SOCIETA NARRATA O 1999 manifestolibri srl via Tomacelli 146 - Roma ISBN 88-7285-187-4 Ai miei genitori e alle nostre nipotine "milanesi" Solo l'osservatore superficiale può negare che tra il mondo della tecnica e l'arcaico universo simbolico della mitologia giochino delle corrispondenze Walter Benjamin, Parigi, capitale del XIX secolo INDICE Introduzione 11 I. Lo scenario 15 II. Gli anni del revival 43 III. Fra tradizione e nuovi linguaggi 59 IV. I testi 81 V. Le musiche 99 Interviste 107 Postfazione 133 Bibliografia, discografia, video 135 INTRODUZIONE Ricostruire la storia di E Zezi, il Gruppo Operaio di Pomigliano d'Arco (G.O.), significa ripercorrere una delle più significative esperienze politiche e spettacolari originatesi all'interno del folk music revival degli anni '70 ed ancora oggi in attività. Il Gruppo Operaio ha rappresentato e rappresenta, però, molto di più di un collettivo musicale: E Zezi, con la loro miscela di musica tradizionale, teatro popolare e canzone politica, sono stati la sublimazione artistica del trauma dell'industrializzazione nel napoletano, del devastante urto che una cultura contadina arcaica, e solo qualche decennio fa ancora pienamente attiva, ha ricevuto da una modernizzazione affrettata e per molti aspetti alienante. Una 'civilizzazione' che proprio negli anni '70 (la grande fabbrica dell'Alfasud è stata impiantata a Pomigliano d'Arco nel 1968) ha cominciato il suo tenace e capillare lavoro di erosione delle forme espressive, feste, musica, danze, fiabe, che di questa cultura erano le strutture: nonostante questo tali forme ancora oggi resistono, anche se in modelli sempre più degradati e privi del loro senso originario. Al momento attuale una riflessione sulla cultura 'popolare' non può, però, sottrarsi all'obbligo di una contestualizzazione di quest'ultima nel quadro dell'imponente accelerazione che si è avuta nel processo di sviluppo negli ultimi venti anni in Italia. Fino agli anni '70 era possibile ritrovare, anche se con gli opportuni distinguo, un mondo popolare ancora immerso in una dimensione in gran parte lontana dalla modernità. I 'segni' della tradizione erano leggibili nella loro interezza di linguaggi collettivi in cui una comunità poteva riconoscersi, e lo provano le ricerche effettuate in quel periodo: le registrazioni musicali e i documentari dell'epoca testimoniano la vitalità di modelli espressivi non ancora fagocitati, in quegli anni, dalla cultura di massa. La velocità delle trasformazioni ambientali e socioculturali ha in larga misura modificato quello scenario. Oggi, pur nella possibilità di rinvenire ancora degli eventi connotati da tratti arcaici, l'intero 'sistema' delle culture periferiche ha subìto una trasformazione, una `rifunzionalizzazione'. Nello specifico campano, a questa rífunzionalizzazione hanno fortemente contribuito i mutamenti nell'assetto territoriale intervenuti in seguito alla ricostruzio11 ne dopo il terremoto del 1980, l'invasione dei modelli della cultura di massa (con clamorosi fenomeni di `feedback' culturale come quando in alcuni paesi alcuni giovani portatori della tradizione eseguono oggi brani popolari nello stile del folk revival, cioè nello stile di chi quei canti aveva imparato in quegli stessi paesi per riproporli in forma mediata per il grande pubblico), la `spettacolarizzazione' della musica e del teatro popolare a causa della scoperta del mondo delle feste da parte di studenti universitari, musicisti e operatori culturali di varia estrazione, la formazione di gruppi stabili di esecutori con l'uso di microfoni, palchi, 'presentatori' e altro ancora. Tutto ciò convive, o in maggior misura si sovrappone cambiandone il segno, all'utilizzo rituale premodemo della tradizione, ed in tutto questo vi sono, come sempre, aspetti liberatori ed aspetti deteriori. D'altra parte i profondi mutamenti geografici, sociali, culturali e politici avvenuti a livello nazionale e internazionale dopo il decennio del rifiuto della politica, i processi di deindustrializzazione e le nuove emergenze sociali (come la disoccupazione di massa, la crescente immigrazione e la conseguente esigenza di ridefinizione di identità), l'avvento di una nuova destra populista e aggressiva e di una sinistra istituzionale sempre più allineata sui valori del mercato hanno negli ultimi anni favorito in Italia, per reazione, un nuovo interesse sia verso la canzone di protesta, sia verso la musica tradizionale e più in generale verso quella che veniva chiamata appunto 'cultura popolare', un interesse che ha ringiovanito la ormai asfittica scena musicale (e non solo) del bel paese. `Tammurriate', `tarantelle' e `pizziche', i canti e le danze rituali del meridione, sono quindi rientrate di prepotenza nella rinnovata musica italiana, affiancate ai ritmi del rap e del reggae; vecchie incisioni di cantori popolari sono state campionate diventando parte di brani di successo e la tradizione conosce un nuovo revival. Se tutto ciò ha avuto dei lati positivi, grande confusione hanno portato la scarsa consapevolezza degli stessi musicisti pop/rock e soprattutto tanto inutile giornalismo di settore, sempre pronto a sovrapporre tarantati e rappers, feste religiose e rave parties, a indicare derivazioni dirette e filiazioni precise di stili e forme, a coniare improbabili sigle come `raggafolk' o `tarantamuffin' che, in una totale vaghezza e superficialità, non hanno certamente contribuito a far comprendere né la musica tradizionale e la nuova musica pop, né a stabilire quali fossero i rapporti tra le due'. Cultura contadina, industria e musica pop: trasversalmente a tutto ciò si sono mossi e si muovono i Zezi, certamente antesignani 12 delle nuove tendenze della musica italiana degli anni '90, con la loro contaminazione fra canto popolare e canzone di protesta nata per reale necessità esistenziale; questo contributo finirà quindi per attraversare inevitabilmente tutte e tre queste aree con un'indagine a tutto campo, proprio nella speranza di evitare suggestioni di facile presa e approssimazioni, e per contestualizzare il più possibile il lavoro del Gruppo Operaio. Le interviste in coda al volume, e le dichiarazioni incorporate nel testo, sono tratte dalle tante conversazioni avute con alcuni componenti 'storici' del collettivo, o con coloro che in vario modo e a vario titolo si sono intrecciati con la sua storia. Ovviamente non è stato possibile incontrare le oltre centoventi persone che in ormai venticinque anni hanno dato il loro apporto ai Zezi; le riteniamo però tutte idealmente presenti e questo libro è stato scritto anche per loro. Le interviste, sia nel testo che in coda al volume, sono state spesso tradotte in italiano dal dialetto, e questo ne spiega alcune irregolarità e il tono colloquiale. La punteggiatura cerca di rispettare il più possibile i ritmi e le pause del parlato. NOTA ' Solo recentemente è stato fatto qualche tentativo in questa direzione. Si vedano, ad esempio, PLASTINO 1996 e i polemici articoli di Fransois Picard sulla rivista francese «écouter voir» (febbraio 1997) e di Roberto Leydi su «Jam» (aprile 1997). 13 I. LO SCENARIO «Abbiamo trasformato i canti di lavoro della terra in canti della catena di montaggio» E Zezi (intervista a «Le Monde», 21-22 luglio 1996) La storia della moderna Pomigliano d'Arco, come quella di tutto il Mezzogiorno italiano, comincia, per convenzione, nel 1948 con il piano Marshall. Il grande programma di aiuti economici che gli Stati Uniti organizzarono per la ricostruzione europea segna infatti l'inizio dell'integrazione dell'Italia nel mercato capitalistico internazionale, dopo la parentesi autarchica del fascismo. Pomigliano d'Arco e i suoi dintorni avevano già una certa tradizione industriale preunitaria, ma addentrarsi ín dettaglio nelle complesse vicende dell'industrializzazione in Campania attraverso le sue diverse fasi storiche prima dell'ultimo dopoguerra non è tra gli scopi di questo lavoro'. Più interessante è, invece, tratteggiare per grandi linee la geografia culturale e sociale del territorio in esame prima dell'avvento della moderna industria pomiglianese, e incentrare poi l'analisi sul varo dell'Alfasud, stabilimento di tipo `fordista' che ha segnato molto incisivamente il volto della Pomigliano contemporanea e della zona circostante. L'Italia degli anni '70 vide un fiorire di studi antropologici, oggi in via di ripresa sotto nuove angolazioni teoriche, che indagavano la vita delle classi popolari (in particolar modo del meridione) studiandone tutti gli aspetti dai riti ai miti, dai proverbi alle fiabe, dalle danze alla musica. Riprendendo una definizione di origine romantica, già rielaborata da Antonio Gramsci2, questi aspetti vennero chiamati 'tradizione popolare' (o 'cultura popolare') e costituirono a lungo un terreno privilegiato di indagine per operatori culturali, studiosi ed artisti. Nelle tradizioni popolari si cercava il rapporto con un mondo reso marginale da processi storici irreversibili, ma che apparentemente si rivelava in possesso di valori e comportamenti irriducibili alla già dilagante omologazione, per contribuire, nel clima del periodo, all'elaborazione di una cultura alternativa 15 e progressista. Il Gruppo Operaio E Zezi nacque in quegli anni, a ridosso della Nuova Compagnia di Canto Popolare che già operava all'interno del movimento del 'folk music revival' e aveva fatto conoscere al grande pubblico la musica di tradizione orale della Campania. Se nella proposta revivalistica la musica popolare veniva usata in funzione spettacolare, nella sua espressione originale essa si manifesta, in questa come in altre regioni del Mezzogiorno, prevalentemente nella ritualità religiosa, uno degli aspetti più vistosi ed importanti della cultura subalterna del meridione e di quel che resta della sua vita comunitaria. Alla parola 'popolare', molto in voga a quei tempi, sono sempre state date accezioni diverse che la hanno resa alla fine indefinita e ambigua, cosicché oggi è indubbiamente molto difficile individuare un 'popolo' e definirlo con precisione. Aggiornando parzialmente per i nostri scopi una definizione di Ernesto de Martino' (che per primo ha indagato la cultura popolare meridionale con un taglio moderno e aggiornato), per 'popolare' o 'subalterno' intenderemo l'insieme delle classi sociali urbane o rurali non egemoni, che subiscono le trasformazioni della modernizzazione e sono escluse dai benefici di questa, salvo recuperi spesso parziali, artificiali ed alienanti. Allo stesso modo, il concetto di 'etnicità' e le locuzioni che ne derivano (`musica etnica', 'cultura etnica' ecc.), e che pure useremo per comodità di scrittura, richiedono un chiarimento. Nel mondo contemporaneo il termine 'etnicità' viene spesso assunto come sinonimo di appartenenza ad un gruppo umano originariamente separato dagli altri e la cui distinzione è in qualche modo storicamente rintracciabile; su questa ideologia, che ha un suo valore solo come spia di un disagio più profondo legato ai fenomeni di globalizzazione e di perdita di orizzonti, sono state costruite rivendicazioni politiche, spinte autonomistiche, nuove forme di razzismo. In questo senso, l'idea di etnicità è in gran parte un'invenzione, ed è figlia della necessità di classificazione propria della cultura occidentale e di rapporti di forza storicamente determinati': «La penisola italiana è al centro del Mediterraneo, una delle aree del pianeta più `trafficate', persino in epoche preistoriche. La storia più recente ha visto l'arrivo di popolazioni provenienti dalla Grecia, dalla penisola balcanica, dall'Asia minore e dal Nordafrica nel centro e nel sud della nostra penisola, mentre il nord di questa è stato invaso a più riprese da popoli provenienti dall'Europa centrale. Le colonizzazio16 ni prima etrusca e poi romana hanno portato al nord gli influssi delle civiltà mediterranee, mentre il centro e il sud della penisola hanno visto, durante l'impero, l'arrivo di popolazioni slave e celtiche importate come schiave. Le invasioni barbariche hanno contribuito a rimescolare le genti dell'intera penisola, e il medio evo ha visto l'arrivo tanto degli arabi quanto dei normanni in Sicilia e nell'Italia meridionale. (...) Gli italiani di oggi non sono né tante `etnie', né una sola 'etnia', anche se essi 'non possono non dirsi italiani' »'. La 'nazione' italiana (o parte di essa) non è pensabile come gruppo sociale dato e astoricamente fissato, quindi, ma come coabitazione di individui, frutto di dinamiche e processi storici diversi. Con il termine 'etnico' ci riferiremo perciò alla cultura popolare solo come cultura di origine premoderna, partecipe di una dimensione magica, mitica, simbolica ed estranea, almeno ufficialmente, alla visione del mondo logico-razionale delle classi sociali che vivono a pieno titolo la modernità. Per la parola 'comunità' riprenderemo invece la sintetica definizione che ne ha dato Gabriella Gribaudi: «Verrà usato d'ora innanzi il termine 'comunità' per indicare la società locale. Esso quindi non si riferisce, in questa accezione, a una comunità chiusa e delimitata territorialmente. È un concetto più astratto, che definisce il momento particolare, locale appunto, in contrapposizione alla società allargata, e alle istituzioni nazionali»6 . E ancora: «Si può molto schematicamente definire il mondo di comunità come un mondo in cui prevalgono i rapporti personali di parentela e di vicinato, anche nelle transazioni economiche, e in cui l'identificazione sociale si costruisce in una rete di relazioni personali che ha il suo centro nella comunità, e non dipende quindi prevalentemente, come invece nelle società urbano-industriali, dalla collocazione produttiva dell'individuo»'. Intenderemo quindi per `tradizione' i valori etici ed estetici che orientano in ogni ambito una comunità, rurale o urbana, nella sua dimensione di vita precedente alla cosiddetta 'seconda rivoluzione industriale', quella del capitalismo fordista o dell"economia di scala'8 : la cultura 'popolare' sarà perciò la cultura 'tradizionale' di tali comunità, viva e vitale anche in contesti già in parte industrializzati come quello pomiglianese del dopoguerra. La vita di una comunità ancor a estranea alla produzione di massa non può che offrire, ovviamente, ristrettissimi margini di resistenza allo sviluppo capitalistico, ed è normalmente spazzata via dalla modernizzazione: mestieri un tempo inseriti a pieno titolo nel17 la modesta economia preindustriale vengono sopraffatti e resi obsoleti dalla produzione standardizzata che crea artificialmente nuovi bisogni; la razionalizzazione dei processi di lavorazione impedisce l'occupazione permanente, in particolare nelle aree escluse dagli investimenti o soggette a deindustrializzazione; le ristrutturazioni provocano l'espulsione dal ciclo produttivo di manodopera inutilizzata, generando continuamente nuove fasce di emarginazione sociale e favorendo il lavoro nero. Nei paesi del terzo mondo e nelle zone sottosviluppate dell'occidente i ceti popolari si difendono, quando la reazione non diventa crimine organizzato, con la diffu sione della cosiddetta 'economia informale', che nel napoletano prende la forma del tradizionale contrabbando e della versione aggiornata di quella che un tempo fu l"economia del vicolo' 9. A livello antropologico, l'effetto di tutto ciò è la disgregazione della struttura sociale premoderna e l'annullamento dei modi di vita comunitari. Per la sua particolare storia, e per il controverso processo di integrazione all'interno delle dinamiche neocapitalisti che, il meridione italiano ha a lungo conservato (e tuttora in parte conserva anche se in maniera alterata) solide strutture comunitarie che sono rimaste sostanzialmente chiuse al loro interno, e al di fuori delle regole del mercato, almeno fino ai primi anni '50: «Alla base dell'organizzazione sociale della comunità c'è il settore di sussistenza con le sue regole e i suoi valori. L'estrema precarietà economica, la preponderanza di un'economia organizzata intorno ad obiettivi di solidarietà familiare, l'esistenza di un circuito economico di scambi e di redistribuzione di reddito all'interno dei rapporti parentali e di amicizia, le difficoltà finora esistenti di comunicazione fra un paese e l'altro, fanno sì che le comunità siano organizzate intorno a fini e norme proprie e a una rete di relazioni personali e non anonime. I rapporti nascono dalla conoscenza reciproca che gli abitanti del paese o del quartiere hanno l'uno dell'altro e passano attraverso le strutture familiari e attraverso l'amicizia. Fino alla guerra, e in parte ancora negli anni '50, alle comunità sono demandate funzioni cui le istituzioni dello stato non sono ancora in grado di adempiere: l'organizzazione dell'assistenza, l'organizzazione della medicina in certi casi, quindi il controllo delle norme e del comportamento morale degli individui. Tutto ciò rinsalda quel distacco dalla società più ampia e quel senso di appartenenza che ci fanno apparire le comunità e la realtà meridionale in genere come un mondo chiuso e stabile, non soggetto a mutamenti e incapace di reazione»10. La sempre più veloce e vorticosa modernizzazione ha 18 poi però disgregato non solo l'economia, ma anche, pur se tra fortissime resistenze, le culture locali. Napoli e la sua provincia, tuttavia, risultano essere tra le aree più conservative in termini di comportamenti e di usanze tradizionali, e la modernità ha trovato qui ostacoli spesso insuperabili, che non hanno mai permesso il suo completo dispiegarsi. Tali comportamenti ed usanze, anche se prevalentemente radicati negli ambienti popolari, sono talvolta diffusi a livello interclassista, come mostrato, ad esempio, proprio da de Martino nel suo saggio sull'ideologia del 'fascino' e della `iettatura'", e costituiscono, al di là del tratto pittoresco che viene loro generalmente assegnato, parte dell'identità napoletana2 . Di tale identità, la religione e la ritualità, con i loro momenti musicali e teatrali (l'oggetto privilegiato del folk revival), sono tra i connettivi più forti, particolarmente nell'entroterra vesuviano. Chi ha pratica di ambienti popolari napoletani può facilmente osservare quanta parte dell'esistenza dell'individuo sia in rapporto con la sfera del sacro, con le sue modalità rappresentative e simboliche, con le sue configurazioni arcaiche, che sovente si colorano di particolari connotazioni infere, visionarie e sessuali, in una zona pienamente partecipe delle antiche culture agropastorali del Mediterraneo". Sottolineare la rilevanza di tutto ciò incontrava negli anni '70 l'ironia dei sostenitori dello sviluppo a tutti i costi, che ritenevano la religiosità popolare un fenomeno retrivo e superabile in poco tempo con lo slancio dell'industrializzazione. Scriveva intanto, già dal 1966, l'antropologo americano Clifford Geertz: «La religione è sociologicamente interessante non perché, come direbbe il volgare positivismo, descrive l'ordine sociale (il che avviene, nella misura in cui avviene, non solo molto indirettamente, ma anche in modo molto incompleto), ma perché allo stesso modo che l'ambiente, il potere politico, la ricchezza, l'obbligazione giuridica, l'affetto personale e il sentimento della bellezza, dà ad esso una forma»". Significativo e rivelatore è, in tal senso, proprio il peculiare rapporto che i Zezi, un gruppo musicale e teatrale di operai e militanti comunisti formatosi all'interno di una nascente realtà industriale, hanno saputo mantenere con la dimensione sacrale della tradizione etnica napoletana, elaborandone i modi espressivi ed integrandoli nella cultura operaia. Tale rapporto, riflesso di un atteggiamento molto diffuso negli strati subalterni napoletani, evidenzia nello stesso tempo la plasticità della religiosità popolare che è capace, proprio in virtù della sua ambivalenza simbolica, di assimilare 19 .e• 'all'interno del suo quadro di riferimento anche idee apparentemente inconciliabili con essa. La religiosità popolare partenopea (e più in generale meridionale) è, come è noto, il prodotto di un sincretismo tra cattolicesimo e religioni pre-cristiane, tenacemente sopravvissute nei comportamenti rituali delle classi popolari e spesso riplasmate all'interno dei codici dell'immaginario della grande stagione barocca di Napoli e dell'intero Mezzogiorno15 . Anche se questa tesi ormai classica viene spesso contestata soprattutto nella sua prima parte16 , uno sguardo d'assieme alla cultura tradizionale campana la convalida in maniera evidente, pur nella presa d'atto del vertiginoso processo di trasformazione che essa sta vivendo. Per il mondo contadino dell'hinterland napoletano e per gran parte del proletariato e del sottoproletariato urbano, questa religiosità viene vissuta da un lato nel rapporto quotidiano con le immagini sacre e con le pratiche più strettamente esorcistiche e terapeutiche, dall'altro con la partecipazione a momenti collettivi di festa legati all'anno agrario, che si svolgono per lo più nei paesi dell'interno". In queste feste popolari si balla la `tammurriata', si cantano le `fronne', si rappresentano 'La Canzone di Zeza', i 'Mesi' ed il 'Processo al Carnevale', si accendono fuochi rituali, si portano devotamente sulle spalle pesanti obelischi di legno (i cosiddetti `gigli'), si trascinano in delirio giganteschi carri di grano, si gioca bendati nelle aie, si fanno benedire i propri animali (o anche la propria automobile), si chiede aiuto ai santi o alle anime del purgatorio: si dà insomma vita a quello sfogo nell'irrazionale e nel fantastico che, mediante l'utilizzazione di una articolata rete simbolica, e spessissimo di una gestione energetica dei propri corpi, funziona da tecnica di reintegrazione culturale al fine di ottenere protezione e rassicurazione, secondo modalità a lungo indagate, tra gli altri, da Ern esto de Il primo grande momento rituale collettivo, la più celebre e frequentata delle feste campane, è senza dubbio quella della Madonna dell'Arco, che si tiene il lunedì in Albis a poca distanza da Pomigliano, un rito molto indagato per la presenza di stati di trance di numerosissimi devoti e meta, quindi, oltre che di fedeli, di antropologi, artisti e curiosi. La domenica successiva, a Pagani in provincia di Salerno, Madonna delle Galline, altra festa di grande richiamo, con le estenuanti danze che si svolgono nella locale villa comunale. Il 3 di maggio, a Somma Vesuviana, festa della Madonna di Castello, apice di un lungo periodo di celebrazioni in onore di questa Vergine, una vera e propria divinità, in una delle 20 zone più ricche di cultura tradizionale della regione, tra l'altro luogo della singolare festa 'delle lucerne'. Seguono poi la Madonna dei Bagni e la Madonna Avvocata, rispettivamente a Scafati ed a Maiori. In estate le feste sono spesso notturne, come a Materdomini di Nocera tra il 14 e il 15 di agosto. È importante notare che i partecipanti di questi riti sono spesso le stesse persone, contadini che vivono queste occasioni come unico insieme di festeggiamenti in onore di una serie di Madonne miticamente unificate come 'sorelle'. A queste Madonne 'bianche' (che secondo una lettura storico-religiosa rappresenterebbero il periodo primaverile), si contrappongono le Madonne 'nere' (Madonna del Carmine, Madonna di Montevergine ecc.), emblematiche del ciclo invernale quando la terra 'muore' in attesa del nuovo raccolto, a dimostrazione del carattere originariamente e prevalentemente agrario di questa cultura popolare 19 . Ci sono poi i riti del carnevale o della settimana santa, più radicati localmente, e quelli legati al periodo natalizio, con la rappresentazione della 'Cantata deí pastori' nella penisola sorrentina, ed il complesso simbolismo degli scenari presepiali di via S. Gregorio Armeno a Napoli". Dietro questi riti si rintracciano i miti antichi della Magna Grecia, le arcaiche divinità della fertilità come Cibele ed Attis o Demetra e Persefone, impronte dionisiache e resti del culto mitriaco. Sia il livello iconografico che le modalità rituali stesse di questi culti rimandano a modelli arcaici di espressione religiosa, così come ci vengono tramandati dalla letteratura e dalle immagini dell'antichità, e così come vengono ricostruiti dagli storici delle religioni. Nel loro rapporto con i ritmi biologici e naturali, nella loro periodizzazione calendariale, le antiche religioni del Mediterraneo consentivano, è la tesi di molti antropologi e psicanalisti, una gestione diversa della propria istintualità mentre l'uso dei simboli permetteva il riequilibrio con gli strati profondi della psiche. Una volta integrate nella spiritualità cristiana imposta dall'alto, queste forme religiose resistettero, mediate in vario modo attraverso le successive stagioni storiche e dando vita a quell'ibrido fenomeno che è stato poi definito 'cattolicesimo popolare', che comprende uno spettro di comportamenti 'altri' che vanno dal lamento funebre alle tarantolate pugliesi. In questi riti pulsano, quindi, pur nella loro ambivalenza e quando li si rintraccia in forme non ancora deculturate, spinte liberatorie, catartiche, contestative verso l'ordine esistente e dunque capaci di favorire un ritorno pacificato del rimosso e di riconciliare l'essere umano, per dirla in termini freudiani, con il principio di piacere. 21 Questa è nei fatti la dimensione culturale di un territorio su cui venne impiantata una gigantesca fabbrica per la produzione di massa, vale a dire basata sulla rigidità della catena di montaggio temporizzata, con i suoi ritmi disumani e le sue `saturazioni'21 , con la sua indifferenza per la festa calendariale, con i suoi orari e le sue gerarchie. Il trauma dell' industrializzazione violenta modello Alfasud è consistito, quindi, in una metamorfosi improvvisa e incomprensibile per migliaia di componenti delle classi popolari napoletane e per le loro famiglie: una secolarizzazione brusca, il passaggio da una vita di lavoro ancora in gran parte premoderno, con le sue componenti rituali e di reintegrazione culturale, con le sue consolidate strutture familiari solidaristiche, a una vita robotizzata, sganciata violentemente da questa dimensione arcaica e inserita nel vortice industriale e consumistico, con i suoi ritmi che tutto azzerano e che di nessuna componente culturale (e tantomeno religiosa) possono tenere conto; e tutto ciò senza nessun tipo di preparazione per poter reggere tale urto, anzi talvolta rafforzando, anche se solo provvisoriamente, alcuni 'segni' dei linguaggi tradizionali come unica possibile barriera al disagio. Questo ha voluto raccontare il Gruppo Operaio 'E Zezi di Pomigliano d'Arco, all'interno di una cultura di sinistra che cominciava a reagire alla violenza della modernizzazione. La nascita della moderna Pomigliano d'Arco e del territorio che la circonda può farsi risalire alla metà del secolo scorso, con lo sviluppo di una rete ferroviaria che cominciò a collegare i comuni dell'area vesuviana. Nel 1838 era stato realizzato il primo collegamento Napoli-Portici, prima linea in assoluto in Italia, e solo pochi anni dopo il treno iniziò a muoversi nell'intera zona, favorendo lo sviluppo non solo di Pomigliano ma anche di Acerra, Nola, Marigliano, Brusciano e altri paesi dell'entroterra. I mercati di Nola e Pomigliano cominciarono a crescere di importanza, divenendo crocevia di merci e di uomini; fino ad allora gli scambi commerciali erano rimasti ancorati ad una dimensione arcaica, rallentati dalle distanze, simbolo delle quali era la locanda «'O Passo», sita sulla statale 7 bis che da Napoli attraversa Pomigliano per giungere fino in Puglia. In questa taverna, oggi assorbita in un caseggiato, i mercanti sostavano una o più notti prima di riprendere il cammino. Con l'unità d'Italia poche cose cambiarono, la vita degli abitanti continuò secondo modalità tradizionali e le attività economiche, prevalentemente legate all'agricoltura, si svolgevano ancora 22 con sistemi molto arretrati. Nel 1939, nell'ambito degli interventi dell'Iri (l'Istituto per la Ricostruzione Industriale fondato nel 1933), Benito Mussolini in persona pose la prima pietra del nascente stabilimento aeronautico Alfa Romeo e del relativo aeroporto, la cui produzione a carattere militare era intesa a rafforzare la capacità bellica italiana ín vista dell'imminente conflitto. La fabbrica, che impiegò numerosissimi lavoratori, funzionò fino al 1943, quando fu bombardata dalle truppe alleate. Subito dopo il conflitto, grazie soprattutto al generoso impegno delle maestranze, la produzione fu riconvertita in attrezzature agricole, componenti meccaniche per automobili (anche per conto della Renault) e motori per aerei. Nel 1949 a fianco dell'Alfa Romeo sorse l'AerFer, industria specializzata in produzione aeronautica e poi destinata ad assumere, per diversi anni, un ruolo importante a livello nazionale ed internazionale. Nel 1964, a causa di un calo di produzione di un modello realizzato in collaborazione con la Renault, l'Alfa Romeo decise di mettere in cassa integrazione centinaia di lavoratori. La crisi, che minacciò l'intera classe operaia pomiglianese e coinvolse nella solidarietà anche lo stabilimento dell'AerFer, si risolse poi in maniera positiva. La mobilitazione a difesa dei posti di lavoro non mancò di momenti di forte tensione, ma per la prima volta la comunità locale si ritrovò compatta a difendere il proprio nucleo industriale2. Questi eventi lasciavano già intravedere come il destino di Pomigliano d'Arco fosse legato esclusivamente all'industria, a dispetto di un fertilissimo suolo espropriato per centinaia di migliaia di mq per ognuna di queste fabbriche; allo stesso modo si intuisce dunque che l'insediamento industriale nacque non per impiegare le energie produttive al sud, ma in tutta fretta, al solo scopo di sostenere l'entrata in guerra del paese. L'industrializzazione della zona, insomma, come proveranno gli eventi a venire, fu dunque legata fin dagli inizi a contingenze storiche, ad occasioni e finalità del momento, e mai si inserì in un progetto organico e coeso di trasformazione. Tutto ciò era in linea con le più classiche tendenze di sviluppo capitalistico che, in Italia più che altrove, hanno privilegiato alcune aree, alcuni settori, ed alcuni gruppi di potere. Fino agli anni '60 la cittadina continuò ad essere, quindi, nonostante questi eventi che la avevano imposta nell'ambito locale come contesto produttivo avanzato, una realtà in buona parte estranea alla modernità; ne rimane ancora un'idea nelle strutture abitative del centro storico: case raggruppate intorno a cortili, con 23 un pozzo, un forno e un bagno in comune, che all'epoca ancora favorivano (come negli altri centri storici dell'entroterra) la vita comunitaria con tutti i modelli culturali che essa produce, legati a momenti ritualizzati della vita collettiva, nascite, morti, pellegrinaggi, giochi". Prima dell'avvento dell'industria automobilistica, la maggior parte dei pomiglianesi era ancora impiegata in mestieri tradizionali, potatori, funari, arrotini, stagnini, impagliatori di sedie, sarti, sellai, spaccalegna. Le donne si dedicavano a lavori di tessitura e di ricamo, ai raccolti, alla spannocchiatura. La vita quotidiana scorreva ancora lungo percorsi secolari in un quadro di costante precarietà, in cui tuttavia non mancavano parentesi di festa e di solidarietà collettiva. I matrimoni coinvolgevano l'intera collettività, mentre le unioni non legalizzate, o comunque anomale, erano ancora sanzionate dalle cosiddette `tuffate' (da `tofa', grande conchiglia di mare in cui soffiando si ottiene un potente suono), vere e proprie serenate alla rovescia, fatte con strumenti a percussione, fischietti e grida". Tali usanze erano già in uso nella Napoli secentesca, come annota lo scrittore Nino Leone: «Dopo la cerimonia ci si ritrovava tutti presso la casa paterna dello sposo oppure nella corte del fondaco di appartenenza ove avvenivano i festeggiamenti in onore degli sposi. Allietati dalle canzoni di gruppi di musici, si mangiava, si beveva e si ballava fino a notte tarda al ritmo di tammurriate, spallate, cascarde dal nome pittoresco come Pordenzia, Madama la zita: tutti balli adatti all'occasione. Ma non tutti gli sposalizi ricevevano la stessa affettuosa accoglienza, anzi ad alcuni era riservata una sfacciata e piuttosto invereconda ironia e ne erano bersaglio le coppie formate da un vedovo e una donna di non più giovane età; a una coppia così composta non era consentito recarsi a sposare la domenica ma soltanto nei giorni feriali, e in particolare il giovedì; in tal caso gli sposi venivano fatti oggetto di lancio di bucce d'arance e limoni, mentre fischi, urla, e schiamazzi si sollevavano dal codazzo di ragazzi che faceva loro da corteo. Se la cosa era poi più finemente organizzata, i partecipanti si munivano di conchiglie marine (tufe) o di orciuoli in cui si soffiava fino a produrre dei suoni gravi e gutturali: questa usanza soleva dirsi tufiata»25. I bambini passavano il tempo, quando non erano costretti a lavorare, giocando con lo `strummolo' (piccola trottola), a `mazza e ppiuzo' (coppia di bastoni di diversa lunghezza, di cui uno veniva lanciato in aria e colpito dall'altro), o con giochi che svelano in controluce la loro origine rituale arcaica e iniziatica, come il 'gioco del 24 castello', in cui bisogna attraversare con degli ostacoli i vari stadi di una struttura disegnata a terra per raggiungere un 'centro' e poi uscirne, o come la sassaiola petriata'), una terribile battaglia di pietre che si faceva tra ragazzi di rioni diversi, in cui la tradizione gestiva e formalizzava anche la violenza e gli impulsi aggressivi. Cercando nelle antiche usanze di Napoli si hanno notizie più precise su tale battaglia: «la violenza ritualizzata si espresse, fino alla fine del 1800, in sfide periodiche che si facevano fra i lazzari' o popolani di diversi quartieri, i quali si recavano ai campi dell'Arenaccia, dove combattevano con pietre e bastoni, lasciandovi spesso dei morti. Il combattimento rituale, detto con termine derivato dall'arabo 'Alla Guainella' (e che significa: Dio salvi il giusto), veniva incitato da grida cantate di incomprensibile significato come Tupeapò', o `Alavò alavò': incitazioni che rimasero nella tradizione degli scugnizzi che si sfidavano ritualmente a tale gioco (fino ad epoca recente). Nel 1799, i lazzad, addestrati a tali giochi, armati di pietre e muniti di un'immagine della Madonna del Carmine sulla fronte, contrastarono l'ingresso in Città allo stesso esercito di Championnet» 26. Una vivace ricostruzione della vita popolare di Pomigliano d'Arco è data da Giovanni Sgammato, membro per diversi anni del Gruppo Operaio, nel suo libro Pummigliano ra 'e patane all'apparecchie 27, mentre una notevole raccolta di attrezzi, utensili, e strumenti musicali del mondo popolare dell'entroterra vesuviano è oggi esposta al Museo della Civiltà Contadina di Somma Vesuviana. Naturalmente non si vuole qui dare l'immagine nostalgica di un'area incontaminata e totalmente avvolta da una primitiva aura fiabesca, ma soltanto rilevare che per lungo tempo la modernità si è manifestata, per Pomigliano e in genere per la comunità vesuviana, in maniera episodica, prevalentemente legata all'immaginario del cinema americano, e in seguito della prima canzonetta di massa, esplodendo in tutta la sua forza solo nei primi anni '70. Allo stesso modo non sarebbe corretto magnificare la vita delle comunità preindustriali del meridione italiano come paradisi di libertà e di benessere spirituale: un simile atteggiamento (solitamente accompagnato dalla più vieta retorica) è stato in genere proprio di chi, per mantenere inalterati i propri margini di potere, ha sempre beneficiato dell'esclusione delle classi popolari meridionali dalla possibilità di essere soggetti attivi della propria storia, dall'allargamento cioè delle comunità alla sfera della partecipazione politica. Non idealizzazione del modello sociale comunitario, dunque, ma riconoscimento della sua rilevanza storica e riflessione cri- 25 suo aspetto. In tutte le società premoderne, infatti, il zvc-penamento e le scelte dell'individuo erano sottoposte alle dir della moralità collettiva e, come abbiamo visto, a un rigido oxievao sociale in un orizzonte ristretto che impediva la libertà ~naie. Proprio per questo, la modernità avrebbe potuto rappresentare una reale opportunità di emancipazione, di liberazione dai vincoli morali e materiali che comprimono una società tradizionale, se avesse potuto realizzarsi in forma compiuta e razionale, e non avesse mostrato invece per lo più il suo lato distruttivo e alienante come poi, qui come pressoché ovunque, è storicamente accaduto: «l'azione dello stato e del mercato, sottraendo le funzioni di base alle comunità, centralizzando il potere politico, inglobando gli individui in un sistema generale extralocale astratto, rompe le reti di relazione, libera le persone dal controllo della comunità, ma le isola, le priva di identificazione sociale e di quella solidarietà umana ed economica che era prima loro garantita»28. L'integrazione postbellica dell'Italia al mercato internazionale marcò dunque un'accelerazione nel processo di accumulazione capitalistica; l'adesione al patto atlantico, e quindi al modello di vita americano, implicò l'accettazione di un'unica possibilità di sviluppo: quello imposto dalla produzione in serie, dalla motorizzazione di massa, dall'omogeneizzazione culturale. Il processo di dissoluzione della dimensione comunitaria meridionale sotto l'assalto dell'industrializzazione fordista non si arrestò con la semplice sostituzione dei prodotti di consumo. Esso sgretolò, per la sua stessa natura pervasiva, la cosiddetta 'economia solidale', l'intero sottosistema di mutuo soccorso, di reciproca assistenza e solidarietà che i ceti popolari, in Campania come in altre aree, avevano elaborato prima della seconda rivoluzione industriale, sostituendola (almeno ufficialmente) con la presenza dello stato. Il fordismo assume così carattere totalizzante: «i grandi processi di verticalizzazione e di burocratizzazione dell'impresa hanno ridotto alle procedure standardizzate e alle economie di scala della produzione industriale ogni aspetto del vivere, ogni processo 'produttivo', a cominciare da quelli attinenti alla 'riproduzione' stessa della forza-lavoro, alla elaborazione di beni e servizi per il consumo 'domestico' delle classi subalterne, affidati fino allora ai meccanismi informali di un'economia comunitaria: alle dinamiche interne a un tipo di 'economia di sussistenza a forte componente non monetaria' entro la quale, appunto, avevano affondato le proprie radici i codici dell"economia solidale'»29. 26 La storia dell'Alfasud, che come abbiamo rilevato ha coinciso non casualmente per l'entroterra napoletano con la devitalizzazione della comunità tradizionale e il passaggio deciso alla società dei consumi, è spesso vista come esempio di miopia governativa e di cronici ritardi storici, dí scarsa sensibilità padronale e di tipica `infingardaggine' antiaziendale dell'operaio meridionale. In realtà, le vicende della nascita e dello sviluppo di questa fabbrica, con tutti i problemi e le difficoltà che essa ha sempre avuto a tutti i livelli, sono perfettamente coerenti sia con i processi di accumulazione e sviluppo capitalistico avvenuti nel nostro paese (e più in generale in Europa) nel secondo dopoguerra, sia con il più classico effetto di reazione negativa alla modernizzazione. Solo in questa prospettiva appare comprensibile il tentativo, effettuato senza adeguata preparazione, di agganciare ad un progetto di sviluppo veloce una realtà di subaltemità economica, di cultura contadina e comunitaria, dí inadeguatezza infrastrutturale; una realtà che si portava (e si porta) dietro un enorme fardello di resistenza alla trasformazione, di povertà, di malgoverno locale e di politica clientelare di antica memoria. Il progetto di impiantare uno stabilimento automobilistico di grandi dimensioni nel napoletano fu ideato nel 1966, nel quadro di una riemergente competizione tra industria privata e industria di stato. L'iniziativa fu presa ancora una volta dall'Iri (che attraverso la Finmeccanica controllava l'Alfa Romeo), ufficialmente sulla base di un'indagine di mercato che sembrava assicurare all'auto privata una domanda superiore alla produzione allora esistente in Italia, e parallelamente al ciclo economico espansivo che cominciava a mostrarsi al nord. Il tutto si inquadrava nel piano `Asi ' (Aree di sviluppo industriale), istituito nel 1957 con la legge 634, un progetto in parte frutto di quell'idea visionaria e futurista che allora si aveva della modernizzazione: grandi trasformazioni sociali, spostamenti della popolazione in base a logiche produttive, razionalizzazione delle attività economiche, gigantismo delle strutture. A tutto ciò contribuiva la posizione di gran parte della sinistra, che appoggiava l'industrializzazione accelerata e vedeva in essa, mediante la creazione di nuclei sempre più consistenti di classe operaia, l'unica possibilità di superamento dei limiti della società contadina. Questa linea er a coerente con il paradigma socialdemocratico predominante in Europa nel novecento che ha auspicato da un lato lo sviluppo produttivo di tipo industriale, dall'altro la necessità di correggere le distorsioni del capitalismo mediante la funzio27 ne 'regolatrice' dello stato. L'Alfasud e, più in generale, la grande industria nel Mezzogiorno nacquero però anche e soprattutto per altri motivi: come argine al crescente malcontento popolare di una regione deprivata delle sue tradizionali attività economiche, e con le industrie locali in crisi per l'invasione dei prodotti standardizzati provenienti dalle fabbriche settentrionali; come punta avanzata dei progetti di sviluppo dell'area interna lungo gli snodi autostradali e di progressivo ridimensionamento delle attività della costa (lavorazione del corallo a Torre del Greco, cantieri navali di Castellammare di Stabia ecc.); come occasione di soddisfacimento, in termini di reddito, della domanda di nuovi consumi dovuta alla nascente omologazione culturale, e come opportunità per il grande capitale di ulteriore espansione degli stessi grazie alla dilatazione del potere d'acquisto causato dalla prevista occupazione di massa; come risposta del governo centrale alla pressione dell'articolato e capillare sistema dí potere politico locale, vera e propria intercapedine tra la comunità locale e lo stato, da sempre dedito al controllo delle cabine elettorali mediante la promessa di posti di lavoro. Tale apparato interpretava, mediava e faceva pesare anche gli interessi e l'esigenza di `riqualificazione' di ceti sociali economicamente egemoni, precedentemente aggregati intorno a fenomeni come il laurismo e lo scempio edilizio 30 L'Alfasud fu pensata quindi come pura appendice di centri di potere esterni alla regione e senza nessun tentativo di integrazione con l'economia campana. Questa dinamica è stata la logica conseguenza dei modi con i quali l'espansione neocapitalistica si è configurata nell'Italia postbellica: è la storia nota, ormai considerata quasi 'folldoristica' dagli osservatori internazionali, di uno sviluppo affrettato, concentrato esclusivamente nelle regioni del nord, garantito da una parte dai dollari del plano Marshall, che miravano ad accelerare una crescita liberista e ad evitare spostamenti a sinistra dell'asse politico, e dall'altra dai finanziamenti che le consorterie di istituti pubblici di credito come Mediobanca elargivano alle grandi dinastie industriali lombarde e piemontesi?' Uno sviluppo squilibrato di questo tipo, al quale non si accompagnava naturalmente nessun tipo di politica culturale, ha generato per tutta risposta una depressione economica permanente nel Mezzogiorno, a cui si è risposto per lungo tempo con nervose e improvvisate concessioni di impianti industriali, le cosiddette 'cattedrali nel deserto', che fallivano sistematicamente nei loro intenti finendo per chiudere o, in seguito, per essere rilevati da privati come è accaduto, ad esempio, 28 all'impianto siderurgico di Gioia Tauro, realizzato in Calabria in risposta ai moti di Reggio del 1970 e solo di recente riattivato, previa privatizzazione, con funzioni di scalo merci. Nel 1967, quindi, sull'onda dell'entusiasmo per un investimento che sembrava potesse radicalmente risolvere il destino di stagnazione economica della Campania, e nonostante l'opposizione e le pressioni della Fiat, i tecnici dell'Alfa Romeo visionarono una serie di aree del napoletano: Giugliano, Acerra, Caivano. Fu scelta infine Pomigliano d'Arco, nella direzione Napoli-Noia. La scelta, che sembrava felice per il terreno pianeggiante e poco coltivato, si rivelò invece sbagliata già dopo poco tempo: l'enorme flusso di pendolari avrebbe contribuito a congestionare il traffico da e verso Napoli e l'impianto avrebbe completato, insieme alla preesistente Italsider, una soffocante manovra a tenaglia di grossi insediamenti industriali ai lati della città. Una insufficiente rete infrastrutturale, soprattutto nei trasporti, rese poi il raggiungimento della fabbrica un vero incubo per i lavoratori che provenivano da altre province; a tutto ciò è da aggiungere l'aumento dei prezzi delle abitazioni e degli affitti, che contribuì non poco ad alterare il preesistente contesto sociale e, in seconda battuta, la ribadita subalternità del ruolo delle donne nella comunità locale: sottratte all'agricoltura solo per essere destinate al lavoro nero a domicilio, sottopagate e isolate le une dalle altre senza nessuna prospettiva di vita al di fuori del matrimonio32. Lo stabilimento automobilistico di Pomigliano è stata forse la più grande fabbrica costruita nel Mezzogiorno. Collegata con un binario interno ad uno scalo merci della stazione di Acerra (e solo in seguito ad una stazione della Circumvesuviana), dotata di un'enorme pista di collaudo, nella sua fase più strettamente fordista seguiva (e ancora segue) il ciclo classico di lavorazione dell'auto: presse per modellare porte, cofani e tetti, reparto di lastroferratura per l'assemblaggio delle varie parti che formano la 'scocca' (lo `scheletro' della carrozzeria di un'automobile), verniciatura, sigillatura e schiumatura, e, all'epoca, reparto di carrozzeria per ruote e sedili e reparto di meccanica per il montaggio del motore 'Boxer'; nel reparto di 'finizione' la prova idrica e, infine, il collaudo. Fu chiara fin dall'inizio la natura 'acefala' dell'Alfasud, la sua scarsa integrazione con la realtà circostante: gli uffici di direzione dello stabilimento rimasero a Milano durante tutta la costruzione dei capannoni e solo nel 1971, un anno prima dell'inizio della produzione, si insediarono in loco". La progettazione e la ricerca con29 tinuarono ad essere effettuate in Lombardia, i tecnici ed i quadri dirigenziali stessi venivano dal nord (e talvolta persino da altri settori industriali dell'Iri), e ai locali fu riservato solo l'impiego di qualche neolaureato oltreché, naturalmente, della grande massa di manodopera dequalificata. La forza lavoro che andò a formare la classe operaia dell'Alfasud era prevalentemente composta da agricoltori, da braccianti, e da proletari provenienti dal lavoro nero o dalla disoccupazione permanente. Fatta eccezione per alcuni operai con esperienze industriali di altro tipo (Manifatture Cotoniere Meridionali, cantieri navali ecc.), si trattava quindi di una manodopera abituata a prestazioni lavorative di tutt'altra natura, saltuarie e individualizzate, legate ai lavori della terra o al commercio ambulante, storicamente estranee ad ogni ipotesi di impiego regolarizzato" e per questo in totale antitesi con il modello sociale previsto e praticato dal capitalismo fordista, che, per svilupparsi, vuole che il lavoro salariato «possa essere classificato e repertoriato (non si possono attribuire dei diritti, anche modesti, se non a uno stato chiaramente identificabile, quale è permesso appunto dall'elaborazione della nozione di popolazione attiva e dalla messa in disparte delle molteplici forme di lavoro intermittente), fissato e stabilizzato (un diritto come quello della pensione presuppone un lavoro continuo sul lungo periodo), autonomizzato come una condizione autosufficiente (si smette di contare, per quanto riguarda la protezione, sulle risorse domestiche e della solidarietà ravvicinata)»". All'inizio, e ancora per alcuni anni, tutto ciò si tradusse chiaramente in una tragica differenza di 'ritmi', e moltissimi tra questi nuovi operai non riuscirono ad abituarsi al lavoro di fabbrica, con i capiturno che lamentavano l'assenteismo durante la stagione dei raccolti, o «gli addetti linea che nei primi giorni di lavoro dormivano mentre i pezzi scorrevano davanti ai loro occhi»36. Ad ogni modo nel 1972 con l'«Alfasud», e poi con l'«Alfasud Sprint», i primi due modelli costruiti a Pomigliano furono immessi sul mercato. Lo slogan aziendale 'metti il Vesuvio nel motore' sembrava bene esprimere, in quegli anni, il clima di attesa che accompagnò la nascita della fabbrica, e le speranze ad esso connesse. Mentre la Volvo o l'americana Chrysler tentavano nuove strade per costruire le automobili (tra l'altro si parlava già da tempo di automazione) la produzione del nuovo stabilimento fu organizzata, come già detto, secondo il più classico taylorismo, un sistema difficile da digerire per una manodopera in gran parte di cultura non industriale. Così, mentre l'Iri si disinteressava dell' Alfasud, nel 30 quadro dei grandi sommovimenti sociali dell'epoca (autunno caldo, crescita dei sindacati e della sinistra, statuto dei lavoratori, prodromi del terrorismo) cominciarono gli scioperi a 'gatto selvaggio' (cioè non annunciati), e a 'pelle di leopardo' (cioè senza regolarità), così come cominciarono le proteste per la qualità dei servizi, in particolare per la mensa che lasciava molto a desiderare; fumi, vapori e l'alto tasso di nocività causavano numerose malattie e dure critiche per come l'azienda gestiva le visite mediche e reagiva alle assenze, in uno stabilimento che in certi momenti superò i 15.000 lavoratori. Fuori della fabbrica, intanto, imperversava la battaglia per le assunzioni, da un lato sulla spinta delle lotte sociali, dall'altro tramite la gestione clientelare e paternalistica dei notabili del potere locale, specializzati nel manipolare ai loro fini i codici culturali comunitari delle classi subalterne della zona (nonostante le promesse, solo una parte degli operai impegnati nei cantieri di costruzione dello stabilimento fu poi assunta stabilmente). A questo punto la vicenda dell'Alfasud, e di riflesso quella del Gruppo Operaio di Pomigliano d'Arco E Zezi, hanno incrociato il percorso del movimento napoletano dei Disoccupati Organizzati che, in quegli anni, come poi vedremo, lottava per ottenere un posto di lavoro stabile e sicuro. La grande fabbrica pomiglianese sembrava, così come l'Italsider di Bagnoli, un approdo possibile per i senza lavoro e fu meta di picchetti per impedire gli straordinari: «la nostra aspirazione –e questo dovrebbe essere scritto sui giornali – è di entrare nelle fabbriche, di essere operai. Noi lottiamo per il diritto di essere operai»"; eppure gli stessi Disoccupati organizzati, nel punto politico più alto della loro protesta, avevano saputo esprimere una concezione alternativa della produttività, sganciata sia dal puro assistenzialismo che dalla cultura della fabbrica automobilistica: «non vogliamo fare dei lavori che non servono a niente, vogliamo dei lavori che hanno uno sbocco produttivo sociale: le scuole, le case popolari, gli ospedali, queste cose qua. Vogliamo che gli investimenti straordinari siano finalizzati alla costruzione di alcune opere sociali tipo la metropolitana, o l'allargamento del porto, anche se imbiancare le chiese per far campare la famiglia lo facciamo, ma non è questo che vogliamo, lo teniamo bene in mente»". Sempre negli stessi anni una violenta campagna di stampa di opinionisti di grido gettava fango sulla classe operaia del napoletano, con stereotipi che rasentavano il razzismo, tra l'altro ignorando il grande lavoro di socializzazione industriale che i quadri locali dei partiti di sinistra e i sindacati stavano nel frattempo svolgendo. 31 Molto presto, insomma, l'Alfasud presentò le caratteristiche di una classica impresa 'coloniale', con impianti che non funzionavano mai a pieno ritmo, e fu presto abbandonata a se stessa. L'accumulo di ingenti perdite (60 miliardi di deficit nel 1975) fu tra l'altro dovuto alla contrazione del mercato automobilistico per l'aumento del prezzo del petrolio negli anni 1973-74. Anche il progetto di espansione dell'area industriale per creare un indotto di decine di migliaia di posti di lavoro, il cosiddetto Apomi (Alfa Pomigliano), fu dimenticato nonostante fossero già stati espropriati i terreni per la sua realizzazione. Cominciò così una lunga stagione di decadenza e mentre il sindacato lanciava, con una grande manifestazione a Roma di migliaia di lavoratori, una battaglia per cercare un partner che desse ossigeno alla fabbrica, i prepensionamenti e la cassa integrazione di migliaia di operai nel 1981 testimoniavano una profonda crisi. Solo nel 1983 la spinta per trovare un alleato ebbe esito attraverso l'accordo con la giapponese Nissan per la produzione dell"Ama', una vettura con design nipponico e motore Alfa Romeo. Nei pressi di Avellino, a Pratola Serra, fu costruito un nuovo stabilimento con quasi 1500 operai per costruire la scocca da assemblare a Pomigliano, ma l'esperimento durò poco: il modello a cui questa vettura era ispirata, la 'Cherry', era già in produzione da anni e costava di meno nella sua versione originale. Nel 1986 tra Arese e Napoli l'Alfa Romeo aveva ormai accumulato perdite per più di 1200 miliardi di lire ed i suoi impianti erano sottoutilizzati per due terzi, quando si seppe che la Ford era interessata a rilevarla per ristrutturarla e rilanciarla. Comincia qui uno degli affari più controversi della storia dell'Italia postbellica che riassumeremo in breve e che fu di fatto il punto di partenza dell'era delle 'privatizzazioni', che si moltiplicheranno nel decennio successivo. La Ford avrebbe significato per l'Alfa Romeo un rilancio senza pari: l'avrebbe pagata 96 milioni di dollari, con una quota azionaria da raddoppiare in tre anni, e si sarebbe impegnata ad allargare la produzione ad oltre 400000 vetture (all'epoca ne venivano assemblate 170000), portando l'espansione degli impianti alle loro massime possibilità; ma, quando l'affare sembrava ormai cosa fatta, la potente lobby della famiglia Agnelli reclamò per sé l'Alfa. In un vertiginoso e serrato crescere di trattative, e sotto la pressione di una campagna di stampa nazionalista e patriottarda, l'azienda torinese riuscì a spuntarla: gli impianti dell'Alfa furono svenduti dall'Iri 32 (allora guidata dal futuro presidente del consiglio Romano Prodi) e dal governo Craxi per 1050 miliardi, una cifra certamente inferiore al loro reale valore, e per di più da pagare a rate a partire dal 1993; un nuovo modello, la futura 164, e l'intera rete commerciale Alfa furono inseriti come 'bonus' nel pacco regalo che lo stato fece alla Fiat secondo il noto assioma 'privatizzare i profitti e socializzare le perdite'". Eppure gran parte della base operaia e del sindacato avrebbe preferito la Ford, sicuramente più vantaggiosa dal punto di vista salariale e dei ritmi produttivi. Con il suo tipico aplomb, l'avvocato Agnelli dichiarò che la Fiat `si era annessa una provincia debole' ma, diversificando la produzione in 'Fiat', 'Alfa' e 'Lancia', gli Agnelli si garantirono di fatto la copertura dell'intera fascia di mercato in regime pressoché monopolistico: un clamoroso passo indietro, però, per un paese che in pochi anni sarebbe entrato nella fase della globalizzazione economica. Preso possesso dell'Alfa, ribattezzata Alfa Lancia e in seguito Fiat Auto Pomigliano, il colosso torinese estese nella sua nuova proprietà il clima di normalizzazione seguìto alla battaglia del 1980, quando, dopo la battaglia dei '35 giorni' e la 'marcia dei quarantamila' colletti bianchi a Torino, si era praticamente estinta la combattività operaia40 , in un periodo di profonda metamorfosi tecnologica dell'azienda, con i robot che rendevano inutili negli stabilimenti migliaia di dipendenti. 'Politica meritocratica', 'disponibilità totale per l'azienda', sono solo alcuni degli slogan della `filosofiae, il nuovo abito mentale richiesto ai lavoratori dell'Alfa. Il passaggio all'azienda torinese fu quindi vissuto, sia ad Arese che a Pomigliano, come un vero trauma: nel 1982, ancora in gestione Iri, un accordo sindacale aveva istituito i 'gruppi di produzione', un rivoluzionario metodo di `umanizzazione' della catena di montaggio già tentato in Svezia nello stabilimento Volvo di Kalmar: si trattava di frantumare la linearità e la meccanicità della catena costituendo dei gruppi di operai che in pratica gestivano interi pezzi della linea di montaggio, con la possibilità di muoversi avanti e indietro, di svolgere mansioni diverse, di decidere tempi e pause di lavoro. Un nuovo accordo del giugno '87 nella nuova gestione Fiat, bocciato dagli operai di Pomigliano ma approvato da quelli di Arese per uno scarto di 72 voti, reintrodusse la postazione fissa alla catena e regalò ad Agnelli e Romiti la possibilità di accelerare i ritmi produttivi anche senza avere apportato innovazione tecnologica, superando così una norma contrattuale e del codice civile fino ad allora in vigore41. 33 Ripristinata la parcellizzazione del lavoro, la Fiat adottò il 'Tmc' ('tempo movimenti collegati'), cioè un sistema di saturazioni al 100% ancora più duro del taylorismo, rinnovandolo poi come Tmc 2 e Tmc 3, portando le saturazioni al 120% nelle prime ore di produzione per sfruttare la freschezza dell'operaio, e accorpando le pause in un tempo unico ogni tot ore di lavoro (un sistema in seguito venduto alla Renault e alla Magneti Marelli)42. Vennero poi costituite a Giugliano, Casandrino e Casalnuovo, come già in Piemonte, le famigerate Upa (Unità Produttive Accessoristiche) per la costruzione della componentistica (sedili, cablaggi, ecc.), decentrate e utilizzate come reparti 'confino' per operai politicizzati, cassintegrati tornati in attività o, in misura maggiore, dipendenti che avevano subìto danni fisici ed erano quindi inadatti al lavoro di fabbrica: sono i lavoratori che l'azienda non vuole più tra i piedi nel suo nuovo look scintillante ed efficientista, gente a cui vengono proposte le dimissioni per una manciata di soldi, a cui viene resa la vita impossibile, spediti a lavorare lontano dalle proprie abitazioni, in posti difficili da raggiungere. Si trattava in realtà di una riproposizione aggiornata dei 'magazzini' degli anni '50, dove l'allora presidente della Fiat Valletta spediva gli operai comunisti", veri e propri ghetti, insomma, istituiti da un accordo del 1983 che il sindacato aveva in origine firmato per 'reinserire quote di lavoratori in un ambiente idoneo'. La ristrutturazione imposta dalla Fiat ha poi significato la chiusura della 'meccanica', dove veniva costruito il famoso motore 'boxer', la costruzione del nuovo reparto verniciatura (1500 operai in cassa integrazione per questo 'investimento'), e in seguito la dismissione delle stesse Upa, vendute a terzi, che ha ridotto i posti di lavoro in fabbrica alimentando tendenzialmente il circuito di un subappalto domestico, precario, e difficilmente controllabile sul piano dei diritti dei lavoratori. Arriviamo così agli anni '90, e anche la restante parte dello scenario industriale pomiglianese si trasforma nell'ormai avviata stagione delle ristrutturazioni: l'Aerfer, già diventata Aeritalia negli anni '70 per un riassetto proprietario delle Partecipazioni Statali, prende il nome di Alenia dopo la fusione con la Selenia alla fine degli anni '80 e taglia nel 1993 molti posti di lavoro; l'Alfa Romeo che già nel 1981 era stata smembrata in ArVeco (veicoli commerciali Alfa Romeo) e in ArAvio (settore Avio) mantiene separati i due reparti e l'ArVeco diviene per qualche anno Somepra (Società Meridionale Produzione Autoveicoli). La Somepra è poi inclusa negli impianti venduti alla Fiat, trasformandosi in Sevel Campania 34 fino alla sua definitiva chiusura nel 1994 in seguito al decentramento, causa minor costo degli operai grazie a contratti di formazione lavoro, della produzione del furgone `Ducato' in Val di Sangro (parte del nucleo 'storico' dell'Arveco rimasto nella Somepra/Sevel è stato poi reintegrato nell'ex Alfasud). Il reparto ArAvio (settore Avio), che a suo tempo aveva anche avuto rapporti con l'Aeritalia e che la Fiat non aveva rilevato, rimane sotto il controllo delle Partecipazioni Statali operando anch'esso delle riduzioni di personale nel 1993. Recentemente poi, anche il gruppo ArAvio è stato ceduto dalla Finmeccanica alla Fiat. Questa potente `snellimento', sommato alla ristrutturazione dell'ex Alfasud, è costato al comprensorio pomiglianese l'espulsione dal processo produttivo di migliaia di lavoratori, una vera e propria deindustrializzazione. Nel 1989, con la cosiddetta 'svolta di Marentino', Cesare Romiti aveva intanto annunciato un ulteriore 'giro di vite' all'interno del mondo Fiat: era la campagna della 'qualità totale', dove l'ambiguità della parola 'totale' evoca da sola sinistri fantasmi. Nella logica del `just in time', la produzione sincronizzata sulle esigenze contingenti del mercato, la Fiat varava, con generosi finanziamenti pubblici, la fabbrica 'integrata' per l'era della globalizzazione economica, di cui lo stabilimento lucano di Melfi è la punta più avanzata. È una vera e propria rivoluzione produttiva in cui il modello giapponese toyotista, basato sull'identificazione dei lavoratori con l'azienda, è spinto agli estremi, radicalizzato, e, in definitiva, reinventato. La retorica ufficiale parla di 'partecipazione', di 'cogestione', di 'opportunità creativa', di 'assunzione di responsabilità': la scelta ultratecnologica degli anni '80, che aveva fatto della Fiat una delle fabbriche più all'avanguardia del mondo, non basta più. La robotizzazione, l'automazione di interi reparti non garantiscono ancora una totale elasticità per rispondere all'irrequietezza dei mercati: si riscopre il lavoro umano, snellito di molte unità ma di nuovo utile se opportunamente impiegato. Non si opera più sui grandi numeri, sulla cosiddetta economia di `scala', ma su piccole quantità: meno auto in produzione ma da gestire e trattare individualmente, perché le richieste del mercato si incentrano ora sempre più sugli `optionals', sulla 'personalizzazione'. È richiesta quindi una sorta di nuovo 'artigianato tecnologico', con tutto il bagaglio di cura, di creatività, e, se vogliamo, di corporativismo, che il termine artigianato può richiamare alla mente. Tutta la produzione è organizzata in maniera flessibile ed elastica, nessuno spreco è tollerabile, né in termini di tempo, né di uomini, né di spazi; è la cosiddetta fabbrica 35 `snella', postfordista e postmodema, radicalmente in opposizione ai giganteschi moloch del passato stile Mirafiori." L'impianto industriale integrato deve perfettamente armonizzarsi con l'indotto, con i fornitori della componentistica, pena la non ottimizzazione dei costi e delle risorse. Uno sciopero, delle assenze prolungate, rischiano di far saltare un delicato e veloce sistema di interconnessioni. Questo modello produttivo, complice la nuova legislazione sui 'Contratti formazione lavoro', implica giocoforza la dissoluzione della classe operaia come soggetto definito e riconosciuto (in omaggio alla retorica degli 'operai che non esistono più'), fa aumentare la competizione tra i lavoratori, ridimensiona il sindacato, introduce i 'circoli di qualità', gruppi di operai che, senza alcuna retribuzione, si incontrano con i capi per discutere strategie di miglioramento della qualità dei prodotti; contempla inoltre e richiede adesione fisica ed emotiva senza remore, dove nessuna mansione, nessun tempo è prevedibile e negoziabile ma tutto è subordinato alle esigenze della committenza che, in tempo reale, ordina e decide la produzione. Questo modello di fabbrica, che ha permesso un aumento enorme di produttività, è oggi il tipo di stabilimento in cui la Fiat sta trasformando i suoi impianti, l'unico ritenuto capace di reggere l'urto dei concorrenti e di garantirsi la sopravvivenza, quello che l'azienda torinese sta costruendo anche in America latina (in Brasile, in Argentina) o nel terzo mondo, alla ricerca di manodopera a basso costo per la produzione dell'auto del futuro, la cosiddetta `world car', sempre uguale tecnicamente ma personalizzata in base alla destinazione, pronta per l'invasione di mercati in espansione come quello asiatico. Eppure l'insediamento di Pomigliano, sebbene potenziato e modernizzato dalla Fiat più di quello di Arese, non segue questo destino: ancorata alla vecchia catena di montaggio, con i suoi enormi capannoni, con i suoi tanti operai formati alla vecchia scuola taylorista, l'Alfasud sembra tuttora lontana dalla dimensione del postfordismo; nonostante la recente produzione del modello di punta 'Alia 156', la fabbrica resta un'anomalia a rischio di ulteriore ridimensionamento sia in termini di volumi produttivi sia in termini di specificità, tecnologie e professionalità, in un territorio meridionale deputato all'insediamento di fabbriche postmoderne (Cassino, Termoli, Melfi) che mostrano il volto della Fiat del 2000. Un ritardo 'culturale' quindi., per il quale sulla gigantesca struttura pomiglianese si addensano le nere nubi dell'incertezza, nel timore che la famiglia Agnelli possa alla lunga ulteriormente ridi36 mensionare o addirittura spegnere sia l'Alfa che l'ArAvio, in un quadro di generale disboscamento industriale e di declino di un'area che era stata progettata come la più grande realtà produttiva dell'intero Mezzogiorno. Tra masserie, cemento e lamiere si consuma tanto l'agonia di una cultura contadina ricca e vitale, quanto lo sgretolamento di una classe operaia che, pur nella sua recente e contraddittoria formazione, aveva fatto crescere il livello di consapevolezza e di maturazione sociale dell'intera zona, ponendosi come interlocutore importante e moderno verso autorità locali che invece quasi sempre hanno preferito modelli di gestione clientelare e mafiosa del potere. Non a caso, forse, a Pomigliano d'Arco la camorra è arrivata molto tardi rispetto ad altri comuni del vesuviano45. In tutto questo, il Gruppo Operaio E Zezi ha rappresentato un potente serbatoio di quella che un tempo si sarebbe definita `soggettività antagonista', un collettore di energie e di idee, un laboratorio, forse unico in Italia, di creazione operaia sui precedenti modelli espressivi contadini, un tentativo riuscito di reintegrazione culturale in una situazione potenzialmente desolante, fatta di giornalini e gite aziendali, medaglie, clubs dopolavoristici e associazioni ricreative ed assistenziali, appendici patetiche della moderna cultura industriale. Ricorda Antonio De Falco, dipendente dell'Alenia e tra i fondatori del G.O.: «Il Gruppo è nato come uno sfogo alla nostra situazione; il nostro svago era solo il bar. Prima ci vedevamo all"angolo', un muretto di Pomigliano dove si parlava solo di calcio. Non che il calcio non ci piacesse, ma ci sentivamo bloccati. Con il Gruppo la nostra giornata divenne più piena, perché si provava quasi tutti i giorni, fino a mezzanotte». Nel suo libro sull'antropologia della `surmodernità'46 , Marc Augé individua una nuova frontiera per gli studi antropologici: la solitudine dell'uomo contemporaneo nei `nonluoghi' che la società postindustriale ha creato, caselli autostradali, supermarket, grandi alberghi, aeroporti, banche automatiche e via dicendo. In questi nonluoghi si vive una relazione contrattuale con entità meccaniche ed elettroniche in un'esperienza di anonimato totalmente nuova nella storia dell'uomo. L'opposto del nonluogo è ovviamente il 'luogo', terreno privilegiato dell'indagine etnografica, spazio di relazioni identificabili e di riconoscibilità simbolica. Pomigliano d'Arco e la zona circostante sono state, fino a tempi recenti come abbiamo visto, aree di radicata cultura contadi37 na e comunitaria, una cultura fortemente 'localizzata' che ha cominciato a disgregarsi con l'avvento delle grandi fabbriche. La storia degli insediamenti industriali nell'entroterra napoletano è stata a lungo una storia di reciproca diffidenza anche se, come abbiamo visto, ci sono stati momenti di integrazione tra comunità locale e fabbriche (dopoguerra, scioperi del '63, mobilitazioni negli anni '90): da un lato, una classe operaia in formazione a lungo classificata come incapace e fannullona; dall'altro, stabilimenti percepiti come estraneità minacciose e inquietanti, sia per le procedure del lavoro industriale, sia per il permanente pericolo delle ristrutturazioni e della conseguente perdita del 'posto'. Ma ad un livello più profondo queste angosce rimandano anche a qualcos'altro: Pomigliano è stato già crocevia di antico e moderno che si sono sovrapposti e fusi in maniera indistinta ed asistematica, in una mutazione avvenuta in pochi decenni ed a ritmi accelerati. Le fabbriche sono ancora oggi un corpo estraneo perché sono inserite in uno scenario modificato in modo violento ed irrazionale, in cui tutti gli antichi punti di riferimento sono saltati all'improvviso, rimanendo solo come frammenti da ricomporre e reinventare, tramite la memoria degli anziani che ancora tesse la tela dei ricordi e trasmette brandelli di vita tradizionale. Così Augé descrive il 'luogo' come 'luogo storico': «lo è nella misura in cui coloro che vi vivono possono riconoscervi dei riferimenti che non devono essere oggetti di conoscenza. (...) storico nella esatta misura in cui sfugge alla storia come scienza. (...) in cui un calendario preciso risveglia e riattiva a intervalli regolari le potenze tutelari»". Viceversa «uno spazio che non può definirsi né identitario né relazionale né storico definirà un nonluogo»48. Il rischio è allora che Pomigliano e il suo comprensorio possano, con la loro incipiente smobilitazione industriale e con il definitivo spegnersi della tradizione popolare, trasformarsi, in un futuro non lontano, in un gigantesco, metaforico `nonluogo'; uno spazio anonimo in cui una comunità, deprivata della sua identità contadina prima e industriale poi, venga condannata a vivere in un sistema di relazioni artificiali e reificate, un sistema tanto più vissuto come ostile quanto più tenace è la rete della memoria, ancora assicurata da una tradizione in agonia ma non del tutto estinta. È questa l'impressione che si ricava frequentando l'hinterland napoletano e conoscendone gli abitanti. Queste zone rischiano di diventare un `nonluogo' perché rischiano di essere percepite come 'altro da sé' dove, per esempio, la contrattualità solitaria della surmodemità si 38 scontra con un'identità collettiva ancora in parte legata ad un vissuto di condivisione non contrattata, di mutuo sostegno comunitario, che già ha trovato difficoltà ad accettare un moderno sistema di relazioni sociali imposto senza mediazioni. E allora, in questo contesto, la via d'uscita da questo rischio incombente è sempre più quella, come ha mostrato l'esperienza del Gruppo Operaio E Zezi, di riannodare alla contemporaneità, in maniera critica e consapevole, i fili della cultura tradizionale nei suoi aspetti più vitalistíci e liberatori: una cultura da vivere non con consolatoria nostalgia, ma come opportunità produttrice di senso e di identità condivisa, di scavo interiore e di possibilità relazionale; una tradizione popolare reinventata e rifunzionalizzata in maniera permanente, che possa ancora veicolare il suo codice linguistico arcaico e non omologabile, composito e al tempo stesso irriducibile. Una mano tesa verso altri protagonismi, verso altre soggettività negate, verso altre identità compresse; per connettere, allargare ed espandere l'area, per ora disarticolata, di una possibile opposizione culturale al potere impersonale e nullificante della 'razionalità' postmoderna, che gli invisibili burattinai del Nuovo Ordine Mondiale vogliono a tutti i costi imporci. 39 NOTE ' Per questo rimandiamo principalmente a CAMPANIA 1990. Cfr. GRAMSCI 1977, Osservazioni sul folclore. Cfr. Il folklore progressivo emiliano in «Il De Martino» 5-6/96. Per una sistematizzazione terminologica cfr. l'ancora stimolante CIRESE 1996 (la prima edizione è del 1971). Cfr. l'ABIETTI 1995. Ibidem, p. 65. 6 Cfr. GRIBAUDI 1980, p. 30. Ibidem. Cfr. i lavori di REVELLI in bibliografia. 9 Per questi argomenti cfr. ALLUM 1975, BECCHI COLLIDA 1984, LATOUCIIE 1992 e, in forma narrativa, BrimoN-re 1997. Sulle trasformazioni dell'economia subalterna napoletana, cfr. il saggio Mercato del lavoro e occupazione nel secondo dopoguerra di P. Cotugno, E. Pugliese e E. Rebeggiani in CAMPANIA 1990. '° Cfr. GRIBAUDI 1989, pp. 88-89. " Cfr. DE MARTINO 1973. 12 Pur nella consapevolezza delle differenze tra area urbana ed area rurale, parleremo indistintamente di cultura 'napoletana' e 'campana' quando ci riferiremo alla cultura popolare arcaica di matrice rituale (sia cittadina che extra cittadina). Questo ci consentirà di mantenerne una visione unitaria come sistema 'magico-protettivo' premoderno, di cui alcuni elementi ancora permangono anche nei ceti agiati. " Cfr. tutti i lavori di DE SIMONE in bibliografia. " Cfr. GEERTZ 1987, p. 175. 13 Cfr., oltre alle prudenti posizioni di DE MARTINO, DE SIMONE 1974 e inoltre DI NOLA 1976. Per i rapporti fra cultura popolare napoletana e controriforma cfr. NIOLA 1996 e 1997. 16 Cfr., ad esempio, GALASSO 1998 che banalizza e riduce la complessità dell'intera problematica: «(...) Leggere la vita religiosa del mezzogiorno moderno (...) e vedervi primeggiare – e, per di più nel rapporto tra gerarchie e fedeli – tensioni come quelle tra 'cristiano' e 'pagano' vuol dire perdere di vista l'essenziale, le c aratteristiche di fondo e fare un elemento centrale di ciò che è marginale» (p. 112). L'edi zione originale è del 1982. Interessante invece l'interpretazione del rapporto tra festa e modernità che propone ENRIQUE GIL CALVO nel saggio La dissoluzione festiva, in L'utopia di Dioniso 1997. Studi più articolati e sistematici che ampliano il quadro di una religiosità meridionale oltre il paradigma pagano -cristiano sono stati svolti a partire dagli anni '80. Cfr. ad esempio, La religiosità nel Mezzogiorno 1998. 17 Cfr., oltre a tutte le opere di DE SIMONE, DI MAURO 1982 e Di MAURO 1986. 18 Cfr. tutte le sue opere in bibliografia ed anche, soprattutto per un'analisi delle forme musicali e coreutiche della tradizione campana, DE SIMONE 1974, 1977, 1981; per i rit uali popolari si veda anche ToscHt 1976. 19 Per tutto ciò cfr. DE SIMONE 1981 2° Cfr. RUCCELLO 1978 e DE SIMONE 1998. 2 ' Si intende per 'saturazione' il tempo 'libero' che l'operaio ha nell'effettuare un movimento alla catena di montaggio; se per montare u n pezzo ci vogliono, poniamo, ottanta secondi, una 'saturazione' dell'ottanta per cento darà all'operaio cento secondi per eseguire quel movimento prima di passare al pezzo successivo; le satura zioni fanno parte delle trattative sindacali in quanto sono considerate fondamentali per la salvaguardia dell'equilibrio psicofisico del lavoratore. 22 accorato e partecipe racconto di questa vertenza è nelle opere di C. Aliberti in bibliografia, alle quali si rimanda anche per una dettagliata descrizione degli avvenimenti storici di Pomigliano d'Arco. 40 23 Si vedano a questo proposito le interviste in coda al volume. " Si tratta, come è evidente, di ciò che la letteratura etno -antropologica definisce 'Charivari'. Una prima definizione si trova già nell'«Encyclopedie» di Diderot e D'Alembert. Cfr., tra gli altri, LEVI STRAUSS 1980, pp. 379-382 e ancora ENRIQUE GIL CALVO, op. cit. p. 142. " Cfr. LEONE 1994, p. 256. I 'fondaci' (dall'arabo 'funduq') sono i cortili con i terranei usati come abitazioni dai ceti popolari. 26 Cfr. DE SIMONE, 1982, p. 169. 27 Cfr. bibliografia. 28 Cfr. GRIBAUDI , 1980, p. 89-90. 28 Cfr. Reveili 1997, p. 164. 3 ° Si veda il saggio di M. D'ANTONIO in CAMPANIA 1990 e, naturalmente, ALLUM 1975 e GRIBAUDI 1980. Per un'analisi in parte di tipo diverso, legata alla stagione operaista, cfr. SERAFINI-BRAVO 1972, pp. 74-75. " Cfr. FRIEDMAN 1988. 32 Un'approfondita disamina del lavoro nero a Napoli e a Pomigliano d'Arco negli anni '70 si trova nell'articolo di ROSARIA CETRO II lavoro a domicilio a Pomigliano d'Arco: condizione sociale e lavorativa della donna in un polo di sviluppo (in «Inchiesta» maggio-giugno 1978) e, sempre della stessa autrice, in COLLIDA 1984 (il titolo del saggio è 'II lavoro a domicilio'). " Si veda per tutto ciò VITIELLO 1973. 34 Proprio la struttura sociale di Napoli viene citata da Gramsci, in Americanismo e fordismo, come esempio di realtà estranea al lavoro moderno. Cfr. Bibliografia. " R. CASTEL, Les Métamorphoses de la question sociale. Une chronique du salariai, Fayard, Paris 1995, p. 337. Citato in REVELLI 1997, p. 82. 36 Riportato in SALERNI 1980, p. 21. " In Comitato Disoccupati organizzati 1976, p. 112. 38 In RAMONDINO 1977, p. 61. 38 Versione ovviamente diversa quella di Cesare Romiti, allora amministratore delegato della Fiat e stratega del gruppo torinese, cfr. ROMITI 1988. Vicino, su questo come su altri argomenti, alle posizioni della Fiat anche SANTAGOSTINO 1993. -") Cfr. REVELLI 1989 "Cfr. LERNER 1988 p. 155. " I 'Tmc' inseguono il lavoratore sul terreno del tempo: se l'operaio automatizza una serie di movimenti e la esegue in un tempo minore del previsto, il Tmc 'riduce' lo spazio di esecuzione del gesto per guadagnare anche un solo secondo di produzione. 43 Cfr. ancora LERNER 1988. " 4 Per tutte queste tematiche cfr. tutti i lavori di Revelli in bibliografia, e CERRUTIRIESER 1991. Tesi opposte a quelle di Revelli, in TRENTIN 1994. Un racconto crudo e disincantato sulle illusioni e le mistificazioni della fabbrica integrata è quello dell'ex operaio Donato Esposto, in ESPOSTO 1997. " Sulla forte presenza odierna della malavita organizzata e sul generale degrado dell'intero contesto pomiglianese, cfr. il recente articolo di E. DEAGLIO Gli operai non vanno in paradiso sulla rivista «Diario della settimana», settembre 1998. 46 Cfr. AucC, 1993. 4° Cfr. Auct, 1993, p. 53. 48 Ibidem, p. 73. 41 II. GLI ANNI DEL REVIVAL «Sono un clandestino sull'autobus della musica, ma fino a che sale il controllore io non scendo.» Salvatore lasevoli (dieci anni con il Gruppo Operaio) L'interesse per la musica etnica nasce in Italia negli anni '60, sull'onda del revival della musica folk inglese e americana. Negli Stati Uniti già da tempo Alan Lomax era attivo nella registrazione di canti popolari e non solo americani; Woody Guthrie e Pete Seeger avevano scritto o rielaborato numerosissime canzoni operaie e proletarie, mettendole al servizio delle più disparate cause politiche e sociali; in Gran Bretagna Ewan MacColl aveva lanciato la riscoperta delle ballate tradizionali e lavorava da tempo all'elaborazione di una nuova canzone politica all'interno del circuito dei folk clubs, orientando così in maniera definitiva il movimento in una direzione decisamente antagonista'. In Italia il primo tentativo di seguire questa linea fu quello del gruppo del Nuovo Canzoniere Italiano, che faceva capo all'etnomusicologo Roberto Leydi. Già i Cantacronache a Torino, in esplicita polemica con l'inossidabile industria della canzonetta italiana, avevano tentato dí veicolare contenuti 'popolari' all'interno delle proprie composizioni, ma il loro lavoro era di fatto totalmente inserito in stilemi sicuramente non appartenenti alle classi subalterne, rifacendosi esplicitamente alla grande canzone d'autore d'oltralpe e segnatamente al repertorio di Georges Brassens e del binomio Kurt Weill/Bertolt Brecht. Il gruppo di Leydi si propose invece il recupero critico della musica dei ceti popolari tramite la tecnica del `ricalco', ossia dello studio e della riproduzione fedele dei caratteri stilistici della musica di tradizione orale, caratteri di cui si avvertiva finalmente la diversità e l'autonomia rispetto al canto ed alla musica di estrazione colta, e che si cercava di far risaltare proprio con esecuzioni che li rispettassero il più possibile. La Campania, tuttavia, era stata soltanto lambita dalle ricerche etnomusicologiche di Leydi, e ancor prima da quelle di Alan Lomax e di Diego Carpitella, e a ciò aveva presumibilmente contri43 buito una percezione distorta del fenomeno della canzone napoletana, che sembrava allora integrare e quindi esprimere il folklore della zona (magari attraverso tammurriate 'nere'). Lo stesso Ernesto de Martino, con il quale Carpitella aveva collaborato, nelle sue grandi ricerche storico-religiose aveva privilegiato la Puglia e la Basilicata, riportando alla luce tarantelle e lamenti funebri funzionali a riti arcaici a quel tempo, gli anni '50/60, ancora conservati'. La prima grande esplorazione nell'area napoletana fu effettuata, tra gli anni '60 e i '70, da Roberto De Simone, musicista di estrazione colta ma anche musicologo, compositore e regista teatrale. Lavorando sul campo e in biblioteca De Simone aveva reperito, scavalcando la grande tradizione della canzone napoletana classica, una notevole quantità di materiale musicale (sia scritto che tramandato oralmente) dalle insospettate potenzialità ritmiche e melodi che. Unitamente a ciò, emergeva un corpus di testi che nulla aveva a che vedere con le tematiche del belcanto napoletano, ma che rimandava invece ai miti ed ai riti del mondo popolare meridionale. De Simone, in compagnia dell'antropologa Annabella Rossi e di altri collaboratori, aveva poi allargato l'indagine all'intera dimensione folklorica: partito da de Martino, ne aveva sviluppato le componenti 'irrazionaliste' con un interesse particolare per le strutture arcaiche presenti nella cultura napoletana tradizionale, rifacendosi soprattutto a Jung, Eliade ed alla scuola fenomenologica: De Simone ricercava la cultura etnica nella sua integrità, nella sua dimensione rituale, nella sua funzionalità ai modi di vita contadini tanto che, nel 1978, considerava la tradizione «ancora al suo `zenith', una tradizione 'viva' in tutti i sensi» 3 . L'industrializzazione della regione, che proprio in quegli anni stava alterando definitivamente la fisionomia della Campania, non aveva trovato quindi spazio nei suoi scritti del periodo, e la possibilità che il canto popolare potesse fondersi con il mondo della fabbrica non sembrava interessarlo: «Del resto la cultura popolare del sud si differenzia dalle culture popolari dove l'industria, la fabbrica, gli operai, hanno sviluppato modelli espressivi contestativi ma privi di ritualità. Un approccio alla tradizione su presupposti in parte junghiani mi sembrava più congeniale alla natura simbolica del sogno, dello stesso tessuto rnitico»4 . Egli aveva inoltre elaborato un modo diverso di riproposta del canto popolare, non più basato sul ricalco ma frutto di una reinterpretazione 'estemporanea' del materiale musicale all'interno delle strutture ritmiche, melodiche ed armoniche della musica popolare. Attraverso l'uso di strumenti non tradizionali come la chitarra e 44 soprattutto attraverso la versatilità delle voci dei componenti della Nuova Compagnia di Canto Popolare (Nccp), il gruppo tramite il quale vennero diffusi all'epoca gli esiti di queste ricerche e di cui De Simone era direttore artistico, avveniva la comunicazione, il punto di contatto con un pubblico urbano e assolutamente non abituato a timbriche e sonorità aspre come quelle del folklore originale'. De Simone aveva poi lavorato molto sull'aspetto 'fonico' della musica etnica (un aspetto sul quale torneremo), distanziandosi quindi in maniera netta dai consueti modi di rivisitare il canto popolare, fino ad allora basati sulla riduzione della parola al 'contenuto', e restituendolo finalmente alla sua più piena e reale efficacia comunicativa: «In quegli anni 'folk' era una parola molto vaga, specialmente negli ambienti studenteschi ed universitari, insomma ci si rapportava subito al 'Ci ragiono e canto', uno dei primi tentativi effettuati negli anni '60 di dar vita ad uno spettacolo teatrale basato sulle ricerche sul folklore, per la regia di Dario Fo. Tale tipo di revival derivava dalla scuola inglese e da quella americana di Lomax. Io invece consigliai a quei giovani napoletani (la Nccp, n.d.r.) una riproposta musicale che non pretendesse assolutamente di riportare 'fedelmente' una cultura popolare, essendo mia convinzione che la fedeltà a tale cultura non può mantenersi con il 'ricalcare' un canto, quanto con il ricompome uno spirito, un'immagine».611musicologo napoletano aveva poi stilizzato le strutture formali dei canti etnici e popolareggianti dilatandole e comprimendole, facendole interagire tra dí loro mediante l'utilizzazione di tecniche compositive sia colte che extracolte, e producendo alla fine un 'sound' con il marchio indelebile del suo ideatore che avrebbe influenzato enormemente moltissimi musicisti del revival, e non solo campani, fino ad oggi. Il Gruppo Operaio di Pomigliano d'Arco E Zezi si forma nel 1974, nel clima del folk revival napoletano e a ridosso della Nuova Compagnia di Canto Popolare, per tentare un recupero della tradizione popolare non mediato da contaminazioni colte, e un uso politico di questa cultura in linea con il percorso originario del folk revival italiano, portato su una strada diversa dal successo della Nccp di De Simone. La storia del Gruppo Operaio si sviluppa quindi per qualche anno parallelamente a quella della Nuova Compagnia, con essa spesso si intreccia e ad essa talvolta polemicamente si oppone. E Zezi nascono come aggregazione di operai, disoccupati e militanti di sinistra per dar voce ad un collettivo politico-artistico che non esaurisca nello spettacolo la sua funzione, ma che sia 45 espressione di classe e motore di iniziative sociali, catalizzando l'energia creativa non solo di operai e braccianti, ma anche di soggetti sociali come studenti, insegnanti, artigiani e chiunque desideri sentirsi veicolo di trasformazione. Tutto ciò in un periodo di grande fermento nelle piazze napoletane (comitati di quartiere, Disoccupati Organizzati, pratica dell'autoriduzione delle bollette Enel, ecc.) e nell'ambiente musicale (esplosione del cosiddetto `Neapolitan power', il movimento musicale sospeso fra le tradizioni musicali della città e le suggestioni della musica d'oltreoceano, con Edoardo Bennato, Alan Sorrenti, Toni Esposito, Napoli Centrale ecc.): i Zezi volevano far entrare nel canto di ispirazione contadina gli avvenimenti del quotidiano, la 'storia', lì dove De Simone cercava invece la `metastoria', la temporanea e simbolica 'fuoriuscita' dal quotidiano, che nel canto etnico campano nel momento rituale si ritrova'. Con questa impostazione, ovviamente di scarso potere commerciale, in oltre venti anni di attività hanno circolato nel Gruppo Operaio più di centoventi persone, sono stati prodotti dischi e video, sono stati effettuati centinaia di concerti in Italia e all'estero e interventi in scioperi, cortei, manifestazioni. Successivamente compariranno nel folk revival campano altri gruppi musicali, talvolta nati da scissioni dello stesso stesso G.O. (come il Collettivo Operaio Nacchere Rosse o i Rarecanova) ma in genere destinati a vita più effimera (come il Gruppo folk d'Asilia, lo Gliuommero Popolare e gli stessi Rarecanova), per tentare percorsi simili a quello dei Zezi o molto diversi. In questi ultimi la protesta, anche se modulata su un tessuto musicale spesso di grande suggestione, viene da posizioni diametralmente opposte, come per Musicanova, il gruppo guidato da Eugenio Bennato e Carlo D'Angiò (anch'essi ex Nccp). Tralasciamo ovviamente in questa sede di trattare gli ulteriori sviluppi che il folk revival ebbe in chiave rock, folk rock, ecc. Fin dal suo apparire, malgrado il carattere semiprofessionale e a tratti quasi dopolavoristico, il Gruppo Operaio venne accolto sia dalla critica che dal pubblico con notevole interesse. Fu compresa la specificità di una riappropriazione culturale: i tempi erano maturi perché i materiali della tradizione popolare non fossero più manipolati esclusivamente da studiosi di estrazione colta, ma potessero essere utilizzati «dal basso», e perché si potesse tentare anche in Campania e nel sud un'operazione di contaminazione di canto contadino e di canzone industriale, come pure aveva fatto Ewan MacColl in Gran Bretagna, e come del resto aveva già prospettato 46 Ernesto de Martino nei suoi celebri articoli sul `folklore progressivo'8. Si era insomma da tempo sviluppata una sens ibilità comune tra operatori anche lontani tra di loro, per lavorare sulla attualizzazione spontanea della tradizione popolare, legata, da parte degli stessi esecutori popolari, a concreti momenti di lotta sociale e politica. Il nome del gruppo viene dai «lezi», attori improvvisati degli anni '50, che giravano per i paesi vesuviani rappresentando la «Canzone di Zeza», di cui parleremo tra breve. Il Gruppo Operaio si forma dunque a Pomigliano d'Arco, in una `casarella' in via Carmine Guadagni, così affettuosamente detta perché in paese locali di questo tipo venivano presi in affitto a pochi soldi per incontrarsi, discutere e suonare assieme. Prevalentemente formato da proletari provenienti dal mondo popolare e forzatamente inseriti nel contesto industriale che abbiamo descritto, E Zezi si configurano subito come 'collettivo', come gruppo in cui le scelte, artistiche o politiche che siano, sono decise, almeno per questi anni, collettivamente (anche in questo in contrasto con il supposto verticismo della Nccp). Il nucleo di base comprende, tra gli altri, Pasquale Bernile, Antonio De Falco (`cemmenera'), Tonino Esposito stoc), Pasquale Terracciano Pissetto), tutti all'epoca poco più che ventenni. Il gruppo viene fin dagli inizi raccordato da Angelo De Falco, scenografo, appartenente alla fascia degli operatori di base della sinistra e già collaboratore della Nuova Compagnia. È stato spesso scritto che nel caso dei Zezi non si ponevano problemi di approccio al materiale popolare, in quanto gli esecutori erano anche portatori di cultura etnica. Questo è vero solo in parte: alcuni dei membri della prima formazione erano sicuramente impermeabili ad ogni forma di espressione non tradizionale, ma altri avevano anche avuto modo di orecchiare la musica leggera dell'epoca, o avevano avuto esperienze con la canzone napoletana esibendosi alle feste di matrimonio, vera e propria palestra per tanti musicisti partenopei che hanno poi preso le più diverse strade. De Falco, lavorando con la Nuova Compagnia di De Simone, aveva acquisito una certa consapevolezza per quanto riguardava lo stile, sia musicale che teatrale, della autentica cultura di tradizione orale; era lui, quindi, a sorvegliare che i canti della tradizione, pur alterati dalle novità che il gruppo apportava, non scadessero nell'ammiccamento, in quella deprecabile napoletanità da strapaese che, nonostante anni di battaglia culturale da parte di tanti operatori, continua tuttora a dilagare sugli schermi televisivi. Si deve ancora a lui la 47 trasformazione di un insieme di persone, che all'epoca cominciava appena a suonare musica popolare sulla scia del successo della Nccp, in un gruppo politicamente motivato ed orientato. E Zezi si muovono subito in una dimensione militante, quasi che la forza tellurica e l'energia dionisiaca della tradizione campana, una volta imbrigliata e costretta nei ritmi della fabbrica, non potesse che riesplodere in spinta rivoluzionaria. Il linguaggio della cultura popolare, recuperato anche nel suo codice gestuale e prossemico, è parte inscindibile di una proposta spettacolare, ma non è sufficiente: l'esigenza di denuncia sociale della propria condizione spinge il gruppo ad abbracciare la canzone politica, le forme del teatro di guerriglia e dell' agit-prop, gli slogan della piazza. La prima operazione del Gruppo Operaio è il recupero della `Canzone di Zeza', una rappresentazione teatrale popolare dell'area campana che a Pomigliano era scomparsà dal 1956. La Canzone di Zeza è un rituale di carnevale un tempo diffuso in tutta la regione e oggi prevalentemente localizzato nell'avellinese (Bellizzi Irpino, Cesinali, Mercogliano), che si rappresenta nel periodo intorno al martedì grasso; essendo di breve durata viene ripetuto diverse volte nella stessa giornata tra le strade ed i cortili. La `Zeza' è un contrasto teatrale cantato, con accompagnamento di banda musicale, tra Pulcinella (che esibisce in questa rappresentazione alcuni fra i suoi tratti più significativi di maschera arcaica) e sua moglie Zeza: il primo vuole impedire alla loro figlia Vincenzella (o Tolla) di sposare Don Nicola, uno studente calabrese che la corteggia. Zeza cerca invece di favorire la figlia e alla fine lo studente spara tra le gambe di Pulcinella che acconsente quindi al matrimonio. Si tratta, molto probabilmente, di un'azione derivata da rituali di fertilità, che simboleggia il passaggio dall'anno vecchio all'anno nuovo. La Canzone di Zeza è recitata tradizionalmente da soli uomini e, oltre ad essere molto spettacolare, evidenzia segnali rituali di notevole interesse che possono prestarsi ad una articolata lettura antropologica 9. Nella versione pomiglianese è da rilevare l'inserimento di un personaggio estraneo alle rappresentazioni di altre zone, l'abate Sarchiapone (nome probabilmente mutuato da una maschera che compare nell'altra importante rappresentazione di teatro popolare campano, `La Cantata dei Pastori'). Rispetto alla `Zeza' riproposta dalla Nccp e caratterizzata da grande eleganza formale oltre che da un ritmo accelerato, il Gruppo Operaio accentua i tratti 'bassi', i lati più indigesti ed osceni (la maschera di Pulcinella ha per esempio tra le gambe il `turcituro', un lungo cordone rigido che allude in maniera 48 evidente al fallo, così come il Don Nicola indossa una cravatta con i numeri 6, 16 e 29, che nella 'smorfia' napoletana indicano rispettivamente l'organo femminile, il deretano e il membro maschile9, difficili da digerire per un pubblico non popolare. La Zeza viene riproposta nel carnevale pomiglianese e diventa in seguito parte integrante degli spettacoli del gruppo. Un'altra rappresentazione popolare che verrà riproposta è quella dei 'Dodici Mesi'. Si tratta di una sorta di almanacco drammatizzato, anch'esso come la Zeza diffuso un tempo in tutta la regione e la cui presenza è oggi molto ridotta: dodici attori più uno, `Marcusalemme' (Capodanno), sempre di sesso maschile", mettono in scena le caratteristiche del mese; la rappresentazione forse più interessante si svolgeva fino a qualche anno fa ad Olevano sul Tusciano, a sud di Salerno, con l'uso di maschere e di muli. Anche i 'Mesi' vengono replicati più volte in una giornata. Il circuito degli inizi è quello classico: feste de l'Unità, circoli Arci, ma anche contesti antagonistici gestiti da organizzazioni della Nuova Sinistra o festival importanti come la Biennale di Venezia (1975), il 12° Festival Populaire de Martigues, in Francia (1976), o l'esibizione alla Conway Hall di Londra (1977), dove i Zezi ottengono sempre lusinghieri riconoscimenti dal pubblico e dalla stampa locale. Nel settembre del 1978 il Gruppo Operaio partecipa, inoltre, davanti ai cancelli della Fiat di Mirafiori alla 'festa della mezz'ora', celebrazione della riduzione dell'orario di lavoro appena entrata in vigore. E Zezi puntano subito su una comunicazione spettacolare a tutti i livelli, che trasporti gli spettatori in una dimensione di forte adesione emotiva e faciliti la consegna del messaggio politico. I primi concerti sono eventi 'totali': nelle lunghe, estenuanti tammurriate il pubblico è coinvolto nei balli o viene fornito di strumenti a percussione della tradizione popolare vesuviana (scetavajasse, putipù, triccaballacche e tammorre) ed invitato a seguire i ritmi; ogni separazione, ogni distanza è abolita in favore di una festa catartica in cui il sudore, il movimento e l'energia muscolare, e l'urlo, la protesta e la rabbia sono le due facce della stessa moneta liberatoria. Le prime canzoni si rifanno a tematiche di stretta attualità, la `Tarnmurriata dell'Alfasud' riprende il ritmo dell'omonimo ballo tradizionale per denunciare il clientelismo nelle assunzioni in fabbrica, la Tammurriata de pummarole' (ripresa dai contadini di Scafati che l'avevano composta nel corso delle lotte per l'aumento dei 49 salari) denuncia lo sfruttamento deí lavoratori della terra. Ma il brano più noto, il cavallo di battaglia del Gruppo Operaio di Pomigliano d'Arco è senz'altro 'A Flobert', storia di una fabbrica di armi giocattolo saltata in aria nelle campagne di S. Anastasia. L' 11 aprile 1975 due tremende esplosioni la distruggono completamente, causando la morte di dodici operai e il ferimento di molti altri. Vi si costruivano pistole giocattolo e, clandestinamente, proiettili con polvere da sparo; il reparto per questo tipo di lavoro non offriva nessuna garanzia di sicurezza e in seguito ci fu pure chi accusò i lavoratori di non aver usato le dovute precauzioni. Così descrive la scena del disastro Paolo De Cicco, un operaio che lavorava per la Flobert: «Neanche una bomba di quelle che usano per le estorsioni poteva fare quello che è successo; c'erano resti umani dappertutto. I morti non li hanno trovati: là c'erano le bare ma secondo me erano vuote. Hanno trovato braccia, teste, gambe, ma non era possibile comporre e riconoscere questi operai. Sono sepolti in una fossa comune. Dopo la disgrazia non siamo nemmeno riusciti ad organizzarci, ci siamo talmente sparpagliati che abbiamo ottenuto solo sei mesi di disoccupazione e sei di cassa integrazione; ci furono collette, sottoscrizioni ma nient'altro»2. 'A Flobert' è solo la più celebre delle canzoni di un gruppo musicale che, per la sua provenienza e per le sue stesse ragioni di esistenza, sposa completamente la causa della tutela del lavoro operaio. La storia dei Zezi è storia di una denuncia continua, ossessiva, implacabile degli omicidi bianchi, del lavoro nero, della nocività sui luoghi di lavoro, dell'uso padronale della cassa integrazione. Sono questi anni di frenetica attività dove alle polemiche con la Nccp, accusata senza mezzi termini di dare un'immagine `archeologica' della cultura popolare, si affiancano centinaia di performance a ritmo serrato a sostegno di lotte operaie, per raccolte di fondi, negli scioperi, nei cortei, rinunciando a grandi profitti da mestieranti. Racconta Vincenzo Panico, operaio all'Alenia dal 1970 e tra i primi Zezi: «Mi ricordo i sacrifici che si facevano col Gruppo...Si partiva per fare uno spettacolo, si tornava tardissimo e a volte non ci si ritirava neanche a casa: si dormiva in pullman e la mattina dopo si andava direttamente in fabbrica!» e ancora: «Quando andavamo nei rioni popolari bastava fare un po' di rumore e tutti si affacciavano...'Ci sono i Zezi!' e scendevano, si faceva un sacco di gente attorno, anche se non eravamo stati annunciati, e si ballava, si cantava assieme». Ma le polemiche non si limitano solo a quelle con i 'cugini' napoletani della Nuova Compagnia; il Grup50 po Operaio non usa mezzi termini nelle sue prese di posizione, scandisce slogan duri dal palco, provoca deliberatamente i nemici di classe e non è raro che spettatori infastiditi lascino la platea. Nel 1976 E Zezi hanno l'opportunità di incidere un album per i Dischi del Sole: nasce `Tammurriata dell'Alfasud'. Sono registrazioni dal vivo storiche, oggetto di culto per gli appassionati e programmate spesso dalle allora nascenti radio libere; il cappello e la maschera di Pulcinella in copertina rimandano immediatamente alla tradizione popolare, ma le scritte murali di protesta (fotografia della parete esterna di una vecchia casa operaia situata nei pressi delle fabbriche pomiglianesi) non lasciano adito a dubbi sul modo di intenderla. Il disco contiene molti canti popolari sul ritmo della tammorra (il grande tamburo a sonagli tradizionale), con versi tratti dal corpus della tradizione orale fusi a versi originali di ispirazione politica; compaiono brani che ancora oggi sono nel repertorio del gruppo, come la già citata 'A Flobert'. In Tammurriata dell'Alfasud' è presente anche la dimensione teatrale propria dei Zezi. Si è visto quanta importanza abbia il teatro di matrice rituale nella proposta del Gruppo Operaio degli anni '70, vedremo quanta ne avrà il teatro 'agit-prop' nel decennio seguente. In un momento della registrazione, durante il brano omonimo, si lascia momentaneamente la musica e, dopo il suono di una sfrena, si 'rappresenta' una scena di insoddisfazione quotidiana, si mima il pranzo in fabbrica e l'assemblea, mentre sullo sfondo si ode il rumore della catena di montaggio. All'epoca fu scritto che questo momento dimostrava la contiguità tra vita ed arte, che il Gruppo Operaio non faceva che ripetere in scena o in sala di incisione quella che era la sua vita quotidiana (quasi in una sorta di abreazione), nell'esaltazione di una presunta 'naturalezza' immune da mediazioni espressive. In realtà qui non c'è affatto contiguità tra vita e scena, ma si assiste al recupero spontaneo di modi teatrali naturalistici estranei alla tradizione rituale contadina, che però grande spazio hanno all'interno di altre forme espressive 'popolareggianti' napoletane (teatro borghese, sceneggiata, avanspettacolo). Questa annotazione ci permette anche di comprendere la particolarità dell'universo dei Zezi, un universo che rinvia a sua volta alla specificità della cultura napoletana nella sua globalità, nel suo interagire tra modelli colti e popolari: sebbene il richiamo principale nel G.O. sia la tradizione popolare, essa non è quindi l'unica base su cui si innesta la canzone politica; e qui per tradizione popolare intendiamo soprattutto tradizione 'rituale', connotata cioè da 51 tutte quelle dinamiche fisiche e psichiche che solo i potenti meccanismi del rito sanno mettere in azione. Nel linguaggio dei Zezi, pertanto, forme espressive rituali convivono, senza soluzione di continuità, con altre di diversa origine; in questo senso, l'ascolto del primo album potrebbe fuorviare un pubblico non smaliziato che in esso cercasse la tammurriata `autentica'. Chi ha occasione di assistere ai sempre più rari momenti di arcaica ritualità popolare, arcaicità sempre più residuale nell'attuale fase di degrado e di risemantizzazione del tessuto festivo tradizionale campano, può osservare come questa danza sia estremamente formalizzata ": tutto ciò che non è funzionale al rito è espunto dall'azione, a testimonianza del carattere esclusivo della tammurriata, apice stesso dei momenti festivi con cui la comunità affronta ed esprime il carico delle angosce collettive. La tammurriata rituale non ha quindi nulla di 'spontaneo', se con questa parola si intende qualcosa di irruento o di `naturale'; essa è invece il prodotto di una raffinata stilizzazione espressiva, mediata da un elaborato apparato simbolico, che la differenzia dall'espressività popolare quotidiana non rituale, nell'uso della voce come nella gestualità. 11 frastuono, i fischietti, l'enfasi emotiva, tutte le caratteristiche della `Tammurriata dell'Alfasud', che sembrerebbero 'spontanee', nascono invece dall'innesto sul canto etnico di forme espressive provenienti, quindi, da altri ambiti. Ovviamente però, solo chi è partecipe di una dimensione rituale collettiva permanente come quella napoletana, riesce in seguito a rapportarsi in maniera così comunicativa anche ad una situazione tanto diversa, portandosi dietro la forza e l'istintualità del rito e riuscendo a riutilizzarla in un nuovo contesto. Dalla canzone popolaresca ai linguaggi rituali, dalla sceneggiata fino al folklore operaio, dunque, questi frammenti ribadiscono subito, nel loro caotico assemblarsi, la complessità della dimensione comunicativa che il gruppo è stato capace di elaborare. Nel marzo del 1977, prima che la rete due della Rai si decida a dedicare due puntate al carnevale pomiglianese e alla situazione del polo industriale napoletano, fa scalpore la partecipazione del Gruppo Operaio al programma della rete uno della Rai 'Scatola aperta'. Rievocando la tragedia della Flobert con l'omonima canzone, i Zezi fanno da colonna sonora ad una coraggiosa rubrica che indaga la piaga del lavoro nero nel napoletano. La trasmissione provoca uno strascico enorme di polemiche, con la Dc napoletana (chiamata direttamente in causa) che risponde con i suoi notabili 52 locali, accusando gli autori di 'Scatola aperta' e ovviamente il G.O. (accusato di essere un 'gruppo folkloristico formato dal Pci') di faziosità e di tendenziosa ricostruzione degli avvenimenti. E Zezi rispondono con un telegramma in versi alla sede nazionale a Roma della Democrazia Cristiana, e con un comunicato alla Rai, sostenuto dalle firme di operai dell'Alfa Romeo, dell'Alfasud e dell'Aeritalia, rivendicando la propria autonomia politica. In realtà il programma televisivo aveva sollevato la drammatica questione del lavoro nero a Napoli: accentuato dai processi di decentramento produttivo, confinato in anonime fabbrichette o nei `bassi' del centro storico, riservato soprattutto alle donne e ai minori, il dramma dello sfruttamento totale (che conosce oggi più che mai un odioso 'revival') scuote l'opinione pubblica. Le immagini mostrano ragazze affette da polinevrite da colla che fanno fatica a reggersi in piedi e sono costrette alla ginnastica rieducativa, e ragazzini di sei anni che, abbandonata la scuola, lavorano per pochi spiccioli nei bar di periferia. A questo tema i Zezi dedicheranno anche lo spettacolo 'A morta mia', del 198014. È però difficile fare una precisa cronologia degli eventi di questo periodo; sono anni che preludono e seguono una svolta epocale per la società italiana: nel 1977 comincia a venire a maturazione completa il potente sviluppo industriale che l'automazione, la ristrutturazione e la nascente telematica stavano determinando. Il capitale effettua quel potente 'balzo in avanti' destinato solo in minima misura a rifluirgli contro nei tumulti di piazza di quell'anno, quasi un' interferenza, un 'rumore', e in realtà destinato a spianargli la strada (almeno fino ad ora) per la sua definitiva vittoria: l'annichilimento di ogni forma di opposizione di massa e la colonizzazione dell'immaginario collettivo. La mutazione tecnologica libera inedite potenzialità produttive, genera nuovi bisogni, lascia intravedere un possibile modello di società affrancata dalla schiavitù del lavoro fisso: la speranza, per gran parte delle nuove masse scolarizzate libere dai bisogni 'primari' e nutrite dall'espansione dell'industria culturale, di poter vivere della propria creatività in settori produttivi direttamente collegati alla sfera della propria formazione intellettuale (musica, design, giornalismo ecc.); in un'industria culturale, insomma, non più elitaria e gestita dall'alto, e tramite la quale poter accedere al `totem' della nuova società: la `comunicazione'. La cosiddetta 'terza rivoluzione industriale' abbatte infatti la barriera dei costi, permettendo ad esempio la nascita delle radio 'libere', la possibilità di stampare e diffondere 53 riviste con poca spesa, di produrre film e dischi senza dover necessariamente ricorrere alla grande industria. Da verticale, accentrata, controllata, quindi, la comunicazione diventa orizzontale, policentrica, autogestita. Arriva in Italia la cosiddetta `postmodernità', la fine del fordismo e delle grandi fabbriche, l'emergere di una società `flessibile'. Il conflitto capitale-lavoro comincia a spostarsi, nel suo punto più avanzato, sul piano dell'immaginario. Ma l'illusione dura poco: il postmoderno significa infatti ristrutturazione industriale, calo dell'occupazione, nuove forme di precarietà, asservimento e povertà, ma, soprattutto, utilizzazione del modo di produzione postfordista nei settori decisi volta per volta da un padronato ora più lontano e invisibile, in base alle esigenze poste dalla sempre più forte competitività determinata dalla transnazionalizzazione dell'impresa°. Così, mentre la generazione precedente di lavoratori va in mobilità, la successiva non viene neanche assunta. Si viene dunque a formare un nuovo 'proletariato giovanile', in maggioranza acculturato ma inutile alla nuova struttura produttiva, e si generano forme alternative di aggregazione: nascono ad esempio i primi `centri sociali autogestiti', che occupano già i vecchi stabili in rovina della desertificazione industriale (un fenomeno che esploderà non a caso nei primi anni '90, a deindustrializzazione ormai avvenuta), dove si cerca un modo di reagire all'esclusione, di gestire degli spazi al di fuori delle logiche di mercato. Cambia quindi la geografia sociale del mondo giovanile e si dissolve definitivamente il vecchio paradigma ideologico del movimento operaio tradizionale, la sua rincorsa al salario, la sua mitologia della produttività e la sua fiducia nei partiti della sinistra storica; ma si dissolve anche l'egemonia verticistica delle organizzazioni extraparlamentari e della loro funzione di collettori e di canalizzatori di tutto quanto si muoveva a sinistra del Pci. Nel 1977 nasce dunque una nuova sensibilità: i linguaggi delle avanguardie artistiche del novecento, premonitori della svolta epocale in corso, penetrano nella cultura di massa: i giovani del `movimento', e non solo in Italia, portano a compimento l'istanza dissolutrice del '68 e sembrano intonare il lamento funebre della modernità, la fine del modello sociale fordista, la nascita dell'uomo `liberato'. Due citazioni su questo punto. Scrive David Harvey: «Nemica delle qualità oppressive della razionalità tecnico-burocratica con basi scientifiche diffusa dal potere istituzionalizzato nelle sue varie forme monolitiche (grandi aziende, stati, partiti politici e sindacati burocratizzati, ecc.), la controcultura esplorava i campi dell'autorealizzazione individualizzata attraverso una politica di 'nuova sini54 stra', con l'adozione di gesti antiautoritari, abitudini iconoclastiche (nella musica, nell'abbigliamento, nel linguaggio, negli stili di vita), e con la critica della vita quotidiana»' 6. Osserva poi Claudia Salaris citando Franco Berardi Tifo', uno dei leader del '77 italiano: «In modo sia pur confuso e intuitivo – sostiene Bifo – 'il movimento del '77 percepisce l'imminenza di una trasformazione profondissima nell'organizzazione sociale dell'attività umana, e nella qualità stessa dell'attività, percepisce la smaterializzazione della produzione e dei rapporti comunicativi. Nel percepire questa tendenza la avverte come glaciazione, come sparizione del concreto'. (...) Da questo nasce quel disperato bisogno della relazione materiale, fisica, dello stare insieme, nell'assemblea, nel corteo, nella casa occupata»". In tutto questo la riscoperta della cultura popolare ha un suo ruolo; la ricerca della < tattilità', l'urgenza di reagire alla plastificazione dell'esistenza sembrano trovare un 'luogo' privilegiato nell'energia archetipica dei riti, nella forza espressiva di linguaggi arcaici cifrati e visionari di culture messe ai margini della storia. Nel recuperare le tematiche dei futuristi, dei surrealisti e dei dadaisti (nonché della pop art e dell'action painting), il clima della controcultura crede di trovare un prezioso alleato anche nella festa popolare e nei suoi linguaggi, e non è un caso che la festa in quanto tale, come momento liberato e comunitario, sia al centro della nuovo movimento giovanile. E nella festa popolare tutti i segni della cultura borghese sono rovesciati, basti considerare, ad esempio, la sola gestione dello spazio, frontale e gerarchico quello del teatro classico, circolare e comunitario, che si dilata e si restringe, che esclude e ingloba gli spettatori, quello della `Canzone di Zeza' e delle tammurriate. Umberto Eco intravide anche in un errore di 'codice' la contestazione degli studenti dell'Università di Roma a Luciano Lama in quell'anno: «Lama si è presentato su un podio (sia pure improvvisato) e perciò secondo le regole di una comunicazione frontale tipica della spazialità sindacale e operaia, a una massa studentesca che ha elaborato invece altri modi di aggregazione e interazione, decentrati, mobili, apparentemente disorganizzati. Si tratta di un'altra forma di organizzarsi lo spazio e quel giorno all'università si è avuto anche l'urto tra due concezioni della prospettiva, diciamo l'una brunelleschiana e l'altra cubista»3. Ma i riti della cultura underground e quelli della cultura popolare, pur se quest'ultima può esercitare una parziale influenza sull'altra, sono destinati, nelle loro motivazioni più profonde, a restare separati se li si accosta in maniera acritica e superficiale, perché lontane sono le società che li hanno prodotti. Nei primi le nuove realtà giovanili cer55 cane un'evasione dall'ordine sociale, utilizzano l'alterazione sensoria-k per eluderne il controllo, ma non si pongono il problema del punto d'armo e non possiedono un sistema di reintegrazione culturale: fesperienza si traduce in fuga irrelata e autodistruttiva. Nei secondi la comunità utilizza la fuga per reintegrarsi, tramite il potente strumento del simbolo mitico-rituale, di fronte all'angoscia del divenire storico. Dunque, come abbiamo accennato nell'introduzione e come ha tentato di dimostrare il Gruppo Operaio in venticinque anni di storia, la comunicazione con il mondo popolare non passa attraverso la verbosità delle improbabili sigle di nuovi generi musicali, né per la sovrapposizione arbitraria di situazioni distinte. Occorre al contrario, con rispetto ed attenzione, un umile e paziente lavoro di ricerca e dí comprensione di una cultura prima di tutto diversa, un lavoro che ne `apra' la struttura simbolica e permetta l'assimilazione dei suoi miti collettivi, che offra una decodifica in grado di rilevame la pregnanza, nella consapevolezza che non si tratta di frammenti evocativi di mondi perduti da consumare in fretta, ma di risposte antiche a paure e fantasmi che tuttora vivono in incognito nella nostra società e in cui non è difficile ancora imbatterci e riconoscerci. Nell'estate del 1979, in occasione di una veglia ai cancelli delle fabbriche pomiglianesi per il rinnovo del contratto di lavoro, l'intervento dei Zezi con lo spettacolo 'Serpenti con coglie sonanti' genera momenti di tensione: la parodia della celebre canzone napoletana `Anema e core' prende di mira le aperture di Berlinguer alla Democrazia Cristiana. Il pubblico si spacca, c'è chí canta in coro e chi, come i giovani del Pci, giudica provocatoria e qualunquistica la trovata. Anche in questo caso, strascichi della polemica finiscono sui quotidiani nei giorni successivi, provocando una dura risposta del G.O. sul quotidiano 'il manifesto' intitolata «Le 'coglie sonanti' della Fgci» dove tra l'altro si legge: «Non si può criticare una linea politica perdente che ha creato sfiducia e disorientamento in seno alla classe lavoratrice? Non si può criticare una linea politica che ha invocato ed invoca sacrifici, austerità, alleanze con la Dc, il rafforzamento delle istituzioni, che nel nome della lotta all'eversione è, nei f atti, un r es tr ingiment o delle liber tà d emocr atiche e di espressione?» 19 Colonne di questo primo periodo del Gruppo Operaio sono, tra gli altri, Marcello Colasurdo, all'epoca barista poco più che ventenne, e in seguito operaio dell'Alenia, col tempo divenuto depositario della memoria della tradizione popolare e straordinario attore: è 56 lui la `Zeza', interpretata sempre con grande adesione psicologica; Matteo D'Onofrio, di dieci anni più anziano, operaio addetto alla catena di montaggio dell'Alfasud, voce possente con ampie concessioni ai modi di cantare di matrice extrarituale e attore (entrambi rimarranno stabilmente nel gruppo, il primo, tra l'altro occasionale collaboratore delle Nacchere Rosse, fino al 1995); Luigi Cantone, indimenticabile Pulcinella immortalato nel video sulla 'Canzone di Zeza' girato da Salvatore Piscicelli nel 1976. Altro personaggio importante, tra i tanti che hanno circolato nei Zezi all'epoca, è Salvatore Alfuso, detto `Sciasca', in seguito transfuga e fondatore del già menzionato Collettivo Operaio Nacchere Rosse, forse la più nota delle formazioni che sono nate con ispirazione analoga a quella del Gruppo Operaio. Osserva Nino Leone, a più riprese collaboratore del G.O.: «I Zezi hanno fatto sempre riferimento alla cultura dei contadini e di una classe operaia che veniva dalle lotte sindacali postbelliche, mentre le Nacchere Rosse sono nate a ridosso della nuova classe operaia di importazione dell'Alfasud, più giovane, più legata allo spontaneismo, ma che non aveva questo riferimento a questa doppia natura, operaia e contadina insieme, che avevano invece i Zezi». La vicenda dei Zezi abbraccerà in ogni caso, nei suoi oltre venti anni di attività, almeno due fasi della storia del movimento operaio italiano: quella del cosiddetto 'operaio massa', l'operaio proveniente da altri mestieri, non specializzato, insofferente alla disciplina di fabbrica, e quella del nuovo operaio 'metropolitano', venuto fuori dal clima 'desiderante' del '77: «Quella stessa fabbrica che per il vecchio operaio era divenuta una sorta di patria, quel territorio che era stato trasformato e lavorato con le lotte e la solidarietà duramente costruita fino a diventare centro del proprio mondo vitale, appare al contrario, nel primo approccio, alla maggior parte di questi nuovi venuti, luogo di oppressione e dissoluzione esistenziale, struttura inerte entro cui si consuma la lacerazione della rete adolescenziale di relazioni sociali e la morte della soggettività: 'Quando entro in fabbrica – dichiara Emma, 21 anni, pochi mesi di Fiat – io devo ammazzare una parte di me, quella più bella e libera (...) Ogni volta che esco di qui – aggiunge – so che ho perduto otto ore della mia vita e che non le ritroverò più'»20. 57 NOTE ' Cfr. G. VACCA, La canzone politica in Gran Bretagna: Ewan MacColi, in «Musica/Realtà», Milano, dicembre 1991. Cfr. DE MARTINO, 1975 e 1976. 'Cfr. DE SIMONE 1981, p. 9. Cfr. Reinventare la festa. Intervista con Roberto De Simone a cura di G. Vacca su «I Giorni Cantati», giugno 1991. La metodologia usata da De Simone per l'analisi della cultura popolare campana è stata in seguito ripresa da molti ricercatori ma viene spesso contestata da studiosi di altra formazione. Molto critico verso questo approccio era, ad esempio, A. M. Di Nola che, in un affrettato contributo, parla di 'devastante frazerismo' e mette in caricatura le teorie di C.G. Jung e di Mircea Iliade (Cfr. l'introduzione a Di MAuRO 1986; si veda anche GALASSO 1982). Diego Carpitella riteneva invece che le voci della Nccp «rientrano effettivamente tutte nella più rigorosa tradizione» (CARNI-ELLA 1992, p. 55). 6 Sempre nell'intervista della nota 50. 7 Per le tematiche 'storia e metastoria', cfr. ELIADE e DE MARTINO. °Cfr. IL DE MARTINO, 5-6/96 9 Cfr. ROSSI-DE SIMONE, 1977 e Rubino 1984. '° Per il significato dei numeri della smorfia napoletana cfr. DE SIMONE 1977, pp. 111-115 C DE SIMONE 1998. " Nella tradizione di Somma Vesuviana i 'Mesi' sono stati in alcuni casi ripro posti anche con le donne (cfr. Russo C. 1997) ma, in Campania, i personaggi del tea tro popolare sono quasi sempre di sesso maschile. L'inserimento forzato delle donne, sostenuto spesso da argomentazioni 'politically correct', è sovente avvertito nel mondo popolare come lacerazione del tessuto tradizionale. Questa frattura dà talvolta luogo a polemiche, come, ad esempio, è di recente avvenuto nell'isola d'Ischia, dove, in contrapposizione alla tradizionale 'paranza' (gruppo) che ritualmente esegue la tradizio nale danza armata denominata «'ndrezzata», è stato costituita un' altra formazione che ha ipotizzato la presenza delle donne. Il rifiuto o la riluttanza, negli ambienti popolari, a modificare le regole della tradizione, esprime la necessità della permanenza di un orizzonte mitico, stabile, rassicurante, atemporale che, proprio in quanto immutabile, protegge dai rischi del divenire storico. Anche per questo è molto facile, per esempio durante le feste popolari, udire lamentele (in generale da parte di contadini anziani) su come non si suoni più come un tempo, o non si balli più come una volta ecc. 12 Si veda anche l'intervista a Ciro Liguoro, l'unico superstite dell'esplosione, alla fine di questo volume. 13 Cfr. ad esempio anche le registrazioni dei sette dischi 'La tradizione in Campania', a cura di R. De Simone, in discografia. " Decentramento produttivo, anonime fabbrichette e aziende familiari disseminate nei centri storici e sul territorio sembrano invece costituire, per Luca Meldolesi e i suoi allievi 'antropologi', una grande speranza di futura prosperità per tutto il Mezzogiorno nella nuova economia globalizzata. Cfr. MELDOLESI 1998. l ' Sul movimento del '77 si veda il saggio di P. VIRNO in EALESTRINI-MORONI 1997. "In HARvre 1993, p. 55. 17 In SALARIS 1997, p. 139. " Su «L'Espresso», 29 maggio 1977, cit. in SALARIS 1977, p. 63. 9 ' In ‹,i1 manifesto», 12 luglio 1979. 20 In REVELLI 1989, p. 75. Si veda anche alla fine del libro l'intervista a Sebastiano Ciccarelli, nato nel 1958 ed entrato nell'Alfasud proprio nel 1977. 58 III. FRA TRADIZIONE E NUOVI LINGUAGGI «`nu Zezo quanno sta <ncòppa 'o palco ha da tené sempre a uno sotto ca < o spara!» Luca Già negli anni del revival, il Gruppo Operaio non si era limitato al 'concerto' come unica forma di comunicazione. La partecipazione a manifestazioni e cortei, gli interventi in situazioni di conflitto rendevano necessaria l'utilizzazione di tecniche spettacolari non canoniche, in sintonia con quanto era avvenuto oltreoceano nel decennio precedente, e con quanto si tentava di fare anche in Italia (si pensi ai torinesi dell'Assemblea Teatro'). Nel 1963, infatti, la San Francisco Mime Troupe aveva elaborato le prime forme di 'teatro di guerriglia', applicando all'arte scenica le tecniche dei combattenti dei paesi del terzo mondo in lotta contro l'imperialismo: «Il teatro (...) 'è guerra di guerriglia'. Ogni spettacolo è 'un'incursione notturna', in cui bisogna 'attaccare, sorprendere, ingaggiare il combattimento' e `fuggíre'2 ». È la tattica del 'mordi e fuggi', teorizzata e descritta da Che Guevara e praticata anche in Vietnam, il costituirsi in piccole unità mobili, l'agire e il dissolversi rapidamente, il non lasciare tracce. È una tattica da guerra moderna che tra l'altro punta al clamore dell'azione, intuendo e utilizzando i meccanismi della società dello spettacolo. Dal punto di vista teatrale tutto ciò si traduce in velocità e adattabilità, capacità di interagire con l'ambiente, di fare propri rumori e scenari già presenti all'arrivo della compagnia, e nell'utilizzare tecniche particolari che di tutto questo tengano conto (gesti ampi e convenzionali, cartelli, pupazzi ecc.), per creare 'situazioni', o per intervenire in eventi già in atto. È il caso delle performance del Gruppo Operaio a Siano, in provincia di Salerno, contro l'installazione di una fabbrica d'amianto, alla marcia per la pace a Roma nel 1982, o allo stabilimento siderurgico dell'Italsider di Bagnoli nel 1983. A Siano l'Eni aveva deciso di impiantare, insieme al gruppo privato Bender & Martiny, uno stabilimento per la lavorazione di fibre tessili di amianto per la costruzione di freni e frizioni per automobili. Si trattava di una fabbrica che avrebbe occupato qualche centinaio di persone, e la dura lotta da parte dei locali luogotenenti del potere centrale per ottenerla sul proprio territorio era stata vinta dal 59 sindaco di Siano. Nessuno si era minimamente posto il problema della pericolosità di tale lavorazione sia per gli operai, che rischiavano malattie all'apparato respiratorio (principalmente l'asbestosi), sia tantomeno per i danni all'ambiente e la distruzione della locale economia agricola. Quando già erano stati espropriati migliaia di metri quadrati di terra per la realizzazione dell'impianto, scoppiarono le polemiche che hanno poi impedito la costruzione della fabbrica. Il 26 gennaio del 1980 il Gruppo Operaio scende a Siano per appoggiare la causa della nuova sinistra che osteggia l'installazione dell'Eni. E Zezi, guidati dal `pazzariello' Tonino Boni (detto 'Capocchia') coinvolgono l'intero paese in uno spettacolo di strada che dura molte ore parodiando i politici locali, ironizzando sull'interventismo statale al sud e sui suoi fallimenti, perorando la causa ambientalista'. È in questo ambito, soprattutto, che vengono utilizzati il teatro popolare e le maschere della tradizione, ma anche i modi del teatro 'di guerriglia' e dell'agit-prop. Dal Pazzariello' alla 'Canzone dí Zeza', fino alla `Rappresentazione dei dodici mesi', praticamente tutto il bagaglio espressivo della cultura popolare vesuviana viene riproposto, e talvolta rivitalizzata con l'adattamento dei contenuti in chiave satirica o esplicitamente contestataria, in base alle situazioni sociali in cui si opera. Il `Pazzariello' è una figura di banditore della Napoli popolare ed è oggi quasi totalmente scomparso: vestito con abito di foggia militare modello napoleonico, munito di bastone decorato e sostenuto da una ritmica di tarantella, veniva utilizzato per reclamizzare, con le tecniche retoriche della lode e dell'encomio, l'apertura di nuove botteghe o accompagnava, maschera ancora visibile nei carnevali dell'entroterra, la maschera «a vecchia 'o carnevale», che raffigura un Pulcinella portato sulle spalle dalla vecchia Quaresima'. Ad un livello più profondo, però, nell'ambito di una lettura storico-religiosa della cultura etnica napoletana, esso rimanda per certi aspetti a figure arcaiche alle quali era consentita una comunicazione 'altra', allusiva e sibillina derivante (come sembra suggerire lo stesso nome) da una `pazzia' rituale, propria, ad esempio, degli sciamani '. Si tratta quindi di un personaggio che si presta alla denuncia e all'irrisione carnevalesca, e come tale veniva utilizzato nelle azioni di strada del Gruppo. Nel carnevale pomiglianese del '77, documentato anche dalla Rai, il Pazzariello (Pasquale Terracciano), lontano dalla sua funzione di banditore commerciale, ma con le stesse modalità espressive, ritrova un ruolo da giullare, da 'fool', mettendo alla berlina il potere, deprecando l'inebetimento televisivo ed esaltando la riscoperta delle pro60 prie tradizioni ricontestualizzate nel momento politico dell'epoca: nella denuncia del carovita, della mancanza di case, di scuole, di ospedali, egli chiude il suo lungo monologo di propaganda antidemocristiana mischiando linguaggi tradizionali e denuncia attuale: `ossa e pilossa/ 'a carne 'e piecoro è tutt'ossa/all'Italia pe' stà bbuono/ce vò a bandiera rossa'6. Ma un efficace uso delle forme di comunicazione di piazza rifunzionalizzate nel nuovo contesto si trova ad esempio, sempre dallo stesso carnevale, in questa 'tirata' di Sciascià (già allora passato alle Nacchere Rosse e poco dopo prematuramente scomparso), sottolineata da una gestualità e da una intonazione da vero banditore popolare che naturalmente, però, non possono purtroppo essere rese dalla sola lettura del testo: `Attenziò pupulaziò! /Ccà statili-no 'rimano a `na brutta razz' Po guvemo ce fa ascì pazz'/ loro magnano, arrobbano e s'aizano 'e palazz' /nuje faticammo e c'arapimmo 'o mazz' /e 'e figlie nuoste 'a casa magnano cuolle 'e cazz'. /Nuje pe' ffa `na bbona democrazia/ avimma fa `na bbona pulizia/ cacciammo 'a tutta 'sta fetenzia/ Leone vuleva fa 'o prugress'/ e invece 'e fa l'Hercules/ ha fatto nu cessT7 Il Gruppo Operaio cercava insomma di rivitalizzare e riproporre forme di teatralità popolare, spesso connesse alla ritualità agraria dei contadini e affidate ormai alla sola memoria degli anziani, nel tentativo di arginare in qualche modo i modelli di consumo e gli stili di vita imposti dal caotico processo di trasformazione che la regione stava subendo. Si trattava ovviamente di una lotta impari, ma è un dato che, grazie alla spinta del clima del revival, molti rituali in disuso furono ripresi da alcune comunità e che sí diffuse tra i giovani (e i meno giovani) un'attenzione e una consapevolezza verso una cultura spesso rifiutata ed etichettata come 'cafona'. Nel frattempo si ricercava materiale tradizionale, si intrecciavano rapporti con esecutori e portatori di cultura orale come Ciccio `fragnone', al secolo Francesco Palladino, artigiano ambulante di Brusciano, che ancora raccontava nella sua canzone 'E ciento paesi' i tanti posti che era costretto a girare in lungo e in largo per esercitare il suo mestiere. Il decennio 1970-1980, oltre alle dure vertenze di fabbrica, ha visto, come è noto, l'emergere in Italia di un ciclo di lotte in gran parte estranee alla tradizione del movimento operaio e sindacale. Questi conflitti, connotati da un forte carattere metropolitano o comunque cittadino, hanno intereressato disoccupati e sottoccupati, cassintegrati e sottoproletari, baraccati e marginali di ogni tipo: 61 l'ombra, il 'rimosso' della ristrutturazione neocapitalistica. Essi hanno sviluppato forme di protagonismo inedite per il nostro paese, e modalità rivendicative per lo più imparentate con la cultura giovanile sessantottesca: «La pratica dei cortei (...) prende il via già alla fine degli anni Cinquanta con i giovani dalle magliette a strisce che si mettono alla testa delle manifestazioni e delle sfilate dei lavoratori in occasione degli scioperi generali a Roma, a Reggio Emilia, a Palermo; è una pratica che provoca una 'chiamata in causa della popolazione, in forme efficaci, meno solenni e compassate, più scanzonate e dirette, e pertanto relativamente blasfeme rispetto alle canoniche del passato, (...) con rumori e strumenti anomali, effetti di turbolenza sul traffico, silenzi e trovate (...) i partecipanti instaurano un dialogo con la società, la gente, senza troppo coprirsi dietro le disposizioni e le parole d'ordine del sindacato» 8. Si osservi la differenza con quanto avveniva invece per i cortei di maestranze inquadrate secondo i criteri del vecchio modo di manifestare: «Il giornale il 'Mattino', nel parlare della protesta dei lavoratori Alfa Romeo, disse della civiltà e della compostezza con le quali quegli operai erano arrivati a Napoli a bordo di pullman e treni della Circumvesuviana avevano attraversato il Rettifilo e poi si erano portati sotto il palazzo del governo. Qui, in piazza Plebiscito, in prefettura furono ricevuti la commissione interna e le rappresentanze provinciali, dal prefetto Bilancia il quale si premunì di trasmettere al governo le aspettative dei lavoratori i cui rappresentanti, tra l'altro, chiedevano di incontrare il ministro delle partecipazioni statali»9 . Le lotte urbane hanno riguardato per lo più il raggiungimento di obiettivi immediati, la riduzione degli affitti e delle bollette, la trasformazione di quartieri ghetto di periferia in spazi a dimensione umana, l'appropriazione della merce nella sua dimensione di valore d'uso e non di scambio. Nel napoletano, l'esperienza più importante e significativa di questa ondata di protesta è stata sicuramente quella dei Disoccupati Organizzati. Il 'germe' di questo movimento nasce durante l'epidemia del colera che funesta Napoli nel 1973: comitati di quartiere chiedono la disinfezione e ristrutturazione del sistema fognario. È la risposta popolare alle autorità che, partecipi della speculazione edilizia che ha devastato Napoli negli anni '60 e ne ha ridotto le strutture igienico-sanitarie a un colabrodo, cercano di addebitare l'epidemia esclusivamente alla scarsa igiene dei venditori ambulanti di cozze. Esse fingono di dimenticare che «la rete fognaria non ha subito ampliamenti rilevanti dal 1915, cioè da dopo il primo intervento capitalistico speculativo, detto di 'risanamento', susseguito al colera 62 del 1883. Inoltre, essendo del tutto insufficiente la struttura dei depuratori, lo scarico delle fogne e lo scarico industriale finiscono direttamente in mare, determinando l'alto tasso di inquinamento delle acque del golfo di Napoli. Ciò in un'area, quella della provincia e del capoluogo, dove specialmente durante gli anni d'oro della speculazione edilizia si ha un considerevole aumento della popolazione ( . . . , > > 1 0 . r La protesta non si limita alla richiesta di misure igieniche, ma chiede l'impegno dei poteri pubblici per una possibilità di reimpiego di chi aveva visto smantellare la propria attività lavorativa (in particolare i gestori dei chioschi dei prodotti del mare di Mergellina). Sull'onda di queste rivendicazioni nasce, nel 1974 a vicolo Cinquesanti nel centro antico della città, il primo nucleo dei Disoccupati Organizzati. Per la prima volta un proletariato precario, fino ad allora ricattabile e subalterno al clientelismo, unito nella 'comunità' ma atomizzato socialmente, assume coesione di massa e, rinunciando alla delega partitica o sindacale, si autorganizza e prende coscienza di classe. I Disoccupati si organizzano in 'liste' indipendenti da qualifica ed età, ma basate sulla partecipazione alla lotta; chiedono un lavoro sicuro, l'assistenza sanitaria estesa al nucleo familiare, il controllo sulle assunzioni del collocamento, il salario garantito per i giovani in cerca di prima occupazione. Le forme di lotta, come già quelle del periodo del colera, sono talvolta molto dure e violente (blocchi stradali, occupazioni, barricate con materiale incendiario), ma sono più spesso connotate da un alto livello di spettacolarità, seguendo anch'esse la logica della «guerriglia»". Lo scenario privilegiato della protesta è la strada: «non possiamo fare sciopero (...) non possiamo bloccare la fabbrica, per ora la nostra fabbrica è la strada e come gli operai bloccano la produzione noi blocchiamo il traffico»'2. In questa affermazione si può leggere tutto il dramma della modernizzazione nel napoletano, la sovrapposizione violenta di una cultura su un'altra e la disperata rivolta di chi, ad un'espropriazione senza indennizzo, risponde con la guerriglia: la strada, per secoli centro della vita popolare, sia nei suoi momenti comunitari che in quelli lavorativi legati al commercio ambulante e ai mille mestieri della premodernità, si è ormai trasformata in un'arteria di scorrimento dei flussi veloci del modo di produzione capitalistico, delle materie prime, della forza lavoro, delle merci". Al tempo stesso la strada moderna è teatro sociale, dove la borghesia può 'rappresentarsi', indulgere nel gioco degli acquisti e delle nuove relazioni interpersonali. È anche per questo che la città moderna prende dappertutto la sua forma dicotomica, con il cen63 tro cittadino destinato ai servizi, ai commerci e alle abitazioni di lusso e le masse popolari respinte in periferia, nei ghetti suburbani mal serviti e mal collegati. È successo così a Parigi, con i suoi boulevards imposti dalla razionalizzazione dell'architetto Haussmann nel secolo scorso, è in parte successo così a Napoli, che pure, come abbiamo già considerato, mostra a vari livelli una forte resistenza alla modernità, con i suoi nuclei popolari ancora presenti nel dedalo dei Quartieri Spagnoli, nei vicoli del Pendino e sui gradoni della Sanità con le loro antiche forme di vita comunitaria e di cultura tradizionale, sempre più immiserite ed emarginate: «A Napoli la cultura popolare è stata presente con la sua ritualità, con le sue tammurriate, con le sue castagnette 'maschio' e 'femmina', sino alla fine del secolo scorso. La realtà di Napoli è mutata con il 'risanamento', quando interi quartieri vennero completamente rasi al suolo e venne cancellata la città popolare più antica, cioè quella dei fòndaci. `risanamento' poggiava su presupposti sociali. Tante strutture, allora, mostravano carenze che già nel '60 erano abbastanza pericolose, come per esempio le strutture fognarie. Pressati dalle varie indagini, come quella della Serao o quella della White Mario, si decise di risanare i quartieri più popolari di Napoli, vittime della sporcizia e del colera. Si pensò di installare nuove fognature, ma non a salvaguardare la struttura storica dei monumenti e soprattutto a garantire la sopravvivenza etnica della gente che viveva in quei quartieri. In realtà avvenne una vera deportazione; avvenne quello che possiamo chiamare un genocidio culturale. Tutta la zona che va da piazza Municipio fino alla ferrovia era occupata dai quartieri più popolari di Napoli; erano i quartieri sorti con gli angioini, strutture architettoniche che oggi sarebbero fra le più interessanti d'Europa. (...) Nessuno pensò di risanare quelle zone lasciando le strutture e salvaguardando l'identità culturale di quei posti. La gente fu costretta ad andar via e si rifugiò in provincia, per cui si disperse un po' dappertutto. (...) Questa è una città intorno alla quale tante volte si parla di malavita, senza tener conto che le decisioni di emarginare interi gruppi di gente hanno determinato alcuni aspetti della realtà attuale di Napoli»14 . E proprio la zona tra piazza Municipio e la ferrovia, il cosiddetto `rettifilo', un tempo luogo di vita tradizionale e ora teatro principale dei cortei dei Disoccupati Organizzati vede, quasi in un'anamnesi, la riapparizione di momenti di cultura popolare, rifunzionalizzata con gli interventi dei Zezi, durante le manifestazioni, a pochi passi da piazza Mercato dove vive Gennaro Buccino, forse l'ultimo artigiano in città che ancora 64 costruisce tammorre da vendere alle feste delle Madonne primaverili nei paesi di provincia. Lo spazio scenico della manifestazione popolare e di quella dei Disoccupati Organizzati, quindi, coincidono: per strada avvengono alcuni degli atti più clamorosi dei manifestanti, come la copertura della statua di Garibaldi con un grande telone nell'omonima piazza di Napoli, il 25 aprile del 1976. Sul cappuccio c'è scritto «Songo 'e fierro/ eppure me/ metto scuorno/ 'e veré tanta/ disoccupati/ senza 'nal fatica pe mezzo/ dé padroni e/ do guverno/ perciò me faccio/ accummuglià/ fino a quanno/ nun ce 'o date/ nu lavoro!»''. E ancora l'assalto al Maschio Angioino, i cui merli reggeranno dei cartelloni con delle lettere a formare la parola 'lavoro', e un pupazzo con una mano chiusa a pugno nel gesto scaramantico delle corna16. La protesta è attuata con una teatrolizzazione sempre più marcata, le azioni sembrano avere una vera e propria 'regia': «Si bloccava la strada con ogni cosa e si incendiavano dei copertoni d'auto: era divertentissimo vedere la polizia che arrivava, si preparava armata di tutto punto, caricava, sorpassava la cortina di fumo e non trovava nessuno»", oppure ancora: «vari cortei partivano da differenti punti della città per bloccare il traffico, un corteo civetta formato da invalidi e vecchi aveva il compito di fare la massima confusione per distrarre la polizia; intanto gli altri disoccupati invasero i binari della stazione e la polizia dovette prendere la metropolitana per farli sgomberare»18. Nelle agitazioni vengono usati trampoli e croci, si bruciano fantocci che raffigurano uomini politici, si dipingono con colori accesi i bronzei leoni di Piazza Borsa. E Zezi trovano un tale clima consono alla propria natura di gruppo teatrale popolare, ma pronto ad aprirsi alle esperienze itineranti del teatro di guerriglia e dell'agit-prop, e manterranno con i Disoccupati uno stretto legame. In situazioni simili i componenti del G.O. arrivano spesso inattesi, con le tute blu dell'Alfa o i costumi della Zeza (come poi, in un contesto politico completamente mutato, con i sombreri messicani e gli slogan zapatisti, nel carnevale napoletano del 1994): cantano, ballano, interpretano brevi sketch coinvolgendo dimostranti e passanti occasionali in un teatro spontaneo e irripetibile, una comunicazione immediata che dilaga in happening, in assemblea permanente con il Pazzariello, le tammurriate, i campanacci. 'Movimento', dunque. Movimento in senso politico, come reazione all"immobile' ordine costituito, secondo lo spirito del '68 19 , ma anche movimento in senso fisico e dinamico, secondo i modelli di reintegrazione elaborati dalla cultura popolare: colore ed 65 energia contro l'opacità spettrale dell'acciaio delle officine, decompressione muscolare a compensare il ritmo scandito dalla catena di montaggio e dalla postazione fissa della fabbrica taylorizzata, dove «le macchine inglobano e sommergono gli uomini, fissandoli alla propria struttura metallica» 20, e dove ogni vitalità è negata in ossequio al moto meccanico, uniforme e lineare. Finito definitivamente il momento del folk revival, il Gruppo Operaio subisce, come tutti i protagonisti del movimento, la stagione del 'riflusso' degli anni '80. Esclusi dalle ribalte nazionali E Zezi continuano ad operare prevalentemente a livello regionale, organizzando o partecipando ai carnevali locali (Pomigliano, Afragola), suonando e recitando in tutte le realtà che nel decennio precedente erano state combattute dalla sinistra antagonista come «istituzioni totali», e cioè fabbriche, scuole, ospedali e istituti psichiatrici. Sono di questi anni spettacoli più formalizzati, in cui si privilegia una dimensione teatrale più canonica. Negli anni '70 il Gruppo Operaio aveva spesso rappresentato, come abbiamo visto, dei pezzi di teatro tradizionale: generalmente messe in scena nelle piazze o durante le manifestazioni politiche, queste performance erano la riproposta della stessa teatralità popolare campana. Riproporre il teatro rituale significava, per i Zezi, collocarsi all'interno della tradizione o, meglio ancora, fuoriuscire, emergere da essa, nella consapevolezza della inscindibilità del piano visuale, gestuale e cinesico, dalla musica e dal canto di tradizione. Nel decennio successivo, però, E Zezi vivono un momento di difficoltà che non li disintegra, come avviene per gran parte dei gruppi folk, proprio in virtù del loro radicamento nel territorio, della loro capacità di attrarre e canalizzare energie. Il G.O. ha, in definitiva, 'necessità' di esistere per i tanti che per suo tramite riescono ad esprimere la propria vitalità, il proprio disagio, la propria esigenza di rapporti comunitari in un luogo dove una mutazione epocale minaccia di disgregare e spegnere in maniera irreversibile qualsiasi tipo di socialità sottratta alla sfera del mercato. Negli anni '80 il gruppo comincia dunque a lavorare quasi esclusivamente nelle piccole realtà della sterminata provincia meridionale e soprattutto campana: nei paesi del beneventano, sulle piazze di Nocera inferiore, Cardito e Afragola ma anche di Potenza e Bari. Nel riconnettersi in maniera pressoché esclusiva alla sfera della 'comunità', la dimensione teatrale viene accentuata quasi istintivamente: al mai abbandonato teatro rituale si affiancano ora soluzioni diverse, in parte anticipate da alcuni spettacoli degli anni '70, come 'Omaggio a Pulcinella' (1977, in 66 seguito più volte ripreso), 'O Prestigiatore' (1978), e il già citato 'Serpenti con coglie sonanti' (1979); in tutti questi spettacoli, si continua a parlare ostinatamente di lotta di classe, a difendere orgogliosamente la propria identità nel momento più difficile in Italia per gli operai delle grandi fabbriche. La 'marcia dei quarantamila' aveva infatti aperto il decennio e si era trasformata in un evento simbolico per tutto il paese generando un diffuso sentimento antioperaio: la sconfitta delle tute blu aveva legittimato la ristrutturazione (ponendo fine alla politica stessa intesa come 'conflittualità') e il nuovo clima aveva causato, tra l'altro, la scomparsa quasi totale del rapporto dialettico tra arte e impegno, generalmente ritenuto pressoché imprescindibile negli anni precedenti. Il G.O. rientra dunque in un contesto locale che si avvia anch'esso a pagare i costi della deindustrializzazione. In quegli anni il teatro napoletano conosceva una fase di profondo rinnovamento: la tradizione `scarpettiana', la vecchia scuola capocomicale e naturalistica, pur resistendo allora come oggi per le fasce della borghesia che in essa si riconoscono, era già stata storicizzata non tanto dall'avvento delle avanguardie degli anni '60 (Teatro Esse, Teatro Instabile, Teatro Alfred Jarry), quanto dal lavoro di Eduardo De Filippo e in seguito di Roberto De Simone. Eduardo aveva già agitato le acque stagnanti della tradizione sia con i suoi silenzi e la sua gestualità, sia iniettando nei suoi testi suggestioni moderne e problematiche. De Simone, con la sua profonda ricerca antropologica sulla cultura popolare, stava riformulando in maniera critica e sistematica i criteri di lettura della tradizione teatrale napoletana: mostrando le differenze e i punti di contatto tra colto e popolare, e lavorando sulle maschere e sulla dimensione simbolica, egli aveva svelato la natura deculturata, repressa e oleografica del naturalismo del teatro borghese e il suo congelamento linguistico. A ciò aveva opposto la forza espressiva della ritualità tradizionale, legata a figure e motivi simbolici ritrovati negli abissi del mito e nel profondo della storia della città, che potessero offrire una possibilità di riconoscimento collettivo. 11 lavoro di demistificazione portato avanti con opere come 'La Gatta Cenerentola', 'La Cantata dei Pastori', 'Festa di Piedigrotta' e 'Mistero Napolitano' liberava dunque il teatro napoletano da vecchie incrostazioni affacciandolo su nuove possibilità espressive. Negli anni '80 una generazione di nuovi autori e registi comincia ad operare in città: sul versante delle avanguardie, il collettivo Falso Movimento lavora sull'immaginario metropolitano della società multimediale, con una sensibilità già quasi cyberpunk, 67 diventando presto il gruppo di punta della scena sperimentale italiana del tempo. Su un altro versante nasce un teatro che si affida non più agli esiti delle avanguardie del novecento (rifiuto dello psicologismo, opposizione al testo scritto, scardinamento della messa in scena classica) ma, come ha sottolineato Luciana Libero, ritorna per certi aspetti alla forma canonica del teatro borghese, rovesciandone il senso: gli spettacoli di Annibale Ruccello, di Enzo Moscato e di Manlio Santanelli effettuano anzitutto uno sfondamento lessicale, con testi che da una parte recuperano il dialetto napoletano nelle sue forme arcaiche e moderne, urbane e provinciali, dall'altra immergono l'azione e i personaggi in una zona d'ombra inquietante e perversa, descrivendo sì gli strati popolari ma, in modo diverso da De Simone: «l'orientamento dei nuovi autori si è rivolto piuttosto al presente del tessuto urbano campano, tralasciando il nucleo storico popolare, dilatando la ricerca all'hinterland per indagare nei tratti somatici della fascia periferica, imbarbarita dalla sottrazione selvaggia delle proprie tradizioni» 22. Storie di travestiti, di marginali, ma anche di nostalgici nobili decaduti; un mondo che ha perduto ogni punto di riferimento e ogni possibilità di reintegrazione culturale. La descrizione, insomma, di una comunità napoletana che ai suoi antichi mali aggiunge i tubi Innocenti che sorreggono i vicoli dei quartieri spagnoli dopo il terremoto, le vele di Secondigliano, la diffusione di massa dell'eroina: la percezione nitida, forse per la prima volta, del concreto rischio di omologazione alle rovine della civiltà moderna di questa comunità, che Pasolini assimilò a una tribù Tuareg per la sua tenacia nel rifiutare una `storia' imposta dall'esterno, anche a rischio della sua estinzione. In tutto questo E Zezi, come teatranti, occupano una posizione eccentrica: anzitutto perché letteralmente fuori del centro cittadino, confinati nell'entroterra vesuviano, nelle feste contadine e nei piccoli festival de l'Unità di provincia; poi perché lontani e da ciò che in teatro cominciava a fare tendenza e, per ovvia distanza culturale, dalla tradizione napoletana classica. Privi di mediazioni intellettuali, i componenti del Gruppo Operaio portano avanti un teatro 'basso', plebeo, rozzo nella forma ma esplicito nei contenuti, satirico e fortemente politicizzato. Questi spettacoli, costruiti alternando prosa e canzoni, sono a volte veri e propri esempi di Teatro Documento come, fra i tanti, il già ricordato 'A morta mia', Tribbù elettorale', e 'La frabbica del sabato sera' (tutti del 1980), 'A lengua è fatta pe' parlà' (1983), 'Il ritorno dei Zezi (ma purchè arò erano iute?)', 'Mo vene Natale...Nun tengo renare' e `Attenziò Pupula68 ziò' (tutti del 1984), `Nzalata non stop miting clientelescion' (1985). Altre volte ci si trova di fronte a scene legate al mondo subalterno, difficili da decifrare per chi non conosce i codici espressivi degli ambienti popolari, ma immediatamente comprensibili al pubblico dei paesi campani dove il Gruppo Operaio si esibisce. È il caso di `Tutto pe' niente' (1985) dove viene recuperata un'altra delle rappresentazioni già proposte negli anni '70, quella del lamento funebre carnevalesco Co chiamo a muorto) ripreso nei suoi segnali più tradizionali, lo specchio coperto, le allusioni sessuali, una mosca inesistente che viene costantemente scacciata"; è insomma il classico corredo rituale della veglia funebre negli ambienti popolari, così come viene descritto da Ernesto de Martino24 . Lo spunto rituale, però, serve da pretesto ai Zezi per far comparire sulla scena dei personaggi estranei all'azione, che permettono delle digressioni su temi cruciali cari al Gruppo (la legge 180 sui manicomi, ad esempio), dilatando lo spettacolo in diversi quadri fino a che il morto (Tincenzo', il nome classico per il re del carnevale in Campania), risulta essere non altri che un operaio, ucciso dai processi di riorganizzazione industriale. Egli è il rappresentante allegorico della `morte' della classe operaia, metafora della sua perdita di centralità e di visibilità nello scorso decennio, ma nella sua bara prima della tuta blu vengono collocati alcuni attrezzi della civiltà contadina, a ricordare la doppia violenza subita dai lavoratori pomiglianesi". Nell'esilarante No vene Natale...', ripreso anche nel 1992, un'anziana coppia assiste sgomenta all'azzeramento della propria memoria storica e dei propri punti di riferimento esistenziali, ritrovandosi in una condizione di nuova povertà: i figli sfrattati ritornano a casa, la terra viene espropriata per la costruzione della stazione della circumvesuviana, la dipendenza da un mercato del lavoro sempre più instabile rende precaria la vita, i miti americani si rivelano falsamente liberatori (i figli in provetta, il femminismo esasperato) e perfino le pietanze tradizionali sono sostituite dai prodotti preconfezionati dei supermarket. Anche qui, come nella 'casa Cupiello' di Eduardo, il tempo natalizio, momento centrale della ritualità napoletana, viene assunto come cartina di tornasole del depauperamento culturale, della perdita dell'orizzonte esistenziale della tradizione sotto la spinta del potere pervasivo di una modernità di segno antipopolare, che schiaccia con la violenza del suo cemento ogni situazione ambientale precedente, che non conosce solidarietà verso i più deboli in favore di un consumismo aggressivo e ipocrita. Lo spettacolo, connotato in alcuni tratti da accenti 69 alquanto didascalici, denuncia, come in tutti gli spettacoli dei Zezi, la condizione operaia nei duri anni '80, con particolare attenzione alla condizione femminile. Le scene dedicate alle crisi di sovraproduzione con i piazzali della fabbrica pieni di auto invendute, e della conseguente cassa integrazione, sono tra le più toccanti e producono riconoscimento e identificazione in una comunità dove proprio nel momento natalizio ci si ritrova e ci si conforta reciprocamente. Altre volte si lavora su canovacci rudimentali, come in `Nzalata non stop', mettendo alla berlina la cultura di massa e il linguaggio dei politici, prendendo posizione a favore dell'aborto, ma per lo più ridicolizzando o parodiando le canzoni di consumo, con invenzioni surreali come la `Pentadecret band' o lo scatenato dj che commenta su ritmi da disco music il decimo posto nella classifica hit parade di Luciano Lama e i 7 nani in `Eley, oh! Andate a lavorare!'; o, ancora, lanciando un improbabile Renato Zero con il gruppo 'La Magistratura Italiana' che conquista il quinto posto con una rinnovata versione della celebre 'Mi vendo': «Mi vendo giustizia che non ho/ guarisco i mali dei potenti/ gli do la libertà./ Mi vendo processi in quantità/ quello di Catanzaro, Piazzale della Loggia/ Assolvo ministri in quantità/ do agli stupratori/ la piena libertà/ Mi vendo e già/ a buon prezzo si sa». Negli spettacoli anche l'uso dí frammenti decontestualizzati delle sigle televisive, stravolte, frammentate, montate in maniera grottesca, riprodotte e bruscamente interrotte innumerevoli volte, con un procedimento irresistibilmente comico e quasi brechtiano, volto com'è a 'straniare', a rendere inconsueto ciò che appare familiare e immodificabile. Il tutto in modo caotico, confuso e approssimativo, talvolta ingenuo, ma espresso con tale foga da risultare efficace dal punto di vista spettacolare. Non manca ovviamente la vecchia polemica con la Nccp, con un bonario sfottò a Roberto De Simone. In 'Omaggio a Pulcinella' (1979) durante il lamento funebre una cantante d'opera arriva canticchiando: - «Ma chi siete?» – «Perché questa non è la rappresentazione musicale 'le Zite in galera'? E poi Roberto addò sta? Roberto! Maestro!» – «Ma quale Roberto, ma quale maestro vai trovando quà... Chesta è l'opera d'e muorte 'e famma!» (`dei morti di fame') – «Io mi ero accorta che l'ambiente non era il solito!...» – «Ma che è 'sta confidenza?... Noi siamo E Zezi!» – «E Zezi?...Maronna scanzace! (`Madonna salvaci!')» `Kontaines, Kontakm, Rulott' (1989) irride agli spettacoli televisivi 'contenitore', ma il riferimento è anche ai `containers', dove 70 ancora vivono i terremotati del sisma di nove anni prima. Tra improbabili presentatori e ridicoli premi, una donna del popolo, Anita Piscianterra (Marcello Colasurdo), vive per un attimo un'evasione fantastica esibendosi come Ella Fitzgerald (accompagnata dalle `Colesterol Sisters') e cantando goffamente dei brani di musica nera; viene però riconosciuta e smascherata, ritorna alla sua vera identità e comincia a cantare canzoni napoletane corredate da `mosse' del peggior stile. «Era una donna che puliva le scale – ricorda Gennaro Auriemma, attore per hobby, per qualche anno nel Gruppo Operaio – e voleva fare la donna di spettacolo e trasformarsi in una stella, e io e un altro amico, Lucio Maietta, eravamo le sue 'complici' per aiutarla. Ci chiamavamo `Colesterol Sisters' perché eravamo grassi!». Questa capacità di evasione temporanea in una dimensione immaginaria, una sorta di `participation mystique' connotata da grande capacità di immedesimazione e da un alto livello di teatralizzazione, è un meccanismo autoprotettivo molto tipico della cultura popolare campana, e non è sfuggito agli autori teatrali più sensibili (da Eduardo con `De Pretore Vincenzo' e 'Le voci di dentro', a Moscato con fino, ovviamente, a De Simone); la si osserva soprattutto nei carnevali, o nei momenti rituali dove massimo è il rischio di essere sommersi da insorgenze emotive incontrollabili: rifugiarsi nell'irrazionale permette di disinnescare la crisi, plasmare il disordine psichico e organizzarlo in una forma riconoscibile. Così Roberto De Simone rievoca un significativo caso di travestitismo rituale riscontrato durante la sua ricerca sul carnevale campano: «Camminavo per le strade di Avellino nei giorni di carnevale e improvvisamente ho visto una figura con un seguito di dodici paggi vestiti di spighe di grano: un uomo di settanta anni vestito da donna, con veli, conchiglie, diademi fatti con tanti piccoli materiali trovati. Il risultato era splendente, una visione. Camminava con in mano un tamburo e cantava e li per lì mi sembrava di vedere una scena tratta dall'Asino d'Oro di Apuleio. Chiaramente ho voluto conoscerlo e ho scoperto un uomo straordinario per fantasia, genialità, inventiva... Era un vecchio contadino che ovviamente non lavorava più, data l'età, e viveva in una stanza al pianterreno di un palazzo dove la figlia faceva la portinaia.(...) Lui, in tempo di Carnevale, si vestiva da Grande Imperatrice (una maschera della cultura agropastorale, una vecchia vestita di grano che impersonava come ultimo di una tradizione ancora viva nelle campagne di Nusco dalle quali proveniva). Il suo costume, naturalmente fatto da solo, era costruito con le cose più disparate: strass di 71 vecchi abiti femminili e cianfrusaglie di bancarelleria che, nel clima della festa di Carnevale, diventavano cose fantastiche. (...) Durante la vestizione (...) si svolgeva un gioco verbale fra lui e i suoi nipoti che cominciavano a scherzare chiamandolo 'nonna' e non 'nonno'. E sempre più infatti lui entrava nel ruolo di imperatrice e iniziava ad assumere un'aria femminile (...) compiva un incredibile processo di immedesimazione con il suo ruolo»26. Ma nel caso di Anita, il momento fantastico non è evidentemente sostenuto da un mito collettivo sufficientemente interiorizzato e adeguato ad esprimere i contenuti latenti nell'inconscio; esso è modellato sulla artificiale e alienante simbologia della cultura di massa imposta dall'esterno: la figura della 'diva'. Una volta riconosciuta, la protagonista non regge la finzione e ripiomba nel quotidiano, riassorbita nella subcultura napoletana di massa, assolutamente non etnica. Negli spettacoli vengono poi utilizzate maschere, fantocci, e soprattutto modi da teatro 'agit-prop', scene brevi e agili, tipizzazione dei personaggi, recitazione caricaturale e, naturalmente, molta improvvisazione in relazione al mutare della situazione politica contingente. La riduzione dei personaggi a 'tipi' impedisce il rischio del naturalismo e stimola l'espressività del corpo, con un meccanismo non molto dissimile da quello della Commedia dell'Arte. Tale tipo di teatralità era naturale per gruppi che anche a grandi distanze partivano da presupposti analoghi: nella stessa direzione era andato ad esempio, fin dalla sua fondazione nel 1965, El Teatro Campesino, il gruppo messicano composto da braccianti (tra l'altro proprio in quegli anni di passaggio in Italia), che si esibiva nei campi e nei quartieri popolari: anche qui personaggi simbolici e facilmente riconoscibili, gesti stilizzati, testo in gran parte improvvisato, maschere e cartelli, scena ridotta al minimo". Nella rappresentazione dello sfruttamento operaio i gesti sembrano discendere dalla 'biomeccanica' di Mejerchol'd: movimenti ritmici esasperati, rettilinei e straniati, a rappresentare, con feroce ironia, la robotizzazione del lavoratore incatenato alla catena di montaggio e ai ritmi produttivi. La dimensione semiprofessionale e militante dei Zezi mostra però i suoi limiti. Tra il 1982 e il 1986, il Gruppo Operaio tenta un progetto ambizioso: la messa in scena di 'Franceschiello', versione teatrale di una fiaba popolare, 'O cunto ra terra addò nasce a luna e `o sole' (1.1 racconto della terra dove nasce la luna e il sole'), raccolta a Pomigliano da Nino Leone dalla viva voce di sua madre Carmela Romano Leone, autentica depositaria della tradizione orale 72 della zona. Si tratta di un racconto denso di risonanze arcaiche, con notevoli possibilità di sviluppi nell'ambito di una riflessione sulla cultura popolare vesuviana. Per l'occasione vengono coinvolti Ciro Oliviero Gravier, studioso di antropologia, e Luigi Baldascini, psichiatra. Si tenta quindi un approccio di ampio respiro lavorando con pazienza sui contenuti inconsci della fiaba e sui suoi simboli, sulla necessaria opera di introiezione da parte degli attori dei ritmi e delle scansioni del parlato e dei gesti ad esso connessi. La ricerca impegna per anni i componenti del G.O. ma alla fine l'operazione non va in porto. Troppe le difficoltà di ogni tipo (da quelle economiche alla scarsa disponibilità di tempo dei partecipanti) e troppe le incertezze sulla necessità per i Zezi di incamminarsi su una strada `colta' che li avrebbe potuti trasformare in qualcosa d'altro. Di Tranceschiello' restano una trascrizione 'fonetica' della fiaba, il testo teatrale e una interpretazione antropologica28 . L'attività dei Zezi in questi anni dunque, pur con minore risonanza di prima, riesce, anche se tra grandi difficoltà, a tenere coeso un gruppo di persone attorno al progetto di un collettivo artistico politicamente motivato, in anni in cui tutto questo sembrava definitivamente superato, e quindi in totale controtendenza con il 'riflusso'. In questo periodo, tra il via vai di collaboratori che ha sempre caratterizzato la storia del Gruppo, sono da ricordare le presenze di Antonella Leone e Annamaria Frau, e di Patrizio Esposito, Vittorio D'Ambrosio, Guido Calcavecchia e Giovanni Sgammato; quest'ultimo, tra l'altro, da giovanissimo aveva suonato la fisarmonica nel gruppo di attori girovaghi che negli anni '50 venivano detti «Zezi», e dai quali il G.O. aveva ereditato il nome. Ma, pur nella continua oscillazione fra tradizione e modernità, i temi di questi spettacoli, alla fine, sottintendono tutti un solo argomento e ad esso costantemente rimandano: l'uomo che lavora per il capitale, ridotto a macchina che si inceppa e viene sostituita, pura energia impiegata nella produzione che ne esprime però una di segno contrario, tesa alla riappropriazione della propria istintualità. Grassi, sudati, impresentabili, i Zezi del periodo teatrale esprimono il rifiuto di ogni regola, di ogni sistema, di ogni civilizzazione; il rifiuto di una `alfabetizzazione' in cui non si riconoscono, per affermare, pur se in un'apparentemente severa ortodossia militante, un mondo di bisogni primari: cibo, canto, danza, sesso, sonno. Lo stesso tono dei loro spettacoli, nel fare a pezzi la lezione eduardiana della misura e del controllo, lo riconferma: scombinati, squinternati, spesso approssimativi, ribadiscono la loro estraneità alle leggi della società 73 dello spettacolo, la loro alterità, la loro provenienza da una cultura diversa, premoderna e 'cafona'. E la loro comunicazione è fondata sul grido, sull'energia muscolare, sull'istinto, in ciò più vicini ad Artaud, paradossalmente, che a Brecht che pure li ha ispirati; e quindi più vicini, anche nella totale diversità della proposta, al Living Theatre di Julian Beck (ma anche, per certi aspetti, al Bread and Puppet di Peter Schumann) che alla 'lontana' tradizione teatrale borghese di Napoli. Nel fare questo, nel frantumare ogni argine delle 'buone maniere' alla liberazione del principio di piacere, E Zezi ritornano al mito, alle immagini del paese di Cuccagna, all'archetipo della Grande Madre nutriente e protettiva: un bisogno irrefrenabile di tornare indietro, di ridiventare bambini; per ritrovare il gioco, la risata, il movimento, il ritmo2". Sono questi anche gli anni di piccole iniziative editoriali che E Zezi lanciano, sorretti talvolta da assessorati della regione: vengono quindi stampati volumetti (oggi ormai introvabili) che raccolgono e discutono, con l'aiuto di studiosi locali, canti e fiabe, proverbi e filastrocche popolari, mentre il Gruppo Operaio si costituisce in cooperativa (Zezi ín coop)30. Per tutti gli anni '70, dunque, la canzone politica ed il recupero della musica etnica erano state strettamente intrecciate; il folk revival, abbiamo visto, era nato come momento di elaborazione di una cultura antagonista. L'espressività popolare era riproposta, anche sulla scia delle formulazioni gramsciane, come 'visione del mondo' alternativa a quella egemone, e la canzone di protesta cercava spesso di assimilare suoni e ritmi dalla tradizione per comunicare contenuti di attualità. Negli anni '80 il 'folk' e la politica in musica spariscono quasi del tutto: molti di coloro che nel decennio precedente avevano cantato la protesta rifluiscono, altri scompaiono dalle scene. Nel pop si assiste ormai all'impiego massiccio dell'elettronica, mentre la musica di tradizione orale perde terreno e pubblico, restando patrimonio di ristrette élites di cultori e rientrando nelle 'riserve' dalle quali era uscita, vale a dire le feste popolari e i momenti rituali. Gli eventi sociali e politici già menzionati nell'introduzione hanno favorito nei primi anni '90 il rinascere di una musica giovanile ad alto tasso di politicizzazione: al nord i nuovi gruppi rock sbeffeggiano le leghe razziste fondendo il dialetto con il ritmo del reggae; a Lecce, il ragamuffin giamaicano viene utilizzato cantando, in pugliese, la dura realtà del meridione; centri sociali occupati e autogestiti, 74 come abbiamo già osservato, nascono in tutta Italia affiancandosi ai pochi sopravvissuti degli anni '70 e amalgamando le schegge dei movimenti extraparlamentari dell'epoca con le frange giovanili ostili alla sinistra istituzionale. Nei centri sociali viene ospitato il rinnovamento della musica italiana e a Napoli risorgono i Bisca e nascono gli Almamegretta e i 99 Posse, per loro stessa ammissione forse più figli dei Zezi che di 'Annibale'. Oggi tutto questo movimento musicale è stato totalmente devitalizzato, l'industria ne ha assorbito, a dire il vero senza eccessive resistenze da parte dei musicisti stessi, le realtà più creative e potenzialmente commerciali e le ha smistate neí circuiti del consumo di massa; ma per quattro o cinque anni la 'nuova cosa' aveva riportato tensione nella musica italiana restituendo interesse alla cultura popolare, interesse in parte dovuto anche alla rinnovata attenzione per la musica etnica a livello internazionale (tra i primi a stimolarlo, a fine anni '80, Peter Gabriel con il Womad festival e la sua etichetta 'Rea' World'). La stessa riscoperta dei dialetti locali, un effetto tipico della `globalizzazione'", orientava i musicisti verso i patrimoni popolari oscurati dalla canzone pop. Il Gruppo Operaio, dopo anni di difficile sopravvivenza e di attività semiclandestina, viene rimesso in gioco, sia in Italia che all'estero, da questa nuova temperie culturale. L'ingresso nel G.O. di musicisti provenienti da altre esperienze induce ad un rinnovamento e ad una attualizzazione del 'sound' del collettivo, pur sempre nella istintiva adesione ai ritmi tradizionali, avviando una nuova e feconda stagione creativa. Dopo ben diciotto anni, un tempo interminabile, improponibile con una benché minima volontà di stare dietro alle regole dell'industria culturale, l'occasione per un nuovo disco. Il Cd, dal titolo volutamente enigmatico «Auciello ro mio posa e sorde», esce nel 1994 (immediatamente a ridosso, quindi, della grande crisi del comprensorio pomiglianese) per la Tide Records di Roma ed è il risultato di un insieme di musicisti che per qualche anno costituirà la line up dei nuovi Zezi. Punto di raccordo tra vecchi e nuovi membri è Massimo Mollo, chitarrista e fisarmonicista, ritornato nel Gruppo Operaio dopo alcuni anni di assenza. Molti dei nuovi musicisti sono dí estrazione urbana e hanno spesso una formazione classica alle spalle, come Antonio Fraioli al violino e Pasquale Volante, primo contrabbassista dei Zezi; alcuni lavorano già da tempo sulla musica etnica, come Nando Gandolfi, tradizionale nel fraseggio e modernissimo nella scelta dei timbri; altri provengono dal rock, come il chitarrista Gaetano Caliendo, o da varie esperienze musicali come i numerosi batteristi che si succedono in 75 quel periodo (Raffaele Del Prete, Emilio Scognamiglio, Salvatore Tranchini, e Maurizio Carbone). Da segnalare inoltre Marzia Del Giudice, prima voce solista femminile stabile del Gruppo Operaio. Questo forte interscambio tra città e campagna, fra tradizione e sensibilità contemporanea, crea un album dalle sonorità particolarmente attuali, in seguito stampato anche in America con il titolo di «Pummarola Black» per la Lyrichord Discs Inc. Da rilevare poi la presenza in «Auciello ro mio» di numerosi ospiti, per lo più provenienti dalla nuova scena teatrale e musicale partenopea. Se nel primo album del 1976 le registrazioni erano state effettuate dal vivo, nel nuovo disco, pur lavorando in studio, non si rinuncia all'immediatezza comunicativa dei musicisti e al carattere collettivo e spontaneo della performance: parte del materiale (Tesuvio', Tammurriata', `Auciello ro mio', 'A cammera e cunziglio') è infatti inciso in presa diretta, vale a dire senza la sovrapposizione di registrazioni isolate, normale prassi di lavoro nell'ambiente discografico $2. Al disco seguono tournée nazionali e internazionali (da ricordare già l'anno precedente uno strepitoso concerto a Nantes insieme ai nuovi gruppi rap e dub napoletani), dove il Gruppo Operaio non rinuncia certo alla sua antica vena provocatoria. Proprio nei concerti francesi del 1994, senza esitazione, come annota la stampa d'oltralpe, viene srotolato uno striscione che dice 'Italie finaliste, gouvernement néofasciste', un attacco diretto alla destra di Berlusconi e al tentativo dell'esecutivo di far passare, proprio mentre la nazionale italiana di calcio riscuote grandi successi nel campionato del mondo, una legge scopertamente favorevole alla tutela dei politici sotto inchiesta per corruzione, il cosiddetto 'decreto salvaladri'. Intanto, mentre i Zezi esportano la protesta operaia per la ristrutturazione industriale, a Pomigliano continua il dramma del lavoro: in quell'anno infatti, Giovanni Sgammato, membro del G.O. per quasi dieci anni, mette in atto, insieme ad altri due lavoratori, una clamorosa protesta: l'incatenamento su tre croci e lo sciopero della fame davanti ai cancelli dell'Alfa Romeo per protestare, in forte dissenso con i sindacati, contro la cassa integrazione e i licenziamenti messi in atto da Fiat Auto, Alenia e Alfa Avio. I tre operai hanno una corda di canapa al collo per ricordare i suicidi di molti lavoratori. A rappresentare l'agonia della Sevel e dei suoi mille occupati, una bara. Il 25 aprile del 1995, il G. O. è in piazza Plebiscito, a Napoli, in un grande concerto ripreso dalla Rai per la festa del cinquantenario della Liberazione: «Canto delle possibilità di sopravvivere» per 76 solisti e orchestra di Antonello Paliotti. Con i Zezi e alcuni musicisti tradizionali della Campania, gli africani Senegal Ritmo, Michael Brecker e altri gruppi. Nello stesso periodo viene iniziata la lavorazione di «Viento 'e terra», un film-ritratto diretto da Antonietta De Lillo. Nel marzo del 1996, E Zezi sono ancora in piazza, a Roma, in una grande festa di solidarietà con gli immigrati contro il decreto Dini, per costringere il governo a rivedere le norme sull'espulsione degli extracomunitari. In seguito il G.O., tuttora coordinato da Angelo De Falco, ha subìto ulteriori trasformazioni con altre uscite e nuovi arrivi trasformandosi ormai in gran parte in un gruppo professionale; la più rilevante delle uscite è quella di Marcello Colasurdo, voce storica fin dagli inizi, che fonda un suo gruppo, la Paranza w , non riuscendo più, tra l'altro, a conciliare i tempi dei Zezi con sopravvenuti impegni nel teatro, nel cinema e nella collaborazione con la formazione superstite dei 'cugini-rivali' di un tempo: la Nccp. Un'altra voce femminile, Monica Pinto, giovanissima, e molti nuovi musicisti sostituiscono quindi i componenti di quella fortunata stagione. Nel momento di transizione tra le due formazioni viene realizzato un live album «Zezi vivi», dedicato al popolo Saharawi in lotta per la propria autodeterminazione, per l'etichetta del quotidiano «il manifesto» che lancia il Gruppo Operaio verso un nuovo tour in Spagna nell'estate del 1997. Nel 1998, in Italia, si riparte ancora una volta dal basso, con esibizioni in realtà alternative (scuole di musica, centri sociali) o feste di partito, a riguadagnare sul palco il proprio pubblico. Ma soprattutto si riparte con nuove canzoni, che arrivano a destare l'interesse di Peter Gabriel e della sua etichetta, per un sound che si caratterizza sempre di più verso il rock e la world music, sul ritmo della tammorra di `Miciariello'. Disarticolati in più formazioni, separati da contrasti e talvolta da incomprensioni maturate nei tanti anni di attività, i componenti delle varie fasi della storia del Gruppo Operaio di Pomigliano d'Arco, i membri delle Nacchere Rosse, i vecchi e nuovi arrivati nel circuito dei Zezi si riuniscono per dare vita nel febbraio dello stesso anno, superando divisioni e rancori e mostrando un'immediata intesa e una grande coesione, a un nuovo grande carnevale popolare a Pomigliano, con enorme partecipazione della comunità locale e non senza polemiche con la locale amministrazione. Tutto il repertorio della tradizione pomiglianese è di nuovo riproposto, i Dodici Mesi, la Canzone di Zeza, il Chiamo a muorto, e poi Pazzarielli, banditori, mestieri, maschere e quant'altro. È un carnevale `moder77 no', spettacolarizzato, dove è chiara l'intenzione di una riproposta nell'impossibilità dell'attivazione spontanea di un rituale. Vengono coinvolti i ragazzi delle scuole, si utilizzano palchi e microfoni, lontani dalla arcaicità che ancora può contraddistinguere certi carnevali campani (specialmente per quanto riguarda l'Irpinia). Eppure, per volontà degli stessi animatori, la Zeza viene anche rappresentata più volte nelle masserie e nei cortili, davanti a poche e divertite persone anziane, lontana dai palchi e dall'intralcio dei microfoni. Volutamente impostata in maniera fortemente spettacolare (e in questo come sempre lontanissima dalle più 'austere' rappresentazioni di Cesinali o di Bellizzi Irpino), e sostenuta dall'entusiasmo dei protagonisti di sempre (Colasurdo, Sgammato, 'o Stoc e gli altri), l'antica rappresentazione carnascialesca ripercorre vecchi sentieri, riappropriandosi dei suoi spazi originari e ritrovando il filo della sua funzione rituale o, forse, e sarebbe già molto, soltanto di `memoria' rituale. NOTE ' Cfr. RONCHETTA-VIGLIANI-SALZA, 1976. Le frasi virgolettate sono tratte dal volantini distribuito dalla Mime Troupe in occasione dell'allestimento di 'Ubu Roi' nel 1963. Cit. in VICENTINI 1981. Si veda sull'intervento dei Zezi a Siano l'intervista a Vittorio D'Ambrosio. Per i complessi significati di questa maschera cfr. Rossi-De SIMONE 1977. Impressionante l'analogia con alcune raffigurazioni antiche dove sono rappresentate scene di danze bacchiche in cui due mena di, di cui una con un grande tamburo, ballano furiosamente; tra di loro un satiro danzante con un tirso (bastone) ornato (ed è nota la connessione tra la 'mania' delle antiche baccanti e la funzione terapeutica delle più autentiche tarantelle tradizionali. Cfr. DE MARTINO 1976). Lastre con questo tipo di raffigurazioni sono custodite al Museo Nazionale Romano (ad es. inv. n.60254, inv. n.4536/5 ed inv. 4536/10). 6 'Ossa e `pilossaYla carne del montone è tutta ossa/in Italia per stare bene/ci vuole la bandiera rossa'. «Attenzione popolazione!! Qui siamo in mano a una brutta razza/ il governo ci fa uscire pazzi/ loro mangiano, rubano e si alzano i palazzi/ noi lavoriamo e ci 'facciamo il culo'/ e i figli nostri a casa mangiano colli di cazzo/ noi per fare un a buona democrazia/ dobbiamo fare una buona pulizia/ cacciamo tutta questo schifo/Leone 78 voleva fare il progresso/ e invece di fare l"I lercules7 ha fatto un cesso». Questo monologo è registrato anche nell'album delle Nacchere Rosse 'Noi vi spar(l)iamo addosso con una storia diversa'. Si è preferito non rispettare il convenzionale modo di scrivere il napoletano, lasciando tronche le parole che avrebbero dovuto essere scritte come piane, per mantenere il ritmo della pronuncia e delle rime. Si noti il riferimento finale agli 'Hercules' dello scandalo Lockheed. 8 Da A. ACCORNERO, Problemi del movimento sindacale in Italia: 1943-1973, Annali Feltrinelli, Milano 1976, p. 27. Citato in MARCELLONI- DELLA SETA-FOLIN-CRETELLA-FARRO 1981. 9 Riportato in AuBERTI 1993, Le trasformazioni dell'area nolana, pp. 113-114. Le incongruenze nella punteggiatura fanno parte dell'originale. '° Ancora in MARCELLONI-DELLA SETA-FOLIN-CRETELLA -FARRO 1981, p. 142. " Meno aggressive, ma comunque spettacolari, sono oggi le incursioni degli 'invisibili' (o 'tute bianche'), giovani in prevalenza appartenenti ai centri sociali autogestiti, che eseguono azioni simboliche completamente vestiti di bianco ad evocare, quasi come spettri, i senza casa, i senza diritti, i senza lavoro; coloro che, come opportunamente scrive Jeremy Rifkin, «diventano 'sacrificabili', poi irrilevanti, infine invisibili nel nuovo mondo tecnologico del commercio e degli scambi globali». Cfr. RIFKIN, 1995, p. 320. 12 In RAMONDINO 1977, p. 21. '' Scrive a questo proposito F. PIPERNO: «Così le linee della città, le sue forme seguono regole estetico-religiose e non le tabelle dell'ingegneria del traffico. Le città meridionali non sono strutturate per ottimizzare la produzione e la circolazione della merce; ma, più umilmente, per favorire i riti e le passioni sociali». In PIPERNO 1997, p. 34. " Sempre nell'intervista a Roberto De Simone della nota 49. Nella città moderna, dunque, la cultura popolare deve necessariamente essere cancellata, o almeno resa marginale. Nulla deve ostacolare la razionalizzazione capitalistica (non si scrive sui muri perché i muri appartengono alla pubblicità, non si può suonare per strada perché si intralcia il traffico e si rallentano i flussi della forza lavoro ecc.). Non a caso, proprio con la fine della modernità e del modo di produzione fordista, gli ambienti urbani vengono ridisegnati dai nuovi poteri: il postmoderno recupera gli spazi all' 'immateriale', incoraggiando i suonatori di strada, i graffitisti, i saltinbanchi, i concerti nelle stazioni ferroviarie. La rivalutazione dei suoni, dei colori, dei gesti nelle strade e nei luoghi pubblici si inserisce nel progetto del capitalismo postfordista che richiede stimoli nuovi per nuovi consumi, legati ad una rinnovata dimensione dell'immaginario, lontano dai prodotti industriali durevoli ed indifferenziati della fase fordista. " «Sono di ferro/ eppure mi/ metto vergogna/ di vedere tanti/ disoccupati/ senza un / lavoro a causa/ dei padroni e/ del governo/ perciò mi faccio/ coprire/ fino a quando/ non ci date/ il lavoro!». Una fotografia di questa statua è in FERRARA 1997, p. 19. 16 Ibidem, pp. 94 e 95. '7 In Comitato Disoccupati Organizzati 1976, p. 35. i8 IIt RAMONDINO, p. 21. '9 Cfr. ORTOLEVA 1998, p. 191. 2 ° M. REVELLI in BASSIGNANA-CASTAGNOLI-REVELLI (a cura di) 1998, p. 23. "Cfr. LIBERO 1988. "Ibidem, p. 13. 23 Si veda DE SIMoNE 1982, p. 146: «Innanzitutto la mosca è in relazione strettissima con la putrefazione e quindi con i morti. (...) Del resto, ancora oggi, in ambienti popolari, durante la lamentazione e la veglia funebre, si usa sventolare un fazzoletto sul viso scoperto del morto, proprio perché con questo gesto, rimasto radicato nella coscienza, si usa allontanare le mosche dal cadavere, anche se si è in tempo 79 invernale ed è difficile vedere delle mosche. Insomma, con tale rappresentazione si tenta di impedire simbolicamente che uno spirito maligno, in forma di mosca, si avvicini al morto». 24 Cfr. DE MARTINO, 1975 e anche LOMBARDI SATRIANI-MELIGRANA 1989. 27 Analogo dispositivo allegorico si ritrova nel cosiddetto 'Carnevale di massa' di Governolo del 1950; questa volta la vittima rituale, un asino, rappresenta la morte dell'agricoltura italiana, polemicamente attribuita alla concorrenza del piano Marshall. Cfr. BERTOLOTTI 1991. 26 Cfr. intervista a Roberto De Simone a cura di Piero Giacché, in «Scena» luglio 1981. Sempre sulla 'Grande Imperatrice' cfr. anche Annabella Rossi in ROSSI DE SIMONE 1977, p. 19. Sul 'fantastico' nella cultura popolare meridionale si veda inoltre CASTIGLIONE 1981. Il personaggio della 'Grande Imperatrice' è raffigurato sulla copertina del volume «Carnevale si chiamava Vincenzo». 27 Cfr. SHANK, 1980 e anche, per le esperienze britanniche, G. VACCA, Imparare le tecniche della creazione popolare. Intervista a Ewan MacColl in «I Giorni Cantati», marzo 1989. 28 In BALDASCINI-GRAVIER-E ZEZI 1981. "In questa dimensione si comprende anche l'assenza di una regia formale negli spettacoli teatrali dei Zezi, sebbene questi fossero comunque supervisionati da De Falco. Infatti «la regia europea, decollata alla fine del 1800, rappresenta un processo artistico parallelo alla modernizzazione attuata dalla tecnologia industriale» (cfr. PUPPA 1998, p. 7). Una forma di inquadramento e di disciplina, dunque, per forza di cose estranea all'incontrollabile spinta vitale del Gruppo Operaio di Pomigliano. 30 Cfr. il quaderno di cultura popolare «`0 `ppane 'e mamella» in bibliografia. 31 Si vedano, nella sterminata letteratura a proposito dei fenomeni culturali conseguenti alla globalizzazione, LATOUCHE 1992, HARVEY 1993, GIDDENS 1994, RIFKIN 1995, REVELLI 1996, RAMONET 1998. 32 Come nel caso della regia teatrale, dunque, si presenta ancora una volta una resistenza a quello che, per dirla con Horkheimer e Adorno, è «il carattere di montaggio dell'industria culturale, la fabbricazione sintetica e regolata dei suoi prodotti, che imita i procedimenti dell'industria manufatturiera e della produzione in serie». Cfr. HORKHEIMER E ADORNO 1966, p. 177. " 'Paranza', come abbiamo già detto, significa 'gruppo', ed è un termine usato dai pescatori e adottato con lo stesso significato nell'entroterra. Il suo uso in comunità popolari anche lontane dalla vita marinara (così come la presenza rituale di pesci, barche e pescatori in molte manifestazioni della cultura etnica campana) fa pensare al permanere di una vera e propria costellazione simbolica. 80 IV. I TESTI Aaaah, n'adda fa bene, n'adda fa bene Chi ce leva a muntagna Ah, n'adda fa bene, n'adda fa bene Chi ce leva o lavoro Ah, n'adda fa bene, n'adda fa bene Chi ce leva a felicità Ah, n'adda fa bene, n'adda fa bene... Chi s'ha pigliato a pullanca e mamma mia... E nun m'a rà! Sia in America che in Europa, il folk revival si proponeva di elaborare nuove forme alternative di comunicazione antagonista, basandosi sui modelli espressivi tradizionali che cominciavano ad essere soppiantati dalla nascente cultura di massa. Tale elaborazione significava anche, naturalmente, lavorare sui testi dei canti popolati, sfida ardua per chi si accingeva a farlo sul corpus tradizionale campano. Come abbiamo già avuto modo di dire, Il canto etnico campano si manifesta, nella maggior parte dei casi, in contesti rituali a carattere collettivo come pellegrinaggi e feste sacre. In queste occasioni esso assolve, insieme con gli altri elementi del rito, alla funzione di favorire un momento rituale di destorificazione e non può quindi, pena la perdita della sua efficacia, veicolare (se non occasionalmente) contenuti contingenti. La sfida consisteva perciò nel secolarizzare il canto popolare, sottrarlo alla sua condizione metastorica, atemporale, e piegarlo, pur volendone rispettare le strutture formali, alle esigenze del quotidiano. Nella tradizione britannica, il folk revival aveva a disposizione il grande serbatoio della 'ballata', componimento di carattere narrativo-sequenziale di formazione in genere non anteriore al XVI secolo, ma spesso anche più recente, legato alla realtà materiale dell'esistenza, con valore di vero e proprio documento 'storico'. Ciò permetteva ad operatori come MacColl in Inghilterra, o Seeger negli Stati Uniti, non solo un plausibile aggiornamento dei contenuti, ma anche un recupero del canto popolare che fosse basato sulla chia81 rezza della parola scandita e sulla efficacia del racconto. Per l'appartenenza a un'area folklorica contigua, qualcosa di simile era possibile anche nel nord Italia, come avevano dimostrato i gruppi del revival settentrionale. I canti etnici dell'area napoletana, almeno quelli rimasti nella tradizione viva, si muovono invece in un registro totalmente diverso: anzitutto, un tratto arcaico che li caratterizza è di essere eseguiti quasi esclusivamente nelle feste religiose'. Manca infatti in Campania una consolidata tradizione di canto sociale, così come mancano quasi totalmente nel mondo popolare occasioni di vita associata non rituale (osterie, cori, gruppi ecc.). Essendo parte di quel complesso meccanismo magico-rituale che la dimensione della festa contadina mette in moto, nel momento dell'esecuzione di questi canti popolari ha grande importanza la dimensione 'fonica', fatta di grida, di suoni ad imitazione delle voci animali, di stereotipie ritmiche, che contribuisce (come del resto la gestualità) alla totalità della comunicazione, travalicandone l'aspetto puramente verbale; in secondo luogo i testi sono costruiti in modo completamente diverso: raramente basati su strutture narrative coese, essi sono agglomerati simbolici, labirinti allusivi, densi di strati profondi e di criptici riferimenti ai miti e ai riti delle antiche culture mediterranee2. Le prime canzoni dei Zezi sono il frutto di un'elaborazione collettiva interna al gruppo stesso, quasi a voler ribadire il loro carattere di canti popolari, anonimi e destinati alla comunità; si tratta di brani in cui la canzone di protesta si fonde con i versi della tradizione orale, e proprio la dimestichezza di molti membri del Gruppo Operaio con il canto tradizionale del rito, il loro essere parte attiva del mondo delle feste popolari, fa sì che le stesse immagini, gli stessi millenari simboli della tradizione, vengano inconsciamente rifunzionalizzati e usati per esprimere i nuovi contenuti. In seguito i Zezi si avvarranno, per i testi, della collaborazione discreta di Luca, alias Luigi Castellano, un apporto decisivo per la loro storia, che già nei primi tempi di attività del G.O. aveva firmato 'A cantata de maccarune'. Nel primo album `Tammurriata dell'Alfasud' è presente un canto tradizionale sul tamburo chiamato 'Palle e pallucce'. In esso si 'narra', in maniera vaga e misteriosa, di qualcuno che sale in un palazzo per avere un incontro erotico con una ragazza; quando arrivano i fratelli di lei, si hanno una serie di versi apparentemente incongrui e privi di nessi: 82 E si aggio fatto male vuje acciritemi E `ncoppe a `nu chianchione chianchiatemi Dinto a `na casciolella vuje `zerratemi E co na chiava d'oro vuje `nchiuritemi A capo de nove mesi vuje `rrapitemi Chesti ussicciolle meje fanno 'e miracoli'. Si tratta di una strofa che sembra avere poco senso ma che, letta in chiave simbolica, adombra invece le modalità di un classico rituale sciamanico: è proprio infatti delle iniziazioni sciamaniche (e delle iniziazioni in generale) subire uno smembramento simbolico rituale del corpo, cui segue la rigenerazione e la ricomposizione delle ossa e degli organi che preludono ad una rinascita, secondo uno schema ciclico di passione-morte-resurrezione (è evidente, in questo caso, l'allusione al parto, nella simbologia dei nove mesi). Struttura analoga presentano molti miti del mondo classico dell'area mediterranea (Osiride, Adone, Dioniso), che è talvolta possibile leggere in filigrana nelle culture folkloriche, pur se in maniera frammentaria. Nelle sue forme più arcaiche questo schema è spesso legato all'inghiottimento dello sciamano (o di un eroe) da parte di un mostro (sovente un serpente o un pesce), e alla fuoriuscita del primo, che così 'rinasce', dalla bocca di quest'ultimo 4. Negli antichi rituali iniziatici, come è noto, il novizio subiva queste prove per mutare il suo stato esistenziale, rafforzarsi e definire la sua identità, accedere al mondo degli adulti o, nel caso dello sciamano, acquisire il suo status specifico. Anche l'estraneità della strofa al resto dei versi non deve stupire: questi canti procedono per associazioni e parlano il linguaggio dell'inconscio; essi permettono, tramite l'esposizione di versi tradizionalizzati, il deflusso di tensioni accumulate e di angosce irrisolte", non necessitano di coerenza interna, e vanno interpretati non logicamente ma analogicamente. Tracce di sciamanismo, già rilevate nella figura del pazzariello, sono spesso presenti anche ad altri livelli nella cultura napoletana e meridionale, ad esempio in una leggenda sulla morte del principe alchimista del XVII secolo Raimondo Di Sangro di Sansevero, che visse nel centro antico di Napoli e di cui ancora si può visitare il palazzo6. Anche qui, come per un rito iniziatico, il protagonista viene smembrato, ma l'errore di uno schiavo nel tenere il conto dei mesi in cui il corpo doveva rimanere sepolto (in questo caso erano dodici, altro numero simbolico), causa l'arrivo del fratello del principe, l'apertura della cassa e la morte del protagonista. Oppure, le si ravvisa, per fare un altro esempio, 83 nella figura degli 'assistiti', personaggi degli ambienti popolari, ritenuti in contatto con il mondo dei morti e alle cui visioni la gente delega l'individuazione dei numeri da giocare al lotto. I significati dei testi dei canti etnici dell'area napoletana sono quindi di difficile interpretazione e sono da rapportare, accogliendo la lezione di de Martino e di De Simone, ad angosce esistenziali, culturalmente controllate tramite simbologie rituali, riferibili principalmente al sesso e alla morte. Sí rifletta ad sempio anche su questa strofa, sempre tratta da Tammurriata', dal primo album: Abbascio 'o puorto nun ce scennite Nun ce scennite abbascio 'o puorto Chella tene 'o marito muorto Ù mannaggia chi t'è muorto Ma che diavolo tieni `ncuorpo7. Qui tali angosce vengono espresse in controluce e proiettate in una dimensione simbolica, atemporale ed emblematica. È difficile quindi attualizzare tale tipo di contenuti, eppure si veda come E Zezi fanno irrompere, seguendo lo stesso schema metrico, il quotidiano, la 'storia' appunto, riferendosi alla disgrazia del colera, che all'epoca imperversò a Napoli, e all'oppio calcistico; quasi, sembrerebbe, con un subitaneo passaggio dall'inconscio alla coscienza: E venimmo a nuje cumpagni Ca 'o culera è abbundante E nuje spennimmo 'e miliardi Pe' nu merda 'e gol all'anno'. L'immaginario popolare napoletano è insomma pervaso dal senso del 'sacro', del numinoso affascinante e tremendo. La `ierofania', il manifestarsi stesso del sacro nella sua ambivalenza di attrazione-repulsione, esprime il contenuto psichico, lo circoscrive e ne neutralizza le possibilità di irruzione incontrollata nel reale. Questa potenza della ierofania, con tutta la forza e l'ambiguità simbolica normalmente rintracciabile nella dimensione mitico-rituale, viene evocata anche nelle strofe, che descrivono l'impatto dell'operaio dell'Alfasud (strappato il giorno prima ad una dimensione contadina e sacrale) con la catena di montaggio, in cui la consapevolezza della lotta sostenuta per ottenere il lavoro si fonde con l'appello alla Madonna dell'Arco, la più popolare, forse, delle antiche Madonne napoletane. Forgiati dalle gigantesche presse e assem84 blati nel reparto di lastroferratura, i materiali un tempo anonimi ed ammassati nei magazzini hanno già preso forma nella scocca, le 'ossa' dell'automobile: la vettura è già nata ma è ancora incompleta, fragile, indefinita. Nel reparto successivo essa viene verniciata, sigillata, smaltata; tra fumi e vapori subisce la schiumatura e i primi test di collaudo per poi entrare nel reparto di montaggio e ricevere la sua 'anima', il motore, che le darà la definitiva identità. Nel momento in cui l'auto, ormai un organismo vivente, lascia quest'ultimo reparto per entrare in 'finizione', gli enormi ganci che la mantengono in moto sulla catena, oltre l'altezza dell'uomo, si aprono, ed essa piomba rumorosamente sui nastri trasportatori d'acciaio che la conducono agli ultimi ritocchi, prima dei definitivi collaudi su pista. Il 'mostro' affascina ed impaurisce sputando dalla sua bocca, quasi come in un antico mito di rinascita, una macchina finita: Na lotta aggi'avuta fa Na lotta aggi'avuta fa Na lotta aggi'avuta fa pè nce trasì Ma quann'aggio trasuto Mamm"e ll'Arco ch'mbressione Mamm'e ll'Arco ch'mbressione ch'aggio avuto Uè nu mostro je vediette che paura ca faciette ué pa vocca ogni minuto cacciava na macchina fernuta9. La fabbrica stessa, del resto, ha sempre avuto nell'immaginario della plebe napoletana un ruolo 'mitico'. Il lavoro in fabbrica era visto come possibilità di fuga dalla precarietà dei mille mestieri di quella che un tempo veniva chiamata 'economia del vicolo'"). L'assunzione era associata a sicurezza, prosperità e dignità pur nella totale assenza di cultura industriale, un fenomeno giustamente definito 'idolatria dello stabilimento'" e che non tardò a provocare cocenti delusioni (numerosi gli operai che non sono riusciti ad abituarsi ai ritmi di lavoro e che dopo alcuni anni di lavoro hanno abbandonato per altre occupazioni). Si tentava quindi, da un canto, di entrare in fabbrica a tutti i costi, magari facendo domanda d'assunzione in carta bollata (è il caso proprio dell'Alfasud, insediata con l'intervento pubblico e quindi concepita come 'Stato' e cioè come 'mediatori' nella cui pronta risposta si confidava magari con 85 la motivazione di 'avere famiglia') oppure pagando una tangente, proprio come ín l'ammurriata dell'Alfasud': Settecientomila lire aggio cacciato pé trasP2 dall'altro la si viveva come estraneità totale, incomprensibile, angosciante, da cui si vuole scappare: Guarda llà nce sta na pressa Notte e gghiuorno vott' pressa Se mangia 'o sanghe de cristiane Vavattenne prisma 'e dimane". Nella cultura tradizionale napoletana, come in molte antiche culture, si ritrovano spesso immagini di quell'ampio repertorio che viene detto 'del mondo alla rovescia'; si tratta di figure di tipo carnevalesco, presenti nei canti popolari come in stampe d'epoca, in cui si descrivono situazioni inverse a quelle che la realtà propone. Anche qui possiamo osservare il lavoro simbolico di condensazione tra opposte tensioni: la realtà viene rifiutata rovesciandola, ma lo stesso rovesciamento simbolico, nella sua illogicità, la rafforza e la legittima, delimitandone la dirompente carica angosciosa, potenzialmente in grado di mettere a rischio la 'presenza nella storia' del soggetto. Questa visione di tipo rituale finisce ancora una volta per convivere con un'immagine di rabbia operaia, che si manifesta 'di notte', con il linguaggio onirico dei simboli: ...E tira accà e vott'allà aunimmece pé cagnà Je stanotte l'aggio visti Sti padrune a fa' `e pistune ...chille ch'erano 'e padrune pure lloro a fa' `e pistune". Oltre a ricalcare il simbolismo popolare, nello sviluppo delle sue tematiche il Gruppo Operaio utilizza anche la canzone narrativa, ma senza abdicare ad un certo tipo di immaginario tradizionale. La canzone narrativa offre ovviamente un prezioso strumento alla comunicazione antagonista: la sua struttura lineare e sequenziale permette uno sviluppo contenutistico in chiave epica, che sarebbe stato necessariamente limitato se espresso unicamente nel linguag86 gio della tammurriata; con queste canzoni, E Zezi si affiancano alla migliore tradizione della canzone politica internazionale. Due brani sono indicativi in questo senso: 'A Flobert' e 'A ferriera'. La prima è la più nota canzone del Gruppo, ed è inclusa nel primo album «Tammurriata dell'Alfasud», la seconda, scritta da Luca Castellano, è contenuta in «Auciello ro mio». 'A Flobert', una sorta di `disaster ballad' ripresa in seguito anche dalle Nacchere Rosse e nota anche come `Sant'Anastasia', racconta, come già sappiamo, della fabbrica di armi giocattolo che saltò in aria uccidendo dodici operai, addetti ad una pericolosa lavorazione senza nessuna misura di sicurezza. La canzone comincia con la data dell'esplosione: Viernarì unnice aprile `A Sant'Anastasia Nu tratto nu rummore Sentiett' e che paura'5 e già questo la assimila a tante canzoni sul lavoro. La si confronti, ad esempio, a 'The lifeboat Mona', scritta da Peggy Seeger, sorella di Pete e compagna di Ewan MacColl: Remember December '59 The howling wind and the driving rain The men who leave the land behind And 16. the men who'll never see land again I versi della `Flobert' proseguono, come vedremo tra breve, descrivendo lo straziante spettacolo dei morti, il dolore dei parenti, l'ipocrisia dei telegrammi delle autorità, e si sciolgono in una virulenta protesta sulle note di 'Bandiera rossa'. Anche 'A ferriera', che racconta di un operaio che muore finendo nel ferro bollente, comincia con la collocazione della storia in una dimensione temporale ben precisa (si tenga presente quanto abbiamo detto sul carattere `atemporale' dei canti tradizionali campani che non contemplano, normalmente, la forma-ballata): Erano e quatte e stammatína Ch'hanno scetato a figlia e `Ntunino Ca faccia scura e na brutta manera Venevano e corza ra rint'a ferriera''. Nella Terriera', come nella 'Robert', si stigmatizza l'indifferenza delle autorità ma in maniera iperbolica; qui infatti il 'capo' 87 porta alla famiglia dell'operaio morto un pacchetto con una ricevuta: è il gomitolo di ferro filato in cui è contenuto ciò che resta del corpo del lavoratore. Nonostante i due pezzi siano stati scritti a distanza di tempo e da mani diverse, essi presentano notevoli somianze stilistiche; anzitutto è presente in entrambe una forte 'coralità' e il discorso diretto introduce nella struttura narrativa la voce dei lavoratori e dei loro familiari. In 'A Flobert': `O figlio mio addò stà aiutateme a cercà facitelo pe' pietà pe' fforza `ccà adda stà' `Signò nun alluccate Ca forse s'è salvato' E 'a mamma se và avvutà Sott'a terra 'o vede piglià2 In 'A ferriera': ...Gente currite abbascio a ferriera currite...è tuccato a `Ntunino ...pat'e figli...pover'ommo pover'ommo!19 Il disastro è dunque vissuto in prima persona dagli operai e dalle famiglie restaurando, nel momento della tragedia, quella `comunità' che il lavoro di fabbrica ha spezzato. In maniera analoga Raffaele Viviani, la cui scrittura i testi dei Zezi sembrano spesso evocare, aveva descritto nella sua poesia `Fravecature' emuratorig un incidente sul lavoro: Nu strillo; e po' n'accorrere gente e fravecature. – Risciata ancora... È Ruoppolo! Tene ddoie criature! (...) Quanno ò spitale arrivano, `a folla è trattenuta, e chi sape 'a disgrazia 88 racconta comm'è gghiuta. E attuorno turt"o popolo: – Madonna! –Avite visto? – D"o quinto piano! -2 E Virgine! – E corame, Giesucristo...?!2° In 'A Ferriera' poi, gli aggettivi che descrivono il disastro: Se l'era agliuttuto na fiamma lucente E ll'era ammiscato co fierro v-dente-2' rimandano, come nella larnmurriata dell'Alfasud', ad una esasperazione sensoriale in cui la percezione della carica distruttiva della fabbrica viene trasfigurata in una vera e propria epifania dell'annientamento. Da rilevare, inoltre, la singolare analogia tematica con due canzoni propagandistiche del periodo fascista (di cui quelle dei Zezi sono ovviamente l'esatto ribaltamento, il vero e proprio 'negativo') che trattano di lavoro nell'industria pesante e di incidenti sul lavoro. Nella prima, 'La prudenza' (Seracini-Maneri) interpretata da Gilberto Mazzi, uno dei cantanti dell'epoca, gli incidenti sono naturalmente il risultato della colpevole distrazione dell'operaio: Lavorando, manovrando, macchine o motor non distrarti non fidarti segui il tuo lavor! Non pensare ai cruciverba O agli occhi blu Della tua Mariù! E ancora: Lo stordito l'intontito senti a me nuoce agli altri e specialmente a te; basta un fallo un'imprudenza nel lavor per piombare a un tratto nel dolor La seconda si intitola proprio Terriera' (Cherubini-Bixio) e, dopo aver cantato le 'gioie' del lavoro in fabbrica e della pace domestica: 89 Suona campana, suona, vien giù la sera; torna cantando l'uomo dalla ferriera: pensa ai suoi bimbi e canta alla sua casetta ov'è una zuppa e un angelo che l'aspetta. bacia una testa bionda e una chioma nera. com'è felice l'uomo della ferriera! sublima nel patetico e nel lacrimevole quell'incidente che invece, nella canzone del Gruppo Operaio, tramite il grottesco espediente del lavoratore reificato nel suo stesso prodotto, esprime indignazione e rabbia (il brano era cantato da Anacleto Rossi): Negli altiforni della città L'acciaio fuso sfavilla già; ma il fuoco traditore investe il forgiatore... presso il compagno che muor laggiù nessuno canta più... Suona campana, suona, vien giù la sera; ma non ritorna l'uomo dalla ferriera... com'è triste il suono delle campane mentre i bambini aspettano il babbo e il pane... Torna al balcone invano colei che spera... Ma non ritorna l'uomo della ferriera! i 22 Le parole di 'A Ferriera', come anche quelle di 'Vesuvio' e 'Piazza Dante', sono di Luca, che diventa, col passare degli anni, autore di molti dei i testi delle canzoni che il Gruppo Operaio propone. Luigi Castellano, 'Luca' appunto, si definisce un 'artista comunista dell'avanguardia storica napoletana'; produttore di immagini e scritture differenti, svolge da sempre attività completa nel campo delle comunicazioni visive. Luca però, per essere un artista d'avanguardia, è dotato di un forte sentire popolare, capace com'è di scrivere canzoni figlie di una memoria ancestrale, legate al vissuto di ambienti tradizionali, e allo stesso tempo di un continuo rapporto con la realtà operaia delle fabbriche.23 In 'Vesuvio', l'invocazione alla montagna esprime l'antica paura per le forze telluriche, esorcizzate nella tradizione dai riti del fuoco di Somma Vesuviana, e la unisce alla rabbia per lo scempio edilizio operato nella zona: 90 Si o purgatorio e tutte Chesta gente Ca vive int'e barracche E vive e stiente" Soprattutto però, mantiene ancora quelle immagini violente, permeate dalla luce della fiamma, dal calore del fuoco e da infernali rumori: Si fumme o si nun fumme Faie rummore È 'o ffuoco ca te puorte Int'o core". Si comincia a intravedere così la cifra stilistica del Gruppo, una poetica comune che rimbalza da un brano all'altro, fatta di lavoro in fabbrica e di attivismo politico, ma anche di vita comunitaria, di tradizione rituale. Queste canzoni rimandano così tanto alla comunità operaia quanto ad una dimensione di famiglia allargata, che il mondo popolare tende a riprodurre quando viene sradicato dalle sue abitazioni dei centri storici per essere forzatamente trasferito nelle costruzioni di edilizia popolare nelle periferie. Negli anonimi condomini a più piani, privi di spazi atti a permettere una vita di comunità, si abita dunque lasciando le porte di casa aperte, vivendo sui pianerottoli e negli androni, dilatando lo spazio domestico fin sulla strada, come è possibile osservare frequentando le zone popolari di Pomigliano o di Sant'Anastasia. Così, ad esempio, il senso di comunità si ritrova in `Capipallisti': Stammatina int'o piazzale Stammo tutti quanti afora Tasca ma ch'è succiesso? ...iammo a cassa integrazione ...e in mobilità!" In questo caso, è una comunità che reagisce con sgomento al senso di precarietà che i processi di deindustrializzazione comportano in termini di costi umani. Poche ma efficaci parole esprimono il disagio e lo stupore di fronte agli invisibili e potenti meccanismi economici che lasciano sul terreno disoccupazione ed incertezza. 91 Oppure, in 'A cammera e cunziglio', si evoca una scena tipica della vita di cortile, quando le donne si sedevano una accanto all'altra e, come una sorta di giornale vivente, commentavano gli eventi del paese, i comportamenti delle persone: A cammera e cunziglio chiagne a mamma ca vole o figlio ...trullellà trullellariulà E s'o cresce a ora a ora Piglio o figlio ce faccio ammore ...trullellà trullellariulà (...) Vavattenne faccia ngialluta Manco e cane t'hanno vuluto ...trullellà trullellariulà27. Questa coralità comunitaria è stata fin dagli inizi il marchio del G.O. anche nella sua dimensione più specificamente teatrale, come dimostrano la scena della mensa o dell'assemblea che compaiono in `Tammurriata dell'Alfasud' del primo album e che abbiamo già analizzato nel secondo capitolo. Se in canzoni come 'Vesuvio' si tende, tra l'altro, alla denuncia della subalternità del proletariato napoletano e della sua precarietà esistenziale, in `Pummarola black' il discorso si allarga allo sfruttamento della manodopera di colore che, nel vesuviano come in altre zone del Mezzogiorno, vive ancora sotto il tallone del caporalato: Ie so janche e tu si niro Ma io sto chiù a niro e te (...) mò p'è janche, gialle e nire pur'a pummarola è black28 in un ideale invito a preparare la bara (il `tavuto'), per i comuni sfruttatori: ...Pe chi h'avuto e nun 'a rato o tavuto è appriparato!29 E la `pummarola' assume, come i più autentici simboli, un'ampia polisemia: 'nera' perché frutto di lavoro nero, perché la 92 pelle deí lavoratori è nera e perché associata alla morte, e quindi: ...S'è vestuta a lutto pecché e tiempe songhe brutte)° ma anche, ovviamente, implicitamente 'rossa' e quindi rivoluzionaria. Dello storico G7 dei grandi della terra a Napoli del 1994, E Zezi colgono il segno reazionario, nonostante il grande ritorno di immagine che la città ne ha avuto in termini di pubblicità e che ne ha effettivamente decretato in seguito il definitivo rilancio su scala internazionale, in «G7: zimbre e crapetti», quindi: So' loro e schiattamuorte Di questa società Distruggono, licenziano l'umana dignità31. In 'Piazza Dante', ancora, si allude ironicamente al noto rap porto confidenziale che il popolo napoletano da sempre ha con i suoi santi, e al particolare modo di gestire i suoi rapporti col `sacro' che, come in molte antiche culture, confina spesso con 1"osceno': E cinche o juorno rint'a na chiesa Steve nu santo cu a faccia appesa Era succiesso ca rint'a cuntrora Na vecchia s'era aizata o priore!" Nel periodo maggiormente legato al teatro, e cioè gli anni '80, E Zezi utilizzavano le canzoni soprattutto per la satira politica, cercando di mantenere l'attenzione del pubblico su tematiche in quegli anni quasi totalmente espulse dalla canzone d'autore. 'Oi taliano' è tratta dallo spettacolo `Nzalata no stop' del 1985: Oi taliano, da Torino a Brusciano Quanno piglia a scheda mmano Sul'a nnuie haia vutà. Te ricimmo si stu voto tu ce raie Tu rimane già sarraie Nu signore e taliano! 93 Vuò o lavoro, vuò o lavoro Vuò na casa e a pensione Ramme o voto, rarnme o voto Na cosa a me, na cosa a te Oi taliano, da Torino a Brusciano33. Un linguaggio ridotto all'osso e voluta mente privo di risonanze simboliche, un testo modellato sulla popolare melodia de 'La Colejala': è un procedimento che i Zezi utilizzarono molto in quel periodo e che ben si presta, proprio perché basato su melodie molto conosciute, a diffondere contenuti satirici o propagandistici. Le canzoni più recenti continuano invece a sviluppare le tematiche forse più consone al Gruppo Operaio, come `Giuvinotte e signurine' che affronta in modo diretto il problema della disoccupazione giovanile, il cui riflesso più immediato è nell'adolescenza protratta che molti ragazzi sono costretti a vivere: Ma che male v'hanno fatto Sti guagliune miez'a via Stanno tuttu quant'a spasso Senza sorde rint'e sacche". Una disoccupazione 'strutturale', funzionale alla riorganizzazione produttiva, che esplicitamente necessita di una massa di giovani economicamente dipendenti dai genitori e quindi ricattabili in qualsiasi momento dal mercato del lavoro 'flessibile': Ma e mastune aumentano o volume Vottano a destra e fanno o ritornello `belli guagliune, verite e v'arrangià meglio a campare cu papà e mamma! V'avisseve sunnato ca rimane jesce o sole E ca ognuno e vuie trova chello ca se sonna?35 `Bianco o cioccolata' è una canzone antirazzista che non solo chiede tolleranza di maniera per ogni forma di diversità (anche solo fisica): A ggente è nera o è gialla, è bianca o è ciucculata È secca , chiatta o storta, songh'è mmane ro sole36 ma auspica anche la soluzione delle questioni sociali che del razzismo sono la base e il nutrimento: 94 Sfamammoli, vestimmoli Cu rammoli , ' npa rammoli Facimme e faticà ! " In 'Malocchio' ci si riavvicina a personaggi tipici della tradizione e oggi quasi del tutto scomparsi; l"incensiere', nella comunità popolare napoletana, aveva il compito di scacciare (con gli opportuni scongiuri rituali) il malocchio e garantire prosperità alle famiglie che incontrava. Vestito sempre di nero, era adorno di corni e di santini. Il testo è di Gennaro Esposito, anziano poeta popolare `urbano' di Napoli: C' `o tubbo `ncapa e na sciammèria corta Passa nu vennetore `e bonasciorta; Appise a nu cazone a zompafuosso Porta meraglie sante e ccuorne d'uosso (...) E contro 'e male nuove e chilli antiche, Ca tèneno 'e rradice `int'a sti viche, Pe' chellu `ncienzo 'a gente s'ammuina E se l'accatta comme medicina. 38 Ma, naturalmente, nessuno spazio è lasciato ad una oleografica e nostalgica memoria; i personaggi della Napoli popolare stanno morendo, sopraffatti da dinamiche nuove che li riducono a patetiche e marginali figure: Mo st'ommo, ca nun tène bene 'e sciorta, `o va vennenno a ll'ate porta a porta e rialanno nuvole 'e speranze, a stiento scippa 'a vita e tira annanze!" E non poteva mancare, in un ensemble che del contatto con il pubblico fa il suo punto più alto di verifica, lo slogan. In 'Posa e sorde' (una locuzione del linguaggio `parlesia', il particolare gergo dei musicisti napoletani, che significa 'dacci il dovuto') 40: O padrone a fine mese Tene sempe a busta appesa L'operaio e vintisette Manco e sorde pe sigarette (...) 95 E posa e sorde, posa e sorde Posa e sorde mariuò Pos'e so, pos'e so, pos'e so Marinò, marinò, mariuò!" O, ancora più efficace, con linguaggio apocalittico: Alenia , Alenia, Alenia, Alenia Ra nu mumento a n'ato O mare s'è agitato Italsider, Sebm, Fincantieri: L'hanno vennuta aiere! Circumfer, Raccorderie So ghiute miez'a via! 42 L'uso degli slogan, così come l'utilizzo di fischietti, tamburi e campanacci, è importante per l'operazione dei Zezi: questi strumenti, nel rimandare (inglobandola) all'immagine di una Napoli plebea e chiassosa, fanno parte di un possibile `folklore operaio', così come striscioni, murales, pupazzi e maschere, o comportamenti cinesici come corse e rappresentazioni improvvisate; tutto questo bagaglio comunicativo, che i lavoratori usano nei loro cortei, negli scioperi, nelle occupazioni, E Zezi hanno usato nei loro spettacoli dal vivo. Si tratta insomma della persistenza, all'interno delle classi popolari, di forme di espressione alternative alla cultura scritta e alla sua classica composizione tipografica, per una comunicazione a tutto campo, visiva, sonora, gestuale, così come lo è quella contadina del rito. Tra canzone di protesta e ballata, insomma, tra slogan e linguaggio rituale, per non parlare di motivi fiabeschi e filastrocche presenti in altri brani", E Zezi tessono un ampio tappeto di possi bilità espressive per una moderna canzone politica, alternativa e polimorfa, in grado di giocare le sue potenzialità comunicative sui registri più diversi : allusivo, simbolico, narrativo, ma anche ritmico, iterativo, o talvolta puramente fonico. 96 NOTE ' Questa schematizzazione è volutamente parziale. Non si tiene qui conto, di conseguenza, della grande tradizione meridionale dei 'cantastorie', peraltro assai meno diffusa in Campania rispetto a Sicilia o Calabria. Per un ampio panorana dell'attività dei cantastorie nel Mezzogiomo d'Italia, cfr. GERACI 1996. 2 Roberto De Simone in particolare, ha individuato nei canti popolari meridionali le connessioni con i miti ed i simboli delle religioni precristiane. Cfr. tutte le sue opere in bibliografia. 3 E se ho fatto del male voi uccidetemi/e su un banco di macelleria macellatemi/dentro una cassettina serratemi/e con una chiave d'oro voi chiudetemi/e in capo a nove mesi voi apritemi/queste mie piccole ossa fanno miracoli. 4 Cfr. i lavori di Eliade in bibliografia. Prova ne sia che il corpus di versi tramandati per tradizione viene 'piegato' e adattato a forme musicali diverse (tammurriate, cilentane, canti di lavoro, ecc.) che permettono tutte, in momenti diversi, la protezione da possibili insorgenze del 'negativo tramite l'ampia polisemia dei simboli rituali. 6 Roberto De Simone l'ha raccolta da un abitante della zona del Nilo, nel cuore della città antica. Cfr. DE SIMONE 1982, p. 200. Una suggestiva ipotesi sulle origini orientali degli elementi sciamanici nella cultura della Magna Grecia in DODDS 1997. 7 Non scendete giù al porto/ non scendete giù al porto/quella ha il marito morto/ mannaggia chi ti è morto/ma che diavolo hai in corpo? 8 E veniamo a noi compagnche il colera è abbondante/e noi spendiamo i miliardi/per una merda di gol all'anno. 9 Una lotta ho dovuto fare/una lotta ho dovuto fare/una lotta ho dovuto fare per entrarci/ma quando ci sono entrato/Mamma dell'Arco che impressione/Mamma dell'Arco che impressione che ho avuto. /Ué un mostro io vidi che paura che mi presi/ué per bocca ogni minuto/cacciava una macchina finita. '° Cfr. ALLUM 1975, p. 55, e CAMPANIA 1990, p. 1156. " Cfr. ancora CAMPANIA 1990, p. 1162. " Settecentomila lire ho cacciato per entrare. " Guarda lì c'è una pressa/notte e giorno mette fretta/si mangia il sangue dei cristiani/vattene prima di domani. 14 ...E tira di qua e butta di là/uniamoci per cambiare/io stanotte li ho visti/ 'sti padroni a fare i pistoni.../quelli che erano i padroni pure loro a fare i pistoni. " Venerdì undici aprile/a Sant'Anastasia/un tratto un rumore/sentii e che paura. 16 Ricorda dicembre del '59/il vento che urlava e la pioggia che spingeva/uomini che lasciano la terra alle spalle/uomini che non la rivedranno più. " Erano le quattro di stamattina/che hanno svegliato la figlia di Antonino/con la faccia scura e una brutta maniera/venivano di corsa da dentro alla ferriera. ' a 11 figlio mio dove sta/aiutatemi a cercare/fatelo per pietà/per forza qua deve stare'/ 'signora non gridate/che forse si è salvato /e la madre va a girarsi/e da sottoterra lo vede prendere. 19 ...Gente correte/giù alla ferriera/correte...è toccato ad Antonino/... padre di figli ...pover'uomo/pover'uomo! 20 Un urlo; e poi un accorrere/gente e muratori./- Respira ancora...È Ruoppolo!/Ha due bambini!/(...)Quando all'ospedale arrivano/la folla è trattenuta/e chi sa la disgrazia/racconta com'è andata./E attorno, tutto il popolo - Madonna ! - Avete visto?/- Dal quinto piano! - Ai Vergini!/- E come, Gesucristo! Cfr. VIvIANI R. 1981, pp. 157-158. I 'Vergini' è il nome di una strada nel popolare quartiere Sanità a Napoli. 2 ' Se l'era ingoiato una fiamma lucente/e l'aveva mischiato col ferro bollente. 22 Nel 1997 queste canzoni sono state ristampate sul Cd «Com'è bello avere un 97 posto alle ferriere», cfr. discografia. 23 Per sua esplicita volontà Luca ha sempre rinunciato, come militante, sia a firmare i testi, sia a percepirne i relativi diritti Siae. Oggi dirige a Napoli la Fondazione Morra, nel barocco palazzo dello Spagnuolo a Via dei Vergini. 24 Sei il purgatorio di tutta/questa gente/che vive nelle baracche/e vive di stenti. " Se fumi o se non fumi/fai rumore/è il fuoco che ti porti/dentro al cuore. 26 Stamattina nel piazzale/siamo tutti quanti fuori/Pasquale, ma che è successo?/...andiamo in cassa integrazione/...e in mobilità! 27 A camera di consiglio/piange la mamma che vuole il figlio/...trullellà trullellariulà/e se lo cresce a ora a ora/piglio il figlio e ci faccio l'amore/...trullellà trullellariulà/ (...)/vattene faccia ingiallita/neanche i cani ti hanno voluto/...trullellà trullellariulà. 28 Io sono bianco e tu sei nero/ma io sto più nero di te/(...)/adesso per bianchi, gialli e neri/anche il pomodoro è black. 29 ... Per chi ha avuto e non ha dato/il tavuto è preparato! 30 ... S'è vestita a lutto/perché i tempi sono brutti. " Sono loro i becchini /di questa società/distruggono, licenziano/l'umana dignità. 32 Alle cinque di giorno dentro una chiesa/c'era un santo con la faccia 'appesa'/era successo che nella controra/una vecchia si era 'alzata' il priore! 33 Oi italiano, da Torino a Brusciano/quando prendi la scheda in mano/solo a noi devi votare/ti diciamo se questo voto tu ci dai/tu domani già sarai/un signore italiano!/vuoi il lavoro, vuoi il lavoro/vuoi una casa e la pensione/dammi il voto, dammi il voto/una cosa a me, una cosa a te/oi italiano, da Torino a Brusciano. " Ma che male vi hanno fatto/questi ragazzi in mezzo alla strada/sono tutti a spasso/senza soldi in tasca. " Ma i padroni alzano il volume/spingono a destra e fanno il ritornello/ 'cari ragazzi cercate di arrangiarvi/meglio vivere con papà e mamma/avete sognato che domani esce il sole/e che ognuno di voi trova quello che sogna?' 36 La gente è nera, gialla, bianca o cioccolata/è snella, grassa o storta/sono le mani del sole. " Sfamiamoli, vestiamoli/curiamoli, insegniamo loro/facciamoli lavorare! 38 Con un tubo in testa e un vestito corto/passa un venditore di buona fortuna/appesi ai pantaloni sulle caviglie/porta medaglie sante e corna d'osso/ (...)/E con tro mali nuovi e antichi/che hanno le radici in questi vicoli/per quell'incenso la gente si accalca/e lo compra come medicina. 39 Ora quest'uomo, che non ha beni di fortuna,/li va vendendo agli altri porta a porta/e regalando nuvole di speranze,/a stento strappa la vita e tira avanti! 4 ° Sul gergo 'parlesia' cfr. GRECO 1997 41 Il p a dron e 4 fin e m es e/ti en e s em p re la bus ta app esa / l' op erai o i l ventisette/neanche i soldi per le sigarette/(...)/e posa i soldi, posa i soldi, posa i soldi ladro!/posa i so, posa i so, posa i so/ladro, ladro, ladro! 42 Alenia, Alenia, Alenia/da un momentoall'altro/ il mare s'è agitato/Italsider, Sebm, Fincantieri/l'hanno vendute ieri!/Circumfer, Raccorderie/sono finiti in mezzo alla strada! 43 Ad es. il lamento 'Auciello grifone', inserito in 'Auciello ro mio', è un frammento di una variante campana de 'L'osso che canta', 780AT. La fiaba è di diffusione europea e oltre. Cfr. anche Vja PROPP, L'albero magico sulla tomba, in PROPP 1975, p. 12. Una versione di Pomigliano d' Arco è presente anche nei racconti pomiglianesi raccolti da Vittorio Imbriani (cfr. IMBRIANI 1886). Per la Campania si confrontino anche RAK 1984, e Russo 1989. 98 V. LE MUSICHE Comme 'o vvuò sentì: sunanno, cantanno, abballanno? La riscoperta della musica di tradizione orale da parte dei nuovi e politicizzati gruppi rock, rap e reggae italiani degli anni '90 è stata, nonostante i suoi effetti rivitalizzanti, fonte di numerosi equivoci. Raramente basata su una reale adesione esistenziale alla tradizione, ancor meno frutto di studio dei repertori, per non parlare della conoscenza di tutto il bagaglio culturale di tipo antropologico necessario per comprendere la musica e la cultura etnica in tutta la sua complessità, questo avvicinamento è avvenuto prevalentemente per suggestione, per evocazione, per rimando. Brani tradizionali campionati, esecutori popolari invitati ad esibirsi con gruppi di successo, registrazioni di strumenti e di sonorità etniche (dalle voci alle bande di paese) sono state le modalità con cui si è riscoperta la musica popolare. E ovvio che in tutto ciò un gruppo come E Zezi dovesse ritornare al centro dell'attenzione come memoria storica del connubio tra canzone popolare e politica. I membri del Gruppo Operaio, sia i reali portatori di cultura popolare che i musicisti acquisiti ma provenienti da altra estrazione, si sono sempre e costantemente rapportati in maniera diretta ai repertori della tradizione popolare napoletana, sia con la ricerca teorica che con la realtà espressiva di questo tipo di musica, e ancora oggi animano le numerose feste popolari della Campania. Proprio con questo atteggiamento, E Zezi hanno rielaborato il materiale popolare e lo hanno fuso con brani originali, suoni e ritmi di altre culture o aree geografiche pur mantenendo riconoscibili i segni della tradizione campana. Senza fare una disamina particolareggiata dei rapporti tra la musica del G.O. e la tradizione (non è questa un'appendice etnomusicologica) è importante riflettere, anche se solo per accenni, su quello che abbiamo definito 1"atteggiamento' che un gruppo che ha lavorato sulla musica etnica, e sulla sua possibile contaminazione con altre forme, ha avuto'. 99 Nel primo album «Tammurriata dell'Alfasud», a tammurriate basate sullo stile tradizionale (attacchi, emissione della voce) ma liberamente reinventate secondo i modi di un possibile folklore `operaio', si alternano giri armonici da canzone pop, con una tecnica esecutiva che sconfina in forme non contemplate dalla tradizione etnica, come l'interpretazione e il fraseggio musicale. La soluzione più singolare viene però adottata, forse neanche in maniera del tutto consapevole, quando, per fondere nello stesso brano i linguaggi del rito e della contestazione, si mettono a contatto reciproco sistemi sonori lontani tra loro: nella canzone che dà il titolo al disco, come nelle tammurriate che lo aprono, viene ad esempio introdotta la chitarra, strumento estraneo alla tradizione, che 'forza' i modi musicali propri del canto contadino e li sottopone, tramite l'alternanza di accordi di tonica e dominante, a tensioni armoniche ad essi normalmente estranei. La materia musicale, tuttavia, resiste alla plasmazione tonale, con un risultato che però nulla perde sul piano dell'immediatezza comunicativa. In 'Bella figliola' la quarta aumentata, che spessissimo fa parte dell'ambito scalare della tammurriata, cede il posto alla quarta giusta, che rientra nella scala maggiore e riporta la melodia nell'ambito tonale. L'uso della chitarra, con i suoi moduli di accompagnamento e di arrangiamento, sembra a tratti ricordare la musica degli Inti Illimani, di gran successo allora in Italia (loro paese di permanenza dopo l'esilio dal Cile di Pinochet), e considerati punto di riferimento, con tutto il resto del movimento della 'nuova canzone cilena', per chi si occupava di folk revival. Queste soluzioni, che possiamo definire come un procedimento di `stilizzazione', derivano dalla necessità di rendere cantabili nelle manifestazioni di strada, nei cortei, negli scioperi ecc., dei brani la cui forma era in origine completamente diversa perché «programmata» per il rito'. Alla stessa esigenza, risponde la forzatura che si nota nell'interpretazione: mentre nei canti eseguiti durante le feste popolari essa è sempre 'straniata' (come normalmente avviene nei momenti rituali), in altre occasioni collettive l'enfasi o l'immedesimazione può aiutare a rafforzare la partecipazione emotiva, così come l'uso di strumenti a fiato o a percussione, che è tipica delle manifestazioni di piazza. Altra caratteristica che si può rilevare in molti pezzi è l'ambiguità modale maggiore/minore nel canto, che è propria della tradizione popolare. 100 Nei dischi degli anni '90, l'operazione raggiunge ovviamente momenti di maggiore maturità e coscienza. La partecipazione costante e attiva alle feste, lo studio del materiale folklorico e l'elaborazione collettiva forniscono, come sempre, la linfa vitale al lavoro del Gruppo, ma ci si apre ora a soluzioni nuove, a commistioni tanto interne quanto esterne alla tradizione, aperte alle musiche di altre realtà, con un occhio di riguardo per quelle del Mediterraneo e del medio oriente. Così si provano formule diverse: si ritma la tammurriata sui timpani, come in `Peppenié', si innestano sulla musica di tradizione ritmi estranei ad essa, come accade in `G7: Zimbre e capretti' dove sul consueto ritmo di tammurriata: >- >,- }- 3» a viene sovrapposta una suddivisione comune a molte altre culture musicali, forse acquisita inconsapevolmente attraverso l'ascolto di dischi o l'incontro con musicisti: I p P t I P P I Ritroviamo, ad esempio, questa figurazione nella tradizione rituale Gnawa del Marocco, suonata dalle `qraqrèb' (castagnette metalliche') durante la consacrazione delle abitazioni'. Riarrangiata e trascritta per batteria nel seguente modo essa viene sovrapposta nel pezzo dei Zezi alle figurazioni tradizionali eseguite dalla tammorra, producendo un'inedita trama ritmica: 101 %camorra batterle Contemporaneamente, però, alcuni degli stilemi ritmici tipici della tradizione etnica napoletana vengono comunque recuperati attraverso accenti e figurazioni: nel brano le due semiminime finali della figurazione evocano l'andamento della tarantella. Un tipo di suddivisione, saldata ancora a ritmiche locali, la ritroviamo anche in 'Vesuvio': temmorre tom basso cessa vivi'). Così, con minime variazioni, in Punirnarola black' (da `Zezi Il tipo di approccio in questione esprime insomma la spinta a muoversi fuori della tradizione e insieme a restarne sempre dentro, quasi per paura di perdere le proprie radici, di 'smarrire' la presenza, come tante volte sembrano fare i danzatori della tradizione andando avanti e indietro, entrando e uscendo da un'area sacrale da cui si è allo stesso tempo attratti e respinti. Ma, oltre al legame con la propria musica etnica, o all'interesse per altre tradizioni, il cuore del G.O. batte pur sempre soprattutto per i movimenti di base, e i suoni, i ritmi, gli slogan delle manifestazioni di piazza si affacciano continuamente nelle canzoni. È quel che avviene, quasi inconsciamente, nel brano 'Piazza Dante' che, pur non essendo una canzone di protesta, ad una analisi più ravvicinata risulta costruito sulla sillabazione di un noto slogan scandito 102 nei cortei («`o potere 'o potere, 'o potere all'operai/si cummanna chi fatica se starria `cchiù `mmeglio ancora»), creando a sua volta una sorta di feedback tra arcaico e moderno, se pensiamo che negli stessi cortei verranno poi utilizzati anche i canti dei Zezi: o po b r* 'o po M re . e p0 to re • gli o p• r• I Nella canzone, in una suddivisione più articolata, la stessa melodia è riconoscibile: _P __ e r . . r s .% a e r e a a - a - 3 • 7 • 7 1 , 11 1 M ~aW_A W_ I albe M~M W /...MI~.~ ~~1•1~~~1.11~ 1.., w - MIMIMI.M.M M.11 t .1.,3• •~•MMMENIMW1 ~ ~11M ~Il ~ M l i M IMMIM ~ E da questo slogan, che del resto la chiudeva fino ai primi anni '90, deriva anche 'A ferriera': ~MIMI . • m . . M' LMI~ir 1 1 1 1 • = = W M ••• • •11•MIM. •~MIMI M• IIIMM•MMIMMM M M •M. M•••••MMMIMIOMI m IMM /W" M- M 1/41~1115.0.sol agx.... A M 1 1 1 1 1 A • . 1 1 , 3 1 1 , • ~ 1 1 1 1 1~ 1 1 . 1 . 1 1 ~ 1 ~ I i i Nella 'Giuglianese', dall'album «Zezi vivi», l'operazione di rielaborazione è tutta interna alla tradizione. La Giuglianese è un particolare tipo di ballo, eseguito nelle feste tradizionali di Madonna dell'Arco e di Somma Vesuviana, dai gruppi provenienti da Giugliano, un paese a nord di Napoli: si tratta di una danza molto aggressiva e spettacolare, ritmata dal tamburo e dal `sisco', un piccolo flauto dritto. L'analisi comparata di alcuni momenti della 'Giuglianese' dei Zezi e della relativa danza popolare che la ispira, mostra come il Gruppo Operaio vi ha lavorato, nel tentativo di condensare in un solo brano la forza ritmica presente nella tradizione popolare in momenti diversi. La danza di Giugliano presenta delle accentuazioni che vengono progressivamente condensandosi, strutturando le relative figurazioni coreutiche secondo un modello tripartito che dura in media intorno a un minuto, e che si ripete fino al termine del ballo. Tradizionalmente nella 'Giuglianese' tutti e tre i modelli ritmici e coreutici si succedono e si alternano all'interno di un'unica strofica di versi endecasillabi cantati4, che 103 possono anche essere ripetuti, spezzati o interpolati da elementi `formulaici'', cioè le cosiddette 'barzellette' in versi ottonari. Ecco come si presentano gli accenti dei tre modelli: 1° modello temmorre [etrutr- 2° modello > 3° modello Nel brano inciso dal Gruppo Operaio viene innestata, su questa struttura, una ritmica tipica delle tarantelle tradizionali campane che così in genere si presenta nella tradizione rituale6: tamburo Tenue e piatti F• If • l F ?* • f• F• L'incrocio fra le due forme produce questo schema ritmico: 1° modello jiffil:MtrtrIM:rtLrIrr r v r 2° modello vlurrlutcributrtr-rm f if. • 104 3° modello _ertruirut=m„ e ___________________________________________________ Ffl??ffi Anche melodicamente, l'accentuazione delle note viene spostata per permettere l'interazione delle due forme musicali. Così si presentano gli accenti di un frammento della tipica melodia di Giugliano: E così l'arrangiamento dei Zezi, portando in levare i primi due movimenti della frase, permette alla melodia, con gli opportuni aggiustamenti, di adattarsi alla metrica della tarantella: 1111"~ ~AMORI I ME M.M" — ~MEI MI Meal~a /L~I IP" ~M M I ~ ~EIIM •~IM Ma l'esecuzione del G.O. non si arresta all'intreccio ritmico; essa dilata lo spettro timbrico delle sonorità popolari con l'aggiunta di strumenti estranei alla tradizione, e, nella sua esigenza di contaminazione, si apre all'improvvisazione. Collocati fra tradizione e modernità, sospesi fra istintiva ricerca delle proprie radici e necessità di aprirsi verso l'esterno, E Zezi, un gruppo musicale che accoglie al suo interno tanto diplomati in musica di estrazione urbana, quanto portatori di cultura etnica che non hanno orizzonte diverso da quello della tradizione orale, si fanno testimoni di una sorta di stimolante 'doppia musicalità', specchio veritiero di una più ampia e irrisolta trasformazione sociale e politica. 105 NOTE Questo capitolo si serve di alcune indicazioni di Antonio Fraioli, da anni violinista e coordinatore musicale del Gruppo Operaio E Zezi, che ha curato anche le trascrizioni. 2 Lo stesso tipo di atteggiamento è riscontrabile negli altri gruppi folk di estrazione non cittadina (Nacchere Rosse, Collettivo Teatro Folk, ecc.). } Dal volume «Culture musicali», n. 10/11 (1986/87). ' Queste riflessioni sono da riferire, oltre che all'osservazione diretta della danza, alle registrazioni contenute nel cofanetto di sette microsolchi «La tradizione in Campania», a cura di R. De Simone (cfr. discografia). 5 Per 'elementi formulaici' si intendono frasi fatte ed espressioni fisse caratteristiche delle culture orali. La lormulaicità', con le sue allitterazioni e le sue assonanze, le sue ripetizioni e le sue antitesi, svolge molteplici funzioni all'interno di tali culture; prevalentemente fornisce aiuto mnemonico ad un pensiero che, essendo non scritto, richiede un'enorme quantità di nozioni da ricordare a memoria. Cfr. ONG 1986. 6 Cfr. anche De SIMONE 1981. 106 INTERVISTE «I mass media distruggono, ma ti danno anche la possibilità di valorizzare...» Marcello Colasurdo (venti anni con il Gruppo Operaio ) MARCELLO COLASURDO «Sono nato a Campobasso, mia madre era di lì, mio padre non l'ho mai conosciuto. Ho fatto il collegio ad Ancona fino a quattordici anni e poi sono venuto a Pomigliano, perché mia madre si era risposata. Per tanti anni ho abitato in un cortile, e la vita di cortile mi ha dato tanto. Il cortile era tutta una comunità, si faceva il pane assieme, si lavavano i panni assieme, si accendevano i fuochi... La vita del cortile è solidale, vai a mangiare qui, vai a mangiare lì... Come dice il proverbio: 'a casa del povero non mancano torsoli'! E così sono diventato padrone della lingua, dei modi di espressione; il cortile mi ha acculturato, per quella che è la cultura della tradizione. Ho fatto di tutto, il barbiere, il fruttivendolo, il barista; la mattina andavo a scuola, il pomeriggio facevo il ragazzo di bottega. Poi la ho abbandonata: ho la quinta elementare. La politica l'ho scoperta sulla mia pelle: il mio patrigno faceva il netturbino per una ditta privata, ed era pagato 'a sottosalario'. Lui era analfabeta, i conti non tornavano mai e io scoprii che il suo datore di lavoro riusciva a pagarlo di meno facendolo ubriacare: così io andavo a prendere i soldi di mio padre, feci il suo sindacalista! Mi facevo i conti delle ore di lavoro, dei giorni in cui era mancato...Mi sono politicizzato così, capendo che cos'era lo sfruttamento! Io mettevo la firma e non la croce! Ma all'inizio non ero etichettato, vedevo le cose storte e non le sopportavo; solo più tardi mi iscrissi alla Fgci. La tammorra la vedevi a Castello, le fronne le sentivi quando si faceva la veglia per il morto; quella è una cosa che mi colpì moltissimo. Facevo anche i 'matrimoni', le canzoni di Mario Merola, di Sergio Bruni... E facevamo anche le feste con gli amici, al chiuso, 107 cd giradischi... Le cose di Sanremo; ma poi io ho scelto il mondo della tradizione, il mondo che mi apparteneva. Io non posso cantare la canzone di un americano, cosa mi importa? non la sento mia, mi piace ascoltare, però non assimilo! Assimilo solo quello che mi appartiene. A fine 74 ho conosciuto i Zezi. All'interno dei Zezi facevamo discussioni, chi era del Pci, chi del Pdup, chi di Autonomia o dell'Mls. Io ero iscritto alla Fgci poi al Pci, però mi piaceva la politica di Lotta Continua; ma non eravamo un gruppo del Pci La destra non aveva spazio qui a Pomigliano, non c'era una sede fascista! Ora invece, mamma mia ! Vedi a cosa porta la politica moderata! Facevamo molte situazioni di 'movimento' che erano in contrasto col Pci. Mi ricordo un episodio a Biella: ci chiamò il Pci, e c'era un biglietto. Arrivarono dei giovani extraparlamentari che volevano entrare senza pagare, c'era già la lotta per l'autoriduzione, e noi proponemmo che il costo dei loro biglietti fosse decurtato dal nostro cachet, ma loro non volevano farli entrare, per principio. Allora noi rifiutammo di suonare, facemmo restituire il biglietto a chi aveva pagato e facemmo un concerto di tammurriate all'esterno! Simpatizzavamo molto con lo spontaneismo perché erano dei comportamenti lontani da quelli schematici delle istituzioni. Pensavamo che se esistevano delle contrapposizioni nella sinistra andavano discusse con la dialettica, non con l'emarginazione. Angelo De Falco ci coordinava, ma ci dava anche suggerimenti di esecuzione; per esempio, se cedevamo all'ammiccamento ci correggeva. Lui aveva già fatto parte della Nuova Compagnia di Canto Popolare, poi se n'era andato, e nelle masserie dove cí incontravamo decidemmo di formare questo gruppo. La Nccp aveva uno stile urbano... Si sente la città! Quando fui licenziato dal bar mi sostennero i Zezi; mi stipendiavano mentre cercavo un altro lavoro, era un momento in cui giravamo molto... Facevamo anche teatro, quando non si sviluppava una situazione musicale. Io come attore mi sono formato sulla strada, come attore della Zeza, col teatro politico... Poi abbiamo avuto anche dei momenti di pausa, negli anni '80, e abbiamo anche fatto molte situazioni di beneficenza, di solidarietà: fabbriche occupate, handicappati... In fabbrica, l'Alenia, sono entrato nel 1980, dopo dure lotte. Ho fatto alcuni anni con i Disoccupati Organizzati. All'Alenia facevo le pulizie; ci sono stato fino al 1995. 108 L'Alfasud è stata un macello...Ha cambiato la vita del paese, ma ha portato un sottosviluppo culturale. A volte era una sofferenza: c'era la festa di Castello e tu non ci potevi andare perché dovevi andare a lavorare. A volte cantavo le cilentane in fabbrica, i capi ti guardavano storto, ma agli operai piaceva, dicevano che queste canzoni non si sentivano più... Alcuni operai dicevano: 'è vero che io nella terra lavoravo più ore, ma lavoravo quando volevo io, e poi stavo all'aria aperta, se volevo riposarmi mi riposavo; anche se lavoravo quattordici o quindici ore non c'erano i ritmi che stanno qua dentro...' Gli anni '90 sono stati terribili perché c'è stata una ricaduta: la crisi, le fabbriche...siamo tutti tornati ad incazzarci di nuovo!» MATTEO D'ONOFRIO «Io sono di Pomigliano e la mia famiglia campava alla giornata, con la terra. Già ad otto, dieci anni, uscivo con mio padre alle cinque del mattino, e lo aiutavo a tirare le erbacce delle patate che poi lui zappava. Vivevo in un cortile: venti famiglie con un solo gabinetto al centro del cortile. Ti dovevi responsabilizzare fin da piccolo, perché i genitori uscivano la mattina presto e tutti noi bambini restavamo da soli con qualche vecchio che ci sorvegliava. Scoprivi presto i tuoi nemici perché arrancavi sempre... Mia madre mi prometteva ogni anno la Befana e poi non ci riusciva mai! A dodici anni mi iscrissi ai giovani comunisti a Pomigliano, e mi ricordo che avevo la mentalità che non dovevo parlare con i democristiani perché erano i miei nemici. Oggi mi sembra ridicolo! Ho fatto la quinta elementare e poi, in fabbrica, la terza media con le 150 ore. Il posto fisso prima non esisteva proprio. Era tutto alla giornata, e se perdevi l'occasione perdevi il guadagno. Quando c'era l'occasione di un lavoro non la potevi perdere! C'era il caporalato... C'era un punto di riferimento, la sera tu andavi e loro dicevano: 'Domani servono cinque zappatori, chi è libero'? E tu alzavi la mano. Quando sono entrato all'Alfasud era ancora un periodo buono, perché la fabbrica voleva arrivare a 15000 operai e ce ne mancavano ancora 8000. C'era il collocamento e c'erano i soliti faccendieri di paese: Non ti preoccupare, Matteo, che fra poco vai a lavorare'; io avevo ventisei anni e prima avevo fatto il ferraiolo. Il ferraiolo imposta i pilastri del fabbricato sul disegno dell'architetto: 109 prendevo il ferro gelato da terra al mattino presto e la pelle delle mani si spaccava. Se lavoravi con grosse imprese legate all'In avevi anche il vestiario, ma se lavoravi con i sottoappalti í guanti te li scordavi, anzi se li usavi ti deridevano. Quando io manco in fabbrica subito si sa nel mio reparto. Perché quando io ci sono si canta, si scherza, si racconta qualche barzelletta, ma sempre lavorando...Mai fermarsi, perché sulla catena si lavora in continuazione, finita una macchina ne arriva un'altra, però la giornata passa in maniera più allegra. In fabbrica si lotta per migliorare l'ambiente di lavoro, le saturazioni...Se io monto il cambio, nel cambio va l'olio, e quando ce lo metti gocciola sempre; e questo è olio sintetico, che puzza e alla fine della giornata ti viene il mal di testa. E non ti danno una maschera perché, se te la dessero, ammetterebbero che il posto è nocivo e dovrebbero darti un aumento. L'industria è spietata, loro non guardano in faccia a nessuno. Non si preoccupano della realtà delle persone che prendono in fabbrica, del loro modo di vivere. Non gli interessa se l'operaio sta bene o no; loro dicono che se non ti va bene ti licenzi e te ne vai. Quando si fa una nuova vettura, le persone che stanno vicino alle macchine sono scelte dall'azienda. Le chiamiamo le 'lepri'. L'azienda fa le saturazioni in base alla velocità di queste persone; e dicono che se ce la fanno queste persone ce la devono fare tutti. Sono operai che hanno formato loro a Torino, ognuno nel suo settore, plancia, scocca, vernici', motori; e sono Ilanno riflessi! E noi operai che andiamo sulla nuova vettura andiamo già con le nuove saturazioni! Anche se ho un ruolo nel sociale, dove rivendico delle cose, all'interno dell'Alfasud sono un ottimo operaio. Non è che faccio le rivendicazioni fuori perché non voglio lavorare. Fuori ho una libertà di rivendicazione perché rivendico contro il sistema, non contro le singole persone. Ho cambiato più di dieci capi e non ho mai avuto problemi. Ho sempre fatto gli scioperi perché lo sciopero, secondo me, è un'educazione per l'operaio. L'operaio non dovrebbe mai perdere la voglia di lottare! Negli anni '80, gli scioperi si potevano contare sulla punta delle dita e gli operai avevano perso l'abitudine a fare lo sciopero. Io sono sempre stato iscritto alla Cgil. Se domani esce un concerto a Brescia, mi ci vogliono due giorni non pagati, perché non riesco a rientrare in fabbrica e perdo tutto: la giornata, il premio di produzione, il contributo Inps...E que- 110 sto lo dico perché c'è una passione che mi lega a questo gruppo! Voglio dire una cosa molto importante: c'è gente che quando fa sciopero, torna a casa e litiga con la moglie perché perde i soldi. A volte le mogli non capiscono il problema. Le donne hanno un ruolo molto importante nella vita di un operaio, non dovrebbero soffocare lo spirito battagliero di un operaio. A volte forse non capiscono cosa vuol dire stare in fabbrica, che significa la catena di montaggio, i capi... La festa della Madonna di Castello, a Somma, oggi è quasi dimezzata, ma prima ci andavano veramente migliaia e migliaia di persone...Si mangiava, si beveva...Cadevano i tabù! Qualsiasi ceto sociale si liberava di tutto quello che si portava addosso. Anche se la maggior parte erano operai e contadini, venivano coinvolti anche altri ceti sociali. Poi vanno a mettere le giostre e il cantatore non si sente più! E per questo motivo molta gente non ci va più, perché non è come prima! Il Venerdì Santo, ad Acerra, c'è la processione, e in fabbrica c'è sempre un forte assenteismo, perché molti operai lo sentono come un obbligo. Ma resta il fatto che i piani industriali queste cose qua non le guardano proprio. Anzi, loro cercano di frenare queste situazioni. E poi, quando il popolo si riunisce, o alla festa popolare o alla via crucis, è sempre un momento di discussione. E loro mirano a distruggere tutte queste tradizioni, io ho questa sensazione. Una volta, da giovane, andai in Africa con degli amici. Con l'avvicinarsi della Pasqua, ognuno di noi non aveva più voglia di lavorare e nessuno diceva il motivo. Poi alla fine si capì, perché incominciavamo a dire: 'Adesso c'è la Madonna dell'Arco, poi c'è Castello...Va bè, abbiamo capito, andiamoci a licenziare!'. E così ce ne tornammo a Napoli per queste feste, pagandoci ovviamente noi il viaggio. L'altra sera a un circolo del Vomero hanno proiettato il nostro film 14,zio 'e terra. Alla fine un gruppo di donne mi ha detto: 'è una cosa bellissima, non dovete sfasciarvi mai!'. Noi abbiamo un dovere verso queste persone!» GIOVANNI SGAMMATO «Mi è sempre piaciuto recitare; da bambino volevo fare l'attore cinematografico! Quando avevo dodici, tredici anni la domenica andavo al cinema a vedere i westem in una sala a Pomigliano e ci restavo ore. 111 Fino agli anni '50, non era carnevale se non si facevano i Dodici Mesi e se non si faceva la Zeza. Poi c'è stato un periodo, dal '60 al '74, in cui la Zeza era scomparsa. Anche la festa di Somma era un po' sfumata, ci andava poca gente. Poi c'è stata una riscoperta delle tammurriate, e il merito va anche a Roberto De Simone che ha fatto una lunga ricerca, proprio a Somma Vesuviana. A Pomigliano c'era un certo zì Luigi, che aveva un quaderno con i testi scritti di tutta la tradizione pomiglianese. Questa persona morì negli anni '60 e il quaderno finì ad una sua figlia che viveva a Genova. Quando i Zezi nacquero lo cercammo senza trovarlo. Pomigliano, quando eravamo tutti contadini, la sera era un cimitero: nessuno passava per le strade tranne qualche ubriaco. C'erano si e no tre o quattro palazzetti, e il resto erano case rurali. La gente si chiudeva in casa e si facevano i 'conti', i rosari, neí cortili si dicevano le filastrocche, si radunavano tutti i bambini e qualche vecchio le diceva. Gli scioglilingua, invece, si insegnavano ai bambini per scandire bene le sillabe, per sentire bene i suoni. La `tuffata' era la disapprovazione del popolo verso un matrimonio che faceva scalpore. Nella serenata ci si metteva sotto la finestra degli sposi e si organizzava un concertino, si cantavano canzoni appassionate. La tuffata invece era un casino che si faceva tutte le sere quando ci si annoiava, ma era un gioco. Si faceva con strumenti che fanno rumore, come triccaballacche, putipù e tofe. La tuffata era un avvenimento, uno spasso, ed anche le vittime si divertivano! Di tutti i personaggi che rappresento mi costruisco il costume e mi invento il testo, a seconda dell'occasione. Anche i personaggi tradizionali come il Pazzariello o l'Incensiere inventavano i loro testi. Per esempio l'incensiere entrava in una casa: "comme se chiamma 'a signora? Giuseppina? Chi vò male a Giuseppina ha da muri 'e Pellerini, chi vò male a chesta casa ha da muri primma ca trase, uocchie, maluocchie, funicelle all'uocchie. Schiatta 'a `rnmida, e crepano 'e maluocchie. Aglio e fravaglio, fattura ca nu"nguaglio, signò dateme 'e sorde, grazie!". L'ultimo Pazzariello stava a Napoli e chiedeva l'elemosina. Se andavi in giro verso la galleria lo trovavi li, perché non ce la faceva più; il Pazzariello si deve muovere, deve ballare, e lui era troppo vecchio. Ha fatto quello tutta la vita e non aveva neanche una pensione, so che è morto poco prima del Natale di quest'anno. 'O zuoppo, un altro personaggio che recito, è il classico contadino ignorante. In origine serviva solo per raccogliere quello che veniva offerto dopo la Zeza. Una parte di questo pezzo me la raccontò mio nonno, un'altra parte l'ho imparata 112 da un vecchio di Castelcisterna, un altro pezzettino da un altro vecchio in una masseria, e un altro da Z Luigi: tutti morti! I Zezi negli anni '50 erano attori improvvisati, finito il carnevale ognuno tornava al suo mestiere. L'ultima Zeza s'era fatta a Pomigliano nel '42. Nel '56 la riprendemmo e così anche nel '57. I Zezi si chiamavano così perché facevano la Canzone di Zeza. Quando sfilavamo per le strade dicevano: 'stanno passando E Zezi!'. Quando passavano quelli che facevano i mesi dicevano: `stanno passando i mesi!' Ci invitavano a cantare nei cortili e ci offrivano dei regali, della roba da mangiare, salame, uova, vino. Sempre nel '56, una bigotta ci vide per la strada e disse che noi offendevamo la chiesa perché c'era il personaggio dell'abate Sarchiapone. Fummo portati in caserma e rappresentammo la Canzone di Zeza davanti al maresciallo che capì che non c'era niente di male e ci lasciò andare. L'abate Sarchiapone lo abbiamo inventato noi nel '56. È un personaggio che nella Zeza tradizionale viene nominato due o tre volte e allora si pensò, per abbellire la Zeza, di inserire questo personaggio, e così scrivemmo il testo. A venti anni ero operaio edile provetto, facevo dalla verniciatura delle porte ai parati, alle tele. Per entrare all'Alfa ho fatto domanda e poi una 'prova d'arte'; da operaio specializzato sono stato assunto come manovale specializzato e per arrivare di nuovo ad operaio specializzato ci ho messo 25 anni! Perché per conquistare la qualifica dovevi fare un tirocinio. Non ci facevano usare mezzi di protezione, il mio lavoro, che consisteva nel togliere le imperfezioni dalla verniciatura alle scocche, era così delicato che non potevo usare i guanti. Allora il diluente e la vernice danneggiavano le mani e così presi la malattia professionale. Il lavoro che ha fatto il Gruppo Operaio per 25 anni, quale gruppo in Italia l'ha fatto? E se c'è un merito questo va al De Falco. E una vita che fa questo. E ci sono stati anche momenti di crisi! Quando sono entrato nei Zezi, nell'82, non c'era quasi più nessuno, c'erano tre o quattro persone. Quando si facevano i picchetti davanti alle fabbriche, le manifestazioni, gli scioperi, i Zezi c'erano sempre, e spesso con canzoni o rappresentazioni. Nella Zeza del Gruppo Operaio ho fatto prima il Don Nicola e poi il Pulcinella. La Zeza rappresenta le quattro stagioni: Vincenza la primavera, Don Nicola l'estate, Zeza l'autunno e Pulcinella l'inverno. Pulcinella rappresenta la morte. Oggi stanno cercando di ripristinare i Mesi, ma è difficile trovare i cavalli. All'epoca non c'erano macchi113 ne e rumori, i cavalli si potevano usare; adesso sí spaventano e non possono cavalcare perché le strade sono tutte lisce. Solo marzo e dicembre avevano il ciuccio, gli altri avevano il cavallo. È dal '49 o '50 che i Mesi non si vedono più, tranne qualche volta che li abbiamo fatti con il Gruppo Operaio, ma senza cavalli. La statua della Madonna di Castello fu trovata in uno stato pietoso, tutta distrutta. Il prete la diede a un restauratore di Genova per farla aggiustare. Quest'uomo aveva una figlia paralitica. Dopo quattro anni di lavoro restituì la Madonna e si dice che quando la statua arrivò a Somma, sulla montagna, la figlia guarì; tutto il tragitto dal paese fino alla montagna fu fatto di notte e le lucciole illuminarono tutto il percorso che la Madonna doveva fare per il santuario. Ed ecco che la festa delle Lucerne si fa ogni quattro anni perché quattro anni durò il restauro della Madonna e il sabato dei fuochi si festeggia perché di sabato arrivò la statua accompagnata dalle lucciole, secoli fa', nel '300 o '400...» TONINO ESPOSITO STOC) «Mi chiamano 'o stoc perché la mia famiglia ha sempre venduto lo stoccafisso; anch'io l'ho fatto. Poi ho lavorato all'Alfa ma me ne sono andato e ho fatto il carpentiere. Mi sono licenziato dall'Alfa perché a me non è mai piaciuto stare nello stabilimento: è contro il mio carattere. Io voglio stare libero, all'aria aperta. Se non ci sei portato, alla fabbrica non ti puoi abituare. Là vai contro i cicli della natura; si fanno i turni mentre io ero abituato a svegliarmi a una certa ora, a dormire in certe ore, e non mi sono mai abituato. Tu quando fatichi fuori, una giornata di sole te la godi, te la senti...Lì sei un numero e basta. In fabbrica riuscii anche a seminare un pezzo di terra, perché stavo in una posizione distante dai reparti: ci coltivavo pomodori, piccole cose...Nonostante questo non mi sono abituato! Nelle comunità rurali eravamo molto affiatati, ci aiutavamo l'un l'altro. C'era uno scambio di manodopera, c'era il baratto. La vendita era all'esterno, e i soldi giravano fuori della comunità. Io oggi sto cercando di fare un'azienda agricola dove lavoreremo con sistemi tradizionali, non per tornare indietro, questo non è possibile, ma per salvare la cultura popolare, per far vedere come si facevano le cose e come il canto, i balli vengono insieme alla vita del contadino... Per comprarmi la terra per fare questa cosa ho vendu114 to una casa...Perché ci credo! Se le prossime generazioni perdono questa cultura, perdono tutto! Per far vedere come si faceva il burro anticamente, come si faceva il pane, come si tesseva...Perché oggi tutti vogliono le cose firmate. Le società moderne pubblicizzano talmente un prodotto che se uno non se lo mette viene discriminato dalla società! Nella tradizione popolare non esiste la 'canzone': esiste il 'modo di cantare'. Ci sono due o tre modi di cantare e basta; in questi due o tre modi puoi dire tutto quello che vuoi. C'è la fronna 'e limone, poi c'è la voce 'alla potatora', poi c'è il canto 'a figliola, poi c'è la voce 'alla carrettiera': sono canti a distanza...E poi c'è la tammurriata, che è più semplice. Il 'cantatore' esprime una sua cosa dentro, e se non nasci in questa cultura non la puoi imparare. De Simone diceva che la Nuova Compagnia non poteva cantare come i contadini. Diceva che le voci non possono essere copiate al 100% da chi non è cantatore popolare e cambiava tutto lo schema... Quelli sono musicisti! Questo modo di cantare lo deve fare il cantatore popolare e lo deve fare nel posto e nel momento adatto! Non si può cantare sul palco...Si può pure fare, ma deve nascere la situazione, se faccio una sfida a `fronna 'e limone' deve nascere la competizione! Per certi periodi io me ne sono andato dai Zezi perché volevano fare un gruppo musicale raffinato. Cominciavano a dire 'vai a tempo, non vai a tempo...', ma non ho capito, ma come facciamo a andare a tempo? Qua si cantava così, allora io mò devo andare alla scuola dí musica per come stanno le cose?» SEBASTIANO CICCARELLI (`MICIARIELL0') «Ho fatto il barista ed il manovale. Ho preso la quinta elementare serale e poi la terza media in fabbrica. Sono entrato a diciannove anni nell'Alfasud dopo anni con il comitato dei Disoccupati Organizzati che esisteva a Pomigliano nel '76. Occupammo il comune e facemmo i picchetti per non far fare lo straordinario agli operai. Poi, con il comitato dei disoccupati, e l'aiuto del sindacato, sono riuscito a entrare. Ho lavorato un po' in vari reparti. All'inizio non mi trovavo bene perché, è vero che prendevi uno stipendio, ma io ero abituato a stare fuori, e i ritmi di lavoro erano tremendi. Ho pensato due o tre volte di andarmene. Per fortuna avevo dei buoni compagni che mi dicevano: 'vedrai che ti passa, ci siamo passati tutti, ma poi ti passa'. 115 A Castiello andavamo a piedi, sia all'andata che al ritorno, e lì ho imparato a suonare la tammorra. Nell"83 sono entrato nei Zezi e ci sono rimasto. Dall"83 al '90, però, si faceva quasi solo teatro, non si suonava tanto. Quando ero ragazzo mi ricordo i Pink Floyd, i Deep Purple, ma non ci capivo niente, li sentivo perché erano di moda, per 'spararmi le pose', perché lavoravo a Napoli, ma la tradizione io la capivo e mi piaceva di più. Qualcuno diceva: 'ancora a fare 'sta tammurriata?' Io sono molto legato a Pomigliano. Quando parto con i Zezi la notte non dormo perché devo partire, però appena ci siamo allontanati di cinquanta chilometri comincio a pensare: 'quando torniamo?' Non so perché. Non si vive bene, però io preferisco vivere a Pomigliano, perché mi sono creato una famiglia.» SALVATORE IASEVOLI «Vengo da Mariglianella, eravamo una famiglia molto numerosa e ci trasferimmo a Pomigliano perché mio padre prese il posto all'Alfasud. Mio padre si è licenziato dallo stabilimento perché non ce la faceva più a lavorare. Ha avuto un esurimento nervoso. Lì dentro non stai più a tuo agio. Io ho avuto la possibilità di entrare all'Alfasud ma non mi piace quella vita, ho preferito fare altri lavori. Quando sono arrivati i cinquecento licenziamenti abbiamo fatto le nottate là fuori, con Marcello, davanti ai cancelli ci facevamo il bicchiere di vino, la tammurriata... I Zezi erano un 'popolo', sono stati la mia scuola: ci vedevamo alla `casarella' e discutevamo dei problemi della vita, delle persone, dei cortili, del lavoro e della disoccupazione. E io ascoltavo Matteo, che oggi ha vent'anni di Alfasud, e la sera, lui, dopo una giornata di lavoro, ci veniva a raccontare quello che succedeva in fabbrica, e io ascoltavo e vivevo quei problemi! L'esperienza dei Zezi l'abbiamo fatta con tutto il 'Bronx', perché lì a Pomigliano è nato il quartiere 'Sulmona' che noi chiamiamo il Bronx. Lì eravamo già tutti amici perché venivamo tutti dal vicolo, il vicolo di Falco, il vicolo delle Rose...Siamo finiti li perché c'è stato il terremoto. Succedeva, s'è fatto sempre, che noi ci 'difendevamo' il nostro territorio; e facevamo le guerre! Era un gioco, un divertimento. Pigliavamo le mattonelle spaccate e facevamo la `petriata'. I ragazzi 116 andavano a casa con la testa spaccata, chi aveva tre punti, chi cinque...Una battaglia durava tre ore, si facevano i prigionieri...Poi magari ci davamo appuntamento e commentavamo i risultati della battaglia. Era un gioco di violenza perché la violenza la subivi, nel quartiere popolare la violenza è sempre esistita! Coi Zezi non c'era l'obiettivo di diventare famosi. Eravamo un gruppo di persone che cresceva insieme con le proprie esperienze, per dirci delle cose e creare delle situazioni di teatro, per coinvolgere le persone...I ragazzi del quartiere hanno fatto il carnevale, si vestivano da 'mestieri', li raccontavano... Oggi purtroppo le province sono rimaste chiuse. Per esempio io a volte vado a Mariglianella, dove sono nato, a Cisterna... Erano piccoli paesi che sono cresciuti, ma che hanno avuto questi paesi? I giovani che fanno? Cioè, dopo la partita di carte al bar e una chiacchierata sul 'pallone', ci ricordiamo quando ci spaccavamo la testa da piccoli...Non è arrivato niente; noi siamo stati fortunati perché abbiamo avuto i Zezi. A Pomigliano quando è arrivata 1'Alfasud il contadino è 'zompato' in aria...La raccolta dei dischi delle 'sette madonne', oppure un libro di De Simone, fossero mai arrivati nella scuola che facevo io...No! Sono arrivati all'Università!» PASQUALE TERRACCIANO CO PISSETTO) «Il mio soprannome lo aveva già mio padre: lui da piccolo abitava in un cortile dove c'era un calzolaio e andava a giocare carponi con la spazzola, che a Napoli si chiama `scupetta', di questo ciabattino. Poiché non riusciva a pronunciare questa parola, diceva `pittetta' e da questo venne fuori `pissetto'. Lo hanno poi sempre chiamato così, e lo stesso nomignolo me lo sono trovato addosso io e oggi i miei figli. All'inizio suonavo la batterla ai matrimoni o alla festa dei Gigli di Nola per sbarcare il lunario, con Pasquale Bernile. Poi con Tonino Esposito e altri amici affittammo un locale, la cosiddetta `casarella', dove ci incontravamo; Tonino era la memoria orale della cultura popolare della nostra zona e aveva interessato anche Roberto De Simone e Diego Carpitella. Decidemmo così di lavorare su questo terreno e di intervenire nel dibattito politico del momento. Sapemmo che a Pomigliano fino al '56 si faceva la 'Canzone di Zeza' e cercammo di farla rivivere. I costumi e la scenografia furono preparati da Angelo De Falco che aveva lavorato al teatro Esse e 117 aveva interrotto da poco la sua collaborazione con la Nuova Compagnia di Canto Popolare. A Carnevale, dopo mesi di prove, la rappresentammo. Di noi si accorse Giulio Baffi, che fece delle recensioni sull'Unità. Cominciammo poi a lavorare sulle vecchie canzoni popolari, aiutati anche da Nino Leone, da Giovanni Cantone e dalle loro mamme, che ci cantavano questi canti tradizionali; armati di registratore andavamo dalle persone anziane a cercare altro materiale, organizzavamo il Carnevale, cucinando anche polpette e lasagne per far rivivere le condizioni del vecchio Carnevale... Ci rendemmo però conto che bisognava anche puntare in avanti perché preservare soltanto le nostre radici non bastava più. Cominciavano intanto ad arrivare operai, disoccupati, studenti. Nacquero così la `Tammurriata dell'Alfasud', sullo scandalo delle settecentomila lire che qualcuno pagò per entrarci, e la Tammurriata delle elezioni', in occasione del voto ai diciottenni. Poi la `Flobert', con Scíascià. Pochi di noi avevano avuto esperienze musicali. Allora con dei pezzi di latta, con dei secchi ed altre cose Miziarruno a imitare i rumori della fabbrica: per esempio, il rumore delle presse venne fatto su dei secchi di latta percossi da bacchette con dei feltri, poi ce n'era un altro fatto con una lamiera che facevamo vibrare. Matteo mimava il suo lavoro in fabbrica e Marcello, che allora era giovanissimo, era la `Zeta'. Incontravamo poi molti musicisti, Otello Profazio, Maria Carta, Carlo Siliotto del Canzoniere del Lazio. Al Carnevale del '75 arrivarono gli Aktuala da Milano, Concetta Barra, Pino Daniele. Pino Daniele, allora supporter di Napoli Centrale, voleva a tutti i costi la 'Flobert' per cantarla, ma noi non volemmo dargliela. Otello Profazio ci propose di presentarci alla Emi, che allora aveva una collana 'folk'. Noi rifiutammo, e con i compagni del Canzoniere Italiano, per l'etichetta dei 'Dischi del sole', preparammo il primo Lp, facendoci noi carico delle registrazioni e del missaggio. Cominciammo anche a suonare all'estero, in Francia per esempio. Poi organizzammo il primo 'Giugno Vesuviano': conoscemmo il Teatrogruppo di Salerno, e qualche volta si univa a noi Giovanni Coffarelli, un noto cantore popolare di Somma Vesuviana. Poi incontrammo Gigi Bartoccioni, che produceva un gruppo di pastori di Nocera Umbra. Gigi lavorava a Rai 2, ed insieme a lui e a Bruno Modugno facemmo un intervento televisivo. Quello che però creava opinione era la tammurriata rivista con nuovi contenuti. Cioè, rispettavamo l'endecasillabo, la metrica e quant'altro, ma i versi 118 non erano solamente quelli della tradizione. Poi facemmo i festival de l'Unità, la Biennale di Venezia, il Folkstudio di Cesaroni a Roma, ecc. Girammo poi un film sulla 'Canzone di Zeza' con Salvatore Piscicelli e avemmo dei consigli da Pasquale Scialò, un musicologo che ci aiutava soprattutto dal punto di vista armonico, perché il tamburo ce l'avevamo dentro... Quando io partii militare mi sostituì Raffaele Del Prete e un altro contributo lo diede Daniele Sepe. Tornato a Pomigliano sono rientrato nel Gruppo e sono stato fino all'85. Poi sono uscito di nuovo e sono rientrato nel '90, fino al '92. Negli anni '80 c'era Felice Antignani, c'era Patrizio Esposito. Negli anni '80, con il calo di interesse per la canzone politica, ritenemmo opportuno ridimensionarci e lavorare soprattutto nell'hinterland. Forse però noi non abbiamo visto i nostri limiti; forse negli anni '70 dovevamo professionalizzarci: invece abbiamo vissuto questa cosa soltanto come un'ondata e basta. Negli anni '80 abbiamo lavorato poco, a noi si avvicinò anche Enzo Gragnaniello ma poi facemmo soprattutto teatro, spettacoli come "Mo' vene Natale", "Tutto pe' niente" e altri. Studiammo anche la sceneggiata, í dialoghi, i personaggi: ci è sicuramente servito, ma ci dedicammo per lo più al teatro di strada. In strada facevamo sempre il Pazzariello, e se non c'era il Pazzariello c'era Pulcinella. Io ero il Pazzariello; avevo conosciuto Armando Sciallo, che sul disco della Nccp "li Sarracini adorano lu sole" faceva la maschera della 'vecchia 'o carnevale', e lui mi diede alcuni consigli. A Potenza, nell'estate del '76, capeggiammo una manifestazione per l'occupazione delle case: con tamburo e grancassa cercavamo di mantenere buona la polizia mentre alcuni compagni occupavano le case. A Milano, a Quarto Oggiaro ci fu una manifestazione contro il governo Moro e usammo dei pupazzi che ballavano intorno a una cinquecento. C'è poi una famosa foto della Biennale di Venezia, dove Marcello fa ballare un ragazzo handicappato. Come gruppo teatrale facevamo soprattutto satira. Nel frattempo mi ero sposato e ho incominciato a lavorare come responsabile in un centro di calcolo presso un'azienda di Pomigliano. Uscito dai Zezi, con Giovanni Sgammato e Franco Romano demmo vita al gruppo `Rarecanova'. Ho fatto poi l'attore nei film di Piscicelli. Dal '95, con mia moglie e i miei figli abbiamo formato il gruppo 'Napoli extracomunitaria', che cerca di mantenere la tradizione arcaica con il Pazzariello, la narratrice dei racconti popolari ecc. Cerchiamo di mantenere viva la tradizione delle famiglie che fanno spettacoli di cultura popolare; pare che in Italia ce ne 119 siano solo quattro. Lavoriamo con l'Università di Urbino, con la Cgil, con la Lega della cultura di Piadena ed altre strutture. Con i Zezi la rottura fu in primis con la Nuova Compagnia di Canto popolare, ed era una rottura politica: loro facevano la piccola borghesia, noi facevamo le piazze e le manifestazioni politiche. Quando ci fu la 'Gatta Cenerentola' al San Ferdinando alcuni di noi andarono a sfondare perché il biglietto era troppo alto, ci furono degli arresti». VITTORIO D'AMBROSIO . «Sono nato a Taranto e lì ho vissuto fino all'età di quindici anni. Mio padre era operaio, lavorava all'arsenale, mia madre era una raccoglitrice. Vivevamo a Cas tellaneta, il paes e di R odolf o Valentino...Un paese di ricchi proprietari che spesso vivevano in città e delle terre raccoglievano solo i frutti. Bocciato al secondo anno di avviamento industriale, la mia famiglia mi mandò a lavorare. Ho lavorato in una cava di tufo a tredici anni. Era un lavoro durissimo, descriverlo non rende l'idea: mi alzavo alle cinque e mezzo per lavorare dodici ore, all'aperto, col freddo, con delle macchine pericolose che tagliavano i blocchi di tufo. Parecchi ci hanno rimesso le dita, erano macchine che si muovevano su dei binari e bisognava spingerle in avanti. Poi c'erano delle persone, l'ho fatto anch'io, si faceva a turno, che alzavano questi blocchi e li caricavano su dei camion per portarli nei cantieri edili per costruire le case. Un'esperienza del genere mi ha veramente dato la spinta a cercare un altro lavoro per migliorare la mia condizione. Due anni dopo, come tanti meridionali dell'epoca, sono emigrato con la mia valigia di cartone e sono andato a Torino a lavorare prima in un'officina dell'indotto Fiat, dove si producevano i profilati di carrozzeria che servivano per le auto, e successivamente alla Fiat. Lì, mentre lavoravo, ripresi a studiare andando alla scuola serale. Tornavi a casa alle undici e un quarto e spesso dovevi anche preparare i compiti per il giorno dopo. Anche quello non è stato certamente un periodo facile della mia vita! Avendo cominciato purtroppo così presto, sono andato in pensione a cinquantuno anni poiché avevo maturato trentacinque anni e sei mesi di anzianità. Nel '72, poiché il mio desiderio era quello di tornare quanto più a sud possibile, mi si presentò l'occasione di lavorare all'Alli che stava appena nascendo. Cercavano personale qualificato e 120 dopo un colloquio fui assunto, licenziandomi dalla Fiat. Ho fatto tutto l'iter dell'operaio che aspira a diventare impiegato: ho lavorato alla catena di montaggio, poi attraverso dei corsi interni alla Fiat, da operaio generico diventai operaio qualificato e poi specializzato. Ho fatto il tracciatore al collaudo, dove si fa un lavoro di controllo: bisogna conoscere il disegno tecnico e, attraverso il disegno, controllare i particolari di carrozzeria. Fui poi assunto come operaio intermedio, una qualifica tra l'operaio specializzato e l'impiegato che adesso, con la nuova normativa che subentrò a metà anni '70 e che ha riparametrato i livelli intesi come ex categorie, non esiste più. Prima c'era una netta distinzione in categorie: operai e impiegati, ora invece c'è una struttura a livelli, non ci sono più le categorie. Infine sono diventato impiegato dove in parte fai anche del lavoro cartaceo; nel mio caso specifico io facevo il 'metodo' del montaggio. Praticamente mi occupavo dalla verifica del processo produttivo del montaggio della vettura per scoprirne eventuali anomalie di progetto e di processo, stabilire cioè se, durante il cammino della catena, in una determinata stazione quell'operazione di montaggio che si effettua è idonea oppure bisogna modificarla. Io ero uno dei pochi impiegati che faceva sciopero: alla Fiat non è concepibile che un impiegato possa fare sciopero. C'era una forma di ricatto molto strisciante ed ero additato con 'dieci puntini neri', come si dice in gergo aziendale ! Come ho incontrato i Zezi... Anzitutto a me è sempre piaciuto il teatro; a undici anni avevo cominciato a suonare il clarinetto e suonavo nella banda del paese. Io amo molto Carmelo Bene, lo considero un rivoluzionario della forma teatrale. Mi ricordo quando vidi `Nostra signora dei turchi', uno spettacolo che mi ha molto spinto a fare teatro. E poi Dario Fo, Eduardo, De Simone... Con i Zezi ho cominciato anche a scrivere dei testi per gli spettacoli che rappresentavamo. Mi ricordo per esempio lo spettacolo sulla cassa integrazione `Cig: Italian schifezze' e `I\Izalata non stop: Miting Clientelescion'. Io ero anche attore; eravamo presenti in tutte le iniziative...Mi dispiace molto che questa attività dei Zezi sia stata interrotta. Probabilmente Angelo non vedeva uno sbocco possibile per il teatro mentre forse l'aspetto musicale poteva dare più opportunità. A me piaceva intrecciare alla musica la parte teatrale. Credo che il teatro sia uno straordinario mezzo di comunicazione: noi eravamo un megafono e allo stesso tempo eravamo ironici e popolari. Per 'popolare' intendo una comunicazione che usa un linguaggio comune, accessibile a tutti, ma non per questo banale o volgare. Un 121 linguaggio immediato, preciso, satirico. Noi abbiamo fatto delle cose molto interessanti... Quello che fa il presentatore nel film di Fellini Ginger e Fred, noi l'avevamo anticipato già di qualche anno! Facevamo delle parodie e della satira di cui credo cí sia ancora bisogno. Il mio grande rimpianto è di non aver sviluppato quel tipo di teatro. Spesso negli spettacoli io facevo l'industriale, il padrone. In alcuni sketch ho fatto delle parti in cui non c'era bisogno di avere un accento napoletano...A noi premeva molto avere un rapporto con la realtà di fabbrica, e mi ricordo un bellissimo spettacolo che facemmo nella mensa dell'Italsider, a Bagnoli. Ho fatto anche un po' di vita di partito, sono stato tesserato della Fiom ma non mi piaceva, non amavo il linguaggio dei politici. Mi sembrava molto più utile esprimere il mio disagio attraverso il teatro. Non volevamo fare i missionari, ma ci credevamo e ci divertivamo. Una volta fummo chiamati a Siano, dove una compagnia francese, la Bender & Martiny, voleva impiantare uno stabilimento che produceva apparecchiature per impianti di frenatura, utilizzando quindi l'amianto, in un territorio dove c'era una straordinaria produzione di ciliegie esportate anche in Europa. La fabbrica avrebbe causato l'abbattimento di molti alberi e i danni per l'ambiente sarebbero stati notevoli. Nel giro di poco tempo scrivemmo un testo per l'occasione, ed eravamo ancora in tempi in cui non si parlava così tanto di ambientalismo. Con la presenza di Rai 2, un giorno del marzo 1980, di buon mattino, andammo in questo paese dove facemmo uno spettacolo per strada che coinvolse tutti gli abitanti! Parodiavamo i politici locali, i personaggi coinvolti nei fatti e dei quali ci eravamo informati; e tutti erano sorpresi di come fossimo riusciti a cogliere tanti aspetti di questa vicenda. Prendevamo spunto da questioni locali e su melodie conosciute elaboravamo dei testi satirici; ad esempio, cantavamo: «acqua azzurra, acqua chiara, 'e mettimmo e lampadine int'e funtane...», ironizzando sulle spese inutili che il Comune faceva. E questo tipo di comunicazione era molto efficace! Alla fine della giornata molti contadini che sostenevano la politica della Democrazia Cristiana avevano cambiato idea! E l'unica voce dissidente fu quella di un dirigente locale del Partito Comunista che ci tacciava di terrorismo psicologico e ci rinfacciava di impedire l'installazione di un impianto che avrebbe dato qualche decina di posti di lavoro. Come se questi posti di lavoro potessero essere la risoluzione dei problemi locali. Questo intervento fece da detonatore e creò un movimento d'opinione che alla fine impedì l'installazione della fabbrica. Eravamo presenti in tutte le manife122 stazioni, nelle marce pacifiste...Mi ricordo, all'epoca di Reagan, facemmo una struttura in legno con dei finti microfoni fatti con dei tubi elettrici neri; io facevo il presidente degli Stati Uniti che arrivava in aereo, con un piccolo aereo di legno che avevamo costruito, e i giornalisti mi intervistavano come se fossi stato un vero presidente! Davanti all'ambasciata americana facemmo una finta conferenza stampa davanti a decine di giornalisti e il giornale Lotta Continua ci dedicò un'intera pagina con la mia fotografia. A volte davvero non c'erano mille lire per comprare i chiodi per mettere due legni insieme, però abbiamo fatto delle cose molto belle! Politicamente non credo che ci siano le condizioni per un cambiamento radicale. Mi posso definire un riformista anche se a volte ho preso delle posizioni estremistiche. Credo che sia meglio acquisire dei risultati, lottare per obiettivi visibili. Ultimamente ho svolto dei lavori di consulenza per la Fiat in Argentina. Sono stato lì otto mesi, mi hanno proposto di restarci, ben pagato, per tre anni ma ho rifiutato. Preferisco stare qui, mi piacerebbe riprendere a fare teatro, fare queste cose con le scuole, con i ragazzi di oggi...adesso si parla di riorganizzare il carnevale... Senza ipocrisia: i soldi servono ma si vive anche d'altro...» CIRO LIGUORO (Ciro è l'unico superstite dello scoppio della Plobert'. La sua testimonianza, ricca di particolari e di inedite rivelazioni, è particolarmente toccante ed esemplifica molto bene alcune tematiche sviluppate nel libro.) «Nell'aprile 1975 ero disoccupato. Tramite il collocamento, insieme ad altri amici, trovai lavoro come operaio in questa fabbrica di giocattoli che si diceva in espansione. Avevo ventiquattro anni. Fummo assunti di lunedì ed eravamo tutti contenti, facevamo già i nostri progetti. Ora che avevamo trovato un lavoro si fantasticava, c'era chi pensava di sposarsi. Ci dissero però che per qualche giorno avremmo dovuto fare un lavoro urgente per un'ordinazione, facendoci intendere che solo se avessimo accettato ci avrebbero assunti. Capimmo subito che era un lavoro pericoloso: si trattava di incapsulare la polvere da sparo all'interno di proiettili di plastica che poi venivano lanciati dalla 123 famosa pistola `Flobere. Il capannone dove avremmo dovuto lavorare era adiacente ad altri capannoni dove c'erano altri operai, ma non aveva uscite di sicurezza; c'erano due finestrini sbarrati e polvere dappertutto. Le munizioni prodotte venivano poi ammassate alle spalle del laboratorio. Gli altri reparti non erano così, erano sicuri, funzionali. Noi protestammo ma ci fecero capire che avremmo perso il posto se ci fossimo rifiutati. Fummo incoraggiati anche da persone che avevano già fatto questo lavoro e così la nostra protesta svanì nel nulla; ci guardammo in faccia, pensammo che rischiando per qualche giorno avremmo poi trovato il posto fisso e risolto i problemi della vita, se così si può dire, e così alla fine accettammo. Dovevamo fare trentamila proiettili. Quella, seppi in seguito, era una lavorazione che facevano 'in nero', destinata, pare, al mercato estero che nulla aveva a che fare con le pistole giocattolo che loro fabbricavano e che comunque avrebbero sicuramente dovuto avere dei proiettili con una minore quantità di polvere all'interno. In realtà la fabbrica apparteneva a persone che avevano sempre lavorato la polvere da sparo, anche per i fuochi d'artificio, e in un secondo momento la produzione era stata allargata e avevano iniziato la lavorazione di questa pistola giocattolo `Flobere, con dei proiettili a piumino con cui molta gente si è fatta male, tra le altre cose. Dovevamo dunque fare trentamila proiettili in questa stanza molto stretta con un tavolo al centro; noi eravamo in dodici e quattro erano attorno a questo tavolo. In cinque giorni avevamo confezionato tira venticinquemila proiettili e quando pressavamo la polvere nelle capsule sentivamo una frizione, un attrito. Proprio in una di queste operazioni, in un attimo, uno stridio, una fiammata e il primo scoppio. Ricordo che misi la mano davanti alla faccia e mi protessi gli occhi. La prima botta fu più piccola della seconda. La prima fece cadere tutto il materiale su di noi. Io ho avuto la fortuna di essere sbalzato sopra tutti, una massa di detriti, polvere, carne umana. C'era un amico sotto di me che si lamentava e mi diceva di non muovermi, chiamava la moglie, i figli. Il secondo scoppio è stato molto più forte perché è avvenuto nel deposito e ha fatto crollare anche il tetto dell'altra parte della fabbrica. Credo che la maggior parte di noi sia morta all'istante, bruciati dalla prima fiammata. Non a caso alcuni operai sono stati trovati carbonizzati con le mani aggrappate a delle grate di ferro. Io ero coperto di polvere e mi usciva il sangue dalla bocca che aumentava sempre di più. A quel punto è avvenuta una cosa che finora mi sono tenuto dentro e che per ventitre anni hanno saputo solo mia moglie e il mio confessore. 124 Ho deciso di dirla per un fatto di rispetto nei confronti degli altri anche se non mi è pesato tenermela dentro finora, devo dire la verità. Io sono da sempre devoto della Madonna dell'Arco, faccio il `battente' ma vivo la mia fede in maniera molto interiore e non mi piacciono tanto quelle scene che si vedono al santuario, anche se devo dire che è difficile trattenere l'emozione quando nel giorno della festa si entra in chiesa; lì come minimo scoppi a piangere. Dopo il secondo scoppio, quando ormai credevo di morire, ho avuto una visione della Madonna dell'Arco, proprio del quadro che sta nel santuario di S. Anastasia. Quest'immagine silenziosa che è durata alcuni secondi mi ha dato la forza di sollevarmi dal cumulo di macerie e mi ha 'indicato' la strada della salvezza. Sono riuscito a divincolarmi e sono uscito sanguinante dal mucchio dei cadaveri. Poi sono svenuto e mi sono risvegliato in ospedale. Possono anche non crederci, la cosa non mi riguarda. Questa è la verità ed è una verità che dico pubblicamente per la prima volta dopo ventitre anni, anche se qualche mezza ammissione a qualche amico in verità l'avevo fatta. Già prima di questi fatti venivo chiamato il < miracolato'. Da piccolo avevo preso la difterite, che all'epoca era di solito una malattia mortale, ed ero guarito. Oggi lavoro in una ex Upa della Fiat dove si fanno i cablaggi venduta a terzi. Nelle Upa venivano collocati tutti i lavoratori che l'azienda non aveva interesse a mantenere: cassintegrati, operai troppo sindacalizzati e soprattutto molti malati. Le Upa sono decentrate e ci sono dei lavoratori, zoppi ad esempio, che hanno molte difficoltà ad arrivarci. Ti mettono insomma in condizioni tali che sei spinto a licenziarti. Così le società che rilevano queste piccole fabbriche possono facilmente dimostrare che c'è assenteismo, che la produttività è bassissima, che si è in perdita... E tutte queste cose permettono di ottenere lo stato di crisi e di conseguenza la ristrutturazione, la cassa integrazione, la mobilità lunga... Tanti lavoratori se ne andranno dall'azienda e rimarranno solo quelli che possono lavorare a un certo livello. Così cambieranno nome, cambieranno zona, faranno delle nuove assunzioni e tutto sarà risolto per loro. Non trovo nessuna contraddizione nell'essere un sindacalista e allo stesso tempo un devoto della Madonna dell'Arco. Io ho sempre visto i comunisti come quelli che devono salvaguardare gli interessi dei più deboli. La Madonna fa la stessa cosa, l'aggrapparsi alla fede ha la stessa funzione e queste due cose non le ho mai messe in 125 =m A dm la verità, poi, al Partito Comunista di S. Anastasia gli atei si contavano sulla punta delle dita. Io non li ho mai conosciuti tutti 'sti atei nel Partito Comunista!» ANTONIO FRAIOLI «Sono nato nel 1967. Come musicista la mia formazione è di tipo classico. Ho studiato violino al conservatorio di S. Pietro a Maiella e per anni conoscevo solo indirettamente la musica leggera e la musica rock perché non me ne interessavo proprio. Conoscevo un po' Phil Collins, i Dire Straits, ma la scoperta di una strada nuova è avvenuta verso i quindici anni suonando la batteria con un amico chitarrista. Era la prima volta che riuscivo a canalizzare il mio istinto ritmico. Suonando la batteria cominciai quindi a scoprire il rock, il jazz rock, fino al punto che la bilancia cominciò a pendere più su questo versante che su quello classico. Poi, dopo il diploma cominciai a suonare con Rua Port'Alba, un gruppo che suonava musica popolare. Io non avevo mai avuto un'esperienza del genere. Cominciammo a suonare e dopo un paio di mesi ío ed altri musicisti di Rua Port'Alba fummo chiamati dai Zezi che stavano riformando il gruppo musicale; era il 1991. Io i Zezi li avevo visti la prima volta al Teatro Tenda quando ci fu l'ultimatum per la guerra del golfo, e mi ricordo che erano arrivati questi, tutti 'chiarii' mi ricordo, che fecero questa cosa con 'sti tamburi che io quasi non capii... La prima impressione che ebbi fu disastrosa. Mi ricordo una grande stanza fumosa con cinque o sei persone sedute in cerchio che suonavano degli strumenti musicali in modo molto rudimentale. Tutti parlavano a voce altissima: 'allora come fa questa canzone? Do, fa, do, fa...' non si sentiva niente, e queste erano le prove...Poi non c'era nessun orizzonte professionale, non c'era neanche la prospettiva di poter rientrare nelle spese...Dopo un mese me ne andai, mi sembravano dei pazzi! Poi ritornai, e dopo la prima freddezza cominciai a suonare con loro. Contemporaneamente lavoravo in teatro, al Sannazzaro a Napoli, anche a Roma, facendo anche l'attore...Ho lavorato poi ne 1.1 Convitato di pezza', uno spettacolo di burattini di Bruno leone. La scoperta della tradizione è avvenuta dopo, per me allora la tradizione erano loro, alle feste ancora non ci andavo anche perché quando loro ci andavano si scordavano di dirmelo! All'inizio, devo dire, l'approccio alla tradizione fu quello 'tipico': senti una fronna, un canto alla carrettiera e pensi che metten126 doci sotto un ritmo africano hai fatto un'operazione bellissima! In realtà dopo un po' mi sono reso conto che questo era molto superficiale. Così col tempo sono entrato nella tradizione, girando per le feste, ascoltando i dischi e studiando. Per me i libri di De Simone sono stati fondamentali: sono stati la porta d'entrata in queste cose. C'è stato un periodo in cui ascoltavo i dischi delle 'sette madonne' tutti i giorni! Ma non mi piace l'uso di materiali della tradizione quando vengono presi in maniera semplicistica e sviliti. Io non `faccio' musica popolare, ma 'mi interesso' di musica popolare. Per me interessarmi alla musica popolare significa anzitutto avere un minimo di idea di che cosa è una festa, di che tipo di comunicazione si sviluppa, da dove deriva quella cosa, capire che cosa dicono i testi dei canti, andare nella masseria con loro e mangiare insieme la pasta e fagioli e le salsicce...La musica etnica non è musica a se stante, è una musica che ha un senso all'interno dí una situazione, e questa cosa va rispettata, per quello che è possibile. Su un palco non puoi ricreare la musica popolare. Quello che puoi fare è avere coscienza di tutto questo. La cosa importante è capire che cosa succede quando vai in una festa e sei nel cerchio di una tammurriata. Questa cosa per me è stata all'inizio il motore di tutto. Io ho fatto delle esperienze fortissime ballando la tammurriata; dopo ore di ballo vedi che il tuo stato mentale e fisico cambia, va veramente in una diversa dimensione, in cui sei molto più veloce, più libero e più presente a tutto quello che fai e vedi. E senza prendere nessuna droga! Voglio dire, il ballo tradizionale è un linguaggio, un mezzo con cui puoi incontrare gli altri, puoi incontrare te stesso e puoi anche superare te stesso. E questo ha a che fare, usando una parola un po' difficile, con il 'sacro'. Spesso oggi vediamo giovani, specialmente cittadini, che si stanno accostando alla tammurriata quasi come se andassero in discoteca. Tutto si esaurisce in scariche di piacere sensomotorio, in mostra di sé... E questo cambia il clima del ballo! Questo succede perché il ballo popolare sta diventando di moda, e la maniera tradizionale di apprendimento si sta sgretolando. E io penso pure che uno non può fare musica popolare se non balla, perché ballando entri in quella pulsazione in una maniera completamente diversa. E poi i legami che si creano...Io, figlio di borghesi, avevo già difficoltà ad avere a che fare con il meccanico, e invece nella festa incominci a frequentare i contadini, gli operai... Forse un clima di festa lo puoi ricreare in un concerto, a volte noi ci siamo riusciti, certo una cosa è stare a Castiello e una cosa è stare nel nord Italia, ma ottieni comunque un cambiamento, un 127 cambiamento energetico. Cambia proprio il modo di muoversi, la gente non si muove come quando va a un concerto di una 'posse', perché il corpo è stimolato a partecipare in maniera più completa, Io vedi dalla faccia della gente, c'è un benessere dopo la musica... E questo succede anche a noi sul palco: cominciamo che siamo stanchi, distrutti dal viaggio, e finiamo che siamo più forti di prima, perché suonare quelle cose aumenta il tuo livello energetico. così! È vero che oggi noi ci stiamo anche allontanando dalla tradizione, ma quello che mi interessa è mantenere il clima, riuscire a innestare quel tipo di comunicazione sapendo anche suonare quel tipo di musica, perché il clima non lo ottieni se non suoni in un certo modo. E quando da noi arrivano dei musicisti nuovi, gli devi fare la scuola, perché sono abituati a suonare con il 'tiro' rock o blues, il fraseggio jazz, che non va male si può anche usare, però le ritmiche sono in un certo modo, il batterista deve adeguarsi e suonare in un certo modo. Sostanzialmente ora per noi ci sono due cose: una è quella di aprire gli occhi e vedere come si muovono le cose, e l'altra è quella di ampliare, anche a livello di mercato, perché finora i Zezi...solo tanti complimenti! È importante far vedere tu da dove vieni, nel nuovo disco stiamo inserendo le voci di nuovi cantatori popolari, giovani come Marco Limatola, per far vedere anche come la tradizione si rinnova. I vecchi esecutori purtroppo stanno scomparendo. Io vorrei rendere alcuni aspetti di questa musica fruibili a più persone, senza snaturarla completamente: è una ricerca più globale sulla musica etnica. Può anche succedere che senti il sitar e ce lo metti, ma non è quello. Se prendiamo la canzone `Giuvinotti e signurine', e ascoltiamo come si muovono il basso, la batteria, il violino, ci sono dei risultati che vengono da alcune domande che mi sono fatto. Certe scansioni, certi fraseggi, mi richiamano alcune cose che ho imparato dalla musica gnawa, la linea melodica si muove molto vicino a quella di una tarrunurriata, stilizzata per fare una canzone, ma siamo nello schema della tammurriata, con la quinta che va giù... Insomma a me interessa fare dei pezzi che se tu li vai a leggere ci trovi le tracce della tradizione, ma concretamente! Finché ci sarà Angelo i Zezi esisteranno. Perché i Zezi non sono solo un gruppo musicale, ma una serie di iniziative. Se noi mai avessimo un boom e ci trovassimo a Los Angeles sarà importante tornare a Pomigliano e organizzare la Zeza a Carnevale. Andare alla festa di 128 Somma è imprescindibile. Ma perché mi piace! Essere Zezi oggi non significa essere i Zezi di vent'anni fa. C'è stata un'accelerazione e bisogna rifletterci. Il seme che è stato messo viene filtrato diversamente. Ma stare nei Zezi non significa stare in un qualsiasi gruppo musicale. Io ho fatto esperienze a tecentosessanta gradi in questo gruppo, politiche, aristiche e umane, scoprendo anche profonde contraddizioni, e solo nella voglia di vedere e riflettere su queste si può aprire ancora una volta un reale futuro nel gruppo». CARMINE GUADAGNO «Quando l'Alfasud venne venduta ai privati, la Rai ci chiese di esprimere il nostro punto di vista come Gruppo Operaio. Noi ci impegnammo moltissimo, lavorammo per giorni preparando un vero e proprio spettacolo per esprimere tutte le cose che riteneva mo giusto dire su come era avvenuta la ristrutturazione, la cassa integrazione...Quando visionammo il programma finito, ci accorgemmo che la nostra partecipazione era stata ridotta a qualche minuto. Non si capiva nulla di quello che avevamo voluto dire. La spiegazione del regista fu che eravamo stati tagliati per esigenze di tempo. Questa cosa ci deluse moltissimo, protestammo davanti alla Rai, facemmo dei volantini... Gli anni '80 erano anni di riflusso, e quelli di noi che erano rimasti cercavano di opporsi a questa tendenza a far scomparire tutto, le fabbriche, la condizione operaia... e lo abbiamo fatto con il teatro. Un po' fu anche una scelta obbligata, perché gente che suonava non ce n'era più, c'era solo chi sapeva suonare la tammorra! Ma se il gruppo oggi esiste c'è da ringraziare proprio quelle persone, e sono tante, che in quegli anni difficili si sono alternate, si sono date il cambio quasi! Negli anni '70 c'era un'onda, a volte era quasi una moda protestare...Io ho partecipato a questa cosa perché ci credevo, oggi ho rivisto molte delle mie posizioni e, visto come sono andate le cose, penso a volte che ci siamo presi un po' tutti in giro. Però rispetto molto quelli che lo fanno perché ancora ci credono. Molte persone del gruppo facevano un lavoro più nascosto, si dedicavano a preparare i costumi, le maschere, le attrezzature... era gente che faceva veramente la manovalanza! Per noi il teatro napoletano era un teatro ufficiale; noi tentavamo di fare qualcos'altro: il nostro era un teatro che nasceva nei cortili, per le strade. Non è che 129 studiassimo il teatro, solo con `Franceschiello' ci eravamo impegnati in uno studio vero e proprio. Tranceschiello' ci ha spiazzati proprio perché era la prima rappresentazione che richiedeva veramente un minimo di professionismo, ci voleva un impegno molto maggiore per ognuno di noi e ci volevano anche più soldi. Venne fuori che la fiaba sarebbe stata più difficile da rappresentare di quanto noi pensassimo all'inizio. Era difficile seguire i movimenti, il modo di parlare che gli studiosi ci indicavano. Noi eravamo abituati a fare gli spettacoli provandoli il giorno prima di andare in scena! Il gruppo aveva lavorato sempre in condizioni precarie: si scriveva Io spettacolo e lo si riusciva a provare una, due volte. Probabilmente non abbiamo mai provato uno spettacolo per intero! La prova principale si faceva sul palco, e la 'prima' era la prima nel vero senso della parola... `Franceschiello' non potevi farlo così! Noi avevamo sempre fatto spettacoli più brevi e più semplici, questo invece era molto più complicato, molto più impegnativo dal punto di vista tecnico e scenografico. Quando facevamo le prove si diceva alle otto e si iniziava alle dieci, una sera mancava uno, una sera mancava l'altro...Forse per un gruppo professionale sarebbe stato diverso. Questa fu anche la possibilità di una svolta per noi: alcuni pensavano che fosse necessario perché i tempi erano cambiati e ci si era anche seccati di dire sempre le stesse cose, invece per altri era meglio far rimanere il gruppo come era. Io penso che si potevano fare tutte e due le cose. Tranceschiello' è rimasta l'opera incompiuta. Ogni occasione era buona per tirare fuori uno spettacolo. Non so, in un paese c'era un problema? C'era un gruppo, un comitato spontaneo che aveva bisogno di un intervento a sostegno? Ci chiamavano e noi gratuitamente mettevamo su uno spettacolo per l'occasione. Si trattava in genere di compagni, piccole realtà che si organizzavano a proprie spese, a noi serviva un minimo di attrezzature, un palco, ma a volte neanche quello c'era... Si prendeva spunto da quello che succedeva tenendo però sempre presente la condizione operaia della zona. Ed ognuno diceva la sua, ognuno portava la sua idea; ci riunivamo alla Casa del Popolo. Nel teatro di strada preparavamo degli sketch appositi per quello che dovevamo fare. Una volta che il presidente americano Reagan doveva venire in visita in Italia facemmo una manifestazione di protesta a Roma; rappresentammo proprio l'arrivo di Reagan con la moglie e le guardie del corpo, con il Pazzariello, gli slogan e le canzoni... Alcuni avevano anche problemi di famiglia, perché impegnavamo troppo tempo e poi questo gruppo non era ben visto perché 130 era di sinistra e faceva la lotta politica, e una certa parte di Pomigliano ci ha sempre visti con distacco, anche una parte della sinistra. Il riconoscimento maggiore è venuto proprio dalla gente del popolo, e non tanto per le cose politiche, ma per quelle tradizionali! Io ho nella Zeza ho sempre fatto Vincenzella, la figlia. Nei personaggi femminili ci vuole molta immedesimazione. Io in questi giorni di carnevale non faccio altro che fare Vincenzella! Ho coinvolto tutto il mio ufficio! A volte faccio fatica a vivere normalmente perché se la fai spesso in una settimana pare che sei sempre lei...» 131 POSTFAZIONE Sarà difficile trovare dei punti esclamativi in questo libro. Un punto esclamativo tradisce spesso una mancanza di distacco, una partecipazione emotiva che può inficiare l'oggettività dell'analisi. È opportuno, però, che il lettore sappia che questo non è stato ottenuto senza sforzo. Un anno trascorso con il Gruppo Operaio, e con tutto quello che vi ruota attorno, non può essere un anno senza emozioni.; quando ho cominciato a lavorare a questo libro avevo già indagato per quasi un decennio sulla cultura popolare campana, e non pensavo che in poco tempo avrei imparato molto di più di ciò che già sapevo. Eppure, dopo solo qualche mese, realizzai che tutto quello che conoscevo stava prendendo una nuova forma, si stava ridisegnando all'interno di una prospettiva diversa, molto più complessa della precedente, molto più dinamica, e soprattutto molto più viva, drammatica, ed urgente. La storia di questo libro inizia forse nel 1987, quando ancora studiavo lingue straniere presso l'Università di Salerno e, per una tesi di laurea, ebbi la possibilità di frequentare gli ambienti del revival inglese, e di contattare a Londra Ewan MacColl e Peggy Seeger, i due numi tutelari del movimento folk britannico. L'intenso rapporto che ebbi con loro mi aiutò a comprendere molte cose sulla musica popolare, sul ruolo che l'industrializzazione aveva avuto nel trasformare le forme espressive delle classi subalterne, sull'importanza di misurarsi profondamente con la cultura della propria zona di origine, sulla necessità di lavorare alla elaborazione di un folklore contemporaneo ma dalle radici antiche e solide. Cominciai allora un lungo viaggio all'interno della tradizione napoletana immergendomi in una realtà arcaica ed affascinante, che oggi mi è familiare ma che allora sembrava sconcertante ed enigmatica. La problematizzazione della ricerca sul campo all'interno della storia culturale della regione ha fatto sì che io ritrovassi, tra le pieghe dei riti e dei simboli della tradizione, i pezzi sparsi della mia memoria di napoletano, all'epoca smembrata da spinte centrifughe che mi avevano portato in direzioni lontane, per ricomporli in una rinnovata identità. Il Gruppo Operaio E Zezi, incrociando di fatto questi due universi, la fabbrica e l'arcaico mondo della tradizione partenopea, mi ha 133 consentito ora di annodare l'interesse per la realtà industriale con quello per la cultura contadina e i suoi miti, stravolti nel travaglio della modernizzazione. Per la realizzazione di questo libro è stata avvicinata moltissima gente: le chiacchierate che ho avuto con i tanti che ho rintracciato sono durate a volte pochi minuti, a volte intere giornate; una realtà come quella dei Zezi di Pomigliano d'Arco ha coinvolto nella sua storia centinaia di persone e, come già detto nell'introduzione, sarebbe stato impossibile parlare con tutti coloro che hanno dato un contributo a questa vicenda. Occorre poi menzionare qualcuno senza il cui apporto questo lavoro non sarebbe venuto fuori così come è: in primo luogo i sindacalisti Mario Napoli tano e Luigi Nuzzi, per l'aiuto datomi nella comprensione della locale realtà operaia, e tutta la segreteria Fiom Cgil di Pomigliano d'Arco, spesso base logistica di buona parte del lavoro fatto in loco. Un ringraziamento speciale ad Angelo De Falco: il suo archivio di libri, articoli, foto e registrazioni audio e video è stato fondamentale per la realizzazione del lavoro; ad Antonio Fraiolz, che mi ha introdotto 'fisicamente' nel mondo dei Zezi, e a Giovanni Sgammato e Marcello Colasurdo per la loro attiva collaborazione. Grazie a Bruno Masulli, Carla Cristofanilli, Carla Rabuffetti, Nicola Vetrano, Maria Rosaria Nocera, Sebastiano Ciccarelli, Lello Settembre, Sergio Nardò, Paolo Barberi Vincenzo Bitti, Guido Carosi. Grazie anche a Claudio Vedovati per alcuni suggerimenti, e a Patrizio Esposito per degli spunti importanti sugli aspetti teatrali del Gruppo Operaio. Un ringraziamento particolare a Marco Bascetta che ha creduto in questo lavoro e che, con infinita pazienza, ha sopportato le mie innumerevoli correzioni fino giorno. Un ringraziamento molto particolare agli operai, ai contadini, ai braccianti, agli artigiani che vivono nei quartieri popolari di Pomigliano, e che mi hanno aperto i cortili e le case nelle visite che ho fatto loro insieme a Marcello, per la loro gentilezza e cordialità, per la disponibilità verso chi entrava nelle loro abitazioni perché doveva `scrivere un libro': è questo, in fin dei conti, il 'popolo' dei Zezi. 134 BIBLIOGRAFIA, DISCOGRAFIA, VIDEO STORIA, POLITICA, MOVIMENTO OPERAIO: ALLum P., Potere e società a Napoli nel dopoguerra, Einaudi, Torino 1975. ALIBERTI C., La Camera del lavoro. 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