FILOSOFIA DONNE FILOSOFIE
Atti del Convegno Internazionale
Lecce 27-30 Aprile 1992
Intervento di Maria Grazia Tundo
Identità e Differenza
…
Proviamo a focalizzare la nostra attenzione sulla pratica della scrittura let-
teraria. Sono recenti e diffusi i tentativi di caratterizzare una “scrittura femminile”, di
definirne gli aspetti salienti e ricorrenti in modo da contrapporla ad una modalità
maschile di produzione di opere letterarie e da avere un corpus di testi in cui
identificarsi, a cui far riferimento, in cui trovare risposte. Perché cercare nei testi di
scrittura l’identità di genere? Proprio qui dove ogni concetto di identità, coerenza e
compattezza del soggetto si rivela illusorio, viene messo in crisi o rivelato come
inganno, dove si rendono visibili conflitti e contraddizioni di significato attivare una
lettura critica del testo che voglia rintracciare somiglianze, caratteristiche comuni o
addirittura definire le peculiarità di una scrittura femminile risulta restrittivo e
funzionale ad un pensiero incapace di decostruire le opposizioni dicotomiche tra
maschile e femminile e che ha necessità di inventarsi i propri “luoghi comuni”, ad un
pensiero che non riesce a figurarsi l’eterogeneo”, il “misto”.
Vorrei portare un esempio tratto da un testo letterario. C’è un racconto lungo di
Doris Lessing che ha per titolo The Fifth Child [Il quinto figlio]9, la cui lettura
produce un effetto inquietante anche perché risulta difficile inserirlo all’interno di una
categoria di “genere”. Non è facile decidere se si tratti di un racconto realista o se
appartenga alla fantasy, ma l’effetto più propriamente sconcertante è dato dalla
tematica che affronta, cioè quella della maternità. Questo luogo sacro del femminile, da
sempre soggetto alla retorica più melensa o più subdola, viene rappresentato come
carico di ambivalenza ed indecidibilità.
Il racconto si apre con una coppia felice, Harriet e David, che a dispetto di ogni
ostacolo è in grado di costruire la vita da sempre sognata: una grande casa accogliente
sempre piena di amici, quattro figli che nascono desiderati e che si integrano
perfettamente nelle coordinate del progetto familiare. Quando la donna rimane
incinta per la quinta volta qualcosa accade, qualcosa di indefinibile. Il suo rapporto
con il bambino che ospita non ha più nulla della gioiosa vitalità che aveva
caratterizzato le altre quattro gravidanze; c’è una istintiva, fi sica repulsione per
questo essere che invade l’interno del suo corpo ed asserisce la sua presenza
con prepotenza, scalciando e provocando una serie di sintomi insopportabili.
Sia il momento del parto che la successiva presenza del bambino rafforzeranno
tale impossibilità di relazione: c’è nel bambino una vitalità
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spaventosa, che lo rende non inquadrabile nelle definizioni della normalità che
di solito si danno, ma neanche tematizzabile come “diverso” da un punto di vista diagnostico. Riesce difficile classificare tale neonato che, però, con la sua
sola presenza riesce a disgregare la serenità della vita familiare, a rompere l’incantesimo di un’esistenza immune dal conflitto e dal dolore: Ben non è bello o
amabile, ma non è neanche fragile o malato al punto da poterne avere compassione. Al contrario è robusto, molto più pesante della media, muscoloso, resistente, forte. Su questa immagine di bambino ogni retorica dei buoni sentimenti
si rivela inadeguata: “mostro”, “alieno”, “fatto di una sostanza differente”,
“nemico”, non ordinario” sono alcune delle parole che nel corso del racconto
vengono utilizzate per definirlo e che ne rimandano l’inclassificabilità.
Anche il momento dell’allattamento è carico di sgomento in quanto
l’avido neonato sembra volere prosciugare la donna, succhiarle tutto il suo
essere, svuotarla di ogni nutrimento’0. In queste descrizioni viene messo in luce
il lato oscuro di un’esperienza come quella della maternità che è sempre stata
espurgata di ogni inquietudine per ricondurla alla solarità di una funzione
sociale condivisa e necessaria alla riproduzione del sistema. Invece essa emerge
dal racconto come un’esperienza assolutamente singolare, non tematizzatile, ai
limiti dell’ “abiezione” e relativa al rapporto tra due esseri (madre e figlio) che,
pur essendo inscritti in una realtà storica, linguistica e sociale che ne determina
e sancisce in buona misura i comportamenti, rimangono eccedenti l’uno all’altra: Ben è pensato come l’alieno, appartenente ad una razza diversa da quella
umana, impossibile da comprendere e con cui non si può entrare in relazione se
non abbandonando i codici sociali condivisi per cercare uno spazio di comunicazione in grado di leggere l’idiosincraticità dell’altro.
Probabilmente Ben si da’ come il lato oscuro dell’infante (di ogni infante) nel momento in cui viene al mondo e porta con sé la possibilità di
disgregare con la sua atopia ed imprevedibilità ogni strutturazione familiare: è
il paradosso dell’altro non ancora inscritto nel codice quell’altro che anche noi
eravamo e di cui ci resta forse un’oscura memoria che viene ricondotto al noto
con un’operazione di nominazione e categorizzazione atta a disattivarne la potenziale minaccia,
Nel racconto la protagonista accetta di tenere quell’essere indefinibile ed
eccessivo accanto a sé, rinunciando a comprenderlo, ma tentando sempre e comunque di entrare in rapporto con la sua vita: il prezzo da pagare è alto; significa sancire la rovina definita del sogno di vita familiare armonica ed esente dal
dolore che solo la rimozione del “diverso”12 potrebbe ancora permettere. Nel
momento in cui riconosce il diritto inalienabile all’esistenza di Ben lei valica
quel confine che stabilisce i criteri della normalità e dell’umanità e si avvicina
al territorio estraneo che l’altro occupa. Questo luogo di frontiera diviene così
uno spazio di relazione reale benché inclassificabile, legata esclusivamente ad
un “guardarsi”3 reciproco carico di domande senza risposta’4.
Mi sono dilungata su questo testo perché mi sembra ponga indirettamente
delle questioni interessanti relative alla tematica di cui sto trattando. La “figura”
del quinto figlio (il suo essere maschio rafforza la distanza dall’identità
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della protagonista rendendo ancora più difficile ogni forma di “identificazione”
con lui) è l’ingombrante presenza di ciò che non può essere codificato nel discorso, la disturbante invadenza dell’inaddomesticabile, che pur avendo origine
all’interno di sé si pone immediatamente come altro. E’ la singolarità assoluta
che richiede un rischio assoluto per poter essere ammessa a far parte del sociale.
Eppure ancora più dirompente potrebbe essere leggere questo Ben come la
propria stessa vitalità resa estranea, soffocata, che il discorso potrebbe forse
definire “maschile’, che ha familiarità con il dolore e la violenza, che non può
riconoscersi in un’immagine limpida e definita, ma riceve dallo sguardo degli
altri la condanna per la propria eccedenza. «Aspra e massiccia insorgenza di
un’estraneità che se mi è stata familiare in una vita opaca e dimenticata ora
m’incalza come radicalmente separata, ripugnante»’5. Riconoscere in sé la presenza di un’eterogeneità siffatta senza averne orrore, accettando il rischio che
essa comporta di una confusione delle categorie, comprese quelle di genere, significa operare una svolta radicale rispetto a quei discorsi sulla differenza sessuale che rischiano di riproporre un femminile pacificato nella contemplazione
della propria comunità di simili.
Ciò porta ad auspicare e a lavorare per un mondo che mutili il meno possibile le differenze e non le riduca a luoghi di simmetria speculare dell’identità.
Infatti solo tutto ciò che eccede l’identità (intesa come luogo di coerenza e
continuità con sé e con il proprio genere) può dar vita a quello spazio di transizione tra sé e l’altra\o in cui è la relazione a creare i soggetti ed a modificarli e
che si pone come unico luogo di eticità possibile.