EVOLUZIONE STORICA DEL CONCETTO DI PARTECIPAZIONE SOCIETARIA Interrogarsi sulla natura giuridica della partecipazione societaria richiede un'analisi che non può prescindere dalla indagine sulla evoluzione della nozione di società fino alla normazione attuale, recata dall'art. 2247 del c.c. che, nel definire la nozione generale di società, esprime, normandolo, il raggiungimento, ratio materiae, di un equilibrio fra il "tutto" e la "parte" (indicizzabili nella società e, specularmente, nella comunità-corpo sociale) nella astrazione definitoria del concetto di contratto societario. Ai sensi del citato articolo "con il contratto di società due o più persone conferiscono beni e servizi per l'esercizio in comune di un'attività economica allo scopo di dividerne gli utili". Destrutturando concettualmente la norma è evidente che nella formulazione il legislatore è riuscito ad essenzializzare il rapporto tra l'istituzione-società e la comunità corpo-sociale nella quale s'inserisce l'azione dei soggetti: il socio conferisce uno o più beni o un servizio (che assurge a "quota" di partecipazione nella società) in funzione dell'esercizio di un'attività plurisoggettiva mentre il bene o servizio apportato rappresenta la quota di partecipazione nella società. Ne consegue che il conferimento materiale assicura al soggetto socio il diritto astratto all'acquisizione reddituale dei proventi dell'attività, resa possibile per effetto dell'apporto di quei beni e sulla quale al pari degli altri soci, seppure con il correttivo della diversa gradualità di poteri e responsabilità, è legittimato ad influire. La statuizione non può essere interpretata in senso riduzionistico limitandola ai rapporti tra soggetto e cosa ossia come strumenti di disciplina dell'appartenenza ma va anche applicata a quello del rapporto tra bene e attività cui si rivolge e dunque, all’ambito dei rapporti etero-individuali. L'esercizio dell'attività finalizzata alla divisione degli utili impone un richiamo (non meramente sistematico) all'art. 2082 c.c. ossia alla figura del soggetto che è propulsore di quelle determinate attività attraverso un'organizzazione che si assume come manifestazione delle sue potenzialità professionali orientate alla economicità dei fini perseguiti. Infatti, ai sensi dell'art. 2082 c.c. è imprenditore chi esercita professionalmente un'attività economica organizzata (n.d.r. artt. 1655, 2135, 2195, 2238, 2247 c.c.) al fine della produzione o dello scambio di beni o di servizi (n.d.r. art. 2085, 2086). L'attività può essere esercitata in forma individuale (ex art. 2082 c.c.) ovvero in forma colletiva (ex art. 2247 c.c.) con la variante che, in caso di attività imprenditoriale esercitata in forma singola, i rapporti tra soggetto e cose e tra cose e attività sono indicati e riferiti al soggetto imprenditore attraverso l'organizzazione, mentre in caso di attività imprenditoriale esercitata in forma collettiva i rapporti sono di fatto mediati. E' quella appena evidenziata una definizione assiomatica importante, ai fini della nostra trattazione, perché da essa consegue che, postulando che il bene (o servizio) è destinato ad un'attività comune che è organizzata per mezzo di un centro "neutrale" di disciplina rappresentato dalla società, la conclusione cui si giunge è che il rapporto tra soggetto e cosa può essere valutato in base a due opposte angolazioni, produttive di conseguenze giuridiche diverse. Si intende, affermando ciò, dire che, nell'ipotesi di rapporto diretto si configura una comunione a scopo di godimento disciplinata dalle regole sulla comunione ex art. 2248 c.c. mentre, nel caso di rapporto indiretto configurabile allorquando la cosa sia destinata ad un'attività esercitata collettivamente, si concretizza la “società”. Estremizzando le conseguenze, nella prima ipotesi si ha partecipazione o quota di comunione su una cosa mentre, nella seconda, si ha partecipazione o quota sui frutti della attività che si svolge su o per mezzo del bene. Si tratta di una nozione che si è nel tempo consolidata e che rappresenta, nell'attuale assetto economico sociale, il punto d'arrivo di un percorso diacronico attraverso il quale tale tesi è andata positivizzandosi, fino a giungere alla formulazione recata dall'art. 2247 c.c.. La norma essenzializza il contenuto del contratto societario nella strutturalità del rapporto tra “parte” e “tutto” intendendo la prima come quota ideale e porzione materiale della cosa della quale costituisce la “forma rappresentativa”. 1 Volendo lasciare spazio alla filosofia dogmatica romana l'affermazione si presta a una duplice riflessione come postulato: mentre la parte divisa è nel contempo “parte” e “tutto” lo stesso non può dirsi della parte indivisa. Si è soliti infatti affermare in filosofia giuridica che l'oggetto esterno e percepibile non è un intero, né una parte, dal momento che l'intero è un “relativo” perché viene concepito come tale solo in funzione della parte con la quale si relativizza. Ne deriva, seguendo il pensiero di Sesto Empirico, che “a loro volta anche le parti sono relative, perché solo in relazione con l'intero si concepiscono come parti” ovvero che “i relativi esistono nella nostra associazione mnemonica e la nostra associazione mnemonica è in noi” per cui “l'oggetto esterno e percepibile non è né un intero né una parte ma un ente al quale noi assegniamo come predicato la nostra stessa associazione mnemonica”. La concettualizzazione è davvero audace ma perfettamente condivisibile se ci si cala nella situazione di contesto nella quale è stata elaborata. Affermare che la "pars divisa" è nel contempo un tutto e una parte in ragione dell'angolazione nella quale ci si pone non crea alcuna collisione ed entrambe le affermazioni si assumono come deduzioni assiomatiche della nozione di parte come rappresentazione neutrale riferita a cose materiali come, ad esempio, la “gens” o “l’agnatio”. Il concetto viene in parte utilizzato dai canonisti del dodicesimo secolo i quali si riferiscono alle strutture degli enti collettivi per sviluppare un nuovo sistema di diritto societario da estendere alla istituzione “Chiesa”. Il rapporto società-singoli viene sistematizzato e vengono definiti anche i rapporti tra società e rappresentanti in funzione della prioritaria considerazione che la società non è dei singoli e che "se qualcosa è dovuto alla società non è dovuto ai singoli né l'individuo possiede ciò che la società possiede” viene, infatti, riconosciuta alla società la capacità di agire per mezzo dei suoi rappresentanti e dunque l'implicita distinzione tra i diritti e doveri facenti capo alla società e quelli facenti capo ai suoi rappresentanti. Ma la ideologizzazione di una tale forma societaria elide i canoni della concezione cristiana della natura sociale della comunità ecclesiale fondata sulla condivisione della proprietà comune e con un altrettanto comune responsabilità per le obbligazioni contratte. Il consolidamento del potere della Chiesa portò al radicarsi di una nuova definizione di ente giuridico societario, avulso dalle impostazioni sostenute dai canonisti e da quelle romane della società come astrazione artificiale (austalt) alle quali pure s'affianca. La società di ispirazione ecclesiale ha come necessari elementi di identificazione un gruppo di persone, la comunione dei beni e un "capo" con distinti diritti rispetto alla società, legittimato a svolgere tutta quella attività che la società per proprio limite fisiologico non poteva svolgere. Il fondamento di tale conclusione riposa nel processo osmotico che lega le volontà che partecipano al gruppo per identificarsi con esso. Pur non concependo la società dai membri come nella concezione romanistica i canonisti giungono alla conclusione che il gruppo non può avere una personalità o una volontà distinta dai suoi membri. L'impostazione dominò la concettualizzazione giuridica fino agli albori della società mercantile medioevale ossia fino a quando non si fece sentire l'esigenza di affrancarsi dai vincoli imposti dall'etica del mercato chiuso e si affermarono nuovi modelli organizzativi in risposta alle esigenze di dinamismo economico imposte dalla mercatura. In particolare emerse la necessità di trovare una nuova definizione al contratto societario, con nuove regole di amministrazione e responsabilità, nel quale il rischio d'impresa trovasse una specifica definizione e nella ripartizione tra stans (finanziatore) e tractator (mercante): il mercante è illimitatamente responsabile mentre il finanziatore risponde solo nei limiti del capitale conferito. Ma il tentativo più eloquente del mutato assetto sociale e del potere conquistato dalla nuova classe sociale emergente fu il ribaltamento della concezione comunitaria attraverso la dissimulazione del contratto di mutuo in contratto societario. In altre parole qualificare come mutuo la partecipazione societaria finalizzata al riporto degli utili conferiva liceità all’onerosità depurandola da quelle implicazioni concettuali della canonistica che 2 potevano condurre pur con ovvie forzature nell'alveo delle usure, sulle quali gravava per sempre l'anatocismo biblico. Attrarre le partecipazioni (commissio pecuniam) alla causa mutui significava così riconoscere che qualunque fosse il motivo che aveva indotto le parti a soggiacere al vincolo contrattuale esse vantavano comunque un credito alla restitutio del commissum. La proprietà del denaro conferito (il tutto) si traduceva così nella proprietà di una quota del capitale sociale (la parte). Viene, in altre parole, definito il rapporto tra tutto e parte attraverso la stipula di un contratto societario in virtù del quale la proprietà del denaro conferito – che assume una precisa funzione di mezzo di scambio - rimane al conferente sotto forma di proprietà di una quota del capitale sociale. Una tale impostazione poteva rappresentare, nella costruzione concettuale, il giusto compromesso tra la dissimulazione del contratto di mutuo e il peccato d'usura. Infatti, la commissio operata nei confronti di un mercante si traduce, in realtà, in un conferimento motivato da una causa autonoma che si oggettiva nella stipulazione del contratto societario in virtù del quale il conferente conserva la proprietà del denaro sotto forma - attraverso lo scambio - di proprietà di una quota del capitale sociale. In tal modo la commissio viene assolta da ogni censura d'usura in quanto il denaro viene utilizzato per la sua funzione principale che è quella di fungere da valore di scambio. Il contesto giuridico pluriordinamentale che caratterizza la matrice strutturale societaria del periodo medioevale rimane per qualche secolo impermeabile all'evoluzione dei traffici e alle evoluzione dei sistemi del diritto commerciale al punto che l'impronta statalista si marginalizza alle fonti senza, tuttavia, infrangere i contenuti del diritto societario. La statualizzazione delle fonti attraverso numerosi provvedimenti legislativi rispondevano ad una necessità di intervento fortemente richiesto dalla classe media in rapida affermazione. Tra la metà del sedicesimo e la fine del diciottesimo secolo le società si manifestano come compagnie privilegiate che sono, in taluni casi, la diretta emanazione statale (come le casas portoghesi e spagnole) e, in altri, associazioni privilegiate (è il caso delle chartered companies inglesi) alle quali si conferiva - mediante editto o lettere patenti - uno status indipendente, dotato di personalità giuridica fondata su statuti che codificavano i privilegi politici ed economici di cui erano dotate, in cambio dell'obbligo di cui erano gravate di contribuire alle finanze sovrane. Il mutato assetto sociale e i vincoli che gravavano sul riconoscimento statale non incidevano, tuttavia, come si è detto, sulla organizzazione interna, che continuava ad essere strutturata secondo i principi e le consuetudini proprie della mercatura medievale. Le impostazioni storicamente compendiate ai fini dell'analisi del problema in discussione sono censibili come antecedenti storici di rilievo per l'elaborazione dell'ideologia metodologica che ha ispirato prime codificazioni nelle quali era evidente la soggettivazione della nozione d'impresa. L'art. 1697 del c.c. del 1865 definiva, infatti, la società “il contratto con il quale due o più persone convengono di mettere qualcosa in comunione, al fine di dividerne il guadagno che potrà derivarne” e lo stesso codice di commercio del Regno d'Italia del 1865 che qualificava come "commercianti quelli che esercitano atti di commercio e ne fanno la loro professione abituale" sono una conferma della centralità del soggetto nella prospettiva degli atti di scambio conseguenti ai rapporti commerciali. La costruzione personalistica viene invece oggettivata nella formulazione codicistica vigente nella quale lo status del soggetto imprenditore viene meglio qualificato in ragione della tipologia dell'attività svolta che costituisce espressione del regime proprietario sia con riferimento agli atti che ai rapporti giuridici e, dunque, al regime contrattuale. Poiché a norma dell'art. 2082 c.c., infatti, “è imprenditore chi esercita professionalmente una attività economica organizzata al fine della produzione o dello scambio di beni o servizi” e, secondo il successivo art. 2247 il quale, pur non richiamando il requisito della professionalità (ritenuto necessario per l'esistenza dell'impresa ma non necessario per tutte le società come quelle occasionali o quelle tra professionisti), l’esercizio in comune di un'attività economica consolida la nozione istituzionale di società dal momento che definisce come “societario” il contratto che intercorre tra due o più persone che conferiscono beni e servizi allo scopo di dividere gli utili derivanti dalla medesima società ne deriva 3 un'astrazione del concetto di società rispetto al contenuto oggettivo e qualificante rappresentato dalle attività. In questa ottica, come peraltro sostenuto dalla giurisprudenza di legittimità (Cass. n. 697 del 1997), anche il conferimento deve essere qualificato come immateriale (“ovvero posizione contrattuale obiettivata, che considerata come un bene immateriale equiparabile, ai sensi dell’art. 812 c.c., ai beni mobili materiali”) in quanto privo di essenza fisica ma espressione di astrazione del “tutto” che si concreta in un bene altrettanto immateriale, rappresentato nel diritto ai proventi derivanti dall'attività svolta su quei beni. In tal senso è orientata anche la dottrina che propende per la considerazione delle partecipazioni come conferimento immateriale di secondo grado proprio per il fatto che “la tutela assicurata dal diritto con riferimento alle partecipazioni nei beni destinati all'esercizio dell'attività comune non concerne e non può concernere il godimento o la disposizione dei beni (…) di primo grado, ma la probabilità della attività cui sono destinati i beni e così anche la possibilità d'influire su detta attività, influenza che a sua volta è strumento per la consecuzione dei redditi’’(Ascarelli). Antonina Giordano Funzionaria dell' Agenzia delle Entrate Segreteria Tecnica del Comitato consultivo per l' applicazione della norma antielusiva 4