Erminio Tansini, o dei sensi della pittura

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ERMINIO TANSINI, O DEI
SENSI DELLA PITTURA
Di Kevin McManus
Se i grandi ismi della storia dell’arte – almeno prima di diventare manier-ismi –
ci insegnano qualcosa, ci insegnano che le grandi novità spesso non dicono nulla di
nuovo. Piuttosto, pongono l’accento su ciò che prima pareva scontato, costringendoci a
soffermare lo sguardo laddove non pensavamo ce ne fosse bisogno. Così, gli ismi di metà
Novecento, con il loro fare di neo-avanguardia, ci hanno rivelato una grande verità
sommersa: che la pittura è in primis una superficie limitata, ricoperta di una quantità
variabile di colore. Bella scoperta, se è vero che nemmeno il Cubismo, ossia
l’avanguardia più radicale nello spogliare la pittura da secolari pregiudizi, era arrivato a
tanto. La bidimensionalità cubista riguarda infatti un piano parallelo con quello del
supporto, ma che non coincide con esso; è ancora un piano simbolico che mantiene
l’antica convenzione della tela come schermo, come spazio linguistico segnalato dai limiti
della cornice. I grandi movimenti artistici degli anni Cinquanta, invece, hanno eliminato
veramente la distanza tra superficie tangibile e spazio pittorico: Fontana, Pollock, Tàpies,
altri grandi nomi di quegli anni hanno usato il supporto per quello che è. Un dato, un
materiale da modificare mediante altri materiali, in una sovrapposizione che proprio nella
superficie trova il suo principio formante. Da allora la pittura non è più stata la stessa,
presa com’era, e com’è tuttora, nell’inderogabile scelta tra due alternative:
l’autoreferenzialità dichiarata o la convivenza postmoderna di superficie e alterità
simbolica. Di fronte a simili interrogativi, che risposta può dare, all’inizio del XXI secolo,
una pittura astratta?
Cerco di darmi una risposta sfogliando un catalogo di Erminio Tansini. Benché i
quadri siano tanti, e tutti meritevoli di attenzione, torno sempre sullo stesso, che mi
parla. Un Senza titolo del 2007, 50 x 60, su tavola, concepito per fasce orizzontali
parallele. Lo guardo e poi penso a Clement Greenberg, e alla sua convinzione che la
pittura modernista dovesse per prima cosa affermare inequivocabilmente la propria
otticità, il proprio riferirsi esclusivo al senso della vista. Riguardo il quadro, e noto che
dei cinque sensi, proprio la vista [p. 8] è quello meno adatto a comprenderlo. Da un lato,
la vista è troppo alta, troppo nobile per un’opera simile: guardandola si ha una
[P. 7]
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sensazione simile a quella che si prova davanti alle foto di certi dolci succulenti, foto
ricercatamente “materiche”, che invogliano a superare il puro rapporto visivo per
toccare, per assaggiare. Questo Senza titolo non si può amare così, platonicamente. Va
toccato e assaggiato. Dall’altro lato, la vista è troppo bassa, troppo banale. Senza voler
proporre strampalati paragoni, il quadro mi ricorda la sensazione provata la prima volta
che entrai in Santa Maria Novella a Firenze: quel ritmo che non è più solo visivo, per il
quale l’occhio non basta. Un ritmo che dall’occhio passa direttamente all’orecchio,
all’istinto musicale del fruitore, come capita quando chi sa leggere la musica si trova
davanti a una partitura, e quelle stanghette sono già qualcos’altro nell’istante stesse in cui
l’occhio le vede. Mi chiedo da dove questo quadro prenda questa forza sin estetica. Da
storico dell’arte penso subito, diligentemente, ad Afro e a Fautrier, a Marca-Relli e a
Burri, e a tanti altri. Pittori che Tansini avrà visto mille volte in vita sua. Ma non à la
risposta: è la pittura stessa a contenere tutte queste possibilità. La pittura ha la libertà di
battere il ritmo senza motivo, senza riferirsi al tempo esterno, ma anche di essere
sensuale e “golosa”, di attrarre senza secondi fini. E qui sta il senso di una pittura astratta
oggi, nell’esercitare questa libertà, rifiutando l’autorità di una teoria sì innovativa, ma che
la costringerebbe ad essere una variazione su un tema. «L’occhio vuole la sua parte», si
dice. In pittura, dove l’occhio l’ha sempre fatta da padrone, vogliono la loro parte anche
la mano, la bocca e l’orecchio. In uno dei suoi saggi più noti, Lyotard affermava che la
rivoluzione operata da Cézanne stava nell’aver trasferito la libido dal significato al
significate, dal soggetto rappresentato all’oggetto costituito dai materiali e dalle azioni
impiegate per rappresentarlo. Se per le teorie del modernismo questa scoperta è un
punto d’arrivo, per un pittore di oggi, come Erminio Tansini, non può che essere un
punto di partenza. Per una pittura da toccare e da ascoltare.
Tratto da: DAVIDE TANSINI (a c. di), Erminio Tansini. Opere di materia e colore, Milano, Editoriale Giorgio
Mondadori, 2011, pp. 7-8.
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