti sui
derivati costrinse gli arbitraggisti a dover liquidare anticipatamente molte delle proprie posizioni, così
incorrendo in ingenti perdite di capitale.
8
Kenneth Froot e Richard Roll, “Stock Return Variances: The Arrival of Information and the Reaction of Traders”,
Journal of Financial Economics, volume 17, pp. 5-26, 1986.
9
Abe de Jong, Leonard Rosenthal e Mathijs A. Van Dijk, “The risk and return of arbitrage in dual-listed companies”,
Review of Finance 13, pp. 495-520, 2009.
10
I titoli “gemelli” vengono immessi nel mercato da società per azioni con distinti capitali azionari e quotate su mercati
diversi (“dually listed companies”) che però hanno lo stesso attivo patrimoniale.
245
Per paura di dover affrontare una spirale di crolli dei prezzi dei titoli e di fallimenti bancari, la Federal
Reserve riuscì a convincere i principali creditori di LTCM a investire oltre 3,6 miliardi di dollari nel
fondo in cambio di una partecipazione del 90% al capitale sociale. Nei mesi successivi LTCM fu
liquidato. La sequenza di eventi appena riportata offre un esempio concreto del rischio congiunto di
mancata convergenza dei prezzi e di liquidazione forzata per un arbitraggista: LTCM lucrava sulle
differenze di rendimento presenti sui mercati ma allo stesso tempo era molto esposto al rischio di
liquidazione forzata. La differenza nei rendimenti non si azzerò così facilmente come LTCM
prevedeva. La crisi incrementò la volatilità dei titoli e ridusse i fondi disponibili per le attività di
arbitraggio, dando a LTCM il colpo di grazia. Nel paragrafo seguente, vedremo che proprio questo
rischio di liquidazione anticipata può trasformarsi, ex ante, in un deterrente all’arbitraggio.
4.1 Rischio di liquidazione anticipata come limite all’arbitraggio
Consideriamo il seguente modello, in linea con quello sviluppato da Shleifer e Vishny (1997). 11 Vi
sono tre periodi (0, 1 e 2) e due obbligazioni senza cedola (A e B) con lo stesso pagamento finale V nel
periodo 2. Il tasso d’interesse privo di rischio è zero, cosicché in assenza di opportunità di arbitraggio il
prezzo dei due titoli sarebbe lo stesso e pari a V sia nel periodo 0 che nel periodo 1.
Immaginiamo che nel periodo 0 si presenti un’opportunità di arbitraggio: il prezzo del titolo A risulta
più basso rispetto a quello del titolo B in misura pari a M 0 > 0 ( P=
0 A P0 B − M 0 ), mentre il titolo B è
prezzato correttamente ( P0B = V ). In altri termini, il titolo A è sottovalutato e la misura del suo
mispricing nel periodo 0 è data proprio da M 0 . Nel periodo 1, il mispricing aumenta a M1 > M 0 (con
probabilità k) oppure scompare (con probabilità 1 − k ). Nel primo caso, il prezzo del titolo A scende al
livello P=
1 A P1B − M 1 , allontanandosi ancor più dal suo valore fondamentale V; nel secondo caso,
invece, esso converge a V (nel prossimo paragrafo spiegheremo perché il mispricing può perdurare e
anche crescere nel tempo). Nel periodo 2, il titolo B genera il pagamento finale V, per cui il suo prezzo
converge al suo valore fondamentale, e quindi al prezzo del titolo A: P=
2 A P=
2 B V con certezza.
Il processo di convergenza verso lo stesso prezzo avviene proprio attraverso operazioni di arbitraggio,
ossia vendendo allo scoperto il titolo B e acquistando il titolo A. 12 Nel nostro modello gli investitori
possono scegliere se costruire il loro portafoglio di arbitraggio nel periodo 0 o nel periodo 1. Definiamo
con I t = {0,1} la funzione che indica la decisione di intervenire nel periodo t, per cui se I 0 = 1 ,
l’arbitraggista vende un’unità del titolo B e compra un’unità del titolo A nel periodo 0; se I1 = 1 ,
invece, egli attua la stessa operazione nel periodo 1. L’arbitraggista può anche decidere di non attuare
mai operazioni ( I =
0 I=
1 0 ), ma non può essere attivo in entrambi i periodi: se interviene nel periodo 0
11
Andrei Shleifer e Robert W. Vishny (1997), “The limits of arbitrage”, Journal of Finance 52, 35-55.
12
L’operazione di arbitraggio che si basa sulla convergenza di prezzo di due titoli identici o almeno con fondamentali
correlati viene anche chiamato convergence trading.
246
( I 0 = 1 ), allora non può farlo nuovamente nel periodo 1 ( I1 = 0 ); solo se non è intervenuto nel primo
periodo ( I 0 = 0 ), potrà farlo nel secondo ( I1 = 1 ). Inoltre, se decide di intervenire, la scala massima del
suo portafoglio di arbitraggio è di un’unità per ciascun titolo: può comprare al massimo un’unità del
titolo A, e vendere allo scoperto al massimo un’unità del titolo B. Queste due ipotesi, che limitano
l’attività di arbitraggio di ogni speculatore, colgono i vincoli creditizi discussi in precedenza.
Supponiamo che l’arbitraggista decida di intervenire nel periodo 0. La Figura 5 mostra il flusso di
cassa generato dal suo portafoglio in ogni periodo e circostanza. Nel periodo 0, l’arbitraggista incassa
la differenza di prezzo M 0 tra il titolo A che egli acquista e il titolo B che vende allo scoperto. Nel
periodo 1, con probabilità 1 − k questa differenza scompare, cosicché egli chiude la propria posizione;
con probabilità k invece il deprezzamento del titolo A aumenta, cosicché il valore del portafoglio di
arbitraggio si riduce da 0 a M 0 − M1 < 0 . In quest’ultimo caso, con probabilità φ i finanziatori
dell’arbitraggista gli impongono di liquidare la sua posizione: se tale liquidazione forzata si verifica,
l’arbitraggista si ritrova con un flusso di cassa negativo pari a − M1 , poiché deve rivendere il titolo A al
prezzo V − M1 e ricoprire la propria posizione sul titolo B comprandolo al prezzo V. Se invece non è
costretto a liquidare, il che accade con probabilità 1 − ϕ , egli avrà un flusso di cassa nullo nei periodi 1
e 2, dato che in entrambi il guadagno netto del portafoglio di arbitraggio è zero, e quindi chiuderà la
sua posizione nel periodo 2 mantenendo intatto il suo profitto inizale M 0 . In conclusione, il profitto
atteso derivante dalla decisione di intervenire nel periodo 0 è pari a Π 0 (ϕ ) =M 0 − kϕ M1 .
Periodo 0
Periodo 1
1−κ
il prezzo del titolo
A converge a V
(flusso di cassa = 0)
I0 = 1
(flusso di
cassa = M 0 )
ϕ
κ
Periodo 2
il mispricing
aumenta a M1
1−ϕ
l’arbitraggista
liquida la sua
posizione (flusso
di cassa = − M1 )
l’arbitraggista
non liquida
l’arbitraggista
liquida la sua
posizione (flusso
di cassa = 0)
Figura 5: Azioni e flussi di cassa se l’arbitraggista interviene nel periodo 0
247
Perché mai i finanziatori possono voler imporre all’arbitraggista di liquidare la sua posizione nel
periodo 1, quando in quel periodo la divergenza del prezzo dal valore findamentale si è accresciuta?
Ciò può accadere perché essi non sanno determinare se la crescente divergenza del prezzo sia
temporanea o rifletta una perdita reale nel valore del titolo (nel qual caso l’arbitraggista avrebbe
sbagliato a scommettere sul recupero del prezzo). In questo scenario, essi costringono l’arbitraggista a
chiudere la propria posizione in perdita: il modello coglie quello che Shleifer e Vishny (1997)
definiscono “arbitraggio basato sulla performance”, cioè il fatto che l’attività di arbitraggio non può
essere proseguita se il portafoglio di arbitraggio subisce perdite troppo forti.
Immaginiamo ora che l’arbitraggista che non ha effettuato operazioni nel periodo 0 scelga di
intervenire nel periodo 1, qualora il mispricing dovesse persistere. Il flusso di cassa generato dal
portafoglio di arbitraggio in questo caso è illustrato dalla Figura 6. Per definizione, l’investitore ottiene
zero nel periodo 0. Nel periodo 1, egli ha l’opportunità di costruire un portafoglio di arbitraggio solo se
il mispricing del titolo A aumenta, guadagnando M1 con probabilità k. Se invece il mispricing
scompare, per l’arbitraggista non sarà più conveniente intervenire e il suo flusso di cassa sarà zero. Il
profitto atteso nell’ipotesi di un intervento posticipato è dunque pari a Π1 =kM1 .
Periodo 0
Periodo 1
Periodo 2
il prezzo del titolo A
converge a V, I1 = 0
1−κ
(flusso di cassa = 0)
I0 = 0
(flusso di cassa = 0)
κ
il mispricing
aumenta a M1 ,
I1 = 1 (flusso di
cassa = M1 )
l’arbitraggista
liquida la sua
posizione (flusso
di cassa = 0)
Figura 6: Azioni e flussi di cassa se l’arbitraggista interviene nel periodo 1
248
La scelta tra intervenire nel periodo 0 o nel periodo 1 dipende dal seguente trade-off: se l’arbitraggista
decide di posporre il suo intervento al periodo 1, egli ottiene un guadagno pari a M1 se il mispricing
del titolo persiste (il che accade con probabilità k), e in tal modo elude il rischio di liquidazione
anticipata. Tuttavia, adottando questa strategia rinuncia al guadagno che otterrebbe sfruttando il
deprezzamento nel periodo 0, ossia M 0 . Per cui, se kM1 > M 0 (in altri termini, se il guadagno atteso
che si ottiene intervenendo nel periodo 1 supera quello che si ottiene intervenendo nel periodo 0), tutti
gli investitori preferiranno intervenire nel periodo 1.
Se invece kM1 < M 0 , la strategia ottimale dipenderà dalla probabilità ϕ di liquidazione prematura del
debito. Attendere è ottimale se e solo se Π1 > Π 0 , ovvero se
kM1 > M 0 − kϕ M1 .
In altri termini, attendere è preferibile se il rischio di liquidazione forzata è elevato:
M − kM1
.
kM1
ϕ > ϕˆ = 0
(10)
Se presa con l’uguaglianza, questa condizione definisce la condizione di indifferenza dell’arbitraggista
tra intervenire nel periodo 0 e intervenire nel periodo 1, che è illustrata nella Figura 7.
M1
M0
κ
arbitraggio alla data 1
(evitando il rischio di liquidazione)
curva di indifferenza tra l’arbitraggio
alla data 0 e la data 1:
M0
2κ
arbitraggio alla data 0
(con rischio di liquidazione alla data 1)
ϕ =
M 0 − κ M1
κ M1
ϕ
Figura 7: Scelta tra l’arbitraggio nel periodo 0 e nel periodo 1
249
La condizione (10) indica che, se ci si aspetta che il mispricing si accresca (cioè kM1 > M 0 , cosicché
ϕˆ < 0 ), l’arbitraggista preferirà sempre attendere, anche se il rischio ϕ di liquidazione forzata fosse
minimo. Ma anche quando egli si attende che il mispricing si ridurrà in valore atteso ( kM1 < M 0 ),
l’arbitraggista preferirà posporre il suo intervento se la probabilità φ di liquidazione anticipata è
sufficientemente elevata. Invece deciderà di intervenire nel periodo 0 se il rischio di liquidazione è
basso ( 0 < ϕ < ϕˆ ),
La scelta è anche legata a M1 , cioè il profitto derivante da un intervento posticipato. Anche se φ è
basso, gli investitori potrebbero voler differire l’intervento se M1 è sufficientemente elevato. Quindi il
livello di rischio 𝜑� che rende lo speculatore finanziario indifferente tra intervenire o meno nel periodo
0 si riduce all’aumentare di M1 , come mostra la Figura 7. Nella parte in grigio al di sopra della curva
di indifferenza 𝜑�, il rischio di liquidazione e/o il futuro deprezzamento del titolo sono elevati e gli
arbitraggisti preferiranno posticipare l’intervento. Al di sotto di essa, gli speculatori preferiranno agire
subito.
4.2 Capitale speculativo limitato come barriera all’arbitraggio
Fino a questo momento abbiamo considerato il mispricing del titolo A come una variabile esogena, sia
nel periodo 0 che nel periodo 1. Ma in realtà esso stesso può essere influenzato dalle operazioni di
arbitraggio messe in campo dagli arbitraggisti, in quanto queste operazioni tendono a correggere gli
shocks nell’offerta o nella domanda del titolo che determinano lo scostamento del prezzo dal valore
fondamentale del titolo. Tuttavia, se la capacità di “assorbimento” di tali shocks da parte degli
arbitraggisti è limitata, le opportunità di arbitraggio possono persistere nel tempo.
In questo paragrafo, dimostreremo ciò trattando il mispricing nel periodo 1, M1 , come una variabile
endogena anziché un parametro esogeno come nel parafrafo 4.1. Intutivamente vedremo che, quanto
più elevato è il mispricing nel periodo 0 (cioè, quanto maggiore è M 0 ), tanto maggiore è il numero di
arbitraggisti che vorranno utilizzare il proprio capitale speculativo nel periodo 0, e quindi tanto meno
numerosi saranno quelli che vorranno aspettare fino al periodo 1. Quindi, se nel periodo 1 dovesse
esserci uno shock di offerta che accresce le vendite del titolo, vi saranno pochi arbitraggisti aggiuntivi
che potranno farvi fronte, il che accrescerà il mispricing nel periodo 1, M1 . In altre parole, il
mispricing tenderà a persistere nel tempo: quanto maggiore è nel periodo 0 ( M 0 elevato), tanto
maggiore esso sarà anche nel periodo 1 ( M1 elevato), se dovesse verificarsi uno shock di offerta in
quel periodo.
Da cosa nascono gli shocks di domanda o di offerta che possono produrre mispricing? Tali shocks sono
normalmente ricondotti alla presenza nel mercato di operatori finanziari “irrazionali” (i cosiddetti
250
“noise traders”) particolarmente pessimisti o ottimisti circa il valore di un titolo, 13 oppure di investitori
istituzionali (fondi di investimento, compagnie assicurative, banche) costretti a far fronte
improvvisamente a un fabbisogno finanziario imprevisto (ad esempio, per restituire denaro ai propri
creditori) oppure a dover ridurre la propria esposizione a determinati tipi di rischi in seguito a
modifiche nella regolamentazione prudenziale. Questo tipo di liquidazioni forzate vengono chiamate
“svendite” (fire sales). 14
Nel nostro modello, immaginiamo quindi che il deprezzamento del titolo A nel periodo 1 sia dovuto ad
uno shock nell’offerta (specificamente, una vendita imprevista) di questo titolo da parte dei noise
traders – una “svendita” – che si verifica con probabilità k e spinge il prezzo del titolo A al di sotto del
suo valore fondamentale. Specificamente, supponiamo che quando lo shock si verifica, l’offerta
aggregata del titolo A da parte dei noise traders nel periodo 1, y ( PA1 ) , sia
y ( PA1 ) =+
1 δ ( PA1 − V ) =−
1 δ M1 ,
(11)
in cui il parametro δ > 0 . Analizziamo nel dettaglio questa espressione: con probabilità pari a k, i noise
traders vendono il titolo ( y ( PA1 ) > 0 ) se il suo prezzo PA1 è superiore a V − 1 / δ . Ciò indica che sono
troppo pessimisti, dal momento che sarebbero disposti a non vendere il titolo solo se il suo prezzo fosse
V − 1 / δ , sebbene sappiano che esso varrà V nel periodo 2. I loro ordini di vendita deprimono il prezzo
del titolo, fintanto che esso è più alto di V − 1 / δ (ossia fin quando la sua sottovalutazione M1 sul
mercato non superi 1 / δ ).
Quindi, sono gli ordini dei noise traders a causare il mispricing del titolo, cioè la ssua sottovalutazione
da parte del mercato: tale sottovalutazione può essere corretta solo se gli arbitraggisti riescono a
controbilanciare lo shock in modo sufficientemente vigoroso. Tuttavia, non sempre gli arbitraggisti
hanno la capacità di assorbire lo shock di offerta, perché devono scegliere come allocare il capitale tra
le diverse strategie (intervenire nel periodo 0 oppure nel periodo 1). Supponiamo che la
sottovalutazione del titolo nel periodo 0, M 0 , sia molto forte. In questo caso, molto più denaro verrà
investito per sfruttare tale mispricing nel periodo 0, e rimarranno pochi fondi per scommettere contro
un’ulteriore deprezzameto del titolo nel periodo 1. Di conseguenza, il mispricing persisterà anche nel
periodo successivo: il capitale speculativo degli arbitraggisti è come “una coperta troppo corta”.
La relazione precisa tra M 0 e M1 dipende da com’è distribuita tra gli arbitraggisti l’esposizione al
rischio di liquidazione anticipata. Supponiamo che vi sia un continuum di massa 1 di arbitraggisti, in
cui ciascun arbitraggista i è contraddistinto da una diversa probabilità di liquidazione anticipata ϕ (i )
nel caso in cui la sottovalutazione del titolo si aggravi nel periodo 1. Supponiamo anche che questa
13
Da qui il legame con la finanza comportamentale che studia come distorsioni psicologiche degli investitori possano
influenzare il prezzo delle azioni e le anomalie di mercato (come l’esistenza di opportunità di arbitraggio).
14
Vedi Shleifer, Andrei, e Robert W., Vishny (2011), “Fire sales in finance and macroeconomics”, Journal of Economic
Perspectives 25, 29-48, per una panoramica sulla letteratura che affronta questo argomento.
251
probabilità sia ϕ (i ) = i , dove i è uniformemente distribuita nell’intervallo [0,1]. Ora, si ricordi dal
paragrafo 4.1 che gli arbitraggisti che hanno un rischio di liquidazione superiore a ϕ̂ (cioè per cui
i > ϕˆ ) vorranno intervenire nel periodo 1, piuttosto che nel periodo 0. Dato che la distribuzione degli
arbitraggisti è uniforme, ϕ̂ indica esattamente la frazione di coloro che decidono di intervenire nel
periodo 0; viceversa, 1 − ϕˆ arbitraggisti interverranno nel periodo 1.
La frazione ϕ̂ di coloro che decidono di intervenire nel periodo 0 è determinata da M1 tramite la
condizione di indifferenza (10) rappresentata nella Figura 7. L’effetto di M1 su ϕ̂ è negativo: quanto
maggiore è la sottovalutazione del titolo nel periodo 1, tanto minore è la frazione di arbitraggisti che
interverranno nel periodo 0 – e tanto maggiore qualla che preferiranno farlo nel periodo 1.
Ma ϕ̂ influisce a sua volta positivamente sulla sottovalutazione M1 del titolo, attraverso la condizione
di equilibrio del mercato nel periodo 1: come già spiegato, quanto maggiore è la frazione ϕ̂ del
capitale di arbitraggio impiegato nel periodo 0, tanto minore sarà la frazione 1 − ϕˆ che resterà pronta a
investire nel periodo 1 per controbilanciare la pressione negativa dei noise traders; quindi ci sarà un
deprezzamento ancora più elevato del titolo nel periodo 1. Questo spiega l’effetto positivo di ϕ̂ su M1 .
Per dimostrare questo, consideriamo infatti la determinazione del prezzo d’equilibrio del titolo A nel
periodo 1 quando c’è uno shock dell’offerta. Esistono due tipi di venditori: 1) noise traders che
vendono una quantità totale pari a y ( PA1 ) , che è positiva se M1 < 1 / δ , cioè se il titolo non è
abbstanza sottovalutato, e 2) arbitraggisti che sono costretti a liquidare la propria posizione debitoria
prematuramente. Dato che ciascun arbitraggista i intervenuto nel periodo 0 si vede costretto a liquidare
la propria posizione con probabilità φ(i), l’offerta aggregata proveniente dagli arbitraggisti che
chiudono la propria posizione nel periodo 1 sarà
ϕˆ
∫0
(i )di
ϕ=
ϕˆ
ϕˆ 2
0
2
i di
∫=
,
cioè intuitivamente il prodotto della frazione ϕ̂ di arbitraggisti che ha comprato il titolo nel periodo 0
per la frazione ϕˆ / 2 che in media è costretta a liquidare la propria posizione. Le vendite di queste due
categorie di investitori devono essere assorbiti dagli acquisti degli arbitraggisti che hanno ancora
capitale da utilizzare nel periodo 1, non essendo intervenuti nel periodo 0. Il prezzo di equilibrio del
titolo A nel periodo t=1 è dato dall’uguaglianza tra domanda e offerta:
y ( PA1 ) +

vendite
dei noise
traders
ϕˆ 2
2

vendite
degli
arbitraggisti
1 − ϕˆ .
=

(12)
acquisti
degli
arbitraggisti
Sostituendo a y ( PA1 ) l’espresssione (10), la condizione di equilibrio (12) diventa:
252
1 + δ ( PA1 − V ) +
ϕˆ 2
2
=1 − ϕˆ ,
da cui si ottiene il prezzo di equilibrio del titolo A nel periodo 1:
PA1 =
V−
1
ϕˆ 2 
 ϕˆ +
.
2 
δ 
(13)
Quindi, come già annunciato più sopra, la sottovalutazione del titolo A che si verfica quando nel
periodo 1 c’è uno shock di offerta è tanto più forte quanto maggiore è la frazione ϕ̂ di arbitraggisti che
decidono di intervenire nel periodo 0 piuttosto che nel periodo 1.
Ricapitolando, il livello atteso di mispricing nel periodo 1 determina la frazione ϕ̂ di arbitraggisti che
decidono di intervenire nel periodo 0 in base alla condizione di indifferenza:
ϕˆ =
M 0 − kM1
.
kM1
(14)
A sua volta, la frazione ϕ̂ (determinando la frazione 1 − ϕˆ di arbitraggisti che intervengono nel periodo
1) determina il mispricing nel periodo 1, come può esser visto esprimendo il prezzo di equilibrio (13)
come segue:
1
ϕˆ 2 
ˆ
(15)
M1
=
ϕ +
.
2 
δ 
Quindi, l’equilibrio è dato dalla frazione ϕ̂ * di arbitraggisti che intervengono nel periodo 0 e dal
mispricing M1* che risolvono il sistema di equazioni (14) e (15). 15
La Figura 8 mostra questo equilibrio. La curva con pendenza negativa rappresenta l’equazione (14) che
determina la frazione di arbitraggisti che intervinene nel periodo 0: quando il deprezzamento atteso
kM1 diminuisce, investire nel periodo 0 diventa più profittevole e difatti ϕ̂ aumenta. Questa curva con
pendenza negativa coincide con la condizione di indifferenza già rappresentata nella Figura 7. Invece la
corva con pendenza positiva mostra il mispricing di equilibrio nel periodo 1 dato l’ammontare ϕ̂ di
capitale impiegato nel periodo 0: se questa frazione aumenta, si riduce il capitale necessario a
correggere il mispricing nel periodo 1, e M1 aumenta.
La Figura 8 ci permette di chiarire la relazione esistente tra M 0 e M1 . Quando M 0 = 0 , la curva
inclinata negativamente si appiattisce sull’asse orizzontale e l’equilibrio è nel punto di origine, con
coordinate ϕˆ * = 0 e M1* = 0 . La ragione è molto semplice: non essendoci possibilità di lucro nel
15
Si noti che in equilibrio il mispricing aumenta: M1 è maggiore di M0 se δ è sufficientemente piccolo dato che 𝜑� ∗ < 1.
253
periodo 0, tutte le disponibilità finanziarie verranno impiegate nel periodo successivo e, dal momento
che il capitale degli arbitraggisti basta a controbilanciare l’effetto negativo sul prezzo del pessimismo
dei noise traders, non ci sarà alcuna sottovalutazione del titolo nenanche nel periodo 1. Al crescere di
M 0 , la curva inclinata negativamente si sposta verso l’alto e diventa più inclinata, cosicché sia ϕ̂ * che
M1* aumentano: intuitivamente, l’opportunità di profitti nel periodo 0 attira lo scarso capitale degli
arbitraggisti in quel periodo, e quindi causa l’aumento del mispricing nel periodo 1. Quando il capitale
di arbitraggio è limitato, la sottovalutazione del titolo non solo persiste ma si rinforza. Infatti nei
mercati dei derivati si osserva che le opportunità di arbitraggio possono essere relativamente
persistenti nel tempo. 16 Questo fenomeno è generalmente ascritto alla lentezza di ingresso da parte
degli arbitraggisti, ma potrebbe anche essere legato al modo di allocare strategicamente le risorse
finanziarie nel tempo (o tra i vari titoli), come abbiamo visto nel modello.
M1
Frazione di arbitraggisti che
intervengono nel periodo 0:
M0
κ
ϕ =
M 0 − κ M1
κ M1
3
2δ
Equilibrio nel mercato
del titolo A nel periodo 1:
M1
=
M1*
1   1 2 
ϕ+ ϕ 
2 
δ 
M0
2κ
ϕ
*
ϕ
Figure 8: Mispricing e distribuzione del capitale degli arbitraggisti
tra periodo 0 e periodo 1
16
Si vedano gli articoli di Mark Mitchell, Lasse Heje Pedersen e Todd C. Pulvino (2007), “Slow moving capital”, American
Economic Review 97, 215-220, e di Xavier Gabaix, Arvin Krishnamurthy e Oliver Vigneron (2007), “Limits of arbitrage:
Theory and Evidence from the mortgage-backed securities market”, Journal of Finance 62, 557-596.
254
La Figura 8 può essere utilizzata anche per spiegare il ruolo che i noise traders giocano nel generare
tale persistenza. Si ricordi che la probabilità che i noise traders siano presenti sul mercato con le loro
vendite del titolo – e causino un ulteriore aumento della sua sottovalutazione – è pari a k.
All’aumentare della probabilità k, la curva inclinata negativamente si sposta verso il basso, per cui ϕ̂ *
si riduce: intuitivamente, quanto maggiori sono le vendite dei noise traders nel periodo 1, tanto
maggiore è il capitale utilizzato per la speculazione in quel periodo e minore quello disponibile nel
periodo precedente. Perciò la sottovalutazione M1* si riduce ma il suo valore atteso kM1* aumenta (se
ne lascia la dimostrazione al lettore), cosicché i profitti attesi derivante dall’intervento nel periodo 1
aumentano. Al contrario, quando k tende a zero, la curva inclinata negativamente si sposta verso l’alto
e l’unico equilibrio possibile è dato da ϕˆ * = 1 : in assenza di noise traders nel periodo 1, tutto il capitale
di arbitraggio si concentra nel periodo 0.
In questa discussione, abbiamo considerato come esogeno il livello di mispricing nel periodo 0, M 0 .
Ma in realtà anche in quel periodo il mispricing può esser generato esattamente dallo stesso
meccanismo finora illutrato per il mispricing nel periodo 1, M1 : anche nel periodo 0 l’arrivo di
investitori pessimisti circa il valore del titolo può spingere il prezzo al di sotto del suo valore
fondamentale. Il livello esatto di M 0 dipenderà dunque da quanto capitale è impiegato nel periodo 0. In
generale, la sottovalutazione nel periodo 0, M 0 , non scompare, perché in questo modello il capitale
disponibile in questo periodo è limitato: la prospettiva che il deprezzamento possa aumentare nel
periodo 1 induce alcuni arbitraggisti ad attendere piuttosto che sfruttare le opportunità di arbitraggio nel
periodo 0.
Nella realtà, l’attività di arbitraggio può essere limitata non solo dal rischio di liquidazione forzata ma
anche da altre circostanze. In primo luogo, il flusso di cassa generato dai portafogli di arbitraggio è
incerto quando c’è rischio di liquidazione anticipata, come si è visto in questo modello. Se gli
arbitraggisti sono specializzati (perché ad esempio la loro attività richiede competenza), non saranno in
grado di diversificare il rischio e ciò li spingerà a limitare le loro posizioni. In secondo luogo, come
nell’esempio offerto all’inizio del paragrafo 4, spesso gli arbitraggisti devono fornire garanzie per le
vendite allo scoperto, e il denaro posto a garanzia generalmente rende meno del tasso di interesse privo
di rischio (zero nel nostro modello), la qual cosa riduce i profitti complessivi. Quando questo costo è
elevato rispetto al beneficio derivante dall’attività di arbitraggio, gli arbitraggisti preferiranno astenersi
dall’investire e le opportunità di arbitraggio continueranno a persistere.
La misura in cui tutti questi ostacoli finiscono per frenare l’attività degli arbitraggisti è ulteriormente
accresciuta dal tempo necessario per allineare nuovamente i prezzi al valore fondamentale; ma questo
tempo dipende esso stesso dalle caratteristiche del mercato (oltre che dall’ammontare di capitale
investito). Duffie, Garleanu e Pedersen (2007) 17 mostrano che la velocità con cui i prezzi si riprendono
17
Duffie, Darrell, Nicolae Garleanu e Lasse Heje Pedersen (2007), “Valuation in over-the-counter markets”, Review of
Financial Studies 20, 1865-1900.
255
dopo le fire sales dipende dai costi necessari per trovare delle controparti e dalla liquidità del mercato:
nel caso in cui il mercato sia molto illiquido, la ripresa sarà più lenta dato che si dovrà attendere
l’arrivo di operatori disposti ad assorbire nei propri portafolgi i titoli sottovalutati. I limiti
all’arbitraggio sono quindi contemporaneamente causa ed effetto della liquidità di mercato.
4.3 Le crisi di liquidità
In un certo senso, gli arbitraggisti fin qui descritti forniscono liquidità ai noise traders. Gli arbitraggisti
che hanno capitale nel periodo 1 assorbono in una certa misura le vendite del titolo A da parte dei noise
traders e le “svendite” degli arbitraggisti che sono costretti a liquidare la loro posizione in quella data.
Così facendo, questi investitori tendono a stabilizzare il mercato, fornendogli liquidità. Tuttavia, per
fornire liquidità, essi devono a loro volta poter finanziare la propria posizione. Altrimenti, dovranno
limitare le operazioni svolte o addirittura ritirarsi del tutto dal mercato, e in quel caso le eventuali
vendite dei noise traders avranno un forte impatto sul prezzo.
Quindi una stretta creditizia che abbia effetti sugli arbitraggisti genera una riduzione della liquidità nel
mercato dei titoli: parafrasando le parole di Brunnermeier e Pedersen (2009) 18, un improvviso
prosciugarsi della “liquidità creditizia” (funding liquidity) riduce allo stesso tempo la “liquidità di
mercato” (market liquidity), non solo in periodi di crisi come quello del 2007-08, ma anche in
situazioni normali. Le esigenze di finanziamento da parte degli arbitraggisti – e più in generale degli
operatori di mercato – possono creare un problema di mancanza di liquidità proprio quando gli
investitori ne hanno maggiormente bisogno, e quindi una caduta netta del prezzo delle azioni.
Immaginiamo nel modello precedente che con probabilità molto bassa gli arbitraggisti che hanno
deciso di investire nel periodo 1 siano colpiti da un inatteso taglio di finanziamenti in quella data.
Definiamo questa situazione come uno “stato di crisi”. La probabilità di crisi è estremamente bassa e
per questo non influenza le scelte strategiche nel periodo 0, cosicché ϕ̂ continua ad essere determinato
dall’equazione (14), come nella Figura 8.
Se però la crisi effettivamente si verifica, la condizione (15) di equilibrio del mercato ne viene alterata,
poiché gli arbitraggisti che non erano intervenuti nel periodo 0 non possono più soddisfare gli ordini di
vendita inviati al mercato da altri investitori: analiticamente, la nuova condizione sarà:
y ( PA1 ) +

vendite
dei noise
traders
ϕˆ 2
2

0.
=
(16)
vendite
degli
arbitraggisti
18
Brunnermeier, Markus K., e Lasse Heje Pedersen (2009), “Market liquidity and funding liquidity”, Review of Financial
Studies 22, 2201-2238.
256
cosicché il deprezzamento durante lo stato di crisi è pari a:
M1crisi
=
1  ϕˆ 2 
1 +
.
2 
δ 
(17)
La differenza rispetto al valore di equilibrio in tempi normali è:
1 − ϕˆ *
M1crisi − M1* = ,
δ
il che indica che in periodi di crisi il mispricing del titolo A nel periodo 1 sarà maggiore che in una
situazione normale, cioè il prezzo di equilibrio scenderà di più. Possiamo vederlo anche graficamente
nella Figura 9. La curva con pendenza negativa non si sposta (essendo stata ottenuta sotto l’ipotesi che
la probabilità di crisi sia trascurabile). Cambia invece l’intercetta verticale della curva inclinata
positivamente: essa passa da 0 a 1/δ. Il livello di equilibrio del mispricing nella crisi, M1crisi , è situato
sulla nuova curva di equilibrio di mercato in corrispondenza del valore originario di ϕ̂ * .
M1
3
2δ
M0
κ
M1crisis = mispricing con crisi
1
δ
M1* = mispricing senza crisi
ϕ
*
ϕ
Figure 9: Mispricing in tempi normali e in tempi di crisi
Come mostra la Figura 9, al diminuire di δ il deprezzamento si accentua: ricordiamo che la valutazione
del titolo da parte dei noise traders è V − 1 / δ ; quindi, un valore basso di δ indica che i noise traders
257
stanno sottovalutando di molto il titolo. Ora, dato che durante la crisi la capacità degli arbitraggisti di
assorbire il titolo è limitata dalla mancanza di fondi, i noise traders in equilibrio devono diventare
compratori netti. Quindi, quanto minore è la loro valutazione del titolo, tanto maggiore sarà la caduta
del prezzo: la scomparsa di capitale da poter investire nel periodo 1 genera una caduta più forte dei
prezzi per valori di δ molto bassi.
258
Esercizi
1. Ricordiamo che in equilibrio il prezzo deve soddisfare l’equazione fondamentale di valutazione dei
titoli:
=
pt Et  m t +1( dt +1 + p t +1 )  ,
(1)
in ogni data t, dove m t +1 è il fattore stocastico di sconto tra la data t + 1 e la data t.
Supponiamo che il prezzo contenga anche una bolla bt , cioè il prezzo sia pari a
p=
t vt + bt ,
(2)
dove la prima componente è il valore fondamentale del titolo:
∞

vt = Et  ∑ m t +i dt +i 


 i =1

(3)
e la componente bt è una bolla speculativa, definita come segue:
(
)
bt = Et m t +1bt +1 .
(4)
(
)
Supponi che la bolla sia correlata positivamente con il consumo aggregato, cioè cov t bt +1, ct +1 > 0
per tutte le date t.
(i) Sotto queste ipotesi, la bolla cresce a un tasso superiore, pari o inferiore al tasso di interesse?
Come dipende la crescita della bolla dalla sua covarianza con il consumo aggregato? Perché?
(ii) Se la bolla è caratterizzata dall’equazione (4), l’equazione (2) è una nuova soluzione
dell’equazione alle differenze (1), cioè si tratta di una “bolla razionale”?
259