Economia degli Intermediari Finanziari

Economia degli
Intermediari
Finanziari
Prof Alemmanni – 2011/2012
A cura di Viviana Giacoppo
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EIF – viviana Giacoppo
http://www.sharenotes.it
21 febbraio 2012
Introduzione
Il nome attribuito alla materia che tratteremo, ossia “Economia degli intermediari
finanziari” è un nome storico, sebbene sarebbe più appropriato parlare di “Economia dei
sistemi finanziari”. Come prima cosa, perciò, andiamo a definire cosa sia un sistema
finanziario.
Sistema finanziario: sistema organizzato di regole, strumenti, mercati e istituzioni volto a
soddisfare bisogni di natura finanziaria.
Il primo elemento da analizzare saranno quindi i bisogni; poi cominceremo a declinare i
vari elementi che compongono il sistema.
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Regole: il sistema finanziario è uno dei sistemi maggiormente controllati; studieremo
come viene controllato nel complesso e come vengono controllati gli strumenti, i
mercati e le istituzioni che lo compongono.
Strumenti.
Mercati finanziari: ci occuperemo in particolare dei mercati mobiliari.
Istituzioni finanziarie (o intermediari): le banche sono le più importanti, anche dal
punto di vista quantitativo, ma esistono anche istituzioni di altro tipo.
I bisogni finanziari
Classificazione dei bisogni
I bisogni di natura finanziaria possono essere raggruppati in alcune categorie generali:
bisogno di finanziamento / bisogno di investimento: vengono indicati allo stesso
punto perché sono in realtà due facce della stessa medaglia: da un lato troviamo
chi prende denaro e dall’altro chi fornisce denaro.
- bisogno di pagamento: fa riferimento alla creazione della moneta e alla gestione
dei pagamenti. Tale bisogno è soddisfatto dalla Banca Centrale, anche nota
come Istituto di Emissione, che è una delle istituzioni finanziarie del sistema
finanziario.
I bisogni soddisfatti dal sistema finanziario sono anche altri, ma per il momento ci
concentriamo su questi, che apparentemente potrebbero sembrare la stessa cosa: infatti,
è abbastanza ovvio che chi prende a prestito del denaro ha intenzione di spenderlo, il
che ricondurrebbe al bisogno di pagamento. Tuttavia, ciò che conta ai fini della
distinzione è il bisogno principale: nel primo caso il bisogno principale è ottenere denaro,
mentre nel secondo caso è farlo circolare.
-
Questi due bisogni possono essere identificati anche con due termini diversi:
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bisogno di trasferimento di fondi nel tempo = bisogno di finanziamento /
investimento: chi prende a prestito del denaro si impegna a restituirlo in futuro,
mentre chi concede del denaro ne richiede la restituzione in futuro.
- bisogno di trasferimento di fondi nello spazio = bisogno di pagamento: in questo
caso il trasferimento di fondi è spaziale e non temporale.
Il sistema finanziario è tanto più efficiente ed efficace quanto più soddisfa questi bisogni in
maniera adeguata, in termini di gamma, sicurezza, costi, ecc…
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È necessario ricordare un terzo bisogno di cui si occupa il sistema finanziario:
bisogno di gestione dei rischi: all’interno del sistema finanziario esistono vari tipi di
rischi, che vengono gestiti da istituzioni diverse.
La prima tipologia di rischi che troviamo all’interno del sistema finanziario è quella dei
cosiddetti rischi puri. I rischi puri sono quelli che derivano da eventi negativi che, nel
momento in cui si manifestano, cagionano inevitabilmente un danno. In Europa, ma
probabilmente anche nel resto del mondo, i rischi puri sono gestiti con riserva di legge da
una specifica tipologia di istituzione finanziaria: la compagnia di assicurazione.
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I rischi puri si dividono in due categorie: gli eventi avversi che riguardano la vita e gli
eventi avversi che cagionano danni, ossia i rischi puri ramo vita e i rischi puri ramo danni.
L’evento avverso del ramo vita è solo uno, ed è la morte: in questo caso ci si assicura
contro la morte e la compagnia di assicurazione offre una somma come ricompensa
finanziaria qualora l’evento si verifichi. Il ramo danni comprende, sostanzialmente, tutto il
resto: i danni possono essere molto vari a seconda del soggetto, della professione, dello
stile di vita, dei mezzi di cui si dispone, ecc… (ricordiamo, ad esempio, la responsabilità
civile, ossia i danni che il mio operato o la mia proprietà cagionano a terzi; oppure i danni
che riguardano la mia persona). Le compagnie di assicurazione, per legge, devono
specializzarsi in uno dei due rami, ossia devono esistere due aziende separate, anche se
non è escluso che queste appartengano allo stesso gruppo.
Oltre ai rischi puri, il sistema finanziario si occupa di una seconda tipologia di rischi, ossia i
rischi finanziari. In finanza, il termine rischio è usato con un’accezione diversa dal termine
assicurativo, ed è in qualche modo sinonimo di incertezza relativamente ai risultati che un
certo evento potrà determinare in futuro. Perciò non si parla di eventi necessariamente
nocivi, ma semplicemente di eventi incerti, come, ad esempio, l’oscillazione dei tassi di
cambio o dei tassi di interesse, che possono determinare guadagni inferiori ma anche
superiori alle aspettative. Questa tipologia di rischi viene gestita dai cosiddetti strumenti
derivati.
Questi tre grandi blocchi sono i principali gruppi di bisogni cui il sistema finanziario cerca di
offrire soddisfacimento.
Il bisogno di pagamento
Breve percorso storico
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Il bisogno di pagamento, o bisogno di trasferimento di fondi nello spazio, è il bisogno
storicamente più antico, che nasce con la creazione della moneta.
Da dove nasce tale bisogno? Il bisogno di pagamento è la diretta conseguenza del fatto
che viviamo in un’economia specializzata di tipo monetario. Specializzata significa che
ciascuno di noi si specializza in una determinata attività, perciò, per soddisfare i suoi
bisogni ha la necessità di scambiare: economia specializzata implica, quindi, economia di
scambio. In un’economia di questo genere nessuno è autosufficiente, perché nessuno ha
tutto ciò che gli occorre per soddisfare i propri bisogni: per questo motivo, tutti decidono
di specializzarsi in un’attività utile a soddisfare anche i bisogni altrui e di cercare qualcuno
che svolga un’attività utile a soddisfare i propri bisogni. Dal bisogno di scambio deriva,
perciò, il bisogno di compravendita, che non nasce con la moneta, ma esisteva già ai
tempi del baratto. Infatti, un’economia specializzata, prima di essere di tipo monetario, è
un’economia di baratto. Tuttavia, la pratica del baratto presenta diversi problemi:
simmetria dei bisogni: per poter scambiare, è necessario trovare una controparte
che soddisfi il mio bisogno e che, allo stesso tempo, abbia il bisogno che io sono in
grado di soddisfare;
- valorizzazione soggettiva: quando avviene uno scambio si pone il problema di
stabilire quanto vale ciascun bene o servizio offerto. Nel baratto, la valorizzazione
dei beni o servizi è fatta su base singola, di volta in volta, cioè si tratta di una
valorizzazione non oggettiva, ma soggettiva;
- perdita di valore: è un problema che non vale per tutti i baratti, ma che può
emergere.
Tutti questi problemi fanno sì che, in un’economia di baratto, si scambi meno di quanto
potenzialmente sarebbe possibile: i problemi legati alla ricerca della controparte, alla
contrattazione e alla perdita di valore incidono pesantemente sui tempi e sui costi degli
scambi. Si tratta di un sistema che non ottimizza la crescita economica, anzi, agisce
contro una possibile espansione dell’economia: siamo quindi di fronte a un sistema
economico imperfetto. Per tutti questi motivi, il baratto ha perso progressivamente il
proprio significato (sebbene esista ancora oggi, specialmente per scambi molto alti, ad
esempio tra Paesi fornitori di materie prime e Paesi fornitori di prodotti finiti).
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Si ha quindi il passaggio dal baratto alla moneta merce, ossia un bene che veniva
scambiato per tutti gli altri beni. Questo bene è cambiato nel corso del tempo: il sale fu il
primo ad essere utilizzato, mentre gli ultimi furono i metalli preziosi.
Dalla moneta merce si passa quindi alla moneta contemporanea, che risolve tutti i
problemi che invece erano presenti con il baratto:
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asimmetria dei bisogni: il baratto imponeva che lo scambio avvenisse tra due
persone con bisogni simmetrici, mentre la moneta fa sì che io venga pagato per il
bisogno che soddisfo e, con quel pagamento, posso pagare una terza persona
che soddisfi il mio. In questo modo, anche con asimmetria di bisogni, è possibile
scambiare;
valorizzazione oggettiva: la moneta consente di valorizzare oggettivamente ogni
bene o servizio oggetto di scambio, dal momento che tutto viene quantificato in
unità di moneta;
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riserva di valore: il compenso che ricevo per il bisogno che soddisfo vale come
riserva di valore, che può essere utilizzata per scambi futuri.
Grazie a tutto ciò, la moneta permette di ottimizzare la quantità di scambi: minimizza i
costi e i tempi di ricerca; riduce il tempo di contrattazione, dal momento che il costo di
ogni bene e servizio è fissato dal mercato; consente di spendere in futuro ciò che non
spendo oggi.
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Il bisogno di pagamento e il sistema finanziario
Il primo compito del sistema finanziario è quello di creare la moneta con cui poter
pagare, il cui problema principale è la fisicità. Per questo motivo, nel tempo, sono stati
creati vari tipi di moneta:
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moneta legale: è la moneta cartacea o metallica emessa dalla Banca Centrale
nel suo ruolo di Istituto di Emissione. Oggi, questo ruolo è attribuito esclusivamente
alla Banca Centrale, ma in passato vi erano più istituti bancari che svolgevano tale
funzione.
La moneta legale ha potere liberatorio, ossia nel momento in cui pago il bene che
ho acquistato sono liberato da qualsiasi impegno contrattuale nei confronti del
venditore. Persino nel caso in cui il denaro usato per pagare risulti rubato, lo
scambio resta valido.
Tuttavia, il pagamento con moneta legale comporta alcuni problemi. Innanzitutto,
la moneta legale è fisica, e ciò implica che può essere distrutta, sottratta, smarrita
o contraffatta. Inoltre, vi sono casi in cui utilizzare la moneta fisica è costoso: se la
somma che devo pagare è ingente dovrò sostenere costi di assicurazione per i
rischi puri; se le parti sono distanti si manifesteranno una serie di costi di spedizione;
ecc… In generale, si possono manifestare una serie di costi di trasferimento che
possono ridurre la quantità di scambi che teoricamente un’economia è in grado di
generare. Considerando questi limiti della moneta legale, il sistema finanziario ha
deciso di facilitarne la circolazione attraverso una serie di modalità che, nel loro
insieme, prendono il nome di sistema dei pagamenti;
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sistema dei pagamenti: all’interno del sistema dei pagamenti troviamo, in
particolare, la moneta scritturale, così chiamata perché lo scambio avviene
attraverso scritture contabili (addebito di, accredito di). La moneta scritturale può
essere emessa dalle banche, ma anche dal sistema postale o dalle grandi reti di
distribuzione commerciale, ossia i grandi magazzini (sebbene questo metodo sia
poco diffuso in Italia). Tutti questi soggetti detengono, per la clientela finale, una
qualche forma di conto corrente: alla base, quindi, deve esserci una qualche
forma di deposito di moneta legale.
A differenza della moneta legale, la moneta scritturale non ha potere liberatorio:
pagare con moneta scritturale implica effettuare uno scambio che è regolato
salvo buon fine (sbf), ossia lo scambio è definitivo solo dopo aver verificato che c’è
una disponibilità sottostante di moneta legale. Ad esempio, se decido di pagare
con un assegno, il venditore verificherà solo nel momento dell’incasso se tale
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assegno è coperto o meno; nel caso in cui l’assegno non fosse coperto, il venditore
può contattarmi e richiedere il pagamento con moneta legale. Inoltre, il venditore
che ha ricevuto il mio assegno, può girare quell’assegno per effettuare un altro
pagamento prima di aver verificato se tale assegno è coperto o meno, e così via:
l’assegno si trasformerà in moneta legale solo dopo un numero imprecisato di
passaggi.
22 febbraio 2012
Il bisogno di finanziamento/investimento
Il bisogno di finanziamento/investimento, o bisogno di trasferimento di fondi nel tempo, è
anche definito bisogno di mobilizzazione del risparmio: ci troviamo di fronte ad un
soggetto che ha più risorse di quanto sia la sua necessità e ad un soggetto che non ne ha
sufficienza, perciò queste si spostano dal primo al secondo. Per misurare chi domanda e
chi offre risparmio bisogna introdurre alcuni concetti propri dello stato patrimoniale e del
conto economico: la variabile stock e la variabile flusso.
Variabile stock: è la quantità di una certa variabile, di un certo bene, a una certa data.
Variabile flusso: è la variazione nella quantità di una certa variabile in un determinato
arco temporale.
Lo stato patrimoniale di un qualsiasi individuo vede, all’attivo, lo stock di attività reali (AR)
e di attività finanziarie (AF) che quel determinato soggetto ha ad una certa data. Il
passivo di quello stesso soggetto è invece composto dalle sue passività finanziarie (PF), il
cui stock può essere molto variegato a seconda del soggetto. Oltre al passivo, troviamo il
patrimonio netto (PN) o mezzi propri, che ha natura residuale, ossia vale l’uguaglianza:
attività – passività = netto.
SP
Attività
Passività
AR
PF
AF
PN
Partendo dagli stock è possibile identificare soggetti di tipo diverso, che hanno effettuato
determinate scelte fino a quel momento.
Se un soggetto ha attività finanziarie superiori alle passività finanziarie (AF>PF) è definito un
soggetto con una posizione finanziaria creditoria netta, ossia, definendo la sua posizione
a saldo, egli ha più crediti che debiti. Se, viceversa, le attività finanziarie sono inferiori alle
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passività finanziarie (AF<PF), siamo di fronte a un soggetto con una posizione finanziaria
debitoria netta. La posizione finanziaria di un soggetto ci da informazioni circa il suo modo
di porsi, in passato, a livello di mobilizzazione del risparmio, dal momento che gli stock
sono il risultato di azioni precedenti.
Guardando lo stato patrimoniale, le attività finanziarie (AF) vengono definite ricchezza
finanziaria lorda del soggetto in questione; si definisce invece ricchezza finanziaria netta
dello stesso soggetto la differenza tra lo stock di attività finanziarie e lo stock di passività
finanziarie. Quindi, se un soggetto ha una ricchezza finanziaria netta positiva sarà un
soggetto con posizione finanziaria creditoria netta; viceversa, se un soggetto ha una
ricchezza finanziaria netta negativa sarà un soggetto con posizione finanziaria debitoria
netta.
Abbiamo quindi definito la posizione di un determinato soggetto in un determinato
momento. Tuttavia, a partire da questo momento, al soggetto considerato cominceranno
a presentarsi una serie di eventi, ossia una serie di variabili flusso, che andranno a
modificare l’attuale stato patrimoniale. Tali variabili flusso sono:
entrate correnti (Y): le possibili fonti di entrate correnti sono il
reddito/salario/fatturato/tasse e imposte/ecc a seconda del soggetto che mi trovo
di fronte;
- uscite correnti (C): le uscite correnti sono determinate da spese per consumi/costi
di produzione/costi per erogazione di servizi pubblici/ecc, sempre a seconda del
soggetto analizzato.
Si definisce risparmio (S) la differenza tra entrate correnti (Y) e uscite correnti (C).
Ovviamente, se le entrate correnti sono superiori alle uscite correnti (Y>C) avremo
risparmio positivo; se invece le entrate correnti sono inferiori alle uscite correnti (Y<C)
avremo risparmio negativo.
-
A questo punto, è interessante sapere come un soggetto andrà ad utilizzare, ad allocare
il proprio risparmio. Normalmente, l’allocazione del risparmio è un’allocazione in
competizione tra diversi possibili utilizzi. Innanzitutto, bisogna valutare se si ha la necessità
di sostenere investimenti reali; successivamente si deciderà come allocare il risparmio
residuo all’interno del sistema finanziario. Questa impostazione è in realtà una
semplificazione: se all’interno del sistema finanziario si presentano opportunità
particolarmente favorevoli, è possibile che un soggetto decida di rimandare un
investimento reale per cogliere tali opportunità. Tuttavia, si tratta di uno schema valido a
livello generale, che rispecchia la maggior parte delle situazioni che si verificano
realmente.
Seguendo lo schema ipotizzato, il risparmio può essere in primo luogo allocato in
investimenti in attività reali (I), che possono essere considerati anche come una variazione
nello stock di attività reali di un determinato soggetto (Δ +AR).
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Si definisce saldo finanziario (nella parte reale dell’economia) la differenza tra il risparmio
e gli investimenti in attività reali: SF sfera reale = S – I (Δ+AR). Si possono verificare diverse
situazioni:
S>I → SF>0: il soggetto avrà risorse da investire nel sistema finanziario. Un soggetto
con saldo finanziario positivo è definito un soggetto con unità in surplus, o in
avanza (US o UA)) di risorse finanziarie, il che significa che dalla sfera reale
residuano risorse che il soggetto andrà ad allocare nel sistema finanziario
(considerando che anche la moneta cartacea o metallica è uno strumento
finanziario);
- S<I → SF<0: il soggetto dovrà ricercare risorse nel sistema finanziario. Un soggetto
con saldo finanziario negativo è definito un soggetto con unità in deficit, o in
disavanzo, (UD) di risorse finanziarie.
Il primo gruppo offrirà risorse finanziarie al sistema, mentre il secondo gruppo le richiederà
e il mercato degli intermediari finanziari avrà il compito di mettere questi due gruppi in
contatto.
-
Ora vediamo come questi soggetti andranno ad operare sul mercato per bilanciare le
proprie posizioni. Analizziamo innanzitutto i soggetti con risorse in surplus, ossia quei
soggetti che possono decidere come allocare la proprie risorse in esubero all'interno del
sistema finanziario. Tali risorse possono essere usate in molti modi: possono essere investite
in azioni, possono essere semplicemente tenute in un conto corrente bancario, ecc... In
ogni caso, quelle risorse potranno essere utilizzate per incrementare il proprio stock di
attività finanziarie (Δ+AF). Inoltre, i soggetti con risorse in surplus possono utilizzare queste
ultime anche per un altro scopo, ossia per ridurre le proprie passività finanziarie (Δ-PF). Un
soggetto può decidere se compiere una delle due azioni o entrambe, dal momento che
una non esclude l'altra.
Analizziamo adesso i soggetti con risorse in deficit, ossia quei soggetti che hanno bisogno
di trarre risorse dal sistema finanziario. Anche a questi soggetti si presentano due
possibilità: in primo luogo, essi possono decidere di aumentare le proprie passività
finanziarie (Δ+PF); in secondo luogo, se questi soggetti avevano assunto in passato una
posizione che permettesse loro di avere attività finanziarie molto forti, essi potranno
decidere di ridurre le proprie attività finanziarie (Δ-AF).
A questo punto, dopo aver valutato le azioni dei soggetti sul mercato finanziario,
possiamo anche valutare il saldo finanziario dei singoli soggetti nella sfera finanziaria, e
non più solo in quella reale. Si definisce saldo finanziario (nella parte finanziaria
dell'economia) la differenza tra la variazione delle attività finanziarie e la variazione delle
passività finanziarie: SF sfera finanziaria = ΔAF – ΔPF. Anche in questo caso, si possono verificare
due diverse situazioni:
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ΔAF>ΔPF → SF>0;
ΔAF<ΔPF → SF<0.
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È importante osservare che quando si parla di saldo finanziario (sia nella parte reale sia
nella parte finanziaria) si fa sempre riferimento a differenze tra flussi, cioè a differenze tra
variazioni delle attività e/o delle passività.
Ora, l'ultima cosa da fare è eliminare la semplificazione che avevamo adottato in
precedenza, ossia l'ipotesi che si agisca prima nella sfera reale e solo in seguito in quella
finanziaria, sebbene abbiamo spiegato che si tratta di una semplificazione piuttosto
realistica. Eliminando questa semplificazione, possiamo costruire un prospetto di fonti e usi
di risorse:
- Fonti: S + Δ+PF + Δ-AF + Δ-AR;
- Usi: I (Δ+AR) + Δ+AF + Δ-PF
Se tutte queste variazioni sono note, a partire dallo stato patrimoniale iniziale, possiamo
ricostruire lo stato patrimoniale finale (lo stato patrimoniale dopo un determinato periodo
di tempo).
Attività
T0
T1
SP
SP
Passività
Attività
Passività
AR0
PF0
AR1= AR0 + ΔAR
PF1 = PF0 + ΔPF
AF0
PN0
AF1 = AF0 + ΔAF
PN1 = PN0 + S
Come si può vedere dagli stati patrimoniali, la ricchezza netta dipende solo dal risparmio
accumulato (ricchezza netta = patrimonio netto). È importante osservare che una
ricchezza netta positiva non è indicatore di una ricchezza finanziaria positiva.
28 febbraio 2012
Saldi finanziari per macrosettori
Abbiamo introdotto il concetto di saldo finanziario parlando di un indeterminato agente
economico. Tuttavia, nella realtà, non siamo in grado di registrare i dati di ciascun
soggetto (individuo, impresa, ecc…) ma si procede ad alcune aggregazioni inevitabili.
Perciò, quando si parla di saldi finanziari in realtà si fa riferimento a quelli dei cosiddetti
macrosettori dell’economia. Questi macrosettori vengono costituiti sulla base di
semplificazioni volte a definire l’elemento qualificante di un determinato gruppo di
soggetti, e presentano specifiche caratteristiche in termini di saldo finanziario.
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Famiglie – unità di consumo: l’elemento che maggiormente caratterizza questi
soggetti è utilizzare la parte più rilevante del reddito prodotto in consumi. All’interno
di questa categoria rientrano tutti i soggetti individuali, ma anche le piccolissime
imprese che non vengono qualificate come tali. Questo contenitore è
normalmente caratterizzato da saldi finanziari positivi (SF>0), ossia, in generale, è
composto da soggetti che sono fattori netti di risorse per il sistema finanziario. È
però importante precisare che questa caratteristica corrisponde a una media
dell’aggregato: non tutte le famiglie hanno saldi finanziari positivi ogni anno, ma
considerando le famiglie nel complesso, quelle che fanno attività reali significative
sono più che compensate da quelle che non le fanno. Tale precisazione è
abbastanza scontata, dal momento che, se tutte le famiglie fossero in grado di
offrire risorse al sistema finanziario, non esisterebbero forme di passività finanziarie
riferite a questi soggetti, che invece esistono.
Imprese non finanziarie – unità di produzione di beni o servizi destinati alla vendita:
considerando l’elemento che maggiormente caratterizza questo gruppo, è facile
intuire che esso sia costituito da soggetti anche fortemente eterogenei tra loro. Si
tratta di soggetti che, normalmente, fanno ingenti investimenti reali rispetto al
reddito prodotto. Questo contenitore è quindi caratterizzato, generalmente, da
saldi finanziari negativi (SF<0), ossia, è costituito da soggetti che sono prenditori
netti di risorse dal sistema finanziario. Anche in questo caso valgono i discorsi fatti
per il gruppo precedente: non tutte le imprese presentano saldi finanziari negativi
ogni anno, ma, in media, il macrosettore presenta questa caratteristica.
Imprese finanziarie – unità di produzione di servizi finanziari: questo gruppo è
costituito da tutti quei soggetti, come le banche, le società di intermediazione
mobiliare, le società di gestione del risparmio (SGR), ecc, che si specializzano nella
fornitura di servizi finanziari. Questo contenitore è normalmente caratterizzato da
saldi finanziari nulli, prossimi allo 0 (SF≈0): ciò significa che gli investimenti
infrastrutturali sostenuti allo scopo di offrire servizi finanziari vengono grosso modo
pareggiati dai ricavi conseguenti alla vendita di tali servizi.
Pubbliche Amministrazioni (PA) – unità di produzione di beni e servizi non destinati
alla vendita: questi soggetti forniscono beni e servizi pubblici, la maggior parte dei
quali non vengono pagati direttamente, bensì indirettamente, attraverso le tasse.
Per alcuni di essi, tuttavia, viene richiesto anche un contributo diretto: ad esempio,
per usufruire del trasporto pubblico dobbiamo comunque pagare un biglietto.
Questo contenitore è normalmente caratterizzata da saldi finanziari negativi (SF<0),
ossia i soggetti che lo compongono sostengono investimenti infrastrutturali superiori
alle entrate correnti nette.
Estero: comprende tutti i rapporti economici intrattenuti da soggetti non residenti
con i residenti. La logica di attribuzione alla categoria è residuale e i saldi finanziari
sono una diretta conseguenza di quanto accade negli altri gruppi, perciò non
troviamo un segno prevalente.
Panoramica sulla situazione italiana
Negli ultimi anni, le famiglie italiane continuano a presentare saldi finanziari positivi, che
tuttavia hanno un trend ormai trentennale di diminuzione. Ricordando che i saldi finanziari
vengono rappresentati come valore rispetto al PIL, e non come valore assoluto, oggi
siamo nell’ordine del 2,3% del PIL, mentre negli anni Ottanta si arrivava quasi al 20%. In
quegli anni, le famiglie italiane erano, insieme a quelle giapponesi, le famiglie che
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risparmiavano di più; oggi, i saldi finanziari sono ancora positivi, ma sono addirittura al di
sotto della media dei Paesi industrializzati con cui ci confrontiamo. Procedendo
nell’analisi, vedremo da che cosa è stato determinato questo calo.
Sempre in riferimento al primo macrosettore, bisogna ricordare che, a fronte di Paesi in cui
le famiglie presentano saldi finanziari positivi, troveremo Paesi in cui le famiglie presentano
saldi finanziari negativi. Questi Paesi sono, in primis, Stati Uniti e Gran Bretagna, dove le
famiglie sono tendenzialmente molto indebitate: si tratta quindi di Paesi in cui la crescita
economica è finanziata da debito puro, a tutti i livelli.
Per quanto riguarda le imprese italiane possiamo dire che esse non hanno una
caratterizzazione molto forte sui saldi finanziari, a differenza delle famiglie. In generale, il
secondo macrosettore è caratterizzato da saldi finanziari negativi, il cui valore tende a
essere ciclico, e fornisce informazioni sull’andamento dell’economia. Infatti, le imprese
tendono ad aumentare gli investimenti quando prevedono che si verificherà un
incremento della domanda dei beni e servizi da loro offerti. Ciò significa che i saldi
finanziari delle imprese tendono a peggiorare nelle prime fasi di espansione del ciclo
economico, in cui si ha la necessità di sostenere investimenti ma non si ha ancora un
corrispondente ritorno economico. Al contrario, gli investimenti si riducono quando le
imprese prevedono un calo della domanda. Ciò significa che i saldi finanziari delle
imprese restano, in generale, negativi, ma tendono ad esserlo meno nelle fasi di
recessione, o comunque nelle fasi di rallentamento del sistema economico.
Sulle imprese finanziarie non ci sono molte altre osservazioni da fare: anche per istituzioni
come le banche vale quanto detto sopra.
Va invece approfondito il discorso sulle Pubbliche Amministrazioni. In questo momento, sia
in Europa che negli Stati Uniti, non sono le imprese il principale problema: sia le imprese
europee che quelle statunitensi riescono a cavarsela grazie ad una struttura finanziaria
adeguata e ad un costante controllo dell’indebitamento. Le criticità in Europa, e ancora
di più negli Stati Uniti, derivano dai saldi finanziari negativi e dagli stock di debito delle
Pubbliche Amministrazioni. In base al Trattato di Maastricht, il rapporto tra deficit pubblico
e PIL non dovrebbe essere superiore al 3%, mentre in Grecia tale rapporto ha raggiunto la
doppia cifra, cosa che rischia di accadere anche in altri Paesi, come l’Italia. In generale, i
saldi finanziari delle Pubbliche Amministrazioni devono essere negativi perché esse
sostengono investimenti enormi, che hanno un ritorno economico solo nel lunghissimo
termine e che nessun privato sarebbe in grado di sostenere. Inoltre, oltre alle spese per
infrastrutture, le Pubbliche Amministrazioni devono sostenere ingenti spese per
l’erogazione di servizi pubblici.
È all’interno del settore della Pubblica Amministrazione che entra in gioco la differenza
strutturale tra un Paese all’altro, che dipende fortemente da scelte politiche. Per fare un
esempio, negli anni Settanta, il Primo Ministro inglese Margaret Thatcher e il Presidente
degli Stati Uniti Ronald Reagan, promossero un certo astensionismo in economia da parte
dello Stato. Ciò si tradusse in una significativa riduzione delle tasse e in saldi finanziari della
Pubblica Amministrazione positivi, ma comportò anche una notevole riduzione dei servizi
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pubblici offerti. I Paesi scandinavi, invece, mantengono da sempre una linea d’azione
opposta: le tasse sono molto alte, i servizi sono molto efficienti e i saldi finanziari delle
Pubbliche Amministrazioni sono perennemente negativi, ma comunque entro i limiti di
sicurezza.
L’estero
A questo punto, rimane da analizzare il macrosettore dell’estero. Innanzitutto ricordiamo
che, parlando di macrosettori si può condurre un’analisi cross-time, (confronto della
situazione di un Paese in momenti diversi), oppure un’analisi cross-country (confronto tra lo
stesso macrosettore di due Paesi diversi); questi due tipi di analisi possono essere condotte
anche per il settore estero.
In generale, tra i macrosettori individuati, ne troviamo quattro interni e uno esterno,
perciò, il primo passo che si può fare è semplificare, immaginando un’economia chiusa.
In questo caso avremo:
SFf + SFinf + SFif + SFPA = 0
In un’economia chiusa, la somma dei saldi finanziari dei settori interni deve
necessariamente essere uguale a 0, dal momento che le risorse prodotte da un sistema
economico che non scambia devono necessariamente essere reinvestite all’interno di
quello stesso sistema economico. Da questo ragionamento consegue che la sommatoria
dei saldi finanziari interni deve essere uguale all’investimento interno: SFint = Iint. Questo
perché un’economia che non scambia può sostenere solo gli investimenti che sono
supportati dal risparmio interno.
Si tratta tuttavia di un’ipotesi molto semplificata, dal momento che tutti i sistemi
economici scambiano con il resto del mondo. In una situazione di economia aperta, i
saldi finanziari interni potranno assumere valore maggiore, minore o uguale a 0: infatti, le
risorse prodotte da un sistema economico possono non essere sufficienti a sostenere
l’investimento interno e, in tal caso, si dovranno importare altre risorse; viceversa, è
possibile che le risorse prodotte da un sistema economico eccedano le necessità del
sistema stesso e, in tal caso, le risorse in eccesso saranno utilizzate per sostenere gli
investimenti di altri Paesi. In economia aperta avremo SFint + SFestero = 0 e gli investimenti
potranno derivare da risorse prodotte all’interno o all’esterno del sistema, così come le
risorse prodotte potranno andare a finanziare investimenti interni o esterni al sistema
stesso.
Da questo ragionamento consegue che SFint = - SFestero, perciò, come avevamo detto in
precedenza, il saldo finanziario dell’estero dipende da cosa è accaduto all’interno di
un’economia in termini di risorse generate e allocate.
Saldi finanziari e bilancia dei pagamenti
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I saldi finanziari hanno uno stretto collegamento con la bilancia dei pagamenti, il
prospetto che ci da informazioni circa i valori di import/export. Ricordiamo, innanzitutto,
che la bilancia dei pagamenti è composta da due prospetti, dal momento che usa la
logica della partita doppia, in base alla quale ad ogni registrazione sul fronte di merci e
servizi corrisponde una registrazione sul fronte monetario. Ciò significa che il saldo finale
della bilancia dei pagamenti deve essere necessariamente pari a 0. Quando si sente
parlare di bilancia dei pagamenti positiva o negativa, bisogna quindi ricordare che non si
sta parlando di saldo finale.
BP = PC + MC = 0 (bilancia dei pagamenti = partite correnti + movimenti di capitale).
Semplificando al massimo, le partire correnti corrispondono al prospetto reale della
bilancia dei pagamenti, ossia indicano i flussi di merci in entrata e in uscita. Ogni voce
che implica il trasferimento di merci all’estero o dall’estero avrà per contro un importo
monetario di segno opposto. I movimenti di capitale possono essere distinti in due
categorie:
autonomi;
compensativi: sono i movimenti che portano all’equilibrio la bilancia dei
pagamenti finale, ossia le variazioni di riserve ufficiali che la Banca Centrale decide
di apportare per riequilibrare la situazione.
Ovviamente, le partite correnti e i movimenti di capitale avranno pari importo, ma, per il
ragionamento che andremo a fare sarà opportuno considerare le partite correnti, che
hanno un legame diretto con le merci fisiche.
-
Avremo SFint = PC, ossia il saldo finanziario interno sarà uguale al saldo delle partite
correnti. Se il sistema economico produce risorse che non vengono assorbite all’interno
esporterà, ossia avrà partite correnti positive, che corrispondono a un saldo finanziario
interno positivo. Viceversa, se il sistema economico non produce risorse sufficienti a
finanziare i propri investimenti importerà, ossia avrà partite correnti negative, che
corrispondono a un saldo finanziario interno negativo.
Inoltre, considerando che:
- SFint + SFestero = 0 → SFint = - SFestero
- SFint = PC
risulterà:
- PC = - SFestero.
Perciò:
SFestero>0 → PC<0. Se il saldo finanziario estero è positivo significa che abbiamo
assorbito più risorse di quanto siamo stati in grado di generarne.
- SFestero<0 → PC>0. Se il saldo finanziario estero è negativo significa che abbiamo
prodotto più risorse di quanto fosse necessario per gli investimenti interni.
Quindi, cambiando segno al saldo finanziario estero, otteniamo il prospetto della bilancia
reale dei pagamenti di un’economia, e capiamo subito se assorbe più di quanto
produce o viceversa.
-
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Politiche economiche e struttura finanziaria
L’analisi delle politiche economiche consentirà anche di capire perché le famiglie
italiane, che in passato avevano saldi finanziari molto positivi, ora non li hanno più.
Quando si parla di politiche economiche, le più importanti sono sostanzialmente tre:
- politica fiscale;
- politica della spesa pubblica;
- politica dei redditi.
Le prime due politiche vedono in contrapposizione, da una parte, i settori privati, e
dall’altra, il settore della Pubblica Amministrazione. La politica dei redditi, invece, mette in
relazione i saldi finanziari delle famiglie con i saldi finanziari delle imprese (di qualunque
genere, ma in particolare di quelle non finanziarie).
Politica fiscale: questa politica ha a che vedere con la tassazione. Il suo schema generale
è:
Tasse↑ → SF privati↓ → SF Pubblica Amministrazione↑
(C↑)
(Y↑)
Ciò significa che più elevata è la tassazione (a parità di altre variabili), più i saldi finanziari
dei privati diminuiscono, dal momento che, a parità di reddito prodotto, aumentano le
uscite correnti. Viceversa, aumenteranno i saldi finanziari della Pubblica Amministrazione,
che vedrà aumentare le proprie entrate correnti.
Ovviamente, in caso di diminuzione della tassazione, si presenterà lo schema opposto.
Politica della spesa pubblica: questa politica riguarda le decisioni della Pubblica
Amministrazione circa gli investimenti da effettuare per fornire beni e servizi pubblici. Il suo
schema generale è:
Spesa pubblica↑ → SF privati↑ → SF Pubblica Amministrazione↓
(C↓)
(C↑)
Ciò significa che più elevata è la spesa pubblica (a parità di altre variabili), più i saldi
finanziari dei privati aumentano, dal momento che diminuiscono le uscite correnti grazie
ad un minore costo dei servizi pubblici rispetto a quelli privati. Viceversa, diminuiranno i
saldi della Pubblica Amministrazione, che vedrà aumentare le proprie uscite correnti a
causa di un maggior numero di investimenti.
Ovviamente, in caso di diminuzione della spesa pubblica, si presenterà lo schema
opposto.
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L’equilibrio sociale viene mantenuto quando le due politiche risultano opportunamente
mixate, ossia quando a una riduzione delle tasse corrisponde una riduzione della spesa
pubblica e viceversa. Se la Pubblica Amministrazione agisce su entrambi gli aspetti senza
modificare i saldi finanziari riesce a mantenersi sul piano della neutralità dal punto di vista
dell’impatto sociale.
Uno dei motivi per cui i saldi finanziari delle famiglie italiane si sono notevolmente ridotti è
che esse sono reduci da un trentennio di pressione fiscale e della spesa pubblica
crescente, che provoca un costante aumento delle uscite correnti. Ciò significa che si è
manifestato un crescente passaggio di risorse dai settori privati al settore pubblico, e
questo passaggio è dovuto al fatto che, nel momento un cui l’Italia ha preso la decisione
di entrare a far parte dell’Unione Monetaria Europea, la Pubblica Amministrazione è stata
costretta a regolare i propri conti, razionalizzando la spesa e aumentando le entrate.
Politica dei redditi: la questione della politica dei redditi, in pratica, si manifesta ogni volta
che si deve affrontare una contrattazione salariale, dal momento che essa ha a che
vedere con la spartizione del valore aggiunto.
Il valore aggiunto è il valore che le imprese sono in grado di generare, ossia il prezzo che
queste riescono a far pagare per i propri beni e servizi rispetto ai costi base di produzione.
In generale risulta: VA = prezzo di vendita – costi base di produzione.
Il costo base di produzione è dato dalla somma del salario di sussistenza e dei costi minimi
di mantenimento del capitale. Perciò, il costo di base di produzione indica il livello minimo
di costo a cui si può produrre un determinato bene o servizio, e non va confuso con il
generale costo di produzione. Il salario di sussistenza è il salario minimo che deve essere
concesso affinché un operaio riesca a presentarsi a lavoro in forze, mentre i costi minimi di
mantenimento del capitale sono i costi strettamente necessari per mantenere gli impianti,
i macchinari, ecc.
Il prezzo di vendita, generalmente, sarà superiore rispetto al costo base di produzione, e
questo surplus verrà utilizzato o per aumentare i salari o per remunerare maggiormente il
capitale: più aumenta il salario e più il valore aggiunto va alla voce di produzione lavoro;
più si remunera il capitale e più il valore aggiunto viene mantenuto all’interno
dell’azienda. Le contrattazioni sindacali nascono proprio dalla necessità di stabilire il
miglior modo per spartire il valore aggiunto.
In passato, i saldi finanziari delle famiglie erano molto positivi anche in virtù del fatto che
una parte importante del valore aggiunto veniva utilizzato per remunerare il fattore
lavoro. Negli ultimi trent’anni, invece, è accaduto qualcosa che ha portato a far sì che i
salari dei lavoratori italiani siano tra i più bassi d’Europa (circa la metà di quelli dei
lavoratori tedeschi). Infatti, tuttora parte del valore aggiunto viene destinato alle famiglie,
ma negli ultimi trent’anni abbiamo assistito a un progressivo calo del potere contrattuale
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delle famiglie nei confronti delle imprese e, soprattutto, abbiamo visto colare a picco il
valore aggiunto. Finché il valore aggiunto era elevato, c’era la possibilità di accontentare
tutti; nel momento in cui il valore aggiunto si riduce si manifestano tutti i problemi di cui
tanto si sente parlare in questo periodo.
È quindi importante capire da cosa derivi questo crollo del valore aggiunto. Il principale
problema dell’Italia è che la maggior parte del PIL è generata dai settori tradizionali, che
sono soggetti a una concorrenza molto forte, e che impongono quindi un adattamento
ai prezzi dei Paesi che sostengono costi più bassi per produrre gli stessi beni, come ad
esempio la Cina. Se l’Italia continuerà a competere su questi settori, la situazione non
potrà che peggiorare. Altri Paesi non si trovano in questa situazione perché sono stati
capaci di basare la propria crescita economica su settori diversi: per fare un esempio, la
Germania si è specializzata nella produzione di macchinari ad alta tecnologia, un settore
poco esposto alla concorrenza, cosa che si traduce nella possibilità di imporre prezzi
molto elevati e in alti livelli di vendita, dal momento che molti Paesi avranno bisogno di
rifornirsi di tali macchinari.
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La regolamentazione del sistema finanziario
Motivazioni generali
Innanzitutto bisogna chiedersi perché il sistema finanziario debba essere regolato. Ci sono
diverse motivazioni:
1. controllare la stabilità del sistema: è importante che il sistema finanziario sia stabile,
perché ha il compito di trasmettere gli impulsi di politica monetaria. Questo è il
motivo per cui il sistema finanziario ha una rilevanza fondamentale: all’interno
dell’economia vi sono vari sistemi cruciali, ma il sistema finanziario è il più
importante, perché, se non funziona, l’economia non gira e non può crescere;
2. tutelare il risparmio e l’investimento, per precisa normativa costituzionale.
Queste sono le prime due motivazioni generali, ma ce ne sono poi di più tecniche:
3. il sistema finanziario (in particolare gli intermediari finanziari) va controllato perché
sia efficiente dal punto di vista operativo e allocativo.
Efficienza operativa: si raggiunge quando il sistema finanziario opera al minimo della
curva dei costi; più il sistema finanziario è efficiente dal punto di vista operativo, meno
costosi saranno i servizi e più pagamenti si potranno fare.
Efficienza allocativa: si raggiunge quando le risorse finanziarie sono allocate al margine.
Ciò significa che l’intermediario finanziario deve essere in grado di verificare quale sia la
produttività potenziale dei vari investimenti per i quali viene richiesto un finanziamento e
destinare più risorse agli investimenti maggiormente produttivi e meno risorse agli
investimenti via via meno produttivi. In generale, gli intermediari finanziari devono agire in
modo tale che la produttività marginale sia pareggiata.
Apparentemente, l’efficienza allocativa del sistema finanziario dovrebbe essere raggiunta
automaticamente, perché le forze di mercato dovrebbero fare in modo che si raggiunga
l’equilibrio semplicemente attraverso la determinazione del prezzo. In realtà così non
accade, perché i mercati finanziari sono esposti a una severa asimmetria informativa. Per
capire di quale grado di asimmetria informativa si sta parlando, occorre aprire una
parentesi: ogni scambio di bene o servizio può essere riclassificato in base alla capacità di
apprezzare la qualità del bene o servizio prima dell’acquisto. Da questo punto di vista, si
distinguono tre categorie:
-
-
beni normali: la qualità è nota ex ante. Il cliente ha tutte le informazioni per
valutare la qualità di un bene o servizio prima del suo consumo;
beni di esperienza: la qualità è nota ex post. Il cliente è in grado di valutare la
qualità di un determinato bene o servizio solo dopo il consumo. Un esempio in
questo ambito è dato dal mercato delle auto usate: solo dopo aver acquistato e
utilizzato un’auto usata il compratore potrà giudicare se il suo prezzo era
proporzionato o meno al suo valore. Dal punto di vista dell’asimmetria informativa,
gli scambi finanziari sono assimilabili agli scambi che avvengono sul mercato delle
auto usate: se decido di finanziare un investimento saprò solo in seguito se è stato
vantaggioso o meno;
beni di “fede”: la qualità non è mai nota. Il cliente non potrà mai rendersi conto
della qualità del bene o servizio offerto. Un esempio di questa situazione è dato dai
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consulti medici: se un paziente si reca da un medico e dopo la sua diagnosi muore,
non potrà mai sapere se la morte sarebbe avvenuta comunque o se si è verificata
per l’errata diagnosi del medico. Questa situazione può essere paragonata a
quella della consulenza finanziaria, ed è il caso in cui l’asimmetria informativa è
massima.
Lo scambio finanziario, quindi, è uno scambio di beni di esperienza, cosa di cui entrambe
le parti sono a conoscenza. Per quante informazioni possa raccogliere un potenziale
finanziatore, ci sarà sempre una parte di cui non è a conoscenza, e questa situazione,
portata all’estremo, può determinare un fallimento del mercato, ossia può far sì che non
avvengano più scambi. Vediamo quindi da cosa derivano i fallimenti del mercato.
Per fare riferimento ad un caso concreto, supponiamo che un potenziale finanziatore
voglia valutare quanto è rischiosa la Fiat, e supponiamo che, per la Fiat, si ritenga
adeguato un tasso di interesse R: questo tasso di interesse esprime la rischiosità della Fiat
sulla base delle informazioni che la Fiat stessa ha fornito agli investitori. Tuttavia, gli
investitori sanno che ci sarà sempre qualcosa che non possono conoscere, perciò, a
questo R verrà aggiunto un certo premio p. Sommando questi due valori avremo: R + p =
iDD richiesto.
Arrivati a questo punto la Fiat dovrà valutare se quel premio p è una richiesta esagerata o
generosa per compensare le informazioni che non riesce a trasmettere agli investitori. La
Fiat avrà quindi due possibilità:
se rischio nascosto ≥ p → Fiat scambia a iDD. In questo caso la Fiat ritiene iDD un
tasso di finanziamento equo, se non più che equo;
- se rischio nascosto < p → Fiat non scambia. In questo caso la Fiat ritiene iDD un tasso
di finanziamento esagerato e perciò deciderà di aspettare, o quantomeno di
fornire più informazioni che spingano i finanziatori ad abbassare il prezzo.
Tutto questo va considerato in ottica dinamica. Il rischio che a i DD scambino solo i soggetti
molto rischiosi diventa alto: infatti, accetteranno questo tasso di interesse solo le imprese
che sanno di avere un rischio nascosto maggiore o uguale rispetto a p, ossia i cattivi
imprenditori. Gli investitori sono coscienti di questa situazione, perciò per scambiare il
proprio denaro, chiederanno premi via via maggiori, cosa che determina una progressiva
riduzione della percentuale di buoni imprenditori: sul mercato resteranno sempre più i
cattivi imprenditori. Se questa situazione andasse avanti, si arriverebbe a fissare un premio
tendente a infinito e, a tale condizione, nessuno sarebbe più disposto a scambiare: così si
può verificare un fallimento del mercato.
-
Una situazione di questo genere si è verificata nel 2008. Le banche hanno sempre
scambiato denaro tra loro a brevissima scadenza, su quello che viene definito mercato
interbancario. Tuttavia, dopo il fallimento di Lehman Brothers, nessuna banca si fidava più
delle altre, non sapendo quanti titoli tossici fossero presenti anche all’interno degli altri
istituti. Questa diffidenza ha fatto sì che i tassi di interesse all’interno del mercato
interbancario schizzassero oltre il 500%, cosa che determinava costi esorbitanti anche per
gli scambi a 12 ore. A questo prezzo, nessuna banca era disposta ad accettare denaro
dalle altre banche: il mercato interbancario post Lehman ha mostrato una situazione di
fallimento del mercato, che si è risolta solo grazie all’intervento delle Banche Centrali.
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Fino a questo momento abbiamo quindi parlato di rischi di selezione avversa ex ante, che
si manifestano prima che lo scambio abbia inizio: ogni investitore sa che rischia di
concedere il proprio denaro al soggetto sbagliato.
Tuttavia, il problema dell’asimmetria informativa può incidere anche successivamente:
dal momento che i finanziamenti sono trasferimenti di fondi nel tempo, è possibile che si
verifichino condizioni che non erano presenti al momento di decidere se concedere o
meno un finanziamento. È infatti possibile che un finanziatore conceda denaro che poi
verrà utilizzato per investimenti più rischiosi di quelli previsti al momento della concessione:
ad esempio, se un finanziatore concede il proprio denaro alla Fiat e, in seguito, la Fiat
decide di diversificare in settori più rischiosi, aumenterà anche il rischio per il finanziatore.
In questo caso si parla di un rischio ex post, che prende il nome di azzardo morale e che è
un altro problema informativo.
Appurato che l’asimmetria informativa è presente in qualsiasi tipo di scambio finanziario,
nel caso di scambi intermediati, ossia di scambi attraverso banche, tale asimmetria può
essere minimizzata. Tali scambi limitano l’esposizione all’asimmetria perché le banche
dispongono di quella che viene definita informazione privata. Per riprendere l’esempio
precedente, se la Fiat deve convincere il mercato degli investitori a comprare il suo titolo,
dovrà rivolgersi all’intero mercato. Al contrario, se il finanziamento viene richiesto solo alla
banca, tra impresa e istituto bancario si viene a creare un rapporto bilaterale: l’impresa
dovrà fornire informazioni solo alla banca, e si sentirà quindi più tranquilla nel riferire dati
sensibili a un unico soggetto anziché a un intero mercato. Inoltre, le banche hanno
sviluppato un sistema, che nel nostro Paese prende il nome di centrale dei rischi, dove
vengono raccolti tutti i dati circa i finanziamenti che la Fiat ha in corso in un determinato
momento e circa i comportamenti che la Fiat ha nei confronti dei vari finanziatori. Grazie
a questi elementi, le banche hanno la possibilità di raccogliere più informazioni rispetto ai
singoli finanziatori, e avranno quindi la possibilità di fissare un prezzo più equo per la
concessione del proprio finanziamento.
Anche sul piano dell’azzardo morale, le banche hanno la possibilità di gestire meglio la
situazione, principalmente per due motivi. In primo luogo, la banca ha un potere
contrattuale superiore rispetto a quello dei singoli investitori o di una collettività di
investitori: esiste una specifica clausola contrattuale che consente alle banche di ritirare i
finanziamenti nel caso emergano comportamenti scorretti da parte dei soggetti finanziati;
le banche possono stabilire che il denaro prestato venga utilizzato per scopi precisi e, se
questi scopi non vengono rispettati, si può procedere al ritiro dei fondi; ancora, le banche
hanno una sorta di potere “ricattatorio”, ossia i soggetti finanziati sanno che, in caso di
mancato rispetto dei patti, la banca sarà in grado di diffondere informazioni che
ridurranno la loro possibilità di ricevere finanziamenti in futuro, anche da parte di altri
soggetti. In seconda battuta, le banche sono favorite dalla creazione di una relazione
con i soggetti finanziati: il rapporto che si viene a creare tra la banca e il soggetto
finanziato non è una tantum, ma è un rapporto di medio-lungo termine, cosa che
scoraggerà i soggetti finanziati dal tenere comportamenti scorretti.
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Posto quindi che le banche hanno la possibilità di fare tutto questo, la regolamentazione
ha il compito di controllare che lo facciano davvero, ossia di assicurarsi che le banche
valutino correttamente chi ha più meriti e attribuiscano i finanziamenti sulla base di questo
criterio. In generale, la regolamentazione deve vigilare affinché le banche svolgano
correttamente quel lavoro che sanno fare meglio di chiunque altro, al fine di garantire
l’efficienza allocativa.
C’è infine una quarta motivazione che rende necessaria la regolamentazione del sistema
finanziario:
4. controllare la correttezza del comportamento degli intermediari. In questo caso si
controllano gli intermediari, non il sistema in generale.
Il motivo per cui è necessario vigilare sulla correttezza dei comportamenti degli
intermediari finanziari è che i risparmiatori si fidano di queste istituzioni: un risparmiatore
che decide di depositare una somma di denaro in banca, non agisce come quando
deve decidere se accordare o meno un finanziamento alla Fiat. Il deposito di denaro
presso gli istituti bancari avviene sulla base di un rapporto fiduciario, e tale fiducia deriva
dal fatto che i risparmiatori sanno che la banche sono soggetti sottoposti a una rigida
regolamentazione. Tuttavia, nel momento in cui la banca si trova in difficoltà, è possibile
che gli individui che le hanno concesso fiducia senza valutazioni vadano in panico,
dando origine a quelle che vengono definite esternalità negative: nel caso specifico
della perdita di fiducia a fronte di comportamenti potenzialmente non corretti da parte
delle banche, l’esternalità negativa che si verifica è la cosiddetta “corsa agli sportelli”.
Tale situazione può ripercuotersi su banche in effettiva difficoltà, ma può arrivare a
coinvolgere anche istituti privi di alcun problema: infatti, quando una particolare banca
comincia ad avere difficoltà, anche i clienti di altre banche possono cominciare a
dubitare dell’affidabilità del proprio istituto. Si viene così a creare un rischio sistemico, dal
momento che qualunque banca non sarebbe in grado di reggere se tutti i suoi clienti si
presentassero a chiedere il ritiro dei propri depositi. Questa incapacità è dovuta al fatto
che le banche utilizzano il denaro depositato dai clienti per investirlo in varie attività;
questa operazione, apparentemente rischiosissima, è consentita alle banche sulla base
della “legge dei grandi numeri”: il numero di clienti di una banca è tale che, a fronte di
qualcuno che ritira denaro, ci sarà sempre qualcuno che deposita denaro in modo da
permettere alla banca di continuare a finanziare altre attività. Ovviamente, questa
situazione comporta ciò che abbiamo detto in precedenza: se tutti i clienti si presentano
contemporaneamente a chiedere il ritiro dei propri depositi, anche una banca senza
alcun precedente problema fallisce.
L’articolazione dei controlli
La regolamentazione del sistema finanziario presenta vari livelli di controllo:
-
livello legislativo → leggi → Parlamento: esistono molte leggi in materia finanziaria
e, dal momento che delle leggi si occupa il Parlamento, sarà proprio questo il
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primo soggetto incaricato del controllo (il Testo Unico della Finanza e il Testo Unico
in Materia Bancaria contengono quasi tutte le leggi relative alla finanza e alle
banche);
- livello esecutivo → politiche/indirizzi → Governo (o singoli ministeri);
- livello amministrativo → regolamenti: ogni legge, affinché sia attuabile, necessita di
un regolamento che espliciti la procedura da seguire per la sua applicazione. In
economia, così come in altri settori, esistono gruppi di esperti incaricati di emanare
i regolamenti che stabiliscano come applicare le leggi e di controllare che tali
regolamenti vengano rispettati. All’interno del sistema finanziario vi sono vari
soggetti che svolgono queste funzioni.
Il livello legislativo è un livello che, almeno in linea teorica, precede gli altri momenti.
Tuttavia, il livello esecutivo ed amministrativo sono subordinati temporalmente ma non dal
punto di vista dell’importanza: senza regolamenti, le leggi non potrebbero essere
applicate, e senza il Governo che si impegni a far applicare le leggi si manifesterebbero
molti problemi.
I soggetti del livello amministrativo
Banca d’Italia. Fino all’entrata in vigore dell’euro, la Banca d’Italia aveva essenzialmente
due ruoli: quello di istituto di emissione e quello di istituto di vigilanza sul sistema creditizio.
Dopo l’introduzione dell’euro, il primo compito le è stato revocato, ma ha mantenuto il
secondo: la Banca d’Italia è, in primis, quel soggetto che verifica la gestione di tre delle
quattro motivazioni viste in precedenza (stabilità, efficienza, correttezza nei rapporti).
Questo compito viene svolto in relazione sia all’attività creditizia sia all’attività in titoli.
Consob (Commissione Nazionale per le Società e la Borsa). La Consob si occupa e vigila
sui mercati finanziari, ovvero vigila sugli emittenti di titoli e sul funzionamento dei mercati.
In generale, la Consob controlla che gli emittenti di titoli diano le opportune informazioni
al mercato e che i mercati in cui si scambia funzionino bene.
Isvap (Istituto per la Vigilanza sulle Assicurazioni Private e di Interesse Collettivo). L’Isvap è il
soggetto che vigila sul settore assicurativo.
Covip (Commissione di Vigilanza sui Fondi Pensione). La Covip si occupa della previdenza
complementare, dei fondi pensione.
A questi quattro soggetti si aggiunge una quinta figura che si può rintracciare anche in
settori diversi da quello finanziario.
Antitrust. L’Antitrust si occupa del controllo della concorrenza. A differenza di quanto
accade in altri settori, in cui l’Antitrust ha l’ultima parola, nel nostro Paese, l’Antitrust del
settore finanziario lavora insieme alla Banca d’Italia, ossia le decisioni che vengono prese
sono di tipo collegiale.
I controlli: come avvengono e i loro obiettivi
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Quando si parla di politiche di controllo del sistema finanziario, possiamo distinguere tra:
politica monetaria: i controlli sono svolti da quei soggetti che si occupano
direttamente dell’attuazione di questa politica, e il modo in cui i controlli vengono
effettuati è finalizzato ad assicurare il raggiungimento del principale obiettivo della
politica monetaria, ossia la stabilità dei prezzi (controllo dell’inflazione);
- politiche di vigilanza: le politiche di vigilanza, a differenza della politica monetaria,
hanno più obiettivi. In primo luogo, sono volte a garantire la stabilità del sistema nel
suo complesso (controllare che le banche non falliscano, che siano presenti dove
c’è necessità, ecc…); in secondo luogo hanno lo scopo di verificare e incentivare
l’efficienza del sistema (controllare che le banche si dotino di tutti quei sistemi
necessari per operare al minimo della curva dei costi, che gli istituti bancari siano
aggressivi e tentino di conquistare le quote di mercato degli istituti meno efficienti,
ecc); infine, hanno l’obiettivo di garantire la correttezza e la trasparenza degli
intermediari e del mercato.
È opportuno effettuare alcune considerazioni sui temi della stabilità e dell’efficienza, che
possono apparire in contrasto l’uno con l’altro. Infatti, le regole finalizzate ad assicurare la
stabilità agiscono, ad esempio, limitando la concorrenza, cosa che può impattare
sull’efficienza; viceversa, le regole finalizzate al raggiungimento dell’efficienza possono
spingere gli istituti ad assumersi troppi rischi, a scapito della stabilità. Tuttavia, si tratta di un
trade-off di breve termine, perché nel lungo termine i sistemi efficienti sono anche sistemi
stabili: infatti, la concorrenza fa sì che via via escano dal mercato i soggetti meno
competitivi, mentre restano in attività i migliori, che dovrebbero essere anche i più stabili.
-
Banca Centrale Europea e politica monetaria
BCE ed Eurosistema
La Banca Centrale Europea, con sede a Francoforte, nasce nel 1998 per accompagnare
i Paesi membri dell’UE verso l’adozione dell’euro. I suoi compiti principali sono
rappresentati dalla gestione della politica monetaria e dal garantire la stabilità dei
prezzi,.
Per svolgere i suoi compiti istituzionali, la BCE opera all’interno del cosiddetto SEBC
(Sistema Europeo delle Banche Centrali). Tale sistema è composto da tutte le BCN
(Banche Centrali Nazionali) dei Paesi che hanno aderito all’UE. Poiché non tutti i Paesi UE
hanno aderito all’euro, all’interno del SEBC esiste l’Eurosistema, al quale hanno accesso la
BCE e le BCN dei Paesi che hanno adottato l’euro.
La distinzione tra Eurosistema e SEBC rimarrà in vigore fino a quando alcuni dei paesi
membri dell’Unione Europea (quali ad esempio il Regno Unito) manterranno la propria
valuta nazionale. Il termine area euro identifica lo spazio economico costituito dai Paesi
che hanno adottato l’euro.
All’interno dell’Eurosistema, gli organi decisionali responsabili della preparazione,
condotta e implementazione della politica monetaria sono:
-
il Consiglio Direttivo, che rappresenta l’organo decisionale più importante
all’interno della BCE. Tale organo si compone dei sei membri del Comitato
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-
-
Esecutivo e di tutti i governatori dell’area euro. La principale responsabilità del
Consiglio Direttivo consiste nella formulazione della politica monetaria dell’area
euro;
il Comitato Esecutivo, che svolge alcuni importanti compiti, tra i quali attuare la
politica monetaria nell’area euro, impartendo le istruzioni necessarie alle BCN dei
Paesi appartenenti all’area euro. Tale comitato è composto da sei persone, cioè
dal presidente della BCE, dal vicepresidente e da quattro membri nominati di
comune accordo dai Governi dei Paesi aderenti all’euro;
il Consiglio Generale della BCE, che si compone del presidente e del
vicepresidente della BCE e dei governatori delle BCN di tutti i Paesi membri
dell’Unione Europea. Pur assolvendo importanti compiti, tale consiglio non ha
alcuna responsabilità in materia di politica monetaria per l’area euro, perciò non lo
tratteremo.
Obiettivi e compiti dell’Eurosistema.
Il Trattato costitutivo dell’Unione Europea assegna all’Eurosistema l’obiettivo
fondamentale di tutelare la stabilità dei prezzi su un orizzonte di medio termine.
In questa ottica, i compiti fondamentali della BCE sono:
- definizione e implementazione della politica monetaria unica per l’area euro;
- condotta delle operazioni in cambi;
- custodia e gestione delle riserve ufficiali di valuta estera degli Stati membri;
- promozione e gestione del sistema dei pagamenti;
- raccolta delle informazioni statistiche necessarie.
I compiti principali delle BCN sono invece:
-
trasmissione degli impulsi di politica monetaria stabiliti dalla BCE;
svolgimento della funzione di vigilanza sui sistemi bancari nazionali.
La stabilità dei prezzi
Definizione quantitativa di stabilità dei prezzi. Il primo elemento della strategia di politica
monetaria della BCE è rappresentato da una definizione quantitativa di stabilità dei
prezzi. Nel 1998, il Consiglio Direttivo della BCE annunciò la seguente definizione: “Si
definirà stabilità dei prezzi un incremento su base annua dell’Indice Armonizzato dei Prezzi
al Consumo all’interno dell’area euro inferiore al 2%. La stabilità dei prezzi così definita è
da mantenersi nel medio termine”.
Quasi ogni termine di tale definizione merita di essere analizzato:
-
la clausola “all’interno dell’area euro” sottolinea la portata generale del mandato
della BCE;
la definizione identifica un indice dei prezzi specifico come base per valutare la
stabilità dei prezzi;
la clausola “un incremento su base annua” sottolinea come la BCE, accanto ai
rischi di inflazione, tenga conto anche della possibilità di deflazione, una
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-
-
condizione in cui i prezzi assoluti diminuiscono con effetti dannosi per il sistema
economico;
la definizione di stabilità dei prezzi fornita dalla BCE non prevede un tasso di
inflazione nullo, bensì positivo. Il valore del 2% serve a tener conto della possibilità
che l’inflazione misurata sulla base dell’Indice Armonizzato dei Prezzi al Consumo
sovrastimi leggermente il tasso di inflazione effettivo all’interno dell’area euro;
il riferimento al “medio termine” libera la BCE dall’obbligo di reagire a scostamenti
temporanei dell’inflazione dal valore obiettivo, qualora si ritenga che tali
scostamenti siano il prodotto di fattori transitori destinati a scomparire in breve
tempo.
I due pilastri. Il secondo elemento della strategia di politica monetaria dell’Eurosistema
riguarda l’approccio seguito dalla BCE nella raccolta, valutazione e confronto delle
informazioni inerenti al rischio di inflazione all’interno dell’area euro. Tale approccio si
basa su due prospettive analitiche definite, in gergo, i “due pilastri”.
Nell’ambito del “primo pilastro”, che prende il nome di pilastro dell’analisi economica, si
valutano i fattori che determinano o influenzano la dinamica dei prezzi nel breve e medio
periodo, rivolgendo particolare attenzione all’economia reale e alle condizioni finanziarie.
Nell’ambito del “secondo pilastro”, che prende il nome di pilastro dell’analisi monetaria si
valutano i fattori che determinano o influenzano la dinamica dei prezzi nel lungo periodo,
rivolgendo particolare attenzione alla dinamica degli aggregati monetari e creditizi.
Canali di trasmissione della politica monetaria
La politica monetaria non è in grado di operare secondo una relazione di causa-effetto
immediata, ossia la BCE non dispone di strumenti in grado di influenzare direttamente
l’andamento dei prezzi. Tuttavia, dispone di strumenti in grado di influenzare obiettivi
intermedi che, a loro volta, andranno ad influenzare i prezzi. Il canale principale di politica
monetaria è rappresentato dalla definizione da parte della BCE del livello dei tassi ufficiali.
Questa manovra andrà ad influenzare gli aggregati del mercato monetario e creditizio,
dal momento che il livello dei tassi ufficiali influenzerà i prezzi dei finanziamenti, la quantità
di denaro che sarà possibile prestare, ecc… Di conseguenza, si modificheranno anche gli
aggregati del mercato finanziario. Ciò provoca modifiche alla domanda di beni e servizi,
ossia alla capacità di spesa da parte dei soggetti economici. La variazione congiunta di
questi fattori genera modifiche nel livello di inflazione
Gli strumenti di politica monetaria
Possiamo distinguere tra i seguenti strumenti di politica monetaria:
-
operazioni di mercato aperto;
operazioni attivabili su iniziativa delle controparti;
riserva obbligatoria.
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Operazioni di mercato aperto
L’insieme principale delle operazioni condotte dalla BCE è costituito dalle operazioni di
mercato aperto. Questo termine identifica le operazioni che sono eseguite per iniziativa
della BCE nell’ambito del mercato monetario, caratterizzato da operazioni con scadenza
inferiore a un anno.
Lo scopo che la BCE realizza attraverso le operazioni di mercato aperto è quello di fornire
fondi liquidi alle controparti di tali operazioni, generalmente banche attive all’interno
dell’area euro. Il prestito avviene sempre contro l’offerta di una garanzia collaterale, al
fine di proteggere l’Eurosistema dai rischi finanziari insiti in ogni operazione di prestito.
Le operazioni di mercato aperto condotte nell’ambito dell’Eurosistema possono essere
suddivise nelle seguenti quattro categorie:
1. operazioni di rifinanziamento principale;
2. operazioni di finanziamento a lungo termine;
3. operazioni di fine tuning;
4. operazioni strutturali.
Le operazioni di rifinanziamento principale costituiscono le operazioni di mercato aperto
più importanti condotte nell’abito dell’Eurosistema. Esse svolgono un ruolo fondamentale
nell’orientare i tassi di interesse, nella gestione della liquidità da parte delle banche e nel
segnalare la posizione di politica monetaria della BCE. Forniscono, inoltre, l’ammontare
principale della liquidità che affluisce dalla Banca Centrale al sistema bancario. Le
operazione di rifinanziamento principale sono condotte dalle singole BCN su base
settimanale e hanno una durata pari a una settimana. A fronte della liquidità ottenuta
dalla BCE le banche devono corrispondere un tasso di interesse e fornire adeguate
attività finanziarie come garanzia. Alla scadenza del prestito, le banche restituiscono i
fondi e la BCE restituisce loro le garanzie prestate.
In aggiunta alle operazioni di rifinanziamento principale che hanno luogo ogni settimana,
l’Eurosistema esegue operazioni di rifinanziamento a lungo termine con cadenza mensile
e scadenza trimestrale. L’obiettivo di queste operazioni è quello di fornire liquidità al
sistema bancario per un periodo di tempo più lungo rispetto alle operazioni di
rifinanziamento principale.
L’Eurosistema è inoltre in grado di condurre operazioni di mercato aperto non
standardizzate nella durata, nella scadenza e nella forma. Operazioni di questo tipo,
denominate operazioni di fine tuning, possono servire tanto a immettere liquidità nel
sistema quanto ad assorbirla, al contrario delle operazioni di rifinanziamento principale e
a lungo termine che servono unicamente a immettere liquidità. Le operazioni di fine
tuning sono utilizzate al fine di attenuare fluttuazioni dei tassi di interesse a breve termine
determinate da variazioni inattese nella domanda o nell’offerta di liquidità all’interno del
mercato interbancario.
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Il quadro operativo della BCE prevede anche la possibilità di porre in essere operazioni di
mercato aperto di carattere strutturale, finalizzate a modificare la posizione di lungo
periodo dell’Eurosistema nei confronti del sistema bancario europeo, rispetto
all’ammontare di liquidità in circolazione.
Operazioni attuabili su iniziativa delle controparti
Oltre alle operazioni di mercato aperto, l’Eurosistema mette a disposizione delle istituzioni
monetarie due opportunità ulteriori (in gergo, standing facilities): il rifinanziamento
marginale e il deposito di riserve. Entrambi questi strumenti, al contrario delle operazioni di
mercato aperto, sono attivati per volontà delle controparti.
Nell’ambito del rifinanziamento marginale, le istituzioni monetarie possono prendere a
prestito in ogni momento riserve liquide dalla BCE, dietro la presentazione di garanzie
collaterali adeguate. Il tasso d’interesse applicato su queste operazioni è più elevato dei
tassi relativi alle operazioni ordinarie, a sottolinearne la natura marginale o straordinaria.
Nell’ambito del deposito di riserve, le banche possono decidere di depositare una parte
delle proprie riserve liquide presso la BCE. Ne ricavano un tasso di interesse inferiore a
quello sulle operazioni di rifinanziamento principale a fronte della certezza di rientrare in
possesso di tali riserve immediatamente e senza costi.
Fissando i tassi di interesse sul rifinanziamento marginale e sul deposito di riserve, la BCE
fissa, di fatto, un limite superiore e un limite inferiore ai tassi di interesse del mercato
interbancario. Giorno dopo giorno, vi sono banche che registrano un’eccedenza
temporanea di riserve liquide rispetto alle proprie esigenze correnti e banche che, al
contrario, registrano un deficit. Invece di tenere tali riserve inattive, le banche in surplus
possono decidere di prestare una parte di tale surplus alle banche in deficit.
Generalmente, questo tipo di prestiti ha durata molto breve, al limite due giorni lavorativi,
come nel caso delle operazioni overnight. Il tasso di interesse applicato a questo tipo di
operazioni prende il nome di tasso overnight.
Il tasso overnight non può superare il tasso sul rifinanziamento marginale, né cadere al di
sotto di quello sul deposito di riserve presso la BCE. Se il tasso overnight superasse quello
sulle operazioni di rifinanziamento marginale, nessuna banca in deficit di riserve si
rivolgerebbe al mercato interbancario: preferirebbe indebitarsi presso la BCE.
Analogamente, se il tasso overnight cadesse al di sotto di quello sul deposito di riserve
presso la BCE, nessuna banca in surplus di riserve si rivolgerebbe al mercato interbancario:
preferirebbe depositare tali eccedenze presso la BCE.
Regime della riserva obbligatoria
La BCE richiede che le istituzioni di credito che operano all’interno dell’area euro
mantengano una quota obbligatoria di riserve liquide, chiamate riserve obbligatorie.
L’ammontare di riserve obbligatorie che ciascuna banca deve mantenere è determinato
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in relazione alla composizione delle sue passività. Tali passività si dividono in due
categorie: alla prima categoria appartengono le passività alle quali si applica un
coefficiente di riserva positivo; alla seconda categoria appartengono, invece, le passività
alle quali non si applica alcun coefficiente di riserva.
Attualmente, il coefficiente di riserva obbligatoria, uguale per tutte le tipologie di passività
appartenenti alla prima categoria, risulta pari al 2%.
Le banche non sono tenute a rispettare giornalmente i vincoli di riserva obbligatoria ma
devono farlo, in media, nel corso del cosiddetto “periodo di mantenimento”, che ha inizio
nel giorno in cui è effettuata un’operazione di rifinanziamento principale e termina un
mese dopo, il giorno precedente a quello in cui è effettuata una nuova operazione di
rifinanziamento principale.
Un aumento (diminuzione) del coefficiente di riserva obbligatoria comporta, a parità di
altre condizioni, una diminuzione (aumento) dell’offerta di moneta (depositi bancari).
Sotto ipotesi opportune, tale variazione è pari al reciproco del nuovo coefficiente di
riserva obbligatoria moltiplicato per la variazione delle riserve messe in circolazione a
seguito del provvedimento.
Politica monetaria
Effetti di una manovra monetaria espansiva
Supponiamo che, in una certa data, la BCE stabilisca di ridurre il tasso di interesse sulle
operazioni di rifinanziamento principale e di ridurre i tassi sulle operazioni di rifinanziamento
e deposito marginale d’un pari ammontare, così da mantenere inalterata l’ampiezza del
corridoio. Una decisione del genere è un esempio di manovra monetaria espansiva, che
avrà determinate conseguenze.
I tassi di interesse sul mercato monetario, che normalmente oscillano intorno al tasso sulle
operazioni di rifinanziamento principale all’interno del corridoio, diminuiscono. Ciò
favorisce un aumento dei prezzi delle attività finanziarie. La diminuzione dei tassi di
interesse a breve favorisce inoltre la diminuzione dei tassi nominali a medio e lungo
termine, stimolando la richiesta di prestiti. Le banche saranno ben disposte a soddisfare la
maggiore domanda di prestiti, essendo diminuito il costo del proprio rifinanziamento
presso la BCE ed essendo aumentato il valore delle attività finanziarie di cui dispongono e
che possono offrire in garanzia. Aumentando i prestiti, le famiglie e le imprese tenderanno
a consumare e a investire più di prima. La domanda aggregata aumenterà, favorendo
l’incremento transitorio della produzione e dell’occupazione e un aumento permanente
del tasso d’inflazione.
Sul fronte internazionale, una diminuzione dei tassi di interesse dell’area euro rispetto a
quelli del resto del mondo favorisce il deprezzamento dell’euro. Se tale deprezzamento è
prolungato nel tempo, le merci prodotte all’interno dell’area euro tenderanno a
diventare relativamente meno costose di quelle prodotte all’estero. Ciò favorirà un
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aumento delle esportazioni e una diminuzione delle importazioni a livello di area euro. Un
aumento delle esportazioni nette equivale a un aumento della domanda aggregata che,
come nel caso precedente, tenderà a far aumentare la produzione, l’occupazione e i
prezzi.
Effetti di una manovra monetaria restrittiva
Se i tassi d’interesse ufficiali aumentano, ci troviamo in presenza di una manovra
monetaria restrittiva i cui effetti saranno sostanzialmente di segno opposto rispetto a quelli
descritti in precedenza.
Il primo effetto della restrizione monetaria è quello di far aumentare i tassi di interesse sul
mercato monetario. Ciò causa una diminuzione dei prezzi delle attività finanziarie.
L’aumento dei tassi di interesse a breve favorisce l’aumento di quelli a medio e lungo
termine, scoraggiando la richiesta di prestiti. Dal canto loro, le banche saranno meno
disposte a soddisfare la domanda di prestiti, essendo aumentato il costo del proprio
rifinanziamento presso la BCE ed essendo diminuito il valore di molte delle attività
finanziarie che generalmente sono offerte a garanzia dei prestiti. Diminuendo i prestiti, le
famiglie e le imprese tenderanno a consumare e a investire meno di prima. La domanda
aggregata diminuirà, favorendo la caduta transitoria della produzione e
dell’occupazione e la diminuzione permanente del tasso di inflazione.
Sul fronte internazionale, un aumento dei tassi di interesse dell’area euro rispetto a quelli
del resto del mondo favorisce l’apprezzamento dell’euro. Se tale apprezzamento è
prolungato nel tempo, le merci prodotte all’interno dell’area euro tenderanno a
diventare relativamente più costose di quelle prodotte all’estero. Ciò favorirà una
diminuzione delle esportazioni e un aumento delle importazioni a livello di area euro. Una
diminuzione delle esportazioni nette equivale a una diminuzione della domanda
aggregata, che tenderà a far diminuire la produzione, l’occupazione e i prezzi.
Obiettivi intermedi
Ogni Banca Centrale dispone di una serie di strumenti e agisce mossa da una serie di
obiettivi. Abbiamo analizzato gli strumenti in funzione dell’obiettivo principale di garantire
la stabilità dei prezzi all’interno dell’area euro. Tuttavia, il processo di trasmissione che lega
le variazioni degli strumenti di politica monetaria al raggiungimento degli obiettivi è molto
complesso e può richiedere tempi lunghi e variabili. Ciò può indurre la Banca Centrale a
scegliere una variabile di mercato, definita “obiettivo intermedio”, dalla cui osservazione
trarre indicazioni circa il grado di avanzamento del processo di trasmissione e l’efficacia
della manovra in atto.
Per adempiere a tale funzione, gli obiettivi intermedi devono godere di tre requisiti
essenziali:
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devono reagire in maniera prevedibile agli strumenti di politica monetaria;
devono influenzare in modo altrettanto prevedibile gli obiettivi finali di politica
monetaria;
- la Banca Centrale deve poterli osservare facilmente e con tempestività.
La logica che porta a scegliere un obiettivo intermedio è la seguente. La Banca Centrale
fissa un valore per il proprio obiettivo finale. Calcola quindi il valore dell’obiettivo
intermedio compatibile con quello finale. Il valore prescelto per l’obiettivo intermedio
prende il nome di target. Una volta determinato il target, la Banca Centrale manovra gli
strumenti a propria disposizione per avvicinarsi quanto più possibile ad esso.
-
L’obiettivo intermedio, però, non reagisce solo alle sollecitazioni della Banca Centrale, ma
anche a una serie di forze presenti nel sistema economico. Uno scostamento significativo
dell’obiettivo intermedio dal target spinge la Banca Centrale a intervenire, modificando i
propri strumenti in chiave correttiva.
Gli obiettivi intermedi scelti tradizionalmente ricadono in tre categorie: tassi d’interesse di
mercato, aggregati monetari, tassi di cambio.
Interventi della Banca Centrale sul mercato delle valute
Le banche Centrali più importanti stipulano spesso accordi tra loro per disciplinare
l’intervento (o il non intervento) sul mercato delle valute estere.
Al momento, la BCE, come le altre Banche Centrali più importanti del mondo
occidentale, segue l’approccio di lasciar fluttuare i tassi di cambio, senza vincoli
particolari. In generale, le Banche Centrali possono influenzare il tasso di cambio della
valuta nazionale, acquistandola o vendendola. Generalmente, le Banche Centrali
adottano interventi del genere (denominati interventi valutari) in presenza di forte
instabilità sui mercati valutari internazionali.
Il meccanismo degli interventi valutari è analogo a quello delle operazioni di mercato
aperto. Invece di acquistare o vendere titoli, la Banca Centrale acquista e vende valuta
estera in cambio di valuta nazionale, accrescendo o riducendo, di un importo pari
all’operazione, le proprie riserve di valuta estera.
Nel caso in cui la BCE vendesse euro e acquistasse una valuta estera, per esempio dollari,
il suo bilancio registrerebbe un incremento alla voce “Riserve valutarie”. Inoltre, dal
momento che l’operazione descritta comporta un aumento della quantità di euro in
circolazione, l’offerta di moneta proveniente dall’area euro aumenterebbe.
Politiche di vigilanza
Abbiamo visto che le politiche di vigilanza possono avere finalità diverse. Ora andiamo a
vedere come viene organizzato il lavoro in funzione dei diversi obiettivi e dei diversi
soggetti regolati. Esistono vari modi per classificare le politiche di vigilanza:
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Per soggetti, per istituzioni: ogni organo di vigilanza si specializza per soggetto
vigilato (banche, compagnie di assicurazione, ecc). Questa modalità permette di
organizzare i controlli con chiarezza, ma può generare diversi problemi, poiché è
possibile che più soggetti svolgano la stessa attività: ad esempio, l’attività di
emissione di titoli viene svolta sia dalle banche sia dalle SIM (Società di
Intermediazione Mobiliare). Tipicamente, le SIM sono oggetto di vigilanza della
CONSOB, mentre le banche sono di competenza della Banca d’Italia, perciò, se i
due organi di vigilanza decidono di regolare in modo diverso la stessa attività,
possono sorgere non pochi problemi, perché le diverse regole possono essere
competitivamente più vantaggiose per un soggetto che per l’altro. Perciò, vigilare
per istituzioni è complicato quando c’è diversificazione produttiva, ossia quando la
stessa attività può essere svolta da più soggetti, come accade all’interno del
sistema finanziario.
- Per attività: ogni organo di vigilanza si specializza nel controllo di una particolare
attività, a prescindere dall’istituzione o dalle istituzioni che la svolgono. Anche in
questo caso la situazione appare abbastanza chiara, ma vi sono in realtà delle
aree grigie, ossia delle attività difficili da catalogare. Ad esempio, i prodotti
assicurativi ramo vita sono prodotti assicurativi, ma sono anche una componente
di investimento, cosa che rischia di mette in contrasto l’ISVAP e la CONSOB. Ciò
può portare a problemi di doppia regolamentazione, o al contrario, a problemi di
assenza di regolamentazione, nel caso in cui entrambi gli organi ritengano che
l’attività in questione sia di competenza dell’altro.
- Per finalità: ogni organo di vigilanza si specializza nel raggiungimento di una
determinata finalità. Le finalità generalmente considerate sono stabilità, efficienza
e correttezza e trasparenza. Tuttavia, abbiamo visto che nel breve periodo la
stabilità e l’efficienza possono entrare in contrasto, perciò, in questo caso, possono
sorgere problemi di conflitto di interessi tra i regolatori.
Attualmente, nel nostro Paese si adotta un mix tra il controllo per attività e il controllo per
finalità.
-
Stili di vigilanza
Vigilanza strutturale: la vigilanza strutturale risponde alla domanda “chi fa cosa?”. Questo
stile di vigilanza ragiona sulla base del paradigma struttura → condotta → performance: il
controllo della struttura influenza i comportamenti, che, a loro volta, influenzano le
performance. Normalmente, si tratta di una vigilanza di tipo discrezionale e soggettivo.
Alcuni esempi di strumenti che possono rientrare in questo stile di vigilanza sono:
barriere all’entrata o all’uscita dal mercato: le barriere vengono gestite con il
meccanismo delle autorizzazioni (si autorizza una banca ad aprire nuovi sportelli, a
non chiudere quelli già esistenti, ecc). Si tratta di uno strumento di tipo
discrezionale e soggettivo perché si decide di volta in volta se concedere o meno
un’autorizzazione;
- controlli sulla gamma di prodotti offerti;
- autorizzazioni alle aggregazioni aziendali: ad esempio, un’autorizzazione a
realizzare o meno una fusione influenza la concorrenza e quindi la struttura del
sistema.
L’obiettivo di questa politica è la stabilità.
-
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Vigilanza prudenziale (Basilea): La vigilanza prudenziale risponde alla domanda “come si
fa?”. Questi controlli sono volti al contenimento dell’assunzione dei rischi e, a differenza
dei precedenti, sono di tipo oggettivo e neutrale. Dal momento che si tratta di criteri
oggettivi, se gli istituti presentano determinate caratteristiche strutturali, non si può negare
loro l’autorizzazione a svolgere determinate attività. Tali controlli, quindi, valutano
l’adeguatezza degli istituti finanziari.
L’adeguatezza si può declinare in diversi tipi. La prima è di tipo patrimoniale, ed è quella
su cui insiste la normativa di Basilea: adeguatezza patrimoniale significa che più capitale
ha un intermediario, più rischi può assumersi. L’adeguatezza, inoltre, è anche di tipo
organizzativo.
L’obiettivo di queste politiche è l’efficienza.
01 marzo 2012
Il rischio di credito
Il rischio di credito è il rischio tipico di intermediari finanziari di tipo creditizio, come
banche, società di titoli, società di credito al consumo, ecc. È un rischio puro, non
simmetrico, nel senso che può portare esclusivamente a perdite per l’intermediario
finanziario.
Il rischio di credito si definisce, innanzitutto, come rischio di inadempienza a scadenza, o
comunque alle scadenze contrattuali alle quali chi ha ottenuto il prestito dovrebbe
restituire parte del capitale e pagare gli interessi. Questa è l’accezione più tradizionale.
Tuttavia, il rischio di credito fa anche riferimento al rischio di deterioramento della qualità
del debitore: dal momento in cui il finanziamento è erogato e per tutta la sua durata, il
debitore può peggiorare la propria qualità. Infatti, è possibile che un soggetto che
inizialmente è stato valutato dalla banca come un buon pagatore, in seguito incorra in
eventi che riducono la sua capacità di solvenza, ossia il suo merito di credito. In questa
fattispecie troviamo, ad esempio, gli incagli, le sofferenze, i crediti ristrutturati, i crediti
sconfinati e i crediti scaduti.
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Incagli. La difficoltà del debitore è solamente temporanea: il debito si incaglia
perché il debitore ha difficoltà a restituirne una parte, ma ci sono prospettive di
ripresa.
Sofferenze. Il debitore si trova in una situazione da cui difficilmente sarà in grado di
riprendersi: la banca non ha ancora perso definitivamente la speranza di
recuperare il proprio prestito, ma dispera abbastanza.
Crediti ristrutturati. Sono quei crediti in fase di sofferenza che vengono gestiti dalla
banca in modo da poter recuperare almeno in parte la somma concessa e da
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non interrompere la relazione con il cliente: ad esempio si possono ritardare e
riprogrammare le scadenze, oppure applicare condizioni di facilitazione, come un
ribasso del tasso di interesse.
Crediti sconfinati. Sono quei crediti che prevedono un tetto massimo, che è stato
oltrepassato dal debitore. L’esempio più classico è rappresentato dai tetti posti alla
possibilità di sconfinare sul proprio conto corrente: il titolare del conto corrente può
sconfinare sul proprio conto fino a una certa somma, che non dovrebbe mai
oltrepassare.
Crediti scaduti. Il debitore tarda a pagare le quote di capitale o di interesse oltre
una certa data, ossia è in mora. Ci sono date precise oltre le quali il credito è
considerato in mora: 90 giorni per le imprese e 180 giorni per le famiglie e gli enti
pubblici.
Le componenti del rischio di credito
Vi sono alcune componenti che la banca deve valutare per capire quanto sia esposta al
rischio di credito.
1. Ammontare erogato ≠ RC (l’ammontare erogato non è sinonimo di rischio di
credito). Supponiamo che la banca abbia concesso un mutuo da 300.000€: al
debitore verrà presentato un piano di ammortamento dove vengono indicate le
rate da pagare e le scadenze a cui pagarle. Supponiamo che si tratti di un mutuo
trentennale con scadenze annue, e che il debitore paghi regolarmente per i primi
cinque anni. Dopo il quinto anno, invece, va in default e non riesce a rimborsare la
sesta rata. In questo momento, la quota di mutuo ancora da rimborsare non è più
quella iniziale, ma è pari a 250.000€, perciò l’ammontare del rischio di credito
corrisponde a questa somma e non al credito erogato al tempo 0, ossia 300.000€.
2. EAD (esposizione al default): la prima componente del rischio di credito è, quindi,
l’esposizione al default, che corrisponde alla cifra che deve ancora essere restituita
alla banca al momento del default.
PD (probabilità di default): la seconda componente del rischio di credito è la
probabilità di default, ossia la probabilità che il debitore vada in default prima
della restituzione del prestito. Questa componente spiega ulteriormente il motivo
per cui l’ammontare erogato non è sinonimo di rischio di credito: se una banca
concede a due clienti un prestito di pari ammontare, non è detto che il rischio di
credito sia uguale per entrambe le operazioni, dal momento che i clienti avranno
diversa qualità.
LGDR (rischio di perdita in caso di insolvenza): la terza componente del rischio di
credito è il rischio di perdita in caso di insolvenza, che dipende dalle garanzie che
sono state poste a copertura del credito. Supponiamo che la banca abbia
erogato un prestito per 100 e che il debitore abbia posto a garanzia un immobile di
valore pari a 80: in caso di insolvenza la banca può vendere l’immobile posto a
garanzia recuperando 80, perciò la perdita sarà pari alla parte residuale, 20.
EL (perdita attesa) = PD x LGDR x EAD. La banca deve stimare il valore medio di
tutte queste componenti (PD e LGDR sono percentuali) e per farlo, usa tecniche
statistiche che si basano sulle sue esperienze passate (ad esempio, prima di
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finanziare un’impresa, la banca valuterà quante imprese di dimensioni simili sono
andate in default negli anni precedenti). Si tratta quindi di stime piuttosto fragili.
3. Perdita inattesa. La banca deve cercare di stimare quanto potrebbe essere la
perdita in media; tuttavia, se quando l’evento di insolvenza si verifica la perdita è
maggiore, la banca non sarebbe coperta adeguatamente: nasce perciò
l’esigenza di stimare anche la perdita inattesa. Un modo per farlo è considerare la
distribuzione della probabilità delle perdite attese, individuare il valore medio della
perdita attesa e poi valutare la dispersione delle perdite rispetto a quella attesa,
ossia alla media.
P
EL
PMP
Perdite
PMP (perdita massima potenziale) – EL = perdita inattesa.
4. Diversificazione: la banca può cercare di mitigare il rischio di credito a livello di
portafoglio crediti, se compone tale portafoglio di crediti il cui andamento non è
correlato. Quindi, per valutare il rischio di credito bisogna prendere anche in
considerazione tutti i crediti che la banca eroga.
Cred.1
Esempio:
Perdita ptf (nulla)
Cred.2
In caso di andamento assolutamente non correlato, la perdita è nulla (caso
estremo e inverosimile)
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Probabilità di default e rischio di perdita in caso di insolvenza (PD e LGDR)
Le banche hanno sempre valutalo PD e LGDR, che in generale sono il profilo del debitore
e il profilo delle garanzie. Nel momento in la banca deve decidere se concedere o meno
un finanziamento deve valutare la qualità della persona e le garanzie che questa
fornisce. Questi due aspetti possono essere considerati come due argini al rischio: in primis
bisogna valutare la persona; in secondo luogo bisogna analizzare le garanzie.
Rischio →
PD
LGDR
Il profilo del debitore può essere valutato attraverso due tipi di analisi:
1. analisi fondamentale;
2. analisi andamentale.
L’analisi fondamentale si articola in tre elementi:
settore: la banca deve, innanzitutto, analizzare il settore economico in cui opera
l’azienda che richiede il credito (per le famiglie è più complicato utilizzare questo
tipo di analisi). Vanno valutate opportunità e minacce del settore, per capire se
l’impresa è in grado di approfittare di queste opportunità e non è particolarmente
esposta a minacce. Gli elementi da considerare sono, ad esempio, il livello di
crescita del settore, la presenza di barriere all’entrata, il livello della concorrenza,
ecc…;
- impresa: la banca deve valutare se la strategia competitiva dell’impresa è
sostenibile nel tempo o meno.
L’analisi di questi due elementi viene anche definita analisi qualitativa.
-
bilancio: attraverso il database centrale dei bilanci, si possono ottenere dati sui
bilanci dell’impresa che richiede il finanziamento e anche delle imprese simili
operanti nel settore. L’analisi dei bilanci è sia storica, per quozienti e flussi, sia
prospettica.
L’analisi di quest’ultimo elemento viene anche definita analisi quantitativa.
-
L’analisi andamentale può essere utilizzata solo se l’azienda è già stata cliente della
banca o, perlomeno, di un’altra banca. Anche questo tipo di analisi si articola in più
elementi:
-
lavoro bancario: la banca valuta tutte le informazioni che ha accumulato nel
tempo sull’impresa cliente;
centrale dei rischi: è un servizio messo a disposizione di tutte le banche da parte
della Banca d’Italia, che consente di verificare la situazione di tutte le aziende che
vi sono censite. Ogni mese, ogni istituto bancario deve inviare alla Banca d’Italia
un resoconto della situazione che le imprese clienti hanno nei suoi confronti. In
questo modo, la Banca d’Italia riceve e registra informazioni su un gran numero di
imprese, che saranno utili nel caso in cui una banca voglia conoscere la posizione
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di un’azienda non solo nei suoi confronti, ma a livello di intero sistema.
Per quanto riguarda il profilo delle garanzie, innanzitutto, bisogna precisare che le
garanzie che la banca può ricevere si dividono in due categorie: garanzie reali (pegno e
ipoteca); garanzie personali (fideiussione). In particolare, alla banca interesserà la
capacità di recupero sulle garanzie.
Per quanto riguarda le garanzie reali, bisogna innanzitutto valutare il valore di mercato
del bene posto a garanzia nel momento in cui viene concesso il credito (generalmente si
concede una somma inferiore al valore stimato della garanzia reale). Il valore di mercato
del bene dovrà poi essere sempre monitorato, in modo che, in qualunque momento
l’impresa vada in default, la banca possa recuperare almeno buona parte del credito.
Per quanto riguarda le garanzie personali, la banca deve valutare, sostanzialmente, la
cosiddetta capienza: ad esempio, in caso di fideiussione, la banca deve valutare che il
fideiussore non abbia troppi impegni personali o non abbia prestato garanzia a troppi altri
soggetti. In questi casi, infatti, il patrimonio effettivo a garanzia si riduce.
La valutazione del profilo del debitore e del profilo delle garanzie avviene in modo molto
diverso, dal momento che il primo fa riferimento allo stesso debitore, mentre il secondo
alle singole operazioni. Infatti, a fronte di una sola valutazione sul profilo del debitore si
possono avere tante valutazioni sul profilo delle garanzie, dato che una stessa persona
può porre garanzie diverse per più operazioni.
Gli accordi di Basilea
A fronte del rischio di credito, la normativa di vigilanza sovrannazionale ha deciso di
imporre alle banche di tutelarsi, dotandosi di un patrimonio minimo a presidio della
propria stabilità, ossia rispettando il requisito dell'adeguatezza patrimoniale.
Il Comitato di Basilea, che riunisce i rappresentanti delle autorità di vigilanza dei 20 Paesi
più industrializzati al mondo, ha emanato, nel 1988 una prima normativa di vigilanza, nota
con il nome di Basilea 1. Con questa normativa è stata data una prima applicazione al
principio dell'adeguatezza patrimoniale ponderata per il rischio, secondo il quale a una
maggiore esposizione ai rischi deve corrispondere una più elevata dotazione di capitale
proprio. Nel quadro delle regole delineato dall'Accordo di Basilea del 1988, si introduce,
quindi, un coefficiente di solvibilità, secondo il quale il rapporto tra il patrimonio di
vigilanza di una banca e il totale delle attività ponderate per il rischio di credito non deve
scendere sotto l'8%.
PV
………...≥.8%
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(Patrimonio di Vigilanza)/(Totale attivo ponderato per il rischio)
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Σi Ai · Pi
Il patrimonio di vigilanza è un aggregato patrimoniale che comprende tutte le poste
contabili pienamente disponibili da parte della banca per essere utilizzate ai fini della
copertura dei rischi e delle perdite aziendali. Tale aggregato è composto da due livelli: il
patrimonio di base e il patrimonio supplementare (tier 1 e tier 2). Il patrimonio di base
comprende il capitale sociale, le riserve al netto delle azioni proprie e delle
immobilizzazioni materiali, e prende anche il nome di patrimonio netto tangibile; il
patrimonio supplementare comprende, invece, strumenti con caratteristiche un po'
particolari, ossia i prestiti che la banca ha ottenuto e che può rimborsare dopo una
scadenza molto lunga, pagando delle cedole ai creditori, il cui pagamento può essere
interrotto in caso di difficoltà: questa forma di passività viene assimilata al capitale
perché, in caso di crisi, la banca ha la possibilità di congelare le uscite.
Il totale dell'attivo ponderato per il rischio, cioè il denominatore del coefficiente di
solvibilità, invece, si ottiene moltiplicando il valore nominale di tutte le attività per un
coefficiente di ponderazione, che prende il nome di risk weight. Ovviamente,
moltiplicando questa quantità per l'8% si ottiene il patrimonio di vigilanza minimo che la
banca deve detenere (Σ valore nominale attività · risk weight · 8% = PV).
Secondo gli Accordi di Basilea del 1988, la scelta del coefficiente di ponderazione (0%,
20%, 50% o 100%), doveva basarsi sulla tipologia del debitore e sulla rischiosità del Paese in
cui il debitore operava, senza quasi considerare le garanzie.
Il principale pregio di Basilea 1 era quello di porre nelle stesse condizioni di operatività le
banche dei diversi Stati, ma presentava anche limiti notevoli. Innanzitutto, il coefficiente di
ponderazione si è dimostrato poco sensibile ai differenti livelli di rischio: ad esempio, i
prestiti erogati alle imprese dovevano essere ponderati tutti al 100%, cosa che non
prendeva in considerazione il fatto che, in realtà, alcune imprese sono più rischiose di
altre. Inoltre, il sistema di ponderazione manifestava un'eccessiva rigidità rispetto alla
rapida evoluzione degli strumenti finanziari. Infine, l'impianto regolamentare era
esclusivamente imperniato sul rischio di credito, senza considerare ulteriori fattispecie di
rischio (solo nel 1996, il Comitato ha integrato la disciplina del 1988, prendendo in
considerazioni anche il rischio di mercato).
Nonostante gli evidenti limiti, la regolamentazione del 1988 è rimasta in vigore per molto
tempo, fino al 2006, quando è stata sostituita da un nuovo Accordo, noto con il nome di
Basilea 2, volto sia a superare i limiti del primo accordo, sia a prendere in considerazione
l'evoluzione dell'attività bancaria nel tempo.
Basilea 2 prevedeva nuovamente che il rapporto tra il patrimonio di vigilanza e il totale
dell'attivo ponderato per il rischio fosse almeno pari all'8%, ma il rischio che veniva preso in
considerazione non era più solo il rischio di credito (RC), bensì anche il rischio di mercato
(RM) e il rischio operativo (RO). In pratica, si modifica il denominatore della formula vista in
precedenza.
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Inoltre, per quanto riguarda il rischio di credito, viene modificato anche il modo per
calcolarlo, o meglio, il metodo rimane uguale, ma viene modificato il coefficiente di
ponderazione, il risk weight. In particolare, questo può essere calcolato in due modi:
- metodo standard;
- metodo internal rating based.
Con il metodo standard, le banche non valutano da sole il rischio di credito, ma si basano
sulle valutazioni effettuate da agenzie di rating esterne, riconosciute dalle autorità di
vigilanza. Ciò significa che ad ogni classe di rating in cui può ricadere il debitore,
corrisponde una determinata ponderazione del rischio:
per gli Stati sovrani e le banche centrali: da AAA ad AA- = 0%; da A+ ad A- = 20%;
da BBB+ a BBB- = 50%; da BB+ a B- = 100%; inferiore a B- = 150%; senza rating = 100%.
 per le imprese: da AAA ad AA- = 20%; da A+ ad A- = 50%; da BBB+ a BB- = 100%;
inferiore a BB- = 150%; senza rating = 100%.
Con il metodo internal rating based, le banche possono valutare autonomamente la
rischiosità dei debitori, sulla base di elaborazioni interne. Tuttavia, distinguiamo tra due
sottometodi:

- di base;
- avanzato.
Con il metodo di base, le banche possono stimare internamente solo la PD, mentre
l'LGDR, EAD e la maturity (M) avranno valori predefiniti imposti dal Comitato di Basilea.
Con il metodo avanzato, invece, la banca può stimare internamente tutte le
componenti.
Dopo aver stimato tutti questi valori, la banca deve inserirli all’interno della formula che si
basa sul concetto di perdita attesa: EL = PD x LGDR x EAD. Dalla perdita attesa, la banca
deve essere capace di distinguere la perdita inattesa (UL, Unexpected Loss), che può
essere concepita in termini di variabilità della perdita attesa. Secondo questa
impostazione, la banca deve coprire le perdite attese già a conto economico, mentre il
patrimonio accantonato deve essere utilizzato per la sola copertura delle perdite
inattese, che sarebbero troppo onerose da gestire in altro modo.
Gli accordi di Basilea 2 superano tutti i limiti di Basilea 1, ma rischiano di provocare un
effetto di prociclicità. Infatti, in caso di recessione economica, aumenta la probabilità di
default dei crediti che la banca ha erogato, perciò, a fini prudenziali, la banca deve
ponderare maggiormente questi crediti ed accantonare un maggiore patrimonio di
vigilanza. Le banche, ovviamente, non sono contente di dover detenere più patrimonio,
perché è costoso: gli azionisti non sempre sono disposti a conferire patrimonio di rischio e,
se lo fanno, pretendono una remunerazione adeguata. Per non aumentare il patrimonio
di vigilanza, la banca può decidere di ridurre la rischiosità dei propri prestiti, ad esempio
revocando affidamenti o aumentando i tassi di interesse. Se, come avevamo ipotizzato
all’inizio del ragionamento, ci troviamo già in fase di recessione economica, questa scelta
non può che peggiorare la condizione delle imprese e la fase di recessione.
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06 marzo 2012
Stili di vigilanza (continuazione)
Abbiamo approfondito gli stili di vigilanza strutturale e prudenziale. Tuttavia esistono altre
regole, che toccano aspetti non considerati né nella vigilanza strutturale né in quella
prudenziale. Il primo ambito è quello relativo alla trasparenza.
Vigilanza informativa (Fair Play Regulation): in gergo sportivo, il termine fair play significa
che i giocatori devono rispettarsi l’uno con l’altro e fare in modo di giocare ad armi pari,
senza scorrettezze. Quindi l’attenzione è sulle informazioni, mentre gli obiettivi sono la
trasparenza e la correttezza.Gli elementi che vengono controllati sono:
- le informazioni sugli scambi finanziari;
- la trasparenza delle clausole contrattuali.
Partendo dal tema della trasparenza delle clausole contrattuali, possiamo innanzitutto
ricordare che le banche sono obbligate ad esporre dei fogli informativi che contengono
le norme relative ai contratti di conto corrente che i clienti stipulano con la banca. È la
stessa normativa sulla trasparenza bancaria ad imporre questo tipo di pubblicità, oltre a
stabilire come devono essere redatti i contratti, che tipo di informazioni le banche
debbano fornire ai clienti, ecc… Oltre a questi elementi, possiamo ricordare quello del
prospetto, che in realtà riguarda anche il tema delle informazioni sugli scambi finanziari: si
tratta si un’enorme documentazione che tutti gli emittenti sono tenuti a fornire alla
clientela quando emettono titoli.
Per quanto riguarda il tema delle informazioni sugli scambi finanziari, vi sono alcuni ambiti
principali, che si ritiene necessario controllare:
-
informazioni sulla compravendita;
informazioni sugli emittenti;
informazioni sugli intermediari;
informazioni sui mercati.
Vigilanza protettiva: L’obiettivo della vigilanza protettiva è prevenire e, ove si manifestino,
gestire le situazioni di crisi. Riprendendo gli obiettivi generali, questo ambito può essere
ricondotto all’obiettivo di minimizzare situazioni di esternalità negativa.
La prevenzione delle crisi passa attraverso alcuni elementi:
-
-
ispezioni: possono essere di tipo ordinario (gli ispettori della Banca d’Italia e della
CONSOB si adoperano continuamente per svolgere questo tipo di attività) o
straordinario (in caso di informazioni critiche, viene inviata una task force che
rimane in banca fin quando non ha raccolto tutte le informazioni necessarie per
cercare di evitare un’imminente situazione di crisi);
documentazione statistica: quotidianamente le banche inviano informazioni alla
Banca d’Italia (o alla CONSOB, se si tratta di attività di emissione di titoli), relative
alle attività che la banca sta svolgendo.
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Sommando questi due livelli, le autorità di regolamentazione dovrebbero riuscire a capire
se le situazioni stanno diventando critiche e agire opportunamente:
rifinanziamento: attraverso questo strumento finanziario, la Banca Centrale
Europea può rifinanziare le banche per rafforzare una situazione un po’ delicata
degli intermediari europei.
Nonostante tutte queste misure di prevenzione, le crisi, ogni tanto, si manifestano, perciò
vengono utilizzati vari strumenti anche per la loro gestione. Innanzitutto, è opportuno
ricordare che le banche non sono soggette alla normativa classica di tipo fallimentare:
nello specifico, per le banche, si parla di procedure di amministrazione straordinaria.
Questo strumento viene utilizzato nel caso in cui una banca sia insolvente, ossia l’organo
di controllo interviene per gestire una fase di possibile liquidazione.
-
Esiste poi uno strumentario che serve a controllare le relazioni che le banche
intrattengono con la clientela. Tutte le banche aderiscono a schemi di assicurazione dei
depositi, che sono presenti in tutti i Paesi. Tuttavia, la natura che questi schemi assumono
può essere diversa da Paese a Paese. Ad esempio, negli Stati Uniti, queste assicurazioni
dei depositi sono gestite a livello federale (FDIC: Federal Deposit Insurance Corporation),
ossia i depositi sono garantiti attraverso l’utilizzo di fondi pubblici. In Italia, invece, si utilizza
un sistema di tipo mutualistico, ossia sono le banche stesse che contribuiscono ad
alimentare un fondo di assicurazione dei depositi, che verrà utilizzato per rimborsare i
clienti, nel caso in cui una banca fallisca. La scelta tra un sistema o l’altro non comporta
una grossa differenza per i piccoli risparmiatori, ma a livello di sistema possono esserci
delle differenze sostanziali: se si utilizza denaro pubblico, probabilmente non si riuscirà ad
assicurare tutti i fondi esistenti, ma grosso modo il denaro dovrebbe essere sufficiente per
gestire anche situazioni di profonda crisi; il denaro fornito dalle banche, invece,
difficilmente riuscirà ad assicurare tutti i depositi in caso di fallimento di una grande
banca. Tuttavia, si tratta di situazioni estremizzate, che si manifestano molto raramente.
Per i piccoli risparmiatori non ci saranno comunque problemi, dal momento che non
vengono assicurati tutti i depositanti, ma solo i piccoli depositanti. Secondo la nostra
normativa, si considera piccolo deposito un deposito che contenga meno di 200 milioni di
lire (circa 100 mila euro). Fino a quell’importo, l’80% del deposito viene assicurato: ciò
significa che un piccolo depositante perderebbe solo il 20% del suo deposito, in caso di
fallimento della banca. La normativa ha scelto di tutelare solo questa categoria di clienti,
perché essi vengono ritenuti risparmiatori inconsapevoli, che devono essere tutelati in virtù
del loro rapporto quasi esclusivamente di tipo fiduciario con la banca. Si ritiene invece
che un depositante più benestante abbia risorse sufficienti non per valutare
personalmente quanto sia rischiosa la banca, ma quantomeno per pagare una
consulenza professionale che sia in grado di fornirgli queste informazioni.
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Gli strumenti finanziari
Classificazione generale
Se si vuole operare una riclassificazione degli strumenti finanziari, si possono utilizzare vari
criteri: un primo metodo consiste nel suddividere gli strumenti finanziari per bisogni; un
secondo metodo consente di suddividere gli strumenti finanziari per tipologia di clientela
servita. Questi due criteri di suddivisone non sono alternativi, ma potrebbero, in qualche
modo, essere inseriti in matrice: prima si distinguono gli strumenti in base ai bisogni e poi in
base a come soddisfare un determinato bisogno di una determinata tipologia di clienti
(ad esempio, gli strumenti di pagamento per le imprese saranno diversi dagli strumenti di
pagamento per i privati).
In base alla classificazione per bisogni avremo:
-
-
strumenti di pagamento: non li trattiamo immediatamente perché, in alcuni casi, si
sovrappongono agli strumenti utili per la gestione del risparmio (li tratteremo
parlando di strumenti di mercato monetario);
strumenti per la gestione dei rischi: si dividono in strumenti derivati (rischio
finanziario) e strumenti assicurativi (rischio puro);
strumenti di investimento/finanziamento, o strumenti per la mobilizzazione del
risparmio: sono maggiormente collegati con i saldi finanziari di cui già abbiamo
parlato.
Strumenti di investimento/finanziamento
Torniamo a considerare le unità in avanzo e in disavanzo e vediamo come il denaro può
essere trasferito da un soggetto all'altro.
Scambio diretto. Nello scambio diretto, avremo l’unità in avanzo (UA) che concede
denaro, e l’unità in disavanzo (UD) che sottoscrive un contratto in cambio di questo
denaro. Questo schema ricorrerà sempre quando parleremo di strumenti mobiliari, o valori
mobiliari, o titoli. Perciò, al posto del termine contratto, possiamo usare direttamente la
parola titoli: l’unità in avanzo concede denaro e ottiene, in cambio, il titolo
corrispondente.
La prima caratteristica generale di questi strumenti è quella di essere standardizzati. Lo
schema che abbiamo visto sopra andrebbe quindi allargato: a fronte di un’unica unità in
disavanzo avremo una moltitudine di unità in avanzo, che concederanno finanziamenti,
ricevendo, in cambio, lo stesso titolo, lo stesso contratto.
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Standardizzazione significa che le scadenze sono abbastanza usuali, che gli importi del
singolo titolo sono rotondi, che prevedono il pagamento di interessi a scadenze precise
(se si tratta di titoli di debito), ecc…
La seconda caratteristica degli strumenti mobiliari è la trasferibilità. In questo caso, la
relazione che ci interessa analizzare non è quella tra l’unità in avanzo e l’unità in
disavanzo, ma quella che può intercorrere tra due unità in avanzo. La prima unità in
avanzo trasferisce denaro e riceve in cambio un titolo; tuttavia, in un determinato
momento, può decidere che non vuole o non riesce più a detenere quel titolo in
portafoglio: in questo caso, per contratto, non può chiedere il rimborso all’unità in
disavanzo, ma può trasferire il titolo ad un altro investitore, attraverso un’operazione di
mercato secondario. La trasferibilità è il vero elemento qualificante dei titoli: essi sono
creati appositamente per circolare liberamente da un investitore all’altro.
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Il tipo di impegno che l’emittente si assume può essere vario, e questo darà vita a tanti
tipi di titoli. L’impegno assunto andrà anche a influenzare la valutazione che saremo in
grado di fare su quel titolo. Innanzitutto, si può fare una prima distinzione:
- titoli di debito;
- titoli di capitale di rischio.
Partiamo dalla seconda tipologia, che comprende sostanzialmente una sola variante: il
titolo azionario, o azione. In questo caso, l’emittente si assume l’impegno di remunerare gli
azionisti, ossia di pagare agli azionisti un dividendo, solo se la società emittente genera un
utile: non ci saranno né scadenze né impegni di remunerazione del capitale, ma chi
conferisce i fondi diventa socio, ossia proprietario di quota parte della società.
Per quanto riguarda i titoli di debito, invece, l’unità in disavanzo si impegna a remunerare
gli investitori attraverso il tasso di interesse e a rimborsare il capitale preso a prestito a una
certa scadenza. In funzione della scadenza si distinguono vari tipi di strumenti di debito:
BT (breve termine; ≤ 12 mesi): si parla di strumento o titolo di mercato monetario.
Questi strumenti possono essere analizzati insieme agli strumenti di pagamento,
perché la breve durata li trasforma in qualcosa di un po’ ibrido, al limite tra
strumenti di pagamento e investimento;
- M – LT (medio – lungo termine: > 12 mesi): obbligazioni.
L’obbligazione è uno strumento di finanziamento, dal punto di vista delle unità in
disavanzo, e uno strumento di investimento, dal punto di vista delle unità in avanzo. Si ha
quindi un rapporto bilaterale: uno strumento soddisfa, da un lato, un bisogno, e dall’altro
lato, il bisogno opposto. Lo scambio diretto è un modo per scambiare risorse; un secondo
modo è lo scambio indiretto, o intermediato.
-
Scambio intermediato. Nello scambio intermediato troviamo sempre un’unità in avanzo e
un’unità in disavanzo, ma tra i due soggetti si frappone un intermediario, che può essere
di vario tipo, ma, il più delle volte, è una banca. L’unità in avanzo porta il proprio denaro
presso la banca, perciò la banca intrattiene con questo soggetto un contratto di
deposito. Dall’altra parte, la banca fornisce i fondi all’unità in disavanzo, previa
sottoscrizione di questo soggetto di un contratto di prestito.
Fondi
Scambio
intermediato
UA
I
Depositi
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Fondi
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UD
Prestito
Quando la banca si frappone, in qualità di intermediario, il bisogno di finanziamento da
vita a tutta una serie di strumenti che legano l’intermediario con i possibili prenditori di
fondi. Dall’altra parte, il bisogno di investimento da vita a diversi tipi di strumenti che
legano l’intermediario con i possibili fornitori di fondi, tra cui il più frequente è il conto
corrente.
Benché questi strumenti siano diversi tra loro, vi sono vari elementi comuni che li
caratterizzano. Sono:
personalizzati (o meglio, personalizzabili): anche il conto corrente presenta questa
caratteristica. Infatti, il contratto di conto corrente è uguale per tutti, ma l’importo
versato corrisponde alla specifica disponibilità dell’unità in avanzo, non è
predeterminato. Si instaura quindi un rapporto bilaterale tra il soggetto e la banca,
non c’è una pluralità di unità in avanzo;
- non trasferibili: è una caratteristica abbastanza intuitiva: chi ha bisogno di riavere il
proprio denaro non vende il proprio deposito, ma lo chiude e ritira i propri fondi. In
realtà, nel corso degli ultimi vent’anni, questi strumenti, in particolare gli strumenti di
finanziamento, sono stati oggetto di un processo che prende il nome di
securitisation (in italiano titolarizzazione), un meccanismo abbastanza complicato:
l’idea generale è quella di prendere un pacchetto di prestiti dello stesso tipo e
venderli a società specializzate, che emettono una serie di titoli. Una delle
motivazioni alla base della crisi del 2008 è proprio l’abuso di operazioni di questo
tipo.
Andremo poi ad analizzare gli strumenti creditizi nell’ambito degli scambi indiretti
(bisognerebbe analizzare anche i depositi, ma, viste le loro caratteristiche, anch’essi
vengono assimilati a strumenti di pagamento).
-
Classificazione per tipologia di clientela servita
Passiamo ora alla classificazione degli strumenti finanziari per tipologia di clientela servita.
Più che parlare di strumenti in sé, parleremo dei diversi modi di servire diverse tipologie di
clientela. Una prima distinzione si ha tra:
- retail banking (al dettaglio);
- wholsale banking (all’ingrosso).
Questa distinzione fa riferimento al taglio unitario delle operazioni: distingueremo tra clienti
che richiedono operazioni di investimento o di pagamento di grande importo (wholsale
banking) oppure di piccolo importo (retail banking). La dimensione delle operazioni tende
poi a sovrapporsi con le tipologie di clienti.
Saranno retail i piccoli clienti individuali e le piccole e medie imprese (P-MI). Saranno
wholsale le grandi imprese, o large corporate, i governi (termine utilizzato per indicare i
soggetti pubblici di grandi dimensioni) e gli HNWI (High-Net-Worth-Individuals o, in italiano,
individui ad alto valore netto), ossia coloro che dispongono di un patrimonio finanziario
superiore al milione di dollari. Le prime due categorie wholsale vengono servite
nell’ambito del corporate banking, mentre l’ultima categoria viene servita nell’ambito del
private banking.
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Tutte queste categorie possono sottoporre al sistema finanziario il bisogno di pagamento,
di finanziamento, di investimento o di gestione dei rischi, ma verranno serviti in maniera
differente, a prescindere dagli strumenti usati.
Nel retail banking si utilizzano le logiche del largo consumo:
- si offrono prodotti standardizzati;
- la redditività per l’intermediario deriva dai numeri, dalle quantità;
- la logica con cui si opera è di tipo transazionale → logica di vendita.
Nel corporate e private banking si utilizza una logica differente:
si offrono prodotti, più specificamente servizi, personalizzati;
la redditività per l’intermediario viene dalla qualità del servizio;
la logica con cui si opera è di tipo relazionale (si opera in maniera continuativa con
un soggetto).
Si tratta di business completamente diversi, sebbene soddisfino gli stessi bisogni, e il diverso
trattamento deriva dal diverso potere contrattuale delle tipologie di clienti.
-
07 marzo 2012
I contratti creditizi
L’attività bancaria è definita come l’insieme di due macroattività:
- la raccolta di risparmio tra il pubblico (attraverso depositi o altro);
- l’esercizio del credito.
Secondo la definizione del Testo unico bancario non si può parlare di attività bancaria se
viene svolta una sola di queste due macroattività.
Le operazioni di raccolta
La banca può raccogliere risparmio sotto diverse forme. Innanzitutto si distingue tra:
-
-
raccolta diretta: si instaura un rapporto di debito/credito tra la banca e il soggetto
che presta denaro. In questo caso, si hanno ripercussioni dirette sullo stato
patrimoniale di entrambi i soggetti: troveremo dei crediti nell’attivo dello stato
patrimoniale del soggetto che fornisce denaro, mentre troveremo dei debiti nel
passivo dello stato patrimoniale della banca. Questo rapporto si riflette anche sulla
situazione economica dei soggetti, dal momento che la banca dovrà pagare
degli interessi per il denaro che ha ricevuto: avremo quindi interessi passivi per la
banca e interessi attivi per il soggetto che concede denaro alla banca;
raccolta indiretta: non si viene a creare un rapporto creditorio o debitorio, ma di
servizio: in cambio del denaro ricevuto, la banca fornisce alla clientela un servizio,
in particolare di investimento o di pagamento. Ad esempio, un soggetto può
portare il proprio denaro presso la banca incaricandola di gestirlo: la banca non
pagherà alcun interesse per questo denaro, dal momento che questo rimane di
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proprietà del soggetto che l’ha dato in gestione alla banca; la banca, invece, per
il servizio di investimento fornito, guadagnerà delle commissioni, che non figurano
nell’attivo del suo stato patrimoniale, ma rientrano nei cosiddetti conti d’ordine. Per
quanto riguarda i servizi di pagamento, in cambio del denaro ricevuto, la banca
può concedere al cliente un contro corrente da utilizzare per pagamenti verso
terzi, ad esempio attraverso lo strumento del bonifico. Spesso la banca riceve delle
commissioni per queste operazioni di pagamento, ma, anche nel caso in cui
effettui il bonifico gratuitamente, pretende il pagamento di una somma per la
documentazione relativa ai pagamenti che invierà al cliente.
Nell’ambito della raccolta diretta distinguiamo due forme di passività per la banca:
-
passività con funzione di investimento: depositi a risparmio (o conti di deposito),
certificati di deposito, pronti contro termine (PTC) e obbligazioni bancarie;
passività con funzione monetaria, tra cui la principale è il conto corrente.
La raccolta diretta
La politica della raccolta
La politica della raccolta bancaria è costituita dall’insieme coordinato delle varie azioni
che la gestione intraprende allo scopo di ottenere il volume (obiettivo quantitativo) e la
composizione (obiettivo qualitativo) di risorse finanziarie adatte al conseguimento degli
obiettivi aziendali, che sono:
-
conservazione della liquidità (con cui effettuare nuovi investimenti e rimborsare i
soggetti con cui si sono stipulati contratti in precedenza);
funzione creditizia;
funzione monetaria.
Gli obiettivi quantitativi della raccolta
L’obiettivo centrale della banca è la crescita della raccolta. La banca ha interesse a
raccogliere più risorse possibili per vari motivi:
per aumentare la quota di mercato e le opportunità di business;
come misura dell’avviamento: se una banca diventa oggetto di acquisizione da
parte di un’altra banca, una delle modalità con cui può essere valutato il valore
della banca target è proprio la capacità di raccolta.
Vi sono vari fattori che influenzano la crescita della raccolta bancaria. Innanzitutto
distinguiamo tra fattori esogeni e fattori endogeni: i fattori esogeni sono quelli su cui la
banca non ha una grossa capacità di influenza e che costituiscono quindi un vincolo per
la banca stessa; i fattori endogeni sono quelli che derivano direttamente dalle scelte
della banca.
-
I principali fattori esogeni sono:
-
caratteristiche socio-economiche del territorio d’azione della banca. Per fare un
esempio, l’età anagrafica è un fattore molto importante da questo punto di vista,
dal momento che è una delle determinanti del comportamento economico dei
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soggetti: in Liguria, l’età media è piuttosto alta, e gli anziani, normalmente,
tendono a risparmiare più che a investire, perciò le banche che operano nel nostro
territorio saranno prevalentemente di raccolta;
- competitività del mercato. Per una banca sarà difficile insediarsi in un territorio
dove un’altra banca detiene una posizione di dominanza molto forte; troverà più
facile entrare in territori dove non c’è una posizione di dominanza, pur in presenza
di una competitività molto forte.
Per quanto riguarda i fattori endogeni, bisogna distinguere tra le due passività che si
vengono a creare per la banca: passività con funzione di investimento e passività con
funzione monetaria.
Le passività con funzione di investimento hanno alle spalle dei contratti che i clienti
firmano con l’aspettativa di ottenere un guadagno: in cambio del trasferimento del
potere d’acquisto nel tempo, i clienti si aspettano un rendimento, anche minimo. Perciò, il
fattore su cui la banca dovrà agire è il rendimento promesso al cliente. Nell’agire sul
rendimento, la banca deve però considerare due elementi:
le decisioni della concorrenza: la banca offre strumenti grosso modo standardizzati,
perciò i tassi di rendimento dovranno essere più o meno gli stessi per tutte le
banche;
- gli effetti sulle altre passività finanziarie della banca: la banca non deve
“cannibalizzare” i propri prodotti, ossia non deve promettere rendimenti troppo alti
per un prodotto, altrimenti rischierebbe che i clienti ignorino totalmente le altre
offerte.
Invece, per le passività con funzione monetaria, come il conto corrente, i clienti non
pretendono un rendimento elevato, perciò la banca dovrà puntare su fattori totalmente
diversi: l’efficienza e l’economicità. La banca dovrà quindi fare in modo che il conto
corrente costi il meno possibile al cliente.
-
Altri elementi endogeni che consentono di incrementare il volume della raccolta sono:
-
-
-
rete distributiva della banca: da questo punto di vista hanno rilevanza la
localizzazione delle unità operative territoriali, ossia degli sportelli, e la capacità di
relazione dei promotori finanziari;
crescita aziendale esterna: la banca può aumentare il proprio volume di raccolta
aumentando la propria presenza, ad esempio attraverso la fusione con un’altra
banca;
orientamento al mercato: questo fattore è stato per lungo tempo trascurato dalle
banche italiane, che hanno dovuto invece occuparsene negli anni Novanta,
quando si sono trovate ad affrontare la concorrenza di banche estere che
entravano nel nostro territorio attirate dal nostro livello di risparmio. Da questo
punto di vista sono rilevanti la segmentazione, ossia l’analisi del mercato di
riferimento, e la fidelizzazione, ossia la centralità del cliente.
Gli obiettivi qualitativi della raccolta
Dal punto di vista degli obiettivi qualitativi, la banca deve decidere come gestire i propri
prodotti, anche in funzione di una limitazione del rischio. Gli obiettivi principali dal punto di
vista qualitativo sono:
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-
-
grado di trasformazione delle scadenze, secondo la logica di asset/liability
management: le banche devono cercare di combinare il più possibile le forme di
raccolta con le forme di impiego, in modo da essere sempre in grado di rimborsare
quanto dovuto;
stabilità ed elasticità della massa raccolta: la raccolta deve essere il meno volatile
possibile, ossia la banca deve evitare che la clientela possa chiedere il rimborso
del proprio denaro in qualunque momento. Una raccolta instabile non è solo
ingestibile, ma è anche molto rischiosa dal punto di vista economico. Una
condizione essenziale affinché la raccolta sia stabile è l’elasticità, considerando
che stabilità non significa immobilità dal punto di vista dei contratti: la banca
dovrà quindi puntare al massimo frazionamento possibile dei rapporti con la
clientela, per evitare di rimanere legata alle scelte di pochi clienti, e alla massima
diversificazione delle forme di raccolta, ossia delle tipologie di contratti bancari.
Leve della politica della raccolta
Esistono varie leve a disposizione delle banche per incentivare la raccolta.
Innanzitutto, individuiamo la politica di prodotto, sia a livello di innovazione che di
differenziazione. La politica di prodotto ha rappresentato una variabile estremamente
importante per rispondere al fenomeno di disintermediazione che ha investito le banche
dalla fine degli anni Settanta. In questi anni, venivano offerti titoli di debito pubblico con
tassi di rendimento elevatissimi, perciò i clienti delle banche preferivano i titoli di stato ai
depositi a risparmio. Si parla di disintermediazione perché il denaro che i clienti
concedevano alle banche non era più detenuto in depositi, ma doveva essere investito
per conto della clientela. In questo modo la banca aveva perso raccolta diretta e il tasso
annuo di sviluppo dei depositi a risparmio era crollato.
Per rispondere a questa situazione, le banche hanno cominciato a cercare di
guadagnare sulle commissioni relative a queste operazioni, ossia incrementando la
propria raccolta indiretta. Inoltre, le banche hanno dato vita a processi di innovazione e
differenziazione di prodotto:
-
-
per quanto riguarda le innovazioni, sono stati introdotti i certificati di deposito (CD),
i pronti contro termine (PCT) e, dal 1993, le obbligazioni bancarie. Tuttavia non si
può parlare di vera e propria innovazione, dal momento che si tratta comunque di
prodotti standardizzati e facilmente imitabili: in particolare, la facilità di imitazione
ha fatto sì che questi non fossero sufficienti a far recuperare raccolta diretta alle
banche;
per quanto riguarda la differenziazione, sono stati introdotti i pacchetti di prodotti
(package) e alcune varianti del conto corrente, che rimane un prodotto standard,
ma viene vestito in maniera personalizzata su ogni cliente: tra i conti correnti
differenziati ricordiamo, ad esempio, il c/c target, offerto dal punto di vista
commerciale come se fosse stato pensato per una particolare categoria di
soggetti, i c/c leggeri, pensati per i soggetti che movimentano il proprio conto in
modo leggero, o il c/c di liquidità, che viene agganciato a un fondo comune di
investimento, ossia troviamo un conto corrente di base, mentre il saldo in surplus
viene automaticamente investito in un fondo comune di investimento.
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La seconda leva a disposizione delle banche per incentivare la raccolta è la politica di
prezzo. Ne esistono di vari tipi.
In primo luogo, ricordiamo la politica analitica dei prezzi, che consiste in una
presentazione separata e analitica di tutti i prezzi di tutti i prodotti e servizi offerti. Si tratta
tuttavia di una politica poco utilizzata, perché poco utile dal punto di vista commerciale:
un cliente che si vede recapitare un informativa relativa a tutti i prezzi dei prodotti e servizi
che la banca offre, e magari nemmeno sa con precisione quali prodotti e servizi abbia
agganciati al proprio conto corrente, non è in grado di valutare correttamente quale
costo abbia per lui la banca.
Una seconda politica di prezzo è la politica dei prezzi correlati. Si parla, in questo caso, di
sussidio incrociato tra i prezzi, che le banche utilizzano per cercare di guadagnare grazie
a un rapporto a tutto tondo con il cliente: per fare un esempio, la banca può proporre al
cliente di ridurre il tasso di interesse sul conto corrente in cambio di un’erogazione gratuita
di servizi ad esso legati. Si tratta di una politica molto efficace nei confronti di clienti più
sensibili alla gratuità dei servizi che al rendimento del proprio conto corrente.
Una terza politica di prezzo è la politica condizionale, in cui i prezzi dei prodotti bancari, in
particolare del conto corrente, sono legati ad alcuni parametri. Ad esempio, il tasso di
interesse sul conto corrente può essere differenziato a seconda della giacenza media: più
alta sarà la giacenza media, più alto sarà il tasso di rendimento. Si tratta, tuttavia, di un
fatto molto relativo, dato che sul conto corrente non viene mai concesso un tasso di
rendimento particolarmente elevato.
Troviamo poi una politica relazionale (cross selling), in cui i prezzi sono legati al grado di
utilizzo di altri servizi bancari. Per fare un esempio, la banca può vendere allo stesso
cliente un conto corrente e un deposito di titoli e stabilire che, se il deposito viene
movimentato con una cera frequenza, cresca il rendimento sul conto corrente. Una
ricerca condotta dalla Banca d’Italia ha dimostrato che il tasso di fidelizzazione del
cliente può arrivare a toccare il 96% se questi possiede cinque o sei prodotti della stessa
banca.
Infine, troviamo varie politiche ibride: vengono offerti pacchetti, appositamente studiati
per rispondere alle esigenze di un determinato segmento o sottosegmento di clienti.
Una terza politica su cui le banche possono far leva è la politica di distribuzione, che
consiste nella scelta del mix dei canali di vendita dei prodotti e servizi bancari. Infatti,
anche dopo l’avvento di internet, il canale virtuale di offerta dei prodotti bancari non è
particolarmente diffuso. Questo perché manca la fiducia dei clienti, ma soprattutto
manca la visibilità del marchio, che invece è immediatamente riconoscibile nelle insegne
delle filiali fisiche che si incontrano nelle città. A seguito delle nuove norme di vigilanza
strutturale in materia di apertura degli sportelli, introdotte nel 1990 e confermate nel Testo
Unico Bancario (TUB), l’espansione della rete territoriale ha rappresentato il fattore
determinante per la crescita dei depositi: fino al 1990, le banche non potevano aprire
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nuovi sportelli senza aver prima ricevuto l’autorizzazione della Banca d’Italia; a partire da
questa data, invece, alle banche è sufficiente comunicare alla Banca d’Italia l’intenzione
di aprire un nuovo sportello, e possono cominciare ad operare dopo 60 giorni dalla
ricezione di tale comunicazione, a meno che la Banca d’Italia non sospenda tale
operazione a causa di motivi particolari.
Forme tecniche di raccolta diretta
Passività con funzione di investimento
Deposito a risparmio: consiste in un contratto che prevede il deposito di una somma di
denaro presso una banca, a fronte della quale la banca corrisponde al risparmiatore un
interesse, proporzionato alle somme depositate e al tempo di permanenza delle stesse sul
deposito. Il cliente può scegliere tra depositi liberi, il cui tasso di rendimento sarà molto
basso, e depositi vincolati, il cui tasso di rendimento sarà più consistente e crescerà in
maniera proporzionale alla crescita del tempo di giacenza.
Certificato di deposito: all’apparenza è molto simile al deposito a risparmio vincolato, ma
in realtà presenta alcune differenze. Innanzitutto, il certificato di deposito è un valore
mobiliare, un titolo negoziabile, rappresentativo di un deposito a risparmio vincolato
sottostante. Essendo un titolo, la banca può emetterlo a fronte di una platea di investitori,
perciò non si viene a creare un rapporto bilaterale tra la banca e il cliente. La durata del
certificato di deposito può oscillare tra un mese e cinque anni e, a differenza del deposito
a risparmio, questo strumento non prevede la possibilità di effettuare versamenti o
prelevamenti successivi alla sottoscrizione. La liquidabilità è inferiore rispetto ai depositi a
risparmio: il certificato di deposito non prevede il rimborso anticipato, ma, in caso si
manifesti la necessità di recuperare la somma, può essere ceduto a terzi. Tuttavia, questa
possibilità non incrementa in maniera significativa il livello di liquidabilità dei certificati di
deposito: considerando le scadenze a breve termine la liquidabilità naturale sarà
piuttosto buona, ma, nel caso in cui il cliente decida di recuperare la somma
anticipatamente, avrebbe difficoltà a vendere questo tipo di titoli, dal momento che non
c’è un mercato finanziario che li negozi con continuità. Per quanto riguarda il rendimento
si distingue tra i certificati di deposito senza cedola e con cedola: nel primo caso, il
rendimento sarà dato dalla differenza tra il prezzo di acquisto e il prezzo di vendita; nel
secondo caso il rendimento dipenderà anche dalla cedola, che può essere fissa o
variabile.
Pronti contro termine (passivi per la banca): dal punto di vista giuridico vengono definiti
anche operazioni di vendita con patto di riacquisto. Attraverso questo strumento, la
banca raccoglie risorse finanziarie da un cliente cedendogli, in cambio, alcuni titoli. In
pratica, in cambio del denaro fornito dal cliente, la banca concede in garanzia il valore
dei titoli a pronti, o meglio il cliente diventa a tutti gli effetti proprietario di questi titoli. Alla
scadenza, la banca si impegna a restituire al cliente il valore del prezzo a termine,
superiore rispetto al prezzo a pronti, e il cliente restituirà alla banca non gli stessi titoli
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ottenuti inizialmente, ma una quantità di titoli della stessa specie. La durata dei pronti
contro termine può essere di 1, 2 o 3 mesi; non è ammessa l’estinzione anticipata, ma i
titoli possono essere ceduti a terzi. I titoli tradizionalmente scambiati sono titoli di Stato (a
bassissimo rischio), titoli della stessa banca o titoli di mercato monetario. All’apparenza si
tratta di un’operazione molto attraente, ma è opportuno ricordare che il rischio di
insolvenza è a carico del cliente.
Passività con funzione monetaria
Conto corrente passivo: si tratta di uno strumento con funzione monetaria, in quanto
permette al cliente di accedere al sistema dei pagamenti e dare mandato alla banca di
eseguire operazioni a valere sul proprio conto. Esso rende tecnicamente possibile il
regolamento degli scambi, prescindendo dal trasferimento di moneta legale e
impiegando, in sua sostituzione, scritture contabili, ossia moneta scritturale. Affinché possa
assolvere questa funzione, è fondamentale che il conto corrente passivo sia uno
strumento a vista, che può essere movimentato in qualsiasi momento. La remunerazione
per il cliente sarà minima: ciò che più interessa di questo strumento non è il suo
rendimento ma la sua economicità.
Le comunicazioni alla clientela
Esistono due tipologie principali di comunicazione alla clientela: l’estratto conto e il conto
scalare.
Estratto conto: si tratta di un documento riepilogativo, che riporta le operazioni transitate
sul c/c in base alla data di effettuazione (in ordine cronologico). Il cliente viene quindi
messo in grado di verificare l’esattezza delle singole operazioni, confrontando l’estratto
conto con i documenti in suo possesso. A partire da sinistra, nelle colonne dell’estratto
conto troviamo: data (la data di effettuazione dell’operazione); causale (la descrizione
dell’operazione); movimenti in dare e in avere (gli importi a debito e a credito); valuta
(attribuita dalla banca a ogni singola operazione). La valuta è molto importante perché
indica il giorno a partire dal quale le somme depositate cominciano a produrre interessi,
mentre le somme ritirate cessano di produrre interessi.
Conto scalare: si tratta di un documento riepilogativo che riporta le operazioni transitate
sul c/c in base alla valuta attribuita dalla banca. In tal modo si è in grado di determinare
l’importo e la durata dei saldi per valuta che si formano per effetto delle valute. Su tali
saldi per valuta si calcolano gli interessi dare o avere. A partire da sinistra, nelle colonne
del conto scalare troviamo: valuta; giorni (conteggiati come periodo intercorrente tra la
valuta di un’operazione e la valuta di quella successiva); causale; movimenti in dare e in
avere; saldo per valuta, o saldo disponibile (la somma di tutte le operazioni, che
rappresenta, sostanzialmente, ciò che è presente sul contro e che posso movimentare,
che non necessariamente coincide con il saldo contabile); numeri debitori e numeri
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creditori (prodotto dei saldi per valuta per i giorni, su cui si calcolano gli interessi a debito
o a credito).
Operazioni di impiego
I finanziamenti a breve termine
Apertura di credito in conto corrente: si tratta di un contratto in base al quale la banca,
previa valutazione dell’affidabilità dell’impresa, si impegna a mettere a disposizione del
cliente una somma di denaro, che egli può utilizzare con ampia discrezionalità, per un
periodo di tempo determinato o a tempo in determinato. In pratica, la banca mette a
disposizione un conto corrente sul quale il cliente è autorizzato ad andare in rosso e che,
generalmente, viene utilizzato per coprire fabbisogni finanziari di breve termine.
Tipicamente, le imprese utilizzano questa linea di credito per coprire il fabbisogno
finanziario legato al cosiddetto ciclo del circolante: infatti, all’interno di ogni impresa vi è
un certo arco temporale tra il momento in cui l’impresa incassa i ricavi di vendita e il
momento in cui deve pagare i fornitori, durante il quale il fabbisogno finanziario dovrà
essere coperto dall’utilizzo della linea di credito.
Dal momento che la banca eroga questa operazione con la finalità di coprire gli
scompensi di cassa, vigilerà affinché la linea di credito sia utilizzata in modo coerente con
le sue finalità. La banca perciò richiede:
- che ai prelevamenti si alternino versamenti;
- che prelevamenti e versamenti si alternino con elevata frequenza;
- che il saldo del conto sia periodicamente in avere.
In generale, la banca controllerà che la linea di fido sia effettivamente utilizzata, ossia che
il credito non diventi un’immobilizzazione e vigilerà sulla capacità di rientro dell’impresa.
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Sulle aperture di credito in conto corrente è nato un acceso dibattito: proprio in questo
periodo, il governo sta valutando se eliminare o meno le cosiddette commissioni di
massimo scoperto. Le commissioni di massimo scoperto sono interessi aggiuntivi rispetto
agli interessi che le banche applicano sugli scoperti, e che vengono calcolati sulla base
della massima posizione a debito che i clienti raggiungono in un trimestre. Già con le
disposizioni dei decreti Bersani del 2006, era stata prevista l’abolizione di queste
commissioni, che in realtà non erano poi state abolite, ma avevano semplicemente
mutato il proprio nome in commissioni per la messa a disposizione dei conti. Adesso il
governo ha nuovamente proposto di eliminare queste commissioni e le banche,
ovviamente, si sono ribellate.
I finanziamenti a medio-lungo termine
Sale and Leasback (contratti particolari di leasing): questa operazione è una variante del
leasing perché viene applicata a un bene che è già di proprietà dell’azienda, e che
questa decide di cedere a una società di leasing, incassando un ammontare pari al
prezzo di mercato del bene. Nella seconda fase, l’azienda venditrice diventa utilizzatrice
del bene, perché la società di leasing glielo concede sulla base di un contratto di
locazione, che prevede il pagamento di canoni periodici. Al termine, l’azienda potrà
decidere se riscattare il bene, pagando il prezzo di riscatto, oppure lasciarlo nella
disponibilità della società di leasing. Il vantaggio della cessione, per l’impresa, è quella di
mobilizzare un bene che compare interamente nel suo attivo patrimoniale: il bene non
comparirà più nell’attivo patrimoniale, ma comparirà il prezzo di mercato sotto forma di
cassa, di liquidità, che potrà essere utilizzata per coprire debiti pregressi.
08 marzo 2012
Funzione obiettivo degli investitori e dei prenditori di fondi
Dopo aver analizzato gli strumenti che possono essere utilizzati per soddisfare il bisogno di
finanziamento/investimento, bisogna capire quali sono le variabili rilevanti per gli
investitori, quando devono decidere come allocare il proprio denaro, e per i prenditori,
quando devono decidere quale strumento utilizzare per ottenere denaro.
Investitori
Per un investitore, la scelta del modo migliore per allocare il proprio denaro è funzione di
due variabili principali: il rischio, collocato sull’asse delle ascisse, e il rendimento, collocato
sull’asse delle ordinate. La scelta di posizionare il rischio sull’asse delle ascisse e il
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rendimento sull’asse delle ordinate
caratteristica dei possibili investimenti,
assunto. È infatti abbastanza intuitivo
interessi alti agli investitori se non li
rischiose.
non è arbitraria, ma dipende da una precisa
ossia il fatto che il rendimento è funzione del rischio
che nessun prenditore sarebbe disposto a pagare
coinvolgesse in operazioni potenzialmente molto
Per capire come si comporta un investitore, immaginiamo che esistano tre titoli con le
seguenti caratteristiche:
Prendiamo in considerazione il titolo A e il titolo B: come si evince dal grafico, A e B
presentano lo stesso livello di rischio, ma B offre un rendimento superiore. In una situazione
del genere, nessun investitore sceglierebbe il titolo A, e questo ci porta ad enunciare il
primo principio della teoria finanziaria.
Principio di non sazietà: a parità di altre condizioni (rischio), i risparmiatori
sceglieranno il titolo che offre un rendimento più alto (preferisco il “più” al “meno”).
B>A.
Tuttavia, in un mercato che funziona correttamente, chi è in possesso del titolo A
cercherà di venderlo per comprare il titolo B; in questo modo il prezzo di B sale e il suo
rendimento scende, mentre il prezzo di A scende e il suo rendimento sale. Perciò, si parte
da una condizione di squilibrio di partenza per arrivare all’equilibrio.
-
Ora confrontiamo il titolo B con il titolo C: i due titoli hanno lo stesso rendimento, ma il
titolo C è più volatile, più incerto. In una situazione di questo tipo, la stragrande
maggioranza degli investitori considererà C un titolo peggiore rispetto a B, dato che
generalmente il rischio è considerato una componente negativa. Questo ci porta ad
enunciare il secondo principio della teoria finanziaria.
Principio di avversione al rischio: a parità di altre condizioni (rendimento), gli
investitori sceglieranno il titolo che presenta il minor grado di volatilità. B>C.
Come abbiamo detto, questo principio caratterizza la maggioranza degli investitori, ma vi
sono alcune eccezioni. Esistono soggetti che vengono definiti neutrali al rischio, in quanto
l’unica variabile che interessa loro è il rendimento: per soggetti del genere, i titoli B e C
sarebbero equivalenti. Infine, vi sono soggetti che vengono definiti propensi al rischio o
amanti del rischio, che saranno addirittura disposti a pagare pur di rischiare (tipicamente,
i giocatori d’azzardo): per questi soggetti, il titolo C sarà preferibile al titolo B.
-
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Adesso consideriamo il titolo A e il titolo C. Il titolo A presenta poco rischio ma offre anche
poco rendimento; il titolo C, al contrario, presenta un alto livello di rischio ma offre anche
un rendimento notevolmente superiore. In questo caso, la scelta dipenderà dalla funzione
di utilità di ciascun investitore, ossia dal modo in cui ogni soggetto prezza il rischio. In
generale, dipenderà tutto dall’investitore e dal suo grado di avversione al rischio.
Definiremo il differenziale di rendimento, RC – RA, premio per il rischio: se l’investitore
considera il premio più che adeguato al rischio sceglierà il titolo C, se lo considera non
adeguato al rischio sceglierà A, mentre se considera il premio perfettamente
proporzionato al rischio, il titolo A e il titolo C saranno per lui equivalenti
Vi è poi una terza variabile che rientra nella funzione obiettivo dell’investitore: la liquidità.
La liquidità è definita come l’insieme dei tempi e dei costi necessari per trasformare
l’investimento in moneta. Un investimento, infatti, è sempre un’immobilizzazione del
risparmio.
La liquidità può essere declinata in varie tipologie:
liquidità naturale (scadenza): tanto più è breve la vita residua del titolo, tanto più
alta è la sua liquidità naturale;
- liquidità secondaria (mercato): la liquidità secondaria dipende dal fatto che ci
siano o meno mercati efficienti in cui gli investimenti possono essere smobilizzati
velocemente e senza grandi variazioni di prezzo.
A parità di altre condizioni, l’investitore preferirà titoli più liquidi, dal momento che la
liquidità è, in qualche modo, una particolare tipo di rischio.
-
Mettendo insieme queste tre variabili, andiamo a descrivere le diverse tipologie di
investimento.
Fonti di rischio (tipologie di investimento)
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Procedendo per livelli crescenti di rischio, e conseguentemente anche di rendimento,
possiamo individuare diverse tipologie di investimento.
Lo strumento che, convenzionalmente, costituisce il punto di partenza ed è considerato a
zero rischio è il Risk Free (RF). Questo strumento prende anche il nome di BOT (Buoni
Ordinari del Tesoro), in Italia, o di T-Bill (dove T sta per Tresury, mentre Bill è il termine usato
per indicare le obbligazioni a breve scadenza) nel resto del mondo. Si tratta di titoli di
investimento con scadenza inferiore o uguale ai 12 mesi. Dal momento che questo
strumento è considerato a zero rischio bisogna chiedersi perché preveda una
remunerazione. La ragione è che, in realtà, esiste una componente insita di rischio: dal
momento che viene remunerato il valore nominale, il rischio è l’inflazione attesa. Perciò, la
prima fonte di rischio è:
- rischio di inflazione: variazione del livello generale dei prezzi.
Tuttavia, affinché un investitore si lasci convincere ad utilizzare il denaro per acquistare
questo titolo anziché altri beni, è necessario che esso non gli garantisca solo la possibilità
di comprare lo stesso quantitativo di beni alla scadenza, ma che gli dia anche un minimo
di incentivo, ossia un po’ di rendimento reale. Perciò, il poco rendimento che i BOT offrono
può essere distinto in due componenti: remunerazione per inflazione e remunerazione
reale.
Ad un livello leggermente superiore rispetto ai titoli di Stato a breve termine, troviamo i
depositi bancari a scadenza equivalente. Il motivo per cui una banca, che raccoglie
denaro alla stessa scadenza del governo, è tenuta a remunerare gli investitori in maniera
maggiore è che questo tipo di investimento presenta anche una seconda componente
di rischio:
- rischio di credito, o di insolvenza.
Salendo ancora, troviamo i titoli di Stato a scadenza prolungata, che in Italia vengono
definiti BTP (Buoni del Tesoro Pluriennali), mentre a livello internazionale prendono il nome
di T-Bond. Si tratta di titoli di investimento con scadenza compresa tra i 5 e i 30 anni.
L’emittente dei T-Bond è lo stesso dei T-Bill e, in una situazione sufficientemente stabile, lo
Stato risulta praticamente privo di rischio di insolvenza. Il motivo per cui i T-Bond devono
essere più remunerativi dei T-Bill è che presentano un’ulteriore componente di rischio,
direttamente collegata alla scadenza prolungata:
- rischio di liquidità (naturale).
I T-Bond sono inoltre caratterizzati da un’ulteriore componente di rischio, anch’essa legata
alla scadenza prolungata. A tale proposito, bisogna ricordare che i BTP sono titoli a tasso
fisso, ossia stabilito l’importo della cedola, l’emittente continuerà a pagare tale importo su
base annua, fino alla scadenza. Tuttavia, i tassi di interesse di mercato variano, quindi è
possibile che il titolo paghi sempre lo stesso importo, sebbene il tasso di interesse di
mercato sia salito. Perciò, i titoli a lunga scadenza sono sottoposti anche al:
-
rischio di interesse.
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Procedendo ancora, troviamo la categoria dei Corporate Bond che, a livello di
scadenza, è confrontabile con quella dei BTP, dai quali però si differenzia per emittente: in
questo caso si tratta di imprese. Il motivo per cui un titolo emesso da un’impresa debba
rendere di più rispetto a un BTP con la stessa scadenza è lo stesso che determinava una
maggiore remunerazione dei depositi bancari rispetto ai BOT, ossia la componente de
rischio di credito.
In realtà, è opportuno ricordare che, tra le imprese, esistono prenditori di fondi molto sicuri
e prenditori di fondi meno sicuri. Per capire quanto rischio di credito sta assumendo, un
investitore deve valutare il rating dell’impresa che emette il titolo:
RATING
AAA
Investment Grade
BBB
BB
Specultative Grade
In particolare, è previsto uno spartiacque, dato dal livello di rating BBB: tutto ciò che sta
sopra alla tripla B prende il nome di Investment Grade, mentre ciò che sta sotto prende il
nome di Speculative Grade. Ciò significa che, acquistando un titolo emesso da un
impresa con un rating superiore o uguale alla tripla B, un investitore compie una scelta di
investimento, dal momento che la probabilità di insolvenza dell’impresa che emette il
titolo è ancora totalmente sotto controllo. Al contrario, investendo in un titolo emesso da
un’impresa con un rating inferiore alla tripla B, i rischi potenziali aumentano, e si entra
perciò in un’ottica più speculativa. Oltre alla minore probabilità di fallimento, un’impresa
con rating superiore alla tripla B avrà anche un ammontare attivo tale da poter assicurare
il pagamento degli investitori anche in caso di fallimento.
Salendo ulteriormente, troviamo le azioni “Blue Chps”, ossia i titoli azionari delle società più
grandi e più negoziate (in Italia sono, ad esempio, l’ENI, l’ENEL, la Fiat, l’Unicredit). Le
azioni emesse da queste società, pur essendo estremamente sicure dal punto di vista del
rischio di credito, remunerano maggiormente gli investitori proprio in quanto azioni. Infatti,
gli azionisti, a differenza degli obbligazionisti, non hanno diritto al rimborso: essi vengono
definiti residual claimants, il che significa che vengono pagati solo in maniera residuale,
dopo il pagamento di tutti gli obbligazionisti. La nuova componente di rischio che
individuiamo è:
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rischio di prezzo: il prezzo delle azioni varia e, non essendo prevista liquidità
naturale, più il prezzo è volatile e meno gli investitori sono in grado di prevedere
quale ammontare ricaveranno dalla vendita.
Salendo ancora di livello, troviamo la categoria delle azioni emesse dalla piccole e medie
imprese. In realtà, sarebbe opportuno distinguere tra piccole e medie imprese quotate e
non quotate, che appartengono alla categoria di Private Equity. Rispetto alle azioni “Blue
Chips”, queste azioni non presentano nuove componenti di rischio, ma vedono enfatizzati
tutti i rischi individuati in precedenza: una società piccola è molto più rischiosa sia dal
punto di vista del rischio di insolvenza, sia dal punto di vista del rischio di liquidità (se
l’impresa non è quotata, un investitore che intende vendere le azioni emesse da questa
impresa dovrà trovare un compratore sul mercato privato), sia dal punto di vista della
volatilità del prezzo.
-
Ancora oltre troviamo i titoli in valuta estera. In questo caso, a tutti i rischi base, si
aggiunge un’ultima componente di rischio:
- rischio di cambio.
I tassi di cambio e i prezzi dei mercati azionari tendono ad avere lo stesso livello di
volatilità, mentre i tassi di interesse sono meno volatili.
Prenditori di fondi
Per quanto riguarda i concetti di base, i prenditori di fondi sono grosso modo la figura
simmetrica degli investitori. Se un investitore ricerca il massimo rendimento a fronte del
minimo rischio, un prenditore di fondi ricercherà il minimo costo a fronte del minimo
rischio: massimo rendimento e minimo costo sono, ovviamente, due facce della stessa
medaglia.
Un prenditore di fondi, quindi, non sceglierà lo strumento con cui finanziarsi solo sulla base
del costo, ma anche sulla base dei rischi, che però non sono speculari rispetto a quelli
degli investitori. Ragionando su finanziamenti a medio-lungo termine, in cui il denaro
rimane vincolato per un periodo di tempo abbastanza lungo, il rischio passa per la
capacità del prenditore di fondi di controllare tutta una serie di aspetti contrattuali. In
particolare ricordiamo:
la durata: il prenditore di fondi deve valutare se lo strumento con cui si finanzia
garantisce con sicurezza che il denaro sarà a sua disposizione per una durata di
tempo stabilita. Se il prenditore di fondi non controlla il finanziatore, egli potrà
decidere, in qualunque momento, di ritirare il finanziamento;
- il costo: bisogna valutare se è il prenditore di fondi o il finanziatore a stabilire il costo
complessivo del finanziamento;
- la governance: il prenditore di fondi deve valutare quanto lo strumento emesso
può influenzare l’assetto proprietario dell’impresa.
Procedendo per categorie, esistono tre principali forme attraverso cui un prenditore può
ottenere dei fondi:
-
-
obbligazioni;
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- finanziamenti bancari;
- azioni.
La seguente tabella mostra il controllo dell’impresa sulla durata, sul costo e sulla
governance per ciascuna tipologia:
OBBLIGAZIONI
DURATA
COSTO
GOVERNANCE
MEDIO – ALTO
BASSO
MEDIO – ALTO
FINANZIAMENTI
BANCARI
MEDIO – BASSO
MEDIO –ALTO
MEDIO – BASSO
AZIONI
ALTO
ALTO
BASSO
Durata:
per quanto riguarda le azioni non è prevista una scadenza, perciò il controllo sulla
durata sarà massimo;
le obbligazioni prevedono che l’emittente rimborsi il denaro ricevuto alla scadenza.
Tuttavia, quando il titolo viene emesso, gli obbligazionisti tendono a considerare se
il contratto prevede o meno condizioni che permettano di chiedere il rimborso
anticipato in caso di eventi imprevisti. Perciò, in condizioni normali il controllo sarà
alto, ma l’impresa non sarà mai in grado di prevedere tutto;
i finanziamenti bancari sono strumenti di tipo bilaterale, in cui, normalmente, la
banca finanziatrice inserisce la clausola “salvo revoca” o “fino a revoca”. Il diritto
di revoca può essere esercitato sulla base di criteri oggettivi, ma, in una situazione
come quella attuale, viene esercitato molto pesantemente. Il controllo sarà perciò
medio in momenti di stabilità e basso in momenti di criticità.
-
-
Costo:
per quanto riguarda le obbligazioni, il controllo sul costo è praticamente
inesistente, perché il prenditore di fondi pagherà la cedola stabilita fino a
scadenza;
- i finanziamenti bancari, generalmente, sono più flessibili dal punto di vista dei costi
rispetto alla raccolta obbligazionaria: le imprese, normalmente, ottengono linee di
credito revolving e gli interessi sono pagati soltanto sulla quota utilizzata. Tuttavia, il
livello di controllo non è massimo perché, alla fine dei conti, il tasso di interesse è
stabilito dalla banca;
- il costo della azioni, invece, è controllato in maniera totale, dato che i dividendi
saranno pagati soltanto se viene realizzato un utile e se l’impresa decide di
distribuire quell’utile.
Governance:
-
-
-
l’emissioni di azioni provoca un cambiamento della struttura del passivo in maniera
definitiva: gli azionisti entrano di diritto al comando delle imprese, perciò l’impatto
sulla governance sarà massimo, mentre il controllo da parte dell’impresa sarà
minimo;
le obbligazioni, per una serie di ragioni contrattuali, hanno un impatto sul passivo
solo temporaneo, che si esaurisce al momento del rimborso. Ciò che bisogna
valutare, quindi, è l’impatto sulla governance prima del rimborso: gli obbligazionisti,
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-
generalmente, sono tanti e piccoli e difficilmente riusciranno ad accordarsi per
impattare significativamente sulla governance, perciò il controllo dell’impresa sarà
piuttosto alto;
se l’impresa ottiene fondi attraverso i finanziamenti bancari e la situazione
comincia a non essere favorevole, la banca ha un maggiore potere di controllo
sulle imprese, ossia potrà premere affinché adotti determinati comportamenti.
L’impresa, quindi, non eserciterà un controllo totalmente basso, ma quantomeno
medio-basso.
13 marzo 2012
Gli strumenti di pagamento e del mercato monetario
È sensato parlare di strumenti di pagamento e di strumenti del mercato monetario, dal
momento che il mercato monetario è logicamente e sostanzialmente collegato al tema
dei pagamenti, vedremo poi in che modo.
Esistono tante chiavi di lettura per trattare il tema dei pagamenti e andremo a vederne
alcune.
Il concetto di moneta dal punto di vista del regolatore (Banca Centrale)
Nella prospettiva del regolatore, la moneta assume connotazioni diverse a seconda degli
elementi che vengono inseriti all’interno del contenitore monetario che si va a costituire.
Ci limiteremo a considerare i primi tre livelli di moneta, che sono anche i più importanti:
M1, M2, M3.
M1
M2
M3
Circolante (banconote + moneta)
Depositi interbancari overnight (12 ore)
Depositi bancari ≤ 2 mesi
Depositi bancari ≤ 3 mesi
Operazioni pronti contro termine
Quote di fondi monetari
Titoli di stato a scadenza < 2 anni
M1: contiene il circolante (banconote + moneta) e i depositi interbancari overnight (12
ore). Le banche scambiano tra loro depositi a tempo, la cui durata più breve è proprio
l’overnight.
M2: è un aggregato più ampio, che contiene gli elementi contenuti in M1 e alcune altre
voci relative a depositi con caratteristiche via via meno liquide, pur rimanendo
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nell’ambito di una liquidità naturale molto ampia. Queste voci sono i depositi bancari con
scadenza inferiore ai 2 mesi e i depositi bancari con scadenza inferiore ai 3 mesi.
M3: contiene tutti gli elementi già presenti in M1 M2, ma anche depositi o investimenti con
scadenza più lunga. Il primo elemento aggiuntivo sono le operazioni di pronti contro
termine (con scadenza inferiore ai 12 mesi). Troviamo poi le quote di fondi monetari: i
fondi monetari sono fondi comuni di investimento specializzati in investimenti a breve
termine, con scadenza inferiore a 12 mesi. Infine, troviamo i titoli di Stato con scadenza
inferiore ai 2 anni. Vediamo, quindi, che il terzo contenitore ospita strumenti con scadenze
sempre relativamente brevi, ma comunque più prolungate.
La Banca Centrale tiene sotto controllo gli aggregati monetari per controllare l’inflazione
e, in particolare, l’aggregato monetario target per le osservazioni, ossia l’aggregato più
controllato, è M3.
Il concetto di moneta dal punto di vista degli strumenti di pagamento
Il secondo modo di guardare al tema della moneta ha a che fare con gli strumenti di
pagamento, ossia con le modalità attraverso cui la banca trasferisce il denaro nello
spazio. A tale proposito, ricordiamo il concetto di moneta scritturale, in contrapposizione
con quello di moneta legale: si parla di moneta scritturale perché i pagamenti
avvengono attraverso scritture contabili che ruotano intorno allo strumento del conto
corrente. Il conto corrente, quindi, è l’origine di tutti gli strumenti di pagamento cui
possiamo pensare.
Gli strumenti di pagamento che possono essere attivati vengono classificati sulla base del
soggetto detentore del conto corrente. In particolare, distinguiamo tra:
privati, o famiglie (a prescindere dal reddito);
imprese (intese come tutti i soggetti non privati, comprese le Pubbliche
Amministrazioni).
Tale classificazione viene utilizzata sulla base di una prassi dettata dalla necessità: infatti,
gli strumenti utilizzati da una delle due parti sono insensati per l’altra, sebbene non ci sia
nessun divieto che impedisce alle famiglie di utilizzare gli strumenti diffusi tra le imprese e
viceversa.
-
Ricordiamo, inoltre, che esistono strumenti indistinti, utilizzati sia dai privati che dalle
imprese: i bonifici e gli assegni. Nell’ambito dei bonifici, ricordiamo anche che esiste una
forma di pagamento ricorsivo, che prende il nome di RID: si tratta di un bonifico
automatizzato, ripetuto, ossia di una serie di bonifici nell’ambito di un singolo contratto.
Per quanto riguarda gli assegni, osserviamo invece che, in certi ambiti, si preferisce far
ricorso a strumenti di tipo cartaceo anziché telematico: in Francia, ad esempio, lo
strumento dell’assegno viene ancora utilizzato intensivamente.
Prima di approfondire il tema degli strumenti utilizzati dalle famiglie e dalle imprese, è
opportuno ricordare che l’Italia è il Paese che effettua il tasso di pagamenti in moneta
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legale più alto: ciò significa che, dal punto di vista degli strumenti di pagamento, siamo
molto arretrati rispetto al resto del mondo. Questa precisazione è opportuna perché,
quando si parla di pagamenti, in realtà si parla di tecnologia: il pagamento di per sé è
molto semplice; ciò che conta è il modo in cui il pagamento viene effettuato (e ancora
oggi, il bonifico è la forma di pagamento più avanzata nel nostro Paese).
Strumenti per privati
-
Carte di pagamento( POS – Point Of Sale): sono le carte utilizzabili nei POS, che,
spiegato in maniera molto basilare, sono le macchine in cui vengono strisciate le
carte. La carte di pagamento possono essere di due tipi:
 carte di debito, in cui si ha l’immediato addebito in conto della somma pagata;
 carte di credito, che prevedono l’addebito in data futura (ciascun fornitore di
carte di credito stabilirà la sua data di addebito).
Strumenti per imprese
Parlando di imprese, dobbiamo innanzitutto ricordare che possiamo trovare strumenti che
le imprese utilizzano con la clientela e strumenti che le imprese utilizzano tra loro: BTC
(Business To Consumer) o BTB (Business To Business).
Fatta questa precisazione distinguiamo tra strumenti:
domestici, ossia utilizzati all’interno del Paese di appartenenza dell’impresa. Essi si
dividono in:
 BTC – mav - mediante avviso;
 BTB – RIBA.
- internazionali, ossia utilizzati
per regolare scambi al di fuori del Paese di
appartenenza dell’impresa. Tipicamente si tratta di strumenti BTB (è raro che
un’impresa venda direttamente alla clientela di un Paese straniero; più
frequentemente venderà a un’altra impresa situata in quel Paese, che poi entrerà
in contatto con i clienti finali).
Analizziamo più dettagliatamente i singoli strumenti.
-
Mav (mediante avviso): si tratta di una procedura di pagamento attraverso cui il soggetto
che deve pagare viene avvisato del pagamento da effettuare (generalmente, si usa il
sistema postale per recapitare l’avviso indicante la somma dovuta). La principale
caratteristica di questo strumento è quella di non prevedere la preventiva domiciliazione
del pagamento: ciò significa che il pagatore, dopo aver ricevuto l’avviso, può recarsi
presso qualsiasi sportello bancario o postale ed effettuare il pagamento senza alcun
costo aggiuntivo rispetto a quelli previsti nell’avviso (la commissione viene pagata a
monte dal soggetto fornitore del servizio che deve ricevere il pagamento). Il pagatore
può anche consegnare l’avviso alla banca affinché questa attivi il bonifico per pagare il
fornitore, ritornando quindi su uno strumento standard. In ogni caso, la mancanza di
domiciliazione lo rende uno strumento particolarmente gradito ai privati, che possono
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pagare anche se non dispongono di un conto corrente o si trovano lontani dal luogo di
residenza.
RIBA (ricevuta bancaria): la RIBA è uno strumento di pagamento puro, in cui non è insita
alcuna componente creditizia (cosa che invece accade, ad esempio, con la cambiale),
con cui le imprese sono solite effettuare pagamenti tra di loro. La RIBA viene predisposta
dall’azienda fornitrice, che emette la ricevuta, su cui sono indicati gli estremi che hanno
dato origine alla necessità di effettuare il pagamento e la somma che deve essere
pagata, e la invia all’acquirente, come accadeva per il mav. Ciò che cambia rispetto al
mav è che la ricevuta riporta anche l’indicazione delle due banche presso cui
l’operazione deve avere luogo: una è la banca del pagamento, l’altra è la banca del
beneficiario. Si parla di banca del pagamento e non del pagatore perché la banca
presso cui il pagamento può avvenire è una banca qualsiasi, e non necessariamente la
banca presso cui il pagatore detiene il conto, sebbene spesso venga scelta quest’ultima.
Il pagatore, quindi, può pagare solo presso la banca indicata, alla quale dovrà rilasciare
la ricevuta, contenente tutte le informazioni relative alla banca su cui accreditare i fondi.
Pertanto, il pagamento si perfeziona con la consegna della ricevuta alla banca.
Per quanto riguarda gli strumenti utilizzati per regolare gli scambi internazionali, è
opportuno prendere in considerazione alcuni elementi che risultavano invece irrilevanti
per gli strumenti destinati agli scambi domestici. Innanzitutto, quando si opera in campo
internazionale, è possibile che gli interlocutori parlino lingue diverse e facciano riferimento
a diritti diversi. Perciò è possibile che lo stesso strumento, in due Paesi diversi, conferisca
diritti contrattuali differenti. A questo problema ha posto rimedio la Camera di
Commercio Internazionale, che ha ideato una serie di “istruzioni”, che prendono il nome
di Norme e Usi Uniformi, che fanno sì che un determinato strumento utilizzato in Italia trovi il
suo corrispettivo in un altro Paese, e che entrambi gli strumenti attribuiscano gli stessi diritti.
I due strumenti più usati per i pagamenti internazionali, usando il nome italiano, sono:
- le Rimesse documentarie;
- i Crediti documentari.
Questi due strumenti risultano profondamente diversi dal punto di vista della tutela
dell’esportatore, ma hanno in comune il fatto che il pagamento si perfezioni attraverso la
consegna dei documenti. Questi possono essere documenti commerciali, certificati
d’origine, documenti di trasporto, di assicurazione ecc… e possono essere recapitati
insieme alla merce o separatamente.
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Rimessa documentaria
Ci troviamo di fronte a due figure, quella dell’esportatore e quella dell’importatore. La
prima fase consiste nell’invio delle merci dall’esportatore all’importatore e,
contemporaneamente, nell’invio dei documenti ad una banca che, tipicamente, si trova
nel Paese dell’esportatore. In un secondo momento, la banca dell’esportatore trasferisce
i documenti a una banca situata nel Paese dell’importatore, mentre, in contemporanea,
le merci si spostano da un Paese all’altro. Nella terza fase, la banca dell’importatore
avviserà quest’ultimo dell’arrivo dei documenti. La rimessa documentaria assume quindi
la fattispecie di documenti contro pagamento, ossia l’importatore paga la propria banca
e ottiene in cambio i documenti con cui potrà legittimamente ritirare le merci. A questo
punto, la banca dell’importatore trasferisce il pagamento alla banca dell’esportatore,
che, a sua volta, accrediterà il conto del suo cliente.
Lo stesso schema si può presentare in caso di pagamento con cambiale, con l’unica
differenza che la rimessa documentaria assume la fattispecie di documenti contro
accettazione e la banca dell’esportatore non riceverà il pagamento ma la cambiale
firmata.
In ogni caso, con la rimessa documentaria, le banche si limitano a svolgere il ruolo di
“postini”, offrendo la loro rete di comunicazione alla due parti.
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Credito documentario
A differenza di quanto avveniva con la rimessa, per il credito documentario (che esisterà
anch’esso nella forma di documenti contro pagamento/accettazione), bisogna
distinguere due fasi:
- l’apertura del credito documentario;
- l’utilizzo del credito documentario.
Le due parti stabiliscono che il pagamento avverrà attraverso l’apertura di un credito
documentario a favore dell’esportatore, perciò il contratto commerciale si perfezionerà
quando l’esportatore riceve l’avviso dell’apertura del credito documentario. Quindi, nella
fase di apertura, l’importatore, su iniziativa propria, chiederà alla propria banca, che
prende il nome di banca emittente e che tipicamente è una banca del suo Paese, di
aprire un credito documentario a favore dell’esportatore. In pratica, l’importatore chiede
alla banca emittente di garantire per lui, assicurando che il pagamento avverrà: deve
quindi nascere una linea di credito tra la banca emittente e l’importatore perché, alla
base di tutto, c’è il credito che la banca concede all’importatore stesso. Tuttavia,
all’esportatore non interessa la nascita di questa linea di credito: semplicemente, gli
interessa sapere che non sarà più l’importatore a pagarlo, bensì la banca che ha aperto il
credito documentario. A questo punto, la banca emittente comunicherà l’avvenuta
apertura del credito documentario ad una banca, che prende il nome di banca
avvisante e che tipicamente è la banca dell’esportatore. Questa, a sua volta, avviserà
l’esportatore dell’avvenuta apertura. Una volta ricevuto l’avviso, si perfezionerà anche il
contratto commerciale, e l’esportatore risulterà obbligato a inviare le merci.
Nella fase di utilizzo del credito documentario troviamo le due figure dell’esportatore e
dell’importatore, le merci che si muovo dall’uno all’altro e le modalità di utilizzo del
credito documentario, che prende questo nome perché può essere utilizzato solo
attraverso la consegna dei documenti. L’esportatore invierà le merci e
contemporaneamente, invierà i documenti alla banca avvisante, che ha il compito di
verificare che tali documenti siano in ordine. Se non viene riscontrata alcuna irregolarità,
la banca avvisante paga l’esportatore e invia i documenti alla banca emittente, la quale
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effettuerà il pagamento finale a favore della banca avvisante che le aveva anticipato il
denaro. La banca avvisante, quindi, è solo un tramite che anticipa l’azione della banca
emittente. A questo punto, il credito documentario viene chiuso. Successivamente,
l’importatore riceverà i documenti e dovrà rimborsare la propria banca ma le modalità
con cui avverrà il rimborso non sono oggetto dello scambio.
È importante osservare che nel credito documentario le controparti della fase
commerciale sono diverse dalle controparti della fase finanziaria: le prime sono
l’esportatore e l’importatore, mentre le secondo sono l’esportatore e la banca emittente.
Il credito documentario rappresenta la massima tutela cui l’esportatore può aspirare: il
pagamento non solo è garantito dalla banca emittente, ma viene anche anticipato
dalla banca avvisante, che quindi assume in solido l’impegno a pagare. Tuttavia, questo
strumento viene utilizzato solo nel caso di transazioni con nuovi clienti o clienti situati in
Paesi sostanzialmente problematici, perché si tratta di uno strumento costoso. Il costo
dell’apertura del credito documentario, in realtà, è a carico dell’importatore, ma se
questi ha un certo potere contrattuale riesce, almeno in parte, a farsi rimborsare il costo
attraverso il prezzo di vendita.
I sistemi di pagamento
Nel momento in cui le forme di pagamento che abbiamo visto o altre ancora vengono
attivate su banche diverse è fondamentale che queste riescano a comunicare tra loro: si
parla di sistemi di pagamento per indicare i vari modi attraverso cui le banche dialogano.
Affinché possa avvenire questo dialogo è necessario che si sviluppino sistemi organizzativi
adeguati, che vengono gestiti dalle banche centrali dei vari Paesi.
A seconda del tipo di operazione di pagamento sottostante, il dialogo tra le banche
avviene utilizzando due diversi circuiti:
- BI-COMP: sistema di compensazione;
- BI-REL: sistema di regolamento lordo (in tempo reale).
Con il sistema BI-COMP vengono trasferiti solo i saldi, che sono di tipo multilaterale. Per
semplicità cominciamo con l’ipotizzare una situazione bilaterale: due banche, ad
esempio Unicredit e Intesa, mettono in atto una serie di operazioni che coinvolgono
contemporaneamente i clienti dell’una e dell’altra parte. Alcune di queste operazioni
avranno un determinato segno, mentre le altre avranno segno opposto. Una o più volte al
giorno si blocca la situazione e si somma tutto ciò che Unicredit dovrebbe a Intesa e tutto
ciò che Unicredit dovrebbe invece ricevere da Intesa. Stabiliti i due importi, verrà
calcolato il saldo e solo l’importo del saldo sarà trasferito. Successivamente, saranno le
singole banche che dovranno agire per far quadrare i conti dei propri clienti. In questo
modo, i trasferimenti non avvengono in tempo reale, bensì dopo un certo periodo di
tempo. Ora dobbiamo eliminare la semplificazione iniziale, dal momento che, oggi, il
sistema di compensazione è multilaterale, e non bilaterale. In pratica, bisogna calcolare
tutto ciò che una banca deve trasferire alle altre banche e tutto ciò che il sistema deve
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trasferire alla banca. In questo modo si capisce subito se una banca deve ricevere
denaro o pagare e verrà trasferito solo il saldo. Questo sistema si utilizza per operazioni di
piccolo importo, ossia per operazioni al dettaglio, la cui regolazione singola sarebbe
troppo complessa e costosa.
Con il sistema BI-REL, invece, i trasferimenti vengono effettuati in tempo reale: nel
momento in cui si manifesta la necessità di effettuare un trasferimento, quello avviene
immediatamente e su basi lorde, a prescindere dal fatto che, nell’istante successivo,
possono manifestarsi operazioni di segno opposto. Questo sistema si usa per i pagamenti
all’ingrosso.
Gli strumenti del mercato monetario
Gli strumenti del mercato monetario presentano alcune caratteristiche:
hanno scadenza ridotta (inferiore a 12 mesi): è l’elemento che permette di definirli;
sono emessi da emittenti di alta qualità, ossia con alto standing creditizio: il
mercato monetario è un mercato “aristocratico”, a cui non hanno accesso tutti i
possibili emittenti;
- vengono emessi con tagli unitari elevati (ad eccezione dei BOT): si tratta quindi di
un mercato in cui agiscono prevalentemente grandi operatori, sia dal punto di
vista degli emittenti che degli investitori. Il BOT è l’unico strumento di mercato
monetario effettivamente disponibile per i piccoli investitori; tutti gli altri strumenti,
sebbene non siano molto diffusi nel nostro Paese, sono raggiungibili esclusivamente
dai grandi investitori.
A questo punto bisogna capire perché gli emittenti raccolgono denaro a breve
scadenza, mentre gli investitori domandano questi strumenti.
-
Motivazioni degli emittenti
Vi sono varie ragioni per cui un emittente può decidere di raccogliere denaro a breve
termine. Innanzitutto, un emittente può dover rispondere a fabbisogni finanziari di breve
termine, come il finanziamento del ciclo produttivo. Questi fabbisogni, in ultima istanza,
sono bisogni di pagamento.
Inoltre, un emittente può decidere di raccogliere denaro a breve termine per gestire gli
squilibri tra entrate e uscite. Anche in questo caso si parla più di bisogno di pagamento
che di investimento.
Una motivazione che invece si avvicina di più al bisogno di investimento, è la volontà di
utilizzare questi finanziamenti in qualità di finanziamenti ponte. La necessità di ricorrere ai
finanziamenti ponte sorge quando si manifestano fabbisogni finanziari di natura
prolungata che devono essere soddisfatti il prima possibile. L’organizzazione della
raccolta di capitale a più lungo termine è molto articolata e richiede tempi piuttosto
lunghi, che poco si prestano all’immediata soddisfazione dei bisogni. In questo caso, si
farà ricorso ai più agili finanziamenti a breve termine, nell’attesa di riuscire ad ottenere un
finanziamento a lunga scadenza.
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I finanziamenti a breve termine sono più agili e veloci da ottenere perché,
tendenzialmente, la breve scadenza rende più facile valutarli e prevedere la capacità di
rimborso; inoltre bisogna considerare il fatto che solo gli emittenti di alta qualità
accedono a questo mercato, cosa che garantisce una certa affidabilità; infine, i tagli
unitari elevati fanno sì che si riescano a raccogliere pochi e grandi importi presso pochi e
grandi investitori.
Motivazioni degli investitori
Gli investitori operano sul mercato monetario per vari motivi. Innanzitutto, possono essere
spinti dalla volontà di ricercare investimenti poco rischiosi: il basso rischio deriva dal fatto
che gli emittenti sono di buona qualità e, in parte, anche dalla ridotta scadenza, che
garantisce una liquidità naturale molto alta e una minore esposizione al rischio di
interesse.
Una seconda motivazione può essere quella di “posteggio temporaneo”: in questo caso,
la motivazione ultima non è quella di investire nelle attività meno rischiose presenti sul
mercato, anzi, il vero fine è quello di investire in attività più remunerative. Tuttavia, in casi
di eccessiva volatilità del mercato e di eccessiva incertezza interpretativa, gli investitori
possono decidere di aspettare prima di prendere una decisione a lungo termine; in attesa
che la situazione si calmi possono quindi decidere di mantenere il denaro in forma quasi
liquida e comunque fruttifera, sebbene in misura minore. Non appena l’investitore avrà
chiaro come agire, smonterà l’investimento monetario, sempre che non sia già scaduto,
per occuparsi di investimenti più strutturati.
Classificazione per tipologia di emittente
TESORO
T-Bill = BOT
(3, 6, 12 mesi)
metà
fine
BANCHE
Operazioni (depositi)
Accettazioni
interbancarie
bancarie
P/T
mese mese
deposito
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Cambiali
finanziarie
Certificati di
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IMPRESE
Gli emittenti degli strumenti del mercato monetario possono essere suddivisi in tre
principali categorie:
- Tesoro (Stato);
- Banche;
- Imprese.
Lo strumento di mercato monetario per eccellenza è quello emesso dal Tesoro, il T-Bill, o
BOT (Buoni Ordinari del Tesoro), con scadenza a 3, 6 o 12 mesi. Il Tesoro segue una
scaletta nota e ricorsiva di emissione dei titoli di Stato: i BOT a scadenza 3 e 6 mesi
vengono emessi ogni mese a metà mese; i BOT a scadenza 12 mesi vengono emessi ogni
mese a fine mese. Vedremo le caratteristiche tecniche dei BOT parlando dei titoli
obbligazionari, siccome i BOT, in realtà, rientrano in questa categoria.
I principali strumenti del mercato monetario emessi dalle banche sono tre:
- operazioni (o depositi) interbancarie;
- operazioni di pronti contro termine;
- certificati di deposito.
Gli strumenti più utilizzato sono i primi due, mentre i certificati di deposito, soprattutto a
causa del regime fiscale penalizzante del nostro Paese, vengono usati raramente.
I principali strumenti del mercato monetario emessi dalle imprese sono:
- accettazioni bancarie;
- cambiali finanziarie.
Questi strumenti non vengono usati da nessuna impresa italiana, dato che la normativa
ha creato prodotti poco efficienti, non graditi né alle imprese emittenti né agli investitori.
Ciò non significa che le imprese italiane non si finanzino a breve termine, ma
semplicemente che non hanno un loro canale di mercato, perciò sono costrette a
ricorrere al canale bancario e lo strumento principe da loro utilizzato è l’anticipo in conto
corrente. Tuttavia, questo strumento non risulta ottimale, perché moto oneroso.
Nel resto del mondo, invece, lo strumento corrispondente alle cambiali finanziarie, che
prende il nome di commercial paper, viene utilizzato molto frequentemente, grazie
all’esistenza di un fiorente, liquido, efficiente e poco costoso mercato cui le imprese
possono accedere. La mancanza di un mercato del genere costituisce un grosso
handicap per le imprese italiane.
Depositi interbancari
Parlando di depositi interbancari incontriamo per la prima volta un mercato di dealer, in
cui vale il principio del “two-way quotation system”, ossia si tratta di un mercato in cui, per
ogni bene, vengono fissati due prezzi. All’interno di questo mercato troviamo un dealer
che, scadenza per scadenza, presenta i prezzi a cui è disposto a raccogliere e a
concedere depositi. Nel linguaggio comune, siamo abituati a pensare al deposito come
al versamento in banca di una somma di denaro, oppure come alla banca che
raccoglie denaro, perciò dobbiamo ricordare un passaggio terminologico: si parla di
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depositi passivi per indicare l’azione di “prendere liquidità”, mentre si parla di depositi
attivi per indicare l’azione di “dare liquidità”.
Il tasso a cui il dealer raccoglie liquidità prende il nome di tasso denaro, o BID. Il tasso a
cui il dealer concede liquidità, invece, prende il nome di tasso lettera, o tasso offer/ask in
inglese. Le banche, quindi, sono clienti del dealer: se la banca ha liquidità in eccesso
investirà presso il dealer, che la remunererà al tasso denaro; se la banca ha bisogno di
liquidità, invece, si finanzierà presso il dealer al tasso lettera.
I tassi interbancari maggiormente conosciuti sono il tasso Libor e il tasso Euribor: il tasso
Libor è il tasso a cui il mercato interbancario più importante al mondo, quello di Londra,
offre liquidità in tutte le valute; il tasso Euribor è il tasso di riferimento per le operazioni
interbancarie in euro e, tipicamente, viene fissato a Francoforte.
Il mercato interbancario, quindi, è un vero e proprio mercato di deposito, in cui i depositi
concessi dalle banche sono vincolati anche se a scadenza brevissima. Il nome dei diversi
depositi viene attribuito in funzione della durata: ad esempio, prendono il nome di
overnight i depositi con scadenza a 12 ore. Tra gli altri, ricordiamo solo il tomorrownext, o
tom-next, che si riferisce ai depositi con scadenza a 24 ore, ma a partire da t 1, ossia dal
giorno seguente.
I depositi interbancari sono un tipico strumento con cui le banche operano e il loro
collegamento con i pagamenti è molto forte: infatti, la liquidità circola in funzione degli
squilibri tra entrate e uscite, che si verificano a seguito delle operazioni svolte all’interno
del sistema dei pagamenti. Se il mercato interbancario non esistesse, le banche
sarebbero costrette a tenere in forma liquida una quota eccessiva dei depositi che
raccolgono.
Il mercato interbancario, quindi, è uno strumento fondamentale per le banche, che a
lungo l’hanno considerato una fonte inesauribile di denaro, qualora si presentasse la
necessità di raccogliere liquidità. Questo ha portato le banche ad utilizzare il mercato
interbancario in maniera sempre più intensiva e non più solo per la finalità con cui era
nato, ossia bilanciare gli squilibri di liquidità, bensì anche per costruire un attivo
immobilizzato, supportato da raccolta interbancaria anziché da raccolta stabile. In
questo modo, la banche si trovavano ad avere operazioni poco liquide all’attivo a fronte
di una raccolta molto liquida al passivo. Per questo, nel 2008, ha cominciato a diffondersi
il timore che la qualità dell’attivo delle banche fosse degenerata molto e il mercato
interbancario ha praticamente cessato la propria attività, dal momento che i vari istituiti
bancari non si fidavano più l’uno dell’altro e, per finanziarsi reciprocamente, chiedevano
interessi troppo elevati. Questo episodio ebbe gravi ripercussioni sulle banche, cosa che
mette in evidenza l’importanza del mercato interbancario: se questo mercato non
funziona correttamente può mettere in crisi le modalità attraverso cui le banche reggono
la propria attività.
Il mercato interbancario è un mercato spontaneo, organizzato dagli intermediari stessi, e
nel nostro Paese funziona in maniera eccellente, tanto che il modello italiano è stato
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esportato anche in altre realtà. Il modello italiano prende il nome di e-MID ed è costituito
da una piattaforma telematica in cui i prezzi vengono quotati e gli operatori che hanno
liquidità da dare/prendere possono interfacciarsi. Il sistema e-MID, come tutti i sistemi
interbancari italiani, è strettamente collegato con il sistema dei pagamenti, in particolare
con il segmento BI-REL, dal momento che la liquidità deve arrivare immediatamente,
operazione per operazione. È anche opportuno ricordare che i vari sistemi REL a livello
europeo sono collegati tra loro: le banche italiane non si rapportano solo tra di loro per
dare o prendere denaro, ma, tendenzialmente, gli scambi avvengono tra tutte le
banche dell’area euro, che quindi devono essere fortemente connesse l’una con l’altra.
Pronti contro Termine (P/T)
Dal punto di vista del funzionamento, i Pronti contro Termine seguono lo schema delle
operazioni di Pronti contro Termine che hanno luogo quando le banche hanno bisogno di
rifinanziarsi presso la Banca Centrale, con la differenza che le controparti dell’operazione
sono una banca e un soggetto diverso dalla Banca Centrale, che può essere un’altra
banca o un operatore non finanziario.
Il termine P/T, o REPO (Repurchase Agreement) in inglese, sta ad indicare due operazioni
di segno contrario, una a pronti e una a termine. Quindi, l’operazione di P/T è
un’operazione di vendita (o di acquisto) di titoli a pronti e, contestualmente, di acquisto
(o di vendita) di titoli della stessa specie a termine. Il riacquisto (o la vendita) a termine
viene effettuata al prezzo stabilito oggi, a pronti.
Si parla di acquisto di un P/T quando si acquista liquidità, ossia quando si vende il titolo a
pronti e lo si riacquista a termine. Si parla invece di vendita di un P/T quando si vende
liquidità, ossia quando si acquista il titolo a pronti e lo si vende a termine. Ciò che interessa
è il tipo di posizione contrattuale che si va ad assumere.
I P/T sono da sempre operazioni importanti per le banche, ma, dal 2008, quando le
banche hanno cominciato a fidarsi meno l’una dell’altra, hanno acquistato ancora più
importanza.
Il titolo che sta alla base dell’operazione di P/T svolge il ruolo di garanzia: in un’operazione
di questo tipo, il rischio di credito ricade sul venditore (ossia chi ha concesso liquidità e ha
acquistato il titolo), perché l’acquirente (ossia chi ha comprato liquidità e venduto il titolo)
potrebbe non essere in grado di rimborsare la somma dovuta alla scadenza, ossia di
riacquistare il titolo. Se questa situazione si verifica, i titoli restano di proprietà del
venditore, in modo da tutelare maggiormente chi ha concesso liquidità.
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Le obbligazioni
Classificazione per tipologia di emittente
Classificando le obbligazioni per tipologia di emittente troviamo:
-
-
titoli di Stato (emittente: Stato): nel nostro Paese sono BOT, CTZ, BTP, CCT;
Corporate Bond (emittente: società): all’interno di questa categoria troviamo
diversi tipi di obbligazioni che si differenziano tra loro sia per caratteristiche tecnicofinanziarie sia, soprattutto, per il rating dell’impresa emittente. Tra i soggetti non
pubblici, riveste un ruolo importante l’emittente bancario, tanto che spesso si
tende a distinguere il comparto delle obbligazioni bancarie. Le obbligazioni
bancarie sono poco consuete dal punto di vista della struttura finanziaria: spesso
assumono le caratteristiche delle obbligazioni strutturate (una combinazione di
obbligazioni e derivati). Questo strumento, che veniva sempre prezzato a
svantaggio del risparmiatore finale, fortunatamente oggi è sempre meno utilizzato
dalle banche italiane;
obbligazioni internazionali: la classificazione per tipologia di emittente non è
proprio corretta per questa categoria ma era il modo migliore per inserirla. Le due
tipologie precedenti facevano riferimento a operazioni pensate prevalentemente
per i mercati domestici, mentre queste fanno riferimento ai mercati internazionali.
L’elemento qualificante, in questo caso, non è chi emette, ma come e dove si
emette.
Troviamo due tipi principali di obbligazioni internazionali: gli Eurobonds e i Foreign
bonds. Gli Eurobonds sono obbligazioni emesse prevalentemente, se non
esclusivamente, al di fuori del Paese in cui la valuta di denominazione ha corso
regale. Per fare un esempio esplicativo, possiamo pensare a obbligazioni
denominate in dollari che, all’emissione, vengono collocate prevalentemente al di
fuori degli Stati Uniti. L’emittente può essere statunitense così come di qualsiasi altro
Paese; ciò che conta è che gli investitori acquistano un titolo denominato in valuta
diversa da quella del proprio Paese. Questo strumento è caratterizzato dal fatto di
essere soggetto alla normativa internazionale: se un’obbligazione in dollari viene
piazzata al di fuori degli Stati Uniti, è abbastanza logico pensare che non seguirà la
legge americana. La legge che viene seguita con riferimento a questo strumento,
spesso, è la legge del Lussemburgo, che semplifica notevolmente l’emissione di
questi titoli. I Foreign bonds, invece, sono obbligazioni emesse da un singolo
prenditore straniero su un singolo mercato domestico e denominate nella valuta di
quel mercato. Per fare un esempio, possiamo pensare a un’impresa italiana, che
emette titoli in Gran Bretagna in sterline. Se non fosse per l’emittente si tratterebbe
di normali operazioni domestiche, perciò si segue la legge del Paese di emissione.
Nel corso degli anni sono stati emessi tanti tipi di Foreign bonds e, in alcuni Paesi,
con una certa regolarità: si parla di Yankee bonds per indicare i Foreign bonds
emessi negli Stati Uniti; si parla di Samurai bonds per indicare le emissioni in yen sul
mercato giapponese da parte di prenditori stranieri; recentemente è stato coniato
il termine Dim Sum bonds per indicare le obbligazioni in yuan emesse sul mercato
cinese da prenditori stranieri.
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La classificazione per emittente è importante di per sé, ma ci da poche informazioni sul
fronte valutario. Bisognerà quindi procedere a ulteriori classificazioni basate
maggiormente sulla struttura.
Classificazioni finanziarie
Classificazione per struttura dei flussi di cassa
Dal punto di vista dei flussi di cassa, si distinguono due principali categorie:
zero coupon bonds – obbligazioni senza cedola. Dal punto di vista dell’investitore,
si ha un flusso in uscita pari al prezzo di emissione, o al prezzo di acquisto se il titolo
non è stato comprato al momento dell’emissione, e il titolo, nel corso della sua vita,
non genera nuovi flussi di cassa, se non un flusso finale in entrata, pari al prezzo di
rimborso, o al prezzo di vendita, se il titolo viene venduto prima della scadenza. Le
obbligazioni con questa caratteristica sono i BOT e i CTZ (12 e 24 mesi). Questi titoli
sono i più facili da valutare;
- coupon bonds – obbligazioni con cedola. Dal punto di vista dell’investitore, si ha un
flusso di cassa in uscita pari al prezzo di emissione o di acquisto; al termine del
periodo di investimento si ha un flusso in entrata pari al prezzo di rimborso o di
vendita; periodicamente si avranno dei flussi di cassa intermedi corrispondenti alle
cedole. Le obbligazioni con questa caratteristica sono i BTP e i CCT e sono più
difficili da valutare.
La struttura dei flussi di cassa è la prima variabile attraverso cui vengono classificate
finanziariamente le obbligazione, e sarà anche una delle variabili più importanti per la
valutazione.
-
Classificazione per criterio di indicizzazione
Parlando di indicizzazione, innanzitutto bisogna chiedersi che cosa può essere indicizzato
e quali siano i parametri di indicizzazione.
Partendo dall'oggetto, gli elementi indicizzati possono essere la cedola e/o il capitale.
Vedremo che gli strumenti più comuni hanno come oggetto di indicizzazione la cedola,
ma possono presentarsi anche altre situazioni. Prima di andare ad analizzare i parametri,
vediamo che nei BTP non viene indicizzata né la cedola né il capitale: i BTP sono titoli a
tasso fisso, ossia il tasso cedolare stabilito all'emissione è lo stesso che il titolo pagherà per
tutta la sua vita, mentre il capitale rimborsato alla scadenza sarà il capitale nominale.
Perciò il BTP è, tra gli strumenti con cedola, il più facile da valutare (noi arriveremo a
valutare i BTP o altri titoli equivalenti). Per valutare i CCT o altri strumenti, invece, si deve
andare oltre l'oggetto e analizzare i parametri.
Il parametro di indicizzazione può essere di tre tipi:
-
reale;
finanziario;
valutario.
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Il parametro reale per eccellenza è l'inflazione, ossia la crescita dei prezzi. Esistono diversi
tipi di inflazione (al consumo, all'ingrosso, ecc), ma il più utilizzato è l'inflazione al consumo
(IPC): si sceglie l'inflazione al consumo perchè, generalmente, gli acquirenti di titoli sono i
consumatori e, per questi soggetti, l'inflazione al consumo è il parametro di riferimento più
significativo. Quando si utilizza un parametro reale, in particolare l'inflazione,
generalmente viene indicizzato il capitale, mentre la cedola rimane fissa (sebbene non ci
sia alcune norma che vieti di indicizzare a inflazione la cedola o sia il capitale sia la
cedola).
Esempio: consideriamo un titolo con cedola pari al 4% su un capitale pari a 100. Il tasso di
inflazione, misurato durante l'anno, è pari al 4%. L'anno successivo, la cedola rimarrà pari
al 4% ma sarà calcolata su un capitale pari a 104. Alla scadenza, il capitale rimborsato
sarà pari a 100. Questo è il metodo più comune per indicizzare il capitale a inflazione, ma
si possono seguire anche procedimenti diversi.
Il parametro di indicizzazione finanziario più comune è il tasso di interesse. Anche in questo
caso è possibile indicizzare il capitale, la cedola o entrambi, ma i titoli più comuni
prevedono l'indicizzazione della cedola. Generalmente, si stabilisce contrattualmente un
tasso di riferimento, che varia nel tempo, a cui si aggiunge uno spread, che invece è
sempre noto. La cedola verrà rivista periodicamente e si provvederà a modificare il tasso
di interesse di riferimento. È importante osservare che lo spread è sempre noto, ma non
necessariamente è fisso: lo spread può variare durante la vita del titolo, ma ciò che conta
è che queste variazioni sono conosciute a priori dall'acquirente del titolo.
Esempio: i CCT sono obbligazioni che prevedono una cedola indicizzata a un parametro
di indicizzazione finanziario, che è il tasso dei BOT a 6 mesi, a cui si aggiungerà uno spread
noto (se il tasso dei BOT è pari al 5% e lo spread è fissato a 20 centesimi di punto, il titolo
pagherà il 5,20%). Supponiamo che il CCT abbia scadenze semestrali: consideriamo, ad
esempio, il 1 febbraio e il 1 agosto, un semestre durante il quale la cedola matura
secondo termini noti. Il 15 gennaio si terrà un'asta dei BOT a 6 mesi, per stabilire il loro tasso
di interesse: se da questa asta emerge un tasso dei BOT a 6 mesi pari al 4%, per il semestre
che va dal 1 febbraio al 1 agosto, i CCT pagheranno questo tasso + uno spread, ad
esempio pari a 20 punti base (4,20%). Il 15 luglio si terrà una nuova asta dei BOT a 6 mesi,
da cui emergerà un nuovo tasso di interesse, che sarà applicato alla cedola dei CCT per
il semestre dall'1 agosto all'1 febbraio dell'anno successivo. Il tasso di interesse, quindi, si
applica sulle cedole future, e non retroattivamente; inoltre, sebbene il tasso di interesse sia
variabile, la cedola in corso è sempre nota.
Le obbligazioni a tasso variabile possono essere obbligazioni tout court (senza costrizioni)
ma possono anche prevedere delle clausole:
-
Cap: obbligazioni in cui la cedola fluttua, ma non può salire oltre un tasso massimo.
Consideriamo, ad esempio, un titolo emesso al tasso Libor + 50 punti base, con un
cap al 5%. Ciò significa che, quando il calcolo del parametro più lo spread da un
tasso di interesse al di sotto del 5%, verrà pagato il tasso calcolato; se il tasso
calcolato è superiore al 5%, il titolo pagherà solo il 5%.
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Il cap, quindi, è un'assicurazione che gli investitori vendono all'impresa, la quale si
assicura un tasso massimo della raccolta. Ciò implica che la cedola con cap sarà
generalmente superiore rispetto alla cedola senza cap che dovrebbe essere
pagata dalla stessa impresa: quando la cedola si mantiene sotto al cap lo
strumento sarà più costoso, perché gli investitori richiederanno una remunerazione
per il rischio che corrono, legato all'oscillazione dei tassi di interesse.
Floor: obbligazioni in cui la cedola fluttua, ma non può scendere al di sotto di un
tasso minimo. In questo caso avviene l'esatto opposto di quanto accadeva per le
obbligazioni con cap: se la cedola, calcolata come tasso di interesse + spread, si
mantiene al di sopra di un certo livello, il titolo pagherà quella cedola; se la cedola
dovrebbe scendere al di sotto di un tasso stabilito, allora pagherà il tasso minimo
concordato. In questo caso si assicura l'investitore anziché l'emittente, per cui, la
cedola con floor, generalmente, sarà inferiore alla cedola senza floor.
- Collar: un'obbligazione a tasso variabile, che prevede sia un tasso massimo sia un
tasso minimo, ossia una banda di oscillazione. Questa clausola è data dalla somma
di cap e floor e si applica perché le imprese, tipicamente, hanno interesse a fissare
un cap, ma, per ridurre il costo dello strumento, accettano di fissare anche un floor.
L'effetto netto dipenderà dalla banda di oscillazione, ossia la cedola con collar
sarà più o meno costosa della cedola senza collar, a seconda che questa clausola
avvantaggi più l'emittente o l'investitore.
Il parametro di indicizzazione valutario è poco usato e ha a che fare con l'apprezzamento
o il deprezzamento della valuta. Generalmente, oggetto di indicizzazione è la cedola,
che sarà calcolata in base all'apprezzamento (o al deprezzamento) della valuta nel
periodo precedente alla sua maturazione.
-
15 marzo 2012
Classificazione per modalità di rimborso
Dal punto di vista delle modalità di rimborso, abbiamo diverse possibilità:
-
-
in un’unica soluzione alla scadenza (BTP, CCT). In generale, i titoli che hanno una
struttura finanziaria così articolata vengono definiti “bullet bond”. Sono i titoli più
comuni, ma esistono anche importanti eccezioni;
con ammortamento: l’ammortamento può avvenire secondo modalità tecniche
diverse, che dal punto di vista dell’emittente sono irrilevanti, ma dal punto di vista
dell’investitore hanno una certa importanza. Il rimborso può essere:
- graduale;
- a sorteggio.
Per fare un esempio, consideriamo un titolo emesso dalla Fiat con scadenza a 10
anni. Il contratto prevede che, a partire dal termine del quinto anno, la Fiat rimborsi
ogni anno il 20% del proprio debito, per arrivare, alla fine dei 10 anni, ad aver
ammortizzato il 100% della somma dovuta. Se la Fiat adotta la tecnica del rimborso
graduale, ogni anno, a partire dal termine del quinto, ridurrà il valore di tutti i titoli in
circolazione, ossia tutti gli investitori, ogni anno, si vedranno rimborsare il 20% del
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proprio credito. In questo modo, tutti gli investitori conoscono a priori la scaletta dei
flussi di cassa e, da questo punto di vista, sono nella stessa condizione
dell’emittente. Se, invece, il rimborso avviene a sorteggio, la Fiat, a partire dal
termine del quinto anno, rimborserà ogni anno il 20% del valore nominale dei titoli,
ma non lo farà ammortizzando gradualmente tutti i titoli, bensì sorteggiando un
certo numero di titoli pari al 20% del valore nominale. Perciò, gli acquirenti dei titoli
Fiat che vengono sorteggiati alla fine del quinto anno riceveranno il 100% del
valore del titolo che è in loro possesso e saranno fuori dall’investimento, e così via
fino alla scadenza prefissata di 10 anni. Dal punto di vista della Fiat il rimborso è
sempre pari al 20% del valore dei titoli, mentre dal punto di vista degli investitori la
situazione è piuttosto diversa. Ovviamente, il rendimento nei due casi sarà diverso,
sebbene il costo per l’emittente sia lo stesso.
Fino a questo momento abbiamo parlato di tecniche di rientro del capitale totalmente
deterministiche dal punto di vista dell’emittente, che sa sempre quando e come dovrà
rimborsare. Tuttavia, non accade sempre così: esistono obbligazioni che presentano una
certa aleatorietà sia per l’investitore sia per l’emittente. Queste particolari tecniche di
rimborso sono utilizzate soprattutto da emittenti corporate, e sono spesso associate ad
obbligazioni corporate a tasso fisso. Troviamo due categorie principali:
- obbligazioni callable (callablo bonds);
- obbligazioni puttble (puttable bonds).
Le obbligazioni callable prevedono una scadenza contrattuale finale, ma la clausola call
consente all’emittente di richiamare il titolo prima della scadenza finale. Come e quante
volte l’emittente ha la possibilità di scegliere se richiamare o meno il titolo è stabilito in
modo chiaro nel contratto di emissione. Supponiamo che la Fiat abbia emesso titoli a
scadenza massima 10 anni; il contratto di emissione può prevedere, ad esempio, che al
termine del quinto anno la Fiat possa scegliere se richiamare il titolo o meno; oppure
ancora, può prevedere che la Fiat, a ogni pagamento di cedola a partire dal termine del
quinto anno, possa decidere se rimborsare o meno gli investitori. Le obbligazioni callable,
quindi, danno all’emittente il diritto di accorciare la scadenza.
Le obbligazioni puttable prevedono lo stesso meccanismo, con la differenza che il diritto
di accorciare la scadenza è dell’investitore. Come nel caso precedente, come e quante
volte l’investitore ha la possibilità di scegliere se chiedere il rimborso o meno è stabilito in
modo chiaro nel contratto di emissione.
Resta quindi da capire perché gli emittenti o gli investitori dovrebbero sentire la necessità
di inserire queste clausole: gli investitori hanno a disposizione i mercati, dove possono
vendere in qualsiasi momento un titolo che non vogliono più detenere in portafoglio; per
quanto riguarda gli emittenti, se non necessitano più dei finanziamenti, hanno comunque
la possibilità di reinvestire il denaro ricevuto. Tuttavia, bisogna considerare un altro
elemento: con la clausola call l’emittente ha la possibilità di rimborsare il titolo prima della
scadenza al valore nominale; allo stesso modo, con la clausola put, gli investitori possono
chiedere il rimborso del titolo al valore nominale. L’aspetto fondamentale in questo caso,
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è la possibilità di rimborso al valore nominale, che, ragionando sui tassi di interesse, è una
variabile fondamentale.
Consideriamo un titolo che paga una cedola pari al 4%. Abbiamo detto che le clausole
call e put si applicano prevalentemente ad obbligazioni corporate a tasso fisso, quindi il
titolo pagherà, dalla data di emissione fino alla scadenza, un interesse del 4% su base
annua. Supponiamo ora che i tassi di interesse di mercato scendano al 3%. Per
l’emittente, che si sta finanziando con un titolo che paga il 4% quando i tassi di interesse di
mercato sono scesi al 3%, il costo della sua raccolta in termini relativi è oneroso.
L’investitore, invece, sarà più che contento di continuare a ricevere il 4%, quando i tassi di
interesse di mercato sono scesi al 3%. Perciò, in questo momento, tutti coloro che hanno
acquistato un titolo che offre una cedola pari al 4% saranno soddisfatti, mentre i nuovi
investitori che vanno sul mercato troveranno titoli con una cedola inferiore. È evidente
che un titolo che paga una cedola superiore al tasso di mercato è un titolo appetibile,
che tutti gli investitori tenderanno a domandare, cosa che porterà il prezzo del titolo a
salire al di sopra del valore nominale. Quindi, se un nuovo investitore decidesse di
acquistare un titolo che paga una cedola superiore ai tassi di mercato, pagherebbe quel
titolo ad un prezzo superiore al suo valore nominale, cosa che ridurrebbe l’effettivo
rendimento determinato dal tasso di interesse superiore: quindi, per i nuovi investitori,
questa situazione non è di alcun vantaggio. Il titolo in questione, quindi, resterà favorevole
ai vecchi investitori e sfavorevole all’emittente. L’emittente, da parte sua, potrebbe
rastrellare tutti quei titoli presenti sul mercato e chiudere l’emissione, ma dovrebbe pagarli
a un prezzo superiore al loro valore nominale, quindi sosterrebbe comunque un costo
maggiore. Ecco quindi spiegata l’importanza della clausola call: se contrattualmente
l’emittente ha diritto di rimborsare anticipatamente gli investitori pagando loro il valore
nominale dei titoli, è ovvio che si avvarrà di questo diritto per poi andare a finanziarsi alle
nuove condizioni di mercato, emettendo quindi titoli al 3%. In generale, con la clausola
call, gli investitori concedono un’assicurazione all’emittente.
La situazione delle obbligazioni puttable, invece, è totalmente invertita dal punto di vista
delle convenienze. Riprendendo l’esempio precedente, se i tassi di interesse di mercato
scendono dal 4 al 3% e l’investitore ha a disposizione la clausola put, si guarderà bene
dall’avvalersene. Il problema per l’investitore sorge se i tassi di mercato, anziché
scendere, salgono al 5%: in questo caso, l’emittente avrà un vantaggio, perché si finanzia
al 4% mentre i nuovi emittenti sono costretti a finanziarsi al 5%; al contrario, l’investitore
risulterà svantaggiato, dato che viene remunerato solo al 4%, mentre con i nuovi titoli
potrebbe ottenere il 5%. Come nel caso precedente, gli investitori sul mercato
cominceranno a movimentare i prezzi: gli investitori che hanno in mano un titolo poco
remunerativo rispetto ai tassi di mercato cercheranno di venderlo, determinando così un
calo del suo prezzo. In questo modo, se i vecchi investitori vendessero i loro titoli sul
mercato otterrebbero una somma inferiore al valore nominale dei titoli, cosa che
ridurrebbe comunque il loro guadagno. In questo caso, diventa importante la clausola
put: grazie a questa clausola, gli investitori possono chiedere il rimborso dei titoli al loro
valore nominale e andare a reinvestire acquistando titoli con un rendimento superiore. In
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generale, con la clausola put, sono gli emittenti che concedono un’assicurazione agli
investitori.
A questo punto, restano da vedere le differenze tra il rendimento delle cedole dei bullet
bond e quello delle cedole dei callable e dei puttable bond. Con la clausola call, il rischio
sul tasso di interesse ricade sugli investitori, perciò, affinché gli investitori siano disposti a
comprare un callable bond, l’emittente dovrà offrire un premio: le cedole dei collable
bond saranno quindi più redditizie rispetto alle cedole dei corrispondenti bullet bond
(CBB<CCB). Al contrario, con la clausola put, il rischio sul tasso di interesse ricade
sull’emittente, che dovrà quindi essere remunerato dagli investitori, i quali accetteranno
un rendimento inferiore: le cedole dei puttable bond saranno quindi meno redditizie
rispetto alle cedole dei corrispondenti bullet bond (CPB<CBB). Risulterà quindi: CPB<CBB<CCB.
L’ultima categoria di obbligazioni che si caratterizza sull’aspetto del rimborso è quella
delle:
-
obbligazioni convertibili: si parla di obbligazioni convertibili perché, alla scadenza,
anziché prevedere il rimborso al loro valore nominale da parte dell’emittente,
prevedono la possibilità di conversione in un altro strumento finanziario,
tipicamente azioni emesse da quella stessa società. Generalmente, la scelta spetta
all’investitore: alla scadenza, sarà l’investitore a stabilire se preferisce il denaro o le
azioni. Ovviamente, la decisione si baserà sul valore delle azioni. Per fare un
esempio, supponiamo che un titolo obbligazionario valga 1000 euro, mentre le
azioni della stessa società valgano 100 euro: l’investitore, alla scadenza, potrà
scegliere se ottenere il rimborso o se ottenere, in cambio dell’obbligazione, 10
azioni della stessa società. Ovviamente, se alla scadenza il valore delle azioni è
salito, l’investitore sceglierà le azioni; in caso contrario sceglierà il rimborso classico.
In realtà, è opportuno ricordare che esiste anche la possibilità che la scelta finale
spetti all’emittente. Questa versione esiste, ma nel nostro Paese viene trattata
come un titolo atipico e non come un’obbligazione: infatti il codice civile stabilisce
che l’obbligazione debba assicurare il valore nominale, perciò, se c’è la possibilità
di remunerare gli investitori con azioni il cui valore potrebbe essere inferiore rispetto
al valore nominale delle obbligazioni, non si tratterà più di vere e proprie
obbligazioni, ma di titoli atipici.
Valutazione delle obbligazioni
Per valutare le obbligazioni bisogna ragionare su due aspetti: il rendimento e il rischio.
Cominciamo a parlare di rendimento partendo dai titolo più semplici, quelli senza cedola,
che sono i più facili da capire, ma anche da valutare. Nei titoli senza cedola abbiamo
semplicemente un flusso iniziale e un flusso finale, perciò abbiamo una sola tipologia
possibile di rendimento, che può però essere presentato in modi diversi.
Innanzitutto, precisiamo che il prezzo delle obbligazioni non viene indicato con un valore
monetario, ma attraverso un'indicazione in percentuale del valore nominale, ossia del
valore di rimborso. Quindi, se diciamo che il prezzo è uguale a 100 (P=100), significa che il
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titolo obbligazionario sta negoziando al 100% del suo valore nominale. Quando il titolo
negozia a 100, si dice che il titolo quota alla pari. Se il titolo negozia sotto a 100 (es.: P=98
→ 98% del valore nominale), si dice che il titolo quota sotto la pari; se il titolo negozia
sopra a 100 (es.: P=104 → 104% del valore nominale), si dice che il titolo quota sopra la
pari. A meno che non sia previsto diversamente, tutti i titoli rimborsano alla pari (tranne nel
caso in cui abbiano il capitale indicizzato, che però noi non analizzeremo).
Quindi, valutando i titoli senza cedola, il rendimento sarà dato dalla differenza tra il prezzo
di rimborso (o di vendita, se vendo il titolo prima della scadenza) e il prezzo di emissione (o
di acquisto, se ho acquistato il titolo dopo l'emissione), rapportata al prezzo di
emissione/acquisto.
PR/V – PE/A
RDI PERIODO =…………….……
PE/A
Si parla di rendimento di periodo perché è il rendimento che ottengo durante il periodo di
detenzione. Questa indicazione, tuttavia, non è sufficiente per confrontare il rendimento
di titoli diversi, perché non tutti hanno la stessa scadenza, ossia lo stesso periodo di
detenzione. Per confrontare il rendimento di titoli diversi dobbiamo trasformare i rispettivi
rendimenti di periodo in rendimenti annualizzati. Per effettuare questa trasformazione,
dobbiamo innanzitutto stabilire se utilizziamo la capitalizzazione semplice o la
capitalizzazione composta e se facciamo riferimento all'anno solare o all'anno
commerciale. In teoria, il calcolo potrebbe essere svolto in qualunque modo, ma, in
realtà, ci si basa su alcune convenzioni.
Tutti i titoli di mercato monetario (con scadenza inferiore a 12 mesi) esprimono il
rendimento su base annua ricorrendo all'anno commerciale e al principio di
capitalizzazione semplice. Si sceglie la capitalizzazione semplice perché, solitamente, si
comincia a reinvestire i flussi solo a fine anno, perciò non avrebbe senso utilizzare la
capitalizzazione composta per titoli con scadenza inferiore a 12 mesi.
360
RSU BASE ANNUA = RDI PERIODO ·
(·100) → se si vuole ottenere un valore in % e non decimale
gg
I titoli con scadenza superiore ai 12 mesi (ad esempio i BTP), invece, esprimono il
rendimento su base annua ricorrendo all'anno solare e al principio di capitalizzazione
composta. Se volessimo confrontare il rendimento di un BOT con il rendimento di un titolo
senza cedola con scadenza superiore a 12 mesi, allora dovremmo usare la seguente
formula:
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Passando ad analizzare il rendimento dei titoli con cedola, bisogna prendere in
considerazione diverse variabili:
 flusso cedolare;
 differenziale di prezzo (PR – PE);
 valore finanziario del tempo.
Esistono diversi modi per calcolare il rendimento dei titoli con cedola, ma non tutti questi
metodi sono completi.
C
1. Tasso di rendimento nominale: TRN =
.
PR (VN)
Il tasso di rendimento nominale è il più facile da calcolare, ma ha dei limiti
importanti. Infatti, tiene conto del flusso cedolare ma non lo misura adeguatamente,
perché non considera che il prezzo di acquisto potrebbe essere diverso dal valore
nominale, ossia non
considera il capitale investito. Inoltre, non tiene in
considerazione il differenziale di prezzo,
ossia non misura il guadagno/perdita in
conto capitale, e non tiene in considerazione nemmeno il valore finanziario del tempo.
Da tutti i punti di vista, si tratta di un indicatore
non
accettabile,
ossia
non
adeguato a calcolare il rendimento.
C
2. Tasso di rendimento immediato: TRI =
.
PA
Anche il tasso di rendimento immediato è semplice da calcolare, ma presenta dei
limiti notevoli. Infatti, misura adeguatamente il flusso cedolare, perché tiene conto del
capitale
investito, ma, a parte questo, presenta gli stessi difetti del tasso di rendimento
nominale,
ossia non misura il guadagno/perdita in conto capitale e non tiene in
considerazione il valore
finanziario del tempo. Nuovamente, abbiamo in indicatore non
adeguato del rendimento che possiamo ottenere.
Tasso di rendimento effettivo (a scadenza):
Il tasso di rendimento effettivo a scadenza è quel tasso che, utilizzato per
attualizzare i flussi di cassa generati dal titolo obbligazionario, rende la somma di quei
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valori attuali pari al prezzo di acquisto del titolo (oggi). Questo è un indicatore del
rendimento completo perché:
tiene in considerazione il flusso cedolare (tutti i flussi di cassa sono inseriti nella
formula);
 tiene in considerazione il differenziale di prezzo (tra i flussi di cassa c'è anche il
prezzo di rimborso);
 tiene in considerazione il valore finanziario del tempo (è il tasso che uso per
attualizzare).
Il TRES è l'indicatore tipicamente usato per valutare i titoli obbligazionari con
cedola.

Vediamo le ipotesi alla base del calcolo del TRES (sono ipotesi matematiche, che
poi vanno ad influenzare anche finanziariamente il rendimento che stiamo valutando):


il titolo viene detenuto in portafoglio fino alla scadenza: il TRES si ottiene solo se
l'ultimo flusso è pari al prezzo di rimborso, al valore nominale (è un'ipotesi in
realtà superabile);
tutti i flussi di cassa generati dall'investimento vengono istantaneamente
reinvestiti al TRES.
20 marzo 2012
Siamo arrivati alla conclusione che l’indicatore completo per la valutazione del
rendimento dei titoli senza cedola è il TRES (R).
Nel caso di titoli con cedola fissa, i flussi di cassa saranno noti, così come saranno noti i
momenti in cui questi flussi di cassa vengono pagati e il valore nominale con cui il titolo
rimborsa a scadenza; le incognite, quindi, potranno essere il rendimento (R), se è dato il
prezzo di acquisto, oppure il prezzo di acquisto (P), se è noto il rendimento. Nel mercato, si
osserveranno sempre dei prezzi, che in realtà sono una funzione dei tassi (P = f(R)): esiste
quindi una relazione tra prezzo, tasso e flusso cedolare. Vediamo di che tipo è questa
relazione:
se R=CED → P = 100. Supponiamo che il titolo paghi il 5% e che il mercato chieda
un rendimento pari al 5%: tutto il rendimento richiesto deriverebbe dalla cedola,
ossia il rendimento richiesto sarebbe uguale al rendimento offerto. Perciò, il titolo
quota alla pari;
- se R>CED → P<100. Supponiamo che il titolo paghi il 4% e che il mercato chieda un
rendimento pari al 5%: per ottenere effettivamente il 5%, gli investitori dovranno
pagare un prezzo inferiore al valore nominale del titolo. Perciò, il titolo quota sotto
la pari;
- se R<CED → P>100. Supponiamo che il titolo paghi il 5% e che il mercato chieda un
rendimento pari al 4%: gli investitori otterranno il 4% solo se il prezzo del titolo è
superiore al suo valore nominale. Perciò, il titolo quota sopra la pari.
Se osserviamo i prezzi, possiamo ricostruire le relazioni esistenti a monte, in termini di segno.
-
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Non verrà mai chiesto di calcolare il TRES, perché non esiste una formula chiusa, bensì si
utilizza un principio interattivo. Tuttavia, può venire richiesto di recuperare dei TRES.
Esempio: un titolo quota a 102 e la sua cedola è pari al 4%. Qual è il TRES del titolo?
a) 3%
b) 5%
c) 4%
Bisognerà quindi ragionare sulla relazione esistente tra prezzo, tasso e flusso cedolare: se il
titolo quota sopra la pari, il tasso richiesto deve necessariamente essere inferiore al tasso
cedolare, quindi l’unica risposta possibile sarà la a).
Breve osservazione qualitativa (riferimento: fotocopia titoli obbligazionari)
Analizziamo alcuni TRES ricavabili dalla fotocopia:
- il primo titolo, con scadenza 1/7/2012, ha il TRES più basso: 0,81;
- il titolo con scadenza 15/11/2014 (▲), ha un TRES pari a 2,66;
- il titolo con scadenza 1/9/2021) (*) ha un TRES pari a 4,72;
- il titolo con scadenza 1/3/2026 (●) ha un TRES pari a 5,22.
Potremmo prendere tutti i TRES di tutti i titoli riportati e disegnare il loro andamento,
mettendo sugli assi cartesiani il tempo, ossia la scadenza, e il rendimento richiesto.
R
≈6
CURVA DEI RENDIMENTI PER SCADENZA
0,81
t
28 anni
Osserviamo che, al crescere della durata, cresce il tasso di rendimento richiesto sui titoli,
ossia la curva dei rendimenti per scadenza è crescente. Questa è la forma canonica
della curva dei rendimenti per scadenza, perché all’aumentare della scadenza
aumentano i rischi, sia di liquidità naturale sia di interessi. Perciò, in un mercato efficiente,
data la funzione obiettivo degli investitori, ci si aspetta che, all’allungarsi delle scadenza,
cresca il tasso di rendimento richiesto.
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Tuttavia, ci sono alcune fasi, molto più rare, in cui la curva dei rendimenti per scadenza
inverte il proprio andamento.
R
RR
CURVA DI TASSI NOMINALI
t
Se ci trovassimo ad osservare un caso del genere, dovremmo semplicemente ricordare
che la curva dei rendimenti per scadenza è in realtà un curva di tassi nominali, all’interno
dei quali bisogna includere il tasso di rendimento reale e il tasso di rendimento per
inflazione: Rn = Rr + πe. Perciò, ad una configurazione di tassi nominali decrescenti
corrispondono tassi reali crescenti, in virtù dei rischi di liquidità e di interesse, ma
un’aspettativa di calo del livello di inflazione. Dato che i rendimenti nominali sono dati
dalla somma algebrica delle due componenti, una situazione del genere,
evidentemente, corrisponderà al caso in cui il premio per il rischio è più che compensato
dalle aspettative di riduzione dell’inflazione.
Ovviamente, dobbiamo ricordare che si possono avere prospettive di inflazione
decrescente anche quando ci troviamo di fronte a curve dei rendimenti nominali
crescenti: ciò significherà che la prospettiva di riduzione del livello generale dei prezzi non
è così netta da rendere decrescente la curva dei rendimenti per scadenza, che risulterà
semplicemente più piatta.
La funzione prezzo-rendimento
Già classificando i titoli obbligazionari, abbiamo potuto osservare che esiste una relazione
dinamica tra il prezzo e il rendimento di questi titoli, che viene confermata dal fatto che il
TRES è un tasso di attualizzazione. La prima considerazione che possiamo fare è che,
quando sale il TRES, il prezzo del titolo scende (ovviamente, se consideriamo una cedola
fissa):
-
R↑ → P↓.
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Dobbiamo però vedere quanto varia il prezzo, e se ci sono caratteristiche del titolo che
permettano di prevedere una maggiore variazione del prezzo. Per farlo, andiamo a
confrontare titoli che divergono, di volta in volta, per una sola variabile.
Confrontiamo due titoli che divergono solo per la cedola: CED A > CED B. Se aumentano i
tassi di rendimento richiesti dal mercato, ovviamente scenderanno i prezzi di entrambi i
titoli, ma la variazione nel prezzo dei due titoli non sarà identica. In particolare, la
diminuzione nel prezzo del titolo A risulta inferiore rispetto alla diminuzione nel prezzo del
titolo B. Ciò significa che, più è alta la cedola, più bassa sarà la sensibilità del prezzo del
titolo alla variazione dei tassi di interesse, ossia il titolo, a parità di altre condizioni, sarà
meno rischioso. Il rischio di interesse, quindi, è funzione inversa della cedola.
CED A > CED B
↓
ΔR+
Δ-PA ≠ Δ-PB
Δ-PA < Δ-PB
 Rischio di interesse → (-) cedola
Confrontiamo ora due titoli che paghino la stessa cedola ma secondo una sequenza
temporale diversa: CED A è pagata semestralmente, CED B è pagata annualmente.
Nuovamente, quando aumentano i tassi di interesse, scenderanno i prezzi di entrambi i
titoli ma, anche in questo caso, la variazione nel prezzo dei due titoli non sarà identica. In
particolare, vale la stessa relazione vista in precedenza, ossia la variazione nel prezzo del
titolo A è inferiore alla variazione nel prezzo del titolo B. Ciò accade perché il valore
finanziario del tempo influenza il prezzo del titolo: in valore attuale, due cedole pagate
rispettivamente dopo sei mesi e dopo un anno, pesano di più di un’unica cedola pagata
dopo un anno. Quindi, all’aumentare della frequenza di pagamento si riduce la sensibilità
del prezzo del titolo alla variazione dei tassi di interesse, ossia si riduce la sua rischiosità. Il
rischio di interesse, quindi, è funzione inversa della frequenza di pagamento dei flussi di
cassa.
CED A (semestrale) = CED B (annuale)
↓
ΔR+
Δ-PA ≠ Δ-PB
Δ-PA < Δ-PB

Rischio di interesse → (-) frequenza dei flussi di cassa
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Consideriamo adesso due titoli che differiscono solo per la scadenza: SCAD A < SCAD B.
All’aumentare dei tassi di interesse, avremo sempre una riduzione nel prezzo di entrambi i
titoli, ma, nuovamente, la variazione dei prezzi non sarà la stessa: la variazione nel prezzo
del titolo A è inferiore alla variazione nel prezzo del titolo B. Ciò significa che,
all’aumentare della scadenza, aumenta la sensibilità del prezzo del titolo alla variazione
dei tassi di interesse, ossia aumenta la sua rischiosità. Il rischio di interesse, quindi, è
funzione diretta della scadenza.
SCAD A < SCAD B
↓
ΔR+
Δ-PA ≠ Δ-PB
Δ-PA < Δ-PB

Rischio di interesse → (+) scadenza
Purtroppo per gli investitori, però, i titoli in circolazione non sono mai “a parità di altre
condizioni” (nei BTP, l’unico elemento che si mantiene costante è la frequenza dei flussi di
cassa: sei mesi), perciò sarà difficile valutare quale effetto prevalga. Dobbiamo quindi
costruire un indicatore sintetico, che ci consenta mettere insieme tutte queste variabili per
calcolare l’effettiva volatilità del titolo. Tale indicatore è la duration, o durata finanziaria
media del titolo. La duration è, in primo luogo, una misura di durata; solo con alcuni
passaggi riusciremo a capire perché è anche una misura di rischio.
Partiamo dal concetto di duration come misura di durata finanziaria media: come
accadeva per il TRES con il rendimento, la duration è l’unica misura di durata corretta per
valutare i titoli obbligazionari. La duration è data dalla somma dei momenti t in cui si
manifestano i flussi di cassa, che moltiplicano il valore attuale del flusso pagato in quei
momenti t fratto la sommatoria dei valori attuali dei flussi di cassa, ossia il prezzo.
n
FCt
D=Σ t·
t=1
.
(1+
R)t
.
P
In pratica, la duration è la media dei tempi in cui si manifestano i flussi di cassa,
ponderata per il valore attuale relativo di quella scadenza. La duration, quindi, ha scala
basata sui t, e gli R a cui sconto devono essere coerenti con i t.
Vediamo anche che, non casualmente, l’unica misura di durata corretta è influenzata
con lo stesso segno dalle caratteristiche del titolo viste in precedenza:
-
più alta è la cedola, più bassa è la duration;
più è alta la frequenza del pagamento, più è bassa la duration;
84
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- più è alta la scadenza, più la duration è alta.
Questo indicatore, quindi, si muove nelle direzioni indicate ragionando sul prezzo, e ciò ci
avvicina al concetto di duration come indicatore di rischio.
Riprendiamo la formula prezzo-rendimento già vista in precedenza:
n
FCt
P=Σ
(1 + R)t
Ricordando che il prezzo è funzione del rendimento, possiamo disegnare tale funzione
sugli assi cartesiani: sarà una funzione inversa di tipo non lineare, ossia una curva
convessa.
t=1
Se andiamo a calcolare la derivata prima della formula prezzo rendimento, alle attuali
condizioni di tasso, otteniamo l’inclinazione (differenziale) della curva prezzo-rendimento,
che prende il nome di duration modificata:
D
DM =
.
(1 + R0)
Risulta che la variazione percentuale nel prezzo di un titolo è approssimativamente pari a
–DM moltiplicato per la variazione di R:
ΔP
≈ - DM · ΔR
P
In questo modo, possiamo capire perché la duration, nella sua versione base o nella
versione di duration modificata, è la misura di sensibilità, di rischio che stavamo cercando.
Perciò, i titoli che hanno varia composizione tra cedola, frequenza di pagamento e
scadenza sono confrontabili in termini di duration: più è alta la duration, più la curva
prezzo-rendimento è inclinata, ossia una variazione dei tassi di interesse implica una più
ampia variazione dei prezzi, e viceversa.
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Nel caso di un titolo Coupon Bond (con cedola), la duration è sempre inferiore a n, ossia
alla scadenza di calendario del titolo. Nel caso di un titolo Zero Coupon Bond (senza
cedola), la duration sarà uguale a n, alla scadenza di calendario del titolo.
-
DCB < n
DZC = n
Interpretazione della duration
Abbiamo visto che, quando variano i tassi, variano i prezzi, ossia i titoli obbligazionari sono
soggetti a un rischio di prezzo. Tuttavia, alla base del TRES c’era un’ipotesi molto
importante, ossia che tutti i flussi vengano immediatamente reinvestiti al TRES. Perciò,
quando salgono i tassi, gli investitori avranno una notizia negativa relativamente ai prezzi,
che scenderanno, ma una notizia positiva per quanto riguarda il rendimento, perché tutti
i flussi di cassa che il titolo pagherà saranno reinvestiti ad un tasso più alto. Quindi, a fronte
di un effetto prezzo (rischio di prezzo), abbiamo un effetto reinvestimento (rischio di
reinvestimento).
Effetto prezzo
Δ-P → Rischio di prezzo
Δ+R
Δ+REINVESTIMENTO → Rischio di reinvestimento
Effetto reinvestimento
L’investitore, quindi, subisce due effetti tra loro contrapposti, derivanti dalla stessa causa: il
primo, ossia l’effetto prezzo, è un effetto grosso, immediato, una tantum; il secondo, ossia
l’effetto reinvestimento è un effetto piccolo, graduale, che si cumula. Per sapere quale
dei due effetti sarà più forte dal punto di vista dei risultati che l’investitore può ottenere,
bisognerà analizzare il periodo di detenzione, in quanto la duration da informazioni circa
al tempo necessario all’effetto reinvestimento per compensare l’effetto prezzo. Tutto ciò
prende il nome di teorema dell’immunizzazione finanziaria.
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Precisazione sulla valutazione dei titoli obbligazionari
Abbiamo visto che la curva prezzo-rendimento è una curva convessa, e che la duration
corrisponde all’inclinazione della curva alle attuali condizioni di prezzo e rendimento.
Ovviamente, se i tassi salissero, i prezzi scenderebbero e si modificherebbe anche
l’inclinazione della curva, ossia la duration del titolo.
P
P2
P0
P1
R2 R0
R1
R
Quindi la duration è funzione:
- (-) cedola
- (-) frequenza di pagamento
- (+) scadenza
- (-) livello dei tassi
Oggi siamo in una condizione di tassi bassi, ossia di alta volatilità.
Esercizi
Al fine degli esercizi è opportuno ricordare che i prezzi dei titoli obbligazionari sono, in
realtà, più di uno:
corso secco;
prezzo tel quel (corso secco + rateo di interessi): la cedola viene pagata con
scadenza discreta, ma matura progressivamente. Se un titolo semestrale paga la
sua cedola tra tre mesi, in caso di vendita, il titolare avrà diritto anche al primo
trimestre già maturato.
Tuttavia, negli esercizi che vedremo, considereremo sempre il giorno di stacco cedola,
ossia il giorno in cui il corso secco e il prezzo tel quel coincidono.
-
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21 marzo 2012
Le azioni
Le azioni sono titoli di proprietà. Si distingue tra due categorie:
- azioni ordinarie;
- azioni privilegiate.
Le azioni ordinarie sono uguali dappertutto, mentre le azioni privilegiate assumono nome
e caratteristiche specifiche da Paese a Paese. Il Italia, le più diffuse sono le azioni di
risparmio.
Alle azioni si associano dei diritti, che possono essere distinti in due categorie:
- amministrativi;
- finanziari.
Nelle azioni privilegiate, il privilegio fa riferimento a diritti di tipo finanziario. Tuttavia, a
fronte di diritti finanziari maggiori, le azioni privilegiate presentano diritti amministrativi
ridotti. Ovviamente, le azioni ordinarie presentano lo schema opposto: a fronte di diritti
amministrativi pieni, troviamo minori diritti finanziari.
Azioni ordinarie
Azioni privilegiate
Diritti amministrativi
XX
X
Diritti finanziari
XX
XXX
I diritti amministrativi
Andiamo ad elencare i diritti amministrativi principali, ossia quelli che possono in qualche
modo incidere anche dal punto di vista finanziario.
-
-
Diritto di voto: è il diritto amministrativo che viene limitato in caso di azioni
privilegiate. Gli azionisti ordinari partecipano a tutte le votazioni, mentre gli azionisti
privilegiati partecipano in funzione dei privilegi a loro attribuiti, sulla base del tema
trattato. Anche nel caso di votazioni straordinarie, gli azionisti ordinari
parteciperanno sempre, mentre gli azionisti privilegiati potranno esprimere la
propria opinione solo in relazione a determinate questioni.
Diritto di recesso: normalmente, il titolo azionario non ha scadenza e ciò significa
che non è prevista una data di rientro del capitale. Generalmente, lo statuto
indica una data di scioglimento della società che però può essere liberamente
rettificata. Quindi, in condizioni normali, un azionista che non vuole più detenere le
proprie azioni, dovrà venderle sui mercati secondari. Tuttavia, vi sono una serie di
situazioni in cui l’azionista ha diritto di recedere dal suo ruolo, ossia ha diritto di
chiedere il rimborso direttamente alla società: la situazione tipica in questo ambito
si presenta quando viene modificato l’oggetto sociale.
I diritti finanziari
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-
-
Diritto al dividendo: è il diritto che viene potenziato in caso di azioni privilegiate,
sebbene il potenziamento risulti diverso a seconda del tipo di azioni detenute. Per
quanto riguarda le azioni di risparmio, gli azionisti hanno diritto a ricevere almeno il
5% dell’utile e tale diritto è retroattivo fino a tre anni. Quindi, se viene generato un
utile, un azionista che detiene azioni di risparmio ottiene almeno il 5% di quell’utile,
mentre un azionista ordinario viene remunerato solo se la società decide di
distribuire l’utile sotto forma di dividendo. Quindi, per gli azionisti ordinari, il
dividendo è un diritto ma non è un dovere della società pagarlo.
Diritto di opzione: è il diritto dell’azionista di mantenere inalterata la propria quota
di influenza sulla società nel caso in cui questa decida di effettuare un aumento di
capitale. Per fare un esempio, supponiamo che vi siano in circolazioni 100 azioni di
una determinata società e che un azionista ne detenga 10: tale azionista
possiederà una quota della società pari al 10%. Se la società delibera di
aumentare il numero di azioni in circolazione a 200 e l’azionista non acquista nuove
azioni, la suo quota scenderà al 5%. Il diritto di opzione obbliga quindi la società ad
offrire prioritariamente all’azionista una quota di nuovi titoli che gli consenta di
mantenere inalterata la propria quota di influenza sulla società.
Il diritto di opzione può essere esercitato o venduto. Supponiamo che, il 21 marzo
2012, la Fiat decida di aumentare il proprio capitale e che, in tale data, il prezzo
delle azioni Fiat sia pari a 12. Supponiamo anche che l’aumento di capitale si
concluda il 30 marzo 2012 e che il prezzo a cui l’aumento di capitale avrà luogo sia
pari a 10 (l’aumento di capitale viene sempre effettuato ad un prezzo inferiore a
quello di mercato). A questo punto, il vecchio azionista può decidere se esercitare
o meno il diritto di opzione: se l’azionista decidesse di esercitare il diritto
comprerebbe a 10 delle azioni che sul mercato valgono 12. Perciò, se l’azionista
decidesse di acquistare le azioni ma non volesse detenerle ulteriormente, potrebbe
venderle immediatamente e ottenere comunque un guadagno, una sorta di
premio fedeltà. Nel caso in cui l’azionista decidesse di non esercitare il diritto di
opzione nemmeno nel modo descritto, otterrebbe comunque il premio fedeltà
vendendo il proprio diritto: vendendo il diritto al 21 marzo otterrebbe un valore
circa pari alla differenza tra il prezzo di mercato delle azioni a quella data e il
prezzo di esercizio (circa 2). Perciò, l’azionista che non vuole detenere più azioni
avrà due possibilità e la scelta di quale utilizzare dipenderà dalle sue previsioni
circa l’andamento del prezzo delle azioni.
Classificazione delle azioni
Classificazione dimensionale
All’interno di ciascun mercato, le società emittenti di azioni vengono divise in funzione
della capitalizzazione di mercato, la variabile attraverso cui si valuta la dimensione, che è
data dal prodotto tra il prezzo delle azioni e il numero di azioni in circolazione (P ∙ n.
azioni). In funzione di questa variabile, le società possono essere suddivise in:
-
large cap → capitalizzazione > 5 miliardi di dollari equivalenti;
mid cap → 1 < capitalizzazione < 5 miliardi di dollari equivalenti;
small cap → capitalizzazione < 1 miliardo di dollari equivalenti.
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Queste è la riclassificazione internazionale, che però può variare da Paese a Paese (solo
la definizione di small cap è uguale dappertutto).
27 marzo 2012
Classificazione per potenziale di crescita degli utili
Questa classificazione non è alternativa alla precedente: di solito vengono utilizzate
insieme.
La dimensione è una variabile direttamente osservabile, mentre per il potenziale di
crescita degli utili non esistono dei relativi dati di bilancio. Perciò, normalmente, si procede
a misurare una serie di grandezze aziendali standardizzate che vengono poi usate come
indicatori proxi del potenziale di crescita. I primi due indicatori di questo tipo sono anche
due modalità utilizzate per standardizzare il prezzo dei titoli:
utile → P/U (Prezzo/Utile) → redditività attesa/redditività corrente;
valore di libro del capitale azionario → P/B (Przzo/Libro, Price to Book) → valore
previsto/valore corrente.
A questi due indicatori se ne aggiunge un terzo (non più un prezzo standardizzato rispetto
a una variabile):
-
-
Dividend Yeld → D/P (Dividendo/Prezzo) → ≈ reddito cedolare
Tanto più è alto il rapporto prezzo-utile, tanto più è alta la redditività attesa rispetto a
quella corrente e, ovviamente, la redditività attesa è tanto più alta quanto più l’impresa
cresce. Quindi tanto più è elevato il rapporto prezzo-utile, tanto più è elevato il potenziale
di crescita.
Il secondo indicatore ha lo stesso significato: tanto più è alto il rapporto prezzo-libro tanto
più è alto il valore previsto rispetto a quello corrente e, ovviamente, il valore previsto è
tanto più alto quanto più l’impresa cresce. Quindi tanto più è elevato il rapporto prezzolibro, tanto più è elevato il potenziale di crescita.
Per il terzo indicatore bisogna fare un ragionamento diverso: le società che pagano più
dividendi sono le società stabili, con poco potenziale di reinvestimento remunerativo,
ossia con pochi progetti futuri. Quindi elevati dividend yeld significano basso potenziale di
crescita.
Questi tre indicatori messi insieme consentono di individuare quali sono le società che
crescono tanto e quali sono le società che crescono poco e di etichettare queste
società.
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Innanzitutto, bisogna precisare che la crescita, oltre ad essere un concetto non
direttamente misurabile, è anche un concetto che va relazionato all’economia di cui
parliamo: è impossibile rapportare imprese cinesi e imprese italiane, perché l’economia
cinese nel suo complesso cresco molto più rapidamente di quella italiana. Bisognerà
perciò confrontare società appartenenti alla stessa economia, ad esempio tutte le
società quotate a Milano (tra queste troveremo alcuni titoli esteri, ma in quantità molto
ridotta).
Dopo aver stabilito quali sono le società da considerare, queste verranno riclassificato in
termini di rapporto prezzo/utile crescente. Si adotterà poi la stessa procedura in termini di
rapporto prezzo/libro: tra i due indici c’è un forte collegamento ma non è detto che le
prime posizioni siano perfettamente coincidenti. Successivamente, si procede alla
riclassificazione in termini di dividend yeld decrescente. Infine, si esegue una
classificazione media.
P/U↑
P/B↑
1
1
D/P↓
Media
1
1
Primo 50%
cap mkt
Potenziale di
crescita degli
Secondo 50%
utili
cap mkt
n
n
n
n
A questo punto, traccio una riga nella classificazione media, al di sopra della quale
troverò il 50% delle società non per numero, ma per capitalizzazione di borsa, ossia quelle
società che, cumulate, rappresentano il 50% del mercato. Al di sotto della riga,
ovviamente, troveremo le società che rappresentano il secondo 50% della
capitalizzazione di mercato. Il primo 50% rappresenterà quelle società che crescono
poco, che vengono generalmente descritte come società che crescono meno della
media di mercato. Viceversa, il secondo 50% identifica quel gruppo di società che
crescono più della media di mercato.
A questo punto, siamo in grado di etichettare le diverse società in relazione al potenziale
di crescita degli utili:
-
growth: società che crescono più della media;
91
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- value: società che crescono meno della media.
Tutti i titoli che troviamo oggi sul mercato si portano dietro una doppia etichetta: una
dimensionale e una di potenziale di crescita.
Dimensione
S
M
L
G
specializzazione
Crescita
→ Stile di gestione
style rotation
V
I titoli saranno posizionati nei tre quadranti superiori e nei tre quadranti inferiori.
Tuttavia, si utilizzano 9 quadranti perché questa analisi rappresenta anche il cosiddetto
stile di gestione. Generalmente, chi investe in titoli azionari si specializza, ossia, di volta in
volta, non osserva tutti i titoli, ma si concentra su sottoinsiemi del mercato. Quindi, ci
saranno gestori che lavorano solo nei quadranti superiori (growth) o solo nei quadranti
inferiori (value), ma possono esserci anche gestori che si specializzano solo per
dimensione, e allora si collocheranno nei quadrati intermedi.
Lo stile di gestione, però, può anche essere diverso. Infatti, ci sono condizioni di mercato in
cui determinati gruppi di società tendono a performare meglio di altri: perciò un gestore
può scegliere di posizionarsi sul quadrante che, di volta in volta, dovrebbe performare
meglio in quella fase di mercato.
Il primo stile di gestione viene definito specializzazione; il secondo style rotation.
Il rischio dei titoli azionari
Avevamo introdotto il tema del rischio parlando della funzione obiettivo degli investitori.
Avevamo poi trovato un indicatore di rischio per le obbligazioni: la duration. Esiste anche
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la duration dei titoli azionari, ma ha un significato molto complicato che non ci interessa
analizzare. Avremo perciò bisogno di altri indicatori: per le azioni troviamo indicatori di
tipo statistico.
L’indicatore più generale di volatilità di un titolo azionario è lo scarto quadratico medio,
detto anche deviazione standard (σ). La deviazione standard può essere calcolata ex
ante, come dispersione intorno al rendimento atteso, oppure ex post, sulla base di dati
storici. Ovviamente, quello che interessa sapere è quanto sarà rischioso un titolo, quindi
dovremmo calcolare la deviazione standard ex ante, ma, per semplicità, faremo
riferimento a dati storici, che in realtà misurano quanto è stato rischioso un titolo in
passato.
Per calcolare la deviazione standard bisogna conoscere il prezzo del titolo nel corso del
tempo e poi scegliere un orizzonte temporale su cui calcolare il rendimento. Supponiamo
di scegliere un orizzonte temporale di una settimana: bisognerà calcolare il prezzo medio
settimanale e poi calcolare la deviazione da quel dato medio. Ad esempio, se il
rendimento medio settimanale della Fiat è stato del 2%, ma intorno a quel valore c’è
stata una deviazione standard del 5%, quel 2% è in realtà un rendimento delle Fiat che va
dal -3% al 7%. Tanto più è alta la deviazione standard, tanto più si dilatano i valori che
posso ottenere investendo in quel titolo azionario, ossia tanto più è elevato il rischio di
prezzo.
Quando osserviamo i titoli con l’intenzione di inserirli all’interno di un portafoglio, oltre a
conoscere la volatilità del singolo titolo avrò bisogno di un’ulteriore informazione, ossia
quanto oscillano insieme due titoli se li metto all’interno dello stesso portafoglio.
Ad esempio, supponiamo di aver identificato i titoli di una società che produce
condizionatori e i titoli di una società che produce ombrelli. La domanda di condizionatori
sarà alta nelle estati calde, mentre la domanda di ombrelli crescerà nelle estati piovose: i
prezzi si muovono in modo opposto a seconda delle condizioni meteo. Viceversa, i titoli di
una società che produce condizionatori e i titoli di una società che produce gelati
reagiranno allo stesso modo alle condizioni meteo.
Quindi, la deviazione standard ci fornisce un’indicazione circa la volatilità dei singoli titoli;
ora abbiamo bisogno di un indicatore che ci dica quanto due titoli sono tra loro collegati:
questo indicatore prende il nome di coefficiente di correlazione lineare (ρ) e può
assumere valori che vanno da +1 a -1.
+1 → perfetta correlazione lineare positiva: il rendimento di due titoli si muove nella
stessa direzione e mantiene sempre la stessa proporzionalità;
- -1 → perfetta correlazione lineare negativa: il rendimento di due titoli si muove in
direzione opposta e mantiene sempre la stessa proporzionalità.
Questi due valori sono le estremizzazioni; troveremo poi una serie di valori intermedi che
identificano titoli tra loro collegati non perfettamente, positivamente o negativamente.
-
93
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Ora che abbiamo visto come misurare la volatilità dei titoli e la loro correlazione a coppie,
possiamo vedere come calcolare il rischio di un portafoglio che mette insieme più titoli.
Supponiamo di investire il 50% del nostro denaro su un titolo e il restate 50% su un altro
titolo: il rischio di portafoglio sarà uguale alla media aritmetica dei rischi solo se i titoli in
portafoglio sono perfettamente correlati positivamente.
σ A + σB
σP (50, 50) =
se ρ = 1
2
Perciò, il rischio di un portafoglio 50 e 50 è sempre inferiore alla media dei rischi per tutti i ρ
strettamente inferiori a +1. ovviamente, tanto più è bassa la correlazione, tanto più sarà
basso il rischio di portafoglio. Questo spiega perché la diversificazione degli investimenti
genera benefici.
Troviamo poi una terza misura di rischio dei titoli azionari, volta a misurare quanto si
muovono in media le società rispetto a quanto si muove il mercato all’interno del quale
sono inserite. Prendiamo ad esempio il mercato di Milano e le società in esso quotate:
Milano sarà un portafoglio titoli con una certa volatilità, e le società in esso quotate
avranno anch’esse una loro volatilità. L’idea generale è quella di trovare un indicatore
che ci dica quanto un titolo si rapporta al portafoglio di cui fa parte in termini di volatilità.
Questo indicatore prende il nome di beta (β) ed è pari al rapporto tra la covarianza fra il
rendimento della società e il rendimento del mercato e la varianza del rendimento del
mercato (la deviazione standard del mercato al quadrato).
COV (Fiat, mkt)
β=
σ2mkt
Beta può assumere valori superiori, uguali o inferiori a 1, fermo restando che la covarianza
tra un titolo e il suo mercato di appartenenza è quasi sempre positiva.
-
-
-
β > 1: la covarianza tra le azioni Fiat e il mercato è più forte della varianza del
mercato, perciò, quando il mercato si muove, le Fiat si muovono più del mercato.
Titoli con questa caratteristica vengono definiti titoli aggressivi e sono più rischiosi
del mercato;
β < 1: la covarianza tra le azioni Fiat e il mercato è meno forte della varianza del
mercato, perciò, quando il mercato si muove, le Fiat si muovono meno del
mercato. Titoli con questa caratteristica vengono definiti titoli difensivi e sono meno
rischiosi del mercato;
β = 1: il titolo si muove quanto il mercato. Titoli con questa caratteristica vengono
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definiti titoli neutrali.
(I titoli emessi da società small cap growth sono quasi sempre titoli aggressivi, mentre i titoli
emessi da società large cap value sono quasi sempre titoli difensivi).
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04 aprile 2012
I mercati finanziari
Il mercato dei cambi
Caratteristiche qualificative
Il mercato dei cambi presenta varie caratteristiche. Innanzitutto, possiamo dire che è il
mercato più grande al mondo: sul mercato dei cambi si negoziano quotidianamente
circa 2.000 miliardi di dollari (più del PIL della Svizzera).
In secondo luogo, il mercato dei cambi è l’unico vero mercato globale, che funziona 24
ore al giorno. All’interno di questo mercato si negozia un prezzo (il tasso di cambio è il
prezzo del potere di acquisto espresso in una valuta rispetto al prezzo del potere di
acquisto espresso in un’altra valuta), ma il luogo in cui si negozia è irrilevante, perciò il
mercato non si ferma mai. Il mercato dei cambi parte a Tokio; quando Tokio sta
chiudendo apre Londra; quando Londra sta chiudendo apre New York; quando New York
sta chiudendo riparte Tokio.
La terza caratteristica del mercato dei cambi è quella di essere un mercato
prevalentemente all’ingrosso di tipo interbancario. Il denaro che i clienti prenotano
quando devono recarsi all’estero rappresenta la parte al dettaglio di questo mercato ed
è in realtà una minoranza del mercato globale. Si parla quindi di mercato all’ingrosso di
tipo interbancario perché i tagli delle operazioni sono significativi e perché questi importi
circolano tra banche che scambiano continuamente acquisti e vendite tra di loro.
L’enorme giro di affari relativo al mercato dei cambi deriva dal fatto che le banche
comprano quantità significative di una certa valuta, per osservare poi cosa succede al
prezzo di quella valuta negli istanti immediatamente successivi: se il prezzo sale, anche di
poco, avendo acquistato una quantità significativa, dalla vendita si otterranno ingenti
profitti. Quindi, le operazioni si chiudono in tempi brevissimi, al massimo alcune ore dopo il
loro inizio. Il mercato dei cambi è perciò un mercato totalmente speculativo, sia in senso
positivo che in senso negativo: positivo perché speculare significa “guardare avanti”, e
chi investe rischia molto, ma, se ha avuto l’intuizione giusta, guadagna anche molto;
negativo perché non c’è un’economia reale sottostante, perciò, se le operazioni portano
i prezzi ad allontanarsi troppo dalla realtà, possono manifestarsi problemi molto seri.
Inoltre, il mercato dei cambi è un mercato molto competitivo e fortemente concentrato:
competitivo perché i leader cambiano di anno in anno; concentrato perché i primi dieci
trader movimentano da soli circa il 75% di quei 2.000 miliardi di dollari al giorno di cui
abbiamo parlato inizialmente. Questi due elementi contribuiscono ad incrementare il
rischio che potenzialmente si corre operando su questo tipo di mercato: nel caso in cui
una banca specializzata in operazioni in cambi fallisca, l’effetto domino per le controparti
potrebbe essere molto ampio.
Per questo motivo, il mercato dei cambi viene attentamente osservato dai regolatori,
sebbene si tratti di un mercato per sua caratteristica deregolamentato. Deregolamentato
significa che i modi in cui si negozia e chi può negoziare non sono stabiliti per legge.
Tuttavia, il mercato non è totalmente deregolamentato, nella misura in cui gli intermediari
che operano al suo interno sono regolamentati: i regolatori, infatti, sperano di controllare
indirettamente il mercato attraverso la regolamentazione degli intermediari (la
regolamentazione più significativa è quella relativa al capitale, su cui insiste la normativa
di Basilea 2: a più alti livelli di rischio assunti deve corrispondere una più alta dotazione di
capitale). Per il fatto di essere deregolamentato, il mercato dei cambi viene definito un
mercato OTC (Over The Counter, “sul banco” in italiano): questa espressione deriva dalla
terminologia farmaceutica, in cui viene usata per indicare i prodotti da banco, per i quali
non è necessaria la ricetta, e viene utilizzata in questo contesto per indicare la libertà di
negoziazione.
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Cosa si negozia
Abbiamo già detto che, in generale, all’interno del mercato dei cambi si negozia un
prezzo rispetto a un altro prezzo, ma ora entreremo più nel dettaglio.
Il mercato dei cambi può essere distinto in due grandi segmenti:
cambio a pronti;
cambio a termine.
I contratti di cambio a pronti fanno riferimento a quelle operazioni che vengono regolate
entro 48 ore dalla data di negoziazione: ciò significa che l’operazione di acquisto o di
vendita di una valuta darà vita ai relativi flussi di cassa entro 48 ore. Ormai, questo arco
temporale è praticamente virtuale e rimane come retaggio di un mercato dei cambi
che, fino a poco tempo fa, era di tipo telefonico e richiedeva un tempo tecnico di circa
48 ore per la regolazione delle operazioni. Oggi il mercato dei cambi è quasi
esclusivamente elettronico e i tempi tecnici per trasmettere gli ordini di addebito o di
accredito si sono notevolmente ridotti. Perciò, il termine di 48 ore è in realtà indicativo di
un tempo tecnico necessario per la consegna e il ritiro.
I contratti di cambio a termine, invece, fanno riferimento a quelle operazioni che
vengono regolate oltre le 48 ore. In questo caso, la scelta non deriva più da finalità
pratiche e tecniche, ma da ragioni contrattuali di qualche tipo. Dal momento che il
mercato dei cambi è un mercato OTC, il mercato dei contratti a termine è totalmente
personalizzabile, ma, generalmente, si fa ricorso a scadenze tipiche: 1, 3, 6, 9 e 12 mesi. Le
scadenze più liquide sono quelle che vanno da 1 a 6 mesi; progressivamente si negozia
sempre meno e oltre i 12 mesi il mercato diventa molto meno liquido, perciò sono pochi i
trader disposti a negoziare.
Fino a una decina di anni fa, i trader svolgevano la loro attività speculativa
prevalentemente nel comparto a pronti, mentre negli ultimi dieci anni i trader si sono
progressivamente spostati nel comparto dei contratti a termine.
Come si negozia
Abbiamo già detto che il tasso di cambio è il prezzo del potere di acquisto espresso in
una valuta rispetto al prezzo del potere di acquisto espresso in un’altra valuta, ma il fatto
che si negozi un prezzo rispetto a un altro prezzo può sembrare un concetto un po’
astratto. Per capire come avvengono le negoziazioni dobbiamo fare un ragionamento
che prende avvio da alcune convenzioni.
Convenzionalmente, il “come si negozia” da vita a due meccanismi di negoziazione:
certo x incerto: quantità certa (fissa) di valuta domestica x quantità incerta (variabile) di
valuta estera. Prima di vedere dove viene usata questa convenzione, precisiamo che, in
tutte le convenzioni, la valuta in quantità certa deve essere considerata come la merce
oggetto di scambio, mentre la quantità incerta è il prezzo di quella merce. In ordine
preciso, le valute e/o i mercati che usano questo tipo di convenzione sono: € (euro), Lgs o
Gbp (sterlina), Aus $ (dollaro australiano), $ (dollaro). L’euro, in qualsiasi parte del mondo,
quota sempre certo, perciò, per tutta l’aerea euro vale questo tipo di convenzione. A
Londra, invece, la sterlina quota con questa convenzione nei confronti di tutte le valute
eccetto l’euro. Lo stesso avviene per il dollaro australiano nei confronti di euro e sterlina, e
per il dollaro americano nei confronti di euro, sterlina e dollaro australiano;
incerto x certo: quantità incerta (variabile) di valuta domestica x quantità certa (fissa) di
valuta estera. Questa convenzione vale per tutte le valute diverse dalle quattro viste in
precedenza. Per fare un esempio, supponiamo di voler valutare il prezzo del potere
d’acquisto espresso in yen rispetto al prezzo del potere d’acquisto espresso in franchi
svizzeri: se la negoziazione avviene a Tokio, la valuta merce sarà il franco svizzero, mentre
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lo yen sarà il prezzo; viceversa, se la negoziazione avviene a Zurigo, la valuta merce sarà
lo yen, mentre il franco svizzero sarà il prezzo.
Quelle viste, quindi, sono le convenzioni con cui si esprimono i prezzi.
Meccanismi di negoziazione
Il mercato dei cambi è il secondo mercato di dealer che incontriamo (il primo era il
mercato interbancario), ossia un mercato in cui vale il principio del “two-way quotation
system”. Bisogna quindi capire che cosa indicano i prezzi e che tipo di impegno assume
chi quota i prezzi.
Innanzitutto, ricordiamo che il dealer è sempre il price maker, ossia colui che fa i prezzi.
Quando i clienti “colpiscono” il dealer, lo colpiscono sui prezzi che lui ha stabilito, ossia
sono price taker. In questa situazione l’indeterminatezza è forte, perché alcune volte i
dealer negoziano tra di loro: in generale, quando un dealer colpisce i prezzi di un altro
dealer si spoglia del suo ruolo e assume anch’esso quello di cliente.
L’ultimo elemento convenzionale che ricordiamo è il modo con cui si esprimono i tassi di
cambio. Abbiamo già detto che i tassi di cambio sono rapporti (prezzo/prezzo), perciò,
quando scriviamo, ad esempio, $/€, indichiamo il numero di dollari divisi per una certa
quantità fissa di euro. Ciò significa che al denominatore troviamo sempre la valuta merce
(la valuta certa), mentre al numeratore troviamo sempre il prezzo (la valuta incerta).
Didatticamente, questo rapporto aritmetico è la maniera corretta per esprimere i cambi
ed impostare poi tutte le operazioni, ma spesso il mercato utilizza delle convenzioni che
possono complicare un po’ la situazione. Normalmente, il rapporto aritmetico visto in
precedenza viene indicato come EURUSD, dal momento che nel linguaggio comune si è
soliti indicare prima la merce e poi il prezzo, anziché ricorrere al rapporto aritmetico; altre
volte, invece, troviamo l’indicazione EUR/USD: in questo caso è importante ricordare che il
segno divisorio corrisponde ad un trattino e non ad un segno di frazione.
I due prezzi quotati all’interno del mercato dei cambi prendono il nome di tasso bid
(denaro) e tasso ask o offer (lettera).
Esempio:
$/€
BID
1,41
ASK/OFFER
1,42
In virtù di quanto detto finora, 1,41 e 1,42 sono dollari per ogni euro, e sono i prezzi a cui il
dealer si dichiara disposto ad operare: il bid è il prezzo a cui il dealer acquista la merce,
gli euro, la valuta certa; l’ask è il prezzo a cui il dealer vende la merce, gli euro, la valuta
certa.
Dal punto di vista del cliente, invece, il bid è il tasso a cui il dealer vende la valuta incerta,
mentre l’ask è il tasso a cui il dealer acquista valuta incerta.
Il differenziale ask-bid è sempre maggiore di 0 e rappresenta, in linea teorica, il profitto
che il dealer può ottenere: se il dealer acquista euro ad 1,41$ e istantaneamente rivende
gli euro a 1,42$, la differenza sarà il suo guadagno. In realtà non accade sempre così,
perché se il dealer acquista in un momento e non rivende immediatamente, nell’arco
temporale che intercorre tra l’acquisto e la vendita i prezzi possono essere cambiati.
Vedremo che, in ogni caso, l’euro-dollaro presenta lo spread più basso in assoluto. Le
determinanti dello spread sono:
volume (-): la relazione tra spread e volume a cui si negozia è negativa, ossia tanto più il
contratto in questione è negoziato e tanto più sarà piccolo lo spread. Questo perché lo
spread non è solo il pagamento per il servizio che il dealer offre, ma è anche la
remunerazione per il rischio che si assume: più è alto il volume a cui si negozia e più il
rischio si riduce, dal momento che sarà più alta la probabilità di trovare qualcuno disposto
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a vendere e, poco dopo, qualcuno disposto ad acquistare. Il tasso euro-dollaro è il più
negoziato, perciò gli spread saranno i più bassi in circolazione;
volatilità (+): la relazione tra spread e volatilità dei tassi di cambio è positiva, ossia tanto
più i tassi di cambio si muovono e tanto più gli spread si alzano. Questo perché tanto più è
volatile il mercato e tanto più il dealer rischia, perciò sarà disposto ad operare solo
allargando la differenza tra prezzo di acquisto e prezzo di vendita;
momenti della giornata: lo spread tende ad avere dimensioni diverse in determinati
momenti della giornata di negoziazione. Per capire cosa accade dobbiamo considerare
la giornata tipo di un cambista: egli, quotidianamente, compravende, e agisce con
l’intenzione di tenere meno posizioni aperte possibili per il giorno seguente. Questo
perché, se un cambista che opera sul mercato di Londra termina la sua giornata
lavorativa avendo ancora posizioni aperte, la mattina seguente rischia di trovare dei
prezzi che, nel frattempo, a New York e a Tokio, sono cambiati molto. Ciò comporta che i
cambisti che cominciano a lavorare alle 7 del mattino avranno, inizialmente, poche
posizioni aperte, ossia saranno al minimo dei volumi. Progressivamente l’operatività
aumenterà, per arrivare a toccare il culmine nella fascia compresa tra le 11 del mattino e
le 2 del pomeriggio. Dopo le 2 del pomeriggio, i trader cominceranno a chiudere le
proprie posizioni e non cercheranno di aprirne di nuove, perciò, a meno che non si
presentino eventi dirompenti per cui valga la pena scommettere anche a fine giornata,
progressivamente il volume si ridurrà nuovamente. Quindi, in virtù dei volumi a cui si
negozia, lo spread sarà ai massimi all’apertura e alla chiusura dei mercati e ai minimi nelle
fasi centrali;
eventi importanti (+): esiste una relazione diretta tra il livello dello spread e alcuni eventi
significativi, come eventi macroeconomici o eventi politici, quali ad esempio le elezioni,
che possono cambiare il regime economico di un certo Paese. In generale, la prossimità
di eventi significativi comporta volatilità, sebbene diversa da quella generale già
considerata come determinante del livello dello spread.
17 aprile 2012
L'aritmetica dei cambi
Il tasso reciproco
Ora che abbiamo visto come si esprimono tipicamente i tassi di cambio, possiamo
provare a manipolare i dati a nostra disposizione.
La prima operazione che possiamo eseguire consente di costruire il cosiddetto tasso
reciproco, ossia consente di trasformare la valuta prezzo in valuta merce e viceversa.
Supponiamo di voler costruire il reciproco del tasso di cambio euro-dollaro. Tipicamente
l'euro rappresenta la valuta merce, mentre il dollaro rappresenta il prezzo; noi vogliamo
esprimere il rapporto in modo tale che il dollaro diventi la valuta merce e l'euro diventi il
prezzo.
1
Tasso reciproco:
$
€
€
= .
$
BID
1
$
€ ask
ASK
1
$
€ bid
Andiamo a capire le motivazioni di questo meccanismo: troviamo un prima motivazione
meccanica, utile per i calcoli, e una motivazione economica reale.
Per quanto riguarda la motivazione meccanica, bisogna ricordare che, ogni volta che
manipoliamo i cambi, dobbiamo assicurarci che la quotazione bid sia sempre inferiore
99
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alla quotazione ask, dal momento che il differenziale tra ask e bid rappresenta il
guadagno potenziale per il dealer. Matematicamente parlando, per rispettare tale
relazione, il bid reciproco si otterrà dividendo 1 per la quantità più grande (tasso ask),
mentre l'ask reciproco si otterrà dividendo 1 per la quantità più piccola (tasso bid).
Vi è però anche una reale motivazione economica per questa operazione. Quando
esprimiamo il prezzo degli euro in dollari ($/€), il bid è il prezzo a cui il dealer acquista
valuta certa (euro) e, implicitamente, il prezzo a cui il dealer vende valuta incerta
(dollari). La stessa quotazione deve quindi essere esplicitata nel momento in cui il dollaro
diventa la valuta certa, perciò il tasso bid si trasformerà nel tasso ask. Analogamente,
quando esprimiamo il prezzo degli euro in dollari, l’ask è il prezzo a cui il dealer vende
valuta certa (euro) e, implicitamente, il prezzo a cui il dealer acquista valuta incerta
(dollari). Perciò, nel momento in cui il dollaro diventa la valuta certa, il tasso ask si
trasformerà nel tasso bid. In conclusione, quando ribaltiamo il modo di esprimere i tassi di
cambio, dobbiamo comunque accertarci di rimanere coerenti con i prezzi usati in
precedenza.
In questo modo abbiamo imparato a trasformare una quotazione certo per incerto in una
quotazione incerto per certo.
I tassi cross rates
Prima di analizzare la seconda manipolazione che possiamo eseguire partendo dai tassi
di cambio tipici, dobbiamo fare una premessa. È importante ricordare che in sala cambi
non si negoziano tutti i possibili cambi bilaterali. Ciò accade perchè è vero che la
clientela finale può richiedere qualunque cambio bilaterale, ma è anche vero che tale
domanda rappresenta solo una minima parte del mercato dei cambi, perciò non
sarebbe conveniente avere un addetto per ogni cambio. Prima dell'avvento dell'euro, la
sala cambi era organizzata in un solo modo, ossia negoziava tutti i possibili tassi di cambio
rispetto al dollaro. Con l'avvento dell'euro, invece, in sala cambi troviamo sia chi negozia
rispetto all'euro sia chi negozia rispetto al dollaro, (in realtà oggi la maggior parte degli
operatori negozia rispetto all'euro).
Si pone perciò il problema di capire cosa accade quando il cliente finale chiede di
cambiare la propria valuta in una valuta diversa dall'euro o dal dollaro, dato che nessuno
quota direttamente quel prezzo. La seconda operazione che andiamo a vedere
consentirà quindi di ricavare qualsiasi tasso bilaterale, attraverso l'utilizzo dei cosiddetti
cross rates.
La tabella dei cross rates è in realtà una matrice che utilizza il concetto aritmetico di tasso
di cambio. Troviamo una serie di titoli per le colonne e una serie di titoli per le righe: le
colonne esprimono la valuta che sta al numeratore del rapporto, ossia il prezzo in cui è
espresso il valore della merce; le righe esprimono invece la valuta che sta al
denominatore del rapporto, ossia la valuta merce. All'interno di questa tabella, troviamo
tutti i rapporti tra le valute, sia nel caso in cui vengano intese come prezzo, sia nel caso in
cui vengano intese come merce. Si tratta perciò di uno strumento molto utile per la
clientela finale.
Tuttavia, dal momento che questi prezzi non esistono in natura, poiché nessuno li quota, è
utile analizzare in che modo vengono costruiti.
Esempio: supponiamo di voler costruire il tasso bilaterale yen/sterlina (Jpy/Gbp). I cambisti
quoteranno il tassi di cambio yen/euro (Jpy/€) e il tasso di cambio sterlina/euro (Gbp/€),
da cui possiamo ricavare il tasso reciproco euro/sterlina (€/Gbp). Perciò avremo:
Jpy/€ = 106,54;
€/Gbp = 1,2126.
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Da cui:
Jpy
€
Jpy
·
€
= 106,54 · 1,2126 = 129,19
Gbp
Gbp
Vediamo che il valore calcolato si avvicina molto al valore indicato nella tabella dei cross
rates. Perciò, passando per una valuta comune, possiamo costruire qualsiasi tasso di
cambio bilaterale.
Tuttavia, la tabella dei cross rates indica un solo tasso di cambio, che corrisponde ad una
media tra il tasso bid e il tasso ask. Perciò, è anche utile analizzare come costruire un tasso
bid e un tasso ask passando per i cross rates.
Esempio: supponiamo di voler costruire il tasso di cambio bilaterale corona ceca/dollaro
canadese (Czk/Cad). Nella tabella realtiva ai dati dell'euro a pronti e a termine troverò
informazioni sia circa il tasso di cambio corona ceca/euro (Czk/€) si circa il tasso di
cambio dollaro canadese/euro (Cad/€). Senza dover passare per il tasso reciproco,
posso costruire il tasso di cambio corona ceca/dollaro canadese facendo il rapporto tra il
tasso di cambio corona ceca/euro e dollaro canadese/euro. Infatti:
Czk
€
Czk
€
Czk
=
·
=
Cad
€
Cad Cad
€
Però, oltre a capire che tipo di operazione bisogna fare, dobbiamo anche capire in che
modo utilizzare i tassi bid e i tassi ask.
BID
ASK
24,742
24,783
1,3128
1,3134
Czk
€
Cad
€
Czk
24,742
24,783
= 18,8467
Cad
1,3134
= 18,8693
1,3128
Quindi, per costruire il tasso bid corona ceca/dollaro canadese, dividerò il tasso bid
corona ceca/euro per il tasso ask dollaro canadese/euro. Invece, per costruire il tasso ask
corona ceca/dollaro canadese, dividerò il tasso ask corona ceca/euro per il tasso bid
dollaro canadese/euro.
Anche in questo caso troviamo sia una motivazione meccanica sia una motivazione
economica reale alla base di tale operazione.
Per quanto riguarda la motivazione meccanica, devo nuovamente assicurarmi che il
tasso bid sia inferiore al tasso ask. Perciò, per assicurarmi tale relazione, il bid sarà dato dal
rapporto tra la quantità più piccola del tasso di cambio corona ceca/euro e la quantità
più grande del tasso di cambio dollaro canadese/euro, mentre l'ask sarà dato dal
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rapporto tra la quantità più grande del tasso di cambio corona ceca/euro e la quantità
più piccola del tasso di cambio dollaro canadese/euro.
Per capire la motivazione economica, supponiamo che un cliente voglia cambiare le
proprie corone ceche con dollari canadesi, ma che non trovi nessun istituto bancario
disposto ad eseguire direttamente questa operazione. Il cliente dovrà quindi effettuare
una serie di operazioni intermedie.
Cominciamo a costruire il prezzo ask corona ceca/dollaro canadese, ricordando che il
prezzo ask è il prezzo a cui il dealer vende la valuta merce (dollaro canadese) e acquista
la valuta prezzo (corona ceca), ossia il prezzo a cui il cliente acquista la valuta merce e
vende la valuta prezzo. La prima operazione che il cliente dovrà eseguire sarà quella di
acquistare euro a fronte di corone ceche. Supponendo di lavorare su dati unitari, al
termine della prima operazione il cliente otterrà un euro contro 24,783 corone ceche
(tasso ask corone ceche/euro). In seguito, il cliente venderà gli euro contro dollari
canadesi. Alla fine di tale operazione il cliente otterrà 1,3128 dollari canadesi (tasso bid
dollaro canadese/euro) a fronte di un euro. L'acquisto e la vendita degli euro si
annullano, ossia il cliente ottiene 1,3128 dollari canadesi a fronte di 24,783 corone ceche.
Riassumendo:
Cliente acquista € contro Czk:
+1€
- 24,783 Czk (ask Czk/€)
Cliente vende € contro Cad:
Czk
Da cui:
Cad
24,783
=
1,3128
-1€
+ 1,3128 Cad (bid Cad/€)
= 18,8693 (ask Czk/Cad)
Ora costruiamo il prezzo bid corone ceche/dollaro canadese, ricordando che il prezzo
bid è il prezzo a cui il dealer acquista la valuta merce (dollaro canadese) e vende la
valuta prezzo (corone ceche), ossia il prezzo a cui il cliente vende la valuta merce e
acquista la valuta prezzo. La prima operazione che il cliente dovrà eseguire sarà quella di
acquistare euro a fronte di dollari canadesi. Supponendo di lavorare su dati unitari, al
termine della prima operazione il cliente otterrà un euro a fronte di 1,3134 dollari canadesi
(tasso ask dollari canadesi/euro). In seguito, il cliente venderà gli euro a fronte di corone
ceche. Alla fine di tale operazione il cliente otterrà 24,742 corone ceche (tasso bid
corone ceche/euro) a fronte di un euro. L'acquisto e la vendita di un euro si annullano e il
cliente ottiene 24,742 corone ceche a fronte di 1,3134 dollari canadesi. In questo modo
possiamo ricavare il tasso ask dollaro canadese/corone ceche. Poi, attraverso i tassi
reciproci ricaviamo il tasso bid corone ceche/dollari canadesi (bid Czk/Cad = 1 / ask
Cad/Czk)
Riassumendo:
Cliente acquista € contro Cad: + 1 €
- 1,3134 Cad (ask Cad/€)
Cliente vende € contro Czk:
1
Da cui:
Cad
Czk
102
Czk
=
Cad
-1€
+ 24,742 Czk (bed Czk/€)
24,742
=
= 18,8467 (bid Czk/Cad)
1,3134
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L’arbitraggio triangolare
Supponiamo ora che il mercato sbagli a quotare, ossia che un tasso di cambio di
mercato sia diverso dal corrispondente tasso cross rate, che è in realtà un tasso teorico. In
questo caso si vengono a creare i presupposti per mettere in atto un'operazione di
arbitraggio, ossia un'operazione che permette di ottenere profitti senza correre rischi,
semplicemente attraverso lo sfruttamento delle inefficienze di prezzo. In questo caso,
ovviamente, si comprerà al prezzo più basso per rivendere istantaneamente al prezzo più
alto. Quindi:
se Qmkt < Qcr → acquisto alla quotazione di mercato e vendo alla quotazione cross rate;
se Qmkt > Qcr → acquisto alla quotazione cross rate e vendo alla quotazione di mercato.
Vediamo ora in che modo viene messa in atto questa operazione.
In primo luogo, ricordiamo che anche in caso di arbitraggio dovremmo considerare il
tasso bid e il tasso ask, ma per semplicità andiamo a considerare una quotazione media.
L'operazione di arbitraggio che andremo ad eseguire prende il nome di arbitraggio
triangolare, dal momento che operiamo su tre mercati, ossia eseguiamo
contemporaneamente tre operazioni. La contemporaneità delle operazioni è molto
importante, perché anche pochi secondi potrebbero essere sufficienti per determinare
variazioni di prezzo. Tuttavia, per facilitare la comprensione, andremo a vedere le tre
operazioni in sequenza logica.
Supponiamo di voler attuare un'operazione di arbitraggio triangolare relativamente al
tasso di cambio franco svizzero-sterlina, avendo le seguenti informazioni:
Qmkt Chf/Gbp = 1,50;
Qcr Chf/Gbp = 1,46.
Ciò significa che il mercato sta sopravvalutando la valuta merce (Gbp), perciò bisognerà
acquistare sterline al prezzo cross rate per rivenderle istantaneamente al prezzo di
mercato. Perciò, supponendo di avere a disposizione franchi svizzeri, per poter acquistare
sterline al prezzo cross rate dovremo innanzitutto acquistare euro. Lavorando su dati
unitari, al termine della prima operazione avremo un euro a fronte di 1,203 franchi svizzeri.
La seconda operazione consisterà nel vendere gli euro per acquistare sterline. Quindi, al
termine della seconda operazione avremo venduto un euro a fronte dell'acquisto di 0,825
sterline. Con queste due operazioni riesco ad ottenere l'acquisto di sterline al prezzo cross
rate. A questo punto non resta che vendere sterline per acquistare franchi svizzeri al
prezzo di mercato. Terminata l'operazione non avremo più sterline a fronte di un acquisto
di 1,2375 franchi svizzeri, che sono superiori alla somma utilizzata inizialmente per dare
origine alle operazioni viste.
Riassumendo:
Acquisto di € contro Chf:
+1€
- 1,203 Chf
Vendita di € contro Gbp:
-1€
+ 0,825 Gbp
Vendita di Gbp contro Chf:
- 0,825 Gbp
+ 0,825 · 1,50 = + 1,2375 Chf
Abbiamo quindi un ricavo di 1,2375 franchi svizzeri a fronte di un costo di 1,203 franchi
svizzeri. Il profitto sarà dato dalla differenza tra questi due valori, e sarà quindi pari a 3,45
centesimi di franco svizzero per ogni euro su cui effettuiamo l'arbitraggio.
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Supponiamo ora di voler attuare un'operazione di arbitraggio triangolare relativamente al
tasso di cambio franco svizzero-sterlina, avendo le seguenti informazioni:
Qmkt Chf/Gbp = 1,40
Qcr Chf/Gbp = 1,46
In questo caso il mercato sta sottovalutando la valuta merce (Gbp), perciò bisognerà
acquistare sterline al prezzo di mercato per rivenderle istantaneamente al prezzo cross
rate. Perciò, il primo passo consisterà nell'acquistare sterline contro franchi svizzeri al
prezzo di mercato. Al termine della prima operazione avremo 0,825 sterline a fronte di
1,155 franchi svizzeri (0,825 · 1,40 = 1,155). A questo punto dobbiamo effettuare una
vendita di sterline al prezzo cross rate, perciò, la prima cosa da fare sarà acquistare euro
contro sterline. Al termine della seconda operazione avremo perciò un euro a fronte di
0,825 sterline. Successivamente non resterà che vendere gli euro per acquistare franchi
svizzeri. Terminato l'arbitraggio avremo perciò 1,203 franchi svizzeri contro un euro.
Nuovamente abbiamo un ricavo superiore al costo.
Riassumendo:
Acquisto di Gbp contro Chf:
+ 0,825 Gbp
- 0,825 · 1,40 = - 1,155 Chf
Acquisto di € contro Gbp:
+1€
- 0,825 Gbp
Vendita di € contro Chf:
-1€
+ 1,203 Chf
Abbiamo quindi un ricavo pari a 1,203 franchi svizzeri a fronte di un costo pari a 1,155
franchi svizzeri. Il profitto sarà pari alla differenza tra questi due valori e sarà quindi pari a
4,8 centesimi di franco svizzero per ogni euro su cui effettuiamo l'arbitraggio.
18 aprile 2012
Le quotazioni a termine
Per prima cosa precisiamo che anche in caso di quotazioni a termine dovremmo
considerare sia i tassi bid che i tassi ask, ma per comodità parleremo di un unico tasso
medio.
Il prezzo a termine è in realtà un prezzo fissato oggi, ma la consegna avverrà in una data
futura. Quindi, sebbene il prezzo a termine sia una sorta di previsore del tasso di cambio, il
modo in cui viene costruito non ha nulla a che vedere con le aspettative, bensì si basa su
informazioni note oggi.
Supponiamo di dover decidere se investire un capitale di 1000 euro in euro oppure in
dollari. Se investiamo tale capitale in euro, esso sarà remunerato al tasso a 12 mesi
sull'euro, ossia 1,37%; perciò, a fine anno, otterremo una somma corrispondente al
montante:
M12 = 1000 (1 + 1,37%) = 1013, 70 €.
Se invece volessimo investire il nostro denaro in dollari, dovremmo innanzitutto trasformare
il nostro capitale iniziale in dollari: 1000 € = 1315,3 $ (1 € = 1,3153 $). Tale capitale sarà
quindi remunerato al tasso a 12 mesi sul dollaro, ossia 1,05%; perciò a fine anno otterremo
una somma corrispondente al montante:
M12 = 1315,3 (1 + 1,05%) = 1329,1 $.
Tuttavia, è impossibile sapere al tempo 0 quale dei due investimenti risulterà migliore:
infatti, la convenienza dipenderà dal tasso di cambio euro-dollaro che sarà in vigore tra
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12 mesi. Ciò che sappiamo è che la quotazione a termine è quel tasso di cambio che
rende indifferente l'investimento in euro rispetto all'investimento in dollari;
matematicamente, è quel tasso che, usato per convertire il montante dell'investimento in
euro, rende tale montante uguale a quello dell'investimento in dollari. Perciò risulterà:
1329,1
QP$/€ · (1 + i$ · t)
x=
=
= 1,311
1013,7
1 (1 + i€ · t)
ossia:
(1 + i$ · t)
QT$/€ = QP$/€ ·
(1 + i€ · t)
Il prezzo a termine, quindi è funzione di due variabili note oggi, ossia della condizione a
pronti e del differenziale tra i tassi di interesse delle valute che ci interessano.
Tuttavia, l’esempio che abbiamo visto è una semplificazione della strada reale che porta
al calcolo dei cambi a termine. Come nel caso dei cross rates, supponiamo che nessuno
sia disposto a quotare un prezzo per la consegna di euro contro dollari a 12 mesi. Tutti gli
strumenti derivati prendono avvio da questa problematica e dal ragionamento che ne
consegue, che prende il nome di teoria del cost of carry (costo di carico).
Prima di ragionare sui tassi di cambio, è utile riportare un esempio di immediata
comprensione: supponiamo che una ditta voglia avere certezza sul prezzo che una
determinata merce avrà fra 12 mesi, ma che nessuno sia disposto a quotare un prezzo
oggi. In questo caso, la ditta potrebbe acquistare oggi la merce, ma sorgerebbero diversi
problemi: innanzitutto, la ditta potrebbe non disporre del denaro per comprare la merce,
perciò sarebbe costretta a indebitarsi; in secondo luogo, la merce non verrà utilizzata
immediatamente, perciò dovrà essere immagazzinata, con tutta una serie di costi di
stoccaggio e di assicurazione, indispensabili per evitare il rischio di deterioramento o
distruzione. Si parla quindi di costo di carico perché non bisogna considerare solo il costo
della merce, ma anche i costi di indebitamento, di stoccaggio e di assicurazione.
Tale ragionamento può essere riportato in maniera analoga per la costruzione dei tassi di
cambio a termine, sebbene le voci di costo da considerare saranno diverse da quelle
previste per i beni fisici. Riprendendo l’esempio precedente, relativo al cambio eurodollaro, andiamo a vedere che cosa accade quando abbiamo necessità di acquistare
euro a termine oppure di vendere euro (acquistare dollari) a termine e nessuno è disposto
a quotare un prezzo oggi. In questi casi si parla di acquisto sintetico di euro a termine,
oppure di vendita sintetica di euro a termine.
Acquisto sintetico di euro a termine
Nel caso in cui nessuno sia disposto a quotare un prezzo a cui si potrà acquistare euro tra
12 mesi, è possibile percorrere una strada alternativa, basata su tre passaggi:
Indebitamento in dollari: se ho bisogno di acquistare euro a termine significa che parto
con una dotazione di dollari, che dovrò ottenere attraverso un indebitamento in dollari, e
dovrò costruire una quotazione relativa al tempo che mi interessa, in questo caso 12 mesi.
Acquisto di euro a pronti contro dollari: con i dollari appena presi a prestito andrò subito
ad acquistare euro.
Investimento in euro: tuttavia, come nel caso della merce, gli euro acquistati non mi
servono immediatamente e, essendo un’attività finanziaria, potrò eliminare i costi per il
loro mantenimento investendoli, in questo a caso a 12 mesi.
.Rivediamo questi passaggi in un caso pratico, riprendendo i dati dell’esempio
precedente, ossia:
QP$/€ = 1,3153
i€ = 1,37%
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i$ = 1,05%
Per un acquisto sintetico di euro a termine avremo:
Vediamo quindi che i flussi in 0 si annullano, come se non fossero mai esistiti, e ciò che
rimane sono i flussi a T12, ossia il montante dell’indebitamento in dollari a 12 mesi e il
montante dell’investimento in euro a 12 mesi. Come nell’esempio precedente, il prezzo di
un euro rispetto al dollaro a 12 mesi sarà pari al rapporto tra i due importi, ossia
(1 + i$ ∙ t)
(1 + 1,05% · 1)
QT$/€ = QP$/€
= 1,3153
= 1,311
(1 + i€ ∙ t)
(1 + 1,37% ∙ 1)
Generalizzando risulterà:
(1 + ivaluta prezzo ∙ t)
QT = QP
(1 + ivaluta merce ∙ t)
Vendita sintetica di euro a termine
Nel caso in cui nessuno sia disposto a quotare un prezzo a cui si potrà vendere euro tra 12
mesi, è possibile ricorrere ad una strada alternativa, nuovamente basata su tre passaggi:
Indebitamento in euro: se voglio vendere euro a termine significa che parto con una
dotazione di euro, che dovrò ottenere attraverso un indebitamento in euro, e dovrò
costruire una quotazione relativa al tempo che mi interessa, in questo caso 12 mesi.
Vendita di euro a pronti contro dollari: con gli euro appena presi a prestito andrò subito
ad acquistare dollari.
Investimento in dollari: i dollari acquistati non mi servono immediatamente, perciò andrò
ad investirli per un periodo di 12 mesi.
Rivediamo anche questi passaggi riprendendo l’esempio precedente:
Anche in questo caso i flussi in 0 si annullano, come se non fossero mai esistiti, e ciò che
rimane a T12 è un flusso di cassa in uscita in euro e un flusso di cassa in entrata in dollari.
Abbiamo quindi verificato che, con tali operazioni, costruisco lo stesso risultato che
otterrei con un contratto a termine.
L’arbitraggio di parità coperta (o di interesse coperto)
Supponiamo ora che il mercato esprima una quotazione a termine diversa dalla
quotazione teorica che abbiamo imparato a calcolare. In questo caso ha senso
impostare una strategia di arbitraggio, che prende il nome di arbitraggio di parità
coperta o di interesse coperto. Ovviamente, dovrò acquistare al prezzo più basso e
vendere al prezzo più alto, perciò risulterà:
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se QT* > QTmkt → acquisto alla quotazione di mercato e vendo alla quotazione teorica;
se QT* < QTmkt → acquisto alla quotazione teorica e vendo alla quotazione di mercato.
L’acquisto o la vendita alla quotazione teorica è quella che abbiamo imparato a
costruire. L’arbitraggio di parità coperta, perciò, si realizza attraverso quattro operazioni:
tre per l’acquisto o la vendita alla quotazione teorica e una per l’acquisto o la vendita
alla condizioni di mercato.
Supponiamo di voler impostare una strategia di arbitraggio di parità coperta
relativamente al tasso di cambio euro-sterlina, disponendo delle seguenti informazioni:
i€ = 1,4%
iGbp = 1,9%
QPGbp/€ = 0,83
QTmkt = 0,85
Come prima cosa andiamo a calcolare la quotazione teorica:
(1 + 1,9%)
QT* = 0,83
= 0,81
(1 + 1,4%)
Dal momento che QT* < QTmkt dovrò acquistare alla quotazione teorica e vendere alla
quotazione di mercato. Dovremo quindi effettuare un acquisto sintetico di euro a termine
e poi una vendita di euro a termine alle condizioni di mercato. Avremo quindi le seguenti
operazioni:
Indebitamento in sterline;
Acquisto di euro a pronti contro sterline;
Investimento in euro;
Vendita di euro a termine;
Numericamente risulterà:
Vediamo che tutti i flussi di cassa in 0 si annullano e ciò che resta è il costo in sterline e il
ricavo in sterline a T12. Se, come in questo caso, il ricavo è superiore al costo, l’arbitraggio
è riuscito e il profitto sarà dato dalla differenza tra ricavo e costo, ossia:
Profitto = 0,862 – 0,846 = 1,6 centesimi di sterlina per ogni euro su cui effettuiamo
l’arbitraggio.
Ora manteniamo tutti i dati precedenti ma supponiamo che la quotazione di mercato sia
pari a 0,80. Poiché QT* > QTmkt, dovrò acquistare alla quotazione di mercato e vendere
alla quotazione teorica, ossia avrò un acquisto di euro a termine alle condizioni di
mercato e poi una vendita sintetica di euro a termine. Avremo quindi le seguenti
operazioni:
Acquisto di euro a termine;
Indebitamento in euro;
Vendita di euro a pronti contro sterline;
Investimento in sterline.
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Numericamente risulterà:
Nuovamente, tutti i flussi di cassa in 0 si annullano e ciò che resta è il costo in sterline e il
ricavo in sterline. Il profitto sarà pari a:
Profitto = 0,846 – 0811 = 3,5 centesimi di sterlina per ogni euro su cui effettuiamo
l’arbitraggio.
Il contratto a termine è il primo contratto derivato che ho a disposizione, ricordando che
la gestione dei rischi tramite gli strumenti derivati passa attraverso l’eliminazione o, ove
non sia possibile, la minimizzazione dell’incertezza rispetto ai valori futuri. Gli strumenti
derivati, quindi sono strumenti volti all’eliminazione dell’incertezza e non alla
massimizzazione del profitto, perché, se il mercato si muove in modo favorevole, senza il
costo sostenuto per la copertura, il guadagno sarebbe certamente superiore.
Gestione o copertura dei rischi
Quando si affronta l’argomento della copertura dei rischi è importante ragionare sul
metodo ma anche sugli importi: a differenza degli esempi visti finora, che prendevano
avvio partendo da importi arbitrari, nel caso della copertura bisogna ragionare nello
specifico sull’importo che deve essere coperto.
Supponiamo che vi sia un’impresa giapponese che esporta negli Stati Uniti per un milione
di dollari, e che tale operazione dia vita ad un credito commerciale che sarà pagato tra
tre mesi. La prima domanda che bisogna porsi è quale tipo di rischio corre l’esportatore. Il
rischio è che tra tre mesi il dollaro si deprezzi, ossia che il prezzo in yen per un dollaro
scenda. Bisogna quindi capire come all’esportatore conviene coprirsi, sapendo che il
rischio è quello del deprezzamento del dollaro.
L’esportatore giapponese dispone delle seguenti informazioni:
QPYen/$ = 118,39;
QTYen/$ 3mesi = 117;
iYen 3mesi = 0,10%;
i$ 3mesi = 4,9%.
I tassi sono espressi su base annua quindi dobbiamo ricordarci di manipolare il tempo.
La prima possibilità che l’esportatore ha è vendere dollari a termine alla quotazione di
mercato. Con la vendita alla quotazione di mercato, l’esportatore riceverebbe: 1mln ∙
117 = 117mln Yen
La seconda possibilità che ha l’esportatore è quello di effettuare una vendita sintetica di
dollari, che elimina l’incertezza circa il valore del dollaro. L’esportatore deve quindi
indebitarsi in dollari per un valore tale per cui il montante di debito tra tre mesi sarà pari al
ricavo dell’esportazione tra tre mesi: ciò significa che il capitale preso a prestito sarà pari
al valore attuale di un milione di dollari. In seguito, l’esportatore dovrà vendere dollari
contro yen a pronti e procedere con un investimento in yen.
Numericamente risulterà:
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Supponiamo ora che vi sia un’impresa giapponese che importa dalla Svizzera per un
milione di franche svizzeri, e che tale operazione dia origine a un debito commerciale che
sarà pagato tra 12 mesi. Se l’impresa non vuole correre il rischio di cambio deve
innanzitutto chiedersi a quale tipo di rischio va incontro. In questo l’impresa corre un
rischio di apprezzamento del franco svizzero, dato che in yen il controvalore salirebbe. Per
eliminare l’incertezza, ossia per attribuire un valore certo al franco svizzero, l’importatore
può effettuare un acquisto sintetico di franchi svizzeri.
L’importatore dispone delle seguenti informazione:
QPYen/Chf = 97,91;
iChf = 2,60%;
iYen = 0,78%.
Inoltre, l’importatore sa che, tra 12 mesi, dovrà disporre di un milione di franchi svizzeri,
dato che la copertura avviene con il pagamento del debito commerciale. Affinché ciò
accada, l’importatore deve investire oggi il valore attuale di un milione di franchi svizzeri.
Dovrà quindi acquistare tale valore attraverso un acquisto a pronti di franchi svizzeri
contro Yen, che dovranno essere presi a prestito oggi e che comporteranno un rimborso
tra 12 mesi pari al montante.
Perciò risulterà:
96, 17 circa sarà quindi il tasso di equilibrio che avrei potuto trovare sul mercato.
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24 aprile 2012
I mercati mobiliari
Classificazione dei mercati mobiliari
Quando si parla di mercati mobiliari, ossia di mercati dei titoli, abbiamo a disposizione
tante possibili classificazioni, tra di loro non alternative ma aggiuntive.
Una prima classificazione dei mercati mobiliari si basa sulla tipologia di strumento cui
facciamo riferimento:
mercati monetari (scadenza < 12 mesi);
mercati dei capitali (scadenza > 12 mesi), a loro volta divisi in obbligazionari e azionari.
Una seconda classificazione ha a che fare con la natura degli scambi che vengono
attuati:
mercati primari, o mercati delle nuove emissioni. All’interno di questi mercati le relazioni
sono intrattenute tra emittenti e investitori. Solo durante le fasi di mercato primario si
movimenta lo stato patrimoniale dell’emittente ;
mercati secondari, o mercati delle emissioni in circolazione. In questo caso le relazioni
sono intrattenute tra investitori. All’interno di questi mercati i titoli già emessi vengono
trasferiti da un investitore all’altro, senza che lo stato patrimoniale dell’impresa subisca
alcuna variazione.
La distinzione tra mercati primari e mercati secondari è aggiuntiva rispetto a quella tra
mercati monetari e mercati dei capitali: infatti i mercati monetari possono essere suddivisi
in primari e secondari, sebbene questo secondo settore sia quasi totalmente inesistente,
data la breve scadenza dei titoli; allo stesso modo i mercati dei capitali possono essere
suddivisi in primari e secondari, ma in questo caso il secondo settore è di gran lunga
prevalente rispetto al primo.
Vi è poi un’ultima classificazione:
mercati regolamentati: le regole riguardando le tipologie di titoli, le tipologie di
negoziatori e le modalità di negoziazione;
mercati otc (over the counter).
Questa distinzione può essere operata sia sui mercati primari sia sui mercati secondari, ma
riguarda soprattutto i mercati secondari.
Il mercato obbligazionario primario
Parlando di mercato obbligazionario primario, analizzeremo in particolare i meccanismi di
asta sui titoli di stato, mentre i meccanismi attraverso cui si ha l’emissione dei titoli
corporate rientrano negli investment banking e saranno trattati più avanti
Quando si parla di titoli di stato, l’attività di emissione, ossia la fase di collocamento,
avviene attraverso un meccanismo di asta. L’asta con cui vengono emessi i BOT prende il
nome di asta competitiva, mentre l’asta con cui vengono emessi gli altri titoli di stato
prende il nome di asta marginale. È importante capire il meccanismo puro di asta
competitiva rispetto al meccanismo puro di asta marginale, mentre non è così rilevante
conoscere le decisioni che il tesoro italiano innesta su tali meccanismi in relazione alla
determinazione dei prezzi limite.
Sia l’asta competitiva che l’asta marginale si sviluppano in tre diverse fasi:
fase di proposta;
fase di accettazione;
fissazione del prezzo d’asta.
L’asta competitiva e l’asta marginale coincidono per quanto riguarda le prime due fasi,
mentre divergono sulla fissazione del prezzo.
I soggetti che possono partecipare alle aste dei titoli di stato, e quindi accedere alla fase
di proposta, sono stabiliti per legge: infatti possono prendere parte alle aste solo le
110
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istituzioni finanziarie, mentre non possono partecipare direttamente gli investitori finali.
Inoltre, la legge stabilisce quante e quali proposte possa portare ogni istituzione.
In ogni caso, nella fase di proposta le istituzione propongono la quantità e il prezzo a cui
sono disposte ad acquistare. Quindi, nel caso dei titoli di stato l’offerta è fissa e il prezzo
risulterà dall’asta, mentre nei mercati secondari le aste valgono sia per chi domanda sia
per chi offre titoli.
Ipotizziamo che, in una certa asta, il tesoro dichiari una quantità offerta pari a 1000. A
questo punto, il tesoro riceverà una serie di buste, contenenti le varie offerte in termini di
quantità e prezzo. Ad esempio:
P
Q
A
99,3
100
B
99,7
300
C
98,9
200
D
98,7
400
E
99,2
300
Con l’apertura delle buste contenenti le proposte, la fase di proposta è conclusa.
La fase di accettazione prende avvio con una riclassificazione delle proposte per prezzo
decrescente (e, conseguentemente, per rendimento crescente). Riprendendo l’esempio
precedente:
P
Q
Qcum
99,7
300
300
99,3
100
400
99,2
300
700
98,9
200
900
98,7
400
1000
100
La quantità cumulata indica il numero di titoli che saranno sicuramente collocati entro
quel prezzo: infatti, è ovvio che chiunque sia disposto ad accettare un prezzo superiore, e
quindi un rendimento inferiore, sarà disposto ad acquistare anche ad un prezzo inferiore,
ottenendo così un rendimento superiore.
Quindi, partendo dal prezzo più alto, verranno accettate tutte le proposte necessarie a
raggiungere la quantità offerta. Nell’esempio proposto, la quantità offerta è pari a 1000,
quindi l’ultima offerta potrà essere accettata solo per una quantità pari a 100. In realtà, è
opportuno ricordare che il tesoro non mantiene del tutto inalterata la quantità offerta;
solitamente stabilisce un range, e solo dopo aver esaminato le proposte deciderà su
quale livello di offerta collocarsi all’interno dell’intervallo stabilito.
Per quanto riguarda la fissazione del prezzo, in caso di asta competitiva, i titoli sono
collocati al prezzo proposto, ossia ciascuna proposta accettata è soddisfatta al prezzo
portato in asta. Quando sentiamo parlare del prezzo ufficiale d’asta, si fa invece
riferimento al prezzo a cui i clienti finali acquistano i titoli di stato (i BOT, nel caso dell’asta
competitiva) in emissione: tale prezzo corrisponde alla media dei prezzi ponderata per la
quantità collocata a ciascun livello di prezzo.
Tuttavia, come si può facilmente immaginare, ogni emittente teme quando attua
meccanismi di questo tipo, poiché, non fissando un prezzo al di sotto del quale non si
possa scendere, rischia che i partecipanti all’asta adottino comportamenti opportunistici.
Il tesoro cerca perciò di evitare problemi di questo tipo, mettendo in atto meccanismi per
tutelarsi, senza però esplicitare un valore, dato che ciò equivarrebbe a controllare i tassi,
un’operazioni politicamente poco gradita. Il tesoro condivide questo rischio anche con
altre tipologie di emittenti, nel caso in cui l’emissione di titoli avvenga col metodo d’asta.
A differenza dei privati, però, il tesoro si turba anche quando il rendimento offerto è
troppo basso, ossia quando vengono proposti prezzi irrealisticamente alti. Quindi, per
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quanto riguarda i titoli di stato, viene stabilito sia un prezzo massimo accoglibile sia un
prezzo di esclusione.
Il meccanismo attraverso cui vengono calcolati il prezzo massimo accoglibile e il prezzo di
esclusione è semplicemente un tecnicismo, che non è utile ricordare ma che è
comunque interessante analizzare. Con riferimento ai BOT il tesoro “fa parlare l’asta”, ossia
lascia che il prezzo massimo accoglibile e il prezzo di esclusione si formino in base
all’andamento dell’asta.
Per quanto riguarda la determinazione del prezzo massimo accoglibile, o PMA, il tesoro
passa attraverso varie fasi:
Calcolare il prezzo medio ponderato del secondo 50% delle proposte accettate.
Nell’esempio visto risulterà:
200
200
100
PMP2° 50% = 99,2 ∙
+ 98,2 ∙
+ 98,7 ∙
= 99
500
500
500
Calcolare il rendimento equivalente a questo prezzo.
100 - 99
RPMP2° 50% =
= 1,01%
99
Togliere dal rendimento calcolato al punto 2) 25 centesimi di punto percentuale.
1,01% - 0,25% = 0,76%
Calcolare i prezzo massimo accoglibile, equivalente al rendimento calcolato al punto 3).
100 - x
= 0,76% → x = PMA = 99,25
x
Sulla base di questo ragionamento, i prezzi 99,7 e 99,3 non potrebbero essere accettati,
ma ciò non significa che queste proposte vengano escluse dall’asta, perché non sarebbe
opportuno penalizzare chi semplicemente era disposto ad accettare un rendimento
molto basso. Quindi, le proposte saranno accolte al prezzo minore tra il prezzo massimo
accoglibile e il prezzo massimo accolto, da cui ricavo il rendimento equivalente e a cui
tolgo 10 punti base. Perciò:
PMA = 99,25
Proposte
sopra
PMA
P minore
100 – 99,2
Requivalente Pmax accolto (99,2) =
= 0,81%
99,2
0,81% - 0,10% = 0,71%
100 – x
= 0,71% → x = 99,29
x
Le proposte saranno quindi accettate ad un prezzo pari al prezzo massimo accoglibile,
99,25
Adesso vediamo come calcolare il presso di esclusione, ossia il prezzo al di sotto del quale
le proposte non vengono accettate. Anche in questo caso, si passa attraverso varie fasi:
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Calcolare il prezzo medio ponderato del primo 50% accettato (tenendo conto che le
proposte accettate ad un prezzo diverso da quello proposto non rientrano nel primo 50%).
300
200
PMP1° 50% = 99,2 ∙
+ 98,9 ∙
= 99,08
500
500
Calcolare il rendimento equivalente a questo prezzo.
100 – 99,08
RPMP1° 50% =
= 0,93%
.
99,08
Aggiungere al rendimento calcolato al punto 2) 100 punti base.
0,93% + 1% = 1,93%
Determinare il prezzo di esclusione che deriva dal punto 3)
100 – x
= 1,93% → x = Pesclusione = 98,11
x
Nel caso in cui le offerte superiori al prezzo di esclusione non siano sufficienti a
raggiungere la quantità offerta, l’asta si dice parzialmente chiusa. Questa situazione, nel
caso dei BOT si verifica solo se i prezzi proposti sono inferiori al prezzo di esclusione, e mai
perché la domanda risulta inferiore all’offerta.
Ora non rimane che analizzare il meccanismo di fissazione del prezzo nel caso dell’asta
marginale, utilizzata per i BTP e per tutti i titoli di stato diversi dai BOT. In caso di asta
marginale, il prezzo di aggiudicazione è il prezzo al margine, ovvero il prezzo a cui tutta la
quantità offerta è collocabile, oppure, se la domanda è inferiore all’offerta, il prezzo a cui
la maggior parte dell’offerta è collocabile. Nell’esempio visto, il prezzo di aggiudicazione
sarebbe 98,7.
Anche in caso di asta marginale il tesoro fissa un prezzo massimo accoglibile e un prezzo
di esclusione, che si calcolano in modo diverso da quello previsto per i BOT e che non
andremo a vedere.
Adesso dobbiamo impostare un ragionamento riguardante le strategie con cui si
partecipa all’asta, che permette di comprendere perché il tesoro scelga l’una o l’altra.
Abbiamo visto che in caso di asta marginale il tesoro incassa meno di quello che
incasserebbe con un’asta competitiva. Bisogna quindi chiedersi perché il tesoro, in certi
casi, si privi di potenziare il proprio ricavo.
Cominciamo col dire che chiunque partecipi all’asta ha in mente un rendimento minimo,
ossia un prezzo massimo a cui è disposto a partecipare. Bisogna però capire se ha senso o
meno che i partecipanti siano trasparenti su questo prezzo.
Consideriamo l’atteggiamento di un partecipante all’asta in caso di asta marginale: se il
suo prezzo perfetto è superiore al prezzo marginale non ha alcun problema a dichiararlo,
dal momento che, in ogni caso, otterrà i titoli al prezzo marginale; se il suo prezzo perfetto
è inferiore al prezzo marginale non avrà nuovamente problemi a dichiararlo, perché
semplicemente non riceverà i titoli richiesti. Quindi, in caso di asta marginale, i
partecipanti non hanno disincentivi a portare il proprio prezzo perfetto.
In caso di asta competitiva, invece, i titoli vengono attribuiti al prezzo che viene portato in
asta. Quindi, potenzialmente, i partecipanti hanno l’incentivo a proporre prezzi inferiori al
proprio massimo, ossia a non essere trasparenti. Tuttavia, sanno anche che se
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propongono un prezzo troppo basso rischiano di essere esclusi e che il rischio di esclusione
è tanto più forte quanto più è intensa la concorrenza. Perciò, più concorrenza
percepiscono i partecipanti e meno saranno incentivati a ribassare i prezzi. Nel caso dei
titoli di stato la massima concorrenza si manifesta in riferimento ai BOT, per i quali la
domanda è sempre di gran lunga superiore rispetto all’offerta. Quindi, quando vengono
emessi BOT, il tesoro sa che può utilizzare senza troppi rischi il meccanismo di asta
competitiva, dal momento che l’elevata intensità della concorrenza conterrà il ribasso
dei prezzi proposti. In caso di titoli diversi dai BOT, invece, è possibile che non vi sia molta
concorrenza, perciò il tesoro, sapendo il rischio che correrebbe se usasse l’asta
competitiva, preferirà ricorrere al meccanismo dell’asta marginale.
19 aprile 2012
Il mercato azionario primario
Parlando del mercato azionario primario andremo a vedere il processo con cui una
società arriva a quotarsi in borsa, ossia con cui i titoli arrivano sul mercato azionario
secondario regolamentato. La borsa è il più noto dei mercati secondari e il suo segmento
principale è l’azionario, sebbene esistano anche segmenti obbligazionari.
Gli IPOs
Gli IPOs (Initial Public Offering) sono il processo con cui una società arriva a quotarsi in
borsa. Initial Offering sta ad indicare che si tratta di un’offerta iniziale, nel senso che prima
di questo processo la società non è quotata, mentre Public significa che la società,
attraverso la quotazione, diventa disponibile per il pubblico che vuole comprarla.
Innanzitutto andiamo a vedere che cosa è la borsa e quali sono i vantaggi per
un’azienda che decida di quotarsi. Per definizione, la borsa è il luogo in cui si incontrano
le esigenze di finanziamento delle imprese e le esigenze di investimento dei risparmiatori.
Noi andremo ad analizzare la situazione dal punto di vista delle imprese che necessitano
di finanziamenti.
Le imprese sono avviate dagli imprenditori, ma arriva sempre un momento in cui lo
sviluppo dell’azienda non è in grado di proseguire per mancanza di capitali. In questo
caso, l’impresa ha due possibilità: ricorrere al sistema bancario o cercare capitale di
rischio. Ciò che noi andremo ad analizzare è la seconda opportunità, ossia l’apertura
della società ai terzi per ricercare capitale di rischio. In realtà vi sono vari modi attraverso
cui realizzare l’apertura ai terzi: la borsa è il principale di questi, ma esistono anche i
cosiddetti fondi chiusi.
La quotazione presenta diversi vantaggi per le aziende:
disporre di una fonte di finanziamento alternativa alle banche. Al giorno d’oggi si tratta di
una caratteristica molto utile dal momento che, anche a causa degli accordi di Basilea,
le banche tendono a non concedere finanziamenti alle imprese, che quindi incontrano
diverse complicazioni quando cercano di ricorrere al sistema bancario. La borsa
permette alle imprese di finanziarsi avendo come controparte non una banca, bensì un
pubblico di finanziatori;
disporre di un maggiore potere contrattuale nei confronti delle banche. Anche dopo la
quotazione, un’impresa può avere la necessità di ottenere nuovi finanziamenti volti a
sostenere progetti particolarmente ambiziosi. In questo caso, l’impresa dovrà
nuovamente scegliere tra banche e borsa, ma, essendo già quotata, disporrà di un
maggiore potere contrattuale nei confronti delle banche e sarà quindi in grado di
imporre maggiormente le proprie condizioni;
trasformare l’azienda da un modello familiare ad un modello di sviluppo imprenditoriale.
In un’azienda quotata, il manager trarrà un vantaggio sia di interesse sia di immagine,
dato che in società di questo tipo avrà un riconoscimento pubblico del proprio lavoro,
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cosa che non è invece possibile in un’impresa non quotata, in cui il manager si confronta
solo con l’imprenditore. Inoltre, l’azienda quotata può favorire i piani di stock option, ossia
l’attribuzione di un certo numero di azioni a favore del manager. Teoricamente, questa
opportunità è a disposizione di tutte le imprese, ma, se l’azienda è quotata, il manager sa
di avere in mano qualcosa di concretamente monetizzabile, mentre in una società non
quotata non si può avere un’idea precisa del valore della quota di cui si dispone;
vantaggi in termini di scambi azionari. Molte trattative di natura finanziaria possono
trovare una spinta nello scambio azionario, dal momento che i pacchetti azionari di cui si
dispone e che devono essere scambiati possono essere valutati immediatamente dalle
parti dell’accordo, che possono così capire immediatamente i vantaggi e gli svantaggi
della trattativa.
La quotazione presenta diversi vantaggi anche dal punto di vista dei soci:
diversificazione degli investimenti: un’azienda quotata, innanzitutto, rappresenta un
valore certo e, in secondo luogo, consente di smobilizzare piccoli pacchetti sul mercato in
modo tale da diversificare il proprio investimento;
way out: la quotazione è un’uscita istituzionale teorica per la liquidazione di determinati
investimenti.
Tuttavia, la quotazione non presenta solo vantaggi, ma anche oneri:
oneri di trasparenza: un’azienda che vuole quotarsi deve fornire tutta una serie di
informazioni che risultano attraenti per chiunque abbia a che fare con essa, quindi anche
per la concorrenza;
oneri economici: quotare una società in borsa è molto costoso, dal momento che il
processo di quotazione coinvolge varie parti, ognuna delle quali pretende un
pagamento. Inoltre, il costo sarà tanto più elevato percentualmente quanto più è piccola
l’azienda: infatti, i costi assoluti sostenuti da una piccola azienda saranno inferiori rispetto
a quelli sostenuti da una grande azienda, ma, in percentuale rispetto al valore della
società, risulteranno più elevati (in alcuni casi possono arrivare a toccare l’8%). Questi
costi, ovviamente, possono essere compressi oppure aumentati; in questo periodo, in cui
l’andamento dei mercati determina un basso livello di IPOs, si cerca di comprimere i costi
per aumentare le quotazioni. Gli interventi volti a raggiungere questo obiettivo sono messi
in atto dalla Consob e dagli intermediari, che hanno addirittura autorizzato la creazione di
un fondo per finanziare con capitale di debito le aziende, in modo tale da spingerle verso
la quotazione. Si tratta di una situazione paradossale, dal momento che la borsa
dovrebbe rappresentare una via di finanziamento alternativa alle banche.
È poi importante rilevare che la borsa non va identificata come uno strumento
puramente teorico, in cui si incontrano gli interessi degli investitori e dei prenditori di fondi;
la borsa è una Spa con fine di lucro. Perciò, la borsa non è un’istituzione finanziaria, come
possono esserlo la Banca d’Italia o la Consob, che hanno lo scopo preciso di
sovrintendere al funzionamento del mercato. La borsa è semplicemente una società a cui
le istituzioni conferiscono l’autorità di regolamentare i mercati, ma non è lei stessa a
dettare le regole. Più precisamente, la borsa italiana è di proprietà della borsa inglese,
una società a sua volta quotata, che quindi ha la necessità di generare profitti per
pagare dividendi ai suoi soci. Sulla base di queste considerazioni, è abbastanza intuitivo
capire che la borsa italiana si trova in concorrenza con la borsa francese, tedesca, ecc.
Ovviamente, la borsa ha tanti rami di attività, tra i quali quello degli IPOs è uno dei più
rilevanti. All’interno degli IPOs troviamo grosso modo due tipi di operazioni: gli OPV (offerte
pubbliche di vendita) e gli OPS (offerte pubbliche di sottoscrizione). Gli OPV sono le
vendite di titoli sul mercato effettuate dai soci; gli OPS, invece sono gli aumenti di capitali
varati dall’azienda. La differenza tra queste due operazioni è fondamentale: con gli OPS,
a differenza che con gli OPV, l’azienda si finanzia, ossia emette azioni che prima non
esistevano e che vengono sottoscritte da un pubblico indistinto. Perciò, quando parliamo
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di finanziamento aziendale ci riferiamo agli OPS, che determinano l’acquisto di nuovi
capitali da parte dall’azienda, cosa che invece non accade con gli OPV.
Il processo di quotazione
Il processo di quotazione prende avvio con la decisione dell’imprenditore di far quotare in
borsa la sua società. Dopo aver preso tale decisione, l’imprenditore deve
necessariamente cominciare la ricerca di una serie di consulenti che lo aiutino in questo
processo di quotazione.
Il primo consulente che interviene, solitamente, è un soggetto molto vicino
all’imprenditore (commercialista, avvocato, ecc…), in grado di dispensare consigli utili
per capire se il processo di quotazione abbia senso o meno. Infatti, gli imprenditori che
dedicano la propria vita all’azienda, spesso sopravvalutano il reale valore della propria
creatura, perciò, anche un primo consulente può essere utile per comprendere la realtà e
valutare se il processo di quotazione sia una strada percorribile.
Se questo primo scalino viene superato, ossia se i primi consulenti si convincono della
convenienza dell’operazione, l’imprenditore deve mettere in atto le manovre essenziali
per la quotazione: verrà convocata l’assemblea dei soci, che, nel caso degli OPV dovrà
deliberare la vendita di azioni preesistenti al pubblico, mentre nel caso degli OPS dovrà
deliberare un aumento del capitale sociale.
Eseguita questa manovra, l’imprenditore dovrà cercare vari consulenti più operativi,
maggiormente pratici dei mercati finanziari. Il più importante tra questi consulenti è lo
sponsor, un’istituzione finanziaria che assume la regia di tutto il processo di quotazione. Il
suo primo compito è quello di verificare se la società emittente e le azioni presentano i
requisiti formali e sostanziali necessari per la quotazione.
Per quanto riguarda i requisiti sostanziali, è necessario stimolare l’interesse degli investitori
che devono comprare o sottoscrivere le azioni; l’imprenditore deve perciò presentare dei
requisiti di “attrazione”, ossia deve proporre un prodotto con buone prospettive di
vendita, un piano di sviluppo interessante relativamente al prodotto, al processo
industriale, ai mercati da aggredire, ecc.
I requisiti formali, richiesti per la società, dipendono sia dal mercato in cui la società si
vuole inserire, sia dai suoi andamenti economici. Infatti, la società deve dimostrare la sua
capacità di produrre utili in condizioni di normalità operativa, ossia deve essere in grado
di generare risultati operativi positivi. Ciò che viene dopo i risultati operativi (ad esempio
oneri straordinari, plusvalenze, minusvalenze, ecc) interessa molto meno ai fini del rispetto
dei requisiti necessari per la quotazione. In pratica, la possibilità di quotarsi in borsa
discende direttamente dalla solidità della società sotto il profilo gestionale. Per quanto
riguarda le azioni, invece, si richiede che venga collocato in borsa almeno il 25% del
capitale (gli altri requisiti, come ad esempio la libera trasferibilità, derivano direttamente
dalla storia delle azioni e sono talmente usuali che non si ritiene più necessario
specificarli).
Appurato il rispetto dei requisiti formali e sostanziali richiesti, lo sponsor e l’imprenditore
procedono nella definizione del mercato più adatto su cui quotarsi. Infatti, i mercati
disponibili sono tanti, o meglio esistono tanti segmenti dello stesso mercato. Già all’interno
del singolo mercato italiano, la quotazione in borsa offre quattro possibilità:
settore standard: i requisiti richiesti sono una capitalizzazione compresa fra i 40 milioni di
euro e il miliardo di euro, il collocamento sul mercato di almeno il 25% del capitale e la
libera trasferibilità delle azioni;
settore blue chips: è riservato alle aziende con capitalizzazione superiore al miliardo di
eruo;
settore star: è riservato alle società più brillanti, ma richiede anche requisiti più stringenti;
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settore AIM Italia – MAC: è un settore nuovissimo, nato il 1 marzo 2012 dalla fusione di due
mercati destinati alle piccole e medie imprese, ossia AIM Italia e MAC. AIM Italia
(Alternative Investment Market) era una sorta di imitazione dell’AIM inglese, che aveva
avuto un’esplosione di business all’inizio del secolo, tanto da arrivare a quotare circa 1600
società, con una raccolta di capitali enorme. Tale settore aveva sfruttato un momento di
favore verso i mercati finanziari per attrarre molte società di piccole e medie dimensioni,
ricorrendo anche a regolamenti non particolarmente onerosi per chi intendeva quotarsi. Il
MAC (Mercato Alternativo dei Capitali) era invece un settore creato da alcuni
intermediari che volevano attrarre un certo numero di piccole e medie società. Questo
settore non era aperto al pubblico, bensì solo agli intermediari istituzionali, ossia i singoli
investitori non potevano intervenire direttamente su questo mercato. Tale impostazione
risultava abbastanza sensata: le piccole e medie imprese sono molto più rischiose di
quelle grandi e non hanno neanche grossi volumi di scambio, cosa che rende difficile
smobilizzare gli investimenti in caso di necessità, per cui non sono investimenti
particolarmente adeguati per i piccoli risparmiatori; gli intermediari istituzionali, al
contrario, sono soggetti dotati di competenze adeguate per valutare correttamente la
convenienza di tali investimenti. Quando la borsa italiana è stata acquistata dalla borsa
inglese, questi due mercati destinati alle piccole e medie imprese erano entrambi
abbastanza limitati. Si è perciò deciso di fonderli, dando vita ad un unico mercato aperto
al pubblico.
Questi quattro segmenti funzionano in modo diverso e presentano costi diversi, perciò lo
sponsor e l’imprenditore devono valutare attentamente su quale andare ad intervenire.
Una volta stabilito il segmento su cui quotarsi, inizia il vero e proprio processo di
quotazione, che si divide in due strade, una operativa e una documentale.
Per quanto riguarda la strada operativa, è necessario organizzare le modalità attraverso
cui le azioni arrivano sul mercato, a disposizione del pubblico, a prescindere dal fatto che
esse derivino da una vendita o da una sottoscrizione. A tal fine, lo sponsor deve nominare
un global coordinator o assumere in prima persona tale incarico: generalmente, lo
sponsor è una grossa società di intermediazione, perciò non vi è la necessità di nominare
un global coordinator esterno; tuttavia, se lo sponsor è di piccole dimensioni, potrà gestire
l’attività di preparazione ma non disporrà di una struttura adeguata per assumere in
prima persona il ruolo di global coordinator, perciò si dovrà ricorrere ad un soggetto
esterno.
Contemporaneamente, lo sponsor porta avanti la strada documentale, lavorando al
prospetto informativo. Il prospetto informativo è un documento enorme, indispensabile
per qualificare i titoli offerti sul mercato. Il prospetto informativo deve contenere tutte le
informazioni necessarie affinché sia garantita la trasparenza della società quotata: la
storia della società, ciò che fa, le analisi delle potenzialità di rischio future, ecc, e,
soprattutto, gli obiettivi di finanziamento (in quali progetti sarà investito il denaro degli
investitori) e gli obiettivi della società (le motivazione per cui la società decide di quotarsi
in borsa). Nell’obbligo della predisposizione del prospetto informativo risiede uno degli
oneri della quotazione: infatti, la trasparenza impone alla società di chiarire quali siano i
propri progetti, che, in questo modo, diventeranno noti anche alla concorrenza. Tuttavia,
raramente i clienti finali si prendono l’impegno di leggere per intero i prospetti informativi
delle società quotate; la lettura di questi enormi documenti è invece imposta agli
intermediari istituzionali, che devono essere in grado di valutare i rischi dei vari
investimenti, in modo tale da capire quali possano essere adatti a determinate tipologie
di clienti.
Ritornando alla strada operativa, oltre al global coordinator, devono essere nominati altri
consulenti:
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consulente legale: utilizzato anche dallo sponsor per specificare nel prospetto informativo
tutti i rischi legali;
consulente fiscale;
società di revisione: fondamentale, dal momento che la quotazione impone la
certificazione del bilancio;
società di comunicazione e marketing: la sua importanza dipende dalla dimensione
dell’azienda. Se per le piccole aziende questo consulente non sarà indispensabile, per le
grandi aziende sarà assolutamente necessario, dal momento che bisognerà raggiungere
il pubblico indistinto dei risparmiatori e quindi intervenire su tutti i media possibili e in tutti i
possibili Paesi.
Una volta creata la squadra, composta dallo sponsor e dai consulenti, bisogna fare in
modo che le azioni si muovano e arrivino sul mercato. A tale scopo, il global coordinator
deve creare un consorzio di collocamento, ossia un gruppo di intermediari finanziari che si
occupa di collocare i titoli sul mercato. In realtà sarebbe più opportuno parlare di
consorzi di garanzia e collocamento, anziché di semplice collocamento: infatti, gli
intermediari finanziari (banche) partecipano volentieri al consorzio, dato che ottengono
una percentuale su tutte le azioni che riescono a vendere, ma, generalmente, il global
coordinator pretende anche una garanzia del collocamento, persino se ciò porta ad un
aumento della percentuale spettante agli intermediari. Per il global coordinator non è
neanche contemplabile la possibilità di arrivare alla fine del processo senza aver
collocato il 100% delle azioni, perciò chiede agli intermediari la garanzia del
raggiungimento di tale obiettivo; garanzia che, dal punto di vista del global coordinator,
è molto più importante del collocamento stesso, perché con l’assunzione dell’impegno
da parte degli intermediari egli ha chiuso la sua operazione. Nel caso in cui le banche
non riescano a collocare tutti i titoli, sottoscriveranno personalmente i titoli invenduti, ma
questa eventualità non interessa minimamente al global coordinator, che raggiunge il
proprio obiettivo a prescindere dal fatto che le azioni vengano sottoscritte dal pubblico di
investitori o dagli intermediari.
Dopo aver creato il consorzio di intermediari che si impegna nel collocamento resta solo
da definire il prezzo delle azioni. In realtà, è possibile che si intervenga in anticipo sul
prezzo delle azioni, fissando un massimo al di sopra del quale il global coordinator non è
disposto ad operare e un minimo al di sotto del quale l’imprenditore non è disposto a
scendere. In ogni caso, la determinazione del prezzo si raggiunge attraverso un processo
che prende il nome di book building (costruzione del libro). Il libro a cui si fa riferimento è il
libro degli ordini delle azioni: infatti, ogni intermediario che prende parte al consorzio non
specificherà solo il numero di azioni che è disposto ad impegnarsi a collocare, ma anche i
prezzi a cui si impegna a collocare precise quantità di azioni. Questo processo di raccolta
degli ordini aiuta il global coordinator a restringere il divario inizialmente fissato tra il limite
massimo e il limite minimo verso il prezzo finale, che sarà realmente definito solo a
collocamento già concluso. Infatti, la determinazione del prezzo finale dipenderà dalla
richiesta effettiva del mercato: a fronte della proposta del consorzio, il pubblico di
investitori può sottoscrivere un numero di azioni superiore o inferiore rispetto a quello
proposto; tale domanda risulterà fortemente indicativa del successo dell’operazione, dal
momento che permetterà di capire se il titolo è apprezzato o meno, e consentirà così di
decidere se spostare il prezzo più verso il limite massimo o più verso il limite minimo.
Relativamente a tale argomento è utile ricordare la cosiddetta Greenshoe Option, che
prende il nome da una società collocata a Boston negli anni Sessanta, la quale è stata la
prima ad offrire tale opzione, legata al quantitativo di azioni totali. Con tale opzione, la
società si rende disponibile ad emettere più azioni di quelle inizialmente previste, nel caso
in cui la domanda superi l’offerta iniziale.
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Con riferimento alla determinazione del prezzo è infine utile aprire una parentesi per
evidenziare i conflitti di interesse che si vengono inevitabilmente a creare fra le parti in
gioco. L’imprenditore, a causa del forte sentimento di affetto che naturalmente nutre nei
confronti della propria azienda, vorrebbe vendere le azioni della sua società al massimo
prezzo possibile. Il global coordinator, da parte sua, si trova a metà strada: se è vero che
gli viene corrisposta una percentuale basata sul valore globale dell’operazione, che lo
porterebbe a tentare di alzare il prezzo delle azioni, è anche vero che egli vuole
concludere le proprie operazioni in modo brillante, cosa che invece lo spingerebbe a
ridurre il prezzo delle azioni. Per quanto riguarda il consorzio di collocamento, esso vorrà
certamente ottenere la percentuale più elevata possibile, ma il suo interesse prioritario
sarà quello di non esercitare la garanzia, ossia di non essere costretto a sottoscrivere
personalmente i titoli: perciò vorrà fissare un prezzo tale da garantire il totale
collocamento finale. L’investitore, ovviamente, cercherà di ottenere il prezzo più basso
possibile.
Con la determinazione del prezzo, il processo di collocamento risulta concluso. Dopo
qualche giorno dalla conclusione del processo, la borsa italiana darà così inizio alla
quotazione sul mercato prescelto.
26 aprile 2012
I mercati secondari
La borsa valori
I mercati secondari, o mercati delle vecchie emissioni, sono prevalentemente
regolamentati, ma ne esistono anche di tipo otc. Il principale mercato secondario
regolamentato è un mercato che nella terminologia del regolatore prende il nome di
“mercato regolamentato”, mentre nel linguaggio comune è conosciuto come borsa
valori.
La borsa italiana si articola nei seguenti segmenti:
azionario (MTA);
Securitised Derivatives (SEDEX);
ETF e ETC (ETFplus): fondi comuni di investimento quotati in borsa, che simulano
l’andamento di un paniere di investimenti;
Reddito Fisso (MOT): è il segmento dedicato ai titoli obbligazionari. È ulteriormente
suddiviso in DomesticMOT, dedicato ai titoli domestici, prevalentemente di Stato, ed
EuroMOT, dedicato ai titoli non domestici, emessi sia dal settore pubblico che da quello
privato;
Derivati (IDEM).
Andiamo ad analizzare il segmento che più caratterizza il mercato di borsa, ossia il
segmento azionario. Il mercato azionario presso borsa italiana prende il nome di MTA
(Mercato Telematico Azionario); al suo interno, borsa italiana ha creato una
sottosegmentazione tendenzialmente basata sulla dimensione e sulla liquidità dei titoli
negoziati:
Blue Chips: è il segmento dei titoli emessi da società con capitalizzazione grande o media
e che presentano una serie di requisiti di liquidità che vengono indicati a seconda della
specifica tipologia di impresa che rientra nella categoria;
Star: è il segmento dedicato alle small cap ad alti requisiti. All'interno di questo settore
troviamo titoli emessi da società di dimensioni più contenute ma che devono soddisfare
requisiti più stringenti rispetto a quelli previsti per società di dimensioni analoghe. A ciò si
aggiunge il fatto che, per i titoli di questo segmento, vi sono intermediari finanziari che ne
assicurano la liquidità;
Standard: comprende tutti i titoli domestici che non rientrano nelle prime due categorie;
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MTA International: è il segmento dedicato alle società estere quotate (anche) a Milano;
MTF (Multilateral Trading Facilities, o Piattaforma di negoziazione multilaterale): è il
segmento dedicato alle piattaforme alternative ai mercati regolamentati, ossia alle borse
private. Pur trovandosi all’interno di un mercato regolamentato, si tratta di un segmento
non regolamentato;
Tra questi cinque segmenti, i primi due sono i più importanti, sia per rilevanza sia per
numero di negoziazioni.
Oltre all’MTA, il mercato azionario di borsa italiano comprende un secondo ramo,
denominato Mercato Expandi, dedicato alle piccole e medie imprese che non hanno la
capacità di accedere al ramo principale, neppure nel segmento standard. Questo ramo
è a sua volta segmentato in:
AIM Italia;
MAC.
La regolamentazione del mercato borsistico
Per quanto riguarda il mercato borsistico, il riferimento legislativo rilevante è una
normativa europea, che prende il nome di MIFID (Markets In Financial Instruments
Directive, in italiano Direttiva sui Mercati dei Servizi di Investimento) ed è stata introdotta il
1 novembre 2007.
La MIFID ha molti compiti, alcuni dei quali riferiti ai mercati di negoziazione. La prima
competenza della MIFID è quella di eliminare un obbligo che, prima del 2007, vigeva sui
mercati regolamentati, ovvero l'obbligo di concentrazione degli ordini in borsa. Sulla base
di quest'obbligo, chiunque voleva negoziare titoli azionari poteva farlo solo all'interno
della borsa. I mercati di borsa si trovavano così a godere di un vantaggio competitivo.
Tale obbligo viene eliminato per varie ragioni, tra le quali ne ricordiamo una di particolare
rilevanza: circa vent'anni fa, le borse erano esclusivamente di proprietà pubblica o
costituite su basi mutualistiche, perciò erano soggetti no profit; dalla seconda metà degli
anni Novanta è invece stato messo in atto un processo di privatizzazione o di
demutualizzazione, con il quale quasi tutte le borse si sono trasformate in società per
azioni, ossia in soggetti for profit. A seguito di questa trasformazione, quindi, si erano venuti
a creare dei soggetti privati che godevano di un vantaggio monopolistico, derivante
dall'obbligo di concentrazione degli ordini in borsa ancora in vigore. Tale vantaggio, che
aveva una sua ragion d'essere quando le borse erano soggetti no profit, che seguivano
una logica di servizio pubblico, aveva però perso il suo significato dopo il processo di
privatizzazione o di demutualizzazione, perciò, con la MIFID, si è ritenuto opportuno
eliminarlo.
Eliminando il privilegio derivante dall'obbligo di concentrazione degli ordini in borsa, la
MIFID va anche ad indicare chi, oltre alle borse, possa effettuare le negoziazioni. Ne
deriva così l'istituzione, a fianco dei mercati regolamentati, di altre due figure:
Internalizzatore Sistematico (IS);
Multi – Lateral Trading Facilities (MTF).
Queste due figure utilizzano diversi meccanismi di negoziazione, espressamente previsti
dalla MIFID, che possono essere riclassificati in due categorie:
sistema quote-driven;
sistema order-driven.
I mercati che utilizzano il sistema quote-driven sono i mercati basati sulla figura del dealer.
I dealer, ovviamente, negozieranno qualcosa di diverso dai cambi o dei contratti
interbancari che già abbiamo visto, ma il meccanismo sarà lo stesso, ossia si baserà sulla
fissazione di due tassi, un tasso bid e un tasso ask. In particolare, l'internalizzatore
sistematico è un dealer.
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Più importanti degli internalizzatori sistematici sono però i mercati organizzati secondo
questo meccanismo di negoziazione; il più noto e rilevante tra questi è il NASDAQ,
all'interno del quale troviamo una serie di dealer che operano in competizione tra loro per
acquistare negoziazioni. Il dealer ha la funzione di offrire immediatezza e liquidità al
mercato: egli fissa i prezzi a cui è disposto ad operare e si assume una serie di rischi.
Proprio in ragione di questi rischi, in determinati momenti il dealer può decidere di uscire
dal mercato o di allargare molto lo spread tra tasso bid e tasso ask in modo tale da
andare sicuramente fuori mercato. Per questo motivo, all'interno della categoria dei
dealer, distinguiamo la figura del market maker, un soggetto che quota prezzi in acquisto
e in vendita in maniera sistematica, ossia un soggetto che si impegna ad essere sempre
presente sul mercato. Inoltre, il generico soggetto del market maker assume nomi diversi e
specifici a seconda del mercato su cui opera; uno dei più utilizzati è quello di specialist.
Ad esempio, il segmento Star è organizzato secondo il metodo order e opera attraverso
un meccanismo d'asta, ma, poiché possono manifestarsi degli squilibri tra l'offerta è la
domanda, è possibile che, a fianco del meccanismo d'asta, si inserisca uno specialist, il
quale avrà la funzione di colmare gli eventuali divari di liquidità. Qualcosa del genere
accade anche all'interno del mercato di New York, dove si utilizza principalmente un
meccanismo d'asta che viene però affiancato da un soggetto che fornisce liquidità in
caso di necessità. Ovviamente, il market maker, in virtù della sua funzione utile al mercato
e del maggior livello di rischi assunto, otterrà una serie di vantaggi. Ad esempio, all'interno
del mercato di New York, gli specialist ottengono, relativamente ai titoli sui quali assumono
tale stato, un vantaggio informativo, ossia ricevono informazioni con qualche secondo di
anticipo rispetto al resto del mercato, cosa che permette loro di aggiornare
tempestivamente i prezzi o di mettere in atto strategie prima del resto del mercato.
Ai mercati che utilizzano il sistema quote-driven, all'interno dei quali gli scambi sono tirati
dai prezzi, si contrappongono i mercati che utilizzano il sistema order-driven, all'interno dei
quali gli scambi sono tirati dagli ordini. Due sono le principali forme di negoziazione
all'interno dei mercati basati sul sistema order-driven:
asta, che può assumere la connotazione di asta chiamata (o gridata) oppure di asta
continua elettronica;
crossing network.
Oggi, la stragrande maggioranza dei mercati regolamentati e dei Multi-Lateral Trading
Facilities (MTF) opera attraverso uno o più dei meccanismi order-driven elencati. Quindi,
gli MTF sono a tutti gli effetti borse alternative, dal momento che, a differenza degli
internalizzatori sistematici, negoziano esattamente come le borse principali. Tuttavia, non
esiste nessuna legge che impedisca ad una borsa o ad un MTF di organizzarsi con il
sistema quote-driven, perciò in futuro i mercati potrebbero assumere un'organizzazione
diversa.
L'asta chiamata (o gridata)
L'asta chiamata, o gridata, rappresenta la storia della borsa prima dell'avvento della
tecnologia, sebbene sia una prassi ancora operativa all'interno di molti mercati dei
derivati. Il meccanismo dell'asta chiamata è caduto progressivamente in disuso a causa
dei problemi significativi che presentava e che individueremo analizzando il suo
funzionamento.
Per capire il funzionamento dell'asta chiamata prendiamo come esempio le modalità di
negoziazione del mercato borsistico di Milano. Innanzitutto, la prima caratteristica
dell'asta chiamata è l'esistenza di un luogo fisico in cui convenzionalmente si incontrava
chi voleva negoziare un determinato tipo di titolo. Presso questo luogo i titoli venivano
chiamati in ordine alfabetico una volta al giorno (ad eccezione dei titoli emessi dalle
società più quotate, che potevano essere chiamati anche più volte). Perciò, una
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determinata azione veniva negoziata ad una determinata ora e in un determinato luogo
fisico, che doveva essere raggiunto dai mediatori, ossia dai soggetti autorizzati a portare
in borsa gli ordini di terzi. La figura fondamentale nell'asta chiamata era il battitore d'asta,
ossia colui che effettivamente gestiva gli scambi.
Vediamo ora un esempio pratico del funzionamento di questo meccanismo, utile anche
al fine di comprendere l'importanza del battitore d'asta. Supponiamo che a Milano si
stabilisca di negoziare le azioni Toro alle 10 del mattino. Tutti i negoziatori, acquirenti e
venditori, dovranno quindi presentarsi per la negoziazione nel luogo a all'ora stabiliti.
Quando l'asta avrà inizio qualcuno tra i venditori comincerà a gridare la propria offerta,
nella quale indicherà la quantità e il prezzo delle azioni in vendita. Se dai compratori non
arriva alcuna risposta, il venditore dovrà prendere rapidamente una decisione: se il primo
prezzo proposto è il prezzo minimo a cui è disposto a vendere, significa che non è il giorno
di negoziazione adatto a lui, perciò deciderà di abbandonare l'asta, ossia smetterà di
parlare; se, al contrario, il primo prezzo proposto non è il suo prezzo minimo, egli può
rilanciare la propria offerta abbassando il prezzo. A questo punto è possibile che i
compratori comincino a reagire all'offerta e così l'asta proseguirà, con le relative grida da
una parte e dall'altra. Il battitore d'asta è il soggetto incaricato di chiudere le negoziazioni
al prezzo che soddisfa tutta la domanda e l'offerta ancora rimasta in asta, o perlomeno la
stragrande maggioranza della domanda e dell'offerta: si tratta di una figura di grande
importanza, dal momento che deve avere la sensibilità per capire quale sia il momento
adatto per chiudere la negoziazione.
Dal punto di vista teorico, questo è il meccanismo di asta perfetta, dal momento che
tutta la domanda e tutta l'offerta si incrociano. Tuttavia, per poter essere davvero
perfetta, l'asta dovrebbe essere ripetuta di continuo, cosa che evidentemente non è
possibile. La fisicità della negoziazione comportava che, in un dato momento della
giornata, venisse fissato un prezzo per una determinata azione, e tale prezzo restava in
vigore fino all'asta successiva. Perciò, chiunque volesse scambiare quelle azioni in un
momento compreso tra le due aste, avrebbe dovuto far riferimento al prezzo stabilito
precedentemente, sebbene nel frattempo questo potesse non essere più adeguato. Si
trattava quindi di un prezzo perfetto solo in un determinato momento.
L'asta continua elettronica
L'avvento della tecnologia ha consentito di dematerializzare gli ordini, così,
progressivamente, si è passati dall'asta chiamata all'asta continua elettronica.
Solitamente, con l'asta continua elettronica, il cliente finale non ha la possibilità di
accedere direttamente al mercato, ma vi accederà indirettamente, attraverso
l'intermediario finanziario on-line, che invece è autorizzato ad entrare nel mercato di
riferimento. Con l'asta continua elettronica, gli scambi avvengono su un terminale, presso
il quale arrivano continuamente ordini e, ogni volta che vengono individuati due ordini di
segno opposto compatibili, questi vengono incrociati per dare vita ad un prezzo. Quindi, il
terminale riceverà continuamente offerte e domande, entrambe indicanti prezzi e
quantità. Il computer incrocerà poi le offerte e le domande ricevute sulla base di regole
stabilite a priori. La prima priorità è identica ovunque:
prezzo: vengono incrociati prima gli ordini con il prezzo migliore, ossia gli ordini con i prezzi
più alti in acquisto e i prezzi più bassi in vendita. In pratica vengono premiati i compratori
disposti a pagare di più e i venditori disposti a ricevere di meno.
Tuttavia, se arrivano due ordini con uno stesso prezzo si dovrà seguire una seconda
priorità, anch'essa identica ovunque:
tempo: si incrocia prima l'ordine arrivato per primo (tempo calcolato fino ai millesimi di
secondo).
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È molto rato che arrivino due ordini con lo stesso prezzo allo stesso tempo, ma comunque
può accadere. Sono perciò fissate altre regole di priorità, che saranno via via meno
utilizzate ma che devono essere comunque scritte. Relativamente a queste regole, i vari
mercati si differenziano. A Milano, la terza priorità è:
dimensione: si incrocia prima l'ordine più piccolo (si soddisfano prima gli investitori retail).
In altri mercati, la terza priorità fa riferimento agli ordini in conto proprio o in conto terzi,
ossia al fatto che la banca ordini per il proprio capitale o per conto della propria
clientela. Ove si utilizza questo meccanismo, tipicamente viene soddisfatta prima la
clientela.
Infine, è possibile che al mercato arrivino ordini che non sono immediatamente
compatibili. In questi casi diventa fondamentale l'esistenza del book di negoziazione, un
meccanismo informatico che tiene in memoria tutti gli ordini potenziali che non hanno
ancora trovato soddisfazione, ossia che non hanno ancora trovato un corrispettivo
dall'altra parte. Questo sistema elettronico va a riclassificare tutti gli ordini potenziali in
acquisto e in vendita per prezzo via via meno conveniente: perciò, tutti gli ordini
potenziali in acquisto saranno riclassificati per prezzo decrescente, mentre tutti gli ordini
potenzialmente in vendita verranno riclassificati per prezzo crescente.
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Gli strumenti derivati
Gli strumenti derivati sono gli strumenti che vengono utilizzati per la gestione, o copertura,
dei rischi. Il loro nome discende dal fatto che si tratta di strumenti il cui valore deriva da
una determinata attività sottostante (underlying asset). Le attività sottostanti possono
essere di vario tipo:
attività reali: troviamo strumenti derivati sulle commodities;
attività finanziarie: troviamo strumenti derivati sulle valute (currencies), già analizzati
parlando di contratti a termine, che impareremo a definire come contratti forward; sui
tassi di interesse (Interest Rate Derivatives), e distinguiamo tra derivati su tassi di interesse a
breve termine e su tassi di interesse a lungo termine; sui titoli azionari (indici di borsa e
singoli titoli); su credito (default).
Gli strumenti derivati nascono con attività sottostanti reali, ma la loro diffusione sul
mercato si ha con attività sottostanti finanziarie.
La classificazione degli strumenti derivati
Andiamo ad analizzare le principali tipologie di strumenti derivati, riclassificandoli secondo
criteri diversi.
Il primo criterio di classificazione fa riferimento al tipo di impegno contrattuale che
assumono le parti. Sulla base di questo criterio distinguiamo tra:
contratti a termine fermo: contratti su cui entrambi i contraenti assumono un obbligo
contrattuale simmetrico. A questa famiglia di strumenti derivati appartengono i contratti
forward (già visti come forward su valute, in cui una parte riceve un ammontare di una
certa valuta, ad esempio euro a fronte di un pagamento in un’altra valuta, per esempio
dollari, mentre la controparte consegna un ammontare della prima valuta, ossia di euro,
e riceve un ammontare della seconda valuta, ossia di dollari), i contratti futures, che sono
contratti a termine negoziati in specifici contesti (peculiari per luogo di negoziazione ma
non per obbligo contrattuale, che rimane identico a quello dei contratti forward) e gli
swap;
contratti di natura opzionale: contratti in cui vi è asimmetria tra le prestazioni contrattuali,
ossia una parte acquista il diritto ad effettuare una certa prestazione mentre la
controparte è obbligata a soddisfare la volontà del primo contraente. A questa famiglia
di strumenti derivati appartengono le opzioni (tra di esse ricordiamo le warrant, che non
andremo però ad esaminare nel dettaglio).
Gli strumenti derivati possono essere riclassificati anche in funzione del mercato in cui
vengono negoziati. Sulla base di questo criterio distinguiamo tra:
exchange-traded: strumenti derivati negoziati all’interno dei mercati di borsa. All’interno
di questa categoria rientrano i contratti futures (segmento IDEM) e determinate categorie
di opzioni, tipicamente le più semplici, anche note come plain vanilla. Rientrano in questa
famiglia anche le warrant, pur non essendo opzioni plain vanilla;
otc: strumenti derivati negoziati all’interno dei mercati otc. All’interno di questa categoria
rientrano i contratti forward, gli swap (gli Interest Rate Swap, in particolare sono gli
strumenti derivati più importanti in assoluto per quota di mercato) e le opzioni esotiche.
Entrambi i mercati presentano sia vantaggi sia svantaggi. Gli strumenti otc presentano il
vantaggio di essere strumenti flessibili e personalizzabili: sono flessibili perché, essendo
contratti di natura bilaterale, i contraenti hanno, pur nell’ambito di una struttura
contrattuale generale, la possibilità di modificare in modo significativo le componenti;
sono personalizzabili perché, essendo contratti bilaterali, le parti sono totalmente libere di
scegliere gli importi, le valute, ecc. Per contro, questi strumenti presentano lo svantaggio
di essere più costosi, generalmente illiquidi e con un elevato rischio di controparte.
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I vantaggi e gli svantaggi degli strumenti exchange-traded saranno ovviamente speculari
a quelli elencati per gli strumenti otc. Quindi, gli strumenti exchange-traded presentano il
vantaggio di essere poco costosi, liquidi, trasparenti e con ridotto rischio di controparte.
Per contro, gli svantaggi saranno la scarsa flessibilità e la standardizzazione.
Ovviamente non esiste uno strumento migliore per eccellenza, ma, a seconda delle
esigenze delle parti, determinati strumenti risulteranno preferibili ad altri.
Gli usi degli strumenti derivati
Tutti gli strumenti derivati (exchange-traded, otc, a termine fermo e opzionali) possono
essere utilizzati per tre finalità diverse:
copertura dei rischi: gli esempi già visti di utilizzo dei contratti a termine erano in realtà
esempi di copertura, di eliminazione del rischio di cambio;
arbitraggio: parlando dei cambi, abbiamo visto che i soggetti possono essere interessati
ad acquistare o a vendere a termine anche quando i prezzi di mercato si disallineano da
quelli teorici, ossia quando possono essere messe in atto strategie di arbitraggio.
In particolare, gli strumenti derivati a termine fermo presentano tutti lo stesso obbligo
contrattuale, perciò devono essere tutti prezzati secondo lo stesso ragionamento, ossia
sulla base della teoria del cost of carry. Tale formula subirà alcune variazioni,
relativamente ai calcoli ma non al concetto, derivanti dal fatto che i futures e gli swap
presentano una serie di flussi di cassa intermedi. In ogni caso, sia per i forward, sia per i
futures, sia per gli swap può essere calcolato un prezzo teorico, che sarà poi confrontato
con il prezzo di mercato, per verificare se ci siano scostamenti che possano essere
opportunamente sfruttati con l’arbitraggio;
speculazione.
Per spiegare meglio l’uso speculativo degli strumenti derivati è opportuno introdurre il
concetto di posizione lunga e posizione corta.
Prendiamo ad esempio i contratti a termine sui cambi che già conosciamo, ma, poiché i
cambi possono trarre in inganno, immaginiamo di applicarli ad una merce fisica, ad
esempio patate. Ragioniamo perciò sull’acquisto e sulla vendita di patate a termine.
Supponiamo di aver acquistato patate a termine a 1 euro al chilo e che la consegna sia
prevista tra 12 mesi. Dopo 12 mesi, ovviamente, verrà fissato un prezzo a cui le patate si
negoziano a pronti. Se durante l’anno c’è stata una penuria di patate, dopo 12 mesi i
prezzi delle patate saranno saliti, ad esempio a 2 euro al chilo: l’acquirente avrà perciò un
guadagno pari ad 1 euro per ogni chilo di patate su cui è stato scritto il contratto.
Viceversa, se durante l’anno c’è stata un’abbondanza di patate, dopo 12 mesi i prezzi
delle patate saranno scesi, ad esempio a 50 centesimi al chilo: l’acquirente avrà perciò
un extracosto pari a 50 centesimi per ogni chilo di patate su cui è stato scritto il contratto.
Perciò, da un lato l’acquirente avrà guadagni progressivamente crescenti mano a mano
che il prezzo a pronti delle patate sale; dall’altro lato, l’acquirente avrà perdite
progressivamente crescenti mano a mano che il prezzo a pronti delle patate scende.
Tutti coloro che hanno assunto posizioni per cui guadagnano quando il prezzo dell’attività
sottostante il contratto sale e perdono quando il prezzo della stessa attività scende, si dice
che hanno assunto una posizione lunga su quella specifica attività.
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Acquisto patate AT
+/
-
POSIZIONE
LUNGA
1€
0,5€
QT
P patate
2€
a scadenza
0,5€
Ora supponiamo di essere la controparte del contratto, ossia il soggetto che vende
patate a termine, sempre a 1 euro al chilo, e che si assume quindi l’obbligo di
consegnare le patate tra 12 mesi. Se dopo 12 mesi il prezzo delle patate è salito a 2 euro
al chilo, il venditore subirà una perdita pari a 1 euro per ogni chilo di patate oggetto del
contratto. Viceversa, se dopo 12 mesi il prezzo delle patate è sceso a 50 centesimi al
chilo, il venditore avrà un guadagno pari a 50 centesimi per ogni chilo di patate oggetto
del contratto. Perciò, da un lato il venditore avrà perdite progressivamente crescenti
mano a mano che il prezzo a pronti delle patate sale; dall’altro lato il venditore avrà
guadagni progressivamente crescenti mano a mano che il prezzo a pronti delle patate
scende.
Tutti coloro che hanno assunto posizioni per cui guadagnano quando il prezzo dell’attività
sottostante il contratto scende e perdono quando il prezzo della stessa attività sale, si dice
che hanno assunto una posizione corta su quella specifica attività
Vendita patate AT
+/-
0,5€
QT
0,5€
1€
2€
P patate
a scadenza
Chiarito che le parti di un contratto a termine possono assumere una posizione lunga
oppure una posizione corta, il ragionamento sulla speculazione è molto rapido. La
posizione di partenza dello speculatore è che le patate non le ha né gli interessa averle:
egli semplicemente gioca su una serie di aspettative che ha circa l’andamento del
prezzo delle patate, ossia scommette sul livello del prezzo delle patate fra 12 mesi. Se
pensa che il prezzo delle patate salirà, acquisterà patate a termine; se, al contrario,
pensa che il prezzo delle patate scenderà, venderà patate a termine. Quindi, lo
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speculatore assumerà una determinata posizione su un determinato strumento derivato,
sperando di ottenere il risultato previsto.
Tutti gli strumenti derivati a termine fermo possono essere rappresentati come posizioni
lunghe o corte su una determinata attività sottostante, perciò possono essere utilizzati sia
con finalità di copertura sia come puri strumenti speculativi. Lo stesso ragionamento non
vale per strumenti derivati come le opzioni, in cui le obbligazioni assunte dalle parti non
sono simmetriche e saranno quindi rappresentate diversamente.
Gli swap
Gli swap sono gli unici contratti derivati completamente nuovi. Sia per i contratti forward,
sia per i contratti futures, sia per le opzioni troviamo degli antenati che presentano
caratteristiche molto simili, cosa che non accade invece per gli swap. Gli swap, come noi
li conosciamo, nascono negli anni Ottanta, e il segmento più importante di questa
categoria di strumenti derivati è quella degli Interest Rate Swap (IRSwap).
Innanzitutto, è utile vedere la definizione di IRSwap: l’IRSwap è un contratto con cui due
parti si accordano per scambiarsi periodicamente flussi di interessi calcolati su un capitale
di riferimento, detto capitale nozionale, che di solito non viene scambiato. Questa
definizione è però piuttosto astratta; per comprenderla meglio è utile analizzare un
esempio numerico, avente ad oggetto lo swap più semplice, definito Fixed-To-Floating
Interest Rate Swap, ossia uno Swap in cui una parte paga interessi a tasso fisso e la
controparte paga interessi a tasso variabile.
Come prima cosa, andiamo a definire quali sono le variabili oggetto del contratto e ad
attribuire loro dei valori numerici a titolo esplicativo:
capitale nozionale = 1mln €
scadenza = 4 anni
frequenza = annuale
interesse fisso = 5%
interesse variabile = Libor1anno
A questo punto non resta che stabilire quale posizione contrattuale assumiamo: dal
momento che i flussi annuali sono calcolati usando prima il tasso fisso e poi il tasso
variabile, dobbiamo stabilire se riceviamo a tasso fisso e paghiamo a tasso variabile o
viceversa. La posizione della controparte del contratto, ovviamente, sarà simmetrica a
quella da noi assunta. Per descrivere il tipo di posizione che assumiamo, dobbiamo
nuovamente utilizzare la terminologia posizione lunga e posizione corta: tutto ciò che si
riceve è definito lungo, mentre tutto ciò che si paga è definito corto. Supponiamo quindi
di descrivere un soggetto che riceve (lungo) a tasso fisso e che paga (corto) a tasso
variabile.
Ciò che dobbiamo fare a questo punto è descrivere la posizione lunga, la posizione corta
e la posizione netta, ossia i flussi di cassa in entrata, i flussi di cassa in uscita e il saldo tra
valori in entrata e in uscita ogni anno. La posizione netta è molto utile perché, in realtà, è
solo il netto a muoversi da una parte all'altra: ogni anno, una parte dovrebbe pagare il
tasso fisso, mentre l'altra parte dovrebbe pagare il tasso variabile, cosa che darebbe vita
a due flussi che si muovono in direzione opposta; perciò, per comodità, si muoverà solo il
saldo.
Andiamo quindi ad indicare quali sono i flussi di cassa che vengono generati nel nostro
esempio. Il tasso fisso sarà sempre il 5% mentre il Libor non è noto a priori: supponiamo
perciò di essere al termine del quarto anno, quando siamo ormai a conoscenza di tutti i
tassi Libor che si sono manifestati nel periodo.
127
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t
1
2
3
4
POS. LUNGA
+ 5%
+ 5%
+ 5%
+ 5%
POS. CORTA
- Libor 5,3%
- Libor 4,8%
- Libor 5%
- Libor 4%
POS. NETTA
- 0,3%
+ 0,2%
−
+ 1%
Anche in questo caso si possono delineare posizioni lunghe e corte: chi è lungo tasso fisso
e corto tasso variabile perde quando i tassi di interesse salgono e guadagna quando i
tassi di interesse scendono; ciò significa che il soggetto è corto sui tassi di interesse, o
meglio, sullo specifico tasso di interesse che si muove, nel nostro caso il Libor.
Ora che abbiamo analizzato il funzionamento degli swap dobbiamo capire perché
vengono usati. Innanzitutto, poiché possiamo assumere posizioni lunghe o corte sui tassi di
interessi, gli swap possono essere utilizzati a scopo speculativo. Nello specifico caso
esaminato, il soggetto in questione sarebbe stato un ribassista; la controparte del
contratto, però, non deve essere necessariamente rialzista, dal momento che,
solitamente, si tratta di un’istituzione finanziaria, la quale, nei nostri confronti, avrà una
posizione rialzista, ma, nei confronti di altri clienti, può assumere la posizione opposta.
Inoltre, gli swap possono essere utilizzati con finalità di copertura. In base al tipo di
posizione che si vuole coprire, gli swap si distinguono in:
asset swap: utilizzati per coprire specifiche operazioni sul fronte dell’attivo;
liability swap: utilizzati per coprire specifiche operazioni sul fronte del passivo.
Infine, gli swap possono essere utilizzati per:
costruire strumenti finanziari con pay-off non tradizionali.
La copertura
Per chiarire le modalità di utilizzo degli swap con finalità di copertura, andiamo a vedere
un esempio di asset swap (ricordando che in caso di liability swap lo schema proposto
sarà speculare).
Supponiamo che un investitore detenga in portafoglio un BTP. Come già sappiamo, il BTP
è uno strumento a tasso fisso, perciò l’investitore risulta esposto all’andamento dei tassi di
interesse: se gli interessi salgono il prezzo del BTP scende, e viceversa. Ciò significa che se i
tassi di interesse salgono l’investitore perde, mentre se i tassi di interesse scendono
l’investitore guadagna, ossia l’investitore assume una posizione corta sui tassi di interesse.
Se l’investitore avesse il timore di un rialzo dei tassi di interesse, la prima possibilità a sua
disposizione sarebbe quella di vendere i BTP per acquistare CCT, ossia uno strumento a
tasso variabile, con il quale assumerebbe una posizione lunga sui tassi di interesse.
Tuttavia, vendere uno strumento per acquistarne un altro comporta dei costi di
negoziazione e significa anche eseguire un’operazione a titolo definitivo: se il giorno
seguente l’investitore mutasse nuovamente le sue aspettative sarebbe nuovamente
costretto a vendere e ad acquistare, cosa che comporterebbe ulteriori costi. Perciò, di
norma, l’investitore troverà preferibile optare per la seconda possibilità a sua disposizione,
ovvero affiancare al BTP che già detiene un Interest Rate Swap. Andiamo a vedere in
cosa consiste un’operazione di questo tipo attraverso un esempio numerico.
BTP
Valore nominale = 100
Cedola = 5%
Scadenza = 3 anni
Frequenza = annuale
128
+
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SWAP
Capitale nozionale = 100
Scadenza = 3 anni
Frequenza = annua
Tasso fisso = 5,2% (corto)
Tasso variabile = Libor (lungo)
A questo punto non resta che andare a sommare i flussi di cassa che vengono generati
dal BTP e dallo swap, per ottenere la posizione netta dell’investitore. Anche in questo caso
possiamo indicare i flussi in percentuale, dal momento che il valore nominale del BTP e il
capitale nozionale dell’IRSwap coincidono.
t
FC BTP
1
2
3
+ 5%
+ 5%
+ 5%
FC SWAP
Pos. corta
- 5,2%
- 5,2%
- 5,2%
Pos. lunga
+ Libor
+ Libor
+ Libor
BTP + SWAP
Pos. netta
+ Libor – 20 b.p.
+ Libor – 20 b.p.
+ Libor – 20 b.p.
I flussi dello swap sono gestiti separatamente dai flussi del BTP, ma, poiché l’investitore
finale è lo stesso, possono essere formati per dare vita ad un titolo a tasso variabile
indicizzato al Libor.
Attraverso gli swap è possibile modificare anche il profilo finanziario di una liability, ossia di
una passività che detengo in portafoglio: ad esempio, un mutuo a tasso fisso può essere
trasformato nell'equivalente di un mutuo a tasso variabile, senza dover rinegoziare la
passività, un'operazione onerosa e non sempre praticabile. Lo schema per modificare
una passività è sostanzialmente analogo a quello previsto per la modifica di un'attività,
quindi non andremo ad analizzarlo nel dettaglio.
03 maggio 2012
La costruzione di strumenti finanziari con pay-off non tradizionali
Andiamo invece a vedere un esempio del modo in cui gli swap possono essere utilizzati
per costruire strumenti finanziari con profili di cassa non tradizionali. Infatti, gli swap sono
sempre alla base dei titoli obbligazionari che presentano un qualche tipo di struttura, ossia
le cosiddette obbligazioni strutturate. Per esempio, vediamo come si costruisce
un'obbligazione strutturata molto famosa, frequentemente utilizzata in passato e, qualche
volta, ancora oggi, che prende il nome di Reverse Floater. Il Reverse Floater è
esattamente l’opposto di un’obbligazione a tasso variabile, ossia è un titolo in cui,
quando i tassi di interesse scendono, la cedola sale. In pratica, il Reverse Floater è il
risultato della combinazione di un’obbligazione a tasso variabile e di uno swap non par,
ossia di uno swap scritto su un nozionale che non corrisponde alla posizione finanziaria
originaria.
OTV
Scadenza = 5 anni
Valore nominale = 100
Cedola = Libor
+
Swap non par
Scadenza = 5 anni
Tasso fisso = 5%
Tasso variabile = Libor
Capitale nozionale = 200
Con questo titolo, è come se l’investitore assumesse una posizione lunga sul tasso fisso e
corta sul tasso variabile. Diciamo “come se” perché, in realtà, il titolo che l’investitore
compra non esiste in natura: in natura esistono solo titoli a tasso fisso e titoli a tasso
variabile. Il Reverse Floater è un prodotto di sintesi, che si crea combinando
un’obbligazione esistente con uno Swap che può essere negoziato. E l’ente che emette
questo titolo particolare, solitamente una banca, è poi implicitamente anche la
controparte dell’investitore nello Swap. Quindi, sebbene il cliente percepisca solo lo
129
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strumento nel suo complesso, è possibile immaginare di smontarlo per ricostruire il metodo
con cui è stato creato.
Andiamo a vedere i flussi di cassa generati dall’obbligazione a tasso variabile e dallo
Swap, ricordando di modificare opportunamente le percentuali, dal momento che il
valore nominale dell’obbligazione non coincide con il capitale nozionale. Per quanto
riguarda il tasso fisso, il 5% di 200 corrisponderà al 10% di 100; per quanto riguarda il tasso
variabile, il Libor di 200 corrisponderà a 2Libor di 100.
t
FC OTV
0
1
2
3
4
5
-100
+ Libor
+ Libor
+ Libor
+ Libor
+ Libor + 100
FC SWAP
Pos. lunga
/
+ 10%
+ 10%
+ 10%
+ 10%
+ 10%
Pos. corta
/
- 2Libor
- 2Libor
- 2Libor
- 2 Libor
- 2 Libor
OTV + SWAP
Pos. netta
-100
+ 10% - Libor
+ 10% - Libor
+ 10% - Libor
+ 10% - Libor
+ 10% - Libor + 100
Quando l’investitore acquista un titolo Reverse Floater percepisce solo la posizione netta.
Dal suo punto di vista, il Reverse Floater non è altro che un’obbligazione a tasso variabile
esattamente opposta ad un’obbligazione a tasso variabile standard: infatti, tanto più è
grande il Libor, tanto più è piccola la cedola, e viceversa.
L’ultimo interrogativo che può sorgere rispetto a questo strumento è perché, se
l’investitore è libero di scegliere le condizioni dello Swap, egli decida di optare per un
capitale nozionale doppio rispetto al valore nominale dell’obbligazione a tasso variabile,
dal momento che i flussi vengono poi calcolati come percentuale del capitale iniziale:
sarebbe più logico fissare direttamente un capitale pari a 100, un tasso fisso pari al 10% e
un tasso variabile pari a 2Libor. La risposta a questo interrogativo è che il cliente non può
scegliere totalmente le condizioni dello Swap: egli sarà libero di fissare il tasso variabile,
ma il tasso fisso è ricavato direttamente dalle condizioni di mercato. Perciò, nell’esempio
visto, l’unico modo per ottenere un tasso fisso pari al 10% di 100 è adottare il tasso fisso di
mercato, pari al 5%, e raddoppiare il capitale su cui esso viene calcolato.
Quello visto è solo un esempio della duttilità degli Swap, che possono essere utilizzati per
costruire i più svariati tipi di strumenti. Ad esempio, il Floating-To-Floating Swap, è uno
strumento che consente all’investitore di scommettere sulla diversa sensibilità dei mercati
all’andamento dei tassi di interesse; ancora, lo Zero Coupon Swap, è uno strumento che
consente di modificare la tempistica dei flussi di cassa, dal momento che prevede che il
tasso fisso sia pagato in un’unica soluzione, mentre il tasso variabile sia pagato attraverso
un flusso cedolare. Ovviamente, più articolato diventa lo Swap e più articolato diventerà
anche il tipo di profilo che andiamo a disegnare.
I Futures
Dal punto di vista contrattuale, un Futures non è altro che un contratto a termine
negoziato in borsa. Cosa sia un contratto a termine lo abbiamo già visto parlando dei
tassi di cambio: ricordiamo sinteticamente che si tratta di un contratto il cui prezzo viene
stabilito oggi, ma la cui prestazione (acquisto o vendita), avrà luogo in un momento
futuro. Tuttavia, il fatto di essere negoziati in borsa non implica meramente un diverso
luogo di negoziazione: infatti, il fatto di essere exchange-traded, determina tutta una serie
di caratteristiche proprie dei Futures.
Il primo elemento, derivante dalla negoziazione in borsa e che distingue i Futures, è la
standardizzazione. La standardizzazione investe vari elementi di questi contratti.
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Attività sottostante: abbiamo visto che gli strumenti derivati possono essere scritti su tante
famiglie di attività, sia reali che finanziarie, ma, in caso di Futures, sono solo i soggetti che
gestiscono la borsa a decidere quali contratti quotare. Perciò, se la borsa decide di non
emettere un determinato contratto, i clienti interessati ad esso non potranno fare altro
che rivolgersi al mercato OTC. Tuttavia, è opportuno ricordare che la gamma di contratti
futures è limitata rispetto alle possibili attività sottostanti ma offre comunque un gran
numero di alternative. In particolare, in base all’attività sottostante, i mercati futures sono
segmentati nelle seguenti tipologie:
Commodities Futures: ulteriormente suddivisi in agricoli, coloniali (prodotti agricoli
tipicamente provenienti dalle colonie), metalli non ferrosi (presupposto indispensabile
affinché possa essere scritto un contratto Futures è l’esistenza di un libero mercato, che è
invece inesistente in caso di metalli ferrosi), metalli preziosi (tipicamente oro, argento e
platino), energetici (in primis petrolio e gas naturale). I Commodities Futures più importanti,
sia quantitativamente che qualitativamente, sono quelli scritti sugli energetici;
Financial Futures: ulteriormente suddivisi in valute, azioni (stock index, ossia panieri, e
singoli azioni), tassi di interesse (bond futures in caso di tassi di interesse a lungo termine, e
Short-Term Interest Rate Futures in caso di tassi di interesse a breve termine). I Financial
Futures sono quantitativamente molto più rilevanti dei Commodities Futures. Il contratto
Futures più negoziato in assoluto è il contratto sui tassi di interesse a lungo termine e, in
particolare, il contratto a lungo termine sui bund, le obbligazioni governative tedesche.
Segue il contratto Futures sul Libor dollaro e, più o meno in terza posizione, i vari Futures
scritti sugli indici di borsa. Sono invece poco negoziati i Futures su valute, dal momento
che il mercato OTC (contratti a termine) soddisfa le esigenze degli operatori in maniera
più che adeguata.
Scadenze: a differenza dei contratti a termine, in caso di contratti Futures, gli operatori
non possono scegliere liberamente le scadenze. Tipicamente, i Financial Futures hanno
scadenza trimestrale: marzo/giugno/settembre/dicembre e, contemporaneamente, sul
mercato vengono quotati otto contratti, per una durata massima di due anni.
Convenzionalmente, la scadenza è fissata al terzo mercoledì del mese.
Dimensione contrattuale: anche per quanto riguarda la dimensione del contratto, i
contratti Futures non lasciano agli operatori la libertà invece prevista in caso di contratti a
termine.
Tick: il tick è la variazione di prezzo minima e, anche in relazione a questo elemento, i
Futures risultano standardizzati. Si tratta tuttavia di un elemento di minore importanza.
Il secondo elemento di distinzione dei Futures, determinato dalla negoziazione in borsa,
riguarda il ruolo assunto da un soggetto fondamentale, ossia la Clearing House, o Cassa
di Compensazione. La Clearing House è a tutti gli effetti l’ente gestore, ma a noi non
interessa esaminare il suo ruolo di emittente, bensì il suo ruolo nella fase di negoziazione.
Innanzitutto, quando si negozia un Futures, l’operatività non è concessa a chiunque: i
singoli clienti finali non possono comprare o vendere direttamente Futures, così come non
potevano accedere direttamente alla borsa in caso di titoli azionari. Tuttavia,
relativamente alle azioni, gli intermediari erano abilitati a portare in borsa ordini in conto
terzi, e ciò comportava che il nome che compariva in borsa fosse quello del cliente finale
e non dell’intermediario incaricato di portare l’ordine. In caso di Futures, invece,
l’operatività è riservata esclusivamente ai soggetti autorizzati (ancora chiamati membri,
come retaggio della passata natura cooperativa di questi mercati), ossia ad una serie di
istituzioni finanziarie autorizzate a negoziare in nome e in conto proprio. Ciò significa che,
in borsa, compaiono i nomi degli intermediari finanziari anziché i nomi dei clienti finali
realmente coinvolti nell’operazione di compravendita. Ciò riduce notevolmente il rischio
di controparte (il che rappresenta uno dei vantaggi esaminati in relazione agli strumenti
derivati exchange-traded), dal momento che gli intermediari finanziari sono, per ragioni di
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portafoglio, meno rischiosi dei clienti finali: infatti, le istituzioni finanziarie rappresentano
molti clienti in entrambe le direzioni, e ciò comporta che, in caso di perdita di alcuni
clienti, altri sicuramente guadagneranno.
Quindi, supponendo che un cliente della Goldman Sachs venda ad un cliente della
Morgan Stanley 10 contratti, con scadenza dicembre 2012, sul petrolio WTI (West Texas
Intermediate), in fase di borsa, o di negoziazione, risulterà:
GS
MS
Vende 10 contratti
dic. 2012, WTI
Saranno quindi la Goldman Sachs e la Morgan Stanley a fissare il prezzo del contratto,
tipicamente attraverso un’asta telematica continua, ma, in alcuni casi, ancora con
un’asta chiamata.
Inoltre, la fase post-negoziazione, o amministrativa, prevede che ai due originari
contraenti si interponga la Clearing House. Ciò significa che la fissazione del prezzo in
borsa non si trasforma automaticamente in un contratto di compravendita, ma da vita a
due distinti contratti di compravendita: uno in cui la Goldman Sachs vende alla Clearing
House e l’altro in cui la Morgan Stanley acquista dalla Clearing House. Contrattualmente,
la controparte di entrambe le istituzioni diventa la Clearing House.
GS
CH
Vende
MS
Acquista
Ciò riduce ulteriormente il rischio di controparte, dal momento che le due istituzioni
finanziarie coinvolte non subiscono l’una il rischio di credito dell’altra: se uno dei due
soggetti fosse insolvente, la Clearing House onorerebbe comunque l’impegno preso con
la controparte, utilizzando il proprio patrimonio netto. E per dare l’idea di quanto siano
solide le Clearing House, è opportuno ricordare che nessuna di esse è mai fallita,
nemmeno dopo aver subito perdite enormi.
In conclusione, è opportuno rilevare che la negoziazione in borsa, grazie al ruolo della
Clearing House, rende praticamente nullo il rischio di controparte, che risulta invece molto
consistente in caso di negoziazioni all’interno del mercato OTC.
La Clearing House, ovviamente, ha la necessità di tutelarsi per i rischi che va ad assorbire,
perciò impone, per le negoziazioni in Futures, un meccanismo di margini. Ciascun
intermediario finanziario autorizzato ad operare sul mercato dei Futures detiene un conto
presso la Clearing House, che in realtà è una banca a tutti gli effetti. Ogni volta che viene
negoziato un nuovo contratto la Clearing House impone vari obblighi alle controparti:
versamento di un margine iniziale: sia che si compri, sia che si venda, contratto per
contratto è previsto quanto le controparti devono versare sul proprio conto che
detengono presso la Clearing House. Quindi, mentre i contratti a termine non
prevedevano alcun flusso di cassa al tempo 0, i contratti Futures, a t0 prevedono il
versamento di una somma, espressa in percentuale rispetto al valore del contratto
oppure in valore assoluto;
versamento/ricevimento di una margine di variazione: il meccanismo dei margini prevede
poi che nei giorni successivi alla negoziazione venga versato o ricevuto un margine,
calcolato attraverso il meccanismo del marking-to-market;
mantenimento di un margine di mantenimento: questo margine non è sempre previsto,
ma, nel caso lo sia, indica una somma minima che deve essere presente sul conto per
tutta la durata del contratto. Infatti, gli accreditamenti e gli addebitamenti del margine di
variazione determinano delle modifiche nel margine iniziale; se il margine di
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mantenimento è previsto e se gli addebitamenti determinati dal margine di variazione
fanno sì che la somma presente sul conta scenda al di sotto di questo margine, la
Clearing House contatterà il titolare del conto per richiedere un nuovo versamento
(Margin Call, o Chiamata di Margine).
Andiamo quindi a vedere come viene calcolato il margine di variazione, ossia il
meccanismo marking-to-market.
Per comprendere questo meccanismo, consideriamo innanzitutto un contratto a termine
(forward) sul petrolio, in cui decidiamo di acquistare petrolio a 120 dollari al barile.
Essendo un contratto a termine, al tempo 0 non avrà luogo alcun flusso di cassa, e 120
dollari sarà il termine di riferimento a cui effettueremo la nostra prestazione alla scadenza.
Ovviamente, quando verrà consegnato il petrolio ed effettuato il pagamento,
l’acquirente andrà ad analizzare i prezzi di mercato: se questi sono saliti avrà un
guadagno, una valorizzazione; se questi sono scesi avrà una perdita, un extracosto.
I contratti Futures, sono, in realtà, un portafoglio di contratti a termine con scadenza
giornaliera. Infatti, al termine di ogni giornata e fino alla scadenza, si confronterà il prezzo
del petrolio di quella giornata con il prezzo del petrolio della giornata precedente, e si
procederà a liquidare la differenza. Il marking-to-market, quindi, è pari alla differenza tra il
prezzo del petrolio al tempo t e il prezzo del petrolio al tempo t-1 (per entrambe le
giornate si valutano i prezzi a termine):
M-T-M = | Pt – Pt-1|
Tuttavia, i prezzi sono sempre negoziati per unità (nel caso del petrolio l’unità è il barile),
mentre, normalmente, i contratto non sono scritti su una unità, bensì su un lotto di
dimensione non unitaria. Quindi, il market-to-marking deve tener conto anche della
dimensione del contratto:
M-T-M = | Pt – Pt-1| ∙ DIMcontratto
Infine, Bisogna tener conto anche del numero di contratti negoziati:
M-T-M = | Pt – Pt-1| ∙ DIMcontratto ∙ #contratti
A questo punto resta solo da capire chi riceve e chi paga di volta in volta. Ricordiamo
che acquistare un Futures significa acquistare a termine, e vendere un Futures significa
vendere a termine. Quindi, oggi viene fissato un prezzo e, se il giorno dopo i prezzi sono
saliti, l’acquirente guadagna e il venditore perde, mentre se il giorno dopo i prezzi sono
scesi, l’acquirente perde e il venditore guadagna. Quindi risulta:
se Pt > Pt-1 → l’acquirente riceve e il venditore paga;
se Pt < Pt-1 → il venditore riceve e l’acquirente paga.
Ciò determina il margine di variazione, ossia il segno del market-to-marking a seconda
che io mi trovi nella posizione di acquirente o di venditore.
Esempio: oggi, 3 maggio 2012, la Goldman Sachs vende alla Morgan Stanley 50 contratti
sul petrolio WTI, con scadenza a giugno. Il prezzo del contratto è pari a 60 dollari; la
dimensione del contratto è pari a 100 barili; il margine iniziale è pari a 12.000 dollari
complessivi. Ipotizziamo che, nei giorni successivi al 3 maggio 2012, i prezzi del contratto
subiscano la seguente dinamica:
4 maggio 2012: 61,5 $
5 maggio 2012: 59 $
6 maggio 2012: 60$
7 maggio 2012: 62 $
Andiamo quindi a vedere quanto e come si movimentano i conti della Goldman Sachs e
della Morgan Stanley di giorno in giorno.
133
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t
M-T-M
03/05
04/05
05/05
06/05
07/05
/
(61,5 – 60) · 100 · 50 = 7.500
(59 – 61,5) · 100 · 50 =12.500
(60 – 59) · 100 · 50 = 5.000
(62 – 60) · 100 · 50 = 10.000
Posizione cumulata
acquirente
+ 12.000
+ 19.500
+ 7.000
+ 12.000
+ 22.000
Posizione cumulata
venditore
+ 12.000
+ 4.500
+ 17.000
+ 12.000
+ 2.000
Il primo giorno non vi è alcun margine di variazione, ma deve essere versato il margine
iniziale.
Il giorno seguente, il prezzo del petrolio sale, quindi, se l’operazione si chiudesse in quel
momento, l’acquirente otterrebbe un guadagno, che viene subito versato.
Il terzo giorno, ovviamente, non riguarderà più ciò che è accaduto tra i primi due giorni,
ma si calcolerà la differenza tra il prezzo giornaliero e il prezzo del giorno precedente: in
questo caso il prezzo è sceso, quindi sarà il venditore a guadagnare.
Il quarto giorno, il prezzo torna ad essere uguale al prezzo originariamente negoziato,
perciò i conti torneranno pareggiati al margine iniziale: infatti, la posizione cumulata altro
non è che la differenza tra l’attuale prezzo di negoziazione e il prezzo originariamente
negoziato.
Tutti questi calcoli sono gestiti direttamente dalla Clearing House, che provvederà a
contattare i clienti solo nel caso in cui il loro conto scenda al di sotto del margine di
mantenimento (che nell’esempio non avevamo fissato).
Quindi, in generale, il margine iniziale rappresenta il primo cuscinetto di cui la Clearing
House si dota, ossia la garanzia che richiede in virtù dell’assunzione del rischio di credito.
Tuttavia, le movimentazioni determinate dal margine di variazione possono rendere tale
garanzia sovradimensionata o, al contrario, sottodimensionata. Il marking-to-market
consente di osservare continuamente la dinamica di tale garanzia: se sul conto si
accumula molto denaro, per la Clearing House ovviamente non sarà un problema;
viceversa, se il conto scende al di sotto del margine di mantenimento o va addirittura in
rosso, possono sorgere problemi. La Clearing House provvederà perciò a contattare il
cliente per richiedere un nuovo versamento: se questo avviene regolarmente la situazione
resterà invariata; se invece il titolare del conto non è in grado di effettuare il versamento
richiesto, la Clearing House sarà autorizzata a stralciare la sua posizione, rendendolo così
insolvente. Se ciò accade, la Clearing House perde un ammontare di denaro equivalente
alla variazione giornaliera nel prezzo del contratto, e non l’intero valore del contratto,
cosa che riduce notevolmente il rischio di credito.
08 maggio 2012
La chiusura dei contratti futures prima della scadenza
Riprendiamo gli estremi dell'esempio precedente per aggiungere un ulteriore passaggio:
T0
Pfutures
60 $
Tn
62 $
Conto compratore
+ 12.000 $
+ 22.000 $
Conto venditore
+ 12.000 $
+ 2.000 $
Ciò che è accaduto tra T0 e Tn non è più rilevante, dal momento che la posizione
cumulata equivale alla differenza tra la posizione finale e la posizione iniziale: infatti, la
sommatoria dei marking-to-market giornalieri è pari al marking-to-market complessivo.
134
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A partire da Tn+1si registrerà una nuova dinamica dei prezzi, ma noi spostiamo il nostro
ragionamento su un altro aspetto. Infatti, andiamo ad osservare che solo una minoranza
dei contratti futures vengono portati a scadenza (su 100 contratti futures, circa 2 sono
ancora aperti il giorno della scadenza). Le ragioni per cui i contratti futures vengono chiusi
prima della scadenza possono essere varie.
Innanzitutto, ricordiamo che i contratti futures possono essere utilizzati per finalità
speculative, il che significa che il compratore o il venditore non ha la necessità di coprirsi
dal rischio di prezzo, ma vuole semplicemente scommettere sull'andamento dei prezzi.
Ovviamente, l'ultima cosa che lo speculatore vuole è ricevere la merce, se è un
acquirente, o dover reperire la merce, se è un venditore. Lo speculatore, quindi, avrà
sempre interesse ad uscire dal contratta prima della scadenza.
Inoltre, la chiusura dei contratti futures prima della scadenza, può derivare anche da
finalità di copertura, dal momento che, il più delle volte, non viene operata una
copertura perfetta: i contratti futures, infatti, sono standardizzati, perciò non sempre le
specifiche contrattuali coincidono con le esigenze di compratori e venditori. In
particolare, dal punto di vista temporale, i futures hanno una scadenza fissa, che
difficilmente coinciderà con la data in cui la posizione del compratore o del venditore
diventa effettiva.
Andiamo perciò a vedere come si può chiudere un contratto futures prima della
scadenza, dal momento che si tratta di un contratto che, in realtà, obbliga le parti a
consegnare o a ricevere a scadenza. Siccome i futures sono contratti standardizzati, ogni
giorno, in borsa, verrà negoziato lo stesso tipo di contratto; l'unica differenza sarà il tempo
residuo a scadenza. Supponiamo quindi che un soggetto abbia acquistato, a T0, 50
contratti futures sul petrolio WTI con scadenza a giugno. A tale data, il conto
dell'acquirente verrà accreditato di 12.000 $, il valore del margine iniziale. Supponiamo
poi che lo stesso soggetto, a Tn, decida di vendere 50 contratti futures sul petrolio WTI con
scadenza a giugno. Per il soggetto in questione, sarà irrilevante sia la parte da cui
acquista a T0, sia la parte a cui vende a Tn, dal momento che, formalmente, la sua
controparte sarà sempre la Clearing House. Quindi, dal punto di vista della Clearing
House, in termini di registrazione, tale soggetto registrerà + 50 contratti futures (WTI giugno)
a T0 e – 50 contratti futures (WTI giugno) a Tn, con il risultato che chiuderà la sua posizione.
Avendo chiuso la sua posizione, il soggetto non subirà più alcun margine di variazione,
perciò la Clearing House provvederà a chiudere il conto, restituendo al titolare la somma
dovutagli a Tn. Nel nostro esempio risulterà:
Posizione compratore
T0
+ 50 contratti (Wti giugno)
+ 12.000 $
Tn
- 22.000 $
- 50 contratti (Wti giugno)
Ø contratti
(22.000 – 12.000) = 10.000 $ (profitto)
Il soggetto avrà quindi una posizione finale pari a 22.000 $. Il suo guadagno sarà quindi
pari a 10.000 $, dati dalla differenza tra i 22.000 dollari a disposizione a Tn e il 12.000 $
versati come margine iniziale a T0.
Perciò, chiudere la propria posizione in un contratto futures è molto semplice: è sufficiente
mettere in atto un'operazione di segno opposto e per lo stesso numero di contratti rispetto
a quella iniziale. La Clearing House, da parte sua, si troverà sempre nella medesima
situazione, dal momento che agisce come controparte di un venditore e di un
compratore (o di più compratori, nel caso l'originario acquirente abbia venduto a più
soggetti), a prescindere dal fatto che questi siano diversi dagli originari.
135
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Non resta che capire perché un soggetto dovrebbe essere interessato a chiudere la
propria posizione proprio a Tn. Per prima cosa esaminiamo il caso in cui l'operazione sia
stata messa in atto per fini speculativi. Se lo speculatore si aspetta un rialzo del prezzo del
petrolio, ovviamente si metterà nella posizione di acquirente del contratto futures: in
questo modo, se la sue aspettative si avverassero, egli beneficerebbe dei guadagni
derivanti dal meccanismo marking-to-market. Nell'esempio visto, l'acquirente otterrebbe,
a Tn, un profitto pari a 10.000$, perciò potrebbe decidere di chiudere la propria posizione
per ottenere definitivamente tale profitto. Viceversa, se lo speculatore si aspetta un
ribasso del prezzo del petrolio, si metterà nella posizione di venditore, sempre nella
speranza di beneficiare dei guadagni derivanti dal meccanismo marking-to-market.
Nell'esempio visto, il venditore subirebbe, a Tn, una perdita pari a 10.000$, dal momento
che riceverebbe solo 2.000 dei 12.00 $ versati come margine iniziale. Tuttavia, se 10.000$
fosse la perdita massima che egli è disposto a sopportare, potrebbe comunque decidere
di chiudere la propria posizione per evitare ulteriori perdite future.
Vediamo invece il caso in cui l'operazione sia stata messa in atto a fini di copertura.
Supponiamo che una compagnia di raffinazione acquisti 50 contratti futures sul petrolio
per coprirsi da un eventuale rialzo dei prezzi. Tuttavia, non è detto che le necessità di
acquisto della raffineria coincidano con i tempi del contratto: supponiamo che i contratti
scadano il 15 giugno, ma la raffinera abbia bisogno di acquistare il petrolio oggi, l'8
maggio. Se la raffineria aspettasse la scadenza del contratto, il prezzo del petrolio
sarebbe esattamente pari al prezzo del contratto, ossia 60$, a prescindere da quanto è
accaduto in precedenza. Supponiamo invece che, in data 8 maggio, il prezzo del futures
sia salito a 62 $, mentre il prezzo spot del petrolio sia pari a 61$: la raffineria andrà a
chiudere la propria posizione sui futures, ottenendo un profitto pari a 2$ al barile, e andrà
poi ad acquistare il petrolio nel mercato spot. Il costo di acquisto del petrolio sarà quindi
pari alla somma algebrica delle due posizioni, ossia pari a 59 $ al barile.
T0
Pfutures
60 $
Tn
62 $
Conto compratore
+ 12.000 $
+ 22.000 $
Conto venditore
+ 12.000 $
+ 2.000 $
Profittofutures (compratore futures) = 2$ per barile
Mkt Spot petrolio = 61$ per barile
Costo acquisto petrolio = P spot – Profitto sul futures = 61 – 2 = 59$
In questo caso, il prezzo spot è totalmente compensato, ma non necessariamente
accade sempre così. Ciò dipende dal fatto che la copertura che si ottiene con i futures
non è perfetta come quella che si ottiene con i contratti a termine: la standardizzazione
mi impone di chiudere prima della scadenza, data alla quale, invece, avrei ottenuto un
costo di acquisto esattamente pari a 60$ al barile.
Quindi, chi utilizza i futures per coprirsi è molto interessato a tenere sotto controllo la
differenza tra il prezzo del futures e il prezzo spot (F – S), che tecnicamente prende il nome
di base, o basis. Andiamo quindi ad analizzare che cosa accade alla base mano a mano
che si avvicina la scadenza del futures. Innanzitutto, precisiamo che tipicamente il prezzo
del futures è più alto del prezzo spot (sulla base della teoria del cost of carry, il prezzo del
futures deve essere pari al prezzo spot a cui si aggiungono i costi di carico). In secondo
luogo, sia il prezzo spot che il prezzo futures variano nel tempo: il prezzo futures è
influenzato sia dalle variazioni del prezzo spot, sia da altre variabili, quali le variazioni dei
tassi di interesse a cui ci si finanzia per costruire sinteticamente la posizione o la variazione
dei costi di stoccaggio. Quindi, l'unica cosa di cui siamo certi è che, a scadenza, il prezzo
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futures sarà uguale al prezzo spot, e la base sarà pari a 0: trovarsi all'ultimo giorno di un
contratto futures equivale a trovarsi nel mercato a pronti, perciò i prezzi devono essere
necessariamente identici.
Se il prezzo futures si mantenesse sempre uguale, sarebbe facile stimare cosa accade
giorno per giorno alla base: progressivamente essa si contrarrebbe per annullarsi a
scadenza. Tuttavia, tale regola vale in via generale, ma, poiché anche il prezzo futures
varia, in realtà la base può sia allargarsi sia restringersi.
F
S
t
Quindi, comprare un futures, significa in realtà assumersi il rischio della base: se la base si
muovesse in modo lineare il rischio sarebbe nullo, ma, dal momento che ciò non accade,
c'è comunque un certo livello di rischio. Tuttavia, per quanto volatile possa essere la base,
questa sarà sempre meno volatile dell'attività sottostante. Quindi, acquistare un futures,
equivale a sostituire la volatilità maggiore dell'attività sottostante, con La volatilità minore
della base.
Le opzioni
Le opzioni sono strumenti relativamente semplici da capire; i problemi sorgono quando
bisogna usarle in pratica, ossia quando bisogna prezzarle, cosa che però noi non
vedremo, se non marginalmente.
Abbiamo già visto che le opzioni sono una famiglia di strumenti derivati a sé stante, dal
momento che i contraenti non assumono obblighi simmetrici (strumenti derivati a termine
fermo) bensì asimmetrici: una parte acquista un diritto, mentre la controparte subisce un
obbligo.
La definizione afferma che: l'opzione è un contratto con cui una parte acquista il diritto
(holder) da una controparte (writer) di comprare (call) oppure di vendere (put) una certa
quantità fissata di un'attività sottostante (underlying asset) ad (opzione europea) o entro
(opzione americana) una certa data futura ad un prezzo prefissato (prezzo di esercizio o
strike price), previo il pagamento di un premio (prezzo dell'opzione).
Andiamo ad analizzare brevemente i termini di questa definizione: la parte che acquista il
diritto prende il nome di holder, mentre la controparte prende il nome di writer; se il diritto
è di comprare una determinata attività, l'opzione è definita call, mentre se il diritto è di
vendere, l'opzione è definita put; come in tutti gli strumenti derivati, le attività sottostanti
possono essere sia reali sia finanziarie; se il diritto di acquistare o di vendere può essere
esercitato ad una precisa data futura, l'opzione si definisce europea, mentre se il diritto
può essere esercitato entro una certa data, l'opzione si definisce americana; il prezzo di
acquisto o di vendita prefissato prende il nome di prezzo di esercizio, o strike price; il
premio è il prezzo dell'opzione e non va confuso con il prezzo di esercizio. Soffermandoci
un attimo sul termine premio, possiamo affermare che esso non è casuale: quando si
negozia un'assicurazione, il suo prezzo viene chiamato premio, e, come vedremo meglio
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in seguito, le opzioni sono a tutti gli effetti delle assicurazioni. Quindi, il premio è ciò che
l'holder paga per acquistare il diritto, ed è l'elemento più difficile da determinare.
Opzioni call
Andiamo a vedere i flussi finanziari degli acquirenti e dei venditori sia delle opzioni put che
delle opzioni call europee (non vedremo mai le opzioni americane, che sono più semplici
da valutare ma più articolate) attraverso degli esempi numerici. Cominciamo con
un'opzione call europea, relativa al tasso di cambio euro-dollaro, di cui abbiamo le
seguenti informazioni:
Scadenza = 3 mesi
Strike price (S) = 1,21 $/€
Quantità = 1000 €
Premio (p) = 10 cent di $ per ogni €
Ciò significa che, se voglio acquistare il diritto di acquistare euro tra tre mesi, al prezzo di
1,21 dollari, dovrò pagare 10 centesimi per ogni euro su cui acquisto questo diritto. Il
premio dovrà essere pagato sia che il diritto venga esercitato, sia che non venga
esercitato, perciò, generalmente, viene pagato al momento dell'acquisto dell'opzione.
Tuttavia, per non dover prendere in considerazione anche il valore finanziario del tempo,
immaginiamo che il premio venga pagato a scadenza.
Alla scadenza dovremo andare a confrontare il valore del prezzo di esercizio (S) con il
valore del tasso di cambio euro-dollaro a pronti (V). In base alla differenza tra questi due
valori l'acquirente eserciterà o meno il diritto e ne ricaverà un guadagno o, al contrario,
subirà una perdita. Andiamo a vedere alcune possibilità:
S
V
Esercizio
Pay-off
1,21
1,21
Indiff.
- 10 cent
1,21
1,19
No
- 10 cent
1,21
1,25
Sì
(V – S) – p = 0,04 – 0,10 = - 6 cent
Quando il prezzo di mercato equivale al prezzo di esercizio, l'acquirente ha il diritto di
acquistare qualcosa che nel mercato vale la stessa cifra (1,21), perciò, esercitare o meno
l'opzione sarà indifferente. Tuttavia, aver acquistato il diritto, mette l'acquirente nella
condizione di dover pagare il premio, ossia 10 centesimi di dollaro per ogni euro oggetto
del contratto.
Quando il prezzo di mercato (1,19) è inferiore al prezzo di esercizio (1,21), l'acquirente ha il
diritto di acquistare ad un prezzo superiore qualcosa che nel mercato è offerto ad un
prezzo inferiore, perciò non eserciterà l'opzione, ma registrerà comunque la perdita del
premio, sempre 10 centesimi di dollaro per ogni euro su cui è stato scritto il contratto.
Quando il prezzo di mercato (1,25) è superiore al prezzo di esercizio (1,21), l'acquirente ha
il diritto di acquistare ad un prezzo inferiore qualcosa che nel mercato è offerto ad un
prezzo inferiore, perciò eserciterà l'opzione.
Quindi:
se V < S → l'holder non esercita l'opzione e perde il premio;
se V = S → l'holder è in condizione di indifferenza e perde il premio.
se V > S → l'holder esercita l'opzione.
Nell’ultimo caso, il pay-off dell'holder dell'opzione call sarà dato dal valore dell'attività, a
cui sottraggo il prezzo di esercizio e il premio che deve comunque essere pagato (V – S –
p). Quindi, esercitare l'opzione non significa necessariamente ottenere un guadagno, ma
significa, quanto meno, cominciare a coprire il costo dell'opzione.
Possiamo quindi calcolare il prezzo di brek-even, ossia il prezzo di mercato al di sopra del
quale l'opzione determina per l'holder un profitto positivo. Tale valore sarà dato dalla
somma del prezzo di esercizio e del premio:
138
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Vbreak-even = S + p = 1,21 + 0,10 = 1,31 $/€.
Se il valore di mercato dell'attività sottostante è pari a 1,31, il prezzo dell'opzione viene
totalmente ammortizzato; per ogni prezzo di mercato superiore a 1,31, l'holder otterrà un
pay-off via via crescente.
In formule: pay-offholder call = max [V-S-p ; -p].
Graficamente:
+/
-
Pay-off holder call
S+p = Break-even
1,19
1,21
1,25
1,31
10 cent
Risulta quindi chiaro perchè acquistare un'opzione call equivale ad acquistare
un'assicurazione (in questo caso relativamente al tasso di cambio euro-dollaro):
acquistando una call, l'holder è in grado di conoscere a priori la perdita massima
possibile, che sarà pari al premio, e, a fronte di un costo massimo noto, avrà, per contro,
un guadagno potenzialmente illimitato.
09 maggio 2012
Dopo aver visto il periodico dell'holder dell'opzione call, andiamo ad analizzare la
posizione del writer della stessa opzione. Il writer subisce le decisioni dell'holder, perciò la
rappresentazione del suo pay-off sarà speculare a quella dell'holder. Infatti risulta:
se V < S → l'holder non esercita l’opzione e perde il premio, che rappresenta il guadagno
del writer;
se V = S → l'holder è in condizione di indifferenza e perde il premio, che rappresenta
nuovamente il guadagno per il writer;
se V > S → l'holder esercita e comincia a coprire il costo dell'opzione per cominciare a
guadagnare quando il prezzo di mercato supera il prezzo di break-even. Di conseguenza,
il writer comincia ad ottenere guadagni via via inferiori, per entrare in una zona di perdita
quando il prezzo di mercato supera il prezzo di break-even.
Il prezzo di break-even risulta quindi lo stesso sia per l'holder che per il writer e, nell'esempio
visto, è pari a 1,31.
In formule: pay-offwriter call = min [S+p-V ; p].
Graficamente:
+/-
Pay-off writer call
S+p = Break-even
10 cent
1,19
1,21
1,25
1,31
10 cent
139
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Infine, abbiamo visto che l'holder di un opzione call acquista a tutti gli effetti
un'assicurazione, dal momento che, a fronte di una perdita massima nota pari al premio, il
suo guadagno è potenzialmente illimitato. Il writer, simmetricamente, è il soggetto che
vende l'assicurazione, dal momento che, a fronte di un massimo guadagno noto pari al
premio, la sua perdita è potenzialmente illimitata.
Opzioni put
Andiamo adesso ad esaminare il caso di un'opzione put, con gli stessi dati visti
nell'esempio precedente per l'opzione call, ossia:
scadenza = 3 mesi
Strike price (S) = 1,21 $/€
Quantità = 1000 €
Premio (p) = 10 cent di $ per ogni €
Andiamo quindi a vedere alcune possibilità:
S
V
Esercizio
Pay-off
1,21
1,21
Indiff.
- 10 cent
1,21
1,25
No
- 10 cent
1,21
1,19
Sì
(S – V) – p = 0,02 – 0,10 = - 8 cent
Quando il prezzo di mercato equivale al prezzo di esercizio, l'acquirente dell'opzione put
ha il diritto di vendere qualcosa che nel mercato vale la stessa cifra (1,21), perciò
esercitare o meno l'opzione sarà indifferente. Tuttavia, aver acquistato il diritto mette
l'acquirente nella condizione di dover pagare il premio, ossia 10 centesimi di dollaro per
ogni euro oggetto del contratto.
Quando il prezzo di mercato (1,25) è superiore al prezzo di esercizio (1,21), l'acquirente
dell'opzione put ha il diritto di vendere ad un prezzo inferiore qualcosa che nel mercato
può essere venduto ad un prezzo superiore, perciò non eserciterà il diritto, ma registrerà
comunque la perdita del premio, sempre pari a 10 centesimi di dollaro per ogni euro su
cui è stato scritto il contratto.
Quando il prezzo di mercato (1,19) è inferiore al prezzo di esercizio (1,21) l'acquirente
dell'opzione put ha il diritto di vendere ad un presso superiore qualcosa che nel mercato
può essere venduto ad un prezzo inferiore, perciò eserciterà l'opzione. Quindi risulterà:
se V > S → l'holder non esercita l'opzione e perde il premio;
se V = S → l'holder è in condizione di indifferenza e perde il premio;
se V < S → l'holder esercita l'opzione.
Come nel caso delle opzioni call, l'esercizio consente sicuramente di cominciare ad
ammortizzare il costo, ma non è condizione sufficiente per determinare il guadagno
dell'holder: infatti il pay-off dell'holder in caso di esercizio sarà dato dal prezzo di esercizio,
a cui sottraggo il prezzo di mercato e il premio, che deve comunque essere pagato (S – V
– p).
Possiamo quindi calcolare il prezzo di break-even, ossia il prezzo al di sotto del quale
l'holder comincia a guadagnare. Tale valore sarà dato dal prezzo di esercizio a cui
andiamo a sottrarre il premio:
Vbrek-even = S - p 1,21 – 0,10 = 1,11 $/€
Se il valore di mercato dell'attività sottostante è pari a 1,11, l'holder ammortizzerà
totalmente il costo dell'opzione; per ogni prezzo di mercato inferiore a 1,11, l'holder otterrà
un pay-off via via crescente.
In formule: pay-offholder put = max [S-V-p ; -p].
Graficamente:
140
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+/
Pay-off holder put
-
S-p = Break-even
1,11
1,19
1,21
1,25
10 cent
Andiamo ora ad analizzare la posizione del writer della stessa opzione. Nuovamente, il
writer subisce le decisioni dell'holder, perciò la sua posizione sarà esattamente speculare
rispetto a quella di qeust'ultimo. Infatti risulta:
se V > S → l'holder non esercita l'opzione e perde il premio, che rappresenta il guadagno
per il writer;
se V = S → l'holder è in condizione di indifferenza e perde il premio, che rappresenta
nuovamente il guadagno per il writer;
se V < S → l'holder esercita e comincia a coprire il costo dell’opzione, per cominciare a
guadagnare quando il prezzo di mercato scende al di sotto del prezzo di break-even. Di
conseguenza, il writer comincia ad ottenere guadagni via via inferiori per entrare in una
zona di perdita quando il prezzo di mercato scende al di sotto del prezzo di break-even.
Il prezzo di break-even sarà nuovamente lo stesso sia per l’holder che per il writer, e,
nell’esempio visto, risulta pari a 1,11.
In formule: pay-offwriter-put = min [V-S+p ; p].
Graficamente:
+/-
Pay-off writer put
S-p = Break-even
10 cent b
1,11
1,19
1,21
1,25
10 cent
Come nel caso delle opzioni call, l’holder di un’opzione put sta a tutti gli effetti
acquistando un’assicurazione, dal momento che, a fronte di una perdita massima nota
pari al premio, il suo guadagno è potenzialmente illimitato. Viceversa, il writer vende
l’assicurazione, dal momento che a fronte di un guadagno massimo noto, la sua perdita è
potenzialmente illimitata. In realtà, notiamo che il guadagno dell’holder e la perdita del
writer non sono realmente illimitati, dal momento che i tassi di cambio possono assumere
al limite valori prossimi allo 0 e comunque mai negativi.
141
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In conclusione, utilizzare le opzioni a fini di copertura implica unicamente acquistarle,
ossia mettersi nella posizione dell’holder. Il writer, per contro, sarà sempre colui che vende
l’assicurazione.
La descrizione delle opzioni in funzione del loro valore di esercizio
Le opzioni possono essere descritte in funzione del loro valore di esercizio:
CALL
S=V
S<V
S >V
PUT
S=V
S>V
S<V
At-the-money
In-the-money
Out-of-the-money
Le opzioni si dicono at-the-money quando l’holder si trova in condizione di indifferenza,
perciò quando S=V, sia in caso di opzioni call, sia in caso di opzioni put.
Le opzioni si dicono in-the-money quando l’holder sicuramente esercita il proprio diritto,
quindi quando S<V per le call e quando S>V per le put.
Le opzioni si dicono out-of-the-money quando l’holder sicuramente non esercita il proprio
diritto, quindi quando S>V per le call e quando S<V per le put.
In funzione del prezzo delle opzioni at-the-money, che deve essere uguale per le call e
per le put, si possono scrivere i prezzi delle altre opzioni: sicuramente, se l’opzione call è inthe-money, l’opzione put corrispondente sarà out-of-the-money, perciò la prima varrà di
più e la seconda di meno; viceversa, quando l’opzione call è out-of-the-money, la
corrispondente opzione put sarà in-the-money, perciò la prima varrà di meno e la
seconda varrà di più.
La combinazione di un’opzione e di una posizione di esposizione
L’ultima cosa che resta da vedere circa le opzioni è cosa accade se combiniamo una
posizione di esposizione con un’opzione. Vediamolo con un esempio pratico.
Supponiamo che un produttore non voglia correre il rischio di prezzo e perciò decida di
coprirsi con un’opzione. Innanzitutto bisogna chiedersi che tipo di rischio corre il
produttore di caffè e quale opzione debba usare per coprirsi da tale rischio.
Il produttore di caffè, dopo la fine del ciclo di produzione, avrà il caffè da vendere, perciò
il rischio che corre da oggi fino a quel momento è di veder scendere il prezzo del caffè: il
produttore ha quindi una posizione lunga sul caffè, dal momento che guadagna se i
prezzi salgono e perde se i prezzi scendono. Perciò, per coprirsi, il produttore acquisterà
un’opzione put, in modo da acquistare il diritto di vendere il caffè a determinate
condizioni.
Supponiamo che il produttore riesca a negoziare una put con prezzo di esercizio pari a
50$ (S=50$) e che il premio previsto sia di 3$ per ogni sacco di caffè (p=3$). Andiamo a
vedere alcune possibilità:
S
50
50
50
50
50
V
50
52
47
49
44
Esercizio
Indiff.
No
Sì
Sì
Sì
Graficamente:
142
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Pay-off
-3
-3
0
-2
+3
44
47
49
50
V
52
3
Quindi:
per tutti i prezzi superiori a 50, l’holder non esercita e perde il premio;
quando il prezzo è pari a 50, l’holder è in condizione di indifferenza e perde il premio;
per tutti e prezzi inferiori a 50 l’holder esercita l’opzione e comincia ad ammortizzare il
costo dell’opzione, finché non viene raggiunto il prezzo di break-even, pari a 47, oltre il
quale l’holder ottiene un guadagno.
Tuttavia, bisogna considerare anche la posizione che l’acquirente dell’opzione ha sul
caffè. Analizziamo le varie ipotesi:
S
finale
50
50
50
50
50
V
Esercizio
50
52
47
49
44
Indiff.
No
Sì
Sì
Sì
Pay-off opzione
-3
Pay-off lungo
0
-3
0
-2
+3
Pay-off
-3
+2
-3
-1
-6
-1
-3
-3
-3
Possiamo aggiungere un prezzo pari a 53, per cui il soggetto perde 3 sull’opzione, ma
guadagna 3 sul caffè, per cui la posizione finale è pari a 0. Per tutti i prezzi superiori a 53, la
posizione sul caffè prevarrà sulla posizione sull’opzione, perciò il produttore comincerà ad
avere un guadagno reale.
Andiamo quindi a combinare graficamente le due posizioni.
44
47
49
3
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50 52 53
V
Come si può vedere dal grafico, combinare una posizione lunga con una posizione
holder put, porta in realtà ad assumere una posizione holder call. Allo stesso modo,
combinando una posizione corta e una holder call otterrei una holder put.
Questo perché, finché le opzioni vengono valutate singolarmente, ciò che interessa è solo
l’esercizio o meno. Tuttavia, quando le opzioni vengono usate per copertura, significa che
si è verificato l’evento dannoso, che, nel caso dell’esempio, era un ribasso del prezzo del
caffè. Quindi il produttore di caffè acquista l’opzione per limitare i danni che l’evento per
lui dannoso potrebbe provocare; nel caso in cui l’evento non si verifichi, il produttore
otterrà comunque un guadagno, seppure inferiore a quello che avrebbe ottenuto se non
avesse acquistato l’opzione, dal momento che non avrebbe dovuto pagare il premio.
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Gli intermediari finanziari
Le banche
Il bilancio delle banche e gli indicatori di performance bancaria
Le banche sono peculiari in termini di tipo di servizi che svolgono (ad esempio trasmissione
della politica monetaria) e del livello di controllo al quale sono sottoposte da parte delle
autorità di vigilanza.
Proprio per il fatto di essere soggetti peculiari, il modo in cui le banche scrivono i propri
bilanci è oggetto di normativa specifica.
Le norme generali in materia di informativa di bilancio relativa alle banche sono
contenute del D. Lgs. 27/01/1992 n. 87, che ne ha stabilito i principi fondamentali. La
regolamentazione degli “aspetti tecnici” però è stata riservata dall’art. 5 di tale Decreto
alla Banca d’Italia (Circolare n. 166 del 15/07/1992), la quale ha il compito di stabilire gli
schemi del bilancio bancario e le regole per la loro formazione, introducendo in essi le
modifiche e gli aggiornamenti dovuti all’evoluzione delle disposizioni e degli orientamenti
comunitari.
Dopo che D. Lgs. 28/02/2005 n. 38 ha introdotto per tutte le banche l’obbligo di redigere il
bilancio secondo i principi contabili internazionali (IAS, International Accounting
Standards, in particolare 27, 28, 32, 39), la Banca d’Italia ha emanato la Circolare n. 262
del 22/12/2005 “Bilancio bancario: schema e regole di compilazione”, con la quale ha
adeguato a tali principi le previgenti istruzioni. Il citato decreto prevede come ambito di
applicazione dei principi IAS sia i bilanci consolidati, sia i bilanci individuali delle banche
italiane (NB: il processo di accoglimento degli IAS nelle singole legislazioni nazionali è
detto endorsment).
I principi di formazione del bilancio
Il principio generale che sta alla base della formazione del bilancio delle imprese
bancarie è – analogamente a quanto avviene per le società di capitali che svolgono altri
tipi di attività – il principio della chiarezza e della rappresentazione veritiera e corretta
della situazione aziendale sotto il profilo patrimoniale, finanziario ed economico (c.d. true
and fair view).
Questi principi generali si sostanziano nei principi di redazione del bilancio, che sono:
principio della competenza nella rilevazione dei proventi e degli oneri,
indipendentemente dalla data dell’incasso e del pagamento;
principio della continuazione dell’attività, che implica valutazioni di funzionamento e non
di cessione o di liquidazione;
principio della costanza dei criteri di valutazione, con deroghe solo in casi eccezionali e
da motivare nella nota integrativa;
principio della prevalenza della sostanza sulla forma: le disposizioni della Banca d’Italia
hanno precisato che quando un’operazione può essere iscritta in bilancio in vari modi, va
privilegiato quello che meglio ne coglie la sostanza, piuttosto che la forma giuridica o
contabile;
principio della data di regolamento, secondo il quale l’iscrizione nei conti dello stato
patrimoniale dei valori relativi a talune operazioni – in particolare quelli che si riferiscono al
portafoglio s.b.f. (salvo buon fine) e al portafoglio scontato – deve essere effettuata solo
al momento del regolamento degli stessi.
Il bilancio di esercizio delle banche
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All’interno del bilancio di esercizio delle banche, troviamo vari prospetti che contengono
diverse informazioni:
stato patrimoniale: documento contabile circa le attività, le passività e il patrimonio della
banca ad un certo momento;
conto economico: documento contabile rappresentante i ricavi, i costi e i risultati
economici della banca entro un certo arco di tempo.
Anche per le banche, i documenti dello stato patrimoniale e del conto economico sono
quelli tradizionali, ma saranno peculiari le voci che li movimentano.
Oltre a questi due prospetti fondamentali, il bilancio di esercizio delle banche – come
quello di altri tipi di soggetti – contiene altri documenti, anch’essi molto importanti:
nota integrativa: documento con lo scopo di dettagliare e completare le informazioni
fornite in stato patrimoniale e in conto economico;
relazione sulla gestione: documento in cui gli amministratori illustrano l’andamento della
gestione e la situazione dell’impresa, facendo anche risultare, fra gli altri elementi che
vanno indicati, i fatti di rilievo avvenuti dopo la chiusura dell’esercizio e la prevedibile
evoluzione della gestione;
prospetto delle variazioni del patrimonio netto, in cui la banca dettaglia la redditività
complessiva del periodo, l’effetto della variazione dei principi contabili e i movimenti nelle
voci di patrimonio netto;
rendiconto finanziario: documento in cui si dettaglia la capacità della banca di generare
flussi di cassa e l’impiego da parte della banca delle risorse della gestione finanziaria,
operativa e di investimento.
Lo stato patrimoniale
All’interno delle attività dello stato patrimoniale di una banca, troviamo le seguenti
categorie generali:
crediti verso altre banche;
crediti verso la clientela;
attività finanziarie suddivise per finalità di detenzione;
altre attività.
I criteri di rappresentazione dello stato patrimoniale delle banche impongono che le voci
all’attivo siano iscritte con liquidità decrescente.
All’interno delle passività dello stato patrimoniale di una banca troviamo invece le
seguenti categorie generali:
debiti verso banche;
debiti verso la clientela;
debiti rappresentati da titoli;
passività finanziarie di negoziazione;
passività finanziarie valutate al fair value;
fondi per rischi oneri.
I criteri di rappresentazione dello stato patrimoniale delle banche impongono che le voci
al passivo siano iscritte con esigibilità decrescente.
Riportiamo ad esempio lo stato patrimoniale di una banca di Intesa San Paolo di fine
2011:
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Come si può vedere, vengono riportati i dati dell’ultimo anno (2011), i dati dell’anno
precedente (2010) e le variazioni che hanno subito le varie voci durante l’anno, sia in
valore assoluto, sia in percentuale. Ogni variazione sarà poi commentata e spiegata nella
nota integrativa.
Sulla base dei criteri precedentemente enunciati, le voci all’attivo sono inserite con
liquidità decrescente, mentre le voci al passivo sono inserite con esigibilità decrescente.
Guardando le voci totali, notiamo infine che la banca è cresciuta molto poco durante
l’anno, probabilmente a causa del deleveraging che tutte le banche stanno cercando di
concretizzare.
Il conto economico
Il conto economico è scritto in forma scalare e, anziché esaminare le singole voci,
andiamo solo ad analizzare una serie di saldi, o margini, o risultati, che, partendo dal
primo per arrivare all’ultimo, ci portano dalla gestione caratteristica fino alla voce finale di
redditività. La terminologia che useremo per indicare questi saldi è quella utilizzata
didatticamente, sebbene i conti economici delle banche possano poi presentare dei
sinonimi.
I margini che troviamo nel conto economico di una banca sono:
margine di interesse;
margine di intermediazione;
risultato netto della gestione finanziaria;
utile lordo;
utile netto.
Riportiamo ad esempio il conto economico di una banca di Intesa San Paolo di fine 2011:
Il conto economico della banca di Intesa San Paolo riporta, come prima voce, “interessi
netti”: questa voce corrisponde a quello che noi avevamo definito margine di interesse. Il
margine di interesse prende anche il nome di risultato della gestione denaro: l’attività
tipica delle banche è l’attività congiunta di raccolta di depositi e concessione di prestiti,
perciò gli interessi netti saranno il risultato della differenza tra gli interessi attivi percepiti
sulle attività di finanziamento e gli interessi passivi pagati sui depositi. Sono quindi i ricavi
dell’attività minimale svolta dalle banche.
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Le banche forniscono poi una serie di servizi, i quali generano una serie di ricavi che, nel
bilancio della banca di Intesa San Paolo, sono indicati come “commissioni nette”. Le
commissioni nette saranno date dalla differenza tra le commissioni attive, pagate alla
banca in virtù dei servizi che offre, e commissioni passive, derivanti dai pagamenti che la
banca deve effettuare per ricevere a sua volta servizi.
Le banche svolgono poi l’attività di negoziazione di titoli, assumendo il ruolo di market
maker, di dealer, cose che comporterà guadagni o perdite: troviamo quindi la voce
“risultato dell’attività di negoziazione”.
Se agli interessi netti andiamo a sommare algebricamente i risultati che derivano da
attività come la fornitura di servizi, la negoziazione di titoli, o altre attività di
intermediazione che le banche detengono in portafoglio, otteniamo il margine di
intermediazione, che, nel bilancio della banca di Intesa San Paolo, è indicato come
“proventi operativi netti”.
Naturalmente, per svolgere tutte le attività viste finora, le banche devono dotarsi non solo
di risorse finanziarie, ma anche di risorse umane. Se dal margine di intermediazione
andiamo a sottrarre le “spese del personale” e le “spese amministrative” (e altre voci
meno importanti), che nel loro insieme prendono il nome di “oneri operativi”, otteniamo il
“risultato della gestione operativa”, che noi avevamo individuato come risultato netto
della gestione finanziaria (o caratteristica).
Al risultato netto della gestione finanziaria dovremo poi sottrarre tutte le voci di
accantonamento o di ammortamento, che possono essere simili a quelle di altre imprese
o specifiche per le banche. Questo ci permette di ottenere l’utile lordo, qui indicato
come “risultato corrente al lordo delle imposte”.
Infine, dovremo inserire le voci straordinarie e di imposta, che, sommate algebricamente
all’utile lordo, portano all’utile netto, qui indicato come “risultato netto”.
È però opportuno precisare che, al fine di analizzare la redditività strutturale di una
banca, interesseranno soprattutto i primi tre margini (margine di interesse, margine di
intermediazione e risultato netto della gestione finanziaria).
Infine, osserviamo che nel conto economico analizzato, il margine di intermediazione
scende rispetto all’anno precedente e che si registra una tendenziale uscita dalla
diversificazione, obiettivo di lungo termine per tutti i principali intermediari finanziari del
mondo.
La nota integrativa e il rendiconto finanziario
Ricordiamo rapidamente che cosa troviamo in altri due prospetti del bilancio di una
banca: la nota integrativa e il rendiconto finanziario.
All’interno della nota integrativa troviamo:
politiche contabili;
informazioni su stato patrimoniale e conto economico;
informativa di settore;
informazioni su rischi e politiche di copertura;
informazioni sul patrimonio;
operazioni di aggregazione;
operazioni con parte correlate;
accordi di pagamento basati sui propri strumenti patrimoniali.
Nel rendiconto finanziario troviamo:
attività operativa;
attività di investimento;
attività di provvista.
Riclassificazione dello stato patrimoniale e correlazione tra sp e ce
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Per ragionare sui rischi assunti dalle banche e sulle loro performance può essere utile
riclassificare le voci di stato patrimoniale in base alla loro natura e, di conseguenza, al
contributo che queste apportano al conto economico.
Vengono perciò separate le voci cui corrispondono direttamente componenti positivi o
negativi di reddito (ossia le attività fruttifere di interessi attivi e la passività onerose di
interessi passivi) da quelle che invece non alimentano in alcun modo il conto economico,
pur esprimendo a tutti gli effetti un impegno patrimoniale della banca.
All’attivo dello stato patrimoniale delle banche troviamo:
Attività Finanziarie Fruttifere di Interessi (AFI), che comprendono le varie tipologie di
credito e gli investimenti in titoli obbligazionari;
Attività Finanziarie Non Fruttifere di Interessi (ANFI), che riguardano ad esempio, tutte le
attività azionarie che a vario titolo sono presenti nel bilancio della banca (partecipazioni
di medio-lungo termine o azioni in portafoglio per l’attività di negoziazione);
Attività Non Finanziarie (ANF) o Attività Reali (AR), che comprendono tutti gli investimenti
che non hanno a che fare con le attività finanziarie.
Al passivo dello stato patrimoniale delle banche troviamo:
Passività Onerose di Interessi (PO), che comprendono tutti i depositi, ma anche la
raccolta effettuata attraverso gli strumenti obbligazionari, su cui la banca emittente deve
pagare un interesse agli investitori;
Passività Non Onerose di Interessi (PNO), che riguardano alcune riserve, o parte di alcune
riserve;
Mezzi Propri (MP) o Patrimonio (PAT), che comprendono sia il capitale proprio che alcune
tipologie di riserve.
Ovviamente, le attività finanziare fruttifere di interessi e le passività onerose di interessi
saranno quelle che andranno ad influenzare in maniera diretta il conto economico. Il
collegamento tra stato patrimoniale e conto economico è dato dalla seguente formula:
N
M
UN = Σ rnAn – Σ rmLm – P + ARNI – ACNI – T
n=1
m=1
UN: utile netto della banca;
An: valore assoluto delle attività n della banca;
Lm: valore assoluto della passività m della banca;
rn: tasso maturato sulle attività n della banca;
rm: tasso maturato sulla passività m della banca;
P: accantonamento per le perdite sui prestiti;
ARNI: altri ricavi non da interessi ottenuti dalla banca, ivi compresi quelli derivanti dalle
operazioni fuori bilancio;
ACNI: altri costi non da interessi sostenuti dalla banca;
T: imposte e oneri straordinari della banca;
N: numero delle attività detenute dalla banca;
M: numero delle passività detenute dalla banca.
Indici di bilancio
Sommando i dati che si possono ricavare dallo stato patrimoniale e dal conto
economico, è possibile ottenere delle informazioni sulle performance delle banche, ossia
ricavare una serie di indici che misurano la redditività, l’efficienza, la liquidità, la solvibilità
e la rischiosità delle banche.
Gli indici di redditività offrono indicazioni sugli equilibri economici (tra costi e ricavi) della
banca → equilibrio economico. L’indice di redditività per eccellenza è il ROE, che indica
la redditività per l’azionista:
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ROE = RN / MP (risultato netto/mezzi propri).
Gli indicatori di efficienza e/o di liquidità indagano il livello e la tipologia delle strutture di
costo e le modalità di utilizzo delle risorse da parte della banca → equilibrio finanziario.
L’indicatore di efficienza più noto è l’efficienty ratio o cost-to-income, che indica il
rapporto tra i costi sostenuti per l’attività tipica delle banche e i ricavi ottenuti dallo
svolgimento di questa attività:
efficienty ratio o cost-to-income = CO / Mint (costi operativi/margine di
intermediazione).
Gli indicatori di solvibilità e rischiosità misurano le relazioni esistenti tra le diverse forme di
finanziamento, tipicamente tra quelle a titolo di debito o di patrimonio → equilibrio
patrimoniale. L’indicatore di solvibilità e rischiosità più usato è la leva finanziaria:
leva finanziaria = PO / MP (passività onerose/mezzi propri).
L’analisi di bilancio secondo il criterio del ROE
L’analisi del ROE è fondamentale per conoscere e comprendere la redditività di una
banca. Tale analisi può essere condotta in vari modi:
in termini assoluti: verificare se il rendimento dell’investimento rispetto al patrimonio della
banca è in linea con le attese:
in termini relativi:
orizzontale: confronto con il ROE di banche concorrenti, simili alla banca indagata in
termini dimensionali o di modello prevalente di business (cross-section analysis);
verticale: confronto con il ROE che la stessa banca presentava in periodi precedenti, per
indagarne il profilo evolutivo e definire un trend di miglioramento o peggioramento della
redditività aziendale (time-series analysis).
Tuttavia, il ROE è un indicatore molto, forse troppo, sintetico, dal momento che considera
solo l’ultima voce del conto economico e la rapporta ai mezzi propri. Quindi, sia nel caso
di una valutazione orizzontale, sia nel caso di una valutazione verticale, è opportuno
scomporre il ROE nelle voci che lo determinano.
La prima scomposizione può essere effettuata moltiplicando e dividendo il ROE per
risultato di gestione e per il risultato al lordo delle imposte. Otteniamo:
RN RG RL RN
ROE =
=
∙
∙
MP MP RG RL
Attraverso questa scomposizione otteniamo un risultato molto importante. Ricaviamo,
infatti, il ROE della gestione caratteristica, rappresentato dal rapporto tra il risultato di
gestione e i mezzi propri (RG/MP). Questo indicatore esprime la redditività generata dalla
banca per lo svolgimento dell’attività finanziaria, dal momento che contiene i ricavi di
quell’attività e i costi sostenuti per svolgerla. Ovviamente, per riconciliare questo
indicatore con il ROE iniziale bisogna considerare le altre voci che vanno ad influenzare la
redditività netta, ossia le voci straordinarie e le voci di imposta, che sono comprese nel
secondo e nel terzo rapporto il cui è scomposto il ROE (RL/RG e RN/RL). Il risultato al lordo
delle imposte rapportato al risultato di gestione comprende le voci straordinarie, che non
sono strutturali, ma occasionali; il risultato netto rapportato al risultato al lordo delle
imposte rappresenta invece la leva fiscale.
Per comprendere maggiormente la performance effettiva, strutturale di una banca,
conviene scomporre ulteriormente il primo indicatore, ossia il ROE della gestione
caratteristica. Questa scomposizione può essere effettuata moltiplicando e dividendo
tale indice per il margine di interesse e per il margine di intermediazione.
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RG
Mi
=
Mint
∙
RG
∙
MP
MP Mi
Mint
Infatti, la redditività della gestione caratteristica deriva, in primo luogo, dal margine di
interesse, ossia dal risultato della gestione denaro, compreso nel primo indice (Mi/MP). In
secondo luogo, la redditività della gestione caratteristica deriva dal risultato dell’attività di
intermediazione, compresa nel secondo indice (Mint/Mi), definito come ROE
dell’intermediazione finanziaria, o redditività dell’intermediazione finanziaria: quanto più è
alto questo indice, tanto più è diversificata l’attività della banca, ossia tanto più la
redditività dipende da attività diverse dalla gestione denaro. L’ultimo indice (RG/Mint) è
invece un modo alternativo al cost-to-income per calcolare l’efficienza, e, a differenza di
quanto avveniva per il cost-to-income, tanto più elevato questo indice, tanto più la
banca risulta efficiente nel produrre risultati tipici.
Infine, ricordiamo che la banca è, in primis, un intermediario creditizio, perciò risulta utile
scomporre ulteriormente l’indicatore della sua prima attività, l’attività denaro, ossia il
rapporto Mi/MP.
Mi
IA
IP
PO
∙
MP
AFI
MP
AFI PO
MP
Tale rapporto è dato dalla somma di due componenti:
il rendimento medio delle attività fruttifere di interessi (totale interessi attivi/totale attività
fruttifere di interessi) moltiplicato per l’incidenza del capitale netto sui mezzi propri
(capitale circolante netto/mezzi propri);
lo spread dei tassi di interesse, dato dalla differenza tra il tasso di interesse attivo medio e il
tasso di interesse passivo medio (totale interessi attivi/totale attività fruttifere di interessi –
totale interessi passivi/totale passività onerose di interessi), moltiplicato per la leva
finanziaria (passività onerose di interessi/mezzi propri).
=
CCN
∙
IA
+
La presenza della leva finanziaria spiega la relazione inversa fra equilibrio economico ed
equilibrio patrimoniale: quando la banca si indebita da terzi (aumenta le passività
onerose rispetto ai mezzi propri), il ROE aumenta per il meccanismo della leva finanziaria.
Ciò migliora l’equilibrio economico ma penalizza l’equilibrio patrimoniale (cioè la
solvibilità), che risultano quindi in trade off. Una riduzione dello spread genera per la
banca una penalizzazione sul lato della redditività, che comporta un aumento delle
passività (quanto più raccolgo, più investo). Esiste perciò una forma di bilanciamento
(matching): il meccanismo di incremento dei volumi (passività) a fronte dello spread, che
ha portato alla diffusione delle fusioni tra banche.
Altri due indici di bilancio
Vi sono infine altri due indici di bilancio che è opportuno ricordare:
margine di interesse unitario (in %) = MI / TA (margine di interessi/totale attività), che
esprime il contributo dell’attività di intermediazione creditizia in senso stretto alla
redditività complessiva della banca;
leva finanziaria (in numero di volte) = TA / MP (totale attività/mezzi propri): al crescere del
valore dell’indice aumenta il livello di indebitamento della banca, ovvero diminuisce il suo
grado di capitalizzazione.
Conclusioni
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Il modello di economicità del ROE è tipico degli intermediari finanziari orientati alla
formazione di redditività dal margine di interesse (come le banche).
Altri intermediari finanziari possono invece essere orientati alla redditività da:
margine da plusvalenza: gli intermediari finanziari del Merchant Banking o Venture
Capital, che acquisiscono partecipazioni in aziende industriali e che si pongono come
obiettivo la massimizzazione della plusvalenza derivante dalla vendita delle
partecipazione a un prezzo superiore;
margine da servizi: gli intermediari orientati ad offrire servizi di investimento in titoli mobiliari
o servizi di consulenza, da cui percepiscono le commissioni;
margine assicurativo: le compagnie assicurative, che lucrano la differenza tra il totale dei
premi assicurativi e il totale dei costi sostenuti.
07 maggio 2012
Come si è arrivati alla crisi finanziaria
Per capire bene lo svolgimento dei fatti occorre partire da lontano e arrivare
rapidamente al presente:
fino agli anni ’30 del Novecento, troviamo un clima regolamentare complessivamente
improntato al laissez faire;
negli anni ’30, in seguito alla grande crisi finanziaria, viene introdotta una rigida
regolamentazione di tipo strutturale (i due capisaldi sono il Glass Steagall Act, USA 1933, e
la Legge Bancaria, Italia 1936-38);
mentre si consolida questo modello, a partire dagli anni ’60 intervengono alcuni
cambiamenti:
sviluppo del mercato mobiliare, in competizione con l’intermediazione creditizia di tipo
classico, che spinge verso la disintermediazione bancaria;
sviluppo del pensiero economico di orientamento liberistico e orientato al mercato:
monetarismo di M. Friedman, Scuola liberista di Chicago, capital asset pricing model
(Lintner-Treynor), teorie del portfolio management (Markowitz-Sharpe), efficient market
hypothesis (Fama), option pricing (Black-Scholes), che spingono verso modelli evoluti di
risk management;
affermazione del pensiero politico liberista pro-market (Reagan-Thatcher, anni ’80);
pressioni della lobby bancaria per l’allentamento delle barriere normative all’uscita,
costrittive dell’imprenditorialità strategica degli intermediari finanziari e della loro
redditività;
inizia la demolizione della regolamentazione strutturale. Nel 1986, alle commercial banks
americane viene consentita l’operatività sui mercati mobiliari tramite securities houses;
negli anni ’80, in Europa, vengono emanate Direttive Comunitarie orientate alla
deregolamentazione (libertà di stabilimento, principio del mutuo riconoscimento); nel
1988, entra in vigore il Nuovo Accordo sul Capitale (Basilea 1), con il quale viene
introdotto il modello della regolamentazione prudenziale; nel 1989, in Italia, si comincia a
parlare di gruppi bancari polifunzionali, poi di liberalizzazione del movimento dei capitali e
di privatizzazioni bancarie (Legge Amato, dismissioni partecipazioni bancarie IRI); nel 1994,
viene introdotto il Testo Unico Bancario;
in parallelo e successivamente notiamo fenomeni come:
innovazione finanziaria (per es. strumenti derivati), sostenuta dall’innovazione tecnologica
e dall’articolazione dei mercati mobiliari;
articolazione dei modelli dell’intermediazione bancaria: creditizia, mobiliare,
cartolarizzata dei prestiti, wholesale funding,…;
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combinazione dei modelli di business; diversificazione, internazionalizzazione, sviluppo
dimensionale (in prevalenza con acquisizioni) della banca; consolidamento e
concentrazione della financial services industry;
forte aumento delle interdipendenze bancarie (relazioni di credito-debito, strumenti
derivati, repo-markets,…);
espansione delle attività fuori bilancio, sviluppo delle filiere della cartolarizzazione
(shadow banking);
espansione-occultamento delle leve finanziarie sulla liquidità proprietaria e sul patrimonio;
affermazione, sviluppo e centralità del modello della grande banca universale-globale,
caratterizzata dal grande ed esplosivo successo fino al 2007 delle cosiddette megabanks.
Le evidenze della crisi
Vari elementi mettono in evidenza la crisi degli ultimi anni:
un fattore esogeno casuale – negli Stati Uniti, l’inversione di tendenza del mercato
immobiliare americano espone il debito ipotecario sub-prime a crescenti rischi di
insolvenza e innesca crisi bancarie concatenate (contagio) con rapide e forti irradiazioni
nelle filiere della cartolarizzazione (veicoli, venditori di protezione dal rischio di credito,
investitori finali,…);
svalutazione degli attivi bancari, effetto negativo sui patrimoni netti, crescente
fabbisogno di liquidità, (s)vendita di attivi bancari, crescenti svalutazioni degli attivi
bancari, ulteriori effetti sulla patrimonializzazione, aggravamento diffuso dei rischi di
liquidità e di solvibilità: si innesca e si diffonde una spirale negativa, con il conseguente
collasso delle relazioni fiduciarie interbancarie e dei mercati interbancari e opacità dei
bilanci bancari;
la fragilità del sistema diviene rapidamente evidente e pone in chiara luce la gravità del
rischio sistemico e dei suoi devastanti effetti sulla funzionalità del sistema rispetto
all’economia reale (la banca deve essere liquida, solvibile, produrre credito, produrre
moneta, gestire pagamenti,…).
Gli interventi pubblici d’urgenza
Gli interventi pubblici introdotti con urgenza per far fronte alla crisi sono stati molti:
proteggere i passivi delle banche con garanzie pubbliche di vario tipo, in modo da
prevenire la corsa al prelevamento;
sostenere la patrimonializzazione delle banche, con vari interventi favoriti soprattutto dai
governi;
immettere liquidità nei sistemi, con la speranza di ritardare l’evidenza drammatica di
un’insolvenza.
Il modello della grande banca universale e globale, diversificata, centrale, fortemente
interconnessa, con rilevanti posizioni fuori bilancio è chiaramente in crisi. Cadono i miti
della grande dimensione, dell’ampia diversificazione, dell’estesa internazionalizzazione,
venduti dagli stessi amministratori delegati, e resta sul tavolo il problema della banca
troppo grande, di cui è impossibile concepire il fallimento o immaginarne la dipendenza
dalla protezione pubblica. Di queste grandi banche ne è fallita una sola, la Lehman
Brothers, ma si è provveduto a renderlo un caso unico nella storia.
I nuovi orientamenti della regolamentazione bancaria
Dopo gli interventi pubblici d’urgenza, anche la regolamentazione ha tentato di porre un
freno alla crisi, con vari accorgimenti:
una regolamentazione micro-prudenziale più severa e rigorosa (Basilea 3), che richiede:
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più elevati rischi di patrimonializzazione e più rigorosa definizione del capitale
regolamentare, in una prospettiva graduale di medio periodo, abbreviata dall’European
Banking Authority;
nuovi coefficienti di liquidità:
liquidity coverage ratio: proprietà di attività liquide;
net stable funding ratio: equilibrio delle strutture per scadenze degli attivi e dei passivi;
con l’obiettivo sostanziale e principale di rendere la singola banca più resistente sia ai
rischi di solvibilità indotti dalla svalutazione degli attivi, sia ai rischi di liquidità (shocks
esogeni, market liquidity risk, funding risk), con effetto di mitigazione del rischio sistemico;
misure di regolamentazione macro-prudenziale, rivolte alle banche così grandi e così
interconnesse da costituire una minaccia per il sistema, le cosiddette global sistematically
important financial institutions (GSIFI), che impongono:
limiti di leva finanziaria;
maggiore patrimonializzazione;
living wills (orderly resolution);
resolution authority
………………………………....
con l’obiettivo di disciplinare direttamente e specificamente le istituzioni finanziarie
caratterizzate da elevato potenziale di contagio;
qualche misura di regolamentazione strutturale, senza peraltro un disegno organico:
recinzione, con specifica patrimonializzazione e pubblica protezione delle attività
bancarie connotabili come public utilities (intermediazione creditizia di base,…) secondo
il modello del ring fencing, avanzato dal Vickers Report;
limitazione delle attività di proprietary trading in congiunzione con l’intermediazione
creditizia (la cosiddetta Volcker rule);
proposta di applicazione di ponderazioni di rischio penalizzanti sui finanziamenti a settori
esposti a rischio di bolla speculativa (UK, Financial Policy Commitee, 16.3.2012);
accentramento della negoziazione di alcune categorie di strumenti derivati con elevato
potenziale di contagio (systematically dangerous contracts, come ad esempio i credit
default swaps) presso stanze di compensazione centrali;
regolamentazione specifica di istituzioni finanziarie appartenenti all’area del shadow
banking, per esempio i money market funds.
Quadro di riferimento per le strategie bancarie
Le strategie appena esaminate non hanno avuto grande successo. Con l’esplosione della
crisi, perciò, si sono totalmente invertite le tendenze:
nel tempo breve (ma quanto breve?):
deleveraging, cioè riduzione della leva finanziaria ottenuta agendo prevalentemente
sull’attivo, piuttosto che sul patrimonio;
razionamento del credito (riqualificazione dei rischi dell’attivo);
riqualificazione del posizionamento per aree strategiche di affari: abbandoni,
ridimensionamenti, cessioni di rami d’azienda, retrenching;
minore manovrabilità degli attivi e dei passivi, entrambi condizionati dalle relazioni con la
Banca Centrale, con effetti di dipendenza, come, ad esempio, nel caso delle longer-term
refinancing operations (LTRO), circuiti di intermediazione al servizio del debito pubblico;
recupero di redditività dal lato dei costi e dell’efficienza operativa;
sullo sfondo, un riesame critico del modello strategico della diversificazione del portafoglio
corporate per aree strategiche sinergiche:
i discutibili benefici della correlazione imperfetta:
miglioramento della performance rendimento-rischio?
economie di raggio d’azione (scope)?
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contagio reputazione fra aree di business diverse (caso UBS)?
quella fino al 2006, fu vera diversificazione? Si è capito che le grandi banche universali
avevano:
posizioni simili sugli stessi mercati;
stesse controparti, spesso costituenti circuiti chiusi;
stesse tecnologie: market-sensitive risk management models, sistemi algoritmici di trading;
isomorfismo organizzativo (e culturale), dovuto all’emigrazione trasversale dei managers e
dei consulenti (cultura dominante delle best practices e dei benchmarks, comportamenti
imitativi, riferimento agli standard conformanti del mestiere dei rating, del financial
reporting, delle procedure di audit e di supervisione…);
in altre parole le megabanks hanno molto diversificato il portafoglio corporate delle
proprie attività – aree di business, aree geografiche, settori, tecnologie di processo – ma
non per questo si sono significativamente diversificate dalle concorrenti omologhe
(diversificazione senza differenziazione);
e in prospettiva:
il nuovo stato del mondo è orientato verso la deglobalizzazione, la deinternazionalizzazione, cioè la rinazionalizzazione della banca (debitori, creditori, azionisti,
controllo, regolamentazione-supervisione)?
i mercati potranno effettivamente svolgere la loro funzione di disciplina oppure resteranno
intricati nei circuiti interbancari degli scambi over the counter?
10 maggio 2012
Le società di intermediazione mobiliare
Alcuni cenni temporali
Fino al 1991, l’autorizzazione nell’ambito dei servizi finanziari per il pubblico era limitata
all’attività di intermediazione ed era delegata a dei professionisti, denominati agenti di
cambio, che operavano come intermediari nel mercato borsistico. La borsa era l’unico
mercato realmente regolamentato, nel senso che l’attività di intermediazione per ogni
tipo di titolo poteva avvenire soltanto attraverso lo scambio in borsa tra due agenti di
cambio, che si presentavano l’uno con il ruolo di compratore e l’altro con il ruolo di
venditore.
Con la legge 02/01/1991 n. 1, anche in Italia viene aperto il mercato dei servizi finanziari,
nel senso che vengono regolamentati tutta una serie di servizi che prima erano in parte
vietati e in parte regolamentati da servizi tra privati: ad esempio, fino al 1991, chiunque
volesse quotare la propria società in borsa doveva organizzare tale operazione
privatamente. Con la legge 02/01/1991 vengono quindi definiti una serie di servizi
finanziari, che non analizzeremo nel dettaglio, poiché tale legge è stata modificata
sensibilmente dal Testo Unico della Finanza.
Il Testo Unico della Finanza, sotto il profilo tecnico, prende il nome di decreto legislativo 24
febbraio 1998 n. 58, ed al suo interno si trovano tutte le informazioni necessarie per
comprendere il funzionamento dei mercati finanziari italiani, dal momento che tale testo
viene continuamente aggiornato anche dall’introduzione di nuove norme che
provengono dal Mercato Europeo. Di queste ricordiamo soltanto la legge istitutiva della
MIFID (2007).
Il Testo Unico della Finanza lo analizzeremo meglio quando parleremo di organismi
collettivi di gestione del risparmio; per il momento ci limitiamo a ricordare che al suo
interno troviamo tutto ciò che serve a definire le strutture che operano sui mercati
finanziari.
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La regolamentazione delle società di intermediazione mobiliare
Per capire che cosa sono le Società di Intermediazione Mobiliare, che, insieme alle
banche, sono l’intermediario mobiliare per eccellenza, dobbiamo innanzitutto ricordare la
definizione riportata alla lettera e) dell’art. 1 del Testo Unico della Finanza: “La società di
intermediazione mobiliare (Sim) è l’impresa, diversa dalle banche e dagli intermediari
finanziari iscritti nell’elenco previsto dall’articolo 107 del Testo Unico Bancario, autorizzata
a svolgere servizi o attività di investimento, avente sede legale e direzione generale in
Italia”.
“Avente sede legale e direzione generale in Italia” costituisce una parte importante di
tale definizione: dal momento che tutti gli intermediari finanziari sono soggetti al controllo
degli organi di vigilanza, è fondamentale sapere dove si trovi la loro sede legale e la loro
direzione generale, per capire alla vigilanza di quale organo sono sottoposti.
Le Sim aventi sede legale e direzione generale in Italia, secondo l’art. 5 del Testo Unico
della Finanza, devono sottostare a due organi di vigilanza: la Banca d’Italia e la Consob.
In particolare, alla Banca d’Italia compete tutta la vigilanza per quanto riguarda il
contenimento del rischio, la stabilità patrimoniale e la sana e prudente gestione degli
intermediari finanziari (punto 2); alla Consob, invece, compete tutta la vigilanza relativa
alla trasparenza e alla correttezza dei comportamenti (punto 3). Gli intermediari, proprio
in virtù di questi controlli cui sono soggetti da parte degli organi di vigilanza, sono tenuti a
dotarsi di una funzione di controllo interna indipendente. Questo perché la Banca di Italia
vuole avere, all’interno degli intermediari finanziari, qualcuno che sia indipendente sotto il
profilo della scala gerarchica e che risponda sia al consiglio di amministrazione sia agli
organi di controllo. In base a tutto ciò, diventa chiaro a chi bisogna rendere conto
quando si vuole costituire una Sim.
A questo punto, bisogna analizzare quali tipi di requisiti siano necessari per costituire
questo tipo di società. A tale proposito, bisognerà fare riferimento all’art. 13 del Testo
Unico della Finanza, intitolato “Requisiti di professionalità, onorabilità e indipendenza degli
esponenti aziendali”. Sulla base di questo articolo, non è consentito a chiunque costituire
una Sim, poiché queste società, operando per conto del sistema finanziario, svolgono, di
fatto, una funzione pubblica. La Banca d’Italia richiede quindi una serie di requisiti
necessari per chiunque voglia prendere parte alla gestione di una Sim. L’art. 14 del Testo
Unico della Finanza tratta poi dei requisiti di onorabilità: per i requisiti di onorabilità vale un
discorso simile al precedente, poiché sono tenuti a presentarli anche i soci. L’art. 15 del
Testo Unico della Finanza tratta, invece, delle partecipazioni: chiunque voglia acquisire
una partecipazione in una Sim, pari o superiore al 10%, deve richiedere l’autorizzazione
alla Banca d’Italia, la quale avrà sei mesi di tempo per concedere o negare questa
autorizzazione.
Dopo aver capito a chi rivolgersi e aver verificato il rispetto dei requisiti necessari,
chiunque voglia costituire una Sim dovrà presentare domanda presso la Banca d’Italia,
che studierà la richiesta e la invierà alla Consob. Questo perché, sulla base dell’art. 19 del
Testo Unico della Finanza, relativo all’autorizzazione, deve essere la Consob che, sentita la
Banca d’Italia, autorizza, entro sei mesi, la costituzione di una Sim.
Una volta ottenuta l’autorizzazione, l’art. 20 del Testo Unico della Finanza stabilisce che la
Consob iscriva in un apposito albo le Sim appena autorizzate, in modo tale che chiunque
voglia rivolgersi ad una Sim possa sapere sia se tale società è autorizzata, sia di quali
autorizzazioni dispone.
Concludiamo quindi la parte giuridica con l’analisi di un punto dell’art. 1. Inizialmente,
abbiamo visto che la Sim è un’impresa “autorizzata a svolgere servizi o attività di
investimento”, ma non abbiamo specificato cosa siano in realtà i servizi e le attività di
investimento. Il punto 5 dell’art. 1 del Testo Unico della Finanza afferma che: “Per servizi e
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attività di investimento si intendono i seguenti, quando hanno per oggetto strumenti
finanziari:
negoziazione per conto proprio;
esecuzioni di ordini per conto dei clienti;
sottoscrizione e/o collocamento con assunzione a fermo ovvero con assunzione di
garanzia nei confronti dell’emittente;
c-bis) collocamento senza assunzione a fermo né assunzione di garanzia nei confronti
dell’emittente (il legislatore ha ritenuto opportuno aggiungere questa attività, ma,
parlando degli IPOs, abbiamo visto che l’evento fondamentale quando si costituisce un
consorzio è l’assunzione a fermo oppure l’assunzione di garanzia. Il collocamento senza
assunzione, in realtà, interessa molto poco all’emittente, che si troverebbe con un
soggetto che si rende disponibile a tentare di collocare le azioni emesse ma non si
obbliga in alcun modo a raggiungere tale obiettivo);
gestione di portafogli;
ricezione e trasmissione di ordini;
consulenza in materia di investimenti;
gestione di sistemi multilaterali di negoziazione”.
La classificazione dei servizi finanziari
Il mondo dei servizi finanziari si può riorganizzare in base ad un gran numero di
classificazioni. In base alla classificazione che andiamo a vedere noi, le attività
individuate dal punto 5 dell’art. 1 del Testo Unico della Finanza possono essere
raggruppate in quattro categorie:
intermediazione;
investimento;
gestione;
consulenza.
L’intermediazione è, in sostanza, l’attività storica, che in passato era riservata agli agenti
di cambio. Relativamente a questa categoria, è importante capire nei confronti di chi è
rivolta l’attività di intermediazione: distinguiamo, infatti, tra negoziazione in conto proprio
e negoziazione in conto terzi. La negoziazione in conto proprio è un’attività che si collega
molto all’attività di investimento, che anticipiamo essere l’attività di investimento del
capitale della Sim, contrapposta alla negoziazione in conto terzi, che si configura invece
come attività di gestione.
La negoziazione in conto terzi è molto semplice da capire: sostanzialmente,
l’intermediario negozia sul sistema finanziario per conto di qualcun altro. La differenza
rispetto al passato è che non esiste più una borsa come luogo fisico (asta chiamata, o
gridata) ma un mercato telematico (asta continua elettronica), o centro elaborazione
dati (ced), su cui vengono inserite tutte le proposte di acquisto e di vendita di titoli. Ciò
che differenzia il mercato telematico dalla borsa fisica sono le capacità umane di coloro
che su tale mercato operano: se la borsa fisica richiedeva solo esperienza (e una voce
potente), il mercato telematico richiede anche rapidità e dinamicità.
La negoziazione in conto proprio è, in pratica, la metà di questa attività, nel senso che
l’intermediario, anziché agire per conto di un proprio cliente che intende vendere azioni
ma non può accedere da solo al mercato telematico, formalmente accetta l’incarico,
ma, in realtà, acquista personalmente le azioni in questione. Ciò non significa che le azioni
non vengano negoziate sul mercato telematico, dove devono comunque arrivare, ma
che esse torneranno immediatamente nelle mani dell’intermediario che le acquista,
operando così in conto proprio. L’intermediazione in conto proprio risulta molto simile
all’attività di investimento, ma ha una funzione o istituzionale o di facilitazione del
rapporto con il cliente, dal momento che esistono degli intermediari finanziari che
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assolvono alla funzione di market maker. Il market maker è colui che fornisce liquidità al
mercato ed ha una funzione molto importante, che si assume per conto dell’emittente.
Per capire meglio questo concetto, ipotizziamo che si voglia trattare un titolo non
particolarmente liquido e che sia avvenuto l’IPO da poche settimane. L’imprenditore che
ha quotato il suo titolo ha interesse a dare liquidità al mercato, ossia a garantire al
mercato che gli scambi su questi titoli saranno frequenti e comunque sufficienti a creare
un dinamismo sul titolo stesso. In pratica, l’imprenditore vuole evitare che le azioni inserite
sul ced per la vendita non trovino una controparte, determinando un ribasso del loro
prezzo fino al punto in cui non si incrocia un compratore: alla fine di questo processo, di
fatto, è l’emittente che andrà ad incassare un importo più basso, perciò si può facilmente
capire perché non gradisca arrivare a questo genere di situazione. Il market maker è colui
che, dietro compenso e per conto della società emittente, si assume l’incarico di dare
liquidità al mercato, ovvero, intermediando in conto proprio, rileva le proposte che
appaiono sul ced con dei massimi e minimi giornalieri, e quindi si obbliga, in particolare, a
vendere azioni a chi le vuole comprare e a comprarle a chi le vuole vendere. In realtà, la
vera attività di market making, di intermediazione in conto proprio, si configura quando
l’intermediario finanziario è costretto ad acquistare azioni da chi vuole venderle; invece,
quando l’intermediario deve vendere a chi vuole acquistare, si parla sempre di attività di
market making, ma questa sfocia immediatamente nell’intermediazione in conto terzi, dal
momento che l’intermediario non farà altro che comunicare all’emittente la richiesta di
azioni da parte del mercato e, quindi, garantirà sì liquidità al mercato favorendo gli
scambi, ma in realtà l’operazione si configura come un’operazione di intermediazione in
conto terzi.
Ricordiamo infine, che l’attività di intermediazione pura prende anche il nome di
brokeraggio, termine che deriva dalla parola inglese “broker”, che identifica un
intermediario che svolge appunto questa attività di intermediazione in conto terzi.
Per quanto riguarda l’investimento, ricordiamo di averlo già visto in una delle sue forme,
parlando degli IPOs. Di fatto, l’investimento è l’operazione con la quale l’intermediario
finanziario, nell’ambito dell’organizzazione di un consorzio di collocamento per l’IPO,
acquista a fermo delle azioni, che vengono successivamente collocate al pubblico.
Questa attività, quindi, si concretizza in due fasi: l’assunzione a fermo e il collocamento al
pubblico. Se tra queste due fasi si manifestano dei problemi sui mercati finanziari, la prima
rimane, mentre la seconda non parte, e l’assunzione a fermo determina un investimento
di capitali da parte dell’intermediario finanziario.
Di operazioni di investimento di capitali ne esistono molte altre, che riguardano l’attività di
strutturazione di prodotti. Infatti, può accadere, ad esempio, che un intermediario
istituzionale voglia creare un prodotto finanziario legato a titoli obbligazionari non
particolarmente liquidi e ad alto rendimento. Un’idea di questo tipo può nascere dal fatto
che sul mercato obbligazionario vi sono molti titoli non particolarmente liquidi, in quanto
presentano un ammontare di prestito abbastanza basso. L’intermediario può quindi
decidere di acquistare un paniere di, ad esempio, cinque obbligazioni e di creare un
prodotto finanziario che sarà poi venduto al pubblico. In questo caso, l’intermediario
dovrà poi gestire la liquidità del prodotto finanziario successivo, ma, come nel caso del
collocamento, troviamo una fase di investimento di capitali, durante la quale
l’intermediario acquista i prodotti che gli interessano, crea un prodotto nuovo e procede
poi al collocamento. Attività di investimento ne possiamo trovare tante e sono quasi tutte
legate a strutturazioni di prodotti nuovi di questo tipo.
La gestione di patrimoni è una delle attività più tipiche delle Sim ed è anche una delle
attività più regolamentate. La gestione di patrimoni può essere di due tipi: individuale e
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collettiva. Le gestioni collettive le tratteremo più avanti e anticipiamo solo che vengono
svolte attraverso l’utilizzo di un fondo di investimento: in questi casi si definisce un prodotto
finanziario e si opera per conto di una struttura che poi viene collettivamente collocata al
pubblico indistinto di investitori.
Adesso vediamo invece le gestioni individuali di patrimoni, con le quali un cliente che ha
a disposizione un certo capitale, decide di affidarne la gestione ad un intermediario
professionale. Questa attività risulta molto legata al rapporto personale fra intermediario
ed investitore, e, infatti, la parte più complessa di questo lavoro è cercare di capire quali
siano gli obiettivi di investimento del risparmiatore. A questo proposito, è opportuno
ricordare un’altra definizione del Testo Unico della Finanza: “Per gestione di portafogli si
intende la gestione, su base discrezionale e individualizzata, di portafogli di investimento
che includono uno o più strumenti finanziari, nell’ambito di un mandato conferito dai
clienti”. “Su base discrezionale” significa che la gestione è a discrezione dell’investitore e
del gestore del patrimonio; “individualizzata” significa che la gestione è fatta
dall’intermediario specializzato in nome e per conto dell’investitore. In sostanza, quindi,
con l’attività di gestione si trasformano i capitali da una forma liquida ad un portafoglio di
titoli. A questo proposito, è utile osservare che la definizione del Testo Unico della Finanza
stabilisce che tali portafogli possano essere composti da uno o più strumenti finanziari, ma,
in realtà, non accade mai che un cliente dia un mandato di gestione per acquistare un
solo strumento finanziario, perché, in tal caso, risulterebbe per lui più conveniente stipulare
un contratto di intermediazione. Può però accadere che, nell’ambito della gestione,
l’intermediario si ritrovi con un unico strumento finanziario: ciò può succedere nella fase
iniziale, quando l’intermediario acquista il primo titolo da detenere in portafoglio (al quale
ne seguiranno comunque altri), oppure in una fase intermedia, in cui il gestore ritenga
conveniente vendere alcuni strumenti finanziari e, dopo tale vendita, in portafoglio
rimanga momentaneamente un unico titolo. In ogni caso, è importante ricordare che la
gestione non riguarda mai un solo strumento.
Tornando al rapporto che intercorre tra l’investitore e l’intermediario, bisogna precisare
che l’investitore dovrà comunicare all’intermediario non solo l’entità della somma da
gestire, ma anche le sue idee su come investirla. Questo secondo punto è fondamentale,
perché l’intermediario deve valutare quale sia la propensione al rischio del cliente: la
propensione al rischio è stata introdotta con la normativa MIFID del 2007, perché ogni
investitore avrà un proprio profilo di rischio, probabilmente diverso da quello di tutti gli altri
e, perciò, l’attività dovrà svilupparsi in modo diverso a seconda della propensione al
rischio dei vari soggetti. Quindi, ogni soggetto conferirà all’intermediario un mandato di
gestione che presenti un profilo di rischio adeguato alle proprie esigenze. È opportuno
precisare che, dopo vari problemi sorti sui mercati finanziari, il legislatore è intervenuto con
forza per stabilire quale sia, nei vari casi, il rischio massimo che l’intermediario può
assumere, in aggiunta alle indicazioni presenti sul mandato che a questi viene conferito.
Stabilito il profilo di rischio dell’investitore, andremo a legarlo ad un parametro di
riferimento, definito benchmark, che sarà fondamentale per valutare la capacità del
gestore di ottenere dei risultati. Infatti, dopo aver identificato con precisione il rischio che
l’investitore è disposto a correre, sapremo che il capitale in questione può essere investito
su determinate attività che, in media, daranno un certo rendimento. Tale rendimento
medio è, appunto, il benchmark. Dovremo quindi confrontare questo rendimento medio,
con il rendimento che viene effettivamente realizzato dal gestore, il quale sarà tenuto ad
ottenere risultati migliori del mercato (elemento fondamentale per determinare le
commissioni).
Per concludere, dopo aver ottenuto il mandato e aver compreso quale livello di rischio è
autorizzato ad assumere, l’intermediario gestirà il patrimonio affidatogli e, ogni tre mesi,
invierà al cliente una documentazione, nella quale indicherà tutto ciò che ha comprato,
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tutto ciò che ha venduto, quanto vale il portafoglio, qual è il rischio di portafoglio e il
confronto con il benchmark (trimestrale e annuale).
Infine, andiamo ad analizzare l’attività di consulenza, un’attività che ha avuto un destino
bizzarro sul mercato finanziario italiano: infatti, la legge 02/01/1991 l’ha definita attività
riservata; poi la riserva è stata eliminata, per essere reinserita in seguito. Nell’ambito della
consulenza rientrano un gran numero di possibilità. In termini di valori mobiliari, la
consulenza è un servizio che l’intermediario offre a chi vuole negoziare per conto proprio:
in pratica si scompone l’attività di gestione di patrimoni in attività di intermediazione in
conto terzi e attività di consulenza. Vediamo sinteticamente che cosa accade.
Con la consulenza, un investitore non conferisce all’intermediario un mandato per gestire
il proprio patrimonio, bensì gli chiede quali sarebbero le sue idee per investire tale
patrimonio e il consulente, contro il pagamento di commissioni annue fisse, esprimerà le
proprie opinioni. Tuttavia, non essendo previsto un mandato, l’investitore è poi libero di
decidere autonomamente se seguire o meno i consigli del consulente: se l’investitore
decide di accettare i consigli del consulente, si rivolgerà poi ad un intermediario puro,
che sarà quindi incaricato di svolgere un’attività di negoziazione in conto terzi; se invece il
cliente decide di non accettare i consigli del consulente, semplicemente non effettuerà
l’investimento da lui proposto. Qualunque sia la decisione dell’investitore, è importante
ricordare che l’attività che si svilupperà successivamente alla consulenza, sarà un’attività
che il cliente svolgerà per conto proprio.
La consulenza può riguardare un gran numero di tematiche.
Le necessità patrimoniali delle diverse attività
Il patrimonio necessario per svolgere le attività viste in precedenza può essere diviso in
patrimonio immobilizzato e patrimonio finanziario.
L’attività di intermediazione necessita di un ampio patrimonio immobilizzato, perché
creare una Sim di intermediazione costa molto in termini di macchinari, software,
collegamenti, informatici competenti, ecc. Per quanto riguarda il patrimonio finanziario,
bisogna distinguere tra intermediazione in conto proprio e intermediazione in conto terzi:
chi opera in conto proprio, sia pure per svolgere un’attività modesta, necessiterà di un
patrimonio finanziario, mentre chi opera in conto terzi non ha alcun bisogno di patrimonio
finanziario, dal momento che riceve degli ordini e li passa sul mercato, e riceverà una
commissione nel momento in cui riesce ad eseguire l’ordine.
L’investimento, invece, non necessita di grandi patrimoni immobilizzati, poiché può essere
svolto anche con l’attività di terzi. Al contrario, il patrimonio finanziario dovrà essere
massimo, perché con un patrimonio scarso si potranno mettere in atto poche operazioni
e, se quelle operazioni non rendono, l’attività si blocca.
Per quanto riguarda l’attività di gestione, essa non necessita di una grande struttura e
neanche di alcuna immobilizzazione finanziaria, dal momento che si tratta di un’attività in
conto terzi.
La consulenza, infine, è l’attività che costa meno: ciò che serve è solo l’intelligenza,
mentre non serviranno né grandi patrimoni immobilizzati né, tanto meno, patrimoni
finanziari.
A livello di conto economico, l’intermediazione in conto terzi non presenta costi
particolarmente elevati, se non per la gestione di tutta la struttura, quindi si arriverà ad un
costo medio.
L’investimento, invece, prevede una struttura più piccola ma ha dei costi equivalenti,
perché è di qualità superiore: il personale non sarà molto numeroso, ma dovrà essere
molto abile, poiché si va ad investire il capitale della Sim stessa.
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La gestione accentua ulteriormente la componente appena vista per l’investimento: i
gestori dovranno essere in grado di far guadagnare i propri clienti, ossia dovranno essere
talmente abili da far fruttare più della media di mercato i patrimoni che vengono loro
affidati.
Per quanto riguarda la consulenza, si tratta di un’attività che attrae capitali per conto
della Sim ma non li gestisce, pertanto i consulenti otterranno solo dei guadagni
commissionali, in percentuale rispetto ai ricavi che la Sim ottiene grazie ai clienti che i
consulenti attraggono. In questo periodo i costi sono molto elevati, perché il mercato è
saturo, quindi i consulenti devono essere in grado di risolvere i problemi finanziari dei
clienti.
Dopo aver analizzato i costi, andiamo a vedere i ricavi e le modalità con cui la tendenza
del mercato può influire. Se ci troviamo di fronte ad un mercato sostanzialmente piatto, le
commissioni che le Sim ottengono per quanto riguarda l’intermediazione saranno
piuttosto modeste, perché non c’è una grande tendenza a muovere capitali.
L’investimento non rende alcun tipo di profitto. Per quanto riguarda la gestione, conterà
l’abilità degli addetti, poiché fare come il mercato in un mercato piatto comporterà
ricavi modesti. La consulenza, invece, se su un mercato di questo tipo riesce a trovare
delle opportunità che partono proprio dalla staticità del mercato, può trovare ampi spazi.
Se il mercato è molto dinamico, lo scenario cambia completamente. I ricavi saranno
sicuramente elevati per chi opera in conto terzi, perché il dinamismo del mercato
alimenta l’interesse degli investitori e quindi aumentano le commissioni che gli intermediari
ricevono sulla dinamicità delle negoziazioni. I ricavi dell’attività di investimento
dipenderanno molto dalle capacità degli addetti, ma, anche in questo caso, c’è la
possibilità di guadagnare molto. La gestione di patrimoni, invece, è particolare, perché
prevede due tipi di commissioni, una fissa e una di performance: le commissioni fisse non
dipendono in alcun modo dal mercato (tra lo 0,5 e l’1% del patrimonio gestito), mentre le
commissioni di performance saranno percepite solo se il gestore fa meglio del mercato e
se il mercato genera un risultato positivo. Infatti, le commissioni di performance sono
calcolate come il 10% della differenza fra il risultato ottenuto dal cliente e il benchmark.
Tuttavia, se il mercato genera un risultato negativo e il gestore ottiene risultati migliori del
mercato, ma pur sempre di segno negativo, tali commissioni non saranno comunque
percepite. Per quanto riguarda la consulenza, l’andamento del mercato non conta
molto, ma comunque il dinamismo offre qualche opportunità in più.
16 maggio 2012
Le società di gestione del risparmio
Alcuni cenni temporali
Analizzando le società di intermediazione mobiliare, abbiamo parlato, tra gli altri
argomenti, della gestione individuale di patrimoni. Adesso, parlando delle società di
gestione del risparmio, andiamo ad analizzare la gestione collettiva di patrimoni.
La gestione del risparmio tende ad essere, da sempre, un attività piuttosto complicata,
poiché gli investimenti devono essere canalizzati verso titoli non sempre facili da
individuare e che devono rispondere alle caratteristiche di ogni singolo investitore. Negli
Stati Uniti, dove la ricchezza si è formata molto prima che in Europa, si è cominciato, negli
anni Venti, ad avere il problema di risparmiatori privati che si chiedevano su quali titoli
della borsa americana investire il proprio risparmio: la scelta risultava molto difficile, dal
momento che le informazioni erano molto più limitate rispetto ad oggi. Ricordiamo, tra
l’altro, che all’epoca cominciava a diffondersi una cultura dell’investimento azionario che
avrebbe portato alla bolla speculativa alla base della crisi del 1929. In ogni caso, nel 1924,
nasce il primo fondo comune di investimento.
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In Italia, il processo di creazione della ricchezza avviene molto più tardi rispetto agli Stati
Uniti e, in particolare, dopo il boom economico del secondo dopoguerra, ossia dopo gli
anni Sessanta. Nello specifico, la creazione dei fondi comuni di investimento risulta un
processo estremamente lungo, tanto che il primo di essi nasce solo nel marzo 1983, con
l’approvazione della legge n. 77. Non andremo però ad analizzare questa legge, poiché
anch’essa è stata ormai integralmente sostituita dal Testo Unico della Finanza che, come
abbiamo già visto, contiene tutto ciò che c’è da sapere sui regolamenti della finanza
italiana.
La regolamentazione delle società di gestione del risparmio
Per comprendere meglio il funzionamento delle società di gestione del risparmio, è
conveniente andare ad analizzare alcune definizioni proposte dal Testo Unico della
Finanza, anticipando che tali società hanno l’incarico di costituire fondi comuni di
investimento, i quali si dividono in fondi aperti e fondi chiusi.
Nell’art. 1 del Testo Unico della Finanza troviamo, in primo luogo, la definizione di società
di gestione del risparmio: “La società di gestione del risparmio (Sgr) è la società per azioni
con sede legale e direzione generale in Italia, autorizzata a prestare il servizio di gestione
collettiva del risparmio”. “Avente sede legale e direzione generale in Italia” è importante
per capire, come nel caso delle Sim, quali sono le Sgr soggette alla regolamentazione
italiana.
L’art. 1 del Testo Unico della Finanza definisce anche cosa sia la gestione collettiva del
risparmio: “La gestione collettiva del risparmio è il servizio che si realizza attraverso:
la promozione, istituzione e organizzazione di fondi comuni di investimento e
l’amministrazione dei rapporti con i partecipanti;
la gestione del patrimonio di Oicr.”
Gli Oicr. sono gli organismi di investimento collettivo del risparmio, definiti dal Testo Unico
della Finanza come: “i fondi comuni di investimento e le Sicav”.
Dobbiamo quindi capire cosa siano i fondi comuni di investimento e le Sicav. Il Testo Unico
della Finanza definisce il fondo comune di investimento come: “il patrimonio autonomo,
suddiviso in quote, di pertinenza di una pluralità di partecipanti, gestito in monte; il
patrimonio del fondo, sia aperto che chiuso, può essere raccolto mediante una o più
emissioni di quote”. Le Sicav, invece, sono le società di investimento a capitale variabile,
ma non ne vediamo la definizione.
Abbiamo già detto che i fondi comuni di investimento si dividono in aperti e chiusi. Adesso
andremo a trattare i fondi aperti, perciò sarà utile vedere la definizione fornita dall’art. 1
del Testo Unico della Finanza: “Il fondo aperto è il fondo comune di investimento i cui
partecipanti hanno diritto di chiedere, in qualsiasi tempo, il rimborso delle quote secondo
le modalità previste dalle regole di funzionamento del fondo”.
L’attività delle società di gestione del risparmio
La Sgr è l’intermediario finanziario istituzionale preposto alla gestione dei fondi comuni.
Ciò significa che, fatte le debite modifiche, la Sgr è l’equivalente della Sim, cioè è lo
strumento con il quale si mettono in piedi dei servizi di gestione patrimoniale collettiva. Per
costituire una Sgr occorrono una serie di requisiti molto simili a quelli previsti per le Sim
(Titolo III del Testo Unico della Finanza: autorizzazioniedella Banca d’Italia, sentita la
Consob; iscrizione all’albo; definizione dei fondi; ecc).
Abbiamo visto che le Sgr possono gestire collettivamente i patrimoni attraverso fondi
comuni o attraverso Sicav. Brevemente, ricordiamo che le Sicav sono uno strumento
analogo al fondo comune, ma sono organizzate in forma di società per azioni: se
vogliamo andare a definire la forma giuridica di questi due strumenti, le Sicav possono
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essere definite come fondi statutari, mentre i fondi comuni di investimento possono essere
definiti come fondi contrattuali. Di fatto, le Sicav sono la trasposizione, su regolamenti
europei, di uno strumento inventato in Francia, con il quale si attua una gestione collettiva
del patrimonio attraverso la forma della società per azioni, e ciò significa che l’insieme dei
patrimoni gestiti per conto degli investitori non va a far parte di un’entità a sé stante, ma
diventa capitale di questa società, ossia gli investitori non diventano portatori di un
interesse specifico di un fondo, ma diventano azionisti di una società che gestisce i
patrimoni. In Italia, le Sicav non sono particolarmente diffuse, in parte per la difficoltà di
gestirle, ma, soprattutto, per il fatto che la legislazione sui fondi comuni di investimento è
stata introdotta nel 1983, mentre quella sulla Sicav nel 1992. Perciò, dal 1983 al 1992, la
necessità di gestire collettivamente i patrimoni veniva soddisfatta esclusivamente
attraverso i fondi comuni di investimento, che hanno così trovato il modo di svilupparsi fino
al punto di spegnere l’interessa relativamente a nuovi strumenti con le stesse finalità.
Tornando a parlare dei fondi comuni di investimento, possiamo osservare che la
definizione dell’art. 1 del Testo Unico della Finanza contiene tutto ciò che operativamente
serve. Abbiamo visto, innanzitutto, che il fondo comune di investimento è un patrimonio
autonomo, suddiviso in quote, di pertinenza di una pluralità di partecipanti, gestito in
monte. Se il concetto di patrimonio autonomo è semplice, non lo è altrettanto quello
della suddivisione in quote, che fa riferimento alla costituzione stessa del fondo. Il fondo
comune di investimento, in qualità di strumento di gestione collettiva del risparmio, è uno
strumento utile ad una moltitudine di investitori per gestire i propri patrimoni. Ciò significa
che un insieme di investitori viene invitato a partecipare alla costituzione di un fondo
unico e che ognuno di essi sottoscriverà una piccola quota di questo fondo. In questo
modo otteniamo un patrimonio autonomo, suddiviso in quote, di pertinenza di una
pluralità di partecipanti. È poi opportuno prestare attenzione alla gestione in monte, uno
degli elementi fondamentali della gestione collettiva: infatti, “gestito in monte”, significa
che l’intero patrimonio viene gestito collettivamente da una società, per conto di tutti i
quotisti.
Abbiamo poi visto che il patrimonio del fondo può essere raccolto mediante una o più
emissioni di quote. Nel caso del fondo aperto, vedremo che questo discorso non ha
senso, perché viene superato dalla definizione successiva, quella specifica di fondo
aperto, che già abbiamo visto. Andiamo quindi ad analizzare più nello specifico, i fondi
aperti.
I fondi aperti
La costituzione di un fondo aperto avviene per iniziativa di una società che, ottenuta
l’autorizzazione dalla Banca d’Italia, sentita la Consob, promuove la Sgr e riesce a
convincere diversi quotisti a sottoscrivere il fondo.
In primo luogo, i fondi aperti avranno un obiettivo di raccolta, indispensabile per
raggiungere un equilibrio tra costi e ricavi: infatti, la Sgr riceverà delle commissioni per il
servizio di gestione di patrimoni che offre (commissioni che in Italia sono abbastanza care,
intorno all’1,5%), perciò, se il fondo ha dimensioni adeguate, i ricavi saranno sufficienti a
tenere in piedi tale struttura; se il fondo ha invece dimensioni modeste, i ricavi non
saranno sicuramente sufficienti a coprire tutti i costi di una struttura come una Sgr. Per
questo motivo, durante la fase costitutiva, si definisce un obiettivo minimo di raccolta, che
è quello al di sopra del quale la Sgr ottiene una remunerazione per la propria attività. Se,
al momento della costituzione, tale obiettivo non è stato raggiunto, la Sgr avrà tutta la
convenienza a non far partire il fondo e a restituire i capitali agli investitori.
Poniamo, invece, che la Sgr raggiunga l’obiettivo minimo di raccolta e costituisca il fondo
aperto. Prima di andare ad analizzare nello specifico il funzionamento di un fondo aperto,
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è importante identificare i soggetti di questo fondo, che saranno obbligatoriamente tre,
ma possono essere anche quattro:
Sgr;
partecipanti al fondo: gli investitori che forniscono capitale;
banca depositaria: ha una funzione di garanzia per il funzionamento del fondo, perché
garantisce ai partecipanti al fondo che i capitali da loro investiti saranno gestiti secondo
quanto previsto dal regolamento del fondo stesso. Inoltre, la banca depositaria è anche
l’organismo che negozia i titoli e li detiene in portafoglio e perciò eseguirà tutte le
operazioni ad essi legate: staccherà le cedole se si tratta di obbligazioni, staccherà i
dividendi se si tratta di azioni, staccherà i diritti di opzione se si tratta di azioni di società
che deliberano un aumento di capitale, ecc;
rete di vendita: è il quarto soggetto che non necessariamente parteciperà al fondo,
perché, spesso, le Sgr fanno capo a gruppi bancari che dispongono già di una rete di
vendita. In questo caso la rete di vendita non sarà necessaria, perché la Sgr, di proprietà
del gruppo bancario, raccoglie i fondi tra gli investitori, conferisce la gestione del
portafoglio ad una banca depositaria terza (per evitare conflitti di interessi) e colloca le
quote in emissione attraverso la rete di vendita del gruppo bancario a cui fa capo.
Tuttavia, le Sgr sono società per azioni che non necessariamente devono essere di
proprietà di una banca, poiché chiunque può costituire un Sgr, se dispone dei requisiti
previsti dal Testo Unico della Finanza. In questo caso, la Sgr sarà una struttura autonoma,
che sceglierà la propria banca depositaria e si rivolgerà ad una rete di vendita per
collocare le quote del fondo in emissione al pubblico indistinto degli investitori.
Per collocare le quote del fondo in emissione al pubblico indistinto degli investitori, la Sgr
deve predisporre due documenti fondamentali: il prospetto informativo e il regolamento.
Questi documenti sono indispensabili perché le Sgr mettono in atto un’operazione che
prende il nome di sollecitazione del pubblico al risparmio: a differenza di quanto avveniva
con le Sim, le Sgr non hanno con gli investitori un rapporto di mandato attraverso il quale
stabilire il livello di rischio degli investimenti, bensì dispongono di una rete di vendita
attraverso la quale sollecitare gli investitori, che quindi dovranno capire esattamente
quale sia la proposta. Ciò si realizza attraverso il prospetto informativo, all’interno del
quale dovranno essere specificati i criteri di investimento del patrimonio, che
consentiranno agli investitori di percepire il livello di rischio che vanno ad assumere. Il
regolamento è invece meno importante rispetto al prospetto informativo e riporta
semplicemente una serie di dettagli operativi.
Adesso torniamo ad esaminare nello specifico il funzionamento di un fondo aperto
appena costituito. Poiché il fondo è aperto, in qualsiasi momento a partire dalla
costituzione, i quotisti potranno richiedere il rimborso delle proprie quote, così come nuovi
investitori potranno sottoscriverne di nuove. Siccome la sottoscrizione e il riscatto possono
avvenire in qualsiasi momento, dopo la costituzione l’entità del fondo verrà
continuamente modificata. Andiamo a vedere cosa può accadere.
Dopo aver raccolto dai sottoscrittori l’importo sufficiente a costituire il fondo, ad esempio
40 milioni, e aver raggiunto la data prevista per la sua costituzione, il capitale dovrà essere
investito secondo quanto previsto nel prospetto. Supponendo che il prospetto preveda di
investire all’interno del settore automobilistico, il primo giorno verranno acquistate le azioni
di una serie di società automobilistiche, scelte in base al loro andamento economico e al
loro peso nel mercato: se anche fossimo convinti che un titolo sia nettamente superiore
agli altri, non potremmo investire solo in quello, perché mancherebbe la caratteristica
della diversificazione degli investimenti, che è fondamentale nell’ambito della gestione
collettiva. Immaginiamo che, al termine del primo giorno, vengano investiti 25 milioni,
mentre gli altri 15 milioni siano ancora liquidi. Se anche il secondo giorno non mettessimo
in atto nessuna nuova operazione, la possibilità che il portafoglio mantenga la stessa
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composizione del giorno prima è praticamente nulla. Questo perché, se anche la liquidità
fosse rimasta pari a 15 milioni, tutte le azioni acquistate sarebbero state soggette
all’oscillazione del loro valore di borsa. Supponiamo quindi che, al termine del secondo
giorno, il valore degli investimenti sia salito a 26 milioni, per un valore globale del fondo di
41 milioni. Il valore globale del fondo, valutato giorno per giorno è fondamentale dal
punto di vista degli investitori, perché se andiamo a dividere quel valore per il numero di
quote, otteniamo il valore della singola quota, ossia la cifra che otterrebbe un investitore
se chiedesse il rimborso della sua quota in quel preciso momento.
Immaginiamo adesso che il terzo giorno i gestori vadano ad investire il 100% del capitale
del fondo, che non disporrà più di liquidità. Anche in questo caso potremo calcolare il
valore globale del fondo e il valore della singola quota, ricordando che anche il numero
di quote può variare a seguito di nuove sottoscrizioni o di riscatti. Ovviamente, tali quote
saranno sottoscritte e riscattate al nuovo valore del fondo.
Nella teoria economica si sostiene che il fondo di investimento, in quanto operatore
istituzionale esperto, rappresenti un elemento di stabilizzazione del mercato, perché
dovrebbe capire quando è il momento di comprare e quando invece è il momento di
vendere. In realtà, quando la borsa sale, normalmente sale anche il valore del fondo;
salito il valore del fondo, coloro che vi avevano investito guadagnano, e questo attira
nuovi sottoscrittori. I nuovi sottoscrittori sono coloro che, in un fondo che è arrivato ad
investire il 100% del suo capitale, apportano nuova liquidità, che verrà utilizzata per
effettuare nuovi investimenti. Ciò provoca un ulteriore aumento del valore del fondo e, a
seguito dei nuovi investimenti, un ulteriore aumento del valore delle azioni, che a loro
volta alimentano il valore del fondo, attirando nuove sottoscrizioni. Dall’altra parte, lo
schema si ripete sostanzialmente in maniera analoga. Supponiamo di aver investito il 100%
del capitale del fondo e che un investitore, che necessita di liquidità, si presenti a
chiedere il riscatto delle sue quote. Riscattare le proprie quote significa chiedere un
rimborso al fondo stesso, che però, avendo investito il 100% del suo capitale, non dispone
di liquidità per soddisfare tale richiesta. L’unica cosa che potrà fare il gestore del fondo
sarà vendere alcune delle azioni che detiene in portafoglio, per raccogliere la liquidità
necessaria a far uscire il sottoscrittore dal fondo. Con la vendita, di fatto, si deprimerà il
mercato azionario, per cui anche la quota del fondo comincerà a scendere. L’effetto a
catena che avevamo visto in positivo in una fase di rialzo, si ripropone in negativo in una
fase di ribasso, perché la vendita di titoli determinerà un ribasso del valore del fondo, che
a sua volta provocherà le richieste di riscatto da parte di altri sottoscrittori e così via. Visti in
questo mondo i fondi comuni di investimento non sono assolutamente uno strumento di
stabilizzazione del mercato, anzi, esasperano l’andamento borsistico. Più precisamente, se
il mercato è sostanzialmente piatto, è possibile che il fondo svolga questa funzione di
stabilizzazione, poiché i gestori, in quanto operatori esperti, sapranno individuare più
agevolmente i titoli sopravvalutati o sottovalutati, per decidere se vendere o acquistare;
se invece l’andamento del mercato è molto altalenante, i fondi di investimento non
saranno assolutamente in grado di stabilizzarlo, perché anche i singoli investitori saranno in
grado di percepire le oscillazioni e di decidere di conseguenza, influenzando così anche
l’andamento del fondo. Vedremo poi che la stabilizzazione vera è realizzata attraverso i
fondi pensione, che hanno un andamento molto più stabile nella raccolta e nelle uscite
e, di conseguenza, un bravo gestore del fondo pensione sarà in grado di acquistare e
vendere alle condizioni effettivamente opportune.
Le tipologie di fondi aperti
Dopo aver analizzato il funzionamento dei fondi aperti, diventa fondamentale esaminare
quali tipologie di fondo esistono e come si misura il loro andamento. Il criterio per misurare
l’andamento del fondo è lo stesso che viene utilizzato per la valutazione della gestione
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individuale di patrimoni: verrà calcolato il benchmark, ossia l’andamento medio del
mercato, che sarà poi confrontato con l’andamento del fondo.
Per capire a quale benchmark fare riferimento, dobbiamo innanzitutto individuare le
diverse tipologie di fondo. Assogestioni, l’associazione di categoria del risparmio gestito,
individua molti tipi di fondi, ma li raggruppa in cinque categorie di base:
monetari / di liquidità;
obbligazionari;
bilanciati;
azionari;
flessibili.
Questa suddivisione per categoria è fondamentale perché consente di vendere il
prodotto offerto, ma, soprattutto, consente di definire l’andamento di ognuno di essi.
I fondi monetari, o di liquidità, sono i fondi che investono in attività a brevissimo termine,
quasi liquide. Tra le attività a brevissimo termine possiamo considerare tutti i titoli che
scadono entro sei mesi: sicuramente non rientreranno in questa categoria le azioni, dal
momento che non hanno una scadenza; non vi rientreranno neanche le obbligazioni a
scadenza prolungata; ma vi rientreranno solo gli strumenti che hanno la caratteristica di
diventare liquidi a brevissimo termine. È la tipologia di fondi meno rischiosa, poiché,
investendo in attività che diventeranno liquide entro sei mesi, raramente si ha la possibilità
di registrare grosse minusvalenze nel valore del fondo. L’unico modo in cui si può perdere
molto denaro è investire una parte del capitale del fondo in obbligazioni di una società
che fallisce tra il momento dell’acquisto e la scadenza.
La seconda tipologia di fondi, i fondi obbligazionari, presentano una componente
maggiore di rischio, dal momento che si allunga la scadenza dei titoli su cui si investe:
allungando il periodo di detenzione, ci si assume il rischio che la società emittente non
paghi gli interessi e non rimborsi il capitale per un periodo di tempo notevolmente
superiore. Ovviamente, per valutare la rischiosità, bisognerà prendere in considerazione
anche la qualità del debitore: generalmente, i titoli di Stato, anche a lunga scadenza,
vengono considerati a rischio zero, ma ultimamente questa regola non è più così vera per
i Paesi fortemente in crisi, come la Grecia, la Spagna o l’Italia stessa. E anche tra le
società, ovviamente, si troveranno livelli di rischi diversi. Tutto ciò ha una notevole
importanza per gli investitori, e deve essere specificato dettagliatamente all’interno del
prospetto informativo, soprattutto al fine di evitare il ripetersi di situazioni passate. Infatti,
fino a qualche anno fa, gli investitori avevano l’impressione che le obbligazioni non
presentassero rischi e nessuno si preoccupava del fatto che un Paese come l’Argentina
pagasse, sui propri titoli, interessi molto più alti di un Paese come la Germania, sebbene la
cosa avrebbe dovuto destare qualche sospetto. La consapevolezza del rischio
obbligazionario venne raggiunta quando la situazione dell’Argentina precipitò, causando
gravi perdite a tutti coloro che avevano investito sui titoli di quel Paese. Infine, ricordiamo
che il gestore del fondo può investire anche in obbligazioni in valuta estera, perciò può
subentrare il rischio di cambio, che deve essere anch’esso specificato all’interno del
prospetto informativo.
Passando alla categoria dei fondi bilanciati, cominciamo ad introdurre in portafoglio la
componente azionaria, che, secondo la teoria economica, è la più rischiosa in assoluto.
All’interno dei fondi bilanciati la componente azionaria deve essere presente in quantità
che vanno da un minimo del 10% ad un massimo del 50/60% del valore del fondo
(solitamente non supera mai il 50%): si arriva quindi ad avere la massima diversificazione
tra capitale di debito e capitale di rischio. Ovviamente, il rischio globale del portafoglio
aumenta, perché a tutti i rischi che abbiamo già visto relativamente alla componente
obbligazionaria si aggiungono quelli relativi alla componente azionaria, che dipendono
da una serie di fattori collegati in parte all’andamento generale dell’economia e in parte
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all’andamento delle singole società quotate nelle cui azioni viene investita parte del
capitale.
Nei fondi azionari il rischio sale ulteriormente, perché almeno il 70% del capitale deve
essere investito in azioni, ossia il capitale di rischio deve prevalere nettamente sul capitale
di debito. I fondi azionari sono particolarmente utili per spiegare la teoria dei fondi comuni
di investimento come elemento esasperante e non stabilizzante dell’andamento del
mercato. Infatti, con la costituzione di un fondo azionario, il gestore si obbliga ad investire
almeno il 70% del capitale in azioni, perciò la sua discrezionalità risulta totalmente
indipendente dall’andamento della borsa. Se il gestore si rende conto che il mercato
borsistico sta raggiungendo i livelli massimi, ma in quel momento riceve nuove
sottoscrizioni, l’unica cosa che potrà fare è investire il minimo possibile in azioni, ma tale
minimo non potrà comunque scendere al di sotto del 70%, perciò il fondo risentirà
totalmente della flessione che la borsa sta per subire. Si vede quindi chiaramente perché i
fondi comuni di investimento non siano assolutamente elementi stabilizzatori del mercato.
La categoria dei fondi flessibili non rientra nella classifica di rischio che abbiamo appena
visto, perché, con questo tipo di fondi, gli investitori conferiscono al gestore la possibilità di
effettuare gli investimenti che più ritiene opportuni: sebbene si tenda a seguire una linea
di investimento bilanciato, in teoria il gestore ha la facoltà di stabilire autonomamente le
percentuali del capitale di rischio e del capitale di debito. I fondi flessibili sono una
categoria abbastanza nuova (hanno circa 30 anni) e solitamente vengono gestiti da
operatori che, nel corso degli anni, hanno ottenuto dei trend così brillanti da essere
riconosciuti dal mercato come gestori che tendono ad ottenere risultati comunque
positivi. Perciò, nell’ambito dei fondi flessibili, il gestore ha un buon margine di libertà, e ciò
che gli viene chiesto è di sfruttare le oscillazioni sia dei mercati obbligazionari, sia dei
mercati azionari, in modo da ottenere il massimo rendimento possibile. Questa tipologia di
fondi è l’unica che può effettivamente operare con la funzione di stabilizzazione del
mercato.
La valutazione della performance
Come nel caso della gestione individuale, la valutazione della performance necessita di
un parametro di riferimento, o benchmark.
In questo periodo i tassi di interesse sono molto bassi e si avvicinano di più allo zero quanto
più sono brevi le scadenze, perciò per i fondi di liquidità il benchmark di riferimento sarà
molto basso, intorno allo 0,2% l’anno.
I fondi obbligazionari, in virtù della scadenza prolungata, presenteranno un benchmark
superiore.
All’interno dei fondi bilanciati, il calcolo del benchmark comincia a diventare
problematico, perché sarà composto dall’indice della componente obbligazionaria e
dall’indice della componente azionaria, che dipenderà dai mercati su cui si investe.
Anche per i fondi azionari il benchmark dipenderà dal mercato su cui si va ad investire.
La situazione diventa ancora più complicata per i fondi flessibili, che non hanno un
parametro di riferimento. Poiché comunque si vuole dare agli investitori la possibilità di
valutare l’andamento del fondo, il benchmark di riferimento scelto è quello relativo ai titoli
di Stato a breve scadenza. Questo perché si ipotizza che, conferendo al gestore la
possibilità di agire come meglio crede, egli dovrà essere almeno in grado di far rendere il
capitale più di quanto renderebbe un investimento senza rischio, che si ritiene sia
l’investimento in titoli di Stato a breve termine. Quindi, il gestore del fondo flessibile si
assume, in qualche modo, il rischio di un andamento negativo del mercato. Su un
mercato azionario pesantemente negativo, che perde, ad esempio, il 10% l’anno, il
gestore di un fondo azionario che perde il 5% ha ottenuto oggettivamente un buon
risultato: infatti, se il mercato è in perdita, il gestore dovrà innanzitutto ridurre al minimo,
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ossia al 70%, la componente azionaria, il che significa che da un andamento negativo del
mercato del 10% si passa ad un andamento negativo del 7%; se poi il gestore è in grado
di ridurre ulteriormente la perdita del fondo, il risultato sarà indubbiamente molto buono
(ha scelto bene la percentuale da tenere e ha scelto titoli che sono scesi meno del
mercato generale). Questo ragionamento non è però accettabile per il gestore di un
fondo flessibile: se il mercato azionario è in perdita ed egli ottiene un risultato migliore del
mercato, ma comunque negativo, non gli si può riconoscere alcun merito, perché
avrebbe potuto evitare completamente il mercato azionario ed azzerare così le perdite.
Gli Exchange-traded fund (ETF)
Gli Exchange-traded fund, o ETF, sono dei fondi, formalmente considerati in azioni, che
rappresentano un mercato, in quanto sono composti esattamente con gli stessi titoli che
compongono l’indice di quel mercato. In questo caso non ci sarà neppure un gestore,
ma ci saranno dei sistemi informatici che compongono il portafoglio in modo tale che
esso replichi esattamente l’indice di un certo tipo di borsa. Un indice di borsa è dato dalle
azioni che compongono un listino, moltiplicate per il loro peso specifico sul listino stesso.
La differenza fondamentale fra i fondi aperti e gli ETF è che i primi presentano una
gestione attiva, ossia ci sarà qualcuno che quotidianamente compravende, tentando di
fare un performance migliore del benchmark, mentre i secondi presentano una gestione
passiva, ossia nessuno farà nulla e il fondo seguirà esattamente l’andamento dell’indice.
La differente gestione, ovviamente, si ripercuote sui costi: i fondi aperti pagano circa
l’1,5% di commissioni, mentre gli ETF utilizzano un sistema che comporta costi non superiori
allo 0,5%. Perciò, se l’investitore ha la convinzione che sia opportuno impiegare i propri
capitali su un determinato mercato azionario, scegliendo un fondo aperto egli manifesta
la propria convinzione che la borsa salga e che il gestore sia in grado di far fruttare i
capitali a lui affidati in misura superiore al costo della sua gestione, mentre scegliendo un
ETF, egli manifesta la convinzione che il gestore non sia in grado di ottenere risultati
nettamente migliori rispetto all’andamento del mercato. La prima convinzione viene
sviluppata generalmente quando il mercato è estremamente volatile, mentre la seconda
quando il mercato è molto fiacco.
I fondi chiusi
Parlando degli IPOs, avevamo già detto che i fondi chiusi rappresentano un metodo
alternativo di apertura del capitale delle società private a terzi.
I fondi chiusi sono uno strumento finanziario il cui fine è quello di investire in società non
quotate, con l’obiettivo di rivenderle, conseguendo un capital gate. In realtà, i fondi
chiusi potrebbero investire in qualunque tipo di società, ma vengono privilegiate le
società non quotate perché quelle quotate, tipicamente, sono destinate ai fondi aperti,
in cui la liquidità è molto alta, a differenza dei fondi chiusi, in cui la liquidità è
praticamente nulla.
I fondi chiusi si sviluppano totalmente negli Stati Uniti e arrivano in Italia solo nel 1993, con
l’approvazione della legge n. 244, anch’essa totalmente assorbita dal Testo Unico della
Finanza. Di maggior rilievo dal punto di vista storico è chi ha chiesto la nascita dei fondi
chiusi: i fondi aperti nascono dall’esigenza di diversificare l’investimento da parte dei
risparmiatori, mentre i fondi chiusi sono uno strumento che il mercato del risparmio ha
riservato maggiormente agli investitori istituzionali. Infatti, le loro caratteristiche, che
vedremo più avanti, li rendono adatti per investitori istituzionali e, al massimo, per grandi
investitori privati, ma poco idonei per i piccoli risparmiatori.
Per quanto riguarda la parte giuridica, in buona parte si potrebbe ripetere quanto
abbiamo già detto, ossia le definizioni di società di gestione del risparmio, di gestione
collettiva del risparmio e di fondo comune di investimento. Non resta che vedere la
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definizione di fondo chiuso, riportata sempre dall’art. 1 del Testo Unico della Finanza: “Il
fondo chiuso è il fondo comune di investimento in cui il diritto al rimborso delle quote
viene riconosciuto ai partecipanti solo a scadenze predeterminate”. Ciò significa che, in
sostanza, i fondi chiusi presentano le stesse caratteristiche dei fondi aperti, con la
differenza che il riscatto delle quote può avvenire solo in momenti predeterminati, che
devono essere stabiliti nel regolamento. Ciò rende i fondi chiusi molto più stabili dei fondi
aperti.
Come accadeva per i fondi aperti, anche la costituzione dei fondi chiusi deve avvenire
per iniziativa di una società che, ottenuta l’autorizzazione della Banca d’Italia, sentita la
Consob, promuove la Sgr, la quale dovrà individuare una banca depositaria e, se
necessario, una rete di vendita, che provveda a sollecitare il pubblico al fine di
raccogliere capitali. Tuttavia, quando si parla di fondi chiusi occorre prestare una
maggiore attenzione al prospetto informativo, perché questo strumento, a differenza di
quanto accadeva nei fondi aperti, non consente di investire o di ritirarsi in qualunque
momento: questo è uno dei motivi per cui i fondi chiusi risultano poco adatti ai piccoli
risparmiatori, i quali raramente avranno la possibilità di allocare parte del proprio
patrimonio in uno strumento che può avere una durata massima di 30 anni. Ricordiamo
che, per conferire un minimo di liquidità ai fondi chiusi, il legislatore ne ha consentito la
quotazione, ma anche questa presenta una serie di problemi che analizzeremo più
avanti. Perciò, il prospetto informativo deve definire chiaramente quali sono gli obiettivi
del fondo e quali sono i rischi che gli investitori vanno ad assumere. I rischi dipenderanno
molto dal criterio con cui si può costituire un fondo chiuso: per area geografica (rischio
Paese), per settore (rischio del settore), ecc… Tra questi criteri ricordiamo quello dello
stadio di vita delle imprese, che può dare origine a vari tipi di fondo, i quali presenteranno
rischi decrescenti mano a mano che si passa dalle fasi iniziali alle fasi finali della vita di
un’impresa:
venture capital: i fondi vengono costituiti per aiutare le imprese in fase di avvio. Dal
momento che si punta quasi esclusivamente sugli imprenditori, sulle loro idee e sulle loro
capacità, il rischio è massimo;
early stage: i fondi vengono costituiti per aiutare le imprese appena avviate, che hanno
la necessità di ricevere appoggio per poter crescere. Il rischio è sempre molto alto, ma si
riduce rispetto al punto precedente, poiché si punta su qualcosa di già esistente;
expansion: i fondi vengono costituiti per aiutare le imprese già presenti sul mercato ad
espandersi, ad aggredire nuovi mercati. Allo stesso livello di rischio troviamo anche il
turnaround: si interviene in aziende che vogliono modificare il proprio assetto o
necessitano di essere rilanciate. I rischi ovviamente si riducono, perché si tratta di imprese
già stabilmente presenti sul mercato;
buy out: i fondi vengono costituiti per aiutare gli imprenditori che vogliano vendere le
proprie imprese, le quali non hanno bisogno né di espansione né di rilancio. Ovviamente
è lo stadio meno rischioso.
Negli ultimi tempi, i fondi più diffusi sono i buy out e i turnaround: il settore buy out è
commercialmente il più valido e meno rischioso, mentre il settore turnaround si è espanso
perché, in periodo di crisi, sono molte le imprese che non riescono a cavarsela da sole.
Chiudiamo questa parentesi circa le indicazioni che il prospetto informativo è tenuto a
riportare per rendere effettivamente consapevoli gli investitori e torniamo alla costituzione
del fondo, che si trova nella sua prima fase, quella di raccolta. Come nel caso dei fondi
aperti, anche nei fondi chiusi deve essere definito un obiettivo minimo di raccolta, che
risulta ancora più importante, dal momento che il fondo chiuso raccoglie tutto il capitale
in un’unica soluzione e tale capitale deve andare a sostenere i costi di una struttura molto
più complicata rispetto a quella necessaria per i fondi aperti. Se gli investitori, dopo aver
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valutato attentamente il prospetto informativo e il regolamento, conferiscono al fondo i
capitali sufficienti, questo può prendere avvio a tutti gli effetti.
La seconda fase è quella dell’impiego ed è una fase molto complicata, perché il
mercato su cui vanno ad investire i fondi chiusi è un mercato inesistente, impalpabile, e di
conseguenza si pone il problema di reperire le società su cui investire i capitali. Da questo
punto di vista, la legge pone alcuni limiti, che però non sono molto stringenti: per esigenze
di diversificazione, la Banca d’Italia impone di non investire più del 30% del capitale in
società appartenenti allo stesso gruppo e la percentuale scende al 20% qualora il gruppo
in questione sia lo stesso che controlla la Sgr incaricata di gestire il fondo. Tali limiti non
risultano particolarmente stringenti perché i gestori tendono comunque a diversificare
molto gli investimenti per cercate di limitare il rischio. Ricordati questi limiti, esistono due
strade per andare a reperire le società su cui investire i capitali:
advisory company;
ricerca diretta.
La differenza tra queste due strade è sostanzialmente nei costi, che dipendono dal fatto
che la Sgr coinvolga o meno un soggetto esterno nella ricerca delle società su cui
investire: l’advisory company, infatti, è una società di consulenza, di ricerca, incaricata di
selezionare i possibili investimenti per conto della Sgr che poi li metterà in atto; con la
ricerca diretta, invece, la Sgr seleziona autonomamente i propri investimenti. La scelta tra
l’uno o l’altro metodo dipende dalla specializzazione della Sgr stessa: se la Sgr fa capo ad
una rete di vendita, probabilmente sarà molto forte dal punto di vista commerciale e non
avrà problemi a raccogliere il capitale minimo necessario per la costituzione del fondo,
ma non sarà particolarmente capace dal punto di vista della gestione del rischio, perciò
dovrà rivolgersi ad un’advisory company; al contrario, se i componenti della Sgr risultano
particolarmente esperti dal punto di vista della gestione del rischio, l’advisory company
non sarà necessaria, ma potrebbe esserlo una rete di vendita esterna, che non avrà
capacità di gestione ma sarà in grado di attrarre capitali. Quindi, la scelta tra le due
metodologie dipende semplicemente dalla capacità della Sgr di raccogliere un deal
flow (flusso di opportunità di investimento): se la Sgr non ha questa capacità dovrà
rivolgersi ad un’advisory comapany, pur dovendo sostenere costi superiori; se la Sgr ha
questa capacità, l’advisory company non sarà necessaria e i costi risulteranno più
contenuti.
Sia che la selezione avvenga tramite un’advisory company, sia che avvenga attraverso la
ricerca diretta, si partirà da un certo numero di proposte di investimento che verranno
analizzate e via via scartate, per arrivare a scegliere solo le più interessanti. Supponiamo
che il numero di business plain proposti inizialmente sia pari a 100. Sicuramente alcuni di
questi risulteranno macroscopicamente svantaggiosi, perciò verranno cestinati
immediatamente: supponendo che i business plain che ricevono questo trattamento
siano 40, resteranno in gioco ancora 60 proposte. Queste 60 proposte verranno sottoposte
ad un’analisi piuttosto approfondita e immaginiamo che, dopo questa analisi, ne
vengano scartate altre 35, che per vari motivi potevano non risultare interessanti. Le 25
proposte rimaste verranno analizzate ancora più approfonditamente, e questa volta non
si valuterà solo il business plain nel suo complesso, ma anche la capacità
dell’imprenditore di portarlo avanti. Supponendo che, dopo questa ulteriore analisi,
vengano scartare altre 10 proposte, ne resteranno solo 15, in cui troviamo veramente il
meglio di quanto ci era stato offerto. La Sgr o l’advisory company procederà perciò ad
una progressiva esclusione, che però dipenderà da cause veniali, che non riguardano più
né il business né il management. Dalle 15 proposte ancora in gioco si arriverà così a
sceglierne 3.
Il processo di selezione degli investimenti è molto delicato perché, se anche non
consideriamo le prime proposte, che vengono scartate immediatamente, per tutte le
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altre bisognerà prendere in considerazione una grande quantità di aspetti che possono
risultare rilevanti. Tale processo prende il nome di due diligence e andrà ad analizzare tutti
gli elementi che possono costituire fattori di successo o di crisi per una determinata
società. A tale proposito, sarà sicuramente necessaria un’analisi finanziaria, ma anche
un’analisi fiscale, perché il fondo non vorrà sicuramente investire in un’impresa che rischia
di dover pagare pesanti multe a causa della precedente evasione fiscale
dell’imprenditore. Sarà poi importante un’analisi legale, perché, se l’impresa ha molto
successo, ma non è supportata de brevetti o concessioni che possono essere ottenuti da
altre imprese, rischia di andare fuori mercato o comunque di trovarsi coinvolta in una
battaglia legale che il fondo non ha la minima voglia di affrontare. Ancora, sarà
importante un’analisi lavoristica, che si occupa di stabilire se l’impresa intrattiene un
rapporto regolare con i suoi lavoratori, così come un’analisi retributiva, che si preoccupa
di accertare se l’impresa è in grado di operare sul mercato per reali capacità oppure per
una sottoretribuzione dei propri dipendenti rispetto alle imprese concorrenti. Sarà anche
significativa un’analisi ambientale, che, se per le imprese di dimensioni medio-grandi non
è particolarmente necessaria, lo è invece per le piccole imprese, che spesso non
prestano attenzione agli aspetti ambientali e rischiano così di essere sottoposte a ingenti
multe. La due diligence, quindi, va a toccare tutti questi e altri aspetti molto rilevanti, per
individuare eventuali punti deboli e punti di forza delle società in questione.
Sempre nella fase di impiego, diventa importante anche il rapporto che si instaura tra il
fondo e gli imprenditori a capo delle società finanziate. Parlando degli IPOs avevamo già
visto i conflitti di interesse che nascono tra imprenditori e investitori: se i primi tendono a
sopravvalutare la propria impresa, richiedendo quindi un prezzo molto alto per i propri
titoli, i secondi mirano invece a pagare il meno possibile per ottenere un rendimento
superiore. Nel caso dei fondi chiusi, questi conflitti di interesse emergono chiaramente,
perché il fondo investe in maniera importante nelle società, e questo può portare alcuni
dei gestori del fondo ad entrare a far parte del consiglio di amministrazione delle società
finanziate, ossia ad avere rapporti diretti con gli imprenditori. Se con gli IPOs il rapporto
che si veniva a creare tra imprenditore e investitori era molto limitato, con i fondi chiusi i
nuovi soci intervengono direttamente e discutono con l’imprenditore sul modo migliore
per gestire l’azienda: si mette così in atto una sorta di monitoraggio, con il quale i gestori
del fondo seguono da vicino le imprese su cui hanno investito, per assicurarsi che esse
seguano il business plain presentato e che non si verifichino condizioni di mercato che
portino il business plain in una situazione diversa da quella inizialmente ipotizzata.
Alla fase di impiego seguirà la terza fase, quella di dismissione del fondo. Il sistema di
dismissione che la teoria economica classica predilige è quello della quotazione in borsa,
ma tale sistema diventa adeguato solo in fondi che si occupano di fasi come la early
stage e il turnaround: infatti, in questi casi il fondo interviene in aziende che non hanno la
capacità di accedere alla borsa e che hanno quindi bisogno di un sostegno alternativo
per raggiungere i requisiti necessari alla quotazione. Inoltre, anche quando i fondi
riguardano queste fasi, si tratta di uno schema puramente teorico, perché sappiamo che
le quotazioni avvengono solo quando il mercato è realmente in grado di assorbirle.
Ipotesi di dismissione alternative alla quotazione in borsa sono la vendita e la cessione ad
altri fondi.
I fondi chiusi come strumento finanziario
Per analizzare i fondi chiusi in qualità di strumenti finanziari dobbiamo analizzare che cosa
succede al fondo per tutta la durata della sua vita economica, a partire dal momento
della raccolta del capitale.
Supponiamo di aver raccolto 100 milioni per un fondo di durata stabilita 7 anni e che un
investitore disponga di una quota del valore di 1000. Se l’investitore restasse nel fondo per
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l’intera durata, alla fine dei 7 anni otterrebbe un guadagno che valuterà, confrontandolo
con gli impieghi alternativi che avrebbe avuto a disposizione nello stesso periodo.
Tuttavia, l’investitore può avere la necessità di uscire dal fondo prima della sua scadenza,
ad esempio al terzo anno. Il problema che si pone è che i titoli del fondo sono in massima
parte, se non totalmente, non quotati, perciò, se l’investitore volesse vendere la sua
quota, dovrebbe prima trovare un modo per stabilire quanto valga il fondo giorno per
giorno, in modo da ricavare indirettamente il valore della sua quota. Il criterio di
valutazione del fondo, imposto dagli organi di vigilanza è la prudenza, una cosa logica
ma dannosa per chi vuole vendere la sua quota.
Consideriamo, ad esempio, un capitale di 200, diviso in due investimenti da 100 ciascuno.
I primi 100 vengono investiti nel 10% di un’azienda sana, che stacca regolarmente i
dividendi, perciò, dopo un anno, tale investimento avrà un valore pari al valore iniziale a
cui si aggiungono il dividendo incassato nel corso del periodo e gli utili accantonati
dall’azienda nel corso dell’anno: supponiamo che, a fine anno, il valore dell’investimento
sia pari a 104. I secondi 100 vengono investiti nel 10% di un’azienda che ha bisogno di
essere rilanciata, perciò, dopo un anno, il valore iniziale dell’investimento non subirà un
incremento né ad opera del dividendo né ad opera degli utili accantonati, bensì subirà
un decremento in conseguenza delle perdite subite dall’impresa: supponiamo che, a fine
anno, il valore dell’investimento sia pari a 90. Se il fondo fosse costituito solo da queste
due aziende, a fronte di una valore iniziale di 200, avremo un valore di 194, ma tale
valore, seppure corretto ai fini prudenziali, non tiene conto del fatto che un’impresa in
fase di rilancio aveva preventivato le perdite, che quindi non dovrebbero incidere sul
valore dell’investimento, il quale potrebbe essere rimasto invariato o potrebbe addirittura
essere aumentato. Si capisce quindi perché una valutazione del genere è pericolosissima
per l’investitore che vuole uscire dal fondo: se anche trovasse qualcuno disposto ad
acquistare la sua quota, probabilmente otterrebbe comunque un prezzo non
proporzionato, se non addirittura inferiore, rispetto al capitale da lui investito.
Il fatto che i fondi chiusi esprimano solo alla scadenza il proprio valore reale è un altro
motivo per cui non risultano adatti ai piccoli investitori, ma solo agli investitori istituzionali o
ai grandi investitori privati.
Vantaggi e svantaggi dei fondi chiusi per gli investitori privati
Sebbene abbiamo visto che vi siano vari motivi per cui i fondi chiusi non sarebbero
adeguati per gli investitori privati, essi vengono comunque offerti sul mercato, perciò è
utile conoscere i vantaggi e gli svantaggi di questo strumento.
I vantaggio sono:
indipendenza dalle tendenze cicliche dei mercati borsistici: le tendenze dei mercati
borsistici sono quelle che fanno sì che un investimento, per quanto buono, non riesca a
contrastare un andamento negativo del mercato. Se un investitore ha intenzione di
restare nel fondo fino alla scadenza, non gli interesserà il fatto che la quotazione
giornaliera dei titoli sia sottovalutata, ma otterrà invece un vantaggio dal fatto che le
società non quotate su cui ha investito sono immuni dagli andamenti delle borse;
diversificazione del portafoglio: se un investitore ha già investito in un fondo aperto che va
a toccare alcuni mercati azionari, l’unico modo per avere una diversificazione
dell’investimento certa sarà investire in un fondo chiuso, che, investendo in società non
quotate, sicuramente non andrà a toccare i mercati borsistici già toccati dal fondo
aperto;
diversificazione del rischio: con un fondo chiuso si potranno effettuare investimenti più
rischiosi, magari a fronte di fondi aperti meno rischiosi, come i fondi obbligazionari o i fondi
bilanciati;
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gestione professionale di investimenti particolari: a differenza di quanto accade con un
fondo aperto, i gestori del fondo chiuso interverranno direttamente nelle società
finanziate, cosa che difenderà gli investimenti dei vari soggetti da procedure non
conformi al business plain di partenza.
Per chiarire l’ultimo vantaggio, prima di analizzare gli svantaggi, apriamo una parentesi,
relativa ai ricavi delle Sgr, che ci permette di capire perché le Sgr decidano di costituire
un fondo chiuso. Sui fondi chiusi, le Sgr ottengono due tipi di commissioni:
commissioni fisse: sono commissioni piuttosto elevate e comunque maggiori di quelle
previste per un fondo aperto (già piuttosto elevate). Il maggiore livello delle commissioni
fisse deriva dal fatto che un fondo chiuso richiede professionalità superiori rispetto al
fondo aperto, sia per quanto riguarda la scelta degli investimenti, sia per quanto riguarda
la loro gestione;
commissioni di performance, o di risultato: nel caso dei fondi chiusi prendono il nome di
carried interest e sono anch’esse molto elevate, intorno al 20% della plusvalenza ottenuta
con la cessione della partecipazione, al netto di un rendimento comunque riconosciuto al
fondo per la gestione della partecipazione.
Le commissioni fisse, solitamente, non rappresentano la parte più rilevante dei ricavi delle
Sgr derivanti dai fondi chiusi e, per ottenere commissioni di performance più elevate, i
gestori dei fondi chiusi avranno tutto l’interesse a difendere l’investimento dei propri
quotisti, molto più di quanto non avvenga con un fondo aperto.
Passando agli svantaggi, troviamo:
durata;
illiquidità: molto spesso i fondi chiusi sono illiquidi, e quando c’è la possibilità di liquidarli si
manifestano i problemi di prezzo che abbiamo visto;
atipicità del contenuto: per quanto il prospetto possa essere dettagliato, l’evolversi delle
situazioni fa sì che spesso ci si ritrovi con investimenti riguardanti attività diverse da quelle
che si erano immaginate;
trattamento fiscale penalizzante: oltre alla valutazione prudenziale dei fondi chiusi, il
sistema fiscale impone delle imposte sui guadagni, cosa che limita notevolmente lo
sviluppo di questi fondi.
22 maggio 2012
Le compagnie di assicurazione
Le compagnie di assicurazione sono intermediari peculiari dal punto di vista dell’attività
svolta, non tanto per quanto riguarda il sistema finanziario, che opera anche in funzione
della gestione dei rischi, quanto piuttosto in relazione alle modalità con cui questo
business viene portato avanti, che non sono minimamente confrontabili con le attività
svolte dagli altri intermediari finanziari. Infatti, nell’attività svolta dalle compagnie di
assicurazione, il ciclo costi-ricavi risulta invertito: prima viene incassato il premio e solo in
seguito verranno sostenuti i costi per eventuali sinistri. Per questo motivo, la redditività di
una compagnia di assicurazione non è assolutamente confrontabile con quella di
qualunque altro intermediario finanziario.
I prodotti assicurativi
Per capire fino in fondo le compagnie di assicurazione bisogna innanzitutto analizzare i
prodotti che esse offrono. In primo luogo, ricordiamo che, dal punto di vista dei prodotti
offerti, le compagnie di assicurazione si dividono in due categorie:
ramo vita;
ramo danni.
La legge impone alle compagnie di assicurazione la specializzazione del ramo operativo,
ossia la stessa compagnia non può operare contemporaneamente sul ramo vita e sul
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ramo danni (anche se non è escluso che esistano due compagnie distinte che operino sui
due settori ma che appartengano allo stesso gruppo).
Vi è però un elemento che accomuna le compagnie di assicurazioni specializzate nel
ramo vita e quelle specializzate nel ramo danni, ossia il fatto che il rischio gestito è un
rischio puro. Ricordiamo che il rischio puro deriva da un evento che, qualora si manifesti,
cagiona inevitabilmente un danno, mentre il rischio finanziario è sinonimo di incertezza
relativamente ai risultati che un certo evento può determinare, ma che non
necessariamente saranno dannosi. I rischi puri sono gestiti dalle compagnie di
assicurazione, mentre i rischi finanziari sono gestiti dagli strumenti derivati che abbiamo già
visto.
I prodotti ramo vita
Ciascuno dei prodotti appartenenti al ramo vita richiederebbe un’analisi molto lunga, ma
noi andremo a vedere solo qualche breve nozione per ognuno di essi e ci soffermeremo
un po’ di più solo su quelli più importanti.
All’interno del ramo vita esistono sei ambiti produttivi, che assumono a loro volta il nome di
ramo, ognuno dei quali viene definito e codificato da una normativa specifica, che si
inserisce all’interno della normativa più generale dedicata ai servizi assicurativi. Come
vedremo, alcuni rami risultano molto più importanti di altri.
Ramo I: “Assicurazione sulla durata della vita umana”. È il ramo più importante e
comprende strumenti diversi a seconda che l’evento assicurato sia la morte oppure la
vita. Troviamo quindi tre sottocategorie:
“Assicurazione caso morte”: l’evento assicurato è la premorienza, che, contrattualmente
parlando, può essere costituita in due modi diversi, ossia temporanea o vita intera. Nel
primo caso troveremo un soggetto titolare della polizza caso morte temporanea, la cui
morte entro una certa data determinerà il pagamento di un certo ammontare per i
beneficiari della polizza: quindi, se il titolare è ancora in vita dopo la data concordata,
l’assicurazione non pagherà nulla; viceversa, se il titolare muore entro la data
concordata, i beneficiari riceveranno la somma stabilita contrattualmente. Nel secondo
caso, invece, i beneficiari della polizza riceveranno un capitale, stabilito
contrattualmente, alla morte del titolare, in qualunque momento essa avvenga: ciò
significa che i beneficiari, prima o poi, riceveranno sicuramente la somma concordata.
L’assicurazione caso morte vita intera è la forma di assicurazione più completa per
l’evento morte ed è anche più facile da prezzare, dal momento che il prezzo dipenderà
dalle statistiche relative alla mortalità media;
“Assicurazione caso vita”: l’evento assicurato è la permanenza in vita. Si tratta di un
prodotto con finalità chiaramente previdenziali, dal momento che, se ad una certa data
il beneficiario della polizza è ancora in vita riceverà un capitale oppure una rendita, a
seconda di quanto stabilito contrattualmente. La rendita può essere perpetua o
temporanea;
“Assicurazione mista”: morte + ibrido di risparmio. Ai due prodotti puri precedentemente
visti, si affianca un prodotto misto, il quale prevede che, se il titolare muore entro una
certa data, venga pagata una somma ai beneficiari, mentre se il titolare è ancora in vita
alla stessa data, venga corrisposto un capitale o una rendita all’assicurato stesso.
Ovviamente, a parità di premio, questo strumento conferirà benefici minori rispetto agli
altri due, dal momento che, in realtà, mette insieme due prodotti.
Ramo II: “Assicurazione sulla nuzialità e sulla natalità”. È un ramo che esiste solo sulla carta,
dal momento che, di fatto, non è mai stato utilizzato.
Ramo III: “Index / Unit Linked”. Il ramo III si ricollega direttamente al ramo I, con la
differenza che il ramo I prevede parametri oggettivi contrattualmente definiti, mentre
all’interno del ramo III i risultati, ossia le somme che ricevono i beneficiari, dipendono dal
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rendimento ottenuto su un index (paniere di titoli) o su uno unit (fondo comune di
investimento).
Ramo IV: “Assicurazione su malattia e rischio di insufficienza”. All’interno di questo ramo
troviamo due principali tipi di polizze:
“Dread disease” (malattie gravi);
“Long-term care” (occuparsi di qualcuno per tempi lunghi): questo tipo di polizza riguarda
specificamente il tema dell’autosufficienza e, con l’allungamento della speranza di vita, il
suo utilizzo è notevolmente aumentato e tende ad aumentare ancora.
Ramo V: “Polizze di capitalizzazione”. Questo ramo riprende la componente ibrida del
ramo I, ma prevede risultati rivalutabili in funzione del risultato della gestione.
Ramo VI: “Gestione di fondi collettivi”. Questo ramo sta diventando sempre più
importante e si differenzia da tutti gli altri perché le polizze non sono singole bensì
collettive.
I fondi pensione
Abbiamo visto che alcuni prodotti ramo vita, come ad esempio l’assicurazione caso vita,
svolgono funzione previdenziale. Funzione analoga è assolta dai fondi pensione, che,
infatti, possono essere offerti anche dalle compagnie di assicurazione ramo vita.
In questo periodo è molto importante affrontare il tema dei fondi pensione, poiché il
sistema pensionistico pubblico, basato sulla solidarietà intergenerazionale, praticamente
non esiste più, o meglio, esiste ancora, ma quando i giovani arriveranno alla pensione
probabilmente riceveranno somme insufficienti persino per coprire le spese per consumi di
una qualsiasi fase della vita. Prima del 1992, la normativa prevedeva che chiunque
avesse raggiunto gli anni di contribuzione previsti avrebbe percepito una pensione pari
all’80% della media del suo stipendio degli ultimi cinque anni di lavoro; a seguito delle
varie riforme introdotte, l’ultima delle quali risale al 2005, questi coefficienti sono diventati
molto più articolati, ma, in generale, si prevede che la pensione di un lavoratore sarà
addirittura inferiore al 40% della media degli stipendi da lui percepiti negli ultimi cinque
anni di lavoro.
In conseguenza di questi cambiamenti, si è pensato di creare dei prodotti attraverso i
quali i lavoratori possano accumulare denaro, che andrà poi ad integrare la pensione
pubblica, in modo da consentire di raggiungere un tenore di vita quantomeno
accettabile. Questi prodotti sono, appunto, i fondi pensione, anche noti come previdenza
complementare, istituiti nella forma attuale dalla normativa 252 del 2005.
I fondi pensione sono un prodotto che può dare vita a due tipi di risultanze finanziarie:
beneficio definito (DB): tale sistema è sostanzialmente analogo a quello previsto per la
pensione pubblica. Il sottoscrittore del fondo pensione sa che otterrà un determinato
beneficio, calcolabile come percentuale di un parametro stanziato. Perciò, in funzione
del raggiungimento di una determinata somma, è possibile che il sottoscrittore debba
modificare la propria contribuzione in base alla variazione del parametro di mercato
prestabilito;
contributo definito (DC): il sottoscrittore del fondo pensione conosce il contributo che
versa, ma il beneficio dipenderà da dove viene investito il denaro, da quanto denaro
viene investito e dal tempo dell’investimento.
La previdenza pubblica del passato, basata sul concetto di solidarietà intergenerazionale
usava sostanzialmente il sistema del beneficio definito: non si conosceva esattamente il
beneficio, ma era chiaro il metodo utilizzato per calcolarlo, e, in ogni caso, esso non
dipendeva sicuramente dalla contribuzione totale, dal momento che veniva calcolato
sulla base dello stipendio degli ultimi cinque anni, che poteva essere anche molto più alto
di quello percepito negli anni precedenti. Con l’ultima riforma, invece, la previdenza
pubblica ha cominciato ad utilizzare il sistema del contributo definito: oltre ad aver
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modificato i parametri, il nuovo sistema prevede che la base di calcolo non sia lo
stipendio degli ultimi cinque anni di lavoro, bensì la contribuzione dell’intera vita
lavorativa.
I fondi pensione possono essere costruiti in entrambi i modi, ma la normativa del 2005
pone l’enfasi sul sistema a contributo definito.
Infine, è opportuno ricordare che i fondi pensione a contributo definito possono essere
gestiti dalle compagnie di assicurazione, dalle Sgr e dalle Sim, mentre i fondi pensione a
beneficio definito possono essere gestiti solo dalle compagnie di assicurazione.
La struttura del settore istituita dalla legge 252
La struttura del settore, istituita dalla legge 252 del 2005, prevede diverse tipologie di
fondi:
fondi negoziali, o chiusi: sono contratti collettivi aziendali o di settore. Ciò significa che, se
un’azienda o un settore decide di istituire un proprio fondo negoziale, tutti i lavoratori
appartenenti a quell’azienda o a quel settore hanno diritto di contribuirvi e di ottenere il
beneficio che ne consegue. Tuttavia, poiché non tutte le aziende e tutti i settori decidono
di istituire il proprio fondo negoziale e, anche se lo istituiscono, non tutti i lavoratori
decidono di aderirvi, la normativa 252 prevede anche un’altra tipologia di fondi;
fondi aperti: sono i fondi aperti a tutti coloro che decidono di contribuirvi, sia che si tratti di
lavoratori dipendenti, sia che si tratti di lavoratori autonomi, i quali, ovviamente, non
dispongono dell’alternativo strumento dei fondi negoziali.
Relativamente a queste due tipologie di fondi, è importante osservare che esse sono
soggette a differenti modalità di governance. Nel caso dei fondi chiusi, l’azienda o il
settore istituisce lo strumento a cui i lavoratori andranno a contribuire, ma non si occuperà
personalmente della gestione finanziaria, che sarà affidata ad una compagnia di
assicurazione, ad una Sgr o ad una Sim. Nel caso dei fondi aperti, invece, l’istituzione e la
gestione coesistono nella stessa persona.
Infine, esistono prodotti non normati dalla legge 252, che costituiscono un’alternativa alle
tipologie di fondi classiche.
In conclusione, la pensione pubblica costituisce il cosiddetto primo pilastro; i fondi
pensione istituiti dalla normativa 252 costituiscono il secondo pilastro; e ricordiamo
l’esistenza del terzo pilastro, rappresentato da tutto ciò che i lavoratori accantonano al di
fuori dei fondi pensione.
I prodotti ramo danni
Il ramo danni si divide in due ambiti produttivi:
property insurance: “Assicurazione su distruzione / perdita di valore”. All’interno di questa
categoria rientrano tutti i prodotti che assicurano la proprietà;
casualty insurance: “Assicurazione su incidenti, etc…”. All’interno di questa categoria
rientrano tutti i prodotti che assicurano i danni cagionati a terzi dalla nostra proprietà o
dai nostri comportamenti. Uno dei prodotti assicurativi più noti rientra all’interno di questa
categoria ed è l’RC (responsabilità civile)
Lo svolgimento gestionale dell’attività assicurativa
Quando si parla di gestione dell’attività assicurativa, pensiamo immediatamente alla
componente finanziaria: infatti, abbiamo visto che le compagnie di assicurazione hanno il
ciclo produttivo invertito, ossia incassano prima di produrre, perciò, una componente
fondamentale dello stato patrimoniale delle compagnie di assicurazione deve servire
proprio a coprire i costi che si manifesteranno in seguito e la cui entità non è nota a priori.
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Quando si affronta l’argomento della gestione dell’attività assicurativa, è opportuno
ricordare che i ragionamenti cambiano molto a seconda che si faccia riferimento al
ramo vita o al ramo danni. Infatti, all’interno del ramo vita, i dati ricavabili dalle tabelle
demografiche consentono di calcolare le probabilità che un dato evento si verifichi e,
perciò, di avere un’idea dei costi che dovranno essere sostenuti. Il ramo danni, invece, è
molto più eterogeneo, perciò saranno molti i fattori su cui si dovrà ragionare per stimare i
probabili costi futuri.
Due variabili, in particolare, possono rendere più facile o più difficile la determinazione
delle riserve tecniche (stima delle passività future) e del prezzo della copertura
assicurativa:
proprietà vs responsabilità: ha a che fare con il tipo di rischio che si va ad assicurare.
Tipicamente, le stime si semplificano quando si va ad assicurare la proprietà, poiché essa
è più facile da valutare, o meglio, è abbastanza semplice valutare l’evento estremo, ossia
la distruzione totale. Quando si assicura la responsabilità, invece, la stima diventa molto
più difficoltosa, poiché è difficile prevedere quali costi possa determinare un certo
comportamento;
dimensione vs frequenza: per dimensione si intende la gravità dell’evento, mentre per
frequenza si intende la sua numerosità. In linea generale, sono più facili da valutare gli
eventi ad elevata frequenza e di gravità contenuta, soprattutto quando se ne assicurano
molti tra di loro non correlati. Solitamente, tanto più i rischi sono rari, tanto più sono ingenti,
e, quando si assicurano rischi del genere, ha senso assicurarne altri del medesimo tipo ma
tra di loro non correlati. Questo perché, per i rischi più frequenti, spesso si dispone di
tabelle di probabilità accettabili, come accadeva per i dati demografici.
I rischi degli intermediari finanziari
Parlando dei rischi a cui sono soggetti gli intermediari finanziari, in particolare gli
intermediari creditizi, come le banche, dobbiamo operare una prima distinzione tra:
rischi endogeni;
rischi esogeni.
I rischi endogeni sono quelli che dipendono direttamente dall’attività svolta
dall’intermediario in questione, ossia dalle sue decisioni. Ne esistono varie tipologie:
rischio di credito, o di insolvenza: si tratta di un rischio endogeno, poiché la decisione di
concedere credito ad un determinato soggetto e le condizioni a cui concederglielo sono
stabilite dall’intermediario in totale autonomia;
rischio Paese: è una particolare fattispecie del rischio di credito, e può essere suddiviso in
due ulteriori sottocategorie:
rischio sovrano: è il rischio che le autorità di un Paese estero che stiamo finanziando
decidano di non ripagare il debito. In linea teorica, un Paese non può fallire, perciò
l’incapacità di non pagare il debito dipende da una non volontà delle autorità, ossia da
una loro decisione di non mettere in atto determinate operazioni da cui si potrebbero
ricavare le somme necessarie per ripagare i debiti;
rischio di trasferimento, o rischio estero: è il rischio che un prenditore privato estero non
rimborsi il prestito ricevuto, ma non per una propria incapacità, bensì per espresso divieto
delle autorità del suo Paese di appartenenza. In periodi di crisi accade spesso che le
autorità vietino il trasferimento di capitali all’estero, anche a quelle imprese che
sarebbero in grado di ripagare i propri debiti;
rischio di regolamento: anche questo tipo di rischio può configurarsi come una fattispecie
del rischio di credito, ma ultimamente è più spesso di altra natura. È una tipologia di
rischio che ha a che fare con l’attività di compravendita e con l’attività in derivati. Anche
questa tipologia di rischio può essere suddivisa in due ulteriori categorie, che andremo a
spiegare attraverso degli esempi:
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rischio di capitale (asimmetria tra i bracci di uno scambio): supponiamo che una banca
abbia negoziato la vendita di alcuni titoli con un cliente e che il regolamento debba
avvenire tra 48 ore. Alla scadenza può accadere che la banca consegni i titoli al cliente,
ma questi non effettui la sua prestazione, ossia non regoli lo scambio. In un caso del
genere, il rischio di regolamento da vita ad un rischio di capitale, che si configura come
un vero e proprio rischio di insolvenza. Tale rischio si manifesta quando c’è asimmetria tra i
due bracci, i due impegni di uno scambio e, nel caso analizzato, si tratta di un’asimmetria
di tipo temporale. Tale asimmetria potrebbe essere contrastata rendendo contestuali i
due momenti dello scambio, ma la cosa non è così semplice, dato che la consegna dei
titoli, e spesso anche la consegna del denaro, non avvengono fisicamente: da una parte,
la banca dovrà inviare l’istruzione affinché le azioni vengano trasferite dal proprio conto a
quello del cliente; dall’altra parte, il cliente dovrà inviare l’ordine affinché il denaro transiti
dal proprio conto a quello della banca. Poiché le due operazioni non avvengono sullo
stesso sistema, sarà molto difficile accordarsi in modo tale da effettuare le due prestazioni
contemporaneamente. Ciò diventa possibile solo grazie allo sviluppo tecnologico, che
oggi consente di far dialogare strumenti diversi, risolvendo il problema che abbiamo
appena analizzato. Infatti, sia per l’attività di compravendita, sia per l’attività in cambi
vale il principio del cosiddetto DVP (Delivery versus Payment) , grazie al quale
l’operazione si conclude solo quando la consegna dei titoli registra la contestuale
consegna del denaro, e viceversa. Nel caso dei cambi il meccanismo diventa più
complicato, ma anche più importante, poiché, vista la grande quantità di negoziazioni, il
rischio di capitale è più raro ma potenzialmente molto dirompente nel caso in cui si
concretizzi;
rischio per costo di sostituzione (funzione crescente dei ritardi di regolamento):questa
tipologia di rischio è molto più comune nell’attività in derivati, ma, per semplicità, la
analizzeremo su un’operazione di compravendita. Ipotizziamo che un investitore acquisti
azioni Fiat e che il contratto preveda sia la consegna sia il pagamento tra 15 giorni. Alla
scadenza, opererà il principio del DVP, perciò non si manifesta il rischio di capitale, ma
può sorgere un altro problema. Supponiamo che l’investitore abbia comprato le azioni
Fiat a 10, e che il giorno seguente le stesse azioni siano salite a 11: egli potrebbe decidere
di venderle, prevedendo il regolamento dopo 15 giorni, ossia il giorno successivo alla
scadenza del primo contratto stipulato. Se, alla scadenza del primo contratto, la Fiat non
consegna le azioni, l’investitore non rischia il capitale, poiché il meccanismo del DVP
impedirà il pagamento, ma viene innescata una seconda insolvenza, dal momento che il
soggetto in questione non sarà neanche in grado di consegnare le azioni al compratore il
giorno seguente. Per evitare l’insolvenza, è possibile che il soggetto vada ad acquistare le
azioni il giorno della scadenza del primo contratto, ma, in questo caso, l’acquisto avverrà
con i prezzi a pronti: supponendo che il cliente sia costretto ad acquistare le azioni a 15,
anziché al prezzo pattuito di 10, il giorno seguente le rivenderà comunque a 11, subendo
una perdita di 4 su ogni azione. In caso di strumenti derivati questo rischio è amplificato e
si manifesta ogni volta che il regolamento è ritardato nel tempo, ossia è funzione
crescente dei ritardi di regolamento;
rischio di liquidità: è il rischio che le entrate e le uscite di cassa non siano in equilibrio;
rischio operativo: la normativa di Basilea 2 impone, per la prima volta, un coefficiente
patrimoniale anche per i rischi operativi, che però non sono specifici dell’attività
bancaria, dal momento che si riferiscono a qualsiasi evento dannoso che si può
manifestare nello svolgimento dell’attività da parte dell’intermediario.
I rischi esogeni sono invece tutti i rischi che dipendono da variabili che non sono sotto il
controllo dell’intermediario finanziario in questione. Vengono anche definiti rischi di
mercato e sono le possibili condizioni di perdita (ma anche di guadagno, visto che il
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rischio finanziario è sinonimo di incertezza e non necessariamente di danno) che
dipendono dall’andamento di alcune variabili finanziarie o economiche. Si distingue tra:
rischio di interessi;
rischio di cambio;
rischio di prezzo.
Gli intermediari finanziari non hanno a disposizione delle leve operative che consentano
loro di gestire queste variabili. Andremo poi ad analizzare nello specifico il rischio di
interessi, che è il principale rischio di mercato a cui sono esposti gli intermediari creditizi,
come le banche, ossia gli intermediari che, in primo luogo, mirano alla creazione di un
margine di interessi positivo.
Gli indicatori di rischio
Abbiamo più volte parlato di indicatori di rischio. Esistono indicatori di:
volatilità, tra cui ricordiamo:
σ (deviazione standard), che misura la dispersione intorno al rendimento atteso
(analizzata nel caso di titoli azionari)
var (valore a rischio);
sensibilità, tra cui ricordiamo:
D (duration), che misura quanto varia il prezzo di un titolo obbligazionario al variare dei
tassi di interesse (analizzata nel caso di titoli obbligazionari);
β (beta), che misura l’andamento del prezzo di un titolo rispetto all’andamento del suo
mercato di appartenenza (analizzata nel caso di titoli azionari).
23 maggio 2012
Il var
Il var, o valore a rischio, è la perdita massima attesa data da una certa probabilità in un
determinato arco temporale.
Per capire come si misura il var andiamo ad analizzare un’attività che possa essere
rappresentata come una funzione normale standardizzata (è il caso più semplice e
anche l’unico che vedremo).
≈ 66% della distribuzione
≈ 17%
≈ 17%
-1
0
1
Ricordiamo che le proprietà di una funzione normale standardizzata sono: media = 0;
deviazione standard = 1. Inoltre, attraverso le tabelle statistiche possiamo sapere quali
intervalli di confidenza sono rappresentati dalla deviazione standard o dai suoi multipli. In
particolare, una deviazione standard compresa tra -1 e +1, rappresenta circa il 66% della
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distribuzione; vi è quindi un 17% circa in ogni coda che non viene preso in considerazione
con questo intervallo di deviazione standard.
Possiamo quindi cominciare a descrivere questa attività, rappresentabile come una
funzione normale standardizzata, ricorrendo a vari parametri che via via ci consentiranno
di arrivare al var. Innanzitutto, tale attività può essere descritta facendo ricorso alla
descrizione canonica, secondo la quale si tratta di un’attività che ha un rendimento
atteso pari a 0 e una deviazione standard pari a 1, ossia:
E(R) = 0; σ = 1.
In secondo luogo, possiamo descriverla come un’attività che ha una probabilità del 50%
di generare un risultato minore di 0:
Pr. 50% risultato < 0.
Inoltre, possiamo anche dire che si tratta di un’attività che ha una probabilità del 66%
circa di generare un risultato compreso tra -1 e +1:
Pr. 66% risultato [-1: +1].
Ancora, possiamo descriverla come un’attività che ha il 17% circa di probabilità di
generare un risultato inferiore a -1 (una perdita superiore a -1) e, contestualmente, che ha
l’83% circa di probabilità di generare un risultato superiore a -1:
Pr. 17% risultato < -1 (perdita > -1);
Pr. 83% risultato > -1.
Il var sceglie sostanzialmente l’ultima descrizione, ossia si concentra sulla possibilità di
subire una perdita massima di -1 nell’83% dei casi e, quindi, di subire una perdita massima
superiore a -1 nel restante 17% dei casi.
La descrizione di questa attività può poi proseguire facendo ricorso ai multipli della
deviazione standard. Infatti, se 1σ rappresenta il 66% circa della distribuzione, 1,65σ
rappresenta il 90% circa della distribuzione.
≈ 90%
≈ 5%
≈ 5%
-1,65 -1
0
1 1,65
Possiamo quindi aggiungere che tale attività presenta una probabilità del 90% circa di
generare un risultato compreso tra -1,65 e +1,65:
Pr. 90% [-1,65; + 1,65].
Ovviamente, possiamo dire anche che abbiamo un 5% circa di probabilità che tale
attività generi un risultato inferiore a -1,65 (una perdita superiore a -1,65) e,
contestualmente, una probabilità del 95% circa che generi un risultato superiore a -1,65:
Pr. 5% risultato < -1,65 (perdita > -1,65);
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Pr. 95% risultato > -1,65.
Ancora, possiamo proseguire considerando 2σ, che rappresentano il 98% circa della
distribuzione.
≈ 98%
≈ 1%
≈ 1%
-2
-1,65
-1
0
1
2
1,65
Aggiungiamo che tale attività presenta una probabilità del 98% circa di generare un
risultato compreso tra -2 e +2:
Pr. 98% [-2; +2].
Ovviamente, possiamo dire anche che abbiamo un 1% circa di probabilità che tale
attività generi un risultato inferiore a -2 (una perdita superiore a -2) e, contestualmente,
una probabilità del 99% circa che generi un risultato superiore a -2:
Pr. 1% risultato < -2 (perdita > - 2);
Pr. 99% risultato > -2.
Sulla base del var, quindi, subiremo una perdita massima di -2 nel 99% dei casi, mentre nel
restante 1% subiremo una perdita massima superiore a -2.
Abbiamo quindi capito come calcolare il var in percentuale; per capire come calcolare il
suo valore numerico andiamo a vedere un esempio pratico. Supponiamo di disporre di un
portafoglio azionario, il cui valore di mercato oggi è pari a 1000 euro. Tale portafoglio ha
un rendimento atteso (variazione del prezzo) su base giornaliera pari a 0. La deviazione
standard della variazione del prezzo è pari al 2%. Calcolare il var al 95%. I nostri dati sono:
portafoglio azionario = 1000 €;
ΔP = 0 su base giornaliera;
σ = 2% su base giornaliera.
Per calcolare il var al 95% dobbiamo utilizzare una deviazione standard pari a 1,65, che
copre il 90% della distribuzione, e quindi lascia una coda di sinistra pari al 5%.
VAR95% = 1,65 · 2% · 1000 = 3,3%∙ 1000 = 33€
Questo valore può essere descritto in due modi:
avere un prodotto con queste caratteristiche equivale a subire una perdita massima
attesa di 33 € su base giornaliera con una probabilità del 95%;
sapendo che i titoli vengono negoziati per circa 250 giorni l’anno, avrò 12/13 giorni (il 5%
di 250) in un anno in cui la perdita massima può superare i 33 €. Tuttavia, uno dei limiti del
var è quello di non dare informazioni circa l’entità di questa possibile perdita superiore.
Il rischio di interessi
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Il rischio di interessi può essere misurato attraverso vari metodi. La prima famiglia di modelli
contiene i cosiddetti metodi contabili, tra i quali ricordiamo la forma base del metodo del
maturity gap, o gap base. Questi modelli concentrano l’attenzione sull’impatto che una
variazione dei tassi di interesse sortisce sul margine di interessi dell’intermediario.
La seconda famiglia di modelli contiene i cosiddetti metodi finanziari, tra i quali
ricordiamo la forma base del metodo del duration gap. Questi modelli misurano l’impatto
che una variazione dei tassi di interesse sortisce sul valore economico dell’intermediario.
Il metodo del maturity gap
Per la costruzione del maturity gap, dobbiamo riclassificare le attività e le passività
presenti nello stato patrimoniale del bilancio dell’intermediario in attività e passività
sensibili e non sensibili all’andamento dei tassi di interesse. Tuttavia, la sensibilità fa
riferimento ad un arco temporale, perciò, in primo luogo, dovremo stabilire questo
intervallo di tempo, anche noto come gapping period. Perciò, il primo passo per costruire
il maturity gap sarà:
scelta del periodo di riferimento (gapping period).
Se non viene specificato nulla, si assume come gapping period un esercizio, ossia un anno
solare.
A questo punto possiamo andare a riclassificare le attività fruttifere di interessi e le
passività onerose di interessi in attività e passività sensibili o non sensibili all’andamento dei
tassi di interesse. Il secondo passo per la costruzione del maturity gap sarà:
AS
- AFI
AnS
Riclassificazione:
- POI
PS
PnS
Sono attività e passività sensibili all’andamento dei tassi di interesse le attività e le passività
che subiscono una qualche variazione quando i tassi di interesse variano. Esse sono:
attività/passività a vista: prendiamo ad esempio i conti corrente, che sono una tipica
passività a vista per la banca. Se i tassi di interesse salgono, ma la banca non adegua i
tassi di interesse previsti sui conti correnti, i clienti saranno liberi di ritirare il denaro per
andare ad affidarlo ad un altro istituto bancario. E la banca in questione, per attrarre
nuovi clienti, dovrà applicare i nuovi tassi di interesse. Perciò, pur non essendo
obbligatoria l’indicizzazione di tali passività, le banche sono coscienti che, se non la
attuano, rischiano di perdere la clientela;
attività/passività a tasso variabile, o meglio, attività e passività a tasso variabile che
prevedono il periodo di indicizzazione entro il gapping period;
attività/passività a tasso fisso con scadenza entro il gapping period: le attività e le
passività che scadono entro il gapping period comporteranno la creazione di liquidità,
che sarà reinvestita alle nuove condizioni dei tassi di interesse.
Per vedere gli altri passaggi che portano alla misurazione del maturity gap procediamo
con un esempio numerico.
Supponiamo che una banca abbia il seguente bilancio:
1/1/xx
Attivo
Passivo
c/cattivi
100
depositi6 mesi 500
BTP3 anni
400
obblTF 18 mesi 100
mutuiTV
300
MP
400
immobili
200
TA
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1000 TP
1000
Andiamo a riclassificare queste voci come sensibili e non sensibili:
i c/c attivi sono strumenti a vista, perciò sono attività sensibili (AS);
i BTP sono titoli a tasso fisso, in questo caso con scadenza superiore al gapping period,
perciò sono attività non sensibili (AnS);
se per i mutui non viene specificato nulla, l’indicizzazione è a 6 o 12 mesi, quindi entro il
gapping period. Sono perciò attività sensibili (AS);
gli immobili sono attività non fruttifere di interessi, perciò sono sicuramente attività non
sensibili (AnF);
i depositi, a prescindere cha siano a tasso fisso o a tasso variabile, scadono entro il
gapping period, perciò saranno passività sensibili (PS);
le obbligazioni a tasso fisso scadono oltre il gapping period, perciò saranno passività non
sensibili (PnS);
i mezzi propri non rientrano nelle passività onerose di interessi, perciò sono sicuramente
passività non sensibili (PnS).
Sulla base di queste informazioni avremo:
AS = 100 + 300 = 400;
PS = 500.
Proseguendo nel ragionamento che porta al calcolo del maturity gap, possiamo dire che
i vari modelli utilizzano la parola “gap”, perché l’esposizione ai rischi deriva da condizioni
di spareggiamento, o mismatching, ossia da condizioni all’attivo che non sono
pareggiate da condizioni al passivo. Se andiamo a rappresentare graficamente la
posizione di bilancio di questa banca, distinguendo le attività e le passività in sensibili e
non sensibili, otterremo:
AS
PS
AnS
Pns
Quindi, lo spareggiamento, o maturity gap, è pari alla differenza tra la quantità di attività
sensibili e la quantità di passività sensibili. Il terzo passo sarà:
calcolo dello spareggiamento tra AS e PS (calcolo del maturity gap).
Nel nostro caso:
M Gap = AS – PS = 400 – 500 = -100
La banca ha quindi un maturity gap negativo.
Adesso non resta che vedere come si passa dallo spareggiamento, ossia dal maturity gap
alla variazione del margine di interessi. Noi sappiamo che il margine di interessi è dato
dalla differenza tra il totale delle attività fruttifere di interessi moltiplicato per il tasso attivo
e il totale delle passività onerose di interessi moltiplicato per il tasso passivo (per semplicità
supponiamo che vi sia un solo tasso attivo e un solo tasso passivo). Ossia:
MI = TAFI · iA - TPOI · iP
Scomponendo il totale delle attività fruttifere di interessi e il totale delle passività onerose
di interessi, otteniamo:
MI = (AS · iA + AnS · iA) – (PS · iP + PnS · iP)
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Ipotizziamo adesso che si verifichi una variazione dei tassi di interesse di mercato e che
questa si ripercuota allo stesso modo sull’attivo e sul passivo:
Δi = Δ iA = Δ iP
Vediamo come varia il margine di interessi al variare dei tassi di interesse, supponendo
che essi salgano di un punto percentuale (Δi = +1%):
ΔMI = AS · Δi - PS · Δi
Le attività non sensibili e le passività non sensibili, ovviamente, non influenzeranno la
variazione del margine di interessi, poiché non subiranno variazioni in conseguenza della
vibrazione dei tassi di interesse.
Raccogliendo, otteniamo:
ΔMI = (AS – PS) · Δi
Ma abbiamo visto che AS – PS non è altro che il maturity gap, perciò:
ΔMI = M Gap ∙Δi
Nel nostro esempio risulterà:
ΔMI = -100 ∙ 1% = -1
Da questo esempio possiamo generale il tipo di sensibilità che la banca può avere
rispetto all’andamento dei tassi di interesse:
gap > 0 (asset sensitive, o sensibile sul lato delle attività) →
Δi↑ → ΔMI↑
Δi↓ → ΔMI↓
Quando i tassi di interesse salgono la banca vede salire il proprio margine di interessi,
mentre quando i tassi di interesse scendono la banca vede scendere il proprio margine di
interessi;
gap < 0 (liability sensitive, o sensibile sul lato delle passività) → Δi↑ → ΔMI↓
Δi↓ → ΔMI↑
Quando i tassi di interesse salgono la banca vede scendere il proprio margine di interessi,
mentre quando i tassi di interesse scendono la banca vede salire il proprio margine di
interessi.
Le banche dovranno monitorare costantemente i propri gap e tentare di prevedere
l’andamento dei tassi di interesse, in modo da agire in maniera opportuna sulla
composizione del bilancio, sempre che questo si possibile.
La standardizzazione del maturity gap
Abbiamo visto come calcolare il valore del maturity gap, ma questo dato non torna utile
se vogliamo confrontare l’esposizione al rischio di banche diverse o se vogliamo
analizzare gli squilibri interni alla banca stessa. Dovremo quindi standardizzare il maturity
gap, e per farlo esistono vari modi:
Gap / TA: misura il mismatching relativo al totale delle attività. Questa standardizzazione
può essere utile per finalità interne, ma serve soprattutto a confrontare l’esposizione al
rischio di banche diverse;
AS / PS: prende il nome di gap ratio ed è molto utile per valutare gli squilibri interni di una
banca;
Gap / MP: misura il mismatching relativo ai mezzi propri. Questa standardizzazione può
essere utile sia per finalità interne che per finalità esterne e misura la capacità della
banca di assorbire eventuali condizioni di squilibrio: tanto più è basso tale indice e tanto
più l’impatto dello squilibrio sarà limitato.
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I limiti del maturity gap
Il metodo del maturity gap è molto semplice, ma l’eccessiva semplificazione comporta
anche notevoli limiti. Supponiamo di trovarci di fronte ad una banca con una situazione
di bilancio che vede le seguenti voci come uniche attività e passività sensibili.
1/1/xx
Attivo
Passivo
BOTfeb 400
depnov
500
M Gap = 400 – 500 = -100 (banca liability sensitive)
Supponiamo che i tassi di interesse subiscano un aumento di un punto percentuale (Δi =
+1%). Secondo quanto visto in precedenza, la variazione del margine di interessi sarà:
ΔMI = -100 ∙ 1% = -1
Tuttavia, disponendo delle informazioni circa le scadenze dei BOT e dei depositi, possiamo
calcolare l’effettiva variazione del margine di interessi:
ΔMI = 400 · 1% · (10/12) - 500 · 1% · (1/12) = +2,91
Quindi, il primo limite del maturity gap è non considerare il momento in cui un’attività o
una passività diventa effettivamente sensibile, dal momento che non tutte le attività e le
passività sono omogenee in termini di sensibilità. Tuttavia, questo limite è stato superato
con una serie di evoluzioni nel modello, che consentono di dividerlo in sottoperiodi, ma
che noi non vedremo.
Adesso supponiamo di trovarci di fronte ad una banca che detiene in portafoglio dei BTP
con scadenza fra tre anni. In base a quanto detto in precedenza, tale attività sarà
classificata come attività non sensibile, perciò non rientrerà nel calcolo del maturity gap,
né tanto meno nel calcolo della variazione del margine di interessi. Tuttavia, sappiamo
anche che quando i tassi di interesse variano, i prezzi dei BTP, come quelli di tutte le altre
obbligazioni a tasso fisso, subiscono variazioni. Quindi, affermare che un’attività a tasso
fisso non sia sensibile all’andamento dei tassi di interesse è vero in termini di margine di
interessi, ma non lo è in termini di valore economico della banca, dal momento che il suo
attivo ne rimane influenzato. Infatti, ricordiamo che il valore economico della banca è
dato dalla differenza tra il valore di mercato dell’attivo e il malore di mercato del passivo
di terzi, ossia:
Veconomico = VM att – VM pass di terzi
Perciò, qualsiasi evento che vada a modificare queste due voci influenza il valore
economico della banca. Ciò ci permette di introdurre il concetto di duration gap, che
abbiamo visto essere il metodo con cui si misura l’impatto che una variazione dei tassi di
interesse sortisce sul valore economico dell’intermediario in questione.
Approssimativamente, possiamo dire che il duration gap si ottiene considerando la
duration modificata di tutte le voci rilevanti, la quale misura appunto la variazione delle
singole voci.
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