al Partito Comunista di S. Anastasia

SOCIETA NARRATA
O 1999 manifestolibri srl
via Tomacelli 146 - Roma
ISBN 88-7285-187-4
Ai miei genitori e alle
nostre nipotine "milanesi"
Solo l'osservatore superficiale può negare che
tra il mondo della tecnica e l'arcaico universo
simbolico della mitologia giochino delle corrispondenze
Walter Benjamin, Parigi, capitale del XIX secolo
INDICE
Introduzione
11
I. Lo scenario
15
II. Gli anni del revival
43
III. Fra tradizione e nuovi linguaggi
59
IV. I testi
81
V. Le musiche
99
Interviste
107
Postfazione
133
Bibliografia, discografia, video
135
INTRODUZIONE
Ricostruire la storia di E Zezi, il Gruppo Operaio di Pomigliano d'Arco (G.O.), significa ripercorrere una delle più significative
esperienze politiche e spettacolari originatesi all'interno del folk
music revival degli anni '70 ed ancora oggi in attività.
Il Gruppo Operaio ha rappresentato e rappresenta, però,
molto di più di un collettivo musicale: E Zezi, con la loro miscela di
musica tradizionale, teatro popolare e canzone politica, sono stati la
sublimazione artistica del trauma dell'industrializzazione nel napoletano, del devastante urto che una cultura contadina arcaica, e solo
qualche decennio fa ancora pienamente attiva, ha ricevuto da una
modernizzazione affrettata e per molti aspetti alienante. Una 'civilizzazione' che proprio negli anni '70 (la grande fabbrica dell'Alfasud è stata impiantata a Pomigliano d'Arco nel 1968) ha cominciato il suo tenace e capillare lavoro di erosione delle forme espressive,
feste, musica, danze, fiabe, che di questa cultura erano le strutture:
nonostante questo tali forme ancora oggi resistono, anche se in
modelli sempre più degradati e privi del loro senso originario. Al
momento attuale una riflessione sulla cultura 'popolare' non può,
però, sottrarsi all'obbligo di una contestualizzazione di quest'ultima
nel quadro dell'imponente accelerazione che si è avuta nel processo
di sviluppo negli ultimi venti anni in Italia. Fino agli anni '70 era
possibile ritrovare, anche se con gli opportuni distinguo, un mondo
popolare ancora immerso in una dimensione in gran parte lontana
dalla modernità. I 'segni' della tradizione erano leggibili nella loro
interezza di linguaggi collettivi in cui una comunità poteva riconoscersi, e lo provano le ricerche effettuate in quel periodo: le registrazioni musicali e i documentari dell'epoca testimoniano la vitalità
di modelli espressivi non ancora fagocitati, in quegli anni, dalla cultura di massa. La velocità delle trasformazioni ambientali e socioculturali ha in larga misura modificato quello scenario. Oggi, pur
nella possibilità di rinvenire ancora degli eventi connotati da tratti
arcaici, l'intero 'sistema' delle culture periferiche ha subìto una trasformazione, una `rifunzionalizzazione'. Nello specifico campano, a
questa rífunzionalizzazione hanno fortemente contribuito i mutamenti nell'assetto territoriale intervenuti in seguito alla ricostruzio11
ne dopo il terremoto del 1980, l'invasione dei modelli della cultura
di massa (con clamorosi fenomeni di `feedback' culturale come
quando in alcuni paesi alcuni giovani portatori della tradizione eseguono oggi brani popolari nello stile del folk revival, cioè nello stile
di chi quei canti aveva imparato in quegli stessi paesi per riproporli
in forma mediata per il grande pubblico), la `spettacolarizzazione'
della musica e del teatro popolare a causa della scoperta del mondo
delle feste da parte di studenti universitari, musicisti e operatori
culturali di varia estrazione, la formazione di gruppi stabili di esecutori con l'uso di microfoni, palchi, 'presentatori' e altro ancora.
Tutto ciò convive, o in maggior misura si sovrappone cambiandone
il segno, all'utilizzo rituale premodemo della tradizione, ed in tutto
questo vi sono, come sempre, aspetti liberatori ed aspetti deteriori.
D'altra parte i profondi mutamenti geografici, sociali, culturali
e politici avvenuti a livello nazionale e internazionale dopo il
decennio del rifiuto della politica, i processi di deindustrializzazione e le nuove emergenze sociali (come la disoccupazione di massa,
la crescente immigrazione e la conseguente esigenza di ridefinizione
di identità), l'avvento di una nuova destra populista e aggressiva e
di una sinistra istituzionale sempre più allineata sui valori del mercato hanno negli ultimi anni favorito in Italia, per reazione, un nuovo
interesse sia verso la canzone di protesta, sia verso la musica tradizionale e più in generale verso quella che veniva chiamata appunto
'cultura popolare', un interesse che ha ringiovanito la ormai asfittica
scena musicale (e non solo) del bel paese. `Tammurriate',
`tarantelle' e `pizziche', i canti e le danze rituali del meridione, sono
quindi rientrate di prepotenza nella rinnovata musica italiana,
affiancate ai ritmi del rap e del reggae; vecchie incisioni di cantori
popolari sono state campionate diventando parte di brani di successo e la tradizione conosce un nuovo revival.
Se tutto ciò ha avuto dei lati positivi, grande confusione hanno portato la scarsa consapevolezza degli stessi musicisti pop/rock e
soprattutto tanto inutile giornalismo di settore, sempre pronto a
sovrapporre tarantati e rappers, feste religiose e rave parties, a indicare
derivazioni dirette e filiazioni precise di stili e forme, a coniare
improbabili sigle come `raggafolk' o `tarantamuffin' che, in una
totale vaghezza e superficialità, non hanno certamente contribuito a
far comprendere né la musica tradizionale e la nuova musica pop,
né a stabilire quali fossero i rapporti tra le due'.
Cultura contadina, industria e musica pop: trasversalmente a
tutto ciò si sono mossi e si muovono i Zezi, certamente antesignani
12
delle nuove tendenze della musica italiana degli anni '90, con la
loro contaminazione fra canto popolare e canzone di protesta nata
per reale necessità esistenziale; questo contributo finirà quindi per
attraversare inevitabilmente tutte e tre queste aree con un'indagine a
tutto campo, proprio nella speranza di evitare suggestioni di facile
presa e approssimazioni, e per contestualizzare il più possibile il
lavoro del Gruppo Operaio.
Le interviste in coda al volume, e le dichiarazioni incorporate
nel testo, sono tratte dalle tante conversazioni avute con alcuni
componenti 'storici' del collettivo, o con coloro che in vario modo e
a vario titolo si sono intrecciati con la sua storia. Ovviamente non è
stato possibile incontrare le oltre centoventi persone che in ormai
venticinque anni hanno dato il loro apporto ai Zezi; le riteniamo
però tutte idealmente presenti e questo libro è stato scritto anche
per loro.
Le interviste, sia nel testo che in coda al volume, sono state
spesso tradotte in italiano dal dialetto, e questo ne spiega alcune
irregolarità e il tono colloquiale. La punteggiatura cerca di rispettare
il più possibile i ritmi e le pause del parlato.
NOTA
' Solo recentemente è stato fatto qualche tentativo in questa direzione. Si
vedano, ad esempio, PLASTINO 1996 e i polemici articoli di Fransois Picard sulla
rivista francese «écouter voir» (febbraio 1997) e di Roberto Leydi su «Jam»
(aprile 1997).
13
I. LO SCENARIO
«Abbiamo trasformato i canti di lavoro della terra
in canti della catena di montaggio»
E Zezi
(intervista a «Le Monde», 21-22 luglio 1996)
La storia della moderna Pomigliano d'Arco, come quella di
tutto il Mezzogiorno italiano, comincia, per convenzione, nel 1948
con il piano Marshall. Il grande programma di aiuti economici che
gli Stati Uniti organizzarono per la ricostruzione europea segna
infatti l'inizio dell'integrazione dell'Italia nel mercato capitalistico
internazionale, dopo la parentesi autarchica del fascismo.
Pomigliano d'Arco e i suoi dintorni avevano già una certa tradizione industriale preunitaria, ma addentrarsi ín dettaglio nelle
complesse vicende dell'industrializzazione in Campania attraverso
le sue diverse fasi storiche prima dell'ultimo dopoguerra non è tra
gli scopi di questo lavoro'. Più interessante è, invece, tratteggiare
per grandi linee la geografia culturale e sociale del territorio in esame prima dell'avvento della moderna industria pomiglianese, e
incentrare poi l'analisi sul varo dell'Alfasud, stabilimento di tipo
`fordista' che ha segnato molto incisivamente il volto della Pomigliano
contemporanea e della zona circostante.
L'Italia degli anni '70 vide un fiorire di studi antropologici,
oggi in via di ripresa sotto nuove angolazioni teoriche, che indagavano la vita delle classi popolari (in particolar modo del meridione)
studiandone tutti gli aspetti dai riti ai miti, dai proverbi alle fiabe,
dalle danze alla musica. Riprendendo una definizione di origine
romantica, già rielaborata da Antonio Gramsci2, questi aspetti vennero chiamati 'tradizione popolare' (o 'cultura popolare') e costituirono a lungo un terreno privilegiato di indagine per operatori culturali, studiosi ed artisti. Nelle tradizioni popolari si cercava il rapporto con un mondo reso marginale da processi storici irreversibili, ma
che apparentemente si rivelava in possesso di valori e comportamenti
irriducibili alla già dilagante omologazione, per contribuire, nel
clima del periodo, all'elaborazione di una cultura alternativa
15
e progressista.
Il Gruppo Operaio E Zezi nacque in quegli anni, a ridosso
della Nuova Compagnia di Canto Popolare che già operava
all'interno del movimento del 'folk music revival' e aveva fatto
conoscere al grande pubblico la musica di tradizione orale della
Campania. Se nella proposta revivalistica la musica popolare veniva
usata in funzione spettacolare, nella sua espressione originale essa si
manifesta, in questa come in altre regioni del Mezzogiorno, prevalentemente nella ritualità religiosa, uno degli aspetti più vistosi ed
importanti della cultura subalterna del meridione e di quel che
resta della sua vita comunitaria.
Alla parola 'popolare', molto in voga a quei tempi, sono sempre state date accezioni diverse che la hanno resa alla fine indefinita
e ambigua, cosicché oggi è indubbiamente molto difficile individuare un 'popolo' e definirlo con precisione. Aggiornando parzialmente per i nostri scopi una definizione di Ernesto de Martino'
(che per primo ha indagato la cultura popolare meridionale con un
taglio moderno e aggiornato), per 'popolare' o 'subalterno' intenderemo l'insieme delle classi sociali urbane o rurali non egemoni,
che subiscono le trasformazioni della modernizzazione e sono
escluse dai benefici di questa, salvo recuperi spesso parziali, artificiali ed alienanti.
Allo stesso modo, il concetto di 'etnicità' e le locuzioni che ne
derivano (`musica etnica', 'cultura etnica' ecc.), e che pure useremo
per comodità di scrittura, richiedono un chiarimento. Nel mondo
contemporaneo il termine 'etnicità' viene spesso assunto come
sinonimo di appartenenza ad un gruppo umano originariamente
separato dagli altri e la cui distinzione è in qualche modo storicamente rintracciabile; su questa ideologia, che ha un suo valore solo
come spia di un disagio più profondo legato ai fenomeni di globalizzazione e di perdita di orizzonti, sono state costruite rivendicazioni politiche, spinte autonomistiche, nuove forme di razzismo. In
questo senso, l'idea di etnicità è in gran parte un'invenzione, ed è
figlia della necessità di classificazione propria della cultura occidentale e di rapporti di forza storicamente determinati': «La penisola
italiana è al centro del Mediterraneo, una delle aree del pianeta più
`trafficate', persino in epoche preistoriche. La storia più recente ha
visto l'arrivo di popolazioni provenienti dalla Grecia, dalla penisola
balcanica, dall'Asia minore e dal Nordafrica nel centro e nel sud
della nostra penisola, mentre il nord di questa è stato invaso a più
riprese da popoli provenienti dall'Europa centrale. Le colonizzazio16
ni prima etrusca e poi romana hanno portato al nord gli influssi
delle civiltà mediterranee, mentre il centro e il sud della penisola
hanno visto, durante l'impero, l'arrivo di popolazioni slave e celtiche importate come schiave. Le invasioni barbariche hanno contribuito a rimescolare le genti dell'intera penisola, e il medio evo ha
visto l'arrivo tanto degli arabi quanto dei normanni in Sicilia e
nell'Italia meridionale. (...) Gli italiani di oggi non sono né tante
`etnie', né una sola 'etnia', anche se essi 'non possono non dirsi italiani' »'. La 'nazione' italiana (o parte di essa) non è pensabile come
gruppo sociale dato e astoricamente fissato, quindi, ma come coabitazione di individui, frutto di dinamiche e processi storici diversi.
Con il termine 'etnico' ci riferiremo perciò alla cultura popolare
solo come cultura di origine premoderna, partecipe di una dimensione magica, mitica, simbolica ed estranea, almeno ufficialmente,
alla visione del mondo logico-razionale delle classi sociali che vivono a pieno titolo la modernità.
Per la parola 'comunità' riprenderemo invece la sintetica definizione che ne ha dato Gabriella Gribaudi: «Verrà usato d'ora
innanzi il termine 'comunità' per indicare la società locale. Esso
quindi non si riferisce, in questa accezione, a una comunità chiusa e
delimitata territorialmente. È un concetto più astratto, che definisce il momento particolare, locale appunto, in contrapposizione alla
società allargata, e alle istituzioni nazionali»6 . E ancora: «Si può
molto schematicamente definire il mondo di comunità come un
mondo in cui prevalgono i rapporti personali di parentela e di vicinato, anche nelle transazioni economiche, e in cui l'identificazione
sociale si costruisce in una rete di relazioni personali che ha il suo
centro nella comunità, e non dipende quindi prevalentemente,
come invece nelle società urbano-industriali, dalla collocazione
produttiva dell'individuo»'.
Intenderemo quindi per `tradizione' i valori etici ed estetici
che orientano in ogni ambito una comunità, rurale o urbana, nella
sua dimensione di vita precedente alla cosiddetta 'seconda rivoluzione industriale', quella del capitalismo fordista o dell"economia
di scala'8 : la cultura 'popolare' sarà perciò la cultura 'tradizionale'
di tali comunità, viva e vitale anche in contesti già in parte industrializzati come quello pomiglianese del dopoguerra.
La vita di una comunità ancor a estranea alla produzione di
massa non può che offrire, ovviamente, ristrettissimi margini di
resistenza allo sviluppo capitalistico, ed è normalmente spazzata via
dalla modernizzazione: mestieri un tempo inseriti a pieno titolo nel17
la modesta economia preindustriale vengono sopraffatti e resi obsoleti
dalla produzione standardizzata che crea artificialmente nuovi bisogni;
la razionalizzazione dei processi di lavorazione impedisce
l'occupazione permanente, in particolare nelle aree escluse dagli
investimenti o soggette a deindustrializzazione; le ristrutturazioni
provocano l'espulsione dal ciclo produttivo di manodopera inutilizzata, generando continuamente nuove fasce di emarginazione
sociale e favorendo il lavoro nero. Nei paesi del terzo mondo e nelle
zone sottosviluppate dell'occidente i ceti popolari si difendono,
quando la reazione non diventa crimine organizzato, con la diffu sione della cosiddetta 'economia informale', che nel napoletano
prende la forma del tradizionale contrabbando e della versione
aggiornata di quella che un tempo fu l"economia del vicolo' 9.
A livello antropologico, l'effetto di tutto ciò è la disgregazione
della struttura sociale premoderna e l'annullamento dei modi di
vita comunitari. Per la sua particolare storia, e per il controverso
processo di integrazione all'interno delle dinamiche neocapitalisti che, il meridione italiano ha a lungo conservato (e tuttora in parte
conserva anche se in maniera alterata) solide strutture comunitarie
che sono rimaste sostanzialmente chiuse al loro interno, e al di fuori
delle regole del mercato, almeno fino ai primi anni '50: «Alla base
dell'organizzazione sociale della comunità c'è il settore di sussistenza
con le sue regole e i suoi valori. L'estrema precarietà economica, la
preponderanza di un'economia organizzata intorno ad obiettivi di
solidarietà familiare, l'esistenza di un circuito economico di
scambi e di redistribuzione di reddito all'interno dei rapporti
parentali e di amicizia, le difficoltà finora esistenti di comunicazione
fra un paese e l'altro, fanno sì che le comunità siano organizzate
intorno a fini e norme proprie e a una rete di relazioni personali e
non anonime. I rapporti nascono dalla conoscenza reciproca che gli
abitanti del paese o del quartiere hanno l'uno dell'altro e passano
attraverso le strutture familiari e attraverso l'amicizia. Fino alla
guerra, e in parte ancora negli anni '50, alle comunità sono demandate funzioni cui le istituzioni dello stato non sono ancora in grado
di adempiere: l'organizzazione dell'assistenza, l'organizzazione della
medicina in certi casi, quindi il controllo delle norme e del comportamento morale degli individui. Tutto ciò rinsalda quel distacco
dalla società più ampia e quel senso di appartenenza che ci fanno
apparire le comunità e la realtà meridionale in genere come un
mondo chiuso e stabile, non soggetto a mutamenti e incapace di
reazione»10. La sempre più veloce e vorticosa modernizzazione ha
18
poi però disgregato non solo l'economia, ma anche, pur se tra fortissime resistenze, le culture locali. Napoli e la sua provincia, tuttavia, risultano essere tra le aree più conservative in termini di comportamenti e di usanze tradizionali, e la modernità ha trovato qui
ostacoli spesso insuperabili, che non hanno mai permesso il suo
completo dispiegarsi. Tali comportamenti ed usanze, anche se prevalentemente radicati negli ambienti popolari, sono talvolta diffusi
a livello interclassista, come mostrato, ad esempio, proprio da de
Martino nel suo saggio sull'ideologia del 'fascino' e della `iettatura'", e costituiscono, al di là del tratto pittoresco che viene loro
generalmente assegnato, parte dell'identità napoletana2 . Di tale
identità, la religione e la ritualità, con i loro momenti musicali e teatrali (l'oggetto privilegiato del folk revival), sono tra i connettivi più
forti, particolarmente nell'entroterra vesuviano.
Chi ha pratica di ambienti popolari napoletani può facilmente osservare quanta parte dell'esistenza dell'individuo sia in rapporto con la sfera del sacro, con le sue modalità rappresentative e simboliche, con le sue configurazioni arcaiche, che sovente si colorano
di particolari connotazioni infere, visionarie e sessuali, in una zona
pienamente partecipe delle antiche culture agropastorali del Mediterraneo". Sottolineare la rilevanza di tutto ciò incontrava negli
anni '70 l'ironia dei sostenitori dello sviluppo a tutti i costi, che ritenevano la religiosità popolare un fenomeno retrivo e superabile in
poco tempo con lo slancio dell'industrializzazione. Scriveva intanto, già dal 1966, l'antropologo americano Clifford Geertz: «La religione è sociologicamente interessante non perché, come direbbe il
volgare positivismo, descrive l'ordine sociale (il che avviene, nella
misura in cui avviene, non solo molto indirettamente, ma anche in
modo molto incompleto), ma perché allo stesso modo che
l'ambiente, il potere politico, la ricchezza, l'obbligazione giuridica,
l'affetto personale e il sentimento della bellezza, dà ad esso una forma»".
Significativo e rivelatore è, in tal senso, proprio il peculiare
rapporto che i Zezi, un gruppo musicale e teatrale di operai e militanti comunisti formatosi all'interno di una nascente realtà industriale, hanno saputo mantenere con la dimensione sacrale della tradizione etnica napoletana, elaborandone i modi espressivi ed integrandoli nella cultura operaia. Tale rapporto, riflesso di un atteggiamento molto diffuso negli strati subalterni napoletani, evidenzia
nello stesso tempo la plasticità della religiosità popolare che è capace, proprio in virtù della sua ambivalenza simbolica, di assimilare
19
.e•
'all'interno del suo quadro di riferimento anche idee apparentemente inconciliabili con essa.
La religiosità popolare partenopea (e più in generale meridionale)
è, come è noto, il prodotto di un sincretismo tra cattolicesimo e
religioni pre-cristiane, tenacemente sopravvissute nei comportamenti rituali delle classi popolari e spesso riplasmate all'interno dei
codici dell'immaginario della grande stagione barocca di Napoli e
dell'intero Mezzogiorno15 . Anche se questa tesi ormai classica viene
spesso contestata soprattutto nella sua prima parte16 , uno sguardo
d'assieme alla cultura tradizionale campana la convalida in maniera
evidente, pur nella presa d'atto del vertiginoso processo di trasformazione che essa sta vivendo.
Per il mondo contadino dell'hinterland napoletano e per gran
parte del proletariato e del sottoproletariato urbano, questa religiosità viene vissuta da un lato nel rapporto quotidiano con le immagini
sacre e con le pratiche più strettamente esorcistiche e terapeutiche,
dall'altro con la partecipazione a momenti collettivi di festa
legati all'anno agrario, che si svolgono per lo più nei paesi
dell'interno". In queste feste popolari si balla la `tammurriata', si
cantano le `fronne', si rappresentano 'La Canzone di Zeza', i 'Mesi'
ed il 'Processo al Carnevale', si accendono fuochi rituali, si portano
devotamente sulle spalle pesanti obelischi di legno (i cosiddetti
`gigli'), si trascinano in delirio giganteschi carri di grano, si gioca
bendati nelle aie, si fanno benedire i propri animali (o anche la propria
automobile), si chiede aiuto ai santi o alle anime del purgatorio: si
dà insomma vita a quello sfogo nell'irrazionale e nel fantastico che,
mediante l'utilizzazione di una articolata rete simbolica, e spessissimo
di una gestione energetica dei propri corpi, funziona da tecnica di
reintegrazione culturale al fine di ottenere protezione e rassicurazione,
secondo modalità a lungo indagate, tra gli altri, da Ern esto de Il
primo grande momento rituale collettivo, la più celebre e
frequentata delle feste campane, è senza dubbio quella della
Madonna dell'Arco, che si tiene il lunedì in Albis a poca
distanza da Pomigliano, un rito molto indagato per la presenza di
stati di trance di numerosissimi devoti e meta, quindi, oltre che di
fedeli, di antropologi, artisti e curiosi. La domenica successiva, a
Pagani in provincia di Salerno, Madonna delle Galline, altra festa di
grande richiamo, con le estenuanti danze che si svolgono nella locale
villa comunale. Il 3 di maggio, a Somma Vesuviana, festa della
Madonna di Castello, apice di un lungo periodo di celebrazioni in
onore di questa Vergine, una vera e propria divinità, in una delle
20
zone più ricche di cultura tradizionale della regione, tra l'altro luogo
della singolare festa 'delle lucerne'. Seguono poi la Madonna dei
Bagni e la Madonna Avvocata, rispettivamente a Scafati ed a Maiori.
In estate le feste sono spesso notturne, come a Materdomini di
Nocera tra il 14 e il 15 di agosto. È importante notare che i partecipanti di questi riti sono spesso le stesse persone, contadini che vivono
queste occasioni come unico insieme di festeggiamenti in onore di
una serie di Madonne miticamente unificate come 'sorelle'. A queste
Madonne 'bianche' (che secondo una lettura storico-religiosa
rappresenterebbero il periodo primaverile), si contrappongono le
Madonne 'nere' (Madonna del Carmine, Madonna di Montevergine
ecc.), emblematiche del ciclo invernale quando la terra 'muore' in
attesa del nuovo raccolto, a dimostrazione del carattere originariamente e prevalentemente agrario di questa cultura popolare 19 . Ci
sono poi i riti del carnevale o della settimana santa, più radicati localmente, e quelli legati al periodo natalizio, con la rappresentazione
della 'Cantata deí pastori' nella penisola sorrentina, ed il complesso
simbolismo degli scenari presepiali di via S. Gregorio Armeno a
Napoli". Dietro questi riti si rintracciano i miti antichi della Magna
Grecia, le arcaiche divinità della fertilità come Cibele ed Attis o
Demetra e Persefone, impronte dionisiache e resti del culto mitriaco.
Sia il livello iconografico che le modalità rituali stesse di questi culti
rimandano a modelli arcaici di espressione religiosa, così come ci
vengono tramandati dalla letteratura e dalle immagini dell'antichità, e
così come vengono ricostruiti dagli storici delle religioni.
Nel loro rapporto con i ritmi biologici e naturali, nella loro
periodizzazione calendariale, le antiche religioni del Mediterraneo
consentivano, è la tesi di molti antropologi e psicanalisti, una
gestione diversa della propria istintualità mentre l'uso dei simboli
permetteva il riequilibrio con gli strati profondi della psiche. Una
volta integrate nella spiritualità cristiana imposta dall'alto, queste
forme religiose resistettero, mediate in vario modo attraverso le
successive stagioni storiche e dando vita a quell'ibrido fenomeno
che è stato poi definito 'cattolicesimo popolare', che comprende uno
spettro di comportamenti 'altri' che vanno dal lamento funebre alle
tarantolate pugliesi. In questi riti pulsano, quindi, pur nella loro
ambivalenza e quando li si rintraccia in forme non ancora
deculturate, spinte liberatorie, catartiche, contestative verso l'ordine
esistente e dunque capaci di favorire un ritorno pacificato del
rimosso e di riconciliare l'essere umano, per dirla in termini freudiani, con il principio di piacere.
21
Questa è nei fatti la dimensione culturale di un territorio su
cui venne impiantata una gigantesca fabbrica per la produzione di
massa, vale a dire basata sulla rigidità della catena di montaggio
temporizzata, con i suoi ritmi disumani e le sue `saturazioni'21 , con
la sua indifferenza per la festa calendariale, con i suoi orari e le sue
gerarchie. Il trauma dell' industrializzazione violenta modello Alfasud è consistito, quindi, in una metamorfosi improvvisa e incomprensibile per migliaia di componenti delle classi popolari napoletane e per le loro famiglie: una secolarizzazione brusca, il passaggio
da una vita di lavoro ancora in gran parte premoderno, con le sue
componenti rituali e di reintegrazione culturale, con le sue consolidate strutture familiari solidaristiche, a una vita robotizzata, sganciata violentemente da questa dimensione arcaica e inserita nel vortice industriale e consumistico, con i suoi ritmi che tutto azzerano e
che di nessuna componente culturale (e tantomeno religiosa) possono tenere conto; e tutto ciò senza nessun tipo di preparazione per
poter reggere tale urto, anzi talvolta rafforzando, anche se solo
provvisoriamente, alcuni 'segni' dei linguaggi tradizionali come unica
possibile barriera al disagio.
Questo ha voluto raccontare il Gruppo Operaio 'E Zezi di
Pomigliano d'Arco, all'interno di una cultura di sinistra che cominciava a reagire alla violenza della modernizzazione.
La nascita della moderna Pomigliano d'Arco e del territorio che
la circonda può farsi risalire alla metà del secolo scorso, con lo
sviluppo di una rete ferroviaria che cominciò a collegare i comuni
dell'area vesuviana. Nel 1838 era stato realizzato il primo collegamento Napoli-Portici, prima linea in assoluto in Italia, e solo pochi
anni dopo il treno iniziò a muoversi nell'intera zona, favorendo lo
sviluppo non solo di Pomigliano ma anche di Acerra, Nola, Marigliano, Brusciano e altri paesi dell'entroterra. I mercati di Nola e
Pomigliano cominciarono a crescere di importanza, divenendo crocevia di merci e di uomini; fino ad allora gli scambi commerciali
erano rimasti ancorati ad una dimensione arcaica, rallentati dalle
distanze, simbolo delle quali era la locanda «'O Passo», sita sulla
statale 7 bis che da Napoli attraversa Pomigliano per giungere fino
in Puglia. In questa taverna, oggi assorbita in un caseggiato, i mercanti sostavano una o più notti prima di riprendere il cammino.
Con l'unità d'Italia poche cose cambiarono, la vita degli abitanti
continuò secondo modalità tradizionali e le attività economiche,
prevalentemente legate all'agricoltura, si svolgevano ancora
22
con sistemi molto arretrati.
Nel 1939, nell'ambito degli interventi dell'Iri (l'Istituto per la
Ricostruzione Industriale fondato nel 1933), Benito Mussolini in
persona pose la prima pietra del nascente stabilimento aeronautico
Alfa Romeo e del relativo aeroporto, la cui produzione a carattere
militare era intesa a rafforzare la capacità bellica italiana ín vista
dell'imminente conflitto. La fabbrica, che impiegò numerosissimi
lavoratori, funzionò fino al 1943, quando fu bombardata dalle
truppe alleate. Subito dopo il conflitto, grazie soprattutto al generoso impegno delle maestranze, la produzione fu riconvertita in
attrezzature agricole, componenti meccaniche per automobili
(anche per conto della Renault) e motori per aerei. Nel 1949 a fianco dell'Alfa Romeo sorse l'AerFer, industria specializzata in produzione aeronautica e poi destinata ad assumere, per diversi anni, un
ruolo importante a livello nazionale ed internazionale.
Nel 1964, a causa di un calo di produzione di un modello
realizzato in collaborazione con la Renault, l'Alfa Romeo decise di
mettere in cassa integrazione centinaia di lavoratori. La crisi, che
minacciò l'intera classe operaia pomiglianese e coinvolse nella solidarietà anche lo stabilimento dell'AerFer, si risolse poi in maniera
positiva. La mobilitazione a difesa dei posti di lavoro non mancò di
momenti di forte tensione, ma per la prima volta la comunità locale
si ritrovò compatta a difendere il proprio nucleo industriale2.
Questi eventi lasciavano già intravedere come il destino di
Pomigliano d'Arco fosse legato esclusivamente all'industria, a
dispetto di un fertilissimo suolo espropriato per centinaia di
migliaia di mq per ognuna di queste fabbriche; allo stesso modo si
intuisce dunque che l'insediamento industriale nacque non per
impiegare le energie produttive al sud, ma in tutta fretta, al solo
scopo di sostenere l'entrata in guerra del paese. L'industrializzazione della zona, insomma, come proveranno gli eventi a venire, fu
dunque legata fin dagli inizi a contingenze storiche, ad occasioni e
finalità del momento, e mai si inserì in un progetto organico e coeso
di trasformazione. Tutto ciò era in linea con le più classiche tendenze di sviluppo capitalistico che, in Italia più che altrove, hanno
privilegiato alcune aree, alcuni settori, ed alcuni gruppi di potere.
Fino agli anni '60 la cittadina continuò ad essere, quindi,
nonostante questi eventi che la avevano imposta nell'ambito locale
come contesto produttivo avanzato, una realtà in buona parte
estranea alla modernità; ne rimane ancora un'idea nelle strutture
abitative del centro storico: case raggruppate intorno a cortili, con
23
un pozzo, un forno e un bagno in comune, che all'epoca ancora
favorivano (come negli altri centri storici dell'entroterra) la vita
comunitaria con tutti i modelli culturali che essa produce, legati a
momenti ritualizzati della vita collettiva, nascite, morti, pellegrinaggi, giochi".
Prima dell'avvento dell'industria automobilistica, la maggior
parte dei pomiglianesi era ancora impiegata in mestieri tradizionali,
potatori, funari, arrotini, stagnini, impagliatori di sedie, sarti, sellai,
spaccalegna. Le donne si dedicavano a lavori di tessitura e di ricamo, ai raccolti, alla spannocchiatura. La vita quotidiana scorreva
ancora lungo percorsi secolari in un quadro di costante precarietà,
in cui tuttavia non mancavano parentesi di festa e di solidarietà collettiva. I matrimoni coinvolgevano l'intera collettività, mentre le
unioni non legalizzate, o comunque anomale, erano ancora sanzionate dalle cosiddette `tuffate' (da `tofa', grande conchiglia di mare
in cui soffiando si ottiene un potente suono), vere e proprie serenate alla rovescia, fatte con strumenti a percussione, fischietti e
grida". Tali usanze erano già in uso nella Napoli secentesca, come
annota lo scrittore Nino Leone: «Dopo la cerimonia ci si ritrovava
tutti presso la casa paterna dello sposo oppure nella corte del fondaco di appartenenza ove avvenivano i festeggiamenti in onore
degli sposi. Allietati dalle canzoni di gruppi di musici, si mangiava,
si beveva e si ballava fino a notte tarda al ritmo di tammurriate,
spallate, cascarde dal nome pittoresco come Pordenzia, Madama la
zita: tutti balli adatti all'occasione. Ma non tutti gli sposalizi ricevevano la stessa affettuosa accoglienza, anzi ad alcuni era riservata
una sfacciata e piuttosto invereconda ironia e ne erano bersaglio le
coppie formate da un vedovo e una donna di non più giovane età; a
una coppia così composta non era consentito recarsi a sposare la
domenica ma soltanto nei giorni feriali, e in particolare il giovedì; in
tal caso gli sposi venivano fatti oggetto di lancio di bucce d'arance e
limoni, mentre fischi, urla, e schiamazzi si sollevavano dal codazzo
di ragazzi che faceva loro da corteo. Se la cosa era poi più finemente
organizzata, i partecipanti si munivano di conchiglie marine
(tufe) o di orciuoli in cui si soffiava fino a produrre dei suoni gravi e
gutturali: questa usanza soleva dirsi tufiata»25.
I bambini passavano il tempo, quando non erano costretti a
lavorare, giocando con lo `strummolo' (piccola trottola), a `mazza e
ppiuzo' (coppia di bastoni di diversa lunghezza, di cui uno veniva
lanciato in aria e colpito dall'altro), o con giochi che svelano in controluce la loro origine rituale arcaica e iniziatica, come il 'gioco del
24
castello', in cui bisogna attraversare con degli ostacoli i vari stadi di
una struttura disegnata a terra per raggiungere un 'centro' e poi
uscirne, o come la sassaiola petriata'), una terribile battaglia di
pietre che si faceva tra ragazzi di rioni diversi, in cui la tradizione
gestiva e formalizzava anche la violenza e gli impulsi aggressivi.
Cercando nelle antiche usanze di Napoli si hanno notizie più precise
su tale battaglia: «la violenza ritualizzata si espresse, fino alla fine del
1800, in sfide periodiche che si facevano fra i lazzari' o popolani di
diversi quartieri, i quali si recavano ai campi dell'Arenaccia, dove
combattevano con pietre e bastoni, lasciandovi spesso dei morti. Il
combattimento rituale, detto con termine derivato dall'arabo
'Alla Guainella' (e che significa: Dio salvi il giusto), veniva incitato da
grida cantate di incomprensibile significato come Tupeapò', o `Alavò
alavò': incitazioni che rimasero nella tradizione degli scugnizzi che si
sfidavano ritualmente a tale gioco (fino ad epoca recente). Nel 1799,
i lazzad, addestrati a tali giochi, armati di pietre e muniti di
un'immagine della Madonna del Carmine sulla fronte, contrastarono
l'ingresso in Città allo stesso esercito di Championnet» 26. Una vivace
ricostruzione della vita popolare di Pomigliano d'Arco è data da
Giovanni Sgammato, membro per diversi anni del Gruppo Operaio,
nel suo libro Pummigliano ra 'e patane all'apparecchie 27, mentre una
notevole raccolta di attrezzi, utensili, e strumenti musicali del mondo
popolare dell'entroterra vesuviano è oggi esposta al Museo della
Civiltà Contadina di Somma Vesuviana. Naturalmente non si vuole
qui dare l'immagine nostalgica di un'area incontaminata e totalmente
avvolta da una primitiva aura fiabesca, ma soltanto rilevare che per
lungo tempo la modernità si è manifestata, per Pomigliano e in genere
per la comunità vesuviana, in maniera episodica, prevalentemente
legata all'immaginario del cinema americano, e in seguito della prima
canzonetta di massa, esplodendo in tutta la sua forza solo nei primi
anni '70. Allo stesso modo non sarebbe corretto magnificare la vita
delle comunità preindustriali del meridione italiano come paradisi di
libertà e di benessere spirituale: un simile atteggiamento (solitamente
accompagnato dalla più vieta retorica) è stato in genere proprio di chi,
per mantenere inalterati i propri margini di potere, ha sempre
beneficiato dell'esclusione delle classi popolari meridionali dalla
possibilità di essere soggetti attivi della propria storia,
dall'allargamento cioè delle comunità alla sfera della partecipazione
politica. Non idealizzazione del modello sociale comunitario, dunque, ma riconoscimento della sua rilevanza storica e riflessione cri-
25
suo aspetto. In tutte le società premoderne, infatti, il
zvc-penamento e le scelte dell'individuo erano sottoposte alle
dir
della moralità collettiva e, come abbiamo visto, a un rigido
oxievao sociale in un orizzonte ristretto che impediva la libertà
~naie. Proprio per questo, la modernità avrebbe potuto rappresentare una reale opportunità di emancipazione, di liberazione
dai vincoli morali e materiali che comprimono una società tradizionale, se avesse potuto realizzarsi in forma compiuta e razionale, e
non avesse mostrato invece per lo più il suo lato distruttivo e alienante come poi, qui come pressoché ovunque, è storicamente accaduto: «l'azione dello stato e del mercato, sottraendo le funzioni di
base alle comunità, centralizzando il potere politico, inglobando gli
individui in un sistema generale extralocale astratto, rompe le reti di
relazione, libera le persone dal controllo della comunità, ma le isola, le
priva di identificazione sociale e di quella solidarietà umana ed
economica che era prima loro garantita»28.
L'integrazione postbellica dell'Italia al mercato internazionale
marcò dunque un'accelerazione nel processo di accumulazione
capitalistica; l'adesione al patto atlantico, e quindi al modello di vita
americano, implicò l'accettazione di un'unica possibilità di sviluppo:
quello imposto dalla produzione in serie, dalla motorizzazione di
massa, dall'omogeneizzazione culturale. Il processo di dissoluzione
della dimensione comunitaria meridionale sotto l'assalto
dell'industrializzazione fordista non si arrestò con la semplice sostituzione dei prodotti di consumo. Esso sgretolò, per la sua stessa
natura pervasiva, la cosiddetta 'economia solidale', l'intero sottosistema di mutuo soccorso, di reciproca assistenza e solidarietà che i
ceti popolari, in Campania come in altre aree, avevano elaborato
prima della seconda rivoluzione industriale, sostituendola (almeno
ufficialmente) con la presenza dello stato. Il fordismo assume così
carattere totalizzante: «i grandi processi di verticalizzazione e di
burocratizzazione dell'impresa hanno ridotto alle procedure standardizzate e alle economie di scala della produzione industriale
ogni aspetto del vivere, ogni processo 'produttivo', a cominciare da
quelli attinenti alla 'riproduzione' stessa della forza-lavoro, alla elaborazione di beni e servizi per il consumo 'domestico' delle classi
subalterne, affidati fino allora ai meccanismi informali di un'economia comunitaria: alle dinamiche interne a un tipo di 'economia di
sussistenza a forte componente non monetaria' entro la quale,
appunto, avevano affondato le proprie radici i codici dell"economia
solidale'»29.
26
La storia dell'Alfasud, che come abbiamo rilevato ha coinciso
non casualmente per l'entroterra napoletano con la devitalizzazione
della comunità tradizionale e il passaggio deciso alla società dei
consumi, è spesso vista come esempio di miopia governativa e di
cronici ritardi storici, dí scarsa sensibilità padronale e di tipica
`infingardaggine' antiaziendale dell'operaio meridionale. In realtà,
le vicende della nascita e dello sviluppo di questa fabbrica, con tutti i
problemi e le difficoltà che essa ha sempre avuto a tutti i livelli,
sono perfettamente coerenti sia con i processi di accumulazione e
sviluppo capitalistico avvenuti nel nostro paese (e più in generale in
Europa) nel secondo dopoguerra, sia con il più classico effetto di
reazione negativa alla modernizzazione. Solo in questa prospettiva
appare comprensibile il tentativo, effettuato senza adeguata preparazione, di agganciare ad un progetto di sviluppo veloce una realtà
di subaltemità economica, di cultura contadina e comunitaria, dí
inadeguatezza infrastrutturale; una realtà che si portava (e si porta)
dietro un enorme fardello di resistenza alla trasformazione, di
povertà, di malgoverno locale e di politica clientelare di antica
memoria.
Il progetto di impiantare uno stabilimento automobilistico di
grandi dimensioni nel napoletano fu ideato nel 1966, nel quadro di
una riemergente competizione tra industria privata e industria di
stato. L'iniziativa fu presa ancora una volta dall'Iri (che attraverso la
Finmeccanica controllava l'Alfa Romeo), ufficialmente sulla base di
un'indagine di mercato che sembrava assicurare all'auto privata
una domanda superiore alla produzione allora esistente in Italia, e
parallelamente al ciclo economico espansivo che cominciava a
mostrarsi al nord. Il tutto si inquadrava nel piano `Asi ' (Aree di sviluppo industriale), istituito nel 1957 con la legge 634, un progetto
in parte frutto di quell'idea visionaria e futurista che allora si aveva
della modernizzazione: grandi trasformazioni sociali, spostamenti
della popolazione in base a logiche produttive, razionalizzazione
delle attività economiche, gigantismo delle strutture. A tutto ciò
contribuiva la posizione di gran parte della sinistra, che appoggiava
l'industrializzazione accelerata e vedeva in essa, mediante la creazione di nuclei sempre più consistenti di classe operaia, l'unica possibilità di superamento dei limiti della società contadina. Questa
linea er a coerente con il paradigma socialdemocratico
predominante in Europa nel novecento che ha auspicato da un
lato lo sviluppo produttivo di tipo industriale, dall'altro la necessità di correggere le distorsioni del capitalismo mediante la funzio27
ne 'regolatrice' dello stato. L'Alfasud e, più in generale, la grande
industria nel Mezzogiorno nacquero però anche e soprattutto per
altri motivi: come argine al crescente malcontento popolare di una
regione deprivata delle sue tradizionali attività economiche, e con le
industrie locali in crisi per l'invasione dei prodotti standardizzati
provenienti dalle fabbriche settentrionali; come punta avanzata dei
progetti di sviluppo dell'area interna lungo gli snodi autostradali e
di progressivo ridimensionamento delle attività della costa (lavorazione del corallo a Torre del Greco, cantieri navali di Castellammare di Stabia ecc.); come occasione di soddisfacimento, in termini
di reddito, della domanda di nuovi consumi dovuta alla nascente
omologazione culturale, e come opportunità per il grande capitale
di ulteriore espansione degli stessi grazie alla dilatazione del potere
d'acquisto causato dalla prevista occupazione di massa; come
risposta del governo centrale alla pressione dell'articolato e capillare
sistema dí potere politico locale, vera e propria intercapedine tra la
comunità locale e lo stato, da sempre dedito al controllo delle cabine
elettorali mediante la promessa di posti di lavoro. Tale apparato
interpretava, mediava e faceva pesare anche gli interessi e l'esigenza
di `riqualificazione' di ceti sociali economicamente egemoni,
precedentemente aggregati intorno a fenomeni come il laurismo e
lo scempio edilizio 30
L'Alfasud fu pensata quindi come pura appendice di centri di
potere esterni alla regione e senza nessun tentativo di integrazione
con l'economia campana. Questa dinamica è stata la logica conseguenza dei modi con i quali l'espansione neocapitalistica si è configurata nell'Italia postbellica: è la storia nota, ormai considerata quasi
'folldoristica' dagli osservatori internazionali, di uno sviluppo
affrettato, concentrato esclusivamente nelle regioni del nord, garantito da una parte dai dollari del plano Marshall, che miravano ad
accelerare una crescita liberista e ad evitare spostamenti a sinistra
dell'asse politico, e dall'altra dai finanziamenti che le consorterie di
istituti pubblici di credito come Mediobanca elargivano alle grandi
dinastie industriali lombarde e piemontesi?' Uno sviluppo squilibrato di questo tipo, al quale non si accompagnava naturalmente
nessun tipo di politica culturale, ha generato per tutta risposta una
depressione economica permanente nel Mezzogiorno, a cui si è
risposto per lungo tempo con nervose e improvvisate concessioni
di impianti industriali, le cosiddette 'cattedrali nel deserto', che fallivano sistematicamente nei loro intenti finendo per chiudere o, in
seguito, per essere rilevati da privati come è accaduto, ad esempio,
28
all'impianto siderurgico di Gioia Tauro, realizzato in Calabria in
risposta ai moti di Reggio del 1970 e solo di recente riattivato, previa privatizzazione, con funzioni di scalo merci.
Nel 1967, quindi, sull'onda dell'entusiasmo per un investimento che sembrava potesse radicalmente risolvere il destino di
stagnazione economica della Campania, e nonostante l'opposizione e
le pressioni della Fiat, i tecnici dell'Alfa Romeo visionarono una
serie di aree del napoletano: Giugliano, Acerra, Caivano. Fu scelta
infine Pomigliano d'Arco, nella direzione Napoli-Noia. La scelta,
che sembrava felice per il terreno pianeggiante e poco coltivato, si
rivelò invece sbagliata già dopo poco tempo: l'enorme flusso di
pendolari avrebbe contribuito a congestionare il traffico da e verso
Napoli e l'impianto avrebbe completato, insieme alla preesistente
Italsider, una soffocante manovra a tenaglia di grossi insediamenti
industriali ai lati della città. Una insufficiente rete infrastrutturale,
soprattutto nei trasporti, rese poi il raggiungimento della fabbrica un
vero incubo per i lavoratori che provenivano da altre province; a
tutto ciò è da aggiungere l'aumento dei prezzi delle abitazioni e
degli affitti, che contribuì non poco ad alterare il preesistente contesto sociale e, in seconda battuta, la ribadita subalternità del ruolo
delle donne nella comunità locale: sottratte all'agricoltura solo per
essere destinate al lavoro nero a domicilio, sottopagate e isolate le
une dalle altre senza nessuna prospettiva di vita al di fuori del
matrimonio32.
Lo stabilimento automobilistico di Pomigliano è stata forse la
più grande fabbrica costruita nel Mezzogiorno. Collegata con un
binario interno ad uno scalo merci della stazione di Acerra (e solo in
seguito ad una stazione della Circumvesuviana), dotata di un'enorme
pista di collaudo, nella sua fase più strettamente fordista seguiva (e
ancora segue) il ciclo classico di lavorazione dell'auto: presse per
modellare porte, cofani e tetti, reparto di lastroferratura per
l'assemblaggio delle varie parti che formano la 'scocca' (lo `scheletro'
della carrozzeria di un'automobile), verniciatura, sigillatura e
schiumatura, e, all'epoca, reparto di carrozzeria per ruote e sedili e
reparto di meccanica per il montaggio del motore 'Boxer'; nel
reparto di 'finizione' la prova idrica e, infine, il collaudo.
Fu chiara fin dall'inizio la natura 'acefala' dell'Alfasud, la sua
scarsa integrazione con la realtà circostante: gli uffici di direzione
dello stabilimento rimasero a Milano durante tutta la costruzione dei
capannoni e solo nel 1971, un anno prima dell'inizio della produzione, si insediarono in loco". La progettazione e la ricerca con29
tinuarono ad essere effettuate in Lombardia, i tecnici ed i quadri
dirigenziali stessi venivano dal nord (e talvolta persino da altri settori industriali dell'Iri), e ai locali fu riservato solo l'impiego di
qualche neolaureato oltreché, naturalmente, della grande massa di
manodopera dequalificata. La forza lavoro che andò a formare la
classe operaia dell'Alfasud era prevalentemente composta da agricoltori, da braccianti, e da proletari provenienti dal lavoro nero o
dalla disoccupazione permanente. Fatta eccezione per alcuni operai
con esperienze industriali di altro tipo (Manifatture Cotoniere
Meridionali, cantieri navali ecc.), si trattava quindi di una manodopera abituata a prestazioni lavorative di tutt'altra natura, saltuarie e
individualizzate, legate ai lavori della terra o al commercio ambulante, storicamente estranee ad ogni ipotesi di impiego regolarizzato" e per questo in totale antitesi con il modello sociale previsto e
praticato dal capitalismo fordista, che, per svilupparsi, vuole che il
lavoro salariato «possa essere classificato e repertoriato (non si possono attribuire dei diritti, anche modesti, se non a uno stato chiaramente identificabile, quale è permesso appunto dall'elaborazione
della nozione di popolazione attiva e dalla messa in disparte delle
molteplici forme di lavoro intermittente), fissato e stabilizzato (un
diritto come quello della pensione presuppone un lavoro continuo
sul lungo periodo), autonomizzato come una condizione autosufficiente (si smette di contare, per quanto riguarda la protezione, sulle
risorse domestiche e della solidarietà ravvicinata)»". All'inizio, e
ancora per alcuni anni, tutto ciò si tradusse chiaramente in una tragica differenza di 'ritmi', e moltissimi tra questi nuovi operai non
riuscirono ad abituarsi al lavoro di fabbrica, con i capiturno che
lamentavano l'assenteismo durante la stagione dei raccolti, o «gli
addetti linea che nei primi giorni di lavoro dormivano mentre i pezzi
scorrevano davanti ai loro occhi»36.
Ad ogni modo nel 1972 con l'«Alfasud», e poi con l'«Alfasud
Sprint», i primi due modelli costruiti a Pomigliano furono immessi
sul mercato. Lo slogan aziendale 'metti il Vesuvio nel motore' sembrava bene esprimere, in quegli anni, il clima di attesa che accompagnò la nascita della fabbrica, e le speranze ad esso connesse.
Mentre la Volvo o l'americana Chrysler tentavano nuove strade per costruire le automobili (tra l'altro si parlava già da tempo di
automazione) la produzione del nuovo stabilimento fu organizzata,
come già detto, secondo il più classico taylorismo, un sistema difficile da digerire per una manodopera in gran parte di cultura non
industriale. Così, mentre l'Iri si disinteressava dell' Alfasud, nel
30
quadro dei grandi sommovimenti sociali dell'epoca (autunno caldo,
crescita dei sindacati e della sinistra, statuto dei lavoratori, prodromi
del terrorismo) cominciarono gli scioperi a 'gatto selvaggio' (cioè
non annunciati), e a 'pelle di leopardo' (cioè senza regolarità), così
come cominciarono le proteste per la qualità dei servizi, in particolare per la mensa che lasciava molto a desiderare; fumi, vapori e
l'alto tasso di nocività causavano numerose malattie e dure critiche
per come l'azienda gestiva le visite mediche e reagiva alle assenze, in
uno stabilimento che in certi momenti superò i 15.000 lavoratori.
Fuori della fabbrica, intanto, imperversava la battaglia per le
assunzioni, da un lato sulla spinta delle lotte sociali, dall'altro tramite
la gestione clientelare e paternalistica dei notabili del potere locale,
specializzati nel manipolare ai loro fini i codici culturali comunitari
delle classi subalterne della zona (nonostante le promesse, solo una
parte degli operai impegnati nei cantieri di costruzione dello
stabilimento fu poi assunta stabilmente). A questo punto la vicenda
dell'Alfasud, e di riflesso quella del Gruppo Operaio di Pomigliano
d'Arco E Zezi, hanno incrociato il percorso del movimento napoletano dei Disoccupati Organizzati che, in quegli anni, come poi
vedremo, lottava per ottenere un posto di lavoro stabile e sicuro.
La grande fabbrica pomiglianese sembrava, così come l'Italsider di
Bagnoli, un approdo possibile per i senza lavoro e fu meta di picchetti per impedire gli straordinari: «la nostra aspirazione –e questo
dovrebbe essere scritto sui giornali – è di entrare nelle fabbriche, di
essere operai. Noi lottiamo per il diritto di essere operai»"; eppure
gli stessi Disoccupati organizzati, nel punto politico più alto della
loro protesta, avevano saputo esprimere una concezione alternativa
della produttività, sganciata sia dal puro assistenzialismo che dalla
cultura della fabbrica automobilistica: «non vogliamo fare dei lavori
che non servono a niente, vogliamo dei lavori che hanno uno
sbocco produttivo sociale: le scuole, le case popolari, gli ospedali,
queste cose qua. Vogliamo che gli investimenti straordinari siano
finalizzati alla costruzione di alcune opere sociali tipo la metropolitana, o l'allargamento del porto, anche se imbiancare le chiese per
far campare la famiglia lo facciamo, ma non è questo che vogliamo, lo
teniamo bene in mente»".
Sempre negli stessi anni una violenta campagna di stampa di
opinionisti di grido gettava fango sulla classe operaia del napoletano,
con stereotipi che rasentavano il razzismo, tra l'altro ignorando il
grande lavoro di socializzazione industriale che i quadri locali dei
partiti di sinistra e i sindacati stavano nel frattempo svolgendo.
31
Molto presto, insomma, l'Alfasud presentò le caratteristiche di una
classica impresa 'coloniale', con impianti che non funzionavano mai a
pieno ritmo, e fu presto abbandonata a se stessa. L'accumulo di
ingenti perdite (60 miliardi di deficit nel 1975) fu tra l'altro dovuto
alla contrazione del mercato automobilistico per l'aumento del
prezzo del petrolio negli anni 1973-74. Anche il progetto di espansione dell'area industriale per creare un indotto di decine di
migliaia di posti di lavoro, il cosiddetto Apomi (Alfa Pomigliano),
fu dimenticato nonostante fossero già stati espropriati i terreni per
la sua realizzazione.
Cominciò così una lunga stagione di decadenza e mentre il
sindacato lanciava, con una grande manifestazione a Roma di
migliaia di lavoratori, una battaglia per cercare un partner che desse
ossigeno alla fabbrica, i prepensionamenti e la cassa integrazione di
migliaia di operai nel 1981 testimoniavano una profonda crisi. Solo
nel 1983 la spinta per trovare un alleato ebbe esito attraverso
l'accordo con la giapponese Nissan per la produzione dell"Ama',
una vettura con design nipponico e motore Alfa Romeo. Nei pressi
di Avellino, a Pratola Serra, fu costruito un nuovo stabilimento con
quasi 1500 operai per costruire la scocca da assemblare a Pomigliano, ma l'esperimento durò poco: il modello a cui questa vettura era
ispirata, la 'Cherry', era già in produzione da anni e costava di
meno nella sua versione originale. Nel 1986 tra Arese e Napoli
l'Alfa Romeo aveva ormai accumulato perdite per più di 1200
miliardi di lire ed i suoi impianti erano sottoutilizzati per due terzi,
quando si seppe che la Ford era interessata a rilevarla per ristrutturarla e rilanciarla.
Comincia qui uno degli affari più controversi della storia
dell'Italia postbellica che riassumeremo in breve e che fu di fatto il
punto di partenza dell'era delle 'privatizzazioni', che si moltiplicheranno nel decennio successivo.
La Ford avrebbe significato per l'Alfa Romeo un rilancio senza pari: l'avrebbe pagata 96 milioni di dollari, con una quota azionaria da raddoppiare in tre anni, e si sarebbe impegnata ad allargare
la produzione ad oltre 400000 vetture (all'epoca ne venivano
assemblate 170000), portando l'espansione degli impianti alle loro
massime possibilità; ma, quando l'affare sembrava ormai cosa fatta,
la potente lobby della famiglia Agnelli reclamò per sé l'Alfa. In un
vertiginoso e serrato crescere di trattative, e sotto la pressione di
una campagna di stampa nazionalista e patriottarda, l'azienda torinese riuscì a spuntarla: gli impianti dell'Alfa furono svenduti dall'Iri
32
(allora guidata dal futuro presidente del consiglio Romano Prodi) e
dal governo Craxi per 1050 miliardi, una cifra certamente inferiore
al loro reale valore, e per di più da pagare a rate a partire dal 1993;
un nuovo modello, la futura 164, e l'intera rete commerciale Alfa
furono inseriti come 'bonus' nel pacco regalo che lo stato fece alla
Fiat secondo il noto assioma 'privatizzare i profitti e socializzare le
perdite'". Eppure gran parte della base operaia e del sindacato
avrebbe preferito la Ford, sicuramente più vantaggiosa dal punto di
vista salariale e dei ritmi produttivi. Con il suo tipico aplomb,
l'avvocato Agnelli dichiarò che la Fiat `si era annessa una provincia
debole' ma, diversificando la produzione in 'Fiat', 'Alfa' e 'Lancia',
gli Agnelli si garantirono di fatto la copertura dell'intera fascia di
mercato in regime pressoché monopolistico: un clamoroso passo
indietro, però, per un paese che in pochi anni sarebbe entrato nella
fase della globalizzazione economica.
Preso possesso dell'Alfa, ribattezzata Alfa Lancia e in seguito
Fiat Auto Pomigliano, il colosso torinese estese nella sua nuova
proprietà il clima di normalizzazione seguìto alla battaglia del
1980, quando, dopo la battaglia dei '35 giorni' e la 'marcia dei
quarantamila' colletti bianchi a Torino, si era praticamente estinta
la combattività operaia40 , in un periodo di profonda metamorfosi
tecnologica dell'azienda, con i robot che rendevano inutili negli
stabilimenti migliaia di dipendenti. 'Politica meritocratica', 'disponibilità totale per l'azienda', sono solo alcuni degli slogan della
`filosofiae, il nuovo abito mentale richiesto ai lavoratori dell'Alfa.
Il passaggio all'azienda torinese fu quindi vissuto, sia ad Arese che a
Pomigliano, come un vero trauma: nel 1982, ancora in gestione Iri,
un accordo sindacale aveva istituito i 'gruppi di produzione', un
rivoluzionario metodo di `umanizzazione' della catena di montaggio già tentato in Svezia nello stabilimento Volvo di Kalmar: si
trattava di frantumare la linearità e la meccanicità della catena
costituendo dei gruppi di operai che in pratica gestivano interi
pezzi della linea di montaggio, con la possibilità di muoversi avanti
e indietro, di svolgere mansioni diverse, di decidere tempi e
pause di lavoro. Un nuovo accordo del giugno '87 nella nuova
gestione Fiat, bocciato dagli operai di Pomigliano ma approvato
da quelli di Arese per uno scarto di 72 voti, reintrodusse la postazione fissa alla catena e regalò ad Agnelli e Romiti la possibilità di
accelerare i ritmi produttivi anche senza avere apportato innovazione tecnologica, superando così una norma contrattuale e del
codice civile fino ad allora in vigore41.
33
Ripristinata la parcellizzazione del lavoro, la Fiat adottò il
'Tmc' ('tempo movimenti collegati'), cioè un sistema di saturazioni al
100% ancora più duro del taylorismo, rinnovandolo poi come Tmc
2 e Tmc 3, portando le saturazioni al 120% nelle prime ore di
produzione per sfruttare la freschezza dell'operaio, e accorpando le
pause in un tempo unico ogni tot ore di lavoro (un sistema in seguito
venduto alla Renault e alla Magneti Marelli)42. Vennero poi costituite
a Giugliano, Casandrino e Casalnuovo, come già in Piemonte, le
famigerate Upa (Unità Produttive Accessoristiche) per la costruzione della componentistica (sedili, cablaggi, ecc.), decentrate e utilizzate come reparti 'confino' per operai politicizzati, cassintegrati
tornati in attività o, in misura maggiore, dipendenti che avevano
subìto danni fisici ed erano quindi inadatti al lavoro di fabbrica:
sono i lavoratori che l'azienda non vuole più tra i piedi nel suo nuovo
look scintillante ed efficientista, gente a cui vengono proposte le
dimissioni per una manciata di soldi, a cui viene resa la vita impossibile, spediti a lavorare lontano dalle proprie abitazioni, in posti
difficili da raggiungere. Si trattava in realtà di una riproposizione
aggiornata dei 'magazzini' degli anni '50, dove l'allora presidente
della Fiat Valletta spediva gli operai comunisti", veri e propri ghetti,
insomma, istituiti da un accordo del 1983 che il sindacato aveva in
origine firmato per 'reinserire quote di lavoratori in un ambiente
idoneo'. La ristrutturazione imposta dalla Fiat ha poi significato la
chiusura della 'meccanica', dove veniva costruito il famoso motore
'boxer', la costruzione del nuovo reparto verniciatura (1500 operai
in cassa integrazione per questo 'investimento'), e in seguito la
dismissione delle stesse Upa, vendute a terzi, che ha ridotto i posti
di lavoro in fabbrica alimentando tendenzialmente il circuito di un
subappalto domestico, precario, e difficilmente controllabile sul
piano dei diritti dei lavoratori.
Arriviamo così agli anni '90, e anche la restante parte dello
scenario industriale pomiglianese si trasforma nell'ormai avviata
stagione delle ristrutturazioni: l'Aerfer, già diventata Aeritalia negli
anni '70 per un riassetto proprietario delle Partecipazioni Statali,
prende il nome di Alenia dopo la fusione con la Selenia alla fine
degli anni '80 e taglia nel 1993 molti posti di lavoro; l'Alfa Romeo
che già nel 1981 era stata smembrata in ArVeco (veicoli commerciali
Alfa Romeo) e in ArAvio (settore Avio) mantiene separati i due
reparti e l'ArVeco diviene per qualche anno Somepra (Società
Meridionale Produzione Autoveicoli). La Somepra è poi inclusa
negli impianti venduti alla Fiat, trasformandosi in Sevel Campania
34
fino alla sua definitiva chiusura nel 1994 in seguito al decentramento, causa minor costo degli operai grazie a contratti di formazione
lavoro, della produzione del furgone `Ducato' in Val di Sangro
(parte del nucleo 'storico' dell'Arveco rimasto nella Somepra/Sevel è
stato poi reintegrato nell'ex Alfasud). Il reparto ArAvio (settore
Avio), che a suo tempo aveva anche avuto rapporti con l'Aeritalia e
che la Fiat non aveva rilevato, rimane sotto il controllo delle Partecipazioni Statali operando anch'esso delle riduzioni di personale
nel 1993. Recentemente poi, anche il gruppo ArAvio è stato ceduto
dalla Finmeccanica alla Fiat. Questa potente `snellimento', sommato
alla ristrutturazione dell'ex Alfasud, è costato al comprensorio
pomiglianese l'espulsione dal processo produttivo di migliaia di
lavoratori, una vera e propria deindustrializzazione.
Nel 1989, con la cosiddetta 'svolta di Marentino', Cesare
Romiti aveva intanto annunciato un ulteriore 'giro di vite' all'interno del mondo Fiat: era la campagna della 'qualità totale', dove
l'ambiguità della parola 'totale' evoca da sola sinistri fantasmi. Nella
logica del `just in time', la produzione sincronizzata sulle esigenze
contingenti del mercato, la Fiat varava, con generosi finanziamenti
pubblici, la fabbrica 'integrata' per l'era della globalizzazione economica, di cui lo stabilimento lucano di Melfi è la punta più avanzata. È una vera e propria rivoluzione produttiva in cui il modello
giapponese toyotista, basato sull'identificazione dei lavoratori con
l'azienda, è spinto agli estremi, radicalizzato, e, in definitiva, reinventato. La retorica ufficiale parla di 'partecipazione', di 'cogestione', di 'opportunità creativa', di 'assunzione di responsabilità': la
scelta ultratecnologica degli anni '80, che aveva fatto della Fiat una
delle fabbriche più all'avanguardia del mondo, non basta più. La
robotizzazione, l'automazione di interi reparti non garantiscono
ancora una totale elasticità per rispondere all'irrequietezza dei mercati: si riscopre il lavoro umano, snellito di molte unità ma di nuovo
utile se opportunamente impiegato. Non si opera più sui grandi
numeri, sulla cosiddetta economia di `scala', ma su piccole quantità:
meno auto in produzione ma da gestire e trattare individualmente,
perché le richieste del mercato si incentrano ora sempre più sugli
`optionals', sulla 'personalizzazione'. È richiesta quindi una sorta di
nuovo 'artigianato tecnologico', con tutto il bagaglio di cura, di
creatività, e, se vogliamo, di corporativismo, che il termine artigianato può richiamare alla mente. Tutta la produzione è organizzata
in maniera flessibile ed elastica, nessuno spreco è tollerabile, né in
termini di tempo, né di uomini, né di spazi; è la cosiddetta fabbrica
35
`snella', postfordista e postmodema, radicalmente in opposizione ai
giganteschi moloch del passato stile Mirafiori."
L'impianto industriale integrato deve perfettamente armonizzarsi con l'indotto, con i fornitori della componentistica, pena la
non ottimizzazione dei costi e delle risorse. Uno sciopero, delle
assenze prolungate, rischiano di far saltare un delicato e veloce
sistema di interconnessioni. Questo modello produttivo, complice la
nuova legislazione sui 'Contratti formazione lavoro', implica giocoforza la dissoluzione della classe operaia come soggetto definito e
riconosciuto (in omaggio alla retorica degli 'operai che non esistono
più'), fa aumentare la competizione tra i lavoratori, ridimensiona il
sindacato, introduce i 'circoli di qualità', gruppi di operai che, senza alcuna retribuzione, si incontrano con i capi per discutere strategie di miglioramento della qualità dei prodotti; contempla inoltre e
richiede adesione fisica ed emotiva senza remore, dove nessuna
mansione, nessun tempo è prevedibile e negoziabile ma tutto è
subordinato alle esigenze della committenza che, in tempo reale,
ordina e decide la produzione.
Questo modello di fabbrica, che ha permesso un aumento
enorme di produttività, è oggi il tipo di stabilimento in cui la Fiat
sta trasformando i suoi impianti, l'unico ritenuto capace di reggere
l'urto dei concorrenti e di garantirsi la sopravvivenza, quello che
l'azienda torinese sta costruendo anche in America latina (in Brasile,
in Argentina) o nel terzo mondo, alla ricerca di manodopera a basso
costo per la produzione dell'auto del futuro, la cosiddetta `world
car', sempre uguale tecnicamente ma personalizzata in base alla
destinazione, pronta per l'invasione di mercati in espansione come
quello asiatico. Eppure l'insediamento di Pomigliano, sebbene
potenziato e modernizzato dalla Fiat più di quello di Arese, non
segue questo destino: ancorata alla vecchia catena di montaggio,
con i suoi enormi capannoni, con i suoi tanti operai formati alla
vecchia scuola taylorista, l'Alfasud sembra tuttora lontana dalla
dimensione del postfordismo; nonostante la recente produzione del
modello di punta 'Alia 156', la fabbrica resta un'anomalia a rischio di
ulteriore ridimensionamento sia in termini di volumi produttivi sia
in termini di specificità, tecnologie e professionalità, in un territorio
meridionale deputato all'insediamento di fabbriche postmoderne
(Cassino, Termoli, Melfi) che mostrano il volto della Fiat del 2000.
Un ritardo 'culturale' quindi., per il quale sulla gigantesca struttura
pomiglianese si addensano le nere nubi dell'incertezza, nel timore
che la famiglia Agnelli possa alla lunga ulteriormente ridi36
mensionare o addirittura spegnere sia l'Alfa che l'ArAvio, in un
quadro di generale disboscamento industriale e di declino di
un'area che era stata progettata come la più grande realtà produttiva
dell'intero Mezzogiorno.
Tra masserie, cemento e lamiere si consuma tanto l'agonia di
una cultura contadina ricca e vitale, quanto lo sgretolamento di una
classe operaia che, pur nella sua recente e contraddittoria formazione, aveva fatto crescere il livello di consapevolezza e di maturazione
sociale dell'intera zona, ponendosi come interlocutore importante e
moderno verso autorità locali che invece quasi sempre hanno preferito modelli di gestione clientelare e mafiosa del potere. Non a
caso, forse, a Pomigliano d'Arco la camorra è arrivata molto tardi
rispetto ad altri comuni del vesuviano45.
In tutto questo, il Gruppo Operaio E Zezi ha rappresentato
un potente serbatoio di quella che un tempo si sarebbe definita
`soggettività antagonista', un collettore di energie e di idee, un laboratorio, forse unico in Italia, di creazione operaia sui precedenti
modelli espressivi contadini, un tentativo riuscito di reintegrazione
culturale in una situazione potenzialmente desolante, fatta di giornalini e gite aziendali, medaglie, clubs dopolavoristici e associazioni
ricreative ed assistenziali, appendici patetiche della moderna cultura
industriale. Ricorda Antonio De Falco, dipendente dell'Alenia e tra i
fondatori del G.O.: «Il Gruppo è nato come uno sfogo alla nostra
situazione; il nostro svago era solo il bar. Prima ci vedevamo
all"angolo', un muretto di Pomigliano dove si parlava solo di calcio. Non che il calcio non ci piacesse, ma ci sentivamo bloccati.
Con il Gruppo la nostra giornata divenne più piena, perché si provava quasi tutti i giorni, fino a mezzanotte».
Nel suo libro sull'antropologia della `surmodernità'46 , Marc
Augé individua una nuova frontiera per gli studi antropologici: la
solitudine dell'uomo contemporaneo nei `nonluoghi' che la società
postindustriale ha creato, caselli autostradali, supermarket, grandi
alberghi, aeroporti, banche automatiche e via dicendo. In questi
nonluoghi si vive una relazione contrattuale con entità meccaniche
ed elettroniche in un'esperienza di anonimato totalmente nuova
nella storia dell'uomo. L'opposto del nonluogo è ovviamente il 'luogo', terreno privilegiato dell'indagine etnografica, spazio di relazioni
identificabili e di riconoscibilità simbolica.
Pomigliano d'Arco e la zona circostante sono state, fino a
tempi recenti come abbiamo visto, aree di radicata cultura contadi37
na e comunitaria, una cultura fortemente 'localizzata' che ha
cominciato a disgregarsi con l'avvento delle grandi fabbriche. La
storia degli insediamenti industriali nell'entroterra napoletano è stata
a lungo una storia di reciproca diffidenza anche se, come abbiamo
visto, ci sono stati momenti di integrazione tra comunità locale e
fabbriche (dopoguerra, scioperi del '63, mobilitazioni negli anni '90):
da un lato, una classe operaia in formazione a lungo classificata
come incapace e fannullona; dall'altro, stabilimenti percepiti
come estraneità minacciose e inquietanti, sia per le procedure del
lavoro industriale, sia per il permanente pericolo delle ristrutturazioni e della conseguente perdita del 'posto'. Ma ad un livello più
profondo queste angosce rimandano anche a qualcos'altro: Pomigliano è stato già crocevia di antico e moderno che si sono sovrapposti e fusi in maniera indistinta ed asistematica, in una mutazione
avvenuta in pochi decenni ed a ritmi accelerati. Le fabbriche sono
ancora oggi un corpo estraneo perché sono inserite in uno scenario
modificato in modo violento ed irrazionale, in cui tutti gli antichi
punti di riferimento sono saltati all'improvviso, rimanendo solo
come frammenti da ricomporre e reinventare, tramite la memoria
degli anziani che ancora tesse la tela dei ricordi e trasmette brandelli
di vita tradizionale. Così Augé descrive il 'luogo' come 'luogo storico': «lo è nella misura in cui coloro che vi vivono possono riconoscervi dei riferimenti che non devono essere oggetti di conoscenza.
(...) storico nella esatta misura in cui sfugge alla storia come scienza. (...) in cui un calendario preciso risveglia e riattiva a intervalli
regolari le potenze tutelari»". Viceversa «uno spazio che non può
definirsi né identitario né relazionale né storico definirà un nonluogo»48.
Il rischio è allora che Pomigliano e il suo comprensorio possano, con la loro incipiente smobilitazione industriale e con il definitivo spegnersi della tradizione popolare, trasformarsi, in un futuro
non lontano, in un gigantesco, metaforico `nonluogo'; uno spazio
anonimo in cui una comunità, deprivata della sua identità contadina
prima e industriale poi, venga condannata a vivere in un sistema di
relazioni artificiali e reificate, un sistema tanto più vissuto come
ostile quanto più tenace è la rete della memoria, ancora assicurata
da una tradizione in agonia ma non del tutto estinta. È questa
l'impressione che si ricava frequentando l'hinterland napoletano e
conoscendone gli abitanti. Queste zone rischiano di diventare un
`nonluogo' perché rischiano di essere percepite come 'altro da sé'
dove, per esempio, la contrattualità solitaria della surmodemità si
38
scontra con un'identità collettiva ancora in parte legata ad un vissuto
di condivisione non contrattata, di mutuo sostegno comunitario, che
già ha trovato difficoltà ad accettare un moderno sistema di
relazioni sociali imposto senza mediazioni.
E allora, in questo contesto, la via d'uscita da questo rischio
incombente è sempre più quella, come ha mostrato l'esperienza del
Gruppo Operaio E Zezi, di riannodare alla contemporaneità, in
maniera critica e consapevole, i fili della cultura tradizionale nei
suoi aspetti più vitalistíci e liberatori: una cultura da vivere non con
consolatoria nostalgia, ma come opportunità produttrice di senso e
di identità condivisa, di scavo interiore e di possibilità relazionale;
una tradizione popolare reinventata e rifunzionalizzata in maniera
permanente, che possa ancora veicolare il suo codice linguistico
arcaico e non omologabile, composito e al tempo stesso irriducibile.
Una mano tesa verso altri protagonismi, verso altre soggettività
negate, verso altre identità compresse; per connettere, allargare ed
espandere l'area, per ora disarticolata, di una possibile opposizione
culturale al potere impersonale e nullificante della 'razionalità'
postmoderna, che gli invisibili burattinai del Nuovo Ordine Mondiale vogliono a tutti i costi imporci.
39
NOTE
' Per questo rimandiamo principalmente a CAMPANIA 1990.
Cfr. GRAMSCI 1977, Osservazioni sul folclore.
Cfr. Il folklore progressivo emiliano in «Il De Martino» 5-6/96. Per una sistematizzazione terminologica cfr. l'ancora stimolante CIRESE 1996 (la prima edizione è
del 1971).
Cfr. l'ABIETTI 1995.
Ibidem, p. 65.
6 Cfr. GRIBAUDI 1980, p. 30.
Ibidem.
Cfr. i lavori di REVELLI in bibliografia.
9 Per questi argomenti cfr. ALLUM 1975, BECCHI COLLIDA 1984, LATOUCIIE 1992
e, in forma narrativa, BrimoN-re 1997. Sulle trasformazioni dell'economia subalterna
napoletana, cfr. il saggio Mercato del lavoro e occupazione nel secondo dopoguerra di P.
Cotugno, E. Pugliese e E. Rebeggiani in CAMPANIA 1990.
'° Cfr. GRIBAUDI 1989, pp. 88-89.
" Cfr. DE MARTINO 1973.
12 Pur nella consapevolezza delle differenze tra area urbana ed area rurale, parleremo indistintamente di cultura 'napoletana' e 'campana' quando ci riferiremo alla
cultura popolare arcaica di matrice rituale (sia cittadina che extra cittadina). Questo ci
consentirà di mantenerne una visione unitaria come sistema 'magico-protettivo' premoderno, di cui alcuni elementi ancora permangono anche nei ceti agiati.
" Cfr. tutti i lavori di DE SIMONE in bibliografia.
" Cfr. GEERTZ 1987, p. 175.
13 Cfr., oltre alle prudenti posizioni di DE MARTINO, DE SIMONE 1974 e inoltre
DI NOLA 1976. Per i rapporti fra cultura popolare napoletana e controriforma cfr.
NIOLA 1996 e 1997.
16 Cfr., ad esempio, GALASSO 1998 che banalizza e riduce la complessità
dell'intera problematica: «(...) Leggere la vita religiosa del mezzogiorno moderno (...) e
vedervi primeggiare – e, per di più nel rapporto tra gerarchie e fedeli – tensioni
come quelle tra 'cristiano' e 'pagano' vuol dire perdere di vista l'essenziale, le c aratteristiche di fondo e fare un elemento centrale di ciò che è marginale» (p. 112). L'edi zione originale è del 1982. Interessante invece l'interpretazione del rapporto tra festa e
modernità che propone ENRIQUE GIL CALVO nel saggio La dissoluzione festiva, in
L'utopia di Dioniso 1997. Studi più articolati e sistematici che ampliano il quadro di
una religiosità meridionale oltre il paradigma pagano -cristiano sono stati svolti a partire
dagli anni '80. Cfr. ad esempio, La religiosità nel Mezzogiorno 1998.
17 Cfr., oltre a tutte le opere di DE SIMONE, DI MAURO 1982 e Di MAURO 1986.
18 Cfr. tutte le sue opere in bibliografia ed anche, soprattutto per un'analisi delle
forme musicali e coreutiche della tradizione campana, DE SIMONE 1974, 1977, 1981; per i
rit uali popolari si veda anche ToscHt 1976.
19 Per tutto ciò cfr. DE SIMONE 1981
2° Cfr. RUCCELLO 1978 e DE SIMONE 1998.
2 ' Si intende per 'saturazione' il tempo 'libero' che l'operaio ha nell'effettuare
un movimento alla catena di montaggio; se per montare u n pezzo ci vogliono, poniamo, ottanta secondi, una 'saturazione' dell'ottanta per cento darà all'operaio cento
secondi per eseguire quel movimento prima di passare al pezzo successivo; le satura zioni fanno parte delle trattative sindacali in quanto sono considerate fondamentali
per la salvaguardia dell'equilibrio psicofisico del lavoratore.
22 accorato e partecipe racconto di questa vertenza è nelle opere di C. Aliberti in bibliografia, alle quali si rimanda anche per una dettagliata descrizione degli
avvenimenti storici di Pomigliano d'Arco.
40
23 Si vedano a questo proposito le interviste in coda al volume.
" Si tratta, come è evidente, di ciò che la letteratura etno -antropologica definisce 'Charivari'. Una prima definizione si trova già nell'«Encyclopedie» di Diderot e
D'Alembert. Cfr., tra gli altri, LEVI STRAUSS 1980, pp. 379-382 e ancora ENRIQUE GIL
CALVO, op. cit. p. 142.
" Cfr. LEONE 1994, p. 256. I 'fondaci' (dall'arabo 'funduq') sono i cortili con i
terranei usati come abitazioni dai ceti popolari.
26 Cfr. DE SIMONE, 1982, p. 169.
27
Cfr. bibliografia.
28
Cfr. GRIBAUDI , 1980, p. 89-90.
28
Cfr. Reveili 1997, p. 164.
3
° Si veda il saggio di M. D'ANTONIO in CAMPANIA 1990 e, naturalmente, ALLUM
1975 e GRIBAUDI 1980. Per un'analisi in parte di tipo diverso, legata alla stagione operaista, cfr. SERAFINI-BRAVO 1972, pp. 74-75.
" Cfr. FRIEDMAN 1988.
32
Un'approfondita disamina del lavoro nero a Napoli e a Pomigliano d'Arco
negli anni '70 si trova nell'articolo di ROSARIA CETRO II lavoro a domicilio a Pomigliano
d'Arco: condizione sociale e lavorativa della donna in un polo di sviluppo (in «Inchiesta»
maggio-giugno 1978) e, sempre della stessa autrice, in COLLIDA 1984 (il titolo del saggio è 'II lavoro a domicilio').
" Si veda per tutto ciò VITIELLO 1973.
34
Proprio la struttura sociale di Napoli viene citata da Gramsci, in Americanismo e fordismo, come esempio di realtà estranea al lavoro moderno. Cfr. Bibliografia.
" R. CASTEL, Les Métamorphoses de la question sociale. Une chronique du salariai, Fayard, Paris 1995, p. 337. Citato in REVELLI 1997, p. 82.
36
Riportato in SALERNI 1980, p. 21.
" In Comitato Disoccupati organizzati 1976, p. 112.
38
In RAMONDINO 1977, p. 61.
38
Versione ovviamente diversa quella di Cesare Romiti, allora amministratore
delegato della Fiat e stratega del gruppo torinese, cfr. ROMITI 1988. Vicino, su questo
come su altri argomenti, alle posizioni della Fiat anche SANTAGOSTINO 1993.
-") Cfr. REVELLI 1989
"Cfr. LERNER 1988 p. 155.
" I 'Tmc' inseguono il lavoratore sul terreno del tempo: se l'operaio automatizza una serie di movimenti e la esegue in un tempo minore del previsto, il Tmc 'riduce'
lo spazio di esecuzione del gesto per guadagnare anche un solo secondo di produzione.
43 Cfr. ancora LERNER 1988.
" 4 Per tutte queste tematiche cfr. tutti i lavori di Revelli in bibliografia, e CERRUTIRIESER 1991. Tesi opposte a quelle di Revelli, in TRENTIN 1994. Un racconto crudo e
disincantato sulle illusioni e le mistificazioni della fabbrica integrata è quello dell'ex
operaio Donato Esposto, in ESPOSTO 1997.
" Sulla forte presenza odierna della malavita organizzata e sul generale degrado
dell'intero contesto pomiglianese, cfr. il recente articolo di E. DEAGLIO Gli operai non
vanno in paradiso sulla rivista «Diario della settimana», settembre 1998.
46 Cfr. AucC, 1993.
4° Cfr. Auct, 1993, p. 53.
48 Ibidem, p. 73.
41
II. GLI ANNI DEL REVIVAL
«Sono un clandestino sull'autobus della musica,
ma fino a che sale il controllore io non scendo.»
Salvatore lasevoli
(dieci anni con il Gruppo Operaio)
L'interesse per la musica etnica nasce in Italia negli anni '60,
sull'onda del revival della musica folk inglese e americana. Negli
Stati Uniti già da tempo Alan Lomax era attivo nella registrazione
di canti popolari e non solo americani; Woody Guthrie e Pete Seeger avevano scritto o rielaborato numerosissime canzoni operaie e
proletarie, mettendole al servizio delle più disparate cause politiche e
sociali; in Gran Bretagna Ewan MacColl aveva lanciato la riscoperta
delle ballate tradizionali e lavorava da tempo all'elaborazione di una
nuova canzone politica all'interno del circuito dei folk clubs,
orientando così in maniera definitiva il movimento in una direzione
decisamente antagonista'.
In Italia il primo tentativo di seguire questa linea fu quello del
gruppo del Nuovo Canzoniere Italiano, che faceva capo all'etnomusicologo Roberto Leydi. Già i Cantacronache a Torino, in esplicita polemica con l'inossidabile industria della canzonetta italiana,
avevano tentato dí veicolare contenuti 'popolari' all'interno delle
proprie composizioni, ma il loro lavoro era di fatto totalmente inserito in stilemi sicuramente non appartenenti alle classi subalterne,
rifacendosi esplicitamente alla grande canzone d'autore d'oltralpe e
segnatamente al repertorio di Georges Brassens e del binomio Kurt
Weill/Bertolt Brecht. Il gruppo di Leydi si propose invece il recupero critico della musica dei ceti popolari tramite la tecnica del
`ricalco', ossia dello studio e della riproduzione fedele dei caratteri
stilistici della musica di tradizione orale, caratteri di cui si avvertiva
finalmente la diversità e l'autonomia rispetto al canto ed alla musica
di estrazione colta, e che si cercava di far risaltare proprio con esecuzioni che li rispettassero il più possibile.
La Campania, tuttavia, era stata soltanto lambita dalle ricerche etnomusicologiche di Leydi, e ancor prima da quelle di Alan
Lomax e di Diego Carpitella, e a ciò aveva presumibilmente contri43
buito una percezione distorta del fenomeno della canzone napoletana, che sembrava allora integrare e quindi esprimere il folklore
della zona (magari attraverso tammurriate 'nere'). Lo stesso Ernesto
de Martino, con il quale Carpitella aveva collaborato, nelle sue
grandi ricerche storico-religiose aveva privilegiato la Puglia e la
Basilicata, riportando alla luce tarantelle e lamenti funebri funzionali
a riti arcaici a quel tempo, gli anni '50/60, ancora conservati'.
La prima grande esplorazione nell'area napoletana fu effettuata, tra gli anni '60 e i '70, da Roberto De Simone, musicista di estrazione colta ma anche musicologo, compositore e regista teatrale.
Lavorando sul campo e in biblioteca De Simone aveva reperito,
scavalcando la grande tradizione della canzone napoletana classica,
una notevole quantità di materiale musicale (sia scritto che tramandato oralmente) dalle insospettate potenzialità ritmiche e melodi che.
Unitamente a ciò, emergeva un corpus di testi che nulla aveva a che
vedere con le tematiche del belcanto napoletano, ma che rimandava
invece ai miti ed ai riti del mondo popolare meridionale. De Simone,
in compagnia dell'antropologa Annabella Rossi e di altri
collaboratori, aveva poi allargato l'indagine all'intera dimensione
folklorica: partito da de Martino, ne aveva sviluppato le componenti
'irrazionaliste' con un interesse particolare per le strutture arcaiche
presenti nella cultura napoletana tradizionale, rifacendosi soprattutto
a Jung, Eliade ed alla scuola fenomenologica: De Simone ricercava la
cultura etnica nella sua integrità, nella sua dimensione rituale, nella
sua funzionalità ai modi di vita contadini tanto che, nel 1978,
considerava la tradizione «ancora al suo `zenith', una tradizione
'viva' in tutti i sensi» 3 . L'industrializzazione della regione, che
proprio in quegli anni stava alterando definitivamente la fisionomia
della Campania, non aveva trovato quindi spazio nei suoi scritti del
periodo, e la possibilità che il canto popolare potesse fondersi con il
mondo della fabbrica non sembrava interessarlo: «Del resto la
cultura popolare del sud si differenzia dalle culture popolari dove
l'industria, la fabbrica, gli operai, hanno sviluppato modelli
espressivi contestativi ma privi di ritualità. Un approccio alla tradizione su presupposti in parte junghiani mi sembrava più congeniale
alla natura simbolica del sogno, dello stesso tessuto rnitico»4 . Egli
aveva inoltre elaborato un modo diverso di riproposta del canto
popolare, non più basato sul ricalco ma frutto di una reinterpretazione 'estemporanea' del materiale musicale all'interno delle strutture
ritmiche, melodiche ed armoniche della musica popolare. Attraverso
l'uso di strumenti non tradizionali come la chitarra e
44
soprattutto attraverso la versatilità delle voci dei componenti della
Nuova Compagnia di Canto Popolare (Nccp), il gruppo tramite il
quale vennero diffusi all'epoca gli esiti di queste ricerche e di cui
De Simone era direttore artistico, avveniva la comunicazione, il
punto di contatto con un pubblico urbano e assolutamente non
abituato a timbriche e sonorità aspre come quelle del folklore originale'.
De Simone aveva poi lavorato molto sull'aspetto 'fonico' della
musica etnica (un aspetto sul quale torneremo), distanziandosi quindi
in maniera netta dai consueti modi di rivisitare il canto popolare, fino
ad allora basati sulla riduzione della parola al 'contenuto', e
restituendolo finalmente alla sua più piena e reale efficacia comunicativa: «In quegli anni 'folk' era una parola molto vaga, specialmente
negli ambienti studenteschi ed universitari, insomma ci si rapportava
subito al 'Ci ragiono e canto', uno dei primi tentativi effettuati negli
anni '60 di dar vita ad uno spettacolo teatrale basato sulle ricerche
sul folklore, per la regia di Dario Fo. Tale tipo di revival derivava
dalla scuola inglese e da quella americana di Lomax. Io invece
consigliai a quei giovani napoletani (la Nccp, n.d.r.) una riproposta
musicale che non pretendesse assolutamente di riportare 'fedelmente'
una cultura popolare, essendo mia convinzione che la fedeltà a tale
cultura non può mantenersi con il 'ricalcare' un canto, quanto con il
ricompome uno spirito, un'immagine».611musicologo napoletano
aveva poi stilizzato le strutture formali dei canti etnici e
popolareggianti dilatandole e comprimendole, facendole interagire
tra dí loro mediante l'utilizzazione di tecniche compositive sia colte
che extracolte, e producendo alla fine un 'sound' con il marchio
indelebile del suo ideatore che avrebbe influenzato enormemente
moltissimi musicisti del revival, e non solo campani, fino ad oggi.
Il Gruppo Operaio di Pomigliano d'Arco E Zezi si forma nel
1974, nel clima del folk revival napoletano e a ridosso della Nuova
Compagnia di Canto Popolare, per tentare un recupero della tradizione popolare non mediato da contaminazioni colte, e un uso politico
di questa cultura in linea con il percorso originario del folk revival
italiano, portato su una strada diversa dal successo della Nccp di De
Simone. La storia del Gruppo Operaio si sviluppa quindi per qualche anno parallelamente a quella della Nuova Compagnia, con essa
spesso si intreccia e ad essa talvolta polemicamente si oppone.
E Zezi nascono come aggregazione di operai, disoccupati e
militanti di sinistra per dar voce ad un collettivo politico-artistico
che non esaurisca nello spettacolo la sua funzione, ma che sia
45
espressione di classe e motore di iniziative sociali, catalizzando
l'energia creativa non solo di operai e braccianti, ma anche di soggetti sociali come studenti, insegnanti, artigiani e chiunque desideri
sentirsi veicolo di trasformazione. Tutto ciò in un periodo di grande
fermento nelle piazze napoletane (comitati di quartiere, Disoccupati
Organizzati, pratica dell'autoriduzione delle bollette Enel, ecc.) e
nell'ambiente musicale (esplosione del cosiddetto `Neapolitan
power', il movimento musicale sospeso fra le tradizioni musicali
della città e le suggestioni della musica d'oltreoceano, con Edoardo
Bennato, Alan Sorrenti, Toni Esposito, Napoli Centrale ecc.): i Zezi
volevano far entrare nel canto di ispirazione contadina gli avvenimenti del quotidiano, la 'storia', lì dove De Simone cercava invece
la `metastoria', la temporanea e simbolica 'fuoriuscita' dal quotidiano, che nel canto etnico campano nel momento rituale si ritrova'.
Con questa impostazione, ovviamente di scarso potere commerciale, in oltre venti anni di attività hanno circolato nel Gruppo
Operaio più di centoventi persone, sono stati prodotti dischi e
video, sono stati effettuati centinaia di concerti in Italia e all'estero
e interventi in scioperi, cortei, manifestazioni.
Successivamente compariranno nel folk revival campano altri
gruppi musicali, talvolta nati da scissioni dello stesso stesso G.O.
(come il Collettivo Operaio Nacchere Rosse o i Rarecanova) ma in
genere destinati a vita più effimera (come il Gruppo folk d'Asilia, lo
Gliuommero Popolare e gli stessi Rarecanova), per tentare percorsi
simili a quello dei Zezi o molto diversi. In questi ultimi la protesta,
anche se modulata su un tessuto musicale spesso di grande
suggestione, viene da posizioni diametralmente opposte, come per
Musicanova, il gruppo guidato da Eugenio Bennato e Carlo
D'Angiò (anch'essi ex Nccp). Tralasciamo ovviamente in questa
sede di trattare gli ulteriori sviluppi che il folk revival ebbe in chiave
rock, folk rock, ecc.
Fin dal suo apparire, malgrado il carattere semiprofessionale
e a tratti quasi dopolavoristico, il Gruppo Operaio venne accolto
sia dalla critica che dal pubblico con notevole interesse. Fu compresa la specificità di una riappropriazione culturale: i tempi erano
maturi perché i materiali della tradizione popolare non fossero più
manipolati esclusivamente da studiosi di estrazione colta, ma potessero essere utilizzati «dal basso», e perché si potesse tentare anche
in Campania e nel sud un'operazione di contaminazione di canto
contadino e di canzone industriale, come pure aveva fatto Ewan
MacColl in Gran Bretagna, e come del resto aveva già prospettato
46
Ernesto de Martino nei suoi celebri articoli sul `folklore progressivo'8. Si era insomma da tempo sviluppata una sens ibilità comune
tra operatori anche lontani tra di loro, per lavorare sulla attualizzazione spontanea della tradizione popolare, legata, da parte degli
stessi esecutori popolari, a concreti momenti di lotta sociale e politica.
Il nome del gruppo viene dai «lezi», attori improvvisati degli
anni '50, che giravano per i paesi vesuviani rappresentando la
«Canzone di Zeza», di cui parleremo tra breve. Il Gruppo Operaio si
forma dunque a Pomigliano d'Arco, in una `casarella' in via Carmine
Guadagni, così affettuosamente detta perché in paese locali di questo
tipo venivano presi in affitto a pochi soldi per incontrarsi, discutere
e suonare assieme. Prevalentemente formato da proletari
provenienti dal mondo popolare e forzatamente inseriti nel contesto
industriale che abbiamo descritto, E Zezi si configurano subito
come 'collettivo', come gruppo in cui le scelte, artistiche o politiche
che siano, sono decise, almeno per questi anni, collettivamente
(anche in questo in contrasto con il supposto verticismo della
Nccp). Il nucleo di base comprende, tra gli altri, Pasquale Bernile,
Antonio De Falco (`cemmenera'), Tonino Esposito
stoc),
Pasquale Terracciano Pissetto), tutti all'epoca poco più che ventenni. Il gruppo viene fin dagli inizi raccordato da Angelo De Falco,
scenografo, appartenente alla fascia degli operatori di base della
sinistra e già collaboratore della Nuova Compagnia.
È stato spesso scritto che nel caso dei Zezi non si ponevano
problemi di approccio al materiale popolare, in quanto gli esecutori
erano anche portatori di cultura etnica. Questo è vero solo in parte:
alcuni dei membri della prima formazione erano sicuramente
impermeabili ad ogni forma di espressione non tradizionale, ma
altri avevano anche avuto modo di orecchiare la musica leggera
dell'epoca, o avevano avuto esperienze con la canzone napoletana
esibendosi alle feste di matrimonio, vera e propria palestra per tanti
musicisti partenopei che hanno poi preso le più diverse strade. De
Falco, lavorando con la Nuova Compagnia di De Simone, aveva
acquisito una certa consapevolezza per quanto riguardava lo stile, sia
musicale che teatrale, della autentica cultura di tradizione orale; era
lui, quindi, a sorvegliare che i canti della tradizione, pur alterati dalle
novità che il gruppo apportava, non scadessero nell'ammiccamento,
in quella deprecabile napoletanità da strapaese che, nonostante anni
di battaglia culturale da parte di tanti operatori, continua tuttora a
dilagare sugli schermi televisivi. Si deve ancora a lui la
47
trasformazione di un insieme di persone, che all'epoca cominciava
appena a suonare musica popolare sulla scia del successo della
Nccp, in un gruppo politicamente motivato ed orientato.
E Zezi si muovono subito in una dimensione militante, quasi
che la forza tellurica e l'energia dionisiaca della tradizione campana, una volta imbrigliata e costretta nei ritmi della fabbrica, non
potesse che riesplodere in spinta rivoluzionaria. Il linguaggio della
cultura popolare, recuperato anche nel suo codice gestuale e prossemico, è parte inscindibile di una proposta spettacolare, ma non è
sufficiente: l'esigenza di denuncia sociale della propria condizione
spinge il gruppo ad abbracciare la canzone politica, le forme del
teatro di guerriglia e dell' agit-prop, gli slogan della piazza.
La prima operazione del Gruppo Operaio è il recupero della
`Canzone di Zeza', una rappresentazione teatrale popolare dell'area
campana che a Pomigliano era scomparsà dal 1956. La Canzone di
Zeza è un rituale di carnevale un tempo diffuso in tutta la regione e
oggi prevalentemente localizzato nell'avellinese (Bellizzi Irpino,
Cesinali, Mercogliano), che si rappresenta nel periodo intorno al
martedì grasso; essendo di breve durata viene ripetuto diverse volte
nella stessa giornata tra le strade ed i cortili. La `Zeza' è un contrasto
teatrale cantato, con accompagnamento di banda musicale, tra
Pulcinella (che esibisce in questa rappresentazione alcuni fra i suoi
tratti più significativi di maschera arcaica) e sua moglie Zeza: il primo vuole impedire alla loro figlia Vincenzella (o Tolla) di sposare
Don Nicola, uno studente calabrese che la corteggia. Zeza cerca
invece di favorire la figlia e alla fine lo studente spara tra le gambe di
Pulcinella che acconsente quindi al matrimonio. Si tratta, molto
probabilmente, di un'azione derivata da rituali di fertilità, che simboleggia il passaggio dall'anno vecchio all'anno nuovo. La Canzone
di Zeza è recitata tradizionalmente da soli uomini e, oltre ad essere
molto spettacolare, evidenzia segnali rituali di notevole interesse
che possono prestarsi ad una articolata lettura antropologica 9. Nella
versione pomiglianese è da rilevare l'inserimento di un personaggio
estraneo alle rappresentazioni di altre zone, l'abate Sarchiapone
(nome probabilmente mutuato da una maschera che compare
nell'altra importante rappresentazione di teatro popolare campano,
`La Cantata dei Pastori'). Rispetto alla `Zeza' riproposta dalla Nccp e
caratterizzata da grande eleganza formale oltre che da un ritmo
accelerato, il Gruppo Operaio accentua i tratti 'bassi', i lati più
indigesti ed osceni (la maschera di Pulcinella ha per esempio tra le
gambe il `turcituro', un lungo cordone rigido che allude in maniera
48
evidente al fallo, così come il Don Nicola indossa una cravatta con i
numeri 6, 16 e 29, che nella 'smorfia' napoletana indicano rispettivamente l'organo femminile, il deretano e il membro maschile9,
difficili da digerire per un pubblico non popolare. La Zeza viene
riproposta nel carnevale pomiglianese e diventa in seguito parte
integrante degli spettacoli del gruppo. Un'altra rappresentazione
popolare che verrà riproposta è quella dei 'Dodici Mesi'. Si tratta di
una sorta di almanacco drammatizzato, anch'esso come la Zeza diffuso un tempo in tutta la regione e la cui presenza è oggi molto
ridotta: dodici attori più uno, `Marcusalemme' (Capodanno), sempre
di sesso maschile", mettono in scena le caratteristiche del mese; la
rappresentazione forse più interessante si svolgeva fino a qualche
anno fa ad Olevano sul Tusciano, a sud di Salerno, con l'uso di
maschere e di muli. Anche i 'Mesi' vengono replicati più volte in
una giornata.
Il circuito degli inizi è quello classico: feste de l'Unità, circoli
Arci, ma anche contesti antagonistici gestiti da organizzazioni della
Nuova Sinistra o festival importanti come la Biennale di Venezia
(1975), il 12° Festival Populaire de Martigues, in Francia (1976), o
l'esibizione alla Conway Hall di Londra (1977), dove i Zezi ottengono sempre lusinghieri riconoscimenti dal pubblico e dalla stampa
locale. Nel settembre del 1978 il Gruppo Operaio partecipa, inoltre,
davanti ai cancelli della Fiat di Mirafiori alla 'festa della
mezz'ora', celebrazione della riduzione dell'orario di lavoro appena
entrata in vigore.
E Zezi puntano subito su una comunicazione spettacolare a
tutti i livelli, che trasporti gli spettatori in una dimensione di forte
adesione emotiva e faciliti la consegna del messaggio politico. I primi concerti sono eventi 'totali': nelle lunghe, estenuanti tammurriate
il pubblico è coinvolto nei balli o viene fornito di strumenti a
percussione della tradizione popolare vesuviana (scetavajasse,
putipù, triccaballacche e tammorre) ed invitato a seguire i ritmi;
ogni separazione, ogni distanza è abolita in favore di una festa
catartica in cui il sudore, il movimento e l'energia muscolare, e
l'urlo, la protesta e la rabbia sono le due facce della stessa moneta
liberatoria.
Le prime canzoni si rifanno a tematiche di stretta attualità, la
`Tarnmurriata dell'Alfasud' riprende il ritmo dell'omonimo ballo
tradizionale per denunciare il clientelismo nelle assunzioni in fabbrica, la Tammurriata de pummarole' (ripresa dai contadini di Scafati che l'avevano composta nel corso delle lotte per l'aumento dei
49
salari) denuncia lo sfruttamento deí lavoratori della terra. Ma il brano più noto, il cavallo di battaglia del Gruppo Operaio di Pomigliano d'Arco è senz'altro 'A Flobert', storia di una fabbrica di armi
giocattolo saltata in aria nelle campagne di S. Anastasia. L' 11 aprile
1975 due tremende esplosioni la distruggono completamente, causando la morte di dodici operai e il ferimento di molti altri. Vi si
costruivano pistole giocattolo e, clandestinamente, proiettili con
polvere da sparo; il reparto per questo tipo di lavoro non offriva
nessuna garanzia di sicurezza e in seguito ci fu pure chi accusò i
lavoratori di non aver usato le dovute precauzioni. Così descrive la
scena del disastro Paolo De Cicco, un operaio che lavorava per la
Flobert: «Neanche una bomba di quelle che usano per le estorsioni
poteva fare quello che è successo; c'erano resti umani dappertutto. I
morti non li hanno trovati: là c'erano le bare ma secondo me erano
vuote. Hanno trovato braccia, teste, gambe, ma non era possibile
comporre e riconoscere questi operai. Sono sepolti in una fossa
comune. Dopo la disgrazia non siamo nemmeno riusciti ad organizzarci, ci siamo talmente sparpagliati che abbiamo ottenuto solo sei
mesi di disoccupazione e sei di cassa integrazione; ci furono collette,
sottoscrizioni ma nient'altro»2. 'A Flobert' è solo la più celebre delle
canzoni di un gruppo musicale che, per la sua provenienza e per le
sue stesse ragioni di esistenza, sposa completamente la causa della
tutela del lavoro operaio. La storia dei Zezi è storia di una denuncia
continua, ossessiva, implacabile degli omicidi bianchi, del lavoro
nero, della nocività sui luoghi di lavoro, dell'uso padronale della
cassa integrazione.
Sono questi anni di frenetica attività dove alle polemiche con
la Nccp, accusata senza mezzi termini di dare un'immagine
`archeologica' della cultura popolare, si affiancano centinaia di
performance a ritmo serrato a sostegno di lotte operaie, per raccolte
di fondi, negli scioperi, nei cortei, rinunciando a grandi profitti da
mestieranti. Racconta Vincenzo Panico, operaio all'Alenia dal 1970 e
tra i primi Zezi: «Mi ricordo i sacrifici che si facevano col
Gruppo...Si partiva per fare uno spettacolo, si tornava tardissimo e a
volte non ci si ritirava neanche a casa: si dormiva in pullman e la
mattina dopo si andava direttamente in fabbrica!» e ancora:
«Quando andavamo nei rioni popolari bastava fare un po' di rumore
e tutti si affacciavano...'Ci sono i Zezi!' e scendevano, si faceva un
sacco di gente attorno, anche se non eravamo stati annunciati, e si
ballava, si cantava assieme». Ma le polemiche non si limitano solo a
quelle con i 'cugini' napoletani della Nuova Compagnia; il Grup50
po Operaio non usa mezzi termini nelle sue prese di posizione,
scandisce slogan duri dal palco, provoca deliberatamente i nemici
di classe e non è raro che spettatori infastiditi lascino la platea.
Nel 1976 E Zezi hanno l'opportunità di incidere un album
per i Dischi del Sole: nasce `Tammurriata dell'Alfasud'. Sono registrazioni dal vivo storiche, oggetto di culto per gli appassionati e
programmate spesso dalle allora nascenti radio libere; il cappello e la
maschera di Pulcinella in copertina rimandano immediatamente alla
tradizione popolare, ma le scritte murali di protesta (fotografia della
parete esterna di una vecchia casa operaia situata nei pressi delle
fabbriche pomiglianesi) non lasciano adito a dubbi sul modo di
intenderla. Il disco contiene molti canti popolari sul ritmo della
tammorra (il grande tamburo a sonagli tradizionale), con versi tratti
dal corpus della tradizione orale fusi a versi originali di ispirazione
politica; compaiono brani che ancora oggi sono nel repertorio del
gruppo, come la già citata 'A Flobert'.
In Tammurriata dell'Alfasud' è presente anche la dimensione
teatrale propria dei Zezi. Si è visto quanta importanza abbia il teatro
di matrice rituale nella proposta del Gruppo Operaio degli anni '70,
vedremo quanta ne avrà il teatro 'agit-prop' nel decennio
seguente. In un momento della registrazione, durante il brano
omonimo, si lascia momentaneamente la musica e, dopo il suono di
una sfrena, si 'rappresenta' una scena di insoddisfazione quotidiana, si mima il pranzo in fabbrica e l'assemblea, mentre sullo sfondo si
ode il rumore della catena di montaggio. All'epoca fu scritto che
questo momento dimostrava la contiguità tra vita ed arte, che il
Gruppo Operaio non faceva che ripetere in scena o in sala di incisione quella che era la sua vita quotidiana (quasi in una sorta di
abreazione), nell'esaltazione di una presunta 'naturalezza' immune da
mediazioni espressive. In realtà qui non c'è affatto contiguità tra vita
e scena, ma si assiste al recupero spontaneo di modi teatrali
naturalistici estranei alla tradizione rituale contadina, che però
grande spazio hanno all'interno di altre forme espressive 'popolareggianti' napoletane (teatro borghese, sceneggiata, avanspettacolo). Questa annotazione ci permette anche di comprendere la particolarità dell'universo dei Zezi, un universo che rinvia a sua volta
alla specificità della cultura napoletana nella sua globalità, nel suo
interagire tra modelli colti e popolari: sebbene il richiamo principale
nel G.O. sia la tradizione popolare, essa non è quindi l'unica
base su cui si innesta la canzone politica; e qui per tradizione popolare intendiamo soprattutto tradizione 'rituale', connotata cioè da
51
tutte quelle dinamiche fisiche e psichiche che solo i potenti meccanismi del rito sanno mettere in azione.
Nel linguaggio dei Zezi, pertanto, forme espressive rituali
convivono, senza soluzione di continuità, con altre di diversa origine; in questo senso, l'ascolto del primo album potrebbe fuorviare
un pubblico non smaliziato che in esso cercasse la tammurriata
`autentica'. Chi ha occasione di assistere ai sempre più rari momenti
di arcaica ritualità popolare, arcaicità sempre più residuale
nell'attuale fase di degrado e di risemantizzazione del tessuto festivo tradizionale campano, può osservare come questa danza sia
estremamente formalizzata ": tutto ciò che non è funzionale al rito è
espunto dall'azione, a testimonianza del carattere esclusivo della
tammurriata, apice stesso dei momenti festivi con cui la comunità
affronta ed esprime il carico delle angosce collettive. La tammurriata
rituale non ha quindi nulla di 'spontaneo', se con questa parola si
intende qualcosa di irruento o di `naturale'; essa è invece il prodotto di una raffinata stilizzazione espressiva, mediata da un elaborato
apparato simbolico, che la differenzia dall'espressività popolare
quotidiana non rituale, nell'uso della voce come nella gestualità. 11
frastuono, i fischietti, l'enfasi emotiva, tutte le caratteristiche della
`Tammurriata dell'Alfasud', che sembrerebbero 'spontanee', nascono invece dall'innesto sul canto etnico di forme espressive provenienti, quindi, da altri ambiti. Ovviamente però, solo chi è partecipe
di una dimensione rituale collettiva permanente come quella
napoletana, riesce in seguito a rapportarsi in maniera così comunicativa anche ad una situazione tanto diversa, portandosi dietro la
forza e l'istintualità del rito e riuscendo a riutilizzarla in un nuovo
contesto. Dalla canzone popolaresca ai linguaggi rituali, dalla sceneggiata fino al folklore operaio, dunque, questi frammenti ribadiscono subito, nel loro caotico assemblarsi, la complessità della
dimensione comunicativa che il gruppo è stato capace di elaborare.
Nel marzo del 1977, prima che la rete due della Rai si decida
a dedicare due puntate al carnevale pomiglianese e alla situazione
del polo industriale napoletano, fa scalpore la partecipazione del
Gruppo Operaio al programma della rete uno della Rai 'Scatola
aperta'. Rievocando la tragedia della Flobert con l'omonima canzone, i Zezi fanno da colonna sonora ad una coraggiosa rubrica che
indaga la piaga del lavoro nero nel napoletano. La trasmissione
provoca uno strascico enorme di polemiche, con la Dc napoletana
(chiamata direttamente in causa) che risponde con i suoi notabili
52
locali, accusando gli autori di 'Scatola aperta' e ovviamente il G.O.
(accusato di essere un 'gruppo folkloristico formato dal Pci') di
faziosità e di tendenziosa ricostruzione degli avvenimenti. E Zezi
rispondono con un telegramma in versi alla sede nazionale a Roma
della Democrazia Cristiana, e con un comunicato alla Rai, sostenuto dalle firme di operai dell'Alfa Romeo, dell'Alfasud e dell'Aeritalia, rivendicando la propria autonomia politica.
In realtà il programma televisivo aveva sollevato la drammatica questione del lavoro nero a Napoli: accentuato dai processi di
decentramento produttivo, confinato in anonime fabbrichette o nei
`bassi' del centro storico, riservato soprattutto alle donne e ai minori, il dramma dello sfruttamento totale (che conosce oggi più che
mai un odioso 'revival') scuote l'opinione pubblica. Le immagini
mostrano ragazze affette da polinevrite da colla che fanno fatica a
reggersi in piedi e sono costrette alla ginnastica rieducativa, e ragazzini di sei anni che, abbandonata la scuola, lavorano per pochi spiccioli nei bar di periferia. A questo tema i Zezi dedicheranno anche
lo spettacolo 'A morta mia', del 198014.
È però difficile fare una precisa cronologia degli eventi di
questo periodo; sono anni che preludono e seguono una svolta
epocale per la società italiana: nel 1977 comincia a venire a maturazione completa il potente sviluppo industriale che l'automazione, la
ristrutturazione e la nascente telematica stavano determinando. Il
capitale effettua quel potente 'balzo in avanti' destinato solo in
minima misura a rifluirgli contro nei tumulti di piazza di
quell'anno, quasi un' interferenza, un 'rumore', e in realtà destinato a
spianargli la strada (almeno fino ad ora) per la sua definitiva vittoria:
l'annichilimento di ogni forma di opposizione di massa e la
colonizzazione dell'immaginario collettivo. La mutazione tecnologica
libera inedite potenzialità produttive, genera nuovi bisogni,
lascia intravedere un possibile modello di società affrancata dalla
schiavitù del lavoro fisso: la speranza, per gran parte delle nuove
masse scolarizzate libere dai bisogni 'primari' e nutrite dall'espansione dell'industria culturale, di poter vivere della propria creatività
in settori produttivi direttamente collegati alla sfera della propria
formazione intellettuale (musica, design, giornalismo ecc.); in
un'industria culturale, insomma, non più elitaria e gestita dall'alto,
e tramite la quale poter accedere al `totem' della nuova società: la
`comunicazione'. La cosiddetta 'terza rivoluzione industriale'
abbatte infatti la barriera dei costi, permettendo ad esempio la
nascita delle radio 'libere', la possibilità di stampare e diffondere
53
riviste con poca spesa, di produrre film e dischi senza dover necessariamente ricorrere alla grande industria. Da verticale, accentrata,
controllata, quindi, la comunicazione diventa orizzontale, policentrica, autogestita. Arriva in Italia la cosiddetta `postmodernità', la
fine del fordismo e delle grandi fabbriche, l'emergere di una società
`flessibile'. Il conflitto capitale-lavoro comincia a spostarsi, nel suo
punto più avanzato, sul piano dell'immaginario. Ma l'illusione dura
poco: il postmoderno significa infatti ristrutturazione industriale,
calo dell'occupazione, nuove forme di precarietà, asservimento e
povertà, ma, soprattutto, utilizzazione del modo di produzione
postfordista nei settori decisi volta per volta da un padronato ora
più lontano e invisibile, in base alle esigenze poste dalla sempre più
forte competitività determinata dalla transnazionalizzazione
dell'impresa°. Così, mentre la generazione precedente di lavoratori
va in mobilità, la successiva non viene neanche assunta. Si viene
dunque a formare un nuovo 'proletariato giovanile', in maggioranza acculturato ma inutile alla nuova struttura produttiva, e si generano forme alternative di aggregazione: nascono ad esempio i primi
`centri sociali autogestiti', che occupano già i vecchi stabili in rovina
della desertificazione industriale (un fenomeno che esploderà non a
caso nei primi anni '90, a deindustrializzazione ormai avvenuta),
dove si cerca un modo di reagire all'esclusione, di gestire degli spazi
al di fuori delle logiche di mercato. Cambia quindi la geografia
sociale del mondo giovanile e si dissolve definitivamente il vecchio
paradigma ideologico del movimento operaio tradizionale, la sua
rincorsa al salario, la sua mitologia della produttività e la sua fiducia
nei partiti della sinistra storica; ma si dissolve anche l'egemonia verticistica delle organizzazioni extraparlamentari e della loro funzione
di collettori e di canalizzatori di tutto quanto si muoveva a sinistra
del Pci. Nel 1977 nasce dunque una nuova sensibilità: i linguaggi
delle avanguardie artistiche del novecento, premonitori della svolta
epocale in corso, penetrano nella cultura di massa: i giovani del
`movimento', e non solo in Italia, portano a compimento l'istanza
dissolutrice del '68 e sembrano intonare il lamento funebre della
modernità, la fine del modello sociale fordista, la nascita dell'uomo
`liberato'. Due citazioni su questo punto. Scrive David Harvey:
«Nemica delle qualità oppressive della razionalità tecnico-burocratica con basi scientifiche diffusa dal potere istituzionalizzato nelle sue
varie forme monolitiche (grandi aziende, stati, partiti politici e sindacati burocratizzati, ecc.), la controcultura esplorava i campi dell'autorealizzazione individualizzata attraverso una politica di 'nuova sini54
stra', con l'adozione di gesti antiautoritari, abitudini iconoclastiche
(nella musica, nell'abbigliamento, nel linguaggio, negli stili di vita), e
con la critica della vita quotidiana»' 6. Osserva poi Claudia Salaris
citando Franco Berardi Tifo', uno dei leader del '77 italiano: «In
modo sia pur confuso e intuitivo – sostiene Bifo – 'il movimento del
'77 percepisce l'imminenza di una trasformazione profondissima
nell'organizzazione sociale dell'attività umana, e nella qualità stessa
dell'attività, percepisce la smaterializzazione della produzione e dei
rapporti comunicativi. Nel percepire questa tendenza la avverte
come glaciazione, come sparizione del concreto'. (...) Da questo
nasce quel disperato bisogno della relazione materiale, fisica, dello
stare insieme, nell'assemblea, nel corteo, nella casa occupata»". In
tutto questo la riscoperta della cultura popolare ha un suo ruolo; la
ricerca della < tattilità', l'urgenza di reagire alla plastificazione dell'esistenza sembrano trovare un 'luogo' privilegiato nell'energia archetipica
dei riti, nella forza espressiva di linguaggi arcaici cifrati e visionari di
culture messe ai margini della storia. Nel recuperare le tematiche dei
futuristi, dei surrealisti e dei dadaisti (nonché della pop art e
dell'action painting), il clima della controcultura crede di trovare un
prezioso alleato anche nella festa popolare e nei suoi linguaggi, e non è
un caso che la festa in quanto tale, come momento liberato e comunitario, sia al centro della nuovo movimento giovanile. E nella festa
popolare tutti i segni della cultura borghese sono rovesciati, basti
considerare, ad esempio, la sola gestione dello spazio, frontale e
gerarchico quello del teatro classico, circolare e comunitario, che si
dilata e si restringe, che esclude e ingloba gli spettatori, quello della
`Canzone di Zeza' e delle tammurriate. Umberto Eco intravide anche
in un errore di 'codice' la contestazione degli studenti dell'Università
di Roma a Luciano Lama in quell'anno: «Lama si è presentato su un
podio (sia pure improvvisato) e perciò secondo le regole di una
comunicazione frontale tipica della spazialità sindacale e operaia, a
una massa studentesca che ha elaborato invece altri modi di aggregazione e interazione, decentrati, mobili, apparentemente disorganizzati.
Si tratta di un'altra forma di organizzarsi lo spazio e quel giorno
all'università si è avuto anche l'urto tra due concezioni della prospettiva, diciamo l'una brunelleschiana e l'altra cubista»3. Ma i riti della
cultura underground e quelli della cultura popolare, pur se
quest'ultima può esercitare una parziale influenza sull'altra, sono
destinati, nelle loro motivazioni più profonde, a restare separati se li si
accosta in maniera acritica e superficiale, perché lontane sono le
società che li hanno prodotti. Nei primi le nuove realtà giovanili cer55
cane un'evasione dall'ordine sociale, utilizzano l'alterazione sensoria-k
per eluderne il controllo, ma non si pongono il problema del punto
d'armo e non possiedono un sistema di reintegrazione culturale:
fesperienza si traduce in fuga irrelata e autodistruttiva. Nei secondi
la comunità utilizza la fuga per reintegrarsi, tramite il potente strumento del simbolo mitico-rituale, di fronte all'angoscia del divenire
storico. Dunque, come abbiamo accennato nell'introduzione e come
ha tentato di dimostrare il Gruppo Operaio in venticinque anni di
storia, la comunicazione con il mondo popolare non passa attraverso
la verbosità delle improbabili sigle di nuovi generi musicali, né per la
sovrapposizione arbitraria di situazioni distinte. Occorre al contrario,
con rispetto ed attenzione, un umile e paziente lavoro di ricerca e dí
comprensione di una cultura prima di tutto diversa, un lavoro che ne
`apra' la struttura simbolica e permetta l'assimilazione dei suoi miti
collettivi, che offra una decodifica in grado di rilevame la pregnanza,
nella consapevolezza che non si tratta di frammenti evocativi di mondi
perduti da consumare in fretta, ma di risposte antiche a paure e
fantasmi che tuttora vivono in incognito nella nostra società e in cui
non è difficile ancora imbatterci e riconoscerci.
Nell'estate del 1979, in occasione di una veglia ai cancelli delle
fabbriche pomiglianesi per il rinnovo del contratto di lavoro,
l'intervento dei Zezi con lo spettacolo 'Serpenti con coglie sonanti'
genera momenti di tensione: la parodia della celebre canzone napoletana `Anema e core' prende di mira le aperture di Berlinguer alla
Democrazia Cristiana. Il pubblico si spacca, c'è chí canta in coro e
chi, come i giovani del Pci, giudica provocatoria e qualunquistica la
trovata. Anche in questo caso, strascichi della polemica finiscono
sui quotidiani nei giorni successivi, provocando una dura risposta
del G.O. sul quotidiano 'il manifesto' intitolata «Le 'coglie sonanti'
della Fgci» dove tra l'altro si legge: «Non si può criticare una linea
politica perdente che ha creato sfiducia e disorientamento in seno
alla classe lavoratrice? Non si può criticare una linea politica che ha
invocato ed invoca sacrifici, austerità, alleanze con la Dc, il rafforzamento delle istituzioni, che nel nome della lotta all'eversione è, nei
f atti, un r es tr ingiment o delle liber tà d emocr atiche e di
espressione?» 19
Colonne di questo primo periodo del Gruppo Operaio sono,
tra gli altri, Marcello Colasurdo, all'epoca barista poco più che ventenne, e in seguito operaio dell'Alenia, col tempo divenuto depositario
della memoria della tradizione popolare e straordinario attore: è
56
lui la `Zeza', interpretata sempre con grande adesione psicologica;
Matteo D'Onofrio, di dieci anni più anziano, operaio addetto alla
catena di montaggio dell'Alfasud, voce possente con ampie concessioni ai modi di cantare di matrice extrarituale e attore (entrambi
rimarranno stabilmente nel gruppo, il primo, tra l'altro occasionale
collaboratore delle Nacchere Rosse, fino al 1995); Luigi Cantone,
indimenticabile Pulcinella immortalato nel video sulla 'Canzone di
Zeza' girato da Salvatore Piscicelli nel 1976. Altro personaggio
importante, tra i tanti che hanno circolato nei Zezi all'epoca, è Salvatore Alfuso, detto `Sciasca', in seguito transfuga e fondatore del già
menzionato Collettivo Operaio Nacchere Rosse, forse la più nota delle
formazioni che sono nate con ispirazione analoga a quella del
Gruppo Operaio. Osserva Nino Leone, a più riprese collaboratore
del G.O.: «I Zezi hanno fatto sempre riferimento alla cultura dei contadini e di una classe operaia che veniva dalle lotte sindacali postbelliche, mentre le Nacchere Rosse sono nate a ridosso della nuova classe
operaia di importazione dell'Alfasud, più giovane, più legata allo
spontaneismo, ma che non aveva questo riferimento a questa doppia
natura, operaia e contadina insieme, che avevano invece i Zezi».
La vicenda dei Zezi abbraccerà in ogni caso, nei suoi oltre
venti anni di attività, almeno due fasi della storia del movimento
operaio italiano: quella del cosiddetto 'operaio massa', l'operaio
proveniente da altri mestieri, non specializzato, insofferente alla
disciplina di fabbrica, e quella del nuovo operaio 'metropolitano',
venuto fuori dal clima 'desiderante' del '77: «Quella stessa fabbrica
che per il vecchio operaio era divenuta una sorta di patria, quel territorio che era stato trasformato e lavorato con le lotte e la solidarietà duramente costruita fino a diventare centro del proprio mondo
vitale, appare al contrario, nel primo approccio, alla maggior parte di
questi nuovi venuti, luogo di oppressione e dissoluzione esistenziale,
struttura inerte entro cui si consuma la lacerazione della rete
adolescenziale di relazioni sociali e la morte della soggettività:
'Quando entro in fabbrica – dichiara Emma, 21 anni, pochi mesi di
Fiat – io devo ammazzare una parte di me, quella più bella e libera
(...) Ogni volta che esco di qui – aggiunge – so che ho perduto otto
ore della mia vita e che non le ritroverò più'»20.
57
NOTE
' Cfr. G. VACCA, La canzone politica in Gran Bretagna: Ewan MacColi, in
«Musica/Realtà», Milano, dicembre 1991.
Cfr. DE MARTINO, 1975 e 1976.
'Cfr. DE SIMONE 1981, p. 9.
Cfr. Reinventare la festa. Intervista con Roberto De Simone a cura di G. Vacca
su «I Giorni Cantati», giugno 1991. La metodologia usata da De Simone per l'analisi
della cultura popolare campana è stata in seguito ripresa da molti ricercatori ma viene
spesso contestata da studiosi di altra formazione. Molto critico verso questo approccio
era, ad esempio, A. M. Di Nola che, in un affrettato contributo, parla di 'devastante
frazerismo' e mette in caricatura le teorie di C.G. Jung e di Mircea Iliade (Cfr. l'introduzione a Di MAuRO 1986; si veda anche GALASSO 1982).
Diego Carpitella riteneva invece che le voci della Nccp «rientrano effettivamente tutte nella più rigorosa tradizione» (CARNI-ELLA 1992, p. 55).
6
Sempre nell'intervista della nota 50.
7
Per le tematiche 'storia e metastoria', cfr. ELIADE e DE MARTINO.
°Cfr. IL DE MARTINO, 5-6/96
9
Cfr. ROSSI-DE SIMONE, 1977 e Rubino 1984.
'° Per il significato dei numeri della smorfia napoletana cfr. DE SIMONE 1977,
pp. 111-115 C DE SIMONE 1998.
" Nella tradizione di Somma Vesuviana i 'Mesi' sono stati in alcuni casi ripro posti anche con le donne (cfr. Russo C. 1997) ma, in Campania, i personaggi del tea tro popolare sono quasi sempre di sesso maschile. L'inserimento forzato delle donne,
sostenuto spesso da argomentazioni 'politically correct', è sovente avvertito nel mondo
popolare come lacerazione del tessuto tradizionale. Questa frattura dà talvolta luogo a
polemiche, come, ad esempio, è di recente avvenuto nell'isola d'Ischia, dove, in contrapposizione alla tradizionale 'paranza' (gruppo) che ritualmente esegue la tradizio nale danza armata denominata «'ndrezzata», è stato costituita un' altra formazione che
ha ipotizzato la presenza delle donne. Il rifiuto o la riluttanza, negli ambienti popolari,
a modificare le regole della tradizione, esprime la necessità della permanenza di un
orizzonte mitico, stabile, rassicurante, atemporale che, proprio in quanto immutabile,
protegge dai rischi del divenire storico. Anche per questo è molto facile, per esempio
durante le feste popolari, udire lamentele (in generale da parte di contadini anziani) su
come non si suoni più come un tempo, o non si balli più come una volta ecc.
12
Si veda anche l'intervista a Ciro Liguoro, l'unico superstite dell'esplosione,
alla fine di questo volume.
13
Cfr. ad esempio anche le registrazioni dei sette dischi 'La tradizione in Campania', a cura di R. De Simone, in discografia.
" Decentramento produttivo, anonime fabbrichette e aziende familiari
disseminate nei centri storici e sul territorio sembrano invece costituire, per Luca
Meldolesi e i suoi allievi 'antropologi', una grande speranza di futura prosperità per tutto
il Mezzogiorno nella nuova economia globalizzata. Cfr. MELDOLESI 1998.
l
' Sul movimento del '77 si veda il saggio di P. VIRNO in EALESTRINI-MORONI
1997.
"In HARvre 1993, p. 55.
17
In SALARIS 1997, p. 139.
" Su «L'Espresso», 29 maggio 1977, cit. in SALARIS 1977, p. 63.
9
' In ‹,i1 manifesto», 12 luglio 1979.
20
In REVELLI 1989, p. 75. Si veda anche alla fine del libro l'intervista a Sebastiano
Ciccarelli, nato nel 1958 ed entrato nell'Alfasud proprio nel 1977.
58
III. FRA TRADIZIONE E NUOVI LINGUAGGI
«`nu Zezo quanno sta <ncòppa 'o palco ha
da tené sempre a uno sotto ca < o spara!»
Luca
Già negli anni del revival, il Gruppo Operaio non si era limitato al
'concerto' come unica forma di comunicazione. La partecipazione a
manifestazioni e cortei, gli interventi in situazioni di conflitto rendevano necessaria l'utilizzazione di tecniche spettacolari non canoniche, in
sintonia con quanto era avvenuto oltreoceano nel decennio precedente, e con quanto si tentava di fare anche in Italia (si pensi ai torinesi dell'Assemblea Teatro'). Nel 1963, infatti, la San Francisco Mime
Troupe aveva elaborato le prime forme di 'teatro di guerriglia',
applicando all'arte scenica le tecniche dei combattenti dei paesi del
terzo mondo in lotta contro l'imperialismo: «Il teatro (...) 'è guerra di
guerriglia'. Ogni spettacolo è 'un'incursione notturna', in cui bisogna
'attaccare, sorprendere, ingaggiare il combattimento' e
`fuggíre'2 ». È la tattica del 'mordi e fuggi', teorizzata e descritta da
Che Guevara e praticata anche in Vietnam, il costituirsi in piccole
unità mobili, l'agire e il dissolversi rapidamente, il non lasciare tracce. È
una tattica da guerra moderna che tra l'altro punta al clamore
dell'azione, intuendo e utilizzando i meccanismi della società dello
spettacolo. Dal punto di vista teatrale tutto ciò si traduce in velocità e
adattabilità, capacità di interagire con l'ambiente, di fare propri
rumori e scenari già presenti all'arrivo della compagnia, e nell'utilizzare tecniche particolari che di tutto questo tengano conto (gesti
ampi e convenzionali, cartelli, pupazzi ecc.), per creare 'situazioni', o
per intervenire in eventi già in atto. È il caso delle performance del
Gruppo Operaio a Siano, in provincia di Salerno, contro l'installazione
di una fabbrica d'amianto, alla marcia per la pace a Roma nel
1982, o allo stabilimento siderurgico dell'Italsider di Bagnoli nel
1983. A Siano l'Eni aveva deciso di impiantare, insieme al gruppo
privato Bender & Martiny, uno stabilimento per la lavorazione di
fibre tessili di amianto per la costruzione di freni e frizioni per automobili. Si trattava di una fabbrica che avrebbe occupato qualche centinaio di persone, e la dura lotta da parte dei locali luogotenenti del
potere centrale per ottenerla sul proprio territorio era stata vinta dal
59
sindaco di Siano. Nessuno si era minimamente posto il problema della pericolosità di tale lavorazione sia per gli operai, che rischiavano
malattie all'apparato respiratorio (principalmente l'asbestosi), sia tantomeno per i danni all'ambiente e la distruzione della locale economia agricola. Quando già erano stati espropriati migliaia di metri
quadrati di terra per la realizzazione dell'impianto, scoppiarono le
polemiche che hanno poi impedito la costruzione della fabbrica. Il
26 gennaio del 1980 il Gruppo Operaio scende a Siano per appoggiare la causa della nuova sinistra che osteggia l'installazione dell'Eni.
E Zezi, guidati dal `pazzariello' Tonino Boni (detto 'Capocchia')
coinvolgono l'intero paese in uno spettacolo di strada che dura molte
ore parodiando i politici locali, ironizzando sull'interventismo statale
al sud e sui suoi fallimenti, perorando la causa ambientalista'. È in
questo ambito, soprattutto, che vengono utilizzati il teatro popolare e
le maschere della tradizione, ma anche i modi del teatro 'di guerriglia' e dell'agit-prop. Dal Pazzariello' alla 'Canzone dí Zeza', fino alla
`Rappresentazione dei dodici mesi', praticamente tutto il bagaglio
espressivo della cultura popolare vesuviana viene riproposto, e talvolta rivitalizzata con l'adattamento dei contenuti in chiave satirica o
esplicitamente contestataria, in base alle situazioni sociali in cui si
opera.
Il `Pazzariello' è una figura di banditore della Napoli popolare
ed è oggi quasi totalmente scomparso: vestito con abito di foggia
militare modello napoleonico, munito di bastone decorato e sostenuto da una ritmica di tarantella, veniva utilizzato per reclamizzare, con
le tecniche retoriche della lode e dell'encomio, l'apertura di nuove
botteghe o accompagnava, maschera ancora visibile nei carnevali
dell'entroterra, la maschera «a vecchia 'o carnevale», che raffigura un
Pulcinella portato sulle spalle dalla vecchia Quaresima'. Ad un livello
più profondo, però, nell'ambito di una lettura storico-religiosa della
cultura etnica napoletana, esso rimanda per certi aspetti a figure
arcaiche alle quali era consentita una comunicazione 'altra', allusiva e
sibillina derivante (come sembra suggerire lo stesso nome) da una
`pazzia' rituale, propria, ad esempio, degli sciamani '. Si tratta quindi
di un personaggio che si presta alla denuncia e all'irrisione carnevalesca, e come tale veniva utilizzato nelle azioni di strada del Gruppo.
Nel carnevale pomiglianese del '77, documentato anche dalla Rai, il
Pazzariello (Pasquale Terracciano), lontano dalla sua funzione di
banditore commerciale, ma con le stesse modalità espressive, ritrova
un ruolo da giullare, da 'fool', mettendo alla berlina il potere, deprecando l'inebetimento televisivo ed esaltando la riscoperta delle pro60
prie tradizioni ricontestualizzate nel momento politico dell'epoca:
nella denuncia del carovita, della mancanza di case, di scuole, di
ospedali, egli chiude il suo lungo monologo di propaganda antidemocristiana mischiando linguaggi tradizionali e denuncia attuale:
`ossa e pilossa/ 'a carne 'e piecoro è tutt'ossa/all'Italia pe' stà bbuono/ce vò a bandiera rossa'6. Ma un efficace uso delle forme di comunicazione di piazza rifunzionalizzate nel nuovo contesto si trova ad
esempio, sempre dallo stesso carnevale, in questa 'tirata' di Sciascià
(già allora passato alle Nacchere Rosse e poco dopo prematuramente
scomparso), sottolineata da una gestualità e da una intonazione da
vero banditore popolare che naturalmente, però, non possono purtroppo essere rese dalla sola lettura del testo: `Attenziò pupulaziò!
/Ccà statili-no 'rimano a `na brutta razz' Po guvemo ce fa ascì pazz'/
loro magnano, arrobbano e s'aizano 'e palazz' /nuje faticammo e
c'arapimmo 'o mazz' /e 'e figlie nuoste 'a casa magnano cuolle 'e
cazz'. /Nuje pe' ffa `na bbona democrazia/ avimma fa `na bbona
pulizia/ cacciammo 'a tutta 'sta fetenzia/ Leone vuleva fa 'o prugress'/ e invece 'e fa l'Hercules/ ha fatto nu cessT7
Il Gruppo Operaio cercava insomma di rivitalizzare e riproporre forme di teatralità popolare, spesso connesse alla ritualità
agraria dei contadini e affidate ormai alla sola memoria degli anziani,
nel tentativo di arginare in qualche modo i modelli di consumo e gli
stili di vita imposti dal caotico processo di trasformazione che la
regione stava subendo. Si trattava ovviamente di una lotta impari, ma
è un dato che, grazie alla spinta del clima del revival, molti
rituali in disuso furono ripresi da alcune comunità e che sí diffuse
tra i giovani (e i meno giovani) un'attenzione e una consapevolezza
verso una cultura spesso rifiutata ed etichettata come 'cafona'. Nel
frattempo si ricercava materiale tradizionale, si intrecciavano rapporti con esecutori e portatori di cultura orale come Ciccio `fragnone', al secolo Francesco Palladino, artigiano ambulante di Brusciano,
che ancora raccontava nella sua canzone 'E ciento paesi' i tanti posti
che era costretto a girare in lungo e in largo per esercitare il suo
mestiere.
Il decennio 1970-1980, oltre alle dure vertenze di fabbrica, ha
visto, come è noto, l'emergere in Italia di un ciclo di lotte in gran
parte estranee alla tradizione del movimento operaio e sindacale.
Questi conflitti, connotati da un forte carattere metropolitano o
comunque cittadino, hanno intereressato disoccupati e sottoccupati,
cassintegrati e sottoproletari, baraccati e marginali di ogni tipo:
61
l'ombra, il 'rimosso' della ristrutturazione neocapitalistica. Essi hanno sviluppato forme di protagonismo inedite per il nostro paese, e
modalità rivendicative per lo più imparentate con la cultura giovanile
sessantottesca: «La pratica dei cortei (...) prende il via già alla fine
degli anni Cinquanta con i giovani dalle magliette a strisce che si mettono alla testa delle manifestazioni e delle sfilate dei lavoratori in
occasione degli scioperi generali a Roma, a Reggio Emilia, a Palermo; è
una pratica che provoca una 'chiamata in causa della popolazione, in
forme efficaci, meno solenni e compassate, più scanzonate e dirette, e
pertanto relativamente blasfeme rispetto alle canoniche del passato,
(...) con rumori e strumenti anomali, effetti di turbolenza sul traffico,
silenzi e trovate (...) i partecipanti instaurano un dialogo con la società,
la gente, senza troppo coprirsi dietro le disposizioni e le parole
d'ordine del sindacato» 8. Si osservi la differenza con quanto avveniva
invece per i cortei di maestranze inquadrate secondo i criteri del
vecchio modo di manifestare: «Il giornale il 'Mattino', nel parlare della
protesta dei lavoratori Alfa Romeo, disse della civiltà e della
compostezza con le quali quegli operai erano arrivati a Napoli a bordo di pullman e treni della Circumvesuviana avevano attraversato il
Rettifilo e poi si erano portati sotto il palazzo del governo. Qui, in
piazza Plebiscito, in prefettura furono ricevuti la commissione interna
e le rappresentanze provinciali, dal prefetto Bilancia il quale si
premunì di trasmettere al governo le aspettative dei lavoratori i cui
rappresentanti, tra l'altro, chiedevano di incontrare il ministro delle
partecipazioni statali»9 . Le lotte urbane hanno riguardato per lo più il
raggiungimento di obiettivi immediati, la riduzione degli affitti e
delle bollette, la trasformazione di quartieri ghetto di periferia in spazi
a dimensione umana, l'appropriazione della merce nella sua
dimensione di valore d'uso e non di scambio.
Nel napoletano, l'esperienza più importante e significativa di
questa ondata di protesta è stata sicuramente quella dei Disoccupati
Organizzati. Il 'germe' di questo movimento nasce durante l'epidemia del colera che funesta Napoli nel 1973: comitati di quartiere
chiedono la disinfezione e ristrutturazione del sistema fognario. È la
risposta popolare alle autorità che, partecipi della speculazione edilizia che ha devastato Napoli negli anni '60 e ne ha ridotto le strutture
igienico-sanitarie a un colabrodo, cercano di addebitare l'epidemia
esclusivamente alla scarsa igiene dei venditori ambulanti di cozze.
Esse fingono di dimenticare che «la rete fognaria non ha subito
ampliamenti rilevanti dal 1915, cioè da dopo il primo intervento
capitalistico speculativo, detto di 'risanamento', susseguito al colera
62
del 1883. Inoltre, essendo del tutto insufficiente la struttura dei
depuratori, lo scarico delle fogne e lo scarico industriale finiscono
direttamente in mare, determinando l'alto tasso di inquinamento delle
acque del golfo di Napoli. Ciò in un'area, quella della provincia e del
capoluogo, dove specialmente durante gli anni d'oro della speculazione edilizia si ha un considerevole aumento della popolazione
( . . . , > > 1 0 . r La protesta non si limita alla richiesta di misure
igieniche, ma chiede l'impegno dei poteri pubblici per una possibilità
di reimpiego
di chi aveva visto smantellare la propria attività lavorativa (in particolare i gestori dei chioschi dei prodotti del mare di Mergellina).
Sull'onda di queste rivendicazioni nasce, nel 1974 a vicolo
Cinquesanti nel centro antico della città, il primo nucleo dei Disoccupati Organizzati. Per la prima volta un proletariato precario, fino
ad allora ricattabile e subalterno al clientelismo, unito nella 'comunità' ma atomizzato socialmente, assume coesione di massa e,
rinunciando alla delega partitica o sindacale, si autorganizza e prende coscienza di classe. I Disoccupati si organizzano in 'liste' indipendenti da qualifica ed età, ma basate sulla partecipazione alla lotta;
chiedono un lavoro sicuro, l'assistenza sanitaria estesa al nucleo
familiare, il controllo sulle assunzioni del collocamento, il salario
garantito per i giovani in cerca di prima occupazione. Le forme di
lotta, come già quelle del periodo del colera, sono talvolta molto
dure e violente (blocchi stradali, occupazioni, barricate con materiale incendiario), ma sono più spesso connotate da un alto livello
di spettacolarità, seguendo anch'esse la logica della «guerriglia»".
Lo scenario privilegiato della protesta è la strada: «non possiamo
fare sciopero (...) non possiamo bloccare la fabbrica, per ora la
nostra fabbrica è la strada e come gli operai bloccano la produzione
noi blocchiamo il traffico»'2. In questa affermazione si può leggere
tutto il dramma della modernizzazione nel napoletano, la sovrapposizione violenta di una cultura su un'altra e la disperata rivolta di
chi, ad un'espropriazione senza indennizzo, risponde con la guerriglia: la strada, per secoli centro della vita popolare, sia nei suoi
momenti comunitari che in quelli lavorativi legati al commercio
ambulante e ai mille mestieri della premodernità, si è ormai trasformata in un'arteria di scorrimento dei flussi veloci del modo di produzione capitalistico, delle materie prime, della forza lavoro, delle
merci". Al tempo stesso la strada moderna è teatro sociale, dove la
borghesia può 'rappresentarsi', indulgere nel gioco degli acquisti e
delle nuove relazioni interpersonali. È anche per questo che la città
moderna prende dappertutto la sua forma dicotomica, con il cen63
tro cittadino destinato ai servizi, ai commerci e alle abitazioni di
lusso e le masse popolari respinte in periferia, nei ghetti suburbani
mal serviti e mal collegati. È successo così a Parigi, con i suoi boulevards imposti dalla razionalizzazione dell'architetto Haussmann nel
secolo scorso, è in parte successo così a Napoli, che pure, come
abbiamo già considerato, mostra a vari livelli una forte resistenza
alla modernità, con i suoi nuclei popolari ancora presenti nel dedalo
dei Quartieri Spagnoli, nei vicoli del Pendino e sui gradoni della
Sanità con le loro antiche forme di vita comunitaria e di cultura tradizionale, sempre più immiserite ed emarginate: «A Napoli la cultura
popolare è stata presente con la sua ritualità, con le sue tammurriate,
con le sue castagnette 'maschio' e 'femmina', sino alla fine del secolo
scorso. La realtà di Napoli è mutata con il 'risanamento', quando
interi quartieri vennero completamente rasi al suolo e venne
cancellata la città popolare più antica, cioè quella dei fòndaci.
`risanamento' poggiava su presupposti sociali. Tante strutture, allora, mostravano carenze che già nel '60 erano abbastanza pericolose,
come per esempio le strutture fognarie. Pressati dalle varie indagini,
come quella della Serao o quella della White Mario, si decise di
risanare i quartieri più popolari di Napoli, vittime della sporcizia e
del colera. Si pensò di installare nuove fognature, ma non a salvaguardare la struttura storica dei monumenti e soprattutto a garantire
la sopravvivenza etnica della gente che viveva in quei quartieri. In
realtà avvenne una vera deportazione; avvenne quello che possiamo
chiamare un genocidio culturale. Tutta la zona che va da piazza
Municipio fino alla ferrovia era occupata dai quartieri più popolari
di Napoli; erano i quartieri sorti con gli angioini, strutture
architettoniche che oggi sarebbero fra le più interessanti d'Europa.
(...) Nessuno pensò di risanare quelle zone lasciando le strutture e
salvaguardando l'identità culturale di quei posti. La gente fu
costretta ad andar via e si rifugiò in provincia, per cui si disperse un
po' dappertutto. (...) Questa è una città intorno alla quale tante
volte si parla di malavita, senza tener conto che le decisioni di
emarginare interi gruppi di gente hanno determinato alcuni aspetti
della realtà attuale di Napoli»14 . E proprio la zona tra piazza Municipio e la ferrovia, il cosiddetto `rettifilo', un tempo luogo di vita
tradizionale e ora teatro principale dei cortei dei Disoccupati Organizzati vede, quasi in un'anamnesi, la riapparizione di momenti di
cultura popolare, rifunzionalizzata con gli interventi dei Zezi,
durante le manifestazioni, a pochi passi da piazza Mercato dove
vive Gennaro Buccino, forse l'ultimo artigiano in città che ancora
64
costruisce tammorre da vendere alle feste delle Madonne primaverili
nei paesi di provincia.
Lo spazio scenico della manifestazione popolare e di quella
dei Disoccupati Organizzati, quindi, coincidono: per strada avvengono alcuni degli atti più clamorosi dei manifestanti, come la
copertura della statua di Garibaldi con un grande telone nell'omonima piazza di Napoli, il 25 aprile del 1976. Sul cappuccio c'è scritto
«Songo 'e fierro/ eppure me/ metto scuorno/ 'e veré tanta/
disoccupati/ senza 'nal fatica pe mezzo/ dé padroni e/ do guverno/
perciò me faccio/ accummuglià/ fino a quanno/ nun ce 'o date/ nu
lavoro!»''. E ancora l'assalto al Maschio Angioino, i cui merli reggeranno dei cartelloni con delle lettere a formare la parola 'lavoro', e
un pupazzo con una mano chiusa a pugno nel gesto scaramantico
delle corna16. La protesta è attuata con una teatrolizzazione sempre
più marcata, le azioni sembrano avere una vera e propria 'regia':
«Si bloccava la strada con ogni cosa e si incendiavano dei copertoni
d'auto: era divertentissimo vedere la polizia che arrivava, si preparava armata di tutto punto, caricava, sorpassava la cortina di fumo e
non trovava nessuno»", oppure ancora: «vari cortei partivano da
differenti punti della città per bloccare il traffico, un corteo civetta
formato da invalidi e vecchi aveva il compito di fare la massima
confusione per distrarre la polizia; intanto gli altri disoccupati invasero i binari della stazione e la polizia dovette prendere la metropolitana per farli sgomberare»18. Nelle agitazioni vengono usati trampoli e croci, si bruciano fantocci che raffigurano uomini politici, si
dipingono con colori accesi i bronzei leoni di Piazza Borsa. E Zezi
trovano un tale clima consono alla propria natura di gruppo teatrale
popolare, ma pronto ad aprirsi alle esperienze itineranti del teatro di
guerriglia e dell'agit-prop, e manterranno con i Disoccupati uno
stretto legame. In situazioni simili i componenti del G.O. arrivano
spesso inattesi, con le tute blu dell'Alfa o i costumi della Zeza (come
poi, in un contesto politico completamente mutato, con i sombreri
messicani e gli slogan zapatisti, nel carnevale napoletano del 1994):
cantano, ballano, interpretano brevi sketch coinvolgendo dimostranti
e passanti occasionali in un teatro spontaneo e irripetibile, una
comunicazione immediata che dilaga in happening, in assemblea
permanente con il Pazzariello, le tammurriate, i campanacci.
'Movimento', dunque. Movimento in senso politico, come reazione
all"immobile' ordine costituito, secondo lo spirito del '68 19 , ma
anche movimento in senso fisico e dinamico, secondo i modelli di
reintegrazione elaborati dalla cultura popolare: colore ed
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energia contro l'opacità spettrale dell'acciaio delle officine, decompressione muscolare a compensare il ritmo scandito dalla catena di
montaggio e dalla postazione fissa della fabbrica taylorizzata, dove
«le macchine inglobano e sommergono gli uomini, fissandoli alla
propria struttura metallica» 20, e dove ogni vitalità è negata in ossequio al moto meccanico, uniforme e lineare.
Finito definitivamente il momento del folk revival, il Gruppo
Operaio subisce, come tutti i protagonisti del movimento, la stagione
del 'riflusso' degli anni '80. Esclusi dalle ribalte nazionali E Zezi continuano ad operare prevalentemente a livello regionale, organizzando o partecipando ai carnevali locali (Pomigliano, Afragola), suonando e recitando in tutte le realtà che nel decennio precedente erano
state combattute dalla sinistra antagonista come «istituzioni totali», e
cioè fabbriche, scuole, ospedali e istituti psichiatrici. Sono di questi
anni spettacoli più formalizzati, in cui si privilegia una dimensione
teatrale più canonica. Negli anni '70 il Gruppo Operaio aveva spesso
rappresentato, come abbiamo visto, dei pezzi di teatro tradizionale:
generalmente messe in scena nelle piazze o durante le manifestazioni
politiche, queste performance erano la riproposta della stessa teatralità popolare campana. Riproporre il teatro rituale significava, per i
Zezi, collocarsi all'interno della tradizione o, meglio ancora, fuoriuscire, emergere da essa, nella consapevolezza della inscindibilità del
piano visuale, gestuale e cinesico, dalla musica e dal canto di tradizione. Nel decennio successivo, però, E Zezi vivono un momento di
difficoltà che non li disintegra, come avviene per gran parte dei
gruppi folk, proprio in virtù del loro radicamento nel territorio, della
loro capacità di attrarre e canalizzare energie. Il G.O. ha, in definitiva, 'necessità' di esistere per i tanti che per suo tramite riescono ad
esprimere la propria vitalità, il proprio disagio, la propria esigenza di
rapporti comunitari in un luogo dove una mutazione epocale minaccia di disgregare e spegnere in maniera irreversibile qualsiasi tipo di
socialità sottratta alla sfera del mercato. Negli anni '80 il gruppo
comincia dunque a lavorare quasi esclusivamente nelle piccole realtà
della sterminata provincia meridionale e soprattutto campana: nei
paesi del beneventano, sulle piazze di Nocera inferiore, Cardito e
Afragola ma anche di Potenza e Bari. Nel riconnettersi in maniera
pressoché esclusiva alla sfera della 'comunità', la dimensione teatrale
viene accentuata quasi istintivamente: al mai abbandonato teatro
rituale si affiancano ora soluzioni diverse, in parte anticipate da alcuni
spettacoli degli anni '70, come 'Omaggio a Pulcinella' (1977, in
66
seguito più volte ripreso), 'O Prestigiatore' (1978), e il già citato 'Serpenti con coglie sonanti' (1979); in tutti questi spettacoli, si continua
a parlare ostinatamente di lotta di classe, a difendere orgogliosamente
la propria identità nel momento più difficile in Italia per gli operai
delle grandi fabbriche. La 'marcia dei quarantamila' aveva infatti
aperto il decennio e si era trasformata in un evento simbolico per
tutto il paese generando un diffuso sentimento antioperaio: la sconfitta delle tute blu aveva legittimato la ristrutturazione (ponendo fine
alla politica stessa intesa come 'conflittualità') e il nuovo clima aveva
causato, tra l'altro, la scomparsa quasi totale del rapporto dialettico
tra arte e impegno, generalmente ritenuto pressoché imprescindibile
negli anni precedenti. Il G.O. rientra dunque in un contesto locale
che si avvia anch'esso a pagare i costi della deindustrializzazione.
In quegli anni il teatro napoletano conosceva una fase di
profondo rinnovamento: la tradizione `scarpettiana', la vecchia
scuola capocomicale e naturalistica, pur resistendo allora come oggi
per le fasce della borghesia che in essa si riconoscono, era già stata
storicizzata non tanto dall'avvento delle avanguardie degli anni '60
(Teatro Esse, Teatro Instabile, Teatro Alfred Jarry), quanto dal
lavoro di Eduardo De Filippo e in seguito di Roberto De Simone.
Eduardo aveva già agitato le acque stagnanti della tradizione sia
con i suoi silenzi e la sua gestualità, sia iniettando nei suoi testi suggestioni moderne e problematiche. De Simone, con la sua profonda
ricerca antropologica sulla cultura popolare, stava riformulando in
maniera critica e sistematica i criteri di lettura della tradizione teatrale napoletana: mostrando le differenze e i punti di contatto tra
colto e popolare, e lavorando sulle maschere e sulla dimensione
simbolica, egli aveva svelato la natura deculturata, repressa e oleografica del naturalismo del teatro borghese e il suo congelamento
linguistico. A ciò aveva opposto la forza espressiva della ritualità
tradizionale, legata a figure e motivi simbolici ritrovati negli abissi
del mito e nel profondo della storia della città, che potessero offrire
una possibilità di riconoscimento collettivo. 11 lavoro di demistificazione portato avanti con opere come 'La Gatta Cenerentola', 'La
Cantata dei Pastori', 'Festa di Piedigrotta' e 'Mistero Napolitano'
liberava dunque il teatro napoletano da vecchie incrostazioni affacciandolo su nuove possibilità espressive.
Negli anni '80 una generazione di nuovi autori e registi
comincia ad operare in città: sul versante delle avanguardie, il collettivo Falso Movimento lavora sull'immaginario metropolitano
della società multimediale, con una sensibilità già quasi cyberpunk,
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diventando presto il gruppo di punta della scena sperimentale italiana del tempo. Su un altro versante nasce un teatro che si affida non
più agli esiti delle avanguardie del novecento (rifiuto dello psicologismo, opposizione al testo scritto, scardinamento della messa in scena classica) ma, come ha sottolineato Luciana Libero, ritorna per
certi aspetti alla forma canonica del teatro borghese, rovesciandone
il senso: gli spettacoli di Annibale Ruccello, di Enzo Moscato e di
Manlio Santanelli effettuano anzitutto uno sfondamento lessicale,
con testi che da una parte recuperano il dialetto napoletano nelle
sue forme arcaiche e moderne, urbane e provinciali, dall'altra
immergono l'azione e i personaggi in una zona d'ombra inquietante
e perversa, descrivendo sì gli strati popolari ma, in modo diverso da
De Simone: «l'orientamento dei nuovi autori si è rivolto piuttosto al
presente del tessuto urbano campano, tralasciando il nucleo storico
popolare, dilatando la ricerca all'hinterland per indagare nei tratti
somatici della fascia periferica, imbarbarita dalla sottrazione
selvaggia delle proprie tradizioni» 22. Storie di travestiti, di
marginali, ma anche di nostalgici nobili decaduti; un mondo che ha
perduto ogni punto di riferimento e ogni possibilità di
reintegrazione culturale. La descrizione, insomma, di una comunità
napoletana che ai suoi antichi mali aggiunge i tubi Innocenti che
sorreggono i vicoli dei quartieri spagnoli dopo il terremoto, le vele di
Secondigliano, la diffusione di massa dell'eroina: la percezione nitida,
forse per la prima volta, del concreto rischio di omologazione alle
rovine della civiltà moderna di questa comunità, che Pasolini
assimilò a una tribù Tuareg per la sua tenacia nel rifiutare una `storia'
imposta dall'esterno, anche a rischio della sua estinzione.
In tutto questo E Zezi, come teatranti, occupano una posizione eccentrica: anzitutto perché letteralmente fuori del centro cittadino, confinati nell'entroterra vesuviano, nelle feste contadine e nei
piccoli festival de l'Unità di provincia; poi perché lontani e da ciò
che in teatro cominciava a fare tendenza e, per ovvia distanza culturale, dalla tradizione napoletana classica. Privi di mediazioni intellettuali, i componenti del Gruppo Operaio portano avanti un teatro 'basso', plebeo, rozzo nella forma ma esplicito nei contenuti,
satirico e fortemente politicizzato. Questi spettacoli, costruiti alternando prosa e canzoni, sono a volte veri e propri esempi di Teatro
Documento come, fra i tanti, il già ricordato 'A morta mia', Tribbù
elettorale', e 'La frabbica del sabato sera' (tutti del 1980), 'A lengua
è fatta pe' parlà' (1983), 'Il ritorno dei Zezi (ma purchè arò erano
iute?)', 'Mo vene Natale...Nun tengo renare' e `Attenziò Pupula68
ziò' (tutti del 1984), `Nzalata non stop miting clientelescion' (1985).
Altre volte ci si trova di fronte a scene legate al mondo subalterno,
difficili da decifrare per chi non conosce i codici espressivi degli
ambienti popolari, ma immediatamente comprensibili al pubblico
dei paesi campani dove il Gruppo Operaio si esibisce. È il caso di
`Tutto pe' niente' (1985) dove viene recuperata un'altra delle rappresentazioni già proposte negli anni '70, quella del lamento funebre carnevalesco Co chiamo a muorto) ripreso nei suoi segnali più
tradizionali, lo specchio coperto, le allusioni sessuali, una mosca
inesistente che viene costantemente scacciata"; è insomma il classico corredo rituale della veglia funebre negli ambienti popolari, così
come viene descritto da Ernesto de Martino24 . Lo spunto rituale,
però, serve da pretesto ai Zezi per far comparire sulla scena dei
personaggi estranei all'azione, che permettono delle digressioni su
temi cruciali cari al Gruppo (la legge 180 sui manicomi, ad esempio), dilatando lo spettacolo in diversi quadri fino a che il morto
(Tincenzo', il nome classico per il re del carnevale in Campania),
risulta essere non altri che un operaio, ucciso dai processi di riorganizzazione industriale. Egli è il rappresentante allegorico della
`morte' della classe operaia, metafora della sua perdita di centralità
e di visibilità nello scorso decennio, ma nella sua bara prima della
tuta blu vengono collocati alcuni attrezzi della civiltà contadina, a
ricordare la doppia violenza subita dai lavoratori pomiglianesi".
Nell'esilarante No vene Natale...', ripreso anche nel 1992,
un'anziana coppia assiste sgomenta all'azzeramento della propria
memoria storica e dei propri punti di riferimento esistenziali, ritrovandosi in una condizione di nuova povertà: i figli sfrattati ritornano a casa, la terra viene espropriata per la costruzione della stazione
della circumvesuviana, la dipendenza da un mercato del lavoro
sempre più instabile rende precaria la vita, i miti americani si rivelano falsamente liberatori (i figli in provetta, il femminismo esasperato) e perfino le pietanze tradizionali sono sostituite dai prodotti
preconfezionati dei supermarket. Anche qui, come nella 'casa
Cupiello' di Eduardo, il tempo natalizio, momento centrale della
ritualità napoletana, viene assunto come cartina di tornasole del
depauperamento culturale, della perdita dell'orizzonte esistenziale
della tradizione sotto la spinta del potere pervasivo di una modernità di segno antipopolare, che schiaccia con la violenza del suo
cemento ogni situazione ambientale precedente, che non conosce
solidarietà verso i più deboli in favore di un consumismo aggressivo
e ipocrita. Lo spettacolo, connotato in alcuni tratti da accenti
69
alquanto didascalici, denuncia, come in tutti gli spettacoli dei Zezi, la
condizione operaia nei duri anni '80, con particolare attenzione alla
condizione femminile. Le scene dedicate alle crisi di sovraproduzione con i piazzali della fabbrica pieni di auto invendute, e della
conseguente cassa integrazione, sono tra le più toccanti e producono
riconoscimento e identificazione in una comunità dove proprio nel
momento natalizio ci si ritrova e ci si conforta reciprocamente.
Altre volte si lavora su canovacci rudimentali, come in `Nzalata
non stop', mettendo alla berlina la cultura di massa e il linguaggio
dei politici, prendendo posizione a favore dell'aborto, ma per lo più
ridicolizzando o parodiando le canzoni di consumo, con invenzioni
surreali come la `Pentadecret band' o lo scatenato dj che commenta
su ritmi da disco music il decimo posto nella classifica hit parade di
Luciano Lama e i 7 nani in `Eley, oh! Andate a lavorare!'; o, ancora,
lanciando un improbabile Renato Zero con il gruppo 'La Magistratura Italiana' che conquista il quinto posto con una rinnovata versione
della celebre 'Mi vendo': «Mi vendo giustizia che non ho/ guarisco i
mali dei potenti/ gli do la libertà./ Mi vendo processi in quantità/
quello di Catanzaro, Piazzale della Loggia/ Assolvo ministri in
quantità/ do agli stupratori/ la piena libertà/ Mi vendo e già/ a buon
prezzo si sa». Negli spettacoli anche l'uso dí frammenti decontestualizzati delle sigle televisive, stravolte, frammentate, montate in
maniera grottesca, riprodotte e bruscamente interrotte innumerevoli
volte, con un procedimento irresistibilmente comico e quasi brechtiano, volto com'è a 'straniare', a rendere inconsueto ciò che appare
familiare e immodificabile. Il tutto in modo caotico, confuso e
approssimativo, talvolta ingenuo, ma espresso con tale foga da risultare efficace dal punto di vista spettacolare. Non manca ovviamente la
vecchia polemica con la Nccp, con un bonario sfottò a Roberto De
Simone. In 'Omaggio a Pulcinella' (1979) durante il lamento funebre
una cantante d'opera arriva canticchiando:
- «Ma chi siete?»
– «Perché questa non è la rappresentazione musicale 'le Zite in
galera'? E poi Roberto addò sta? Roberto! Maestro!»
– «Ma quale Roberto, ma quale maestro vai trovando quà...
Chesta è l'opera d'e muorte 'e famma!» (`dei morti di fame')
– «Io mi ero accorta che l'ambiente non era il solito!...»
– «Ma che è 'sta confidenza?... Noi siamo E Zezi!»
– «E Zezi?...Maronna scanzace! (`Madonna salvaci!')»
`Kontaines, Kontakm, Rulott' (1989) irride agli spettacoli televisivi
'contenitore', ma il riferimento è anche ai `containers', dove
70
ancora vivono i terremotati del sisma di nove anni prima. Tra
improbabili presentatori e ridicoli premi, una donna del popolo,
Anita Piscianterra (Marcello Colasurdo), vive per un attimo un'evasione fantastica esibendosi come Ella Fitzgerald (accompagnata
dalle `Colesterol Sisters') e cantando goffamente dei brani di musica
nera; viene però riconosciuta e smascherata, ritorna alla sua vera
identità e comincia a cantare canzoni napoletane corredate da
`mosse' del peggior stile. «Era una donna che puliva le scale – ricorda
Gennaro Auriemma, attore per hobby, per qualche anno nel
Gruppo Operaio – e voleva fare la donna di spettacolo e trasformarsi in una stella, e io e un altro amico, Lucio Maietta, eravamo le
sue 'complici' per aiutarla. Ci chiamavamo `Colesterol Sisters' perché eravamo grassi!». Questa capacità di evasione temporanea in una
dimensione immaginaria, una sorta di `participation mystique'
connotata da grande capacità di immedesimazione e da un alto
livello di teatralizzazione, è un meccanismo autoprotettivo molto
tipico della cultura popolare campana, e non è sfuggito agli autori
teatrali più sensibili (da Eduardo con `De Pretore Vincenzo' e 'Le
voci di dentro', a Moscato con fino, ovviamente, a De
Simone); la si osserva soprattutto nei carnevali, o nei momenti
rituali dove massimo è il rischio di essere sommersi da insorgenze
emotive incontrollabili: rifugiarsi nell'irrazionale permette di disinnescare la crisi, plasmare il disordine psichico e organizzarlo in una
forma riconoscibile. Così Roberto De Simone rievoca un significativo
caso di travestitismo rituale riscontrato durante la sua ricerca sul
carnevale campano: «Camminavo per le strade di Avellino nei giorni
di carnevale e improvvisamente ho visto una figura con un seguito di
dodici paggi vestiti di spighe di grano: un uomo di settanta anni
vestito da donna, con veli, conchiglie, diademi fatti con tanti piccoli
materiali trovati. Il risultato era splendente, una visione. Camminava
con in mano un tamburo e cantava e li per lì mi sembrava di vedere
una scena tratta dall'Asino d'Oro di Apuleio. Chiaramente ho voluto
conoscerlo e ho scoperto un uomo straordinario per fantasia,
genialità, inventiva... Era un vecchio contadino che ovviamente non
lavorava più, data l'età, e viveva in una stanza al pianterreno di un
palazzo dove la figlia faceva la portinaia.(...) Lui, in tempo di
Carnevale, si vestiva da Grande Imperatrice (una maschera della
cultura agropastorale, una vecchia vestita di grano che impersonava
come ultimo di una tradizione ancora viva nelle campagne di Nusco
dalle quali proveniva). Il suo costume, naturalmente fatto da solo, era
costruito con le cose più disparate: strass di
71
vecchi abiti femminili e cianfrusaglie di bancarelleria che, nel clima
della festa di Carnevale, diventavano cose fantastiche. (...) Durante
la vestizione (...) si svolgeva un gioco verbale fra lui e i suoi nipoti
che cominciavano a scherzare chiamandolo 'nonna' e non 'nonno'.
E sempre più infatti lui entrava nel ruolo di imperatrice e iniziava ad
assumere un'aria femminile (...) compiva un incredibile processo di
immedesimazione con il suo ruolo»26. Ma nel caso di Anita, il
momento fantastico non è evidentemente sostenuto da un mito collettivo sufficientemente interiorizzato e adeguato ad esprimere i
contenuti latenti nell'inconscio; esso è modellato sulla artificiale e
alienante simbologia della cultura di massa imposta dall'esterno: la
figura della 'diva'. Una volta riconosciuta, la protagonista non regge
la finzione e ripiomba nel quotidiano, riassorbita nella subcultura
napoletana di massa, assolutamente non etnica.
Negli spettacoli vengono poi utilizzate maschere, fantocci, e
soprattutto modi da teatro 'agit-prop', scene brevi e agili, tipizzazione dei personaggi, recitazione caricaturale e, naturalmente, molta
improvvisazione in relazione al mutare della situazione politica
contingente. La riduzione dei personaggi a 'tipi' impedisce il
rischio del naturalismo e stimola l'espressività del corpo, con un
meccanismo non molto dissimile da quello della Commedia
dell'Arte. Tale tipo di teatralità era naturale per gruppi che anche a
grandi distanze partivano da presupposti analoghi: nella stessa direzione era andato ad esempio, fin dalla sua fondazione nel 1965, El
Teatro Campesino, il gruppo messicano composto da braccianti
(tra l'altro proprio in quegli anni di passaggio in Italia), che si esibiva
nei campi e nei quartieri popolari: anche qui personaggi simbolici e
facilmente riconoscibili, gesti stilizzati, testo in gran parte
improvvisato, maschere e cartelli, scena ridotta al minimo". Nella
rappresentazione dello sfruttamento operaio i gesti sembrano
discendere dalla 'biomeccanica' di Mejerchol'd: movimenti ritmici
esasperati, rettilinei e straniati, a rappresentare, con feroce ironia, la
robotizzazione del lavoratore incatenato alla catena di montaggio e ai
ritmi produttivi.
La dimensione semiprofessionale e militante dei Zezi mostra
però i suoi limiti. Tra il 1982 e il 1986, il Gruppo Operaio tenta un
progetto ambizioso: la messa in scena di 'Franceschiello', versione
teatrale di una fiaba popolare, 'O cunto ra terra addò nasce a luna e
`o sole' (1.1 racconto della terra dove nasce la luna e il sole'), raccolta
a Pomigliano da Nino Leone dalla viva voce di sua madre Carmela
Romano Leone, autentica depositaria della tradizione orale
72
della zona. Si tratta di un racconto denso di risonanze arcaiche, con
notevoli possibilità di sviluppi nell'ambito di una riflessione sulla
cultura popolare vesuviana. Per l'occasione vengono coinvolti Ciro
Oliviero Gravier, studioso di antropologia, e Luigi Baldascini, psichiatra. Si tenta quindi un approccio di ampio respiro lavorando
con pazienza sui contenuti inconsci della fiaba e sui suoi simboli,
sulla necessaria opera di introiezione da parte degli attori dei ritmi e
delle scansioni del parlato e dei gesti ad esso connessi. La ricerca
impegna per anni i componenti del G.O. ma alla fine l'operazione
non va in porto. Troppe le difficoltà di ogni tipo (da quelle economiche alla scarsa disponibilità di tempo dei partecipanti) e troppe le
incertezze sulla necessità per i Zezi di incamminarsi su una strada
`colta' che li avrebbe potuti trasformare in qualcosa d'altro. Di
Tranceschiello' restano una trascrizione 'fonetica' della fiaba, il
testo teatrale e una interpretazione antropologica28 . L'attività dei Zezi
in questi anni dunque, pur con minore risonanza di prima, riesce,
anche se tra grandi difficoltà, a tenere coeso un gruppo di persone
attorno al progetto di un collettivo artistico politicamente motivato,
in anni in cui tutto questo sembrava definitivamente superato, e
quindi in totale controtendenza con il 'riflusso'. In questo periodo,
tra il via vai di collaboratori che ha sempre caratterizzato la storia del
Gruppo, sono da ricordare le presenze di Antonella Leone e
Annamaria Frau, e di Patrizio Esposito, Vittorio D'Ambrosio,
Guido Calcavecchia e Giovanni Sgammato; quest'ultimo, tra
l'altro, da giovanissimo aveva suonato la fisarmonica nel gruppo di
attori girovaghi che negli anni '50 venivano detti «Zezi», e dai quali il
G.O. aveva ereditato il nome. Ma, pur nella continua oscillazione fra
tradizione e modernità, i temi di questi spettacoli, alla fine,
sottintendono tutti un solo argomento e ad esso costantemente
rimandano: l'uomo che lavora per il capitale, ridotto a macchina che si
inceppa e viene sostituita, pura energia impiegata nella produzione
che ne esprime però una di segno contrario, tesa alla
riappropriazione della propria istintualità. Grassi, sudati,
impresentabili, i Zezi del periodo teatrale esprimono il rifiuto di ogni
regola, di ogni sistema, di ogni civilizzazione; il rifiuto di una
`alfabetizzazione' in cui non si riconoscono, per affermare, pur se in
un'apparentemente severa ortodossia militante, un mondo di bisogni
primari: cibo, canto, danza, sesso, sonno. Lo stesso tono dei loro
spettacoli, nel fare a pezzi la lezione eduardiana della misura e del
controllo, lo riconferma: scombinati, squinternati, spesso
approssimativi, ribadiscono la loro estraneità alle leggi della società
73
dello spettacolo, la loro alterità, la loro provenienza da una cultura
diversa, premoderna e 'cafona'. E la loro comunicazione è fondata
sul grido, sull'energia muscolare, sull'istinto, in ciò più vicini ad
Artaud, paradossalmente, che a Brecht che pure li ha ispirati; e
quindi più vicini, anche nella totale diversità della proposta, al
Living Theatre di Julian Beck (ma anche, per certi aspetti, al Bread
and Puppet di Peter Schumann) che alla 'lontana' tradizione teatrale
borghese di Napoli. Nel fare questo, nel frantumare ogni argine
delle 'buone maniere' alla liberazione del principio di piacere, E
Zezi ritornano al mito, alle immagini del paese di Cuccagna,
all'archetipo della Grande Madre nutriente e protettiva: un bisogno
irrefrenabile di tornare indietro, di ridiventare bambini; per ritrovare
il gioco, la risata, il movimento, il ritmo2".
Sono questi anche gli anni di piccole iniziative editoriali che E
Zezi lanciano, sorretti talvolta da assessorati della regione: vengono
quindi stampati volumetti (oggi ormai introvabili) che raccolgono e
discutono, con l'aiuto di studiosi locali, canti e fiabe, proverbi e
filastrocche popolari, mentre il Gruppo Operaio si costituisce in
cooperativa (Zezi ín coop)30.
Per tutti gli anni '70, dunque, la canzone politica ed il recupero
della musica etnica erano state strettamente intrecciate; il folk
revival, abbiamo visto, era nato come momento di elaborazione di
una cultura antagonista. L'espressività popolare era riproposta,
anche sulla scia delle formulazioni gramsciane, come 'visione del
mondo' alternativa a quella egemone, e la canzone di protesta cercava spesso di assimilare suoni e ritmi dalla tradizione per comunicare contenuti di attualità.
Negli anni '80 il 'folk' e la politica in musica spariscono quasi
del tutto: molti di coloro che nel decennio precedente avevano cantato la protesta rifluiscono, altri scompaiono dalle scene. Nel pop si
assiste ormai all'impiego massiccio dell'elettronica, mentre la musica
di tradizione orale perde terreno e pubblico, restando patrimonio di
ristrette élites di cultori e rientrando nelle 'riserve' dalle quali era
uscita, vale a dire le feste popolari e i momenti rituali.
Gli eventi sociali e politici già menzionati nell'introduzione
hanno favorito nei primi anni '90 il rinascere di una musica giovanile
ad alto tasso di politicizzazione: al nord i nuovi gruppi rock sbeffeggiano le leghe razziste fondendo il dialetto con il ritmo del reggae; a
Lecce, il ragamuffin giamaicano viene utilizzato cantando, in pugliese, la dura realtà del meridione; centri sociali occupati e autogestiti,
74
come abbiamo già osservato, nascono in tutta Italia affiancandosi ai
pochi sopravvissuti degli anni '70 e amalgamando le schegge dei
movimenti extraparlamentari dell'epoca con le frange giovanili ostili
alla sinistra istituzionale. Nei centri sociali viene ospitato il rinnovamento della musica italiana e a Napoli risorgono i Bisca e nascono gli
Almamegretta e i 99 Posse, per loro stessa ammissione forse più figli
dei Zezi che di 'Annibale'. Oggi tutto questo movimento musicale è
stato totalmente devitalizzato, l'industria ne ha assorbito, a dire il
vero senza eccessive resistenze da parte dei musicisti stessi, le realtà
più creative e potenzialmente commerciali e le ha smistate neí circuiti
del consumo di massa; ma per quattro o cinque anni la 'nuova
cosa' aveva riportato tensione nella musica italiana restituendo interesse alla cultura popolare, interesse in parte dovuto anche alla rinnovata attenzione per la musica etnica a livello internazionale (tra i
primi a stimolarlo, a fine anni '80, Peter Gabriel con il Womad festival e la sua etichetta 'Rea' World'). La stessa riscoperta dei dialetti
locali, un effetto tipico della `globalizzazione'", orientava i musicisti
verso i patrimoni popolari oscurati dalla canzone pop. Il Gruppo
Operaio, dopo anni di difficile sopravvivenza e di attività semiclandestina, viene rimesso in gioco, sia in Italia che all'estero, da questa
nuova temperie culturale. L'ingresso nel G.O. di musicisti provenienti da altre esperienze induce ad un rinnovamento e ad una attualizzazione del 'sound' del collettivo, pur sempre nella istintiva adesione ai ritmi tradizionali, avviando una nuova e feconda stagione
creativa. Dopo ben diciotto anni, un tempo interminabile, improponibile con una benché minima volontà di stare dietro alle regole
dell'industria culturale, l'occasione per un nuovo disco.
Il Cd, dal titolo volutamente enigmatico «Auciello ro mio posa e
sorde», esce nel 1994 (immediatamente a ridosso, quindi, della
grande crisi del comprensorio pomiglianese) per la Tide Records di
Roma ed è il risultato di un insieme di musicisti che per qualche
anno costituirà la line up dei nuovi Zezi. Punto di raccordo tra vecchi e nuovi membri è Massimo Mollo, chitarrista e fisarmonicista,
ritornato nel Gruppo Operaio dopo alcuni anni di assenza. Molti dei
nuovi musicisti sono dí estrazione urbana e hanno spesso una
formazione classica alle spalle, come Antonio Fraioli al violino e
Pasquale Volante, primo contrabbassista dei Zezi; alcuni lavorano
già da tempo sulla musica etnica, come Nando Gandolfi, tradizionale
nel fraseggio e modernissimo nella scelta dei timbri; altri provengono dal rock, come il chitarrista Gaetano Caliendo, o da varie
esperienze musicali come i numerosi batteristi che si succedono in
75
quel periodo (Raffaele Del Prete, Emilio Scognamiglio, Salvatore
Tranchini, e Maurizio Carbone). Da segnalare inoltre Marzia Del
Giudice, prima voce solista femminile stabile del Gruppo Operaio.
Questo forte interscambio tra città e campagna, fra tradizione e sensibilità contemporanea, crea un album dalle sonorità particolarmente attuali, in seguito stampato anche in America con il titolo di
«Pummarola Black» per la Lyrichord Discs Inc. Da rilevare poi la
presenza in «Auciello ro mio» di numerosi ospiti, per lo più provenienti dalla nuova scena teatrale e musicale partenopea. Se nel primo album del 1976 le registrazioni erano state effettuate dal vivo,
nel nuovo disco, pur lavorando in studio, non si rinuncia all'immediatezza comunicativa dei musicisti e al carattere collettivo e spontaneo della performance: parte del materiale (Tesuvio', Tammurriata', `Auciello ro mio', 'A cammera e cunziglio') è infatti inciso in presa diretta, vale a dire senza la sovrapposizione di registrazioni isolate, normale prassi di lavoro nell'ambiente discografico $2. Al disco
seguono tournée nazionali e internazionali (da ricordare già l'anno
precedente uno strepitoso concerto a Nantes insieme ai nuovi gruppi
rap e dub napoletani), dove il Gruppo Operaio non rinuncia certo
alla sua antica vena provocatoria. Proprio nei concerti francesi del
1994, senza esitazione, come annota la stampa d'oltralpe, viene srotolato uno striscione che dice 'Italie finaliste, gouvernement néofasciste', un attacco diretto alla destra di Berlusconi e al tentativo
dell'esecutivo di far passare, proprio mentre la nazionale italiana di
calcio riscuote grandi successi nel campionato del mondo, una legge
scopertamente favorevole alla tutela dei politici sotto inchiesta per
corruzione, il cosiddetto 'decreto salvaladri'.
Intanto, mentre i Zezi esportano la protesta operaia per la
ristrutturazione industriale, a Pomigliano continua il dramma del
lavoro: in quell'anno infatti, Giovanni Sgammato, membro del
G.O. per quasi dieci anni, mette in atto, insieme ad altri due lavoratori, una clamorosa protesta: l'incatenamento su tre croci e lo sciopero della fame davanti ai cancelli dell'Alfa Romeo per protestare,
in forte dissenso con i sindacati, contro la cassa integrazione e i
licenziamenti messi in atto da Fiat Auto, Alenia e Alfa Avio. I tre
operai hanno una corda di canapa al collo per ricordare i suicidi di
molti lavoratori. A rappresentare l'agonia della Sevel e dei suoi mille
occupati, una bara.
Il 25 aprile del 1995, il G. O. è in piazza Plebiscito, a Napoli,
in un grande concerto ripreso dalla Rai per la festa del cinquantenario della Liberazione: «Canto delle possibilità di sopravvivere» per
76
solisti e orchestra di Antonello Paliotti. Con i Zezi e alcuni musicisti
tradizionali della Campania, gli africani Senegal Ritmo, Michael
Brecker e altri gruppi. Nello stesso periodo viene iniziata la lavorazione di «Viento 'e terra», un film-ritratto diretto da Antonietta De
Lillo. Nel marzo del 1996, E Zezi sono ancora in piazza, a Roma, in
una grande festa di solidarietà con gli immigrati contro il decreto
Dini, per costringere il governo a rivedere le norme sull'espulsione
degli extracomunitari.
In seguito il G.O., tuttora coordinato da Angelo De Falco, ha
subìto ulteriori trasformazioni con altre uscite e nuovi arrivi trasformandosi ormai in gran parte in un gruppo professionale; la più rilevante delle uscite è quella di Marcello Colasurdo, voce storica fin
dagli inizi, che fonda un suo gruppo, la Paranza w , non riuscendo
più, tra l'altro, a conciliare i tempi dei Zezi con sopravvenuti impegni nel teatro, nel cinema e nella collaborazione con la formazione
superstite dei 'cugini-rivali' di un tempo: la Nccp. Un'altra voce
femminile, Monica Pinto, giovanissima, e molti nuovi musicisti
sostituiscono quindi i componenti di quella fortunata stagione. Nel
momento di transizione tra le due formazioni viene realizzato un
live album «Zezi vivi», dedicato al popolo Saharawi in lotta per la
propria autodeterminazione, per l'etichetta del quotidiano «il
manifesto» che lancia il Gruppo Operaio verso un nuovo tour in
Spagna nell'estate del 1997. Nel 1998, in Italia, si riparte ancora
una volta dal basso, con esibizioni in realtà alternative (scuole di
musica, centri sociali) o feste di partito, a riguadagnare sul palco il
proprio pubblico. Ma soprattutto si riparte con nuove canzoni, che
arrivano a destare l'interesse di Peter Gabriel e della sua etichetta,
per un sound che si caratterizza sempre di più verso il rock e la
world music, sul ritmo della tammorra di `Miciariello'.
Disarticolati in più formazioni, separati da contrasti e talvolta
da incomprensioni maturate nei tanti anni di attività, i componenti
delle varie fasi della storia del Gruppo Operaio di Pomigliano
d'Arco, i membri delle Nacchere Rosse, i vecchi e nuovi arrivati nel
circuito dei Zezi si riuniscono per dare vita nel febbraio dello stesso
anno, superando divisioni e rancori e mostrando un'immediata
intesa e una grande coesione, a un nuovo grande carnevale popolare
a Pomigliano, con enorme partecipazione della comunità locale e
non senza polemiche con la locale amministrazione. Tutto il repertorio della tradizione pomiglianese è di nuovo riproposto, i Dodici
Mesi, la Canzone di Zeza, il Chiamo a muorto, e poi Pazzarielli,
banditori, mestieri, maschere e quant'altro. È un carnevale `moder77
no', spettacolarizzato, dove è chiara l'intenzione di una riproposta
nell'impossibilità dell'attivazione spontanea di un rituale. Vengono
coinvolti i ragazzi delle scuole, si utilizzano palchi e microfoni, lontani dalla arcaicità che ancora può contraddistinguere certi carnevali
campani (specialmente per quanto riguarda l'Irpinia). Eppure, per
volontà degli stessi animatori, la Zeza viene anche rappresentata più
volte nelle masserie e nei cortili, davanti a poche e divertite persone
anziane, lontana dai palchi e dall'intralcio dei microfoni.
Volutamente impostata in maniera fortemente spettacolare (e in
questo come sempre lontanissima dalle più 'austere' rappresentazioni di Cesinali o di Bellizzi Irpino), e sostenuta dall'entusiasmo
dei protagonisti di sempre (Colasurdo, Sgammato, 'o Stoc e gli
altri), l'antica rappresentazione carnascialesca ripercorre vecchi
sentieri, riappropriandosi dei suoi spazi originari e ritrovando il filo
della sua funzione rituale o, forse, e sarebbe già molto, soltanto di
`memoria' rituale.
NOTE
' Cfr. RONCHETTA-VIGLIANI-SALZA, 1976.
Le frasi virgolettate sono tratte dal volantini distribuito dalla Mime Troupe in
occasione dell'allestimento di 'Ubu Roi' nel 1963. Cit. in VICENTINI 1981.
Si veda sull'intervento dei Zezi a Siano l'intervista a Vittorio D'Ambrosio.
Per i complessi significati di questa maschera cfr. Rossi-De SIMONE 1977.
Impressionante l'analogia con alcune raffigurazioni antiche dove sono rappresentate scene di danze bacchiche in cui due mena di, di cui una con un grande tamburo,
ballano furiosamente; tra di loro un satiro danzante con un tirso (bastone) ornato (ed è
nota la connessione tra la 'mania' delle antiche baccanti e la funzione terapeutica delle più
autentiche tarantelle tradizionali. Cfr. DE MARTINO 1976). Lastre con questo tipo di
raffigurazioni sono custodite al Museo Nazionale Romano (ad es. inv. n.60254, inv.
n.4536/5 ed inv. 4536/10).
6
'Ossa e `pilossaYla carne del montone è tutta ossa/in Italia per stare bene/ci
vuole la bandiera rossa'.
«Attenzione popolazione!! Qui siamo in mano a una brutta razza/ il governo
ci fa uscire pazzi/ loro mangiano, rubano e si alzano i palazzi/ noi lavoriamo e ci 'facciamo
il culo'/ e i figli nostri a casa mangiano colli di cazzo/ noi per fare un a buona democrazia/
dobbiamo fare una buona pulizia/ cacciamo tutta questo schifo/Leone
78
voleva fare il progresso/ e invece di fare l"I lercules7 ha fatto un cesso». Questo
monologo è registrato anche nell'album delle Nacchere Rosse 'Noi vi spar(l)iamo
addosso con una storia diversa'. Si è preferito non rispettare il convenzionale modo di
scrivere il napoletano, lasciando tronche le parole che avrebbero dovuto essere scritte
come piane, per mantenere il ritmo della pronuncia e delle rime. Si noti il riferimento
finale agli 'Hercules' dello scandalo Lockheed.
8
Da A. ACCORNERO, Problemi del movimento sindacale in Italia: 1943-1973,
Annali Feltrinelli, Milano 1976, p. 27. Citato in MARCELLONI- DELLA SETA-FOLIN-CRETELLA-FARRO 1981.
9
Riportato in AuBERTI 1993, Le trasformazioni dell'area nolana, pp. 113-114. Le
incongruenze nella punteggiatura fanno parte dell'originale.
'° Ancora in MARCELLONI-DELLA SETA-FOLIN-CRETELLA -FARRO 1981, p. 142.
" Meno aggressive, ma comunque spettacolari, sono oggi le incursioni degli
'invisibili' (o 'tute bianche'), giovani in prevalenza appartenenti ai centri sociali autogestiti, che eseguono azioni simboliche completamente vestiti di bianco ad evocare,
quasi come spettri, i senza casa, i senza diritti, i senza lavoro; coloro che, come opportunamente scrive Jeremy Rifkin, «diventano 'sacrificabili', poi irrilevanti, infine invisibili nel nuovo mondo tecnologico del commercio e degli scambi globali». Cfr. RIFKIN,
1995, p. 320.
12
In RAMONDINO 1977, p. 21.
'' Scrive a questo proposito F. PIPERNO: «Così le linee della città, le sue forme
seguono regole estetico-religiose e non le tabelle dell'ingegneria del traffico. Le città
meridionali non sono strutturate per ottimizzare la produzione e la circolazione della
merce; ma, più umilmente, per favorire i riti e le passioni sociali». In PIPERNO 1997, p.
34.
" Sempre nell'intervista a Roberto De Simone della nota 49. Nella città moderna, dunque, la cultura popolare deve necessariamente essere cancellata, o almeno resa
marginale. Nulla deve ostacolare la razionalizzazione capitalistica (non si scrive sui
muri perché i muri appartengono alla pubblicità, non si può suonare per strada perché si intralcia il traffico e si rallentano i flussi della forza lavoro ecc.). Non a caso,
proprio con la fine della modernità e del modo di produzione fordista, gli ambienti
urbani vengono ridisegnati dai nuovi poteri: il postmoderno recupera gli spazi all'
'immateriale', incoraggiando i suonatori di strada, i graffitisti, i saltinbanchi, i concerti
nelle stazioni ferroviarie. La rivalutazione dei suoni, dei colori, dei gesti nelle strade e
nei luoghi pubblici si inserisce nel progetto del capitalismo postfordista che richiede
stimoli nuovi per nuovi consumi, legati ad una rinnovata dimensione dell'immaginario, lontano dai prodotti industriali durevoli ed indifferenziati della fase fordista.
" «Sono di ferro/ eppure mi/ metto vergogna/ di vedere tanti/ disoccupati/
senza un / lavoro a causa/ dei padroni e/ del governo/ perciò mi faccio/ coprire/ fino
a quando/ non ci date/ il lavoro!». Una fotografia di questa statua è in FERRARA 1997, p.
19.
16
Ibidem, pp. 94 e 95.
'7 In Comitato Disoccupati Organizzati 1976, p. 35.
i8
IIt RAMONDINO, p. 21.
'9 Cfr. ORTOLEVA 1998, p. 191.
2
° M. REVELLI in BASSIGNANA-CASTAGNOLI-REVELLI (a cura di) 1998, p. 23.
"Cfr. LIBERO 1988.
"Ibidem, p. 13.
23
Si veda DE SIMoNE 1982, p. 146: «Innanzitutto la mosca è in relazione strettissima con la putrefazione e quindi con i morti. (...) Del resto, ancora oggi, in
ambienti popolari, durante la lamentazione e la veglia funebre, si usa sventolare un
fazzoletto sul viso scoperto del morto, proprio perché con questo gesto, rimasto radicato nella coscienza, si usa allontanare le mosche dal cadavere, anche se si è in tempo
79
invernale ed è difficile vedere delle mosche. Insomma, con tale rappresentazione si
tenta di impedire simbolicamente che uno spirito maligno, in forma di mosca, si avvicini al morto».
24
Cfr. DE MARTINO, 1975 e anche LOMBARDI SATRIANI-MELIGRANA 1989.
27
Analogo dispositivo allegorico si ritrova nel cosiddetto 'Carnevale di massa'
di Governolo del 1950; questa volta la vittima rituale, un asino, rappresenta la morte
dell'agricoltura italiana, polemicamente attribuita alla concorrenza del piano Marshall.
Cfr. BERTOLOTTI 1991.
26
Cfr. intervista a Roberto De Simone a cura di Piero Giacché, in «Scena»
luglio 1981. Sempre sulla 'Grande Imperatrice' cfr. anche Annabella Rossi in ROSSI DE SIMONE 1977, p. 19. Sul 'fantastico' nella cultura popolare meridionale si veda inoltre CASTIGLIONE 1981. Il personaggio della 'Grande Imperatrice' è raffigurato sulla
copertina del volume «Carnevale si chiamava Vincenzo».
27
Cfr. SHANK, 1980 e anche, per le esperienze britanniche, G. VACCA, Imparare
le tecniche della creazione popolare. Intervista a Ewan MacColl in «I Giorni Cantati»,
marzo 1989.
28
In BALDASCINI-GRAVIER-E ZEZI 1981.
"In questa dimensione si comprende anche l'assenza di una regia formale negli
spettacoli teatrali dei Zezi, sebbene questi fossero comunque supervisionati da De Falco. Infatti «la regia europea, decollata alla fine del 1800, rappresenta un processo artistico parallelo alla modernizzazione attuata dalla tecnologia industriale» (cfr. PUPPA
1998, p. 7). Una forma di inquadramento e di disciplina, dunque, per forza di cose
estranea all'incontrollabile spinta vitale del Gruppo Operaio di Pomigliano.
30
Cfr. il quaderno di cultura popolare «`0 `ppane 'e mamella» in bibliografia.
31
Si vedano, nella sterminata letteratura a proposito dei fenomeni culturali
conseguenti alla globalizzazione, LATOUCHE 1992, HARVEY 1993, GIDDENS 1994, RIFKIN
1995, REVELLI 1996, RAMONET 1998.
32
Come nel caso della regia teatrale, dunque, si presenta ancora una volta una
resistenza a quello che, per dirla con Horkheimer e Adorno, è «il carattere di montaggio dell'industria culturale, la fabbricazione sintetica e regolata dei suoi prodotti, che
imita i procedimenti dell'industria manufatturiera e della produzione in serie». Cfr.
HORKHEIMER E ADORNO 1966, p. 177.
" 'Paranza', come abbiamo già detto, significa 'gruppo', ed è un termine usato
dai pescatori e adottato con lo stesso significato nell'entroterra. Il suo uso in comunità
popolari anche lontane dalla vita marinara (così come la presenza rituale di pesci, barche e pescatori in molte manifestazioni della cultura etnica campana) fa pensare al
permanere di una vera e propria costellazione simbolica.
80
IV. I TESTI
Aaaah, n'adda fa bene, n'adda fa bene
Chi ce leva a muntagna
Ah, n'adda fa bene, n'adda fa bene
Chi ce leva o lavoro
Ah, n'adda fa bene, n'adda fa bene
Chi ce leva a felicità
Ah, n'adda fa bene, n'adda fa bene...
Chi s'ha pigliato a pullanca e mamma mia...
E nun m'a rà!
Sia in America che in Europa, il folk revival si proponeva di
elaborare nuove forme alternative di comunicazione antagonista,
basandosi sui modelli espressivi tradizionali che cominciavano ad
essere soppiantati dalla nascente cultura di massa. Tale elaborazione
significava anche, naturalmente, lavorare sui testi dei canti popolati,
sfida ardua per chi si accingeva a farlo sul corpus tradizionale
campano.
Come abbiamo già avuto modo di dire, Il canto etnico campano
si manifesta, nella maggior parte dei casi, in contesti rituali a
carattere collettivo come pellegrinaggi e feste sacre. In queste occasioni esso assolve, insieme con gli altri elementi del rito, alla funzione
di favorire un momento rituale di destorificazione e non può quindi,
pena la perdita della sua efficacia, veicolare (se non occasionalmente) contenuti contingenti. La sfida consisteva perciò nel
secolarizzare il canto popolare, sottrarlo alla sua condizione metastorica, atemporale, e piegarlo, pur volendone rispettare le strutture
formali, alle esigenze del quotidiano.
Nella tradizione britannica, il folk revival aveva a disposizione il
grande serbatoio della 'ballata', componimento di carattere narrativo-sequenziale di formazione in genere non anteriore al XVI secolo, ma spesso anche più recente, legato alla realtà materiale dell'esistenza, con valore di vero e proprio documento 'storico'. Ciò permetteva ad operatori come MacColl in Inghilterra, o Seeger negli
Stati Uniti, non solo un plausibile aggiornamento dei contenuti, ma
anche un recupero del canto popolare che fosse basato sulla chia81
rezza della parola scandita e sulla efficacia del racconto. Per
l'appartenenza a un'area folklorica contigua, qualcosa di simile era
possibile anche nel nord Italia, come avevano dimostrato i gruppi
del revival settentrionale.
I canti etnici dell'area napoletana, almeno quelli rimasti nella
tradizione viva, si muovono invece in un registro totalmente diverso: anzitutto, un tratto arcaico che li caratterizza è di essere eseguiti
quasi esclusivamente nelle feste religiose'. Manca infatti in Campania una consolidata tradizione di canto sociale, così come mancano
quasi totalmente nel mondo popolare occasioni di vita associata
non rituale (osterie, cori, gruppi ecc.). Essendo parte di quel complesso meccanismo magico-rituale che la dimensione della festa
contadina mette in moto, nel momento dell'esecuzione di questi
canti popolari ha grande importanza la dimensione 'fonica', fatta di
grida, di suoni ad imitazione delle voci animali, di stereotipie ritmiche, che contribuisce (come del resto la gestualità) alla totalità della
comunicazione, travalicandone l'aspetto puramente verbale; in
secondo luogo i testi sono costruiti in modo completamente diverso: raramente basati su strutture narrative coese, essi sono agglomerati simbolici, labirinti allusivi, densi di strati profondi e di criptici
riferimenti ai miti e ai riti delle antiche culture mediterranee2.
Le prime canzoni dei Zezi sono il frutto di un'elaborazione
collettiva interna al gruppo stesso, quasi a voler ribadire il loro
carattere di canti popolari, anonimi e destinati alla comunità; si
tratta di brani in cui la canzone di protesta si fonde con i versi della
tradizione orale, e proprio la dimestichezza di molti membri del
Gruppo Operaio con il canto tradizionale del rito, il loro essere
parte attiva del mondo delle feste popolari, fa sì che le stesse immagini, gli stessi millenari simboli della tradizione, vengano inconsciamente rifunzionalizzati e usati per esprimere i nuovi contenuti. In
seguito i Zezi si avvarranno, per i testi, della collaborazione discreta
di Luca, alias Luigi Castellano, un apporto decisivo per la loro storia, che già nei primi tempi di attività del G.O. aveva firmato 'A
cantata de maccarune'.
Nel primo album `Tammurriata dell'Alfasud' è presente un
canto tradizionale sul tamburo chiamato 'Palle e pallucce'. In esso
si 'narra', in maniera vaga e misteriosa, di qualcuno che sale in un
palazzo per avere un incontro erotico con una ragazza; quando
arrivano i fratelli di lei, si hanno una serie di versi apparentemente
incongrui e privi di nessi:
82
E si aggio fatto male vuje acciritemi
E `ncoppe a `nu chianchione chianchiatemi
Dinto a `na casciolella vuje `zerratemi E co
na chiava d'oro vuje `nchiuritemi A capo
de nove mesi vuje `rrapitemi Chesti
ussicciolle meje fanno 'e miracoli'.
Si tratta di una strofa che sembra avere poco senso ma che,
letta in chiave simbolica, adombra invece le modalità di un classico
rituale sciamanico: è proprio infatti delle iniziazioni sciamaniche (e
delle iniziazioni in generale) subire uno smembramento simbolico
rituale del corpo, cui segue la rigenerazione e la ricomposizione delle
ossa e degli organi che preludono ad una rinascita, secondo uno
schema ciclico di passione-morte-resurrezione (è evidente, in questo
caso, l'allusione al parto, nella simbologia dei nove mesi). Struttura
analoga presentano molti miti del mondo classico dell'area
mediterranea (Osiride, Adone, Dioniso), che è talvolta possibile leggere in filigrana nelle culture folkloriche, pur se in maniera frammentaria. Nelle sue forme più arcaiche questo schema è spesso legato all'inghiottimento dello sciamano (o di un eroe) da parte di un
mostro (sovente un serpente o un pesce), e alla fuoriuscita del primo, che così 'rinasce', dalla bocca di quest'ultimo 4. Negli antichi
rituali iniziatici, come è noto, il novizio subiva queste prove per
mutare il suo stato esistenziale, rafforzarsi e definire la sua identità,
accedere al mondo degli adulti o, nel caso dello sciamano, acquisire il
suo status specifico. Anche l'estraneità della strofa al resto dei versi
non deve stupire: questi canti procedono per associazioni e parlano il
linguaggio dell'inconscio; essi permettono, tramite l'esposizione di
versi tradizionalizzati, il deflusso di tensioni accumulate e di angosce
irrisolte", non necessitano di coerenza interna, e vanno interpretati
non logicamente ma analogicamente. Tracce di sciamanismo, già
rilevate nella figura del pazzariello, sono spesso presenti anche ad
altri livelli nella cultura napoletana e meridionale, ad esempio in una
leggenda sulla morte del principe alchimista del XVII secolo Raimondo Di Sangro di Sansevero, che visse nel centro antico di Napoli
e di cui ancora si può visitare il palazzo6. Anche qui, come per un rito
iniziatico, il protagonista viene smembrato, ma l'errore di uno
schiavo nel tenere il conto dei mesi in cui il corpo doveva rimanere
sepolto (in questo caso erano dodici, altro numero simbolico), causa
l'arrivo del fratello del principe, l'apertura della cassa e la morte del
protagonista. Oppure, le si ravvisa, per fare un altro esempio,
83
nella figura degli 'assistiti', personaggi degli ambienti popolari, ritenuti in contatto con il mondo dei morti e alle cui visioni la gente
delega l'individuazione dei numeri da giocare al lotto.
I significati dei testi dei canti etnici dell'area napoletana sono
quindi di difficile interpretazione e sono da rapportare, accogliendo
la lezione di de Martino e di De Simone, ad angosce esistenziali,
culturalmente controllate tramite simbologie rituali, riferibili principalmente al sesso e alla morte. Sí rifletta ad sempio anche su questa strofa, sempre tratta da Tammurriata', dal primo album:
Abbascio 'o puorto nun ce scennite
Nun ce scennite abbascio 'o puorto
Chella tene 'o marito muorto
Ù mannaggia chi t'è muorto
Ma che diavolo tieni `ncuorpo7.
Qui tali angosce vengono espresse in controluce e proiettate
in una dimensione simbolica, atemporale ed emblematica.
È difficile quindi attualizzare tale tipo di contenuti, eppure si
veda come E Zezi fanno irrompere, seguendo lo stesso schema metrico, il quotidiano, la 'storia' appunto, riferendosi alla disgrazia del colera,
che all'epoca imperversò a Napoli, e all'oppio calcistico; quasi, sembrerebbe, con un subitaneo passaggio dall'inconscio alla coscienza:
E venimmo a nuje cumpagni
Ca 'o culera è abbundante
E nuje spennimmo 'e miliardi
Pe' nu merda 'e gol all'anno'.
L'immaginario popolare napoletano è insomma pervaso dal
senso del 'sacro', del numinoso affascinante e tremendo. La `ierofania', il manifestarsi stesso del sacro nella sua ambivalenza di attrazione-repulsione, esprime il contenuto psichico, lo circoscrive e ne neutralizza le possibilità di irruzione incontrollata nel reale.
Questa potenza della ierofania, con tutta la forza e l'ambiguità
simbolica normalmente rintracciabile nella dimensione mitico-rituale,
viene evocata anche nelle strofe, che descrivono l'impatto
dell'operaio dell'Alfasud (strappato il giorno prima ad una dimensione contadina e sacrale) con la catena di montaggio, in cui la consapevolezza della lotta sostenuta per ottenere il lavoro si fonde con
l'appello alla Madonna dell'Arco, la più popolare, forse, delle antiche Madonne napoletane. Forgiati dalle gigantesche presse e assem84
blati nel reparto di lastroferratura, i materiali un tempo anonimi ed
ammassati nei magazzini hanno già preso forma nella scocca, le
'ossa' dell'automobile: la vettura è già nata ma è ancora incompleta,
fragile, indefinita. Nel reparto successivo essa viene verniciata, sigillata, smaltata; tra fumi e vapori subisce la schiumatura e i primi test
di collaudo per poi entrare nel reparto di montaggio e ricevere la
sua 'anima', il motore, che le darà la definitiva identità. Nel momento in cui l'auto, ormai un organismo vivente, lascia quest'ultimo
reparto per entrare in 'finizione', gli enormi ganci che la mantengono in moto sulla catena, oltre l'altezza dell'uomo, si aprono, ed essa
piomba rumorosamente sui nastri trasportatori d'acciaio che la conducono agli ultimi ritocchi, prima dei definitivi collaudi su pista. Il
'mostro' affascina ed impaurisce sputando dalla sua bocca, quasi
come in un antico mito di rinascita, una macchina finita:
Na lotta aggi'avuta fa
Na lotta aggi'avuta fa
Na lotta aggi'avuta fa pè nce trasì
Ma quann'aggio trasuto Mamm"e
ll'Arco ch'mbressione
Mamm'e ll'Arco ch'mbressione ch'aggio avuto
Uè nu mostro je vediette
che paura ca faciette ué pa
vocca ogni minuto cacciava na
macchina fernuta9.
La fabbrica stessa, del resto, ha sempre avuto nell'immaginario
della plebe napoletana un ruolo 'mitico'. Il lavoro in fabbrica era
visto come possibilità di fuga dalla precarietà dei mille mestieri di
quella che un tempo veniva chiamata 'economia del vicolo'").
L'assunzione era associata a sicurezza, prosperità e dignità pur nella
totale assenza di cultura industriale, un fenomeno giustamente definito 'idolatria dello stabilimento'" e che non tardò a provocare
cocenti delusioni (numerosi gli operai che non sono riusciti ad abituarsi ai ritmi di lavoro e che dopo alcuni anni di lavoro hanno
abbandonato per altre occupazioni). Si tentava quindi, da un canto,
di entrare in fabbrica a tutti i costi, magari facendo domanda
d'assunzione in carta bollata (è il caso proprio dell'Alfasud, insediata con l'intervento pubblico e quindi concepita come 'Stato' e cioè
come 'mediatori' nella cui pronta risposta si confidava magari con
85
la motivazione di 'avere famiglia') oppure pagando una tangente,
proprio come ín l'ammurriata dell'Alfasud':
Settecientomila lire aggio cacciato pé trasP2
dall'altro la si viveva come estraneità totale, incomprensibile,
angosciante, da cui si vuole scappare:
Guarda llà nce sta na pressa Notte
e gghiuorno vott' pressa Se mangia
'o sanghe de cristiane Vavattenne
prisma 'e dimane".
Nella cultura tradizionale napoletana, come in molte antiche
culture, si ritrovano spesso immagini di quell'ampio repertorio che
viene detto 'del mondo alla rovescia'; si tratta di figure di tipo carnevalesco, presenti nei canti popolari come in stampe d'epoca, in cui si
descrivono situazioni inverse a quelle che la realtà propone. Anche
qui possiamo osservare il lavoro simbolico di condensazione tra
opposte tensioni: la realtà viene rifiutata rovesciandola, ma lo stesso
rovesciamento simbolico, nella sua illogicità, la rafforza e la legittima,
delimitandone la dirompente carica angosciosa, potenzialmente in
grado di mettere a rischio la 'presenza nella storia' del soggetto. Questa visione di tipo rituale finisce ancora una volta per convivere con
un'immagine di rabbia operaia, che si manifesta 'di notte', con il linguaggio onirico dei simboli:
...E tira accà e vott'allà
aunimmece pé cagnà
Je stanotte l'aggio visti
Sti padrune a fa' `e pistune
...chille ch'erano 'e padrune
pure lloro a fa' `e pistune".
Oltre a ricalcare il simbolismo popolare, nello sviluppo delle
sue tematiche il Gruppo Operaio utilizza anche la canzone narrativa, ma senza abdicare ad un certo tipo di immaginario tradizionale.
La canzone narrativa offre ovviamente un prezioso strumento alla
comunicazione antagonista: la sua struttura lineare e sequenziale
permette uno sviluppo contenutistico in chiave epica, che sarebbe
stato necessariamente limitato se espresso unicamente nel linguag86
gio della tammurriata; con queste canzoni, E Zezi si affiancano alla
migliore tradizione della canzone politica internazionale.
Due brani sono indicativi in questo senso: 'A Flobert' e 'A ferriera'. La prima è la più nota canzone del Gruppo, ed è inclusa nel
primo album «Tammurriata dell'Alfasud», la seconda, scritta da
Luca Castellano, è contenuta in «Auciello ro mio». 'A Flobert', una
sorta di `disaster ballad' ripresa in seguito anche dalle Nacchere Rosse e nota anche come `Sant'Anastasia', racconta, come già sappiamo,
della fabbrica di armi giocattolo che saltò in aria uccidendo dodici
operai, addetti ad una pericolosa lavorazione senza nessuna misura di
sicurezza. La canzone comincia con la data dell'esplosione:
Viernarì unnice aprile
`A Sant'Anastasia
Nu tratto nu rummore
Sentiett' e che paura'5
e già questo la assimila a tante canzoni sul lavoro. La si confronti, ad esempio, a 'The lifeboat Mona', scritta da Peggy Seeger,
sorella di Pete e compagna di Ewan MacColl:
Remember December '59
The howling wind and the driving rain
The men who leave the land behind And
16.
the men who'll never see land again
I versi della `Flobert' proseguono, come vedremo tra breve,
descrivendo lo straziante spettacolo dei morti, il dolore dei parenti,
l'ipocrisia dei telegrammi delle autorità, e si sciolgono in una virulenta protesta sulle note di 'Bandiera rossa'.
Anche 'A ferriera', che racconta di un operaio che muore
finendo nel ferro bollente, comincia con la collocazione della storia
in una dimensione temporale ben precisa (si tenga presente quanto
abbiamo detto sul carattere `atemporale' dei canti tradizionali campani che non contemplano, normalmente, la forma-ballata):
Erano e quatte e stammatína
Ch'hanno scetato a figlia e `Ntunino
Ca faccia scura e na brutta manera
Venevano e corza ra rint'a ferriera''.
Nella Terriera', come nella 'Robert', si stigmatizza l'indifferenza delle autorità ma in maniera iperbolica; qui infatti il 'capo'
87
porta alla famiglia dell'operaio morto un pacchetto con una ricevuta: è il gomitolo di ferro filato in cui è contenuto ciò che resta del
corpo del lavoratore. Nonostante i due pezzi siano stati scritti a
distanza di tempo e da mani diverse, essi presentano notevoli somianze stilistiche; anzitutto è presente in entrambe una forte 'coralità' e il discorso diretto introduce nella struttura narrativa la voce
dei lavoratori e dei loro familiari. In 'A Flobert':
`O figlio mio addò stà
aiutateme a cercà
facitelo pe' pietà
pe' fforza `ccà adda stà'
`Signò nun alluccate
Ca forse s'è salvato'
E 'a mamma se và avvutà
Sott'a terra 'o vede piglià2
In 'A ferriera':
...Gente currite
abbascio a ferriera
currite...è tuccato a `Ntunino
...pat'e figli...pover'ommo
pover'ommo!19
Il disastro è dunque vissuto in prima persona dagli operai e
dalle famiglie restaurando, nel momento della tragedia, quella
`comunità' che il lavoro di fabbrica ha spezzato. In maniera analoga
Raffaele Viviani, la cui scrittura i testi dei Zezi sembrano spesso
evocare, aveva descritto nella sua poesia `Fravecature' emuratorig
un incidente sul lavoro:
Nu strillo; e po' n'accorrere
gente e fravecature.
– Risciata ancora... È Ruoppolo!
Tene ddoie criature! (...)
Quanno ò spitale arrivano,
`a folla è trattenuta,
e chi sape 'a disgrazia
88
racconta comm'è gghiuta.
E attuorno turt"o popolo:
– Madonna! –Avite visto?
– D"o quinto piano! -2 E Virgine!
– E corame, Giesucristo...?!2°
In 'A Ferriera' poi, gli aggettivi che descrivono il disastro:
Se l'era agliuttuto na fiamma lucente E
ll'era ammiscato co fierro v-dente-2'
rimandano, come nella larnmurriata dell'Alfasud', ad una esasperazione sensoriale in cui la percezione della carica distruttiva della
fabbrica viene trasfigurata in una vera e propria epifania dell'annientamento. Da rilevare, inoltre, la singolare analogia tematica con due
canzoni propagandistiche del periodo fascista (di cui quelle dei Zezi
sono ovviamente l'esatto ribaltamento, il vero e proprio 'negativo')
che trattano di lavoro nell'industria pesante e di incidenti sul lavoro.
Nella prima, 'La prudenza' (Seracini-Maneri) interpretata da Gilberto
Mazzi, uno dei cantanti dell'epoca, gli incidenti sono naturalmente il
risultato della colpevole distrazione dell'operaio:
Lavorando,
manovrando,
macchine o motor
non distrarti
non fidarti
segui il tuo lavor!
Non pensare ai cruciverba
O agli occhi blu
Della tua Mariù!
E ancora:
Lo stordito l'intontito senti a me
nuoce agli altri e specialmente a te; basta
un fallo un'imprudenza nel lavor per
piombare a un tratto nel dolor
La seconda si intitola proprio Terriera' (Cherubini-Bixio) e,
dopo aver cantato le 'gioie' del lavoro in fabbrica e della pace
domestica:
89
Suona campana, suona, vien giù la sera;
torna cantando l'uomo dalla ferriera: pensa
ai suoi bimbi e canta alla sua casetta ov'è
una zuppa e un angelo che l'aspetta. bacia
una testa bionda e una chioma nera. com'è
felice l'uomo della ferriera!
sublima nel patetico e nel lacrimevole quell'incidente che invece,
nella canzone del Gruppo Operaio, tramite il grottesco espediente del
lavoratore reificato nel suo stesso prodotto, esprime indignazione e
rabbia (il brano era cantato da Anacleto Rossi):
Negli altiforni della città
L'acciaio fuso sfavilla già;
ma il fuoco traditore
investe il forgiatore...
presso il compagno che muor laggiù
nessuno canta più...
Suona campana, suona, vien giù la sera;
ma non ritorna l'uomo dalla ferriera...
com'è triste il suono delle campane
mentre i bambini aspettano il babbo e il pane...
Torna al balcone invano colei che spera... Ma
non ritorna l'uomo della ferriera! i 22
Le parole di 'A Ferriera', come anche quelle di 'Vesuvio' e 'Piazza
Dante', sono di Luca, che diventa, col passare degli anni, autore di
molti dei i testi delle canzoni che il Gruppo Operaio propone.
Luigi Castellano, 'Luca' appunto, si definisce un 'artista
comunista dell'avanguardia storica napoletana'; produttore di
immagini e scritture differenti, svolge da sempre attività completa
nel campo delle comunicazioni visive. Luca però, per essere un artista d'avanguardia, è dotato di un forte sentire popolare, capace
com'è di scrivere canzoni figlie di una memoria ancestrale, legate al
vissuto di ambienti tradizionali, e allo stesso tempo di un continuo
rapporto con la realtà operaia delle fabbriche.23
In 'Vesuvio', l'invocazione alla montagna esprime l'antica
paura per le forze telluriche, esorcizzate nella tradizione dai riti del
fuoco di Somma Vesuviana, e la unisce alla rabbia per lo scempio
edilizio operato nella zona:
90
Si o purgatorio e tutte
Chesta gente
Ca vive int'e barracche
E vive e stiente"
Soprattutto però, mantiene ancora quelle immagini violente,
permeate dalla luce della fiamma, dal calore del fuoco e da infernali
rumori:
Si fumme o si nun fumme
Faie rummore
È 'o ffuoco ca te puorte
Int'o core".
Si comincia a intravedere così la cifra stilistica del Gruppo, una
poetica comune che rimbalza da un brano all'altro, fatta di lavoro in
fabbrica e di attivismo politico, ma anche di vita comunitaria, di tradizione rituale. Queste canzoni rimandano così tanto alla comunità
operaia quanto ad una dimensione di famiglia allargata, che il mondo
popolare tende a riprodurre quando viene sradicato dalle sue abitazioni dei centri storici per essere forzatamente trasferito nelle costruzioni di edilizia popolare nelle periferie. Negli anonimi condomini a
più piani, privi di spazi atti a permettere una vita di comunità, si abita
dunque lasciando le porte di casa aperte, vivendo sui pianerottoli e
negli androni, dilatando lo spazio domestico fin sulla strada, come è
possibile osservare frequentando le zone popolari di Pomigliano o di
Sant'Anastasia.
Così, ad esempio, il senso di comunità si ritrova in `Capipallisti':
Stammatina int'o piazzale
Stammo tutti quanti afora
Tasca ma ch'è succiesso?
...iammo a cassa integrazione
...e in mobilità!"
In questo caso, è una comunità che reagisce con sgomento al
senso di precarietà che i processi di deindustrializzazione comportano in termini di costi umani. Poche ma efficaci parole esprimono il
disagio e lo stupore di fronte agli invisibili e potenti meccanismi
economici che lasciano sul terreno disoccupazione ed incertezza.
91
Oppure, in 'A cammera e cunziglio', si evoca una scena tipica della
vita di cortile, quando le donne si sedevano una accanto all'altra e,
come una sorta di giornale vivente, commentavano gli eventi del
paese, i comportamenti delle persone:
A cammera e cunziglio
chiagne a mamma ca vole o figlio
...trullellà trullellariulà E
s'o cresce a ora a ora
Piglio o figlio ce faccio ammore
...trullellà trullellariulà
(...)
Vavattenne faccia ngialluta
Manco e cane t'hanno vuluto
...trullellà trullellariulà27.
Questa coralità comunitaria è stata fin dagli inizi il marchio
del G.O. anche nella sua dimensione più specificamente teatrale,
come dimostrano la scena della mensa o dell'assemblea che compaiono in `Tammurriata dell'Alfasud' del primo album e che abbiamo già analizzato nel secondo capitolo.
Se in canzoni come 'Vesuvio' si tende, tra l'altro, alla denuncia
della subalternità del proletariato napoletano e della sua precarietà
esistenziale, in `Pummarola black' il discorso si allarga allo sfruttamento della manodopera di colore che, nel vesuviano come in altre
zone del Mezzogiorno, vive ancora sotto il tallone del caporalato:
Ie so janche e tu si niro Ma
io sto chiù a niro e te (...)
mò p'è janche, gialle e nire
pur'a pummarola è black28
in un ideale invito a preparare la bara (il `tavuto'), per i comuni
sfruttatori:
...Pe chi h'avuto e nun 'a rato
o tavuto è appriparato!29
E la `pummarola' assume, come i più autentici simboli,
un'ampia polisemia: 'nera' perché frutto di lavoro nero, perché la
92
pelle deí lavoratori è nera e perché associata alla morte, e quindi:
...S'è vestuta a lutto
pecché e tiempe songhe brutte)°
ma anche, ovviamente, implicitamente 'rossa' e quindi rivoluzionaria.
Dello storico G7 dei grandi della terra a Napoli del 1994, E
Zezi colgono il segno reazionario, nonostante il grande ritorno di
immagine che la città ne ha avuto in termini di pubblicità e che ne
ha effettivamente decretato in seguito il definitivo rilancio su scala
internazionale, in «G7: zimbre e crapetti», quindi:
So' loro e schiattamuorte
Di questa società
Distruggono, licenziano l'umana dignità31.
In 'Piazza Dante', ancora, si allude ironicamente al noto rap porto confidenziale che il popolo napoletano da sempre ha con i
suoi santi, e al particolare modo di gestire i suoi rapporti col
`sacro' che, come in molte antiche culture, confina spesso con
1"osceno':
E cinche o juorno rint'a na chiesa
Steve nu santo cu a faccia appesa
Era succiesso ca rint'a cuntrora Na
vecchia s'era aizata o priore!"
Nel periodo maggiormente legato al teatro, e cioè gli anni '80,
E Zezi utilizzavano le canzoni soprattutto per la satira politica,
cercando di mantenere l'attenzione del pubblico su tematiche in
quegli anni quasi totalmente espulse dalla canzone d'autore. 'Oi
taliano' è tratta dallo spettacolo `Nzalata no stop' del 1985:
Oi taliano, da Torino a Brusciano
Quanno piglia a scheda mmano
Sul'a nnuie haia vutà.
Te ricimmo si stu voto tu ce raie
Tu rimane già sarraie
Nu signore e taliano!
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Vuò o lavoro, vuò o lavoro
Vuò na casa e a pensione
Ramme o voto, rarnme o voto
Na cosa a me, na cosa a te
Oi taliano, da Torino a Brusciano33.
Un linguaggio ridotto all'osso e voluta mente privo di risonanze simboliche, un testo modellato sulla popolare melodia de 'La
Colejala': è un procedimento che i Zezi utilizzarono molto in quel
periodo e che ben si presta, proprio perché basato su melodie molto conosciute, a diffondere contenuti satirici o propagandistici.
Le canzoni più recenti continuano invece a sviluppare le
tematiche forse più consone al Gruppo Operaio, come `Giuvinotte
e signurine' che affronta in modo diretto il problema della disoccupazione giovanile, il cui riflesso più immediato è nell'adolescenza
protratta che molti ragazzi sono costretti a vivere:
Ma che male v'hanno fatto Sti
guagliune miez'a via Stanno
tuttu quant'a spasso Senza
sorde rint'e sacche".
Una disoccupazione 'strutturale', funzionale alla riorganizzazione produttiva, che esplicitamente necessita di una massa di giovani economicamente dipendenti dai genitori e quindi ricattabili in
qualsiasi momento dal mercato del lavoro 'flessibile':
Ma e mastune aumentano o volume
Vottano a destra e fanno o ritornello
`belli guagliune, verite e v'arrangià
meglio a campare cu papà e mamma!
V'avisseve sunnato ca rimane jesce o sole
E ca ognuno e vuie trova chello ca se sonna?35
`Bianco o cioccolata' è una canzone antirazzista che non solo
chiede tolleranza di maniera per ogni forma di diversità (anche solo
fisica):
A ggente è nera o è gialla, è bianca o è ciucculata È
secca , chiatta o storta, songh'è mmane ro sole36
ma auspica anche la soluzione delle questioni sociali che del
razzismo sono la base e il nutrimento:
94
Sfamammoli, vestimmoli
Cu rammoli , ' npa rammoli
Facimme e faticà ! "
In 'Malocchio' ci si riavvicina a personaggi tipici della tradizione e oggi quasi del tutto scomparsi; l"incensiere', nella comunità
popolare napoletana, aveva il compito di scacciare (con gli opportuni scongiuri rituali) il malocchio e garantire prosperità alle famiglie
che incontrava. Vestito sempre di nero, era adorno di corni e di
santini. Il testo è di Gennaro Esposito, anziano poeta popolare
`urbano' di Napoli:
C' `o tubbo `ncapa e na sciammèria corta
Passa nu vennetore `e bonasciorta;
Appise a nu cazone a zompafuosso
Porta meraglie sante e ccuorne d'uosso (...)
E contro 'e male nuove e chilli antiche,
Ca tèneno 'e rradice `int'a sti viche,
Pe' chellu `ncienzo 'a gente s'ammuina
E se l'accatta comme medicina. 38
Ma, naturalmente, nessuno spazio è lasciato ad una oleografica
e nostalgica memoria; i personaggi della Napoli popolare stanno
morendo, sopraffatti da dinamiche nuove che li riducono a patetiche
e marginali figure:
Mo st'ommo, ca nun tène bene 'e sciorta,
`o va vennenno a ll'ate porta a porta e
rialanno nuvole 'e speranze,
a stiento scippa 'a vita e tira annanze!"
E non poteva mancare, in un ensemble che del contatto con il
pubblico fa il suo punto più alto di verifica, lo slogan. In 'Posa e
sorde' (una locuzione del linguaggio `parlesia', il particolare gergo
dei musicisti napoletani, che significa 'dacci il dovuto') 40:
O padrone a fine mese Tene
sempe a busta appesa
L'operaio e vintisette
Manco e sorde pe sigarette
(...)
95
E posa e sorde, posa e sorde
Posa e sorde mariuò
Pos'e so, pos'e so, pos'e so
Marinò, marinò, mariuò!"
O, ancora più efficace, con linguaggio apocalittico:
Alenia , Alenia, Alenia, Alenia Ra
nu mumento a n'ato
O mare s'è agitato
Italsider, Sebm, Fincantieri:
L'hanno vennuta aiere!
Circumfer, Raccorderie
So ghiute miez'a via! 42
L'uso degli slogan, così come l'utilizzo di fischietti, tamburi e
campanacci, è importante per l'operazione dei Zezi: questi strumenti,
nel rimandare (inglobandola) all'immagine di una Napoli plebea e
chiassosa, fanno parte di un possibile `folklore operaio', così come
striscioni, murales, pupazzi e maschere, o comportamenti cinesici
come corse e rappresentazioni improvvisate; tutto questo bagaglio
comunicativo, che i lavoratori usano nei loro cortei, negli scioperi,
nelle occupazioni, E Zezi hanno usato nei loro spettacoli dal vivo. Si
tratta insomma della persistenza, all'interno delle classi popolari, di
forme di espressione alternative alla cultura scritta e alla sua classica
composizione tipografica, per una comunicazione a tutto campo,
visiva, sonora, gestuale, così come lo è quella contadina del rito.
Tra canzone di protesta e ballata, insomma, tra slogan e linguaggio rituale, per non parlare di motivi fiabeschi e filastrocche
presenti in altri brani", E Zezi tessono un ampio tappeto di possi bilità espressive per una moderna canzone politica, alternativa e
polimorfa, in grado di giocare le sue potenzialità comunicative sui
registri più diversi : allusivo, simbolico, narrativo, ma anche ritmico, iterativo, o talvolta puramente fonico.
96
NOTE
' Questa schematizzazione è volutamente parziale. Non si tiene qui conto, di
conseguenza, della grande tradizione meridionale dei 'cantastorie', peraltro assai
meno diffusa in Campania rispetto a Sicilia o Calabria. Per un ampio panorana
dell'attività dei cantastorie nel Mezzogiomo d'Italia, cfr. GERACI 1996.
2
Roberto De Simone in particolare, ha individuato nei canti popolari meridionali le connessioni con i miti ed i simboli delle religioni precristiane. Cfr. tutte le sue
opere in bibliografia.
3
E se ho fatto del male voi uccidetemi/e su un banco di macelleria macellatemi/dentro una cassettina serratemi/e con una chiave d'oro voi chiudetemi/e in capo a
nove mesi voi apritemi/queste mie piccole ossa fanno miracoli.
4
Cfr. i lavori di Eliade in bibliografia.
Prova ne sia che il corpus di versi tramandati per tradizione viene 'piegato' e
adattato a forme musicali diverse (tammurriate, cilentane, canti di lavoro, ecc.) che
permettono tutte, in momenti diversi, la protezione da possibili insorgenze del 'negativo
tramite l'ampia polisemia dei simboli rituali.
6
Roberto De Simone l'ha raccolta da un abitante della zona del Nilo, nel cuore
della città antica. Cfr. DE SIMONE 1982, p. 200. Una suggestiva ipotesi sulle origini
orientali degli elementi sciamanici nella cultura della Magna Grecia in DODDS 1997.
7
Non scendete giù al porto/ non scendete giù al porto/quella ha il marito morto/
mannaggia chi ti è morto/ma che diavolo hai in corpo?
8
E veniamo a noi compagnche il colera è abbondante/e noi spendiamo i
miliardi/per una merda di gol all'anno.
9
Una lotta ho dovuto fare/una lotta ho dovuto fare/una lotta ho dovuto fare
per entrarci/ma quando ci sono entrato/Mamma dell'Arco che impressione/Mamma
dell'Arco che impressione che ho avuto. /Ué un mostro io vidi che paura che mi presi/ué per bocca ogni minuto/cacciava una macchina finita.
'° Cfr. ALLUM 1975, p. 55, e CAMPANIA 1990, p. 1156.
" Cfr. ancora CAMPANIA 1990, p. 1162.
" Settecentomila lire ho cacciato per entrare.
" Guarda lì c'è una pressa/notte e giorno mette fretta/si mangia il sangue dei
cristiani/vattene prima di domani.
14
...E tira di qua e butta di là/uniamoci per cambiare/io stanotte li ho visti/ 'sti
padroni a fare i pistoni.../quelli che erano i padroni pure loro a fare i pistoni.
" Venerdì undici aprile/a Sant'Anastasia/un tratto un rumore/sentii e che paura.
16 Ricorda dicembre del '59/il vento che urlava e la pioggia che spingeva/uomini
che lasciano la terra alle spalle/uomini che non la rivedranno più.
" Erano le quattro di stamattina/che hanno svegliato la figlia di Antonino/con la
faccia scura e una brutta maniera/venivano di corsa da dentro alla ferriera.
' a 11 figlio mio dove sta/aiutatemi a cercare/fatelo per pietà/per forza qua deve
stare'/ 'signora non gridate/che forse si è salvato /e la madre va a girarsi/e da sottoterra
lo vede prendere.
19
...Gente correte/giù alla ferriera/correte...è toccato ad Antonino/... padre di
figli ...pover'uomo/pover'uomo!
20
Un urlo; e poi un accorrere/gente e muratori./- Respira ancora...È Ruoppolo!/Ha due bambini!/(...)Quando all'ospedale arrivano/la folla è trattenuta/e chi sa la
disgrazia/racconta com'è andata./E attorno, tutto il popolo - Madonna ! - Avete
visto?/- Dal quinto piano! - Ai Vergini!/- E come, Gesucristo! Cfr. VIvIANI R. 1981, pp.
157-158. I 'Vergini' è il nome di una strada nel popolare quartiere Sanità a Napoli.
2
' Se l'era ingoiato una fiamma lucente/e l'aveva mischiato col ferro bollente.
22
Nel 1997 queste canzoni sono state ristampate sul Cd «Com'è bello avere un
97
posto alle ferriere», cfr. discografia.
23 Per sua esplicita volontà Luca ha sempre rinunciato, come militante, sia a firmare i testi, sia a percepirne i relativi diritti Siae. Oggi dirige a Napoli la Fondazione
Morra, nel barocco palazzo dello Spagnuolo a Via dei Vergini.
24
Sei il purgatorio di tutta/questa gente/che vive nelle baracche/e vive di stenti. "
Se fumi o se non fumi/fai rumore/è il fuoco che ti porti/dentro al cuore.
26
Stamattina nel piazzale/siamo tutti quanti fuori/Pasquale, ma che è successo?/...andiamo in cassa integrazione/...e in mobilità!
27
A camera di consiglio/piange la mamma che vuole il figlio/...trullellà trullellariulà/e se lo cresce a ora a ora/piglio il figlio e ci faccio l'amore/...trullellà trullellariulà/ (...)/vattene faccia ingiallita/neanche i cani ti hanno voluto/...trullellà trullellariulà.
28
Io sono bianco e tu sei nero/ma io sto più nero di te/(...)/adesso per bianchi,
gialli e neri/anche il pomodoro è black.
29
... Per chi ha avuto e non ha dato/il tavuto è preparato!
30
... S'è vestita a lutto/perché i tempi sono brutti.
" Sono loro i becchini /di questa società/distruggono, licenziano/l'umana
dignità.
32 Alle cinque di giorno dentro una chiesa/c'era un santo con la faccia 'appesa'/era successo che nella controra/una vecchia si era 'alzata' il priore!
33 Oi italiano, da Torino a Brusciano/quando prendi la scheda in mano/solo a
noi devi votare/ti diciamo se questo voto tu ci dai/tu domani già sarai/un signore italiano!/vuoi il lavoro, vuoi il lavoro/vuoi una casa e la pensione/dammi il voto, dammi il
voto/una cosa a me, una cosa a te/oi italiano, da Torino a Brusciano.
" Ma che male vi hanno fatto/questi ragazzi in mezzo alla strada/sono tutti a
spasso/senza soldi in tasca.
" Ma i padroni alzano il volume/spingono a destra e fanno il ritornello/ 'cari
ragazzi cercate di arrangiarvi/meglio vivere con papà e mamma/avete sognato che
domani esce il sole/e che ognuno di voi trova quello che sogna?'
36
La gente è nera, gialla, bianca o cioccolata/è snella, grassa o storta/sono le
mani del sole.
" Sfamiamoli, vestiamoli/curiamoli, insegniamo loro/facciamoli lavorare!
38
Con un tubo in testa e un vestito corto/passa un venditore di buona fortuna/appesi ai pantaloni sulle caviglie/porta medaglie sante e corna d'osso/ (...)/E con tro mali nuovi e antichi/che hanno le radici in questi vicoli/per quell'incenso la gente si
accalca/e lo compra come medicina.
39
Ora quest'uomo, che non ha beni di fortuna,/li va vendendo agli altri porta a
porta/e regalando nuvole di speranze,/a stento strappa la vita e tira avanti! 4 ° Sul
gergo 'parlesia' cfr. GRECO 1997
41
Il p a dron e 4 fin e m es e/ti en e s em p re la bus ta app esa / l' op erai o i l
ventisette/neanche i soldi per le sigarette/(...)/e posa i soldi, posa i soldi, posa i soldi
ladro!/posa i so, posa i so, posa i so/ladro, ladro, ladro!
42 Alenia, Alenia, Alenia/da un momentoall'altro/ il mare s'è agitato/Italsider,
Sebm, Fincantieri/l'hanno vendute ieri!/Circumfer, Raccorderie/sono finiti in mezzo
alla strada!
43
Ad es. il lamento 'Auciello grifone', inserito in 'Auciello ro mio', è un frammento di una variante campana de 'L'osso che canta', 780AT. La fiaba è di diffusione
europea e oltre. Cfr. anche Vja PROPP, L'albero magico sulla tomba, in PROPP 1975, p.
12. Una versione di Pomigliano d' Arco è presente anche nei racconti pomiglianesi
raccolti da Vittorio Imbriani (cfr. IMBRIANI 1886). Per la Campania si confrontino
anche RAK 1984, e Russo 1989.
98
V. LE MUSICHE
Comme 'o vvuò sentì:
sunanno, cantanno, abballanno?
La riscoperta della musica di tradizione orale da parte dei
nuovi e politicizzati gruppi rock, rap e reggae italiani degli anni '90
è stata, nonostante i suoi effetti rivitalizzanti, fonte di numerosi
equivoci.
Raramente basata su una reale adesione esistenziale alla tradizione, ancor meno frutto di studio dei repertori, per non parlare
della conoscenza di tutto il bagaglio culturale di tipo antropologico
necessario per comprendere la musica e la cultura etnica in tutta la
sua complessità, questo avvicinamento è avvenuto prevalentemente
per suggestione, per evocazione, per rimando.
Brani tradizionali campionati, esecutori popolari invitati ad esibirsi con gruppi di successo, registrazioni di strumenti e di sonorità
etniche (dalle voci alle bande di paese) sono state le modalità con
cui si è riscoperta la musica popolare. E ovvio che in tutto ciò un
gruppo come E Zezi dovesse ritornare al centro dell'attenzione
come memoria storica del connubio tra canzone popolare e politica.
I membri del Gruppo Operaio, sia i reali portatori di cultura
popolare che i musicisti acquisiti ma provenienti da altra estrazione,
si sono sempre e costantemente rapportati in maniera diretta ai
repertori della tradizione popolare napoletana, sia con la ricerca teorica che con la realtà espressiva di questo tipo di musica, e ancora
oggi animano le numerose feste popolari della Campania.
Proprio con questo atteggiamento, E Zezi hanno rielaborato il
materiale popolare e lo hanno fuso con brani originali, suoni e ritmi
di altre culture o aree geografiche pur mantenendo riconoscibili i
segni della tradizione campana.
Senza fare una disamina particolareggiata dei rapporti tra la
musica del G.O. e la tradizione (non è questa un'appendice etnomusicologica) è importante riflettere, anche se solo per accenni, su
quello che abbiamo definito 1"atteggiamento' che un gruppo che
ha lavorato sulla musica etnica, e sulla sua possibile contaminazione
con altre forme, ha avuto'.
99
Nel primo album «Tammurriata dell'Alfasud», a tammurriate
basate sullo stile tradizionale (attacchi, emissione della voce) ma
liberamente reinventate secondo i modi di un possibile folklore
`operaio', si alternano giri armonici da canzone pop, con una tecnica
esecutiva che sconfina in forme non contemplate dalla tradizione
etnica, come l'interpretazione e il fraseggio musicale.
La soluzione più singolare viene però adottata, forse neanche
in maniera del tutto consapevole, quando, per fondere nello stesso
brano i linguaggi del rito e della contestazione, si mettono a contatto
reciproco sistemi sonori lontani tra loro: nella canzone che dà il
titolo al disco, come nelle tammurriate che lo aprono, viene ad
esempio introdotta la chitarra, strumento estraneo alla tradizione,
che 'forza' i modi musicali propri del canto contadino e li sottopone,
tramite l'alternanza di accordi di tonica e dominante, a tensioni
armoniche ad essi normalmente estranei. La materia musicale, tuttavia, resiste alla plasmazione tonale, con un risultato che però nulla
perde sul piano dell'immediatezza comunicativa.
In 'Bella figliola' la quarta aumentata, che spessissimo fa parte
dell'ambito scalare della tammurriata, cede il posto alla quarta giusta,
che rientra nella scala maggiore e riporta la melodia nell'ambito
tonale. L'uso della chitarra, con i suoi moduli di accompagnamento e
di arrangiamento, sembra a tratti ricordare la musica degli Inti
Illimani, di gran successo allora in Italia (loro paese di permanenza
dopo l'esilio dal Cile di Pinochet), e considerati punto di riferimento,
con tutto il resto del movimento della 'nuova canzone cilena', per
chi si occupava di folk revival.
Queste soluzioni, che possiamo definire come un procedimento di `stilizzazione', derivano dalla necessità di rendere cantabili
nelle manifestazioni di strada, nei cortei, negli scioperi ecc., dei brani
la cui forma era in origine completamente diversa perché
«programmata» per il rito'. Alla stessa esigenza, risponde la forzatura
che si nota nell'interpretazione: mentre nei canti eseguiti
durante le feste popolari essa è sempre 'straniata' (come normalmente avviene nei momenti rituali), in altre occasioni collettive
l'enfasi o l'immedesimazione può aiutare a rafforzare la partecipazione emotiva, così come l'uso di strumenti a fiato o a percussione,
che è tipica delle manifestazioni di piazza.
Altra caratteristica che si può rilevare in molti pezzi è l'ambiguità modale maggiore/minore nel canto, che è propria della tradizione popolare.
100
Nei dischi degli anni '90, l'operazione raggiunge ovviamente
momenti di maggiore maturità e coscienza. La partecipazione
costante e attiva alle feste, lo studio del materiale folklorico e l'elaborazione collettiva forniscono, come sempre, la linfa vitale al lavoro
del Gruppo, ma ci si apre ora a soluzioni nuove, a commistioni
tanto interne quanto esterne alla tradizione, aperte alle musiche di
altre realtà, con un occhio di riguardo per quelle del Mediterraneo e
del medio oriente.
Così si provano formule diverse: si ritma la tammurriata sui
timpani, come in `Peppenié', si innestano sulla musica di tradizione
ritmi estranei ad essa, come accade in `G7: Zimbre e capretti' dove
sul consueto ritmo di tammurriata:
>-
>,-
}-
3»
a
viene sovrapposta una suddivisione comune a molte altre culture musicali, forse acquisita inconsapevolmente attraverso l'ascolto
di dischi o l'incontro con musicisti:
I p
P
t
I
P P
I
Ritroviamo, ad esempio, questa figurazione nella tradizione
rituale Gnawa del Marocco, suonata dalle `qraqrèb' (castagnette
metalliche') durante la consacrazione delle abitazioni'. Riarrangiata e
trascritta per batteria nel seguente modo
essa viene sovrapposta nel pezzo dei Zezi alle figurazioni tradizionali eseguite dalla tammorra, producendo un'inedita trama ritmica:
101
%camorra
batterle
Contemporaneamente, però, alcuni degli stilemi ritmici tipici
della tradizione etnica napoletana vengono comunque recuperati
attraverso accenti e figurazioni: nel brano le due semiminime finali
della figurazione evocano l'andamento della tarantella. Un tipo di
suddivisione, saldata ancora a ritmiche locali, la ritroviamo anche
in 'Vesuvio':
temmorre
tom basso
cessa
vivi').
Così, con minime variazioni, in Punirnarola black' (da `Zezi
Il tipo di approccio in questione esprime insomma la spinta a
muoversi fuori della tradizione e insieme a restarne sempre dentro,
quasi per paura di perdere le proprie radici, di 'smarrire' la presenza,
come tante volte sembrano fare i danzatori della tradizione andando
avanti e indietro, entrando e uscendo da un'area sacrale da cui si è
allo stesso tempo attratti e respinti.
Ma, oltre al legame con la propria musica etnica, o all'interesse
per altre tradizioni, il cuore del G.O. batte pur sempre soprattutto
per i movimenti di base, e i suoni, i ritmi, gli slogan delle manifestazioni di piazza si affacciano continuamente nelle canzoni. È quel
che avviene, quasi inconsciamente, nel brano 'Piazza Dante' che, pur
non essendo una canzone di protesta, ad una analisi più ravvicinata
risulta costruito sulla sillabazione di un noto slogan scandito
102
nei cortei («`o potere 'o potere, 'o potere all'operai/si cummanna
chi fatica se starria `cchiù `mmeglio ancora»), creando a sua volta una
sorta di feedback tra arcaico e moderno, se pensiamo che negli stessi
cortei verranno poi utilizzati anche i canti dei Zezi:
o po
b
r* 'o po M re . e p0 to re • gli o p• r•
I
Nella canzone, in una suddivisione più articolata, la stessa
melodia è riconoscibile:
_P
__
e
r . . r s .% a e r e a a - a  - 3 • 7 • 7 1 , 11 1 M ~aW_A
W_ I albe
M~M
W /...MI~.~ ~~1•1~~~1.11~ 1.., w - MIMIMI.M.M M.11
t
.1.,3•
•~•MMMENIMW1 ~

~11M
~Il
~ M l i M
IMMIM
~
E da questo slogan, che del resto la chiudeva fino ai primi
anni '90, deriva anche 'A ferriera':
~MIMI
. • m . .
M'
LMI~ir
1 1 1 1 • = = W M
•••
•
•11•MIM.
•~MIMI
M• IIIMM•MMIMMM M M •M. M•••••MMMIMIOMI
m IMM
 /W" M- M
1/41~1115.0.sol agx....
A M 1 1 1 1 1
A
 •
. 1 1 , 3 1 1 , • ~ 1 1 1 1 1~ 1 1 . 1 . 1 1 ~ 1 ~ I i i
Nella 'Giuglianese', dall'album «Zezi vivi», l'operazione di
rielaborazione è tutta interna alla tradizione. La Giuglianese è un
particolare tipo di ballo, eseguito nelle feste tradizionali di Madonna
dell'Arco e di Somma Vesuviana, dai gruppi provenienti da Giugliano,
un paese a nord di Napoli: si tratta di una danza molto aggressiva e
spettacolare, ritmata dal tamburo e dal `sisco', un piccolo flauto dritto.
L'analisi comparata di alcuni momenti della 'Giuglianese' dei Zezi e
della relativa danza popolare che la ispira, mostra come il Gruppo
Operaio vi ha lavorato, nel tentativo di condensare in un solo brano la
forza ritmica presente nella tradizione popolare in momenti diversi. La
danza di Giugliano presenta delle accentuazioni che vengono
progressivamente condensandosi, strutturando le relative figurazioni
coreutiche secondo un modello tripartito che dura in media intorno
a un minuto, e che si ripete fino al termine del ballo.
Tradizionalmente nella 'Giuglianese' tutti e tre i modelli ritmici e
coreutici si succedono e si alternano all'interno di un'unica
strofica di versi endecasillabi cantati4, che
103
possono anche essere ripetuti, spezzati o interpolati da elementi
`formulaici'', cioè le cosiddette 'barzellette' in versi ottonari.
Ecco come si presentano gli accenti dei tre modelli:
1° modello
temmorre
[etrutr-
2° modello
>
3° modello
Nel brano inciso dal Gruppo Operaio viene innestata, su questa
struttura, una ritmica tipica delle tarantelle tradizionali campane che
così in genere si presenta nella tradizione rituale6:
tamburo
Tenue e piatti
F•
If
•
l
F
?*
• f• F•
L'incrocio fra le due forme produce questo schema ritmico:
1° modello
jiffil:MtrtrIM:rtLrIrr
r
v
r
2° modello
vlurrlutcributrtr-rm
f if.
•
104
3° modello
_ertruirut=m„
e ___________________________________________________
Ffl??ffi
Anche melodicamente, l'accentuazione delle note viene spostata per permettere l'interazione delle due forme musicali. Così si
presentano gli accenti di un frammento della tipica melodia di Giugliano:
E così l'arrangiamento dei Zezi, portando in levare i primi
due movimenti della frase, permette alla melodia, con gli opportuni
aggiustamenti, di adattarsi alla metrica della tarantella:
1111"~
~AMORI
I  ME
M.M" —
~MEI MI Meal~a /L~I 
IP" ~M
M I ~ ~EIIM
•~IM
Ma l'esecuzione del G.O. non si arresta all'intreccio ritmico;
essa dilata lo spettro timbrico delle sonorità popolari con l'aggiunta
di strumenti estranei alla tradizione, e, nella sua esigenza di contaminazione, si apre all'improvvisazione. Collocati fra tradizione e
modernità, sospesi fra istintiva ricerca delle proprie radici e necessità di aprirsi verso l'esterno, E Zezi, un gruppo musicale che accoglie al suo interno tanto diplomati in musica di estrazione urbana,
quanto portatori di cultura etnica che non hanno orizzonte diverso
da quello della tradizione orale, si fanno testimoni di una sorta di
stimolante 'doppia musicalità', specchio veritiero di una più ampia e
irrisolta trasformazione sociale e politica.
105
NOTE
Questo capitolo si serve di alcune indicazioni di Antonio Fraioli, da anni
violinista e coordinatore musicale del Gruppo Operaio E Zezi, che ha curato
anche le trascrizioni.
2
Lo stesso tipo di atteggiamento è riscontrabile negli altri gruppi folk di
estrazione non cittadina (Nacchere Rosse, Collettivo Teatro Folk, ecc.). } Dal
volume «Culture musicali», n. 10/11 (1986/87).
' Queste riflessioni sono da riferire, oltre che all'osservazione diretta della
danza, alle registrazioni contenute nel cofanetto di sette microsolchi «La tradizione in Campania», a cura di R. De Simone (cfr. discografia).
5 Per 'elementi formulaici' si intendono frasi fatte ed espressioni fisse
caratteristiche delle culture orali. La lormulaicità', con le sue allitterazioni e le
sue assonanze, le sue ripetizioni e le sue antitesi, svolge molteplici funzioni
all'interno di tali culture; prevalentemente fornisce aiuto mnemonico ad un pensiero che, essendo non scritto, richiede un'enorme quantità di nozioni da ricordare a memoria. Cfr. ONG 1986.
6 Cfr. anche De SIMONE 1981.
106
INTERVISTE
«I mass media distruggono, ma ti danno anche la
possibilità di valorizzare...»
Marcello Colasurdo
(venti anni con il Gruppo Operaio )
MARCELLO COLASURDO
«Sono nato a Campobasso, mia madre era di lì, mio padre
non l'ho mai conosciuto. Ho fatto il collegio ad Ancona fino a
quattordici anni e poi sono venuto a Pomigliano, perché mia madre
si era risposata. Per tanti anni ho abitato in un cortile, e la vita di
cortile mi ha dato tanto. Il cortile era tutta una comunità, si faceva
il pane assieme, si lavavano i panni assieme, si accendevano i fuochi... La vita del cortile è solidale, vai a mangiare qui, vai a mangiare lì... Come dice il proverbio: 'a casa del povero non mancano torsoli'! E così sono diventato padrone della lingua, dei modi di
espressione; il cortile mi ha acculturato, per quella che è la cultura
della tradizione.
Ho fatto di tutto, il barbiere, il fruttivendolo, il barista; la mattina andavo a scuola, il pomeriggio facevo il ragazzo di bottega. Poi
la ho abbandonata: ho la quinta elementare.
La politica l'ho scoperta sulla mia pelle: il mio patrigno faceva
il netturbino per una ditta privata, ed era pagato 'a sottosalario'.
Lui era analfabeta, i conti non tornavano mai e io scoprii che il suo
datore di lavoro riusciva a pagarlo di meno facendolo ubriacare:
così io andavo a prendere i soldi di mio padre, feci il suo sindacalista! Mi facevo i conti delle ore di lavoro, dei giorni in cui era mancato...Mi sono politicizzato così, capendo che cos'era lo sfruttamento! Io mettevo la firma e non la croce! Ma all'inizio non ero etichettato, vedevo le cose storte e non le sopportavo; solo più tardi
mi iscrissi alla Fgci.
La tammorra la vedevi a Castello, le fronne le sentivi quando
si faceva la veglia per il morto; quella è una cosa che mi colpì moltissimo. Facevo anche i 'matrimoni', le canzoni di Mario Merola, di
Sergio Bruni... E facevamo anche le feste con gli amici, al chiuso,
107
cd giradischi... Le cose di Sanremo; ma poi io ho scelto il mondo
della tradizione, il mondo che mi apparteneva. Io non posso cantare
la canzone di un americano, cosa mi importa? non la sento mia, mi
piace ascoltare, però non assimilo! Assimilo solo quello che mi
appartiene.
A fine 74 ho conosciuto i Zezi. All'interno dei Zezi facevamo
discussioni, chi era del Pci, chi del Pdup, chi di Autonomia o
dell'Mls. Io ero iscritto alla Fgci poi al Pci, però mi piaceva la politica
di Lotta Continua; ma non eravamo un gruppo del Pci La destra non
aveva spazio qui a Pomigliano, non c'era una sede fascista! Ora invece, mamma mia ! Vedi a cosa porta la politica moderata!
Facevamo molte situazioni di 'movimento' che erano in contrasto col Pci. Mi ricordo un episodio a Biella: ci chiamò il Pci, e
c'era un biglietto. Arrivarono dei giovani extraparlamentari che
volevano entrare senza pagare, c'era già la lotta per l'autoriduzione, e
noi proponemmo che il costo dei loro biglietti fosse decurtato dal
nostro cachet, ma loro non volevano farli entrare, per principio.
Allora noi rifiutammo di suonare, facemmo restituire il biglietto a
chi aveva pagato e facemmo un concerto di tammurriate all'esterno!
Simpatizzavamo molto con lo spontaneismo perché erano dei
comportamenti lontani da quelli schematici delle istituzioni. Pensavamo che se esistevano delle contrapposizioni nella sinistra andavano discusse con la dialettica, non con l'emarginazione.
Angelo De Falco ci coordinava, ma ci dava anche suggerimenti di esecuzione; per esempio, se cedevamo all'ammiccamento
ci correggeva. Lui aveva già fatto parte della Nuova Compagnia di
Canto Popolare, poi se n'era andato, e nelle masserie dove cí incontravamo decidemmo di formare questo gruppo. La Nccp aveva
uno stile urbano... Si sente la città!
Quando fui licenziato dal bar mi sostennero i Zezi; mi stipendiavano mentre cercavo un altro lavoro, era un momento in cui
giravamo molto...
Facevamo anche teatro, quando non si sviluppava una situazione musicale. Io come attore mi sono formato sulla strada, come
attore della Zeza, col teatro politico...
Poi abbiamo avuto anche dei momenti di pausa, negli anni
'80, e abbiamo anche fatto molte situazioni di beneficenza, di solidarietà: fabbriche occupate, handicappati...
In fabbrica, l'Alenia, sono entrato nel 1980, dopo dure lotte.
Ho fatto alcuni anni con i Disoccupati Organizzati. All'Alenia facevo le pulizie; ci sono stato fino al 1995.
108
L'Alfasud è stata un macello...Ha cambiato la vita del paese,
ma ha portato un sottosviluppo culturale. A volte era una sofferenza: c'era la festa di Castello e tu non ci potevi andare perché dovevi
andare a lavorare. A volte cantavo le cilentane in fabbrica, i capi ti
guardavano storto, ma agli operai piaceva, dicevano che queste
canzoni non si sentivano più...
Alcuni operai dicevano: 'è vero che io nella terra lavoravo più
ore, ma lavoravo quando volevo io, e poi stavo all'aria aperta, se
volevo riposarmi mi riposavo; anche se lavoravo quattordici o quindici ore non c'erano i ritmi che stanno qua dentro...'
Gli anni '90 sono stati terribili perché c'è stata una ricaduta: la
crisi, le fabbriche...siamo tutti tornati ad incazzarci di nuovo!»
MATTEO D'ONOFRIO
«Io sono di Pomigliano e la mia famiglia campava alla giornata, con la terra. Già ad otto, dieci anni, uscivo con mio padre alle
cinque del mattino, e lo aiutavo a tirare le erbacce delle patate che
poi lui zappava. Vivevo in un cortile: venti famiglie con un solo
gabinetto al centro del cortile. Ti dovevi responsabilizzare fin da
piccolo, perché i genitori uscivano la mattina presto e tutti noi
bambini restavamo da soli con qualche vecchio che ci sorvegliava.
Scoprivi presto i tuoi nemici perché arrancavi sempre... Mia madre
mi prometteva ogni anno la Befana e poi non ci riusciva mai! A
dodici anni mi iscrissi ai giovani comunisti a Pomigliano, e mi ricordo che avevo la mentalità che non dovevo parlare con i democristiani perché erano i miei nemici. Oggi mi sembra ridicolo!
Ho fatto la quinta elementare e poi, in fabbrica, la terza media
con le 150 ore. Il posto fisso prima non esisteva proprio. Era tutto
alla giornata, e se perdevi l'occasione perdevi il guadagno. Quando
c'era l'occasione di un lavoro non la potevi perdere! C'era il caporalato... C'era un punto di riferimento, la sera tu andavi e loro
dicevano: 'Domani servono cinque zappatori, chi è libero'? E tu
alzavi la mano.
Quando sono entrato all'Alfasud era ancora un periodo buono, perché la fabbrica voleva arrivare a 15000 operai e ce ne mancavano ancora 8000. C'era il collocamento e c'erano i soliti faccendieri di paese: Non ti preoccupare, Matteo, che fra poco vai a lavorare'; io avevo ventisei anni e prima avevo fatto il ferraiolo. Il ferraiolo imposta i pilastri del fabbricato sul disegno dell'architetto:
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prendevo il ferro gelato da terra al mattino presto e la pelle delle
mani si spaccava. Se lavoravi con grosse imprese legate all'In avevi
anche il vestiario, ma se lavoravi con i sottoappalti í guanti te li
scordavi, anzi se li usavi ti deridevano.
Quando io manco in fabbrica subito si sa nel mio reparto.
Perché quando io ci sono si canta, si scherza, si racconta qualche
barzelletta, ma sempre lavorando...Mai fermarsi, perché sulla catena
si lavora in continuazione, finita una macchina ne arriva un'altra,
però la giornata passa in maniera più allegra. In fabbrica si lotta per
migliorare l'ambiente di lavoro, le saturazioni...Se io monto il cambio,
nel cambio va l'olio, e quando ce lo metti gocciola sempre; e questo è
olio sintetico, che puzza e alla fine della giornata ti viene il mal di
testa. E non ti danno una maschera perché, se te la dessero,
ammetterebbero che il posto è nocivo e dovrebbero darti un
aumento.
L'industria è spietata, loro non guardano in faccia a nessuno.
Non si preoccupano della realtà delle persone che prendono in fabbrica, del loro modo di vivere. Non gli interessa se l'operaio sta
bene o no; loro dicono che se non ti va bene ti licenzi e te ne vai.
Quando si fa una nuova vettura, le persone che stanno vicino
alle macchine sono scelte dall'azienda. Le chiamiamo le 'lepri'.
L'azienda fa le saturazioni in base alla velocità di queste persone; e
dicono che se ce la fanno queste persone ce la devono fare tutti.
Sono operai che hanno formato loro a Torino, ognuno nel suo settore, plancia, scocca, vernici', motori; e sono
Ilanno
riflessi! E noi operai che andiamo sulla nuova vettura andiamo già con
le nuove saturazioni!
Anche se ho un ruolo nel sociale, dove rivendico delle cose,
all'interno dell'Alfasud sono un ottimo operaio. Non è che faccio le
rivendicazioni fuori perché non voglio lavorare. Fuori ho una
libertà di rivendicazione perché rivendico contro il sistema, non
contro le singole persone. Ho cambiato più di dieci capi e non ho
mai avuto problemi. Ho sempre fatto gli scioperi perché lo sciopero,
secondo me, è un'educazione per l'operaio. L'operaio non dovrebbe
mai perdere la voglia di lottare!
Negli anni '80, gli scioperi si potevano contare sulla punta
delle dita e gli operai avevano perso l'abitudine a fare lo sciopero.
Io sono sempre stato iscritto alla Cgil.
Se domani esce un concerto a Brescia, mi ci vogliono due giorni
non pagati, perché non riesco a rientrare in fabbrica e perdo tutto: la
giornata, il premio di produzione, il contributo Inps...E que-
110
sto lo dico perché c'è una passione che mi lega a questo gruppo!
Voglio dire una cosa molto importante: c'è gente che quando fa
sciopero, torna a casa e litiga con la moglie perché perde i soldi. A
volte le mogli non capiscono il problema. Le donne hanno un
ruolo molto importante nella vita di un operaio, non dovrebbero
soffocare lo spirito battagliero di un operaio. A volte forse non
capiscono cosa vuol dire stare in fabbrica, che significa la catena di
montaggio, i capi...
La festa della Madonna di Castello, a Somma, oggi è quasi
dimezzata, ma prima ci andavano veramente migliaia e migliaia di
persone...Si mangiava, si beveva...Cadevano i tabù! Qualsiasi ceto
sociale si liberava di tutto quello che si portava addosso. Anche se
la maggior parte erano operai e contadini, venivano coinvolti anche
altri ceti sociali. Poi vanno a mettere le giostre e il cantatore non si
sente più! E per questo motivo molta gente non ci va più, perché
non è come prima!
Il Venerdì Santo, ad Acerra, c'è la processione, e in fabbrica
c'è sempre un forte assenteismo, perché molti operai lo sentono
come un obbligo. Ma resta il fatto che i piani industriali queste cose
qua non le guardano proprio. Anzi, loro cercano di frenare queste
situazioni. E poi, quando il popolo si riunisce, o alla festa popolare
o alla via crucis, è sempre un momento di discussione. E loro mirano
a distruggere tutte queste tradizioni, io ho questa sensazione. Una
volta, da giovane, andai in Africa con degli amici. Con l'avvicinarsi
della Pasqua, ognuno di noi non aveva più voglia di lavorare e
nessuno diceva il motivo. Poi alla fine si capì, perché incominciavamo
a dire: 'Adesso c'è la Madonna dell'Arco, poi c'è Castello...Va bè,
abbiamo capito, andiamoci a licenziare!'. E così ce ne tornammo a
Napoli per queste feste, pagandoci ovviamente noi il viaggio.
L'altra sera a un circolo del Vomero hanno proiettato il nostro
film 14,zio 'e terra. Alla fine un gruppo di donne mi ha detto: 'è
una cosa bellissima, non dovete sfasciarvi mai!'. Noi abbiamo un
dovere verso queste persone!»
GIOVANNI SGAMMATO
«Mi è sempre piaciuto recitare; da bambino volevo fare l'attore
cinematografico! Quando avevo dodici, tredici anni la domenica
andavo al cinema a vedere i westem in una sala a Pomigliano e ci
restavo ore.
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Fino agli anni '50, non era carnevale se non si facevano i
Dodici Mesi e se non si faceva la Zeza. Poi c'è stato un periodo, dal
'60 al '74, in cui la Zeza era scomparsa. Anche la festa di Somma
era un po' sfumata, ci andava poca gente. Poi c'è stata una riscoperta
delle tammurriate, e il merito va anche a Roberto De Simone che ha
fatto una lunga ricerca, proprio a Somma Vesuviana.
A Pomigliano c'era un certo zì Luigi, che aveva un quaderno
con i testi scritti di tutta la tradizione pomiglianese. Questa persona
morì negli anni '60 e il quaderno finì ad una sua figlia che viveva a
Genova. Quando i Zezi nacquero lo cercammo senza trovarlo.
Pomigliano, quando eravamo tutti contadini, la sera era un cimitero:
nessuno passava per le strade tranne qualche ubriaco. C'erano si e no
tre o quattro palazzetti, e il resto erano case rurali. La gente si
chiudeva in casa e si facevano i 'conti', i rosari, neí cortili si dicevano
le filastrocche, si radunavano tutti i bambini e qualche vecchio le
diceva. Gli scioglilingua, invece, si insegnavano ai bambini per
scandire bene le sillabe, per sentire bene i suoni. La `tuffata' era la
disapprovazione del popolo verso un matrimonio che faceva scalpore. Nella serenata ci si metteva sotto la finestra degli sposi e si
organizzava un concertino, si cantavano canzoni appassionate. La
tuffata invece era un casino che si faceva tutte le sere quando ci si
annoiava, ma era un gioco. Si faceva con strumenti che fanno
rumore, come triccaballacche, putipù e tofe. La tuffata era un avvenimento, uno spasso, ed anche le vittime si divertivano!
Di tutti i personaggi che rappresento mi costruisco il costume
e mi invento il testo, a seconda dell'occasione. Anche i personaggi
tradizionali come il Pazzariello o l'Incensiere inventavano i loro
testi. Per esempio l'incensiere entrava in una casa: "comme se
chiamma 'a signora? Giuseppina? Chi vò male a Giuseppina ha da
muri 'e Pellerini, chi vò male a chesta casa ha da muri primma ca
trase, uocchie, maluocchie, funicelle all'uocchie. Schiatta 'a `rnmida, e crepano 'e maluocchie. Aglio e fravaglio, fattura ca nu"nguaglio, signò dateme 'e sorde, grazie!". L'ultimo Pazzariello stava a
Napoli e chiedeva l'elemosina. Se andavi in giro verso la galleria lo
trovavi li, perché non ce la faceva più; il Pazzariello si deve muovere, deve ballare, e lui era troppo vecchio. Ha fatto quello tutta la
vita e non aveva neanche una pensione, so che è morto poco prima
del Natale di quest'anno. 'O zuoppo, un altro personaggio che recito, è il classico contadino ignorante. In origine serviva solo per raccogliere quello che veniva offerto dopo la Zeza. Una parte di questo
pezzo me la raccontò mio nonno, un'altra parte l'ho imparata
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da un vecchio di Castelcisterna, un altro pezzettino da un altro vecchio in una masseria, e un altro da Z Luigi: tutti morti!
I Zezi negli anni '50 erano attori improvvisati, finito il carnevale
ognuno tornava al suo mestiere. L'ultima Zeza s'era fatta a
Pomigliano nel '42. Nel '56 la riprendemmo e così anche nel '57. I
Zezi si chiamavano così perché facevano la Canzone di Zeza.
Quando sfilavamo per le strade dicevano: 'stanno passando E
Zezi!'. Quando passavano quelli che facevano i mesi dicevano:
`stanno passando i mesi!' Ci invitavano a cantare nei cortili e ci
offrivano dei regali, della roba da mangiare, salame, uova, vino.
Sempre nel '56, una bigotta ci vide per la strada e disse che
noi offendevamo la chiesa perché c'era il personaggio dell'abate
Sarchiapone. Fummo portati in caserma e rappresentammo la Canzone di Zeza davanti al maresciallo che capì che non c'era niente di
male e ci lasciò andare. L'abate Sarchiapone lo abbiamo inventato
noi nel '56. È un personaggio che nella Zeza tradizionale viene
nominato due o tre volte e allora si pensò, per abbellire la Zeza, di
inserire questo personaggio, e così scrivemmo il testo.
A venti anni ero operaio edile provetto, facevo dalla verniciatura delle porte ai parati, alle tele. Per entrare all'Alfa ho fatto
domanda e poi una 'prova d'arte'; da operaio specializzato sono
stato assunto come manovale specializzato e per arrivare di nuovo
ad operaio specializzato ci ho messo 25 anni! Perché per conquistare
la qualifica dovevi fare un tirocinio. Non ci facevano usare mezzi di
protezione, il mio lavoro, che consisteva nel togliere le imperfezioni
dalla verniciatura alle scocche, era così delicato che non potevo
usare i guanti. Allora il diluente e la vernice danneggiavano le
mani e così presi la malattia professionale.
Il lavoro che ha fatto il Gruppo Operaio per 25 anni, quale
gruppo in Italia l'ha fatto? E se c'è un merito questo va al De Falco.
E una vita che fa questo. E ci sono stati anche momenti di crisi!
Quando sono entrato nei Zezi, nell'82, non c'era quasi più nessuno,
c'erano tre o quattro persone.
Quando si facevano i picchetti davanti alle fabbriche, le manifestazioni, gli scioperi, i Zezi c'erano sempre, e spesso con canzoni
o rappresentazioni. Nella Zeza del Gruppo Operaio ho fatto prima
il Don Nicola e poi il Pulcinella.
La Zeza rappresenta le quattro stagioni: Vincenza la primavera, Don Nicola l'estate, Zeza l'autunno e Pulcinella l'inverno. Pulcinella rappresenta la morte. Oggi stanno cercando di ripristinare i
Mesi, ma è difficile trovare i cavalli. All'epoca non c'erano macchi113
ne e rumori, i cavalli si potevano usare; adesso sí spaventano e non
possono cavalcare perché le strade sono tutte lisce. Solo marzo e
dicembre avevano il ciuccio, gli altri avevano il cavallo. È dal '49 o
'50 che i Mesi non si vedono più, tranne qualche volta che li abbiamo fatti con il Gruppo Operaio, ma senza cavalli.
La statua della Madonna di Castello fu trovata in uno stato
pietoso, tutta distrutta. Il prete la diede a un restauratore di Genova
per farla aggiustare. Quest'uomo aveva una figlia paralitica.
Dopo quattro anni di lavoro restituì la Madonna e si dice che quando
la statua arrivò a Somma, sulla montagna, la figlia guarì; tutto il
tragitto dal paese fino alla montagna fu fatto di notte e le lucciole
illuminarono tutto il percorso che la Madonna doveva fare per il
santuario. Ed ecco che la festa delle Lucerne si fa ogni quattro anni
perché quattro anni durò il restauro della Madonna e il sabato dei
fuochi si festeggia perché di sabato arrivò la statua accompagnata
dalle lucciole, secoli fa', nel '300 o '400...»
TONINO ESPOSITO STOC)
«Mi chiamano 'o stoc perché la mia famiglia ha sempre venduto lo stoccafisso; anch'io l'ho fatto. Poi ho lavorato all'Alfa ma
me ne sono andato e ho fatto il carpentiere. Mi sono licenziato
dall'Alfa perché a me non è mai piaciuto stare nello stabilimento: è
contro il mio carattere. Io voglio stare libero, all'aria aperta. Se non ci
sei portato, alla fabbrica non ti puoi abituare. Là vai contro i cicli
della natura; si fanno i turni mentre io ero abituato a svegliarmi a una
certa ora, a dormire in certe ore, e non mi sono mai abituato. Tu
quando fatichi fuori, una giornata di sole te la godi, te la senti...Lì
sei un numero e basta. In fabbrica riuscii anche a seminare un
pezzo di terra, perché stavo in una posizione distante dai reparti: ci
coltivavo pomodori, piccole cose...Nonostante questo non mi sono
abituato!
Nelle comunità rurali eravamo molto affiatati, ci aiutavamo
l'un l'altro. C'era uno scambio di manodopera, c'era il baratto. La
vendita era all'esterno, e i soldi giravano fuori della comunità. Io
oggi sto cercando di fare un'azienda agricola dove lavoreremo con
sistemi tradizionali, non per tornare indietro, questo non è possibile,
ma per salvare la cultura popolare, per far vedere come si facevano le
cose e come il canto, i balli vengono insieme alla vita del contadino...
Per comprarmi la terra per fare questa cosa ho vendu114
to una casa...Perché ci credo! Se le prossime generazioni perdono
questa cultura, perdono tutto! Per far vedere come si faceva il burro anticamente, come si faceva il pane, come si tesseva...Perché
oggi tutti vogliono le cose firmate. Le società moderne pubblicizzano
talmente un prodotto che se uno non se lo mette viene discriminato
dalla società! Nella tradizione popolare non esiste la 'canzone':
esiste il 'modo di cantare'. Ci sono due o tre modi di cantare e basta;
in questi due o tre modi puoi dire tutto quello che vuoi. C'è la
fronna 'e limone, poi c'è la voce 'alla potatora', poi c'è il canto 'a
figliola, poi c'è la voce 'alla carrettiera': sono canti a distanza...E
poi c'è la tammurriata, che è più semplice. Il 'cantatore' esprime
una sua cosa dentro, e se non nasci in questa cultura non la puoi
imparare. De Simone diceva che la Nuova Compagnia non poteva
cantare come i contadini. Diceva che le voci non possono essere
copiate al 100% da chi non è cantatore popolare e cambiava tutto
lo schema... Quelli sono musicisti! Questo modo di cantare lo deve
fare il cantatore popolare e lo deve fare nel posto e nel momento
adatto! Non si può cantare sul palco...Si può pure fare, ma deve
nascere la situazione, se faccio una sfida a `fronna 'e limone' deve
nascere la competizione!
Per certi periodi io me ne sono andato dai Zezi perché volevano
fare un gruppo musicale raffinato. Cominciavano a dire 'vai a tempo,
non vai a tempo...', ma non ho capito, ma come facciamo a andare a
tempo? Qua si cantava così, allora io mò devo andare alla scuola dí
musica per come stanno le cose?»
SEBASTIANO CICCARELLI (`MICIARIELL0')
«Ho fatto il barista ed il manovale. Ho preso la quinta elementare serale e poi la terza media in fabbrica. Sono entrato a
diciannove anni nell'Alfasud dopo anni con il comitato dei Disoccupati Organizzati che esisteva a Pomigliano nel '76. Occupammo
il comune e facemmo i picchetti per non far fare lo straordinario
agli operai. Poi, con il comitato dei disoccupati, e l'aiuto del sindacato, sono riuscito a entrare.
Ho lavorato un po' in vari reparti. All'inizio non mi trovavo
bene perché, è vero che prendevi uno stipendio, ma io ero abituato a
stare fuori, e i ritmi di lavoro erano tremendi. Ho pensato due o tre
volte di andarmene. Per fortuna avevo dei buoni compagni che mi
dicevano: 'vedrai che ti passa, ci siamo passati tutti, ma poi ti passa'.
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A Castiello andavamo a piedi, sia all'andata che al ritorno, e lì
ho imparato a suonare la tammorra.
Nell"83 sono entrato nei Zezi e ci sono rimasto. Dall"83 al
'90, però, si faceva quasi solo teatro, non si suonava tanto.
Quando ero ragazzo mi ricordo i Pink Floyd, i Deep Purple,
ma non ci capivo niente, li sentivo perché erano di moda, per 'spararmi le pose', perché lavoravo a Napoli, ma la tradizione io la capivo e mi piaceva di più. Qualcuno diceva: 'ancora a fare 'sta tammurriata?'
Io sono molto legato a Pomigliano. Quando parto con i Zezi la
notte non dormo perché devo partire, però appena ci siamo allontanati di cinquanta chilometri comincio a pensare: 'quando torniamo?'
Non so perché. Non si vive bene, però io preferisco vivere a Pomigliano, perché mi sono creato una famiglia.»
SALVATORE IASEVOLI
«Vengo da Mariglianella, eravamo una famiglia molto numerosa e ci trasferimmo a Pomigliano perché mio padre prese il posto
all'Alfasud. Mio padre si è licenziato dallo stabilimento perché non
ce la faceva più a lavorare. Ha avuto un esurimento nervoso. Lì
dentro non stai più a tuo agio. Io ho avuto la possibilità di entrare
all'Alfasud ma non mi piace quella vita, ho preferito fare altri lavori.
Quando sono arrivati i cinquecento licenziamenti abbiamo fatto le
nottate là fuori, con Marcello, davanti ai cancelli ci facevamo il
bicchiere di vino, la tammurriata...
I Zezi erano un 'popolo', sono stati la mia scuola: ci vedevamo
alla `casarella' e discutevamo dei problemi della vita, delle persone,
dei cortili, del lavoro e della disoccupazione. E io ascoltavo Matteo,
che oggi ha vent'anni di Alfasud, e la sera, lui, dopo una giornata di
lavoro, ci veniva a raccontare quello che succedeva in fabbrica, e io
ascoltavo e vivevo quei problemi!
L'esperienza dei Zezi l'abbiamo fatta con tutto il 'Bronx', perché lì a Pomigliano è nato il quartiere 'Sulmona' che noi chiamiamo il
Bronx. Lì eravamo già tutti amici perché venivamo tutti dal vicolo, il
vicolo di Falco, il vicolo delle Rose...Siamo finiti li perché c'è stato
il terremoto.
Succedeva, s'è fatto sempre, che noi ci 'difendevamo' il nostro
territorio; e facevamo le guerre! Era un gioco, un divertimento.
Pigliavamo le mattonelle spaccate e facevamo la `petriata'. I ragazzi
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andavano a casa con la testa spaccata, chi aveva tre punti, chi cinque...Una battaglia durava tre ore, si facevano i prigionieri...Poi
magari ci davamo appuntamento e commentavamo i risultati della
battaglia. Era un gioco di violenza perché la violenza la subivi, nel
quartiere popolare la violenza è sempre esistita!
Coi Zezi non c'era l'obiettivo di diventare famosi. Eravamo
un gruppo di persone che cresceva insieme con le proprie esperienze,
per dirci delle cose e creare delle situazioni di teatro, per coinvolgere
le persone...I ragazzi del quartiere hanno fatto il carnevale, si
vestivano da 'mestieri', li raccontavano...
Oggi purtroppo le province sono rimaste chiuse. Per esempio io
a volte vado a Mariglianella, dove sono nato, a Cisterna... Erano
piccoli paesi che sono cresciuti, ma che hanno avuto questi paesi? I
giovani che fanno? Cioè, dopo la partita di carte al bar e una chiacchierata sul 'pallone', ci ricordiamo quando ci spaccavamo la testa da
piccoli...Non è arrivato niente; noi siamo stati fortunati perché
abbiamo avuto i Zezi. A Pomigliano quando è arrivata 1'Alfasud il
contadino è 'zompato' in aria...La raccolta dei dischi delle 'sette
madonne', oppure un libro di De Simone, fossero mai arrivati nella
scuola che facevo io...No! Sono arrivati all'Università!»
PASQUALE TERRACCIANO CO PISSETTO)
«Il mio soprannome lo aveva già mio padre: lui da piccolo
abitava in un cortile dove c'era un calzolaio e andava a giocare carponi con la spazzola, che a Napoli si chiama `scupetta', di questo
ciabattino. Poiché non riusciva a pronunciare questa parola, diceva
`pittetta' e da questo venne fuori `pissetto'. Lo hanno poi sempre
chiamato così, e lo stesso nomignolo me lo sono trovato addosso io
e oggi i miei figli.
All'inizio suonavo la batterla ai matrimoni o alla festa dei
Gigli di Nola per sbarcare il lunario, con Pasquale Bernile. Poi con
Tonino Esposito e altri amici affittammo un locale, la cosiddetta
`casarella', dove ci incontravamo; Tonino era la memoria orale della
cultura popolare della nostra zona e aveva interessato anche Roberto
De Simone e Diego Carpitella. Decidemmo così di lavorare su
questo terreno e di intervenire nel dibattito politico del momento.
Sapemmo che a Pomigliano fino al '56 si faceva la 'Canzone di
Zeza' e cercammo di farla rivivere. I costumi e la scenografia furono preparati da Angelo De Falco che aveva lavorato al teatro Esse e
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aveva interrotto da poco la sua collaborazione con la Nuova Compagnia di Canto Popolare. A Carnevale, dopo mesi di prove, la rappresentammo. Di noi si accorse Giulio Baffi, che fece delle recensioni sull'Unità.
Cominciammo poi a lavorare sulle vecchie canzoni popolari,
aiutati anche da Nino Leone, da Giovanni Cantone e dalle loro
mamme, che ci cantavano questi canti tradizionali; armati di registratore andavamo dalle persone anziane a cercare altro materiale,
organizzavamo il Carnevale, cucinando anche polpette e lasagne
per far rivivere le condizioni del vecchio Carnevale... Ci rendemmo però conto che bisognava anche puntare in avanti perché preservare soltanto le nostre radici non bastava più. Cominciavano
intanto ad arrivare operai, disoccupati, studenti.
Nacquero così la `Tammurriata dell'Alfasud', sullo scandalo
delle settecentomila lire che qualcuno pagò per entrarci, e la Tammurriata delle elezioni', in occasione del voto ai diciottenni. Poi la
`Flobert', con Scíascià. Pochi di noi avevano avuto esperienze musicali. Allora con dei pezzi di latta, con dei secchi ed altre cose Miziarruno a imitare i rumori della fabbrica: per esempio, il rumore
delle presse venne fatto su dei secchi di latta percossi da bacchette
con dei feltri, poi ce n'era un altro fatto con una lamiera che facevamo vibrare. Matteo mimava il suo lavoro in fabbrica e Marcello,
che allora era giovanissimo, era la `Zeta'.
Incontravamo poi molti musicisti, Otello Profazio, Maria Carta, Carlo Siliotto del Canzoniere del Lazio. Al Carnevale del '75
arrivarono gli Aktuala da Milano, Concetta Barra, Pino Daniele.
Pino Daniele, allora supporter di Napoli Centrale, voleva a tutti i
costi la 'Flobert' per cantarla, ma noi non volemmo dargliela. Otello
Profazio ci propose di presentarci alla Emi, che allora aveva una
collana 'folk'. Noi rifiutammo, e con i compagni del Canzoniere
Italiano, per l'etichetta dei 'Dischi del sole', preparammo il primo
Lp, facendoci noi carico delle registrazioni e del missaggio. Cominciammo anche a suonare all'estero, in Francia per esempio. Poi
organizzammo il primo 'Giugno Vesuviano': conoscemmo il Teatrogruppo di Salerno, e qualche volta si univa a noi Giovanni Coffarelli, un noto cantore popolare di Somma Vesuviana. Poi incontrammo Gigi Bartoccioni, che produceva un gruppo di pastori di
Nocera Umbra. Gigi lavorava a Rai 2, ed insieme a lui e a Bruno
Modugno facemmo un intervento televisivo. Quello che però creava opinione era la tammurriata rivista con nuovi contenuti. Cioè,
rispettavamo l'endecasillabo, la metrica e quant'altro, ma i versi
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non erano solamente quelli della tradizione. Poi facemmo i festival
de l'Unità, la Biennale di Venezia, il Folkstudio di Cesaroni a
Roma, ecc.
Girammo poi un film sulla 'Canzone di Zeza' con Salvatore
Piscicelli e avemmo dei consigli da Pasquale Scialò, un musicologo
che ci aiutava soprattutto dal punto di vista armonico, perché il
tamburo ce l'avevamo dentro... Quando io partii militare mi sostituì Raffaele Del Prete e un altro contributo lo diede Daniele Sepe.
Tornato a Pomigliano sono rientrato nel Gruppo e sono stato fino
all'85. Poi sono uscito di nuovo e sono rientrato nel '90, fino al '92.
Negli anni '80 c'era Felice Antignani, c'era Patrizio Esposito. Negli
anni '80, con il calo di interesse per la canzone politica, ritenemmo
opportuno ridimensionarci e lavorare soprattutto nell'hinterland.
Forse però noi non abbiamo visto i nostri limiti; forse negli anni '70
dovevamo professionalizzarci: invece abbiamo vissuto questa cosa
soltanto come un'ondata e basta. Negli anni '80 abbiamo lavorato
poco, a noi si avvicinò anche Enzo Gragnaniello ma poi facemmo
soprattutto teatro, spettacoli come "Mo' vene Natale", "Tutto pe'
niente" e altri. Studiammo anche la sceneggiata, í dialoghi, i personaggi: ci è sicuramente servito, ma ci dedicammo per lo più al teatro
di strada. In strada facevamo sempre il Pazzariello, e se non c'era il
Pazzariello c'era Pulcinella. Io ero il Pazzariello; avevo conosciuto
Armando Sciallo, che sul disco della Nccp "li Sarracini adorano lu
sole" faceva la maschera della 'vecchia 'o carnevale', e lui mi diede
alcuni consigli. A Potenza, nell'estate del '76, capeggiammo una
manifestazione per l'occupazione delle case: con tamburo e grancassa
cercavamo di mantenere buona la polizia mentre alcuni compagni
occupavano le case. A Milano, a Quarto Oggiaro ci fu una manifestazione contro il governo Moro e usammo dei pupazzi che ballavano
intorno a una cinquecento. C'è poi una famosa foto della Biennale di
Venezia, dove Marcello fa ballare un ragazzo handicappato. Come
gruppo teatrale facevamo soprattutto satira.
Nel frattempo mi ero sposato e ho incominciato a lavorare
come responsabile in un centro di calcolo presso un'azienda di
Pomigliano. Uscito dai Zezi, con Giovanni Sgammato e Franco
Romano demmo vita al gruppo `Rarecanova'. Ho fatto poi l'attore
nei film di Piscicelli. Dal '95, con mia moglie e i miei figli abbiamo
formato il gruppo 'Napoli extracomunitaria', che cerca di mantenere
la tradizione arcaica con il Pazzariello, la narratrice dei racconti
popolari ecc. Cerchiamo di mantenere viva la tradizione delle famiglie che fanno spettacoli di cultura popolare; pare che in Italia ce ne
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siano solo quattro. Lavoriamo con l'Università di Urbino, con la
Cgil, con la Lega della cultura di Piadena ed altre strutture.
Con i Zezi la rottura fu in primis con la Nuova Compagnia di
Canto popolare, ed era una rottura politica: loro facevano la piccola
borghesia, noi facevamo le piazze e le manifestazioni politiche.
Quando ci fu la 'Gatta Cenerentola' al San Ferdinando alcuni di
noi andarono a sfondare perché il biglietto era troppo alto, ci furono degli arresti».
VITTORIO D'AMBROSIO
. «Sono nato a Taranto e lì ho vissuto fino all'età di quindici anni.
Mio padre era operaio, lavorava all'arsenale, mia madre era una raccoglitrice. Vivevamo a Cas tellaneta, il paes e di R odolf o
Valentino...Un paese di ricchi proprietari che spesso vivevano in
città e delle terre raccoglievano solo i frutti. Bocciato al secondo anno
di avviamento industriale, la mia famiglia mi mandò a lavorare. Ho
lavorato in una cava di tufo a tredici anni. Era un lavoro durissimo,
descriverlo non rende l'idea: mi alzavo alle cinque e mezzo per lavorare dodici ore, all'aperto, col freddo, con delle macchine pericolose
che tagliavano i blocchi di tufo. Parecchi ci hanno rimesso le dita,
erano macchine che si muovevano su dei binari e bisognava spingerle
in avanti. Poi c'erano delle persone, l'ho fatto anch'io, si faceva a turno,
che alzavano questi blocchi e li caricavano su dei camion per portarli
nei cantieri edili per costruire le case. Un'esperienza del genere mi ha
veramente dato la spinta a cercare un altro lavoro per migliorare la mia
condizione.
Due anni dopo, come tanti meridionali dell'epoca, sono emigrato con la mia valigia di cartone e sono andato a Torino a lavorare
prima in un'officina dell'indotto Fiat, dove si producevano i profilati di carrozzeria che servivano per le auto, e successivamente alla
Fiat. Lì, mentre lavoravo, ripresi a studiare andando alla scuola
serale. Tornavi a casa alle undici e un quarto e spesso dovevi anche
preparare i compiti per il giorno dopo. Anche quello non è stato
certamente un periodo facile della mia vita! Avendo cominciato
purtroppo così presto, sono andato in pensione a cinquantuno anni
poiché avevo maturato trentacinque anni e sei mesi di anzianità.
Nel '72, poiché il mio desiderio era quello di tornare quanto
più a sud possibile, mi si presentò l'occasione di lavorare all'Alli
che stava appena nascendo. Cercavano personale qualificato e
120
dopo un colloquio fui assunto, licenziandomi dalla Fiat. Ho fatto
tutto l'iter dell'operaio che aspira a diventare impiegato: ho lavorato
alla catena di montaggio, poi attraverso dei corsi interni alla Fiat, da
operaio generico diventai operaio qualificato e poi specializzato. Ho
fatto il tracciatore al collaudo, dove si fa un lavoro di controllo:
bisogna conoscere il disegno tecnico e, attraverso il disegno, controllare i particolari di carrozzeria. Fui poi assunto come operaio
intermedio, una qualifica tra l'operaio specializzato e l'impiegato
che adesso, con la nuova normativa che subentrò a metà anni '70 e
che ha riparametrato i livelli intesi come ex categorie, non esiste
più. Prima c'era una netta distinzione in categorie: operai e impiegati, ora invece c'è una struttura a livelli, non ci sono più le categorie.
Infine sono diventato impiegato dove in parte fai anche del
lavoro cartaceo; nel mio caso specifico io facevo il 'metodo' del
montaggio. Praticamente mi occupavo dalla verifica del processo
produttivo del montaggio della vettura per scoprirne eventuali anomalie di progetto e di processo, stabilire cioè se, durante il cammino della catena, in una determinata stazione quell'operazione di
montaggio che si effettua è idonea oppure bisogna modificarla. Io
ero uno dei pochi impiegati che faceva sciopero: alla Fiat non è
concepibile che un impiegato possa fare sciopero. C'era una forma di
ricatto molto strisciante ed ero additato con 'dieci puntini neri', come
si dice in gergo aziendale !
Come ho incontrato i Zezi... Anzitutto a me è sempre piaciuto il
teatro; a undici anni avevo cominciato a suonare il clarinetto e suonavo nella banda del paese. Io amo molto Carmelo Bene, lo considero un rivoluzionario della forma teatrale. Mi ricordo quando vidi
`Nostra signora dei turchi', uno spettacolo che mi ha molto spinto a
fare teatro. E poi Dario Fo, Eduardo, De Simone... Con i Zezi ho
cominciato anche a scrivere dei testi per gli spettacoli che rappresentavamo. Mi ricordo per esempio lo spettacolo sulla cassa integrazione
`Cig: Italian schifezze' e `I\Izalata non stop: Miting Clientelescion'. Io
ero anche attore; eravamo presenti in tutte le iniziative...Mi dispiace
molto che questa attività dei Zezi sia stata interrotta. Probabilmente
Angelo non vedeva uno sbocco possibile per il teatro mentre forse
l'aspetto musicale poteva dare più opportunità.
A me piaceva intrecciare alla musica la parte teatrale. Credo
che il teatro sia uno straordinario mezzo di comunicazione: noi eravamo un megafono e allo stesso tempo eravamo ironici e popolari.
Per 'popolare' intendo una comunicazione che usa un linguaggio
comune, accessibile a tutti, ma non per questo banale o volgare. Un
121
linguaggio immediato, preciso, satirico. Noi abbiamo fatto delle
cose molto interessanti... Quello che fa il presentatore nel film di
Fellini Ginger e Fred, noi l'avevamo anticipato già di qualche anno!
Facevamo delle parodie e della satira di cui credo cí sia ancora
bisogno. Il mio grande rimpianto è di non aver sviluppato quel tipo
di teatro. Spesso negli spettacoli io facevo l'industriale, il padrone. In
alcuni sketch ho fatto delle parti in cui non c'era bisogno di avere un
accento napoletano...A noi premeva molto avere un rapporto con
la realtà di fabbrica, e mi ricordo un bellissimo spettacolo che
facemmo nella mensa dell'Italsider, a Bagnoli. Ho fatto anche un po'
di vita di partito, sono stato tesserato della Fiom ma non mi
piaceva, non amavo il linguaggio dei politici. Mi sembrava molto
più utile esprimere il mio disagio attraverso il teatro. Non volevamo
fare i missionari, ma ci credevamo e ci divertivamo.
Una volta fummo chiamati a Siano, dove una compagnia francese, la Bender & Martiny, voleva impiantare uno stabilimento che
produceva apparecchiature per impianti di frenatura, utilizzando
quindi l'amianto, in un territorio dove c'era una straordinaria produzione di ciliegie esportate anche in Europa. La fabbrica avrebbe
causato l'abbattimento di molti alberi e i danni per l'ambiente
sarebbero stati notevoli. Nel giro di poco tempo scrivemmo un
testo per l'occasione, ed eravamo ancora in tempi in cui non si parlava così tanto di ambientalismo. Con la presenza di Rai 2, un giorno del marzo 1980, di buon mattino, andammo in questo paese
dove facemmo uno spettacolo per strada che coinvolse tutti gli abitanti! Parodiavamo i politici locali, i personaggi coinvolti nei fatti e
dei quali ci eravamo informati; e tutti erano sorpresi di come fossimo riusciti a cogliere tanti aspetti di questa vicenda. Prendevamo
spunto da questioni locali e su melodie conosciute elaboravamo dei
testi satirici; ad esempio, cantavamo: «acqua azzurra, acqua chiara,
'e mettimmo e lampadine int'e funtane...», ironizzando sulle spese
inutili che il Comune faceva. E questo tipo di comunicazione era
molto efficace! Alla fine della giornata molti contadini che sostenevano la politica della Democrazia Cristiana avevano cambiato idea! E
l'unica voce dissidente fu quella di un dirigente locale del Partito
Comunista che ci tacciava di terrorismo psicologico e ci rinfacciava
di impedire l'installazione di un impianto che avrebbe dato qualche
decina di posti di lavoro. Come se questi posti di lavoro potessero
essere la risoluzione dei problemi locali. Questo intervento fece da
detonatore e creò un movimento d'opinione che alla fine impedì
l'installazione della fabbrica. Eravamo presenti in tutte le manife122
stazioni, nelle marce pacifiste...Mi ricordo, all'epoca di Reagan,
facemmo una struttura in legno con dei finti microfoni fatti con dei
tubi elettrici neri; io facevo il presidente degli Stati Uniti che arrivava
in aereo, con un piccolo aereo di legno che avevamo costruito, e i
giornalisti mi intervistavano come se fossi stato un vero presidente!
Davanti all'ambasciata americana facemmo una finta conferenza
stampa davanti a decine di giornalisti e il giornale Lotta Continua ci
dedicò un'intera pagina con la mia fotografia. A volte davvero non
c'erano mille lire per comprare i chiodi per mettere due legni insieme,
però abbiamo fatto delle cose molto belle!
Politicamente non credo che ci siano le condizioni per un
cambiamento radicale. Mi posso definire un riformista anche se a
volte ho preso delle posizioni estremistiche. Credo che sia meglio
acquisire dei risultati, lottare per obiettivi visibili.
Ultimamente ho svolto dei lavori di consulenza per la Fiat in
Argentina. Sono stato lì otto mesi, mi hanno proposto di restarci,
ben pagato, per tre anni ma ho rifiutato. Preferisco stare qui, mi
piacerebbe riprendere a fare teatro, fare queste cose con le scuole,
con i ragazzi di oggi...adesso si parla di riorganizzare il carnevale...
Senza ipocrisia: i soldi servono ma si vive anche d'altro...»
CIRO LIGUORO
(Ciro è l'unico superstite dello scoppio della Plobert'. La sua
testimonianza, ricca di particolari e di inedite rivelazioni, è particolarmente toccante ed esemplifica molto bene alcune tematiche sviluppate nel libro.)
«Nell'aprile 1975 ero disoccupato. Tramite il collocamento,
insieme ad altri amici, trovai lavoro come operaio in questa fabbrica di giocattoli che si diceva in espansione. Avevo ventiquattro
anni.
Fummo assunti di lunedì ed eravamo tutti contenti, facevamo
già i nostri progetti. Ora che avevamo trovato un lavoro si fantasticava, c'era chi pensava di sposarsi.
Ci dissero però che per qualche giorno avremmo dovuto fare
un lavoro urgente per un'ordinazione, facendoci intendere che solo
se avessimo accettato ci avrebbero assunti. Capimmo subito che era
un lavoro pericoloso: si trattava di incapsulare la polvere da sparo
all'interno di proiettili di plastica che poi venivano lanciati dalla
123
famosa pistola `Flobere. Il capannone dove avremmo dovuto lavorare era adiacente ad altri capannoni dove c'erano altri operai, ma
non aveva uscite di sicurezza; c'erano due finestrini sbarrati e polvere dappertutto. Le munizioni prodotte venivano poi ammassate
alle spalle del laboratorio. Gli altri reparti non erano così, erano
sicuri, funzionali. Noi protestammo ma ci fecero capire che avremmo perso il posto se ci fossimo rifiutati. Fummo incoraggiati anche
da persone che avevano già fatto questo lavoro e così la nostra protesta svanì nel nulla; ci guardammo in faccia, pensammo che
rischiando per qualche giorno avremmo poi trovato il posto fisso e
risolto i problemi della vita, se così si può dire, e così alla fine accettammo. Dovevamo fare trentamila proiettili. Quella, seppi in seguito, era una lavorazione che facevano 'in nero', destinata, pare, al
mercato estero che nulla aveva a che fare con le pistole giocattolo
che loro fabbricavano e che comunque avrebbero sicuramente
dovuto avere dei proiettili con una minore quantità di polvere
all'interno. In realtà la fabbrica apparteneva a persone che avevano
sempre lavorato la polvere da sparo, anche per i fuochi d'artificio, e
in un secondo momento la produzione era stata allargata e avevano
iniziato la lavorazione di questa pistola giocattolo `Flobere, con dei
proiettili a piumino con cui molta gente si è fatta male, tra le altre
cose. Dovevamo dunque fare trentamila proiettili in questa stanza
molto stretta con un tavolo al centro; noi eravamo in dodici e quattro erano attorno a questo tavolo. In cinque giorni avevamo confezionato tira venticinquemila proiettili e quando pressavamo la polvere nelle capsule sentivamo una frizione, un attrito. Proprio in una
di queste operazioni, in un attimo, uno stridio, una fiammata e il
primo scoppio. Ricordo che misi la mano davanti alla faccia e mi
protessi gli occhi. La prima botta fu più piccola della seconda. La
prima fece cadere tutto il materiale su di noi. Io ho avuto la fortuna
di essere sbalzato sopra tutti, una massa di detriti, polvere, carne
umana. C'era un amico sotto di me che si lamentava e mi diceva di
non muovermi, chiamava la moglie, i figli. Il secondo scoppio è stato molto più forte perché è avvenuto nel deposito e ha fatto crollare
anche il tetto dell'altra parte della fabbrica. Credo che la maggior
parte di noi sia morta all'istante, bruciati dalla prima fiammata.
Non a caso alcuni operai sono stati trovati carbonizzati con le mani
aggrappate a delle grate di ferro. Io ero coperto di polvere e mi
usciva il sangue dalla bocca che aumentava sempre di più. A quel
punto è avvenuta una cosa che finora mi sono tenuto dentro e che
per ventitre anni hanno saputo solo mia moglie e il mio confessore.
124
Ho deciso di dirla per un fatto di rispetto nei confronti degli altri
anche se non mi è pesato tenermela dentro finora, devo dire la
verità.
Io sono da sempre devoto della Madonna dell'Arco, faccio il
`battente' ma vivo la mia fede in maniera molto interiore e non mi
piacciono tanto quelle scene che si vedono al santuario, anche se
devo dire che è difficile trattenere l'emozione quando nel giorno
della festa si entra in chiesa; lì come minimo scoppi a piangere.
Dopo il secondo scoppio, quando ormai credevo di morire, ho avuto
una visione della Madonna dell'Arco, proprio del quadro che sta nel
santuario di S. Anastasia. Quest'immagine silenziosa che è
durata alcuni secondi mi ha dato la forza di sollevarmi dal cumulo
di macerie e mi ha 'indicato' la strada della salvezza. Sono riuscito a
divincolarmi e sono uscito sanguinante dal mucchio dei cadaveri.
Poi sono svenuto e mi sono risvegliato in ospedale.
Possono anche non crederci, la cosa non mi riguarda. Questa è
la verità ed è una verità che dico pubblicamente per la prima volta
dopo ventitre anni, anche se qualche mezza ammissione a qualche
amico in verità l'avevo fatta. Già prima di questi fatti venivo chiamato
il < miracolato'. Da piccolo avevo preso la difterite, che all'epoca era
di solito una malattia mortale, ed ero guarito.
Oggi lavoro in una ex Upa della Fiat dove si fanno i cablaggi
venduta a terzi. Nelle Upa venivano collocati tutti i lavoratori che
l'azienda non aveva interesse a mantenere: cassintegrati, operai
troppo sindacalizzati e soprattutto molti malati. Le Upa sono
decentrate e ci sono dei lavoratori, zoppi ad esempio, che hanno
molte difficoltà ad arrivarci. Ti mettono insomma in condizioni tali
che sei spinto a licenziarti. Così le società che rilevano queste piccole
fabbriche possono facilmente dimostrare che c'è assenteismo, che
la produttività è bassissima, che si è in perdita... E tutte queste cose
permettono di ottenere lo stato di crisi e di conseguenza la
ristrutturazione, la cassa integrazione, la mobilità lunga... Tanti
lavoratori se ne andranno dall'azienda e rimarranno solo quelli che
possono lavorare a un certo livello. Così cambieranno nome, cambieranno zona, faranno delle nuove assunzioni e tutto sarà risolto per
loro.
Non trovo nessuna contraddizione nell'essere un sindacalista e
allo stesso tempo un devoto della Madonna dell'Arco. Io ho sempre
visto i comunisti come quelli che devono salvaguardare gli interessi
dei più deboli. La Madonna fa la stessa cosa, l'aggrapparsi alla fede ha
la stessa funzione e queste due cose non le ho mai messe in
125
=m
A dm la verità, poi, al Partito Comunista di S. Anastasia
gli atei si contavano sulla punta delle dita. Io non li ho mai conosciuti tutti 'sti atei nel Partito Comunista!»
ANTONIO FRAIOLI
«Sono nato nel 1967. Come musicista la mia formazione è di
tipo classico. Ho studiato violino al conservatorio di S. Pietro a
Maiella e per anni conoscevo solo indirettamente la musica leggera e la
musica rock perché non me ne interessavo proprio. Conoscevo un
po' Phil Collins, i Dire Straits, ma la scoperta di una strada nuova è
avvenuta verso i quindici anni suonando la batteria con un amico
chitarrista. Era la prima volta che riuscivo a canalizzare il mio istinto
ritmico. Suonando la batteria cominciai quindi a scoprire il rock, il
jazz rock, fino al punto che la bilancia cominciò a pendere più su
questo versante che su quello classico. Poi, dopo il diploma
cominciai a suonare con Rua Port'Alba, un gruppo che suonava
musica popolare. Io non avevo mai avuto un'esperienza del genere.
Cominciammo a suonare e dopo un paio di mesi ío ed altri musicisti di
Rua Port'Alba fummo chiamati dai Zezi che stavano riformando il
gruppo musicale; era il 1991. Io i Zezi li avevo visti la prima volta al
Teatro Tenda quando ci fu l'ultimatum per la guerra del golfo, e mi
ricordo che erano arrivati questi, tutti 'chiarii' mi ricordo, che fecero
questa cosa con 'sti tamburi che io quasi non capii...
La prima impressione che ebbi fu disastrosa. Mi ricordo una
grande stanza fumosa con cinque o sei persone sedute in cerchio che
suonavano degli strumenti musicali in modo molto rudimentale. Tutti
parlavano a voce altissima: 'allora come fa questa canzone? Do, fa,
do, fa...' non si sentiva niente, e queste erano le prove...Poi non c'era
nessun orizzonte professionale, non c'era neanche la prospettiva di
poter rientrare nelle spese...Dopo un mese me ne andai, mi sembravano dei pazzi! Poi ritornai, e dopo la prima freddezza cominciai a
suonare con loro. Contemporaneamente lavoravo in teatro, al Sannazzaro a Napoli, anche a Roma, facendo anche l'attore...Ho lavorato
poi ne 1.1 Convitato di pezza', uno spettacolo di burattini di Bruno
leone. La scoperta della tradizione è avvenuta dopo, per me allora la
tradizione erano loro, alle feste ancora non ci andavo anche perché
quando loro ci andavano si scordavano di dirmelo!
All'inizio, devo dire, l'approccio alla tradizione fu quello 'tipico': senti una fronna, un canto alla carrettiera e pensi che metten126
doci sotto un ritmo africano hai fatto un'operazione bellissima! In
realtà dopo un po' mi sono reso conto che questo era molto superficiale. Così col tempo sono entrato nella tradizione, girando per le
feste, ascoltando i dischi e studiando. Per me i libri di De Simone
sono stati fondamentali: sono stati la porta d'entrata in queste cose.
C'è stato un periodo in cui ascoltavo i dischi delle 'sette madonne'
tutti i giorni! Ma non mi piace l'uso di materiali della tradizione
quando vengono presi in maniera semplicistica e sviliti.
Io non `faccio' musica popolare, ma 'mi interesso' di musica
popolare. Per me interessarmi alla musica popolare significa anzitutto
avere un minimo di idea di che cosa è una festa, di che tipo di
comunicazione si sviluppa, da dove deriva quella cosa, capire che
cosa dicono i testi dei canti, andare nella masseria con loro e mangiare
insieme la pasta e fagioli e le salsicce...La musica etnica non è musica
a se stante, è una musica che ha un senso all'interno dí una
situazione, e questa cosa va rispettata, per quello che è possibile. Su
un palco non puoi ricreare la musica popolare. Quello che puoi fare è
avere coscienza di tutto questo. La cosa importante è capire che cosa
succede quando vai in una festa e sei nel cerchio di una tammurriata.
Questa cosa per me è stata all'inizio il motore di tutto. Io ho fatto
delle esperienze fortissime ballando la tammurriata; dopo ore di ballo
vedi che il tuo stato mentale e fisico cambia, va veramente in una
diversa dimensione, in cui sei molto più veloce, più libero e più
presente a tutto quello che fai e vedi. E senza prendere nessuna
droga! Voglio dire, il ballo tradizionale è un linguaggio, un mezzo
con cui puoi incontrare gli altri, puoi incontrare te stesso e puoi
anche superare te stesso. E questo ha a che fare, usando una parola
un po' difficile, con il 'sacro'. Spesso oggi vediamo giovani, specialmente cittadini, che si stanno accostando alla tammurriata quasi
come se andassero in discoteca. Tutto si esaurisce in scariche di piacere sensomotorio, in mostra di sé... E questo cambia il clima del
ballo! Questo succede perché il ballo popolare sta diventando di
moda, e la maniera tradizionale di apprendimento si sta sgretolando.
E io penso pure che uno non può fare musica popolare se non balla,
perché ballando entri in quella pulsazione in una maniera completamente diversa. E poi i legami che si creano...Io, figlio di borghesi,
avevo già difficoltà ad avere a che fare con il meccanico, e invece nella
festa incominci a frequentare i contadini, gli operai...
Forse un clima di festa lo puoi ricreare in un concerto, a volte
noi ci siamo riusciti, certo una cosa è stare a Castiello e una cosa è
stare nel nord Italia, ma ottieni comunque un cambiamento, un
127
cambiamento energetico. Cambia proprio il modo di muoversi, la
gente non si muove come quando va a un concerto di una 'posse',
perché il corpo è stimolato a partecipare in maniera più completa,
Io vedi dalla faccia della gente, c'è un benessere dopo la musica... E
questo succede anche a noi sul palco: cominciamo che siamo stanchi, distrutti dal viaggio, e finiamo che siamo più forti di prima,
perché suonare quelle cose aumenta il tuo livello energetico.
così!
È vero che oggi noi ci stiamo anche allontanando dalla tradizione, ma quello che mi interessa è mantenere il clima, riuscire a
innestare quel tipo di comunicazione sapendo anche suonare quel
tipo di musica, perché il clima non lo ottieni se non suoni in un certo
modo.
E quando da noi arrivano dei musicisti nuovi, gli devi fare la
scuola, perché sono abituati a suonare con il 'tiro' rock o blues, il
fraseggio jazz, che non va male si può anche usare, però le ritmiche
sono in un certo modo, il batterista deve adeguarsi e suonare in un
certo modo. Sostanzialmente ora per noi ci sono due cose: una è
quella di aprire gli occhi e vedere come si muovono le cose, e l'altra è
quella di ampliare, anche a livello di mercato, perché finora i
Zezi...solo tanti complimenti! È importante far vedere tu da dove
vieni, nel nuovo disco stiamo inserendo le voci di nuovi cantatori
popolari, giovani come Marco Limatola, per far vedere anche come
la tradizione si rinnova. I vecchi esecutori purtroppo stanno scomparendo.
Io vorrei rendere alcuni aspetti di questa musica fruibili a più
persone, senza snaturarla completamente: è una ricerca più globale
sulla musica etnica. Può anche succedere che senti il sitar e ce lo
metti, ma non è quello. Se prendiamo la canzone `Giuvinotti e
signurine', e ascoltiamo come si muovono il basso, la batteria, il
violino, ci sono dei risultati che vengono da alcune domande che
mi sono fatto. Certe scansioni, certi fraseggi, mi richiamano alcune
cose che ho imparato dalla musica gnawa, la linea melodica si muove molto vicino a quella di una tarrunurriata, stilizzata per fare una
canzone, ma siamo nello schema della tammurriata, con la quinta
che va giù... Insomma a me interessa fare dei pezzi che se tu li vai a
leggere ci trovi le tracce della tradizione, ma concretamente!
Finché ci sarà Angelo i Zezi esisteranno. Perché i Zezi non sono
solo un gruppo musicale, ma una serie di iniziative. Se noi mai avessimo un boom e ci trovassimo a Los Angeles sarà importante tornare a
Pomigliano e organizzare la Zeza a Carnevale. Andare alla festa di
128
Somma è imprescindibile. Ma perché mi piace!
Essere Zezi oggi non significa essere i Zezi di vent'anni fa. C'è
stata un'accelerazione e bisogna rifletterci. Il seme che è stato messo
viene filtrato diversamente. Ma stare nei Zezi non significa stare in
un qualsiasi gruppo musicale. Io ho fatto esperienze a tecentosessanta gradi in questo gruppo, politiche, aristiche e umane, scoprendo anche profonde contraddizioni, e solo nella voglia di vedere e
riflettere su queste si può aprire ancora una volta un reale futuro nel
gruppo».
CARMINE GUADAGNO
«Quando l'Alfasud venne venduta ai privati, la Rai ci chiese di
esprimere il nostro punto di vista come Gruppo Operaio. Noi ci
impegnammo moltissimo, lavorammo per giorni preparando un
vero e proprio spettacolo per esprimere tutte le cose che riteneva mo giusto dire su come era avvenuta la ristrutturazione, la cassa
integrazione...Quando visionammo il programma finito, ci accorgemmo che la nostra partecipazione era stata ridotta a qualche
minuto. Non si capiva nulla di quello che avevamo voluto dire. La
spiegazione del regista fu che eravamo stati tagliati per esigenze di
tempo. Questa cosa ci deluse moltissimo, protestammo davanti alla
Rai, facemmo dei volantini...
Gli anni '80 erano anni di riflusso, e quelli di noi che erano
rimasti cercavano di opporsi a questa tendenza a far scomparire tutto, le fabbriche, la condizione operaia... e lo abbiamo fatto con il teatro. Un po' fu anche una scelta obbligata, perché gente che suonava
non ce n'era più, c'era solo chi sapeva suonare la tammorra! Ma se il
gruppo oggi esiste c'è da ringraziare proprio quelle persone, e sono
tante, che in quegli anni difficili si sono alternate, si sono date il cambio quasi! Negli anni '70 c'era un'onda, a volte era quasi una moda
protestare...Io ho partecipato a questa cosa perché ci credevo, oggi
ho rivisto molte delle mie posizioni e, visto come sono andate le cose,
penso a volte che ci siamo presi un po' tutti in giro. Però rispetto
molto quelli che lo fanno perché ancora ci credono.
Molte persone del gruppo facevano un lavoro più nascosto, si
dedicavano a preparare i costumi, le maschere, le attrezzature... era
gente che faceva veramente la manovalanza! Per noi il teatro napoletano era un teatro ufficiale; noi tentavamo di fare qualcos'altro: il
nostro era un teatro che nasceva nei cortili, per le strade. Non è che
129
studiassimo il teatro, solo con `Franceschiello' ci eravamo impegnati
in uno studio vero e proprio. Tranceschiello' ci ha spiazzati proprio
perché era la prima rappresentazione che richiedeva veramente un
minimo di professionismo, ci voleva un impegno molto maggiore
per ognuno di noi e ci volevano anche più soldi. Venne fuori che la
fiaba sarebbe stata più difficile da rappresentare di quanto noi
pensassimo all'inizio. Era difficile seguire i movimenti, il modo di
parlare che gli studiosi ci indicavano. Noi eravamo abituati a fare gli
spettacoli provandoli il giorno prima di andare in scena! Il gruppo
aveva lavorato sempre in condizioni precarie: si scriveva Io spettacolo e lo si riusciva a provare una, due volte. Probabilmente non
abbiamo mai provato uno spettacolo per intero! La prova
principale si faceva sul palco, e la 'prima' era la prima nel vero senso
della parola... `Franceschiello' non potevi farlo così! Noi avevamo
sempre fatto spettacoli più brevi e più semplici, questo invece era
molto più complicato, molto più impegnativo dal punto di vista tecnico e scenografico. Quando facevamo le prove si diceva alle otto e
si iniziava alle dieci, una sera mancava uno, una sera mancava
l'altro...Forse per un gruppo professionale sarebbe stato diverso.
Questa fu anche la possibilità di una svolta per noi: alcuni pensavano
che fosse necessario perché i tempi erano cambiati e ci si era anche
seccati di dire sempre le stesse cose, invece per altri era meglio far
rimanere il gruppo come era. Io penso che si potevano fare tutte e
due le cose. Tranceschiello' è rimasta l'opera incompiuta.
Ogni occasione era buona per tirare fuori uno spettacolo.
Non so, in un paese c'era un problema? C'era un gruppo, un comitato spontaneo che aveva bisogno di un intervento a sostegno? Ci
chiamavano e noi gratuitamente mettevamo su uno spettacolo per
l'occasione. Si trattava in genere di compagni, piccole realtà che si
organizzavano a proprie spese, a noi serviva un minimo di attrezzature, un palco, ma a volte neanche quello c'era... Si prendeva spunto
da quello che succedeva tenendo però sempre presente la condizione
operaia della zona. Ed ognuno diceva la sua, ognuno portava la sua
idea; ci riunivamo alla Casa del Popolo. Nel teatro di strada
preparavamo degli sketch appositi per quello che dovevamo fare.
Una volta che il presidente americano Reagan doveva venire in visita
in Italia facemmo una manifestazione di protesta a Roma; rappresentammo proprio l'arrivo di Reagan con la moglie e le guardie
del corpo, con il Pazzariello, gli slogan e le canzoni...
Alcuni avevano anche problemi di famiglia, perché impegnavamo troppo tempo e poi questo gruppo non era ben visto perché
130
era di sinistra e faceva la lotta politica, e una certa parte di Pomigliano ci ha sempre visti con distacco, anche una parte della sinistra. Il
riconoscimento maggiore è venuto proprio dalla gente del popolo, e
non tanto per le cose politiche, ma per quelle tradizionali!
Io ho nella Zeza ho sempre fatto Vincenzella, la figlia. Nei
personaggi femminili ci vuole molta immedesimazione. Io in questi
giorni di carnevale non faccio altro che fare Vincenzella! Ho coinvolto tutto il mio ufficio! A volte faccio fatica a vivere normalmente
perché se la fai spesso in una settimana pare che sei sempre lei...»
131
POSTFAZIONE
Sarà difficile trovare dei punti esclamativi in questo libro. Un
punto esclamativo tradisce spesso una mancanza di distacco, una partecipazione emotiva che può inficiare l'oggettività dell'analisi. È
opportuno, però, che il lettore sappia che questo non è stato ottenuto
senza sforzo. Un anno trascorso con il Gruppo Operaio, e con tutto
quello che vi ruota attorno, non può essere un anno senza emozioni.;
quando ho cominciato a lavorare a questo libro avevo già indagato
per quasi un decennio sulla cultura popolare campana, e non pensavo
che in poco tempo avrei imparato molto di più di ciò che già sapevo.
Eppure, dopo solo qualche mese, realizzai che tutto quello che conoscevo stava prendendo una nuova forma, si stava ridisegnando
all'interno di una prospettiva diversa, molto più complessa della precedente, molto più dinamica, e soprattutto molto più viva, drammatica, ed urgente.
La storia di questo libro inizia forse nel 1987, quando ancora
studiavo lingue straniere presso l'Università di Salerno e, per una tesi
di laurea, ebbi la possibilità di frequentare gli ambienti del revival
inglese, e di contattare a Londra Ewan MacColl e Peggy Seeger, i due
numi tutelari del movimento folk britannico. L'intenso rapporto che
ebbi con loro mi aiutò a comprendere molte cose sulla musica popolare, sul ruolo che l'industrializzazione aveva avuto nel trasformare le
forme espressive delle classi subalterne, sull'importanza di misurarsi
profondamente con la cultura della propria zona di origine, sulla
necessità di lavorare alla elaborazione di un folklore contemporaneo
ma dalle radici antiche e solide.
Cominciai allora un lungo viaggio all'interno della tradizione
napoletana immergendomi in una realtà arcaica ed affascinante, che
oggi mi è familiare ma che allora sembrava sconcertante ed enigmatica.
La problematizzazione della ricerca sul campo all'interno della storia
culturale della regione ha fatto sì che io ritrovassi, tra le pieghe dei riti e
dei simboli della tradizione, i pezzi sparsi della mia memoria di napoletano, all'epoca smembrata da spinte centrifughe che mi avevano portato
in direzioni lontane, per ricomporli in una rinnovata identità.
Il Gruppo Operaio E Zezi, incrociando di fatto questi due universi, la fabbrica e l'arcaico mondo della tradizione partenopea, mi ha
133
consentito ora di annodare l'interesse per la realtà industriale con
quello per la cultura contadina e i suoi miti, stravolti nel travaglio
della modernizzazione.
Per la realizzazione di questo libro è stata avvicinata moltissima
gente: le chiacchierate che ho avuto con i tanti che ho rintracciato
sono durate a volte pochi minuti, a volte intere giornate; una realtà
come quella dei Zezi di Pomigliano d'Arco ha coinvolto nella sua storia centinaia di persone e, come già detto nell'introduzione, sarebbe
stato impossibile parlare con tutti coloro che hanno dato un contributo
a questa vicenda.
Occorre poi menzionare qualcuno senza il cui apporto questo
lavoro non sarebbe venuto fuori così come è: in primo luogo i sindacalisti Mario Napoli tano e Luigi Nuzzi, per l'aiuto datomi nella comprensione della locale realtà operaia, e tutta la segreteria Fiom Cgil di
Pomigliano d'Arco, spesso base logistica di buona parte del lavoro fatto
in loco. Un ringraziamento speciale ad Angelo De Falco: il suo
archivio di libri, articoli, foto e registrazioni audio e video è stato fondamentale per la realizzazione del lavoro; ad Antonio Fraiolz, che mi
ha introdotto 'fisicamente' nel mondo dei Zezi, e a Giovanni Sgammato e Marcello Colasurdo per la loro attiva collaborazione. Grazie a
Bruno Masulli, Carla Cristofanilli, Carla Rabuffetti, Nicola Vetrano,
Maria Rosaria Nocera, Sebastiano Ciccarelli, Lello Settembre, Sergio
Nardò, Paolo Barberi Vincenzo Bitti, Guido Carosi. Grazie anche a
Claudio Vedovati per alcuni suggerimenti, e a Patrizio Esposito per
degli spunti importanti sugli aspetti teatrali del Gruppo Operaio. Un
ringraziamento particolare a Marco Bascetta che ha creduto in questo
lavoro e che, con infinita pazienza, ha sopportato le mie innumerevoli
correzioni fino
giorno.
Un ringraziamento molto particolare agli operai, ai contadini, ai
braccianti, agli artigiani che vivono nei quartieri popolari di Pomigliano, e che mi hanno aperto i cortili e le case nelle visite che ho fatto
loro insieme a Marcello, per la loro gentilezza e cordialità, per la
disponibilità verso chi entrava nelle loro abitazioni perché doveva
`scrivere un libro': è questo, in fin dei conti, il 'popolo' dei Zezi.
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finito di stampare nel mese di giugno 1999
per conto della manifestolibri-roma
dalla grafica ripoli-tivoli