NATIVI ALLA RIBALTA L’ora degli aborigeni Nella Gmg finalmente padroni di casa. «La Chiesa ha anche il nostro volto» Oggi una barca dei nativi dell’isola di Torres riceverà il Papa e lo guiderà fino al molo di Barangaroo. Il vescovo Fisher: «Attraverso i missionari siamo l’unica istituzione che si è interessata a loro fin da quando i primi evangelizzatori hanno toccato questa terra» Era il tempo del sogno, il dreamtime così legato all’identità dei nativi australiani. Ma il fantasma di James Cook, il primo colonizzatore dell’Australia nel 1788, trasforma quel tempo di sogno in un incubo durato oltre due secoli. All’epoca dello sbarco dell’esploratore britannico «gli aborigeni non venivano neanche considerati umani». Nell’amara verità scandita dal vescovo ausiliare di Sydney, Anthony Fisher, che guida l’organizzazione della Gmg, risuona il lamento di un popolo decimato, umiliato, disorientato dai soprusi e poi confuso dall’alcol e dalle droghe fatte arrivare dalla terraferma e che oggi funestano le comunità più remote. «Eravamo i custodi di questa terra – commenta Edweed, 19 anni –. Ci hanno ridotti a minoranza disperata. Ma non abbiamo visto solo il male, abbiamo conosciuto i missionari, e loro ci hanno fatto incontrare Gesù » . Sono a venuti a dirlo fino a Sydney, ed è la prima volta che ci mettono piede. Prima d’ora non ne avevano mai avuto il coraggio. Edween, William e Tessa sono nati nella tropicale Palm Island: quello che a noi appare come un paradiso incontaminato, a loro ricorda l’olocausto silenzioso. L’isola al largo delle coste dello stato del Queensland è stata una sorta di lager per gli indigeni più riottosi. Solo nel 1962 i discendenti dei deportati hanno potuto ottenere documenti di identità, e poi il diritto di voto, ma non ancora quello di usare il denaro. Intanto erano passati due secoli e loro, da due milioni che erano, si sono ridotti oggi a poco più di 500mila. Solo quarant’anni fa, nel 1968, hanno avuto libero accesso all’acquisto di cibo e merci, fino ad allora potevano solo usufruire delle razioni stabilite dalle autorità. Oggi toccherà a loro dare il benvenuto ufficiale in Australia a Benedetto XVI. Sarà una barca dei nativi dell’isola di Torres a ricevere il Papa nel primo pomeriggio (il mattino italiano) e a guidarlo fino al molo di Barangaroo. «Finalmente come padroni di casa», commenta Victoria che con altri cinquanta condivide un pasto destinato ai giovani pellegrini. Qualche mese fa il neopremier Kevin Rudd, laburista, ha chiesto scusa per la « generazione perduta » . «Rubata, non perduta», si inalbera Victoria. « Erano bambini che i bianchi toglievano alle nostre famiglie » , ricorda la ragazza aborigena che in questi giorni è ospite del Villaggio olimpico insieme a migliaia di giovani da tutto il mondo. Danzeranno e canteranno non per fare folclore, ma per dire grazie al Papa, e con lui alla Chiesa che «attraverso i missionari – insiste il vescovo Fisher – è stata l’unica istituzione che si è interessata a loro fin da quando i primi evangelizzatori hanno toccato questa terra». « L’esperienza di questi giorni ci conferma che la Chiesa ha anche il nostro volto. Da Papa Benedetto ci aspettiamo parole che incoraggino noi a rafforzare la fede – spera Virginia, della comunità di Kiama –, e poi parole a tutti gli australiani perché possiamo insieme trovare la forza di superare il male e riconciliarci tra noi e con la madre terra ». Quella verso la definitiva pacificazione è una strada con tanto deserto intorno. I 517 mila aborigeni registrati dall’ultimo censimento nazionale hanno un’aspettativa di vita inferiore al resto degli australiani – 59,4 anni contro 76,6 per gli uomini, e 64,8 contro 82 per le donne –. A causa delle peggiori condizioni economiche patiscono infatti ancora limitazioni nell’accesso al sistema socio-sanitario. Nelle carceri il tasso di suicidi tra i nativi è spaventoso: il 19 per cento del totale. E ancora oggi i bambini figli di indigeni soffrono di malattie croniche alla vista, come il tracoma. Nel 1996 le diverse confessioni cristiane chiesero perdono per il coinvolgimento di alcuni organismi caritativi nella politica dell’assimilazione forzata. Un atto penitenziale potentemente rilanciato da Giovanni Paolo II, che nell’esortazione post-sinodale Ecclesia in Oceania ( 2001) ha dedicato un paragrafo alla richiesta di perdono per i torti inflitti alle popolazioni autoctone. «Da allora – assicurano i ragazzi di Palm Island – ogni mese accade qualcosa di nuovo e bello, fino alle scuse del primo ministro. Adesso però tocca anche a noi smetterla con le lamentele e collaborare al futuro dell’Australia » . Era questo ciò che voleva dire Papa Wojtyla quando disse agli aborigeni nello storico discorso del 1986 ad Alice Spring: « Voi siete parte dell’Australia e l’Australia è parte di voi. La Chiesa stessa in Australia non sarà pienamente la Chiesa voluta da Gesù finché non avrete portato il vostro contributo alla sua vita e finché questo contributo non sarà stato accolto con gioia dagli altri». Gli aborigeni lo ricordano bene. E oggi con Papa Benedetto XVI mostreranno al mondo quanto la Chiesa sia nel loro cuore.