LA RIVOLUZIONE AMERICANA Risorse Blendspace: https://www.tes.com/lessons/xWfLpIFFlmu5EA/edit Fonti: ● ● Indice: 1. 2. 3. 4. 5. 6. 7. 8. 9. 10. 11. 12. 13. 14. 15. 16. Arnaldo TESTI, La formazione degli Stati Uniti, Il Mulino Oliviero BERGAMINI, Storia degli Stati Uniti, Laterza La Guerra dei Sette anni La situazione in Nord America dopo la G. del 7 anni Le 13 Colonie: popolazione, economia e società nella seconda metà del ‘700 Il sistema dell’Impero britannico La situazione post-1763, le origini della crisi Quale concezione di Rappresentanza? Il dibattito politico nelle Colonie e in Inghilterra tra 1763 e 1775 La tensione cresce - i primi anni ‘70 Il 1° Congresso Continentale di Philadelphia, 1774 La Dichiarazione di Indipendenza, 1776 La guerra 1776-83: battaglie ed eventi principali Che impatto ebbe la Guerra di Indipendenza sulla società americana? Le conseguenze della Rivoluzione: società, idee, questioni aperte La Costituzione degli Stati Uniti d’America I primi due partiti politici Lo sviluppo degli USA nell’800 fino al primo ‘900 La Guerra dei Sette anni Combattuta tra 1756 e 1763. E’ il conflitto tra le potenze europee (Francia e Impero asburgico da una parte, Inghilterra e Prussia dall’altro) che per la prima volta ha delle ripercussioni su scala “globale”, dato che Inghilterra e Francia si affrontano anche nei possedimenti coloniali in India, in Nord-America e nelle Antille. Il contesto: La Francia con Luigi XIV (re dal 1643 al 1715) [ vedi UdL dedicata] aveva tentato di acquisire la posizione di potenza egemone in Europa, contrastata principalmente dall’Impero Asburgico e dall’Inghilterra. Nel corso del ‘700 sono numerose le guerre che vedono coinvolte le principali potenze europee (Francia, Inghilterra, Impero Asburgico e la Prussia), come la Guerra di Successione Spagnola, la Guerra di Successione Austriaca e la Guerra di Successione Polacca. Il comune denominatore di questi conflitti è il rinnovarsi dei progetti di egemonia francese sotto Luigi XV e il tentativo delle varie potenze di volgere a loro favore la situazione di sostanziale equilibrio, di cui in particolar modo l’Impero si sente il “garante” dopo la Guerra dei Trent’anni [ vedi UdL dedicata]. La Guerra dei Sette anni vede una grossa novità: per la prima volta Francia e Impero si ritrovano alleati. Il conflitto tra Francia e Impero aveva caratterizzato la storia europea degli ultimi 2 secoli; ricordiamo le guerre tra l’imperatore Carlo V contro il re francese Francesco I (prima metà del ‘500), e la Guerra dei Trent’anni [vedi UdL dedicata]. Adesso si ritrovano alleati, ma le nuove potenze in ascesa rivendicano un ruolo di primo piano: Inghilterra e Prussia. Abbiamo visto in classe come l’Inghilterra, dopo le vicende delle Guerre Civili e della Glorious Revolution [vedi UdL dedicata] si sia data un nuovo assetto istituzionale e si sia lanciata in una fase di grande ascesa economica. I commerci interoceanici sono fonte di sempre maggiore ricchezza, e nel corso del ‘700 l’Inghilterra espande la sua presenza coloniale a livello mondiale (India, Sud-Est asiatico, Nord-America, America Caraibica, scoperta e fondazione prime basi in Australia). Il cosiddetto “Commercio Triangolare” [vedi UdL sulla scoperta del Nuovo Mondo] raggiunge nel corso del ‘700 volumi sempre più impressionanti in termini di esseri umani venduti come schiavi e di ricchezza prodotta all’interno di tale commercio: ormai anche l’Africa nera è inglobata in un sistema economico intercontinentale, che vede protagoniste, oltre all’Inghilterra, anche la Francia (in misura minore anche Spagna, Portogallo, Olanda e altri stati europei) La Prussia, elevata al rango di regno dalla Guerra di Successione spagnola (1700-13) si conferma una potenza europea in ascesa, conquistando il controllo della Slesia (regione storica a cavallo delle attuali Polonia e Repubblica Ceca) ai danni dell’Impero Asburgico. La Guerra dei Sette anni è stato definito anche come il primo conflitto “mondiale” della storia. Perché? Oltre allo scenario europeo, infatti, Inghilterra e Francia si affrontano anche nei loro vasti imperi coloniali, principalmente in India e nei possedimenti americani. Alla fine del conflitto (1763) l’Inghilterra stabilisce il suo primato come potenza coloniale e navale: la guerra infatti costa alla Francia la perdita di gran parte dei possedimenti coloniali in India e in Nord-America. E’ questo lo scenario che ci interessa come punto di partenza per comprendere le vicende della nascita degli Stati Uniti d’America. La Situazione in Nord America dopo la Guerra dei Sette anni Il risultato principale della guerra fu per l’Inghilterra l’acquisizione di una vasta area territoriale in Nord America, ai danni della Francia. La Francia controllava un territorio enorme (vedi carta sotto). Però, a differenza della maggior parte dei possedimenti francesi, le 13 Colonie inglesi sono colonie di popolamento, cioè sono meta di emigrazione e insediamento dalla madrepatria. Nel corso del ‘700 l’emigrazione in America si fece sempre più massiccia; i coloni, seppur provenissero sempre in larga parte dall’Inghilterra (che sta vivendo un periodo di importante aumento demografico), giungono in America anche dall’Irlanda, dalla Scozia, dalla Germania, dalla Scandinavia. Si stima una popolazione di ca 250.000 persone ad inizio ‘700, che cresce - a ritmi insostenibili per l’Europa - fino ai 2,5-3 mln di abitanti all’inizio della Rivoluzione (1776). La crescita è impressionante anche dal punto di vista economico: i coloni mettono a coltura vasti territori, dando vita ad un florida agricoltura, a cui si aggiungono importanti attività di commercio con la madrepatria;nelle città che si vanno formando fioriscono attività artigianali, commerciali e professionali. A metà ‘700 le Colonie inglesi sono quindi una terra ricca e prospera e in costante crescita, ancor più della madrepatria inglese (che pure era la nazione più sviluppata in Europa). I problemi Ecco che quindi la conquista dei territori francesi apre uno scenario di ulteriore crescita ed espansione per le 13 Colonie, non più “frenate” dalla presenza francese al di là del confine dei Monti Appalachi. Si impongono però anche dei nuovi problemi, a causa dei quali nel decennio successivo vi sarà un sempre maggiore attrito, fino alla rottura del 1776, tra madrepatria e colonie. La Guerra dei Sette anni dunque, se da un lato sancisce l’incontrastata superiorità dell’Inghilterra in campo commerciale e coloniale su scala mondiale, segna anche l’inizio dell’incompatibilità del sistema coloniale inglese con la realtà dinamica e sempre più prospera delle colonie nordamericane. In sintesi, le questioni aperte sono: ● Le prospettive di crescita per le colonie inglesi sembrano enormi. MA i nuovi territori implicano anche un impiego, da parte dell’Inghilterra, di molte più risorse militari (e quindi economiche) per controllarlo e garantirne la sicurezza. ● Le prospettive di crescita riguardano principalmente gli interessi dei coloni americani: si prospettava un’enorme disponibilità di nuove terre da coltivare che avrebbero potuto accogliere la popolazione in costante crescita. MA dal punto di vista degli interessi dei grandi operatori economici inglesi un’ulteriore espansione in Nord America non è poi così allettante: le grandi compagnie commerciali intercontinentali, per esempio, avrebbero preferito l’acquisizione dei possedimenti ● ● ● ● francesi nelle Antille e in Sud-America, per impiantarvi la produzione schiavistica di generi coloniali tropicali (tabacco, canna da zucchero, caffè, cacao, ecc.). I nuovi territori non sono “vuoti”, ma popolati da numerose nazioni indiane autoctone. La loro presenza era tutto sommato compatibile (NB: pur in maniera molto problematica; il contatto con le malattie degli europei fu una catastrofe demografica per gli indiani) con il sistema coloniale “tradizionale” impiantato dai francesi, basato sul commercio (i locali sono coinvolti nel sistema di scambi ineguale - con la madrepatria: pelli e sfruttamento materie prime per alcolici, armi da fuoco, cavalli, ecc.): MA NON potrà essere così nella prospettiva di una futura espansione delle colonie di popolamento. I coloni hanno fame di nuove terre in cui insediarsi: ma quelle sono le terre in cui per secoli e millenni hanno vissuto le tribù delle nazioni indiane nordamericane. NB: questo sarà uno dei motivi di scontro Colonie VS Inghilterra: le prime premevano per una sempre più massiccia espansione ad ovest; la seconda, pur avendo operato in passato guerre e massacri contro gli indiani, in questa fase propende per un atteggiamento più cauto. L’Inghilterra ha sostenuto enormi spese per il conflitto. Inoltre è dato per scontato ai membri del Parlamento che lo sfruttamento coloniale debba portare ricchezza alla madrepatria, secondo i dettami delle teorie economiche mercantiliste. Per questo motivo l’Inghilterra dovrà aumentare il peso fiscale sulle colonie per far fronte alle spese belliche e mantenere il monopolio dei commerci coloniali. Ma ciò ovviamente collide non solo con gli interessi economici, ma anche con una “visione di sé” dei coloni Nord-Americani che rigettano lo status di “sudditi di serie B” rispetto agli inglesi. La Francia non si rassegna alla perdita e cercherà di sfruttare ogni occasione per danneggiare la politica inglese. Fondamentale sarà infatti il contributo francese (oltre che quello spagnolo) in favore dei coloni durante la guerra. Le milizie coloniali (formate cioè dai coloni) hanno combattuto attivamente al fianco delle truppe regolari inglesi contro le truppe francesi e i loro alleati indiani. I coloni hanno in questo modo preso coscienza della loro forza, se organizzati e coordinati. La conoscenza del territorio permise alle milizie coloniali di essere spesso molto più efficaci delle truppe regolari della corona. Inoltre, la scomparsa della minaccia del nemico francese rende ormai superflua la funzione di protezione dei soldati inglesi. Come giustificare le ingenti spese per il loro mantenimento, se i coloni hanno dimostrato di saper benissimo “arrangiarsi” anche in campo militare? Le 13 Colonie: popolazione, economia e società dal ‘600 alla metà del ‘700 Abbiamo già accennato in precedenza alla straordinaria crescita della popolazione (decuplicata nel giro di 75 anni fino a ca 2,5-3 mln nel 1776). Cerchiamo ora di analizzare quale tipo di società si fosse sviluppata nei circa 150 anni di presenza di coloni sul suolo nordamericano. (Cartina sotto: le 13 Colonie con la divisione tra Nord / Centro / Sud) MA chi sono questi “nuovi americani”? L’inizio dell’afflusso di coloni inizia nei primi decenni del ‘600, quando i cosiddetti Pilgrim Fathers (Padri Pellegrini) sbarcano con la nave Mayflower sulle coste del Massachussets (1620): sono puritani intransigenti (calvinisti inglesi) osteggiati in patria, in contrasto con la corona della dinastia Stuart e la Chiesa Anglicana. Essi vedono nel Nuovo Mondo il luogo dove poter realizzare i loro sogni di comunità libere, autogovernate, oltre che rigidamente organizzate secondo i dettami della loro fede. In seguito la popolazione crebbe grazie all’apporto soprattutto di: ● Dall’Inghilterra: esponenti di minoranze religiose (non solo sette protestanti; il Maryland, ad esempio, sarà meta dei cattolici perseguitati durante il regno di Carlo I) e in generale individui provenienti dai ceti medio-bassi in cerca di fortuna. Il Nuovo Mondo offriva possibilità, se pur a prezzo di duro lavoro, di libertà individuale e di benessere incomparabili con quelle disponibili in Europa. Si diffusero dei contratti di “servitù” di questo tipo: un lavoratore si impegnava a prestare manodopera gratuita per un certo numero di anni (di solito 5); in cambio il datore di lavoro pagava il viaggio (molto costoso) e offriva vitto e alloggio. Alla fine del contratto, il lavoratore tornava libero e poteva intraprendere un’attività. Divenire proprietari di un appezzamento di terra, sogno quasi irrealizzabile in patria [cfr. UdL Rivoluzioni inglesi, il discorso sulle ‘elclosures’ e le rivendicazioni sociali egalitariste di Diggers e Levellers] diveniva possibilità concreta nelle terre del Nuovo Mondo, sorta di nuova “Terra Promessa” a fronte di un’Europa sempre più angusta e sovrappopolata (rispetto alle capacità di produzione pre-industriali). La corona vi deportò inoltre ca 50.000 galeotti. ● ● Durante il ‘700, nei decenni centrali, è sempre più consistente l’apporto di genti provenienti da altre nazioni europee: Francia, Germania, Scozia, Irlanda, Scandinavia. Ca. il 20 % del totale (oltre 600.000) schiavi deportati dall’Africa. Essi rappresentavano ca. il 5% della popolazione delle colonie del Nord e oltre il 40% in quelle del Sud. (Carta sotto: i flussi principali della tratta degli schiavi africani) E’ importante rilevare come, in generale, già a metà ‘700 le opportunità di benessere nelle 13 Colonie fossero in generale molto più alte che in Europa, persino rispetto all’Inghilterra e all’Olanda che erano le nazione più avanzate. La popolazione delle colonie è giovane, formata in larga misura da proprietari liberi, e in continua crescita. Economia L’economia delle colonie nordamericane è integrata in una rete di scambi che coinvolge l’intero Impero coloniale inglese (che come abbiamo detto si estendeva dall’Oceano Indiano ai possedimenti nel Mar dei Caraibi). L’Inghilterra del tempo amministrava l’economia coloniale secondo i dettami del mercantilismo [vedi UdL Assolutismo: Luigi XIV]: l’Impero coloniale serve sostanzialmente per produrre ricchezza per la madrepatria, in un’ottica complessiva di autosufficienza commerciale, che cioè non necessita di scambi con altre potenze coloniali e/o altri stati europei. L’Inghilterra infatti attraverso i Navigation Act stabiliva il regime di rigido monopolio dei commerci con le Colonie, da affidare esclusivamente a naviglio inglese e con la possibilità di commerciare esclusivamente merci inglesi (o re-importate dagli inglesi). Si capisce come, parallelamente al commercio legale, fosse molto fiorente e lucroso il contrabbando illegale, in special modo con le colonie caraibiche. Dal punto di vista dell’economia e della società distinguiamo nel’700, tra le 13 Colonie, due aree con caratteristiche diverse e definite: ● Nord: area detta anche New England (New Hampshire, Massachussets comprendente anche il Maine - , Rhode Island, Connecticut). E’ l’area più urbanizzata e più popolosa (qui il maggior afflusso di famiglie migranti) anche se nel ‘700 è ancora meno ricca del Centro e del Sud che sono più integrate nel sistema economico imperiale. Sarà però la prima regione a industrializzarsi già a partire dal primo ‘800. Nel ‘700 è una regione prevalentemente esportatrice di materie prime: legname, minerali, rhum; molto importante per l’economia della regione l’attività della baleneria, i cui prodotti sono esportati in tutto il mondo (la famosa caccia alle balene, soprattutto capodogli da cui si ricavava olio combustibile per le lampade; consiglio di lettura per chi volesse approfondire: Moby Dick di Herman Melville). E’ già delineata nella regione una complessa stratificazione sociale in base alla ricchezza; al vertice vi sono le elites economiche operanti nei commerci intercontinentali (tra cui la tratta degli schiavi); seguono poi i commercianti, i lavoratori in proprio, agricoltori ed allevatori proprietari; quindi artigiani e professionisti che trovano spazio nelle città in crescita. La base è costituita dai lavoratori salariati, operai e braccianti. La società è comunque molto dinamica, con possibilità di ascesa sconosciute in Europa. ● Centro (New York, New Jersey, Delaware, Pennsylvania) e Sud (Maryland, Viginia, Nord e Sud Carolina, Georgia). Sono meno urbanizzate rispetto al Nord, ma più ricche, grazie alle condizioni ambientali che favoriscono un’economia prevalentemente agricola, che esporta tabacco, cotone, riso, indaco. E’ diffusa la piccola proprietà ma si è anche formato un ceto, al vertice della piramide sociale, di grandi proprietari terrieri. Essi costituiscono di fatto - se non di diritto - l’aristocrazia terriera della regione (il modello di riferimento culturale per questi proprieari è la gentry delle campagne inglesi). Molto minore, di conseguenza, la mobilità sociale. Qui è concentrata la maggior parte degli schiavi africani, che costituiscono il 40% della popolazione totale nelle colonie del Sud. In particolare questo modello è valido per le colonie del Sud, che assomigliano alle colonie caraibiche delle grandi piantagioni. Quelle del Centro invece andranno progressivamente ad urbanizzarsi e già negli ultimi decenni del ‘700 avranno uno sviluppo congiunto a quello del Nord) Differenze tra Società americana ed europea La sperequazione della ricchezza nelle colonie è molto minore rispetto alla situazione europea, anche se esistono comunque forti disuguaglianze di ceto (va ridimensionato il “mito” patriottico che proietta nelle colonie un sogno di società egualitaria). Fino al 1763 era prevalente il sentimento di appartenenza “britannica” e quindi il lealismo nei confronti della corona. Come vedremo questi sentimenti si incrineranno a seguito delle mutate condizioni seguite alla vittoria inglese nella Guerra dei Sette anni. Al tempo stesso sono molto forti i sentimenti di appartenenza a livello localistico: i “newyorkesi”, i “bostoniani”, i “pennsylvani”, ecc.; prima del conflitto non è diffuso un sentimento di appartenenza comune esteso alle 13 colonie, in quanto “americani”. Tuttavia, sempre più le varie colonie avranno la percezione di condividere i medesimi interessi e quindi di subire le stesse “ingiustizie” da parte dell’Inghilterra, il che le porterà a fare fronte comune contro la madrepatria ora divenuta fonte di sopraffazione. NB: gli storici rilevano come tra i coloni, che condividevano il territorio di insediamento con i nativi americani e gli schiavi africani, fossero molto diffusi sentimenti e idee apertamente razzisti, con cui si giustificavano tanto guerre e massacri contro gli indiani quanto la schiavitù: una delle prime elaborazioni “popolari” del mito razziale della supremazia bianca. Religione Anche dal punto di vista religioso la realtà delle colonie era estremamente frammentata. E’ facile intuirne la ragione: uno dei motivi che spinsero i primi coloni ad insediarsi in America fu proprio la possibilità di professare liberamente la propria fede, in quanto esponenti di minoranze della galassia protestante perseguitati in patria. Nel Nord (cioè il New England) si ebbe una forte istituzionalizzazione delle chiese puritane congregazionaliste (comunità libere locali) e presbiteriane (organizzate in comunità libere che eleggono i propri “anziani” o presbiteri, ma con livelli organizzativi superiori regionali detti sinodi, i cui rappresentanti si riuniscono al livello più alto di presbiterio). La libertà religiosa per i “non puritani”, in un contesto così omogeneo e fondato sulle “libere comunità” auto-organizzate, era quindi di fatto poco tollerata. Al Centro e nel Sud invece la situazione religiosa era molto meno omogenea, quindi più libera; qui si insediano e sviluppano anche molti movimenti settari (es. quaccheri in Pennsylvania). A metà ‘700 vi fu il cosiddetto “Grande Risveglio” (Great Awakening), un periodo di forte fermento religioso, in cui esigenze di rinnovamento spirituale individuale e di ritorno all’autentico messaggio evangelico si fondevano con interpretazioni di tipo messianico e millenarista (‘messianico’ fa riferimento all’attesa di imminenti eventi epocali e rigeneratori rispetto alla corruzione della società. ‘Millenaristia’ significa che proponevano delle letture mitico-religiose dell’intera storia, orientate ad un’imminente “fine dei tempi” e/o di compimento del destino storico di un popolo). Predicatori ispirati come Jonathan Edwards, Jonathan Dickinson, John Wesley, George Whitefield ebbero grandissimo seguito. La cosa interessante è che tutto ciò aveva anche delle ripercussioni di tipo politico: il “Risveglio” implicava anche una critica morale su società e istituzioni, che procedeva assieme ad una forte (per quanto indefinita) esigenza di rinnovamento. [cfr. la centralità della questione religiosa nello scontro tra Parlamento inglese e corona e il fermento religioso nel periodo della prima Rivoluzione inglese e le implicazioni politiche e sociali] Il sistema dell’Impero britannico L’insieme dei possedimenti coloniali inglesi era governato da un apparato tutt’altro che efficiente ed omogeneo. Ciò è dovuto in parte all’origine stessa dei possedimenti coloniali: nel XVII sec. la colonizzazione della costa atlantica del Nord America non avvenne in base ad un progetto coordinato dall’alto, bensì per iniziativa privata, ad opera di veri e propri “imprenditori coloniali” che operarono su concessione della Corona (es. William Penn, da cui il nome di ‘Pennsylvania’ della colonia e attuale stato USA). Con il tempo, data la sempre maggiore importanza delle colonie per l’economia del regno, vi furono dei tentativi di razionalizzazione e accentramento. Per quanto riguarda il Nord America il primo tentativo in tal senso fu quello di re Giacomo II Stuart (ma sappiamo che il suo regno fu breve e contrastato...). Lungo il ‘700 abbiamo quindi una situazione, per quanto riguarda l’inquadramento delle 13 Colonie all’interno del “sistema impero” britannico sintetizzabile in questo modo: ● Grande autonomia delle istituzioni locali (assemblee elettive a livello di comunità locale, di contea, di assemblea territoriale della colonia). Le assemblee delle colonie partecipavano, nell’amministrazione del territorio, all’operato dei governatori di nomina regia. ● ● ● ● I governatori: come detto sono di nomina regia e sono affiancati da un consiglio ristretto, anch’esso di nomina regia. Le loro competenze sono molto ampie, e in proporzione i governatori hanno molto più potere, nei confronti delle Assemblee coloniali, rispetto a quanti ne avesse il re nei confronti del Parlamento di Londra [vedi UdL Rivoluzioni inglesi]; le principali competenze riguardano: ○ tasse ○ giustizia ○ potere di veto sulle leggi approvate dalle assemblee coloniali ○ potere di scioglimento delle assemblee stesse ○ regolamenti commerciali Quadro normativo dei rapporti Colonie-Madrepatria molto frammentato e spesso inefficace; l’applicazione delle norme era comunque improntato ad una sostanziale tolleranza e tendenza al compromesso in caso di contrasti (tra le Colonie o nei rapporti con l’Inghilterra). Funzionari inglesi in generale poco competenti e operanti in un contesto istituzionale poco organizzato. I “posti” all’interno dell’amministrazione coloniale erano distribuiti a Londra secondo una logica clientelare (per “sistemare” parenti, amici, alleati), e non secondo criteri di merito. Se tutto ciò poteva ancora funzionare all’inizio del ‘700 (con una popolazione ancora esigua), già a metà secolo la straordinaria crescita delle Colonie in termini di popolazione e ricchezza (e quindi di complessità socio-economica) avrebbe invece richiesto competenze amministrative molto elevate. In generale i funzionari inglesi tendono a risolvere i conflitti con il compromesso: soluzioni temporanee e parziali. Una sistemazione razionale avrebbe implicato invece una riforma coordinata dell’intero quadro normativo (= le leggi e i regolamenti che avrebbero dovuto disciplinare i rapporti tra le Colonie e tra queste e l’Inghilterra). Il perdurare di una situazione normativa caotica come quella descritta sopra ebbe due conseguenze che determinarono poi l’esplodere della rivolta: 1) le situazioni di conflitto, nell’ambito es. della regolamentazione dei commerci, si complicarono sempre più con la crescita delle attività economiche, e 2) quando dopo il 1763 Londra si decise per una riorganizzazione e razionalizzazione delle norme riguardanti le colonie nordamericane, in direzione di un rafforzamento della presenza di funzionari e militari inglesi sul continente, tutto ciò fu visto dai coloni come un grave abuso nei loro confronti. (Sotto: soldati e funzionario coloniali inglesi) La partecipazione politica: in Inghillterra / nelle Colonie Dobbiamo ora fare una riflessione ulteriore riguardante la partecipazione politica all’interno delle colonie. Il sistema organizzato in assemblee locali / assemblea a livello di colonia / governatore per conto del re ricalcava in qualche modo quello esistente in Inghilterra, dove c’erano camera dei comuni (elettiva) / camera dei lord / sovrano. Abbiamo visto come in Inghilterra la popolazione coinvolta a livello politico fosse una piccola parte del totale, in quanto i diritti politici (di voto e di essere votati, cioè di essere eleggibili) erano conferiti secondo degli sbarramenti di censo (ovvero in base alla ricchezza). Si stima che meno di ¼ o ⅕ della popolazione (maschile) avesse il diritto di voto per eleggere il Parlamento di Londra, mentre quello di candidatura era ancora più ristretto. Lo stesso identico sistema su base censitaria però, trasposto in America, data la grande prosperità raggiunta e la continua crescita economica del paese, permetteva nella seconda metà del ‘700 la partecipazione politica ad un numero molto più grande di persone. Si stima che fosse di almeno 4 volte maggiore rispetto all’Inghilterra, e che quindi comprendesse la maggioranza dei maschi bianchi liberi (ricordiamo la grande diffusione della proprietà terriera, oltre alle attività commerciali). La grande possibilità di partecipazione politica favorì la forte diffusione delle idee del partito Whig all’interno delle assemblee nordamericane; in generale i whig miravano ad aumentare la partecipazione politica in contrapposizione al conservatorismo dei Tories, il “partito di corte”. La situazione post-1763 Cerchiamo di comprendere, a partire dal contesto sopra delineato, i motivi specifici per cui la situazione divenne problematica fino ad esacerbarsi ad un punto tale, dopo la vittoria nella Guerra dei Sette anni, da portare alla ribellione delle Colonie e al conflitto armato. Abbiamo detto dell’inefficienza e disorganizzazione dell’apparato amministrativo imperiale. Abbiamo anche detto dell’aumento considerevole delle spese a seguito della guerra per far fronte 1) alle spese belliche e 2) alle maggiori risorse per controllare e amministrare un territorio che comprende buona parte del continente nordamericano. I nuovi territori sono: ● Quebec a nord (l’embrione dell’attuale Canda; era una colonia di popolamento francese, seppur il suo sviluppo non sia paragonabile a quello delle 13 Colonie). ● Florida a sud. ● l’immenso territorio al di là dei Monti Appalachi ad ovest, attraverso le grandi pianure fino al fiume Mississippi. (Vedi carta sotto per la ripartizione territoriale del Nord America) Il divieto di insediamento di coloni in quest’ultima regione era ovviamente in contrasto con gli interessi delle Colonie, sia 1) delle elites coloniali che 2) dei ceti popolari. Comprendiamo nel punto 1) sia le elites del nord che quelle del sud, pur nella diversità delle loro attività economiche. Al centro-sud abbiamo infatti i grandi latifondisti, che avrebbero voluto espandere verso ovest le colture e il sistema schiavistico; al nord le elites commerciali (traffici con l’Inghilterra) avrebbero voluto lucrare dai commerci con le popolazioni indiane. Al punto 2) rileviamo gli interessi dei ceti popolari in generale (ma la loro presenza è più forte al nord e nel centro) i quali, data la costante crescita della popolazione, richiedevano sempre più terre da mettere a coltura; in molte zone del New England a fine ‘700 si era già raggiunta la saturazione delle terre disponibili. Abbiamo già detto come i territori dell’Ovest non fossero “vuoti”, come le intenzioni dei coloni parrebbero presumere, ma che erano abitati dalle nazioni indiane autoctone. Anche i territori delle 13 Colonie erano in precedenza abitate da indiani, ma questi in gran parte perirono per le epidemie, e in parte furono progressivamente cacciati al di là dei Monti Appalachi nel corso del ‘600. NB: gli storici stimano in ca 5 milioni la popolazione delle nazioni indiane nel territorio corrispondente agli attuali Stati Uniti prima del contatto con gli Europei (XVI sec.). Nella seconda metà del ‘700 si stima ne rimanessero circa 1 milione. Abbiamo visto all’inizio dell’anno la distruzione degli stati Atzechi e Incas in Centro e Sud America, e il genocidio del 90% dei nativi. MA anche in Nord America la popolazione indiana ebbe un tracollo, a causa delle malattie introdotte dagli europei (vaiolo, morbillo, peste). Fu questa la causa, più che la cacciata diretta, della drastica diminuzione della popolazione autoctona. Resta il fatto che in circa 1 secolo (dall’indipendenza fino a fine ‘800) l’espansione verso ovest della frontiera distrusse anche quanto rimaneva delle nazioni indiane autoctone. Le tasse La tassazione: sappiamo come nella storia dell’Europa moderna pre-industriale fosse un argomento molto delicato. Abbiamo visto le crescenti esigenze di risorse da parte degli stati moderni, e le resistenze della popolazione nei confronti di qualsiasi tassa, tributi ecc. che sia percepito come illegittimo. Le maggiori spese conseguenti alle conquiste del 1763 portano il governo inglese (Halifax prima, Greenville poi) a introdurre una serie di nuove tasse e di nuovi regolamenti restrittivi specie in ambito commerciale. Le leggi in questione sono: Quartering Act, Sugar Act, Currency Act, Stamp Act, le cosiddette Leggi di Townshend e Quebec Act (alcune le vedremo nel dettaglio). Ricordiamo come la monarchia Stuart, nel suo tentativo di accentramento del potere durante il XVII sec., fosse accusata soprattutto di imporre tasse illegittime [vedi es. Petition on Right e Grand Remonstration]. Sappiamo come è andata a finire. Quale concezione di Rappresentanza? Nell’UdL sulle Rivoluzioni inglesi abbiamo visto come la nozione di “rappresentanza” abbia subito un’evoluzione tale da collocare nell’istituzione del Parlamento, la sede dove appunto si riuniscono i rappresentanti dei sudditi dell’intera Inghilterra, la fonte di ogni potere legittimo [cfr Glorious Revolution, soprattutto vedi il Bill of Rights]. La questione della rappresentanza è cruciale per comprendere come la tassazione potesse essere ritenuta legittima o meno, a seconda della concezione di rappresentanza adottata. Cerchiamo di delineare i punti di vista della maggioranza parlamentare inglese, espressione in questo periodo del partito Tories, e quella degli esponenti W hig americani: ● Inghilterra, posizione tories: teoria della rappresentanza virtuale. Significa che anche se i territori americani non sono rappresentati direttamente, cioè non eleggono loro rappresentanti in Parlamento, il Parlamento stesso rimane comunque il rappresentante dell’intero impero, e per questo è legittimato a governare. Il ● parlamento è la fonte stessa della legittimità, posizione che si è conquistato con le due Rivoluzioni. Il principio della rappresentanza diretta non era sostenibile per i tories: in effetti, coloro che sedevano in Parlamento erano espressione del voto di una parte minoritaria della popolazione dell’Inghilterra. Quindi la legittimità del Parlamento non era per i tories questione di rappresentanza diretta, bensì “virtuale”, nel senso che il Parlamento detiene insieme alla Corona il potere legislativo ed esecutivo: leggi e disposizioni che valgono per tutti i sudditi dell’Impero, dei quali sono pur sempre rispettati i diritti inalienabili e fondamentali della persona [vedi Bill of Rights] Colonie, posizione whig (condivisa anche dalla minoranza whig nel Parlamento inglese): teoria della rappresentanza diretta. Una qualsiasi assemblea è legittimata nell’esercizio del potere legislativo ed esecutivo su determinati territori solamente nella misura in cui essa sia formata da rappresentanti eletti negli stessi territori. Detto altrimenti: No taxation whitout representation! motto che divenne popolare grazie ai libelli polemici di James Otis, dal Massachussets. Nel concreto della situazione americana: se nel parlamento che ha deciso le nuove tasse non siedono i rappresentanti dei territori che vengono tassati, cioè le Colonie, quelle tasse in quei territori non sono legittime. Il dibattito politico nelle Colonie e in Inghilterra tra 1763 e 1775 Il clima politico durante la seconda metà dei ‘60 e i primi ‘70 era infuocato. Data l’alta scolarizzazione e la grande diffusione della stampa, un ruolo fondamentale nelle Colonie lo gioca l’opinione pubblica [cfr. Riv. Ingl.]. In una prima fase i bersagli della critica sono i governatori (abbiamo detto sopra dell’inefficienza dell’amministrazione coloniale), ma poi gli attacchi polemici sono sferrati contro lo stesso Parlamento inglese. E’ presente nel dibattito anche una forte carica “moralistica”, oltre che polemica: quella del “popolo americano” è percepita essere una lotta di ideali, contro la “degenerazione dei costumi in Inghilterra”, e quindi nel Parlamento, causata dall’afflusso di ricchezze proveniente dall’Impero; e la degenerazione provoca la tirannide, secondo la lezione dei classici. Ecco che quindi i coloni si percepiscono come i difensori della libertà e dei diritti, in quanto si mantengono lontani dalle eccessive ricchezze. In realtà abbiamo visto come - a livello generale - la società americana fosse decisamente più ricca di quella inglese; certo, coloro che in Inghilterra godevano dei proventi dei commerci coloniali stavano accumulando fortune immense, ma molto ricchi erano anche i grandi latifondisti delle colonie del Sud e i grandi commercianti delle colonie del Nord. E’ importante rilevare come il dibattito politico nelle Colonie, pur nella virulenza polemica, la posizione largamente maggioritaria è moderata: il motivo del contendere sono i diritti dei sudditi, ma senza mettere in discussione l’appartenenza dei territori delle Colonie alla Corona inglese. A partire dal 1768-70 iniziarono diffusi movimenti di boicottaggio (dei prodotti dell’import/export con l’Inghilterra) e nacquero associazioni come i Sons of liberty, a Boston, che in seguito si resero protagonisti di clamorose azioni (Boston Tea Party, vedi dopo). Negli stessi anni alcuni intellettuali e politici americani nelle loro pubblicazioni rivolsero degli appelli diretti al Re, Giorgio III di Hannover (il primo nato in Inghilterra della sua dinastia), contro il Parlamento. E’ importante analizzare cosa implicava, nella concezione della legittimità del potere delle istituzioni, questo passaggio. Il re è visto dai coloni come il vero garante dei diritti dei sudditi, tanto di quelli americani quanto di quelli inglesi. Il Parlamento invece, in quanto eletto dai sudditi inglesi, è legittimato ad esercitare il potere appunto solo sui sudditi inglesi, non su quelli americani. Pertanto, dato che il Parlamento a partire dal 1763 sta imponendo regolamenti restrittivi e tasse che sono ritenute illegittime, è il re l’unica figura istituzionale autorevole che può ristabilire il rispetto dei diritti. (Sotto: ritratto di re Giorgio III Hannover) Nello stesso periodo, in Inghilterra, nacquero i primi movimenti politici detti ‘radicali’, che si proponevano un programma di estensione della partecipazione politica verso il basso oltre che di abolizione dei privilegi, propugnando il suffragio universale. Il dibattito causato dall’opposizione della maggioranza dell’opinione pubblica americana alla politica coloniale del Parlamento fu certo un elemento catalizzatore per la nuova corrente politica: quanto accade in America comincia ad avere delle ripercussioni in Europa. Nel 1770 il nuovo governo inglese, guidato da lord North (Frederick North, conte di Guilford, esponente del partito tories), per tentare di placare le proteste abrogò le Leggi di Townshend: un insieme di norme amministrative e fiscali coloniali varate 3 anni prima (nell’ottica di una maggiore centralizzazione dell’amministrazione coloniale), che l’opinione pubblica americana intese invece come un piano sistematico di limitazione dei diritti e che fu il bersaglio polemico di moltissimi scritti. L’abrogazione doveva essere un atto di distensione ma sortì pochi effetti: ormai il dibattito verteva sulle questioni di principio, quali la rappresentanza e la natura dei rapporti tra colonie e madrepatria. Il governo North però non fece nessuna concessione sul piano dei “principi”, MA ormai era proprio su di essi che verteva il dibattito politico in America. (Sotto: ritratto di Lord North, primo ministro inglese dal 1770 al 1781) Un personaggio politico americano da ricordare, molto attivo in questa fase, è sicuramente Benjamin Franklin: scienziato e inventore oltre che uomo politico, protagonista nel dibattito degli anni ‘70. In seguito, a guerra ormai iniziata, girerà l’Europa per perorare la causa della guerra delle Colonie contro l’Inghilterra imperialista. In particolar modo fu molto popolare in Francia, che infatti intervenne nel conflitto a fianco delle colonie nel 1778. Il contributo di Franklin al dibattito sui “principi” ci permette di comprendere la posizione politica che si affermerà presso la maggior parte dei moderati americani, prima della definitiva rottura con la madrepatria. Franklin parte da una premessa storica: SE le colonie ebbero origine dall’azione di avventurieri privati (su concessione personale da parte della corona), e NON per iniziativa coordinata dal Parlamento inglese, ALLORA le Colonie riconoscono sicuramente il Re. MA per quanto riguarda le leggi e le tasse solo le assemblee locali delle colonie hanno legittimità, NON il Parlamento inglese. Frankiln giunge a questa conclusione equiparando il potere del Parlamento inglese in Inghilterra con la situazione creatasi in America. Questa teoria vede il Re come autorità superiore che garantisce l’unione dell’Impero, ma con sudditi che sottostanno alle leggi e alle tasse decise nelle rispettive assemblee rappresentative dei singoli territori: il Parlamento inglese per l’Inghilterra, le assemblee per ciascuna delle 13 Colonie. Tale teoria fu completamente rigettata dal Parlamento a maggioranza Tories e dal governo di lord North. (Sotto: ritratto di Benjamin Franklin) Verso la guerra - i primi anni ‘70 Il Tea Act e il Boston tea party Nel 1773 il Parlamento vara la famigerata Tea act. La Compagnia inglese delle Indie Orientali stava fallendo, quindi il governo North decide di salvarla in questo modo: varando una legge, il tea act appunto, che istituisce il monopolio della Compagnia del commercio del tè nelle Colonie nordamericane. Questa decisione che a noi parrebbe di scarsa rilevanza ebbe tuttavia l’effetto di alzare ulteriormente la tensione e di sfociare nei primi episodi di ribellione aperta e conseguente repressione. Prima però cerchiamo di comprendere le rispettive posizioni. Il governo North ritiene legittima questa azione in quanto nel Parlamento risiede la rappresentanza virtuale (vedi sopra) di tutto l’impero. Il che significa anche che tutto l’Impero deve essere funzionale agli interessi della madrepatria. Il fallimento della Compagnia delle Indie Orientali, in quest’ottica, può venire evitato concedendole il lucroso monopolio del commercio del tè in America, in quanto questo è l’interesse complessivo dell’amministrazione dell’Impero, interesse che è compito del solo Parlamento inglese individuare e perseguire. Dal punto di vista delle Colonie tutto ciò era visto invece come un abuso. Certamente, i grandi commercianti americani che importavano il tè furono danneggiati economicamente dal provvedimento del tea act, ed erano certo personaggi molto influenti politicamente grazie alle loro ingenti ricchezze. Si trattava comunque degli interessi di una minoranza molto esigua, ancorché potente. Perché allora vine recepito come un abuso? Lo si può comprendere solo al livello delle questioni di principio: ormai, nel clima di crescente tensione tra Colonie e Madrepatria, che il Parlamento attuasse un provvedimento in cui era ribadita in modo così plateale la subordinazione coloniale degli americani agli interessi inglesi risultava semplicemente odioso e inaccettabile. Che non sia tanto una questione di interessi economici quanto di “principi”, lo si evince da questo dato: grazie al monopolio della Compagnia delle Indie giunse in America un tè di qualità migliore e a prezzi inferiori di quanto non fossero riusciti fino ad allora ad assicurare i grandi commercianti locali. Eppure, il Tea act suscitò grandissima indignazione nell’opinione pubblica, e molto forte fu anche il consenso popolare all’azione di sabotaggio nota come Boston Tea Party: il gruppo dei Sons of Liberty (vedi sopra), travestiti da indiani, distrusse il carico delle navi della Compagnia ancorate nel porto di Boston gettandolo in mare. La reazione del governo North fu durissima: inviò truppe per il diretto controllo militare sul territorio (e quindi con un maggior carico fiscale sulle stesse Colonie per mantenerle), e decise un aumento straordinario dei poteri dei governatori - con conseguente diminuzione di quello delle assemblee coloniali. Il Quebec Act Il Quebec Act del 1774 segna un altro punto di rottura. Il Quebec era una colonia di popolamento francese acquisita dall’Inghilterra nel 1763. La nuova legge, oltre ad inglobare nel territorio del Quebec anche i territori ad ovest delle Colonie del Nord e del Centro (attuali Illinois, Indiana, Wisconsin, Michigan, Minnesota), garantiva la libertà di culto ai cattolici, non legando più cioè la fedeltà tra sudditi e corona al protestantesimo [cfr. Bill of Rights del 1689 e Conformity Act, detto anche Toleration Act del 1711: tolleranza religiosa per tutte le confessioni tranne che per i papisti, cioè i cattolici]. Perché questo provvedimento è inviso alle Colonie? Perché le Colonie temevano che l’ordinamento dato al Quebec facesse da precedente per un possibile futuro intervento inglese nell’ordinamento delle Colonie. Gli stati del New England, inoltre, avevano nel puritanesimo un forte elemento identitario: il diritto garantito per legge ai cattolici del territorio confinante urtava i sentimenti da sempre antipapisti dei puritani. Infine la costituzione del territorio del Quebec andava ad inglobare territori ad ovest dei monti Appalachi che costituivano la “naturale” direttrice di espansione delle Colonie del Nord e del Centro: il governo inglese si poneva quindi come arbitro insindacabile della situazione, contro gli interessi dei coloni. Le proteste per il Quebec Act si diffusero nelle maggiori città ma furono anch’esse represse con la forza. Ancora nell 1774 però la situazione, nonostante l’acceso contrasto che durava ormai da oltre un decennio, forse era ancora salvabile. MA il governo inglese non comprese la vera portata delle proteste (le questioni “di principio”) e attuò una dura repressione militare che ottenne come risultato l’esacerbarsi del contrasto, punendo con provvedimenti restrittivi le singole città e territori (quindi non cogliendo o negando la dimensione “americana” delle proteste). Il 1° Congresso Continentale di Philadelphia, 1774 La risposta delle Colonie andò invece proprio nella direzione di dare una dimensione unitaria, quindi “americana”, al conflitto. Non c’era ancora, se non nei pensieri di pochi, il sentimento di una comune appartenenza nazionale; ma era forte quello di una comunanza di interessi e di un comune nemico da affrontare. Nel 1774 si aprì quindi il 1° Congresso Continentale a Philadelphia, espressione politica dell’Unione delle 13 Colonie. In tutte le 13 colonie si elessero rappresentanti da inviare al Congresso. L’ideale che accomunava i delegati in questa fase era la “difesa della libertà”. Una libertà ritenuta violata dall’arroganza inglese la quale derivava dalla “corruzione” dei costumi delle elites britanniche, dimentiche dello spirito dei padri delle Rivoluzioni del ‘600. Quindi, NON (ancora) l’indipendenza! Largamente maggioritaria era dunque la linea moderata. Le risoluzioni del congresso si riassumono in 2 punti: ● A chi? Viene formulata una petizione inviata direttamente al Re Giorgio III, quale istituzione di garanzia superiore dei diritti dei sudditi americani violati dal Parlamento ● Che cosa? La petizione chiedeva l’abrogazione di tutte le norme post-1763. Il fatto che la petizione sia inviata direttamente al re è molto importante. Alcuni dei pubblicisti più influenti, tra cui ricordiamo Thomas Jefferson, Edmund Burke e James Wilson, proponevano infatti il rigetto totale dell’autorità del Parlamento inglese: il legame legittimo tra le Colonie e l’Inghilterra risiederebbe solamente nella figura del Re. Essi teorizzano una sorta di ‘Costituzione Imperiale’, secondo la quale si potessero regolare in maniera certa ed equa i rapporti tra sudditi ed autorità: la lotta contro i “soprusi” del Parlamento condotta dalle Colonie era quindi pensata come una lotta per la libertà di tutti i popoli dell’Impero britannico. NB: in Inghilterra questa idea è però recepita come una regressione rispetto alle conquiste della Glorious Revolution! (Perché? vedi es. Bill of Rights) Quale idea di Costituzione? Tra Inghilterra e Colonie c’era quindi un profondo dissidio sull’idea di costituzione (= la legge fondamentale dello stato), ovvero su quale dovesse essere la massima fonte dell’autorità e della garanzia dei diritti dei sudditi. In sintesi le due posizioni: ● Inghilterra: il Parlamento ha sovranità sopra la Corona e sopra la Legge (in quanto il Parlamento è il detentore del potere legislativo) ● Colonie: la Legge (cioè l’ipotetica Costituzione Imperiale promossa da Jefferson) è al di sopra del Parlamento, poiché solo la legge costituisce un freno al potere; MA il garante della legge rimane il Re. Di fatto, la posizione dei whig americani, maggioranza nel Congresso di Philadelphia, avrebbe avuto come conseguenza un rafforzamento dei poteri del Re a discapito di quelli del Parlamento. Di più: avrebbe riportato nelle mani del Re la sovranità, la fonte suprema dell’autorità e del diritto; ovvero, la situazione inglese prima delle rivoluzioni del ‘600! La reazione dell’Inghilterra e l’inizio degli scontri armati Nonostante le proposte americane rappresentassero un’occasione per rafforzare il potere della corona, re Giorgio III si schierò dalla parte del Parlamento, rigettando la petizione del Congresso e affermando il diritto del Parlamento di legiferare per tutti i casi e su tutti i territori dell’Impero. In sintonia con il governo North, si decise per il pugno duro contro le rivolte locali scoppiate in diverse città americane. Il generale Gage, comandante in capo dell’esercito, è nominato nuovo governatore generale.Tutte le proposte di mediazione rimasero inascoltate. Nel frattempo, nelle Colonie si formarono delle milizie volontarie armate. E’ un momento drammatico, la popolazione si divide tra: ● “patrioti”, ovvero i whig americani, maggioranza nel Congresso, contro i ● “lealisti” filo britannici. Nell’aprile del 1775: iniziano gli scontri armati e le prime battaglie campali (Lexington). La Dichiarazione di Indipendenza, 1776 Nei manuali di storia l’inizio della Guerra d’Indipendenza americana viene ricordata con la data del 1776, e non con gli scontri del 1775. Perché? Perché il 2° Congresso Continentale di Philadelphia, che dal 1775 aveva assunto poteri e responsabilità di governo provvisorio (come invece non aveva fatto il 1° Congresso), nel 1776 proclamò ufficialmente la Dichiarazione di Indipendenza. (Sotto: dipinto illustrativo) Si tratta di un cambiamento importantissimo. Analizziamolo: All’inizio degli scontri armati nel 1775 il Congresso ritiene che la necessità delle armi sia solo “difensiva”: in difesa della libertà, e ciò significava avere l’obiettivo di ritornare allo status legislativo pre-1763. Nessuno vede ancora quanto sta avvenendo come una Rivoluzione! L’interpretazione maggioritaria del conflitto era: ritornare a quei principi di libertà e rispetto dei diritti che il Parlamento inglese aveva pervertito. La proposta politica del Congresso mira ad ottenere una “nuova costituzione” per l’Impero britannico, con distinti parlamenti con potere legislativo per Inghilterra e Colonie, uniti nella figura del Re. All’inizio del 1776 nel Congresso c’è già chi propone l’indipendenza totale dalla corona britannica (ricordiamo John Mason, Samuel Adams, John Adams) VS i whig moderati (Hankock, Morris) e i conservatori (Dickinson, Duane). Moderati e conservatori sperano entrambi che l’intervento di re Giorgio III ponesse fine al conflitto, come mediatore tra le parti. Fu perciò grande la delusione quando Giorgio III sostenne apertamente l’operato del governo North, e diede il suo avvallo ad una campagna di arruolamento di mercenari tedeschi da impiegare in Nord America a fianco delle truppe regolari. Il conflitto diviene ora “totale”: re e governo North prepararono piani di alleanza con le nazioni Indiane, sia all’interno dei territori delle Colonie sia ad ovest degli Appalachi, e addirittura progetti di liberazione degli schiavi africani. Quest’ultimo, si capisce, non era espressione di ideali di uguaglianza umanitaria ma un modo efficace per mettere in ginocchio l’economia delle Colonie (del Sud), oltre che per avere alleati contro le milizie americane (ricordiamo che gli schiavi africani costituivano ca. il 20% della pop.tot.). A questo punto per i delegati del Congresso appare chiaro: l’alternativa è tra la sottomissione e l’indipendenza. Viene scelta la seconda opzione. Il 4 luglio 1776 il Parlamento, ormai a maggioranza indipendentista (leader: Paine, Franklin, Adams, Jefferson) proclama la Dichiarazione di Indipendenza. Il documento fu scritto principalmente da Thomas Jefferson. La Dichiarazione non fu però votata all’unanimità: dobbiamo ricordare come esistesse nel Congresso una forte minoranza lealista, contraria alla rottura con gli inglesi. La Dichiarazione proclamava lo scioglimento dei vincoli con l’Inghilterra in nome dei diritti inalienabili (vita, libertà, proprietà, ricerca della felicità) che sono propri della natura dell’uomo. Diritti che gli inglesi avevano violato: era quindi legittimo ribellarsi e costituire un nuovo potere statale che li tutelasse. La forma statale scelta dalla nuova nazione indipendente è quella della Repubblica. Le assemblee delle varie Colonie si dotarono, su indicazione del Congresso, di proprie costituzioni: d’ora in poi si chiameranno ‘stati’ a tutti gli effetti. (Sotto: ritratto di Thomas Jefferson) La guerra 1776-83: battaglie ed eventi principali Seguiamo ora brevemente le vicende belliche. Ancora nel 1775 venne costituito, su mandato del Congresso, un esercito dell’Unione delle Colonie posto sotto la guida di George Washington. Da notare che fin da subito ci fu anche molta attenzione, da parte del Congresso, al controllo dell’ordine interno. C’era cioè la preoccupazione per possibili disordini e rivolte popolari, poiché l’autorità inglese si stava ormai disfacendo e quindi non c’era più il tradizionale potere legittimo che tutelava, per esempio, la proprietà privata. Nei primi due anni di guerra furono le truppe inglesi, meglio equipaggiate ed organizzate, ad avere la meglio: ricordiamo l’occupazione di New York, nel 1776, e addirittura di Philadelphia, la città del Congresso, nel 1777. MA già nello stesso anno abbiamo anche la prima grande vittoria dell’esercito dell’Unione, nella battaglia di Saratoga. Nel 1778 la Francia interviene a fianco delle Colonie ribelli (ricordiamo l’azione politica di Franklin), seguita dalla Spagna nel 1779 (entrambe rivali della potenza coloniale inglese). L’impegno in America avrà due conseguenze importanti per Francia: 1. tra le milizie impegnate sul territorio americano si diffonderanno gli ideali che animavano i patrioti americani: su tutti, il “diritto alla libertà”, anche a costo di rivoltarsi in armi contro l’autorità costituita quando questa si dimostra “indegna”; 2. l’ingente impegno economico rende ancor più grave la situazione delle già dissestate finanze francesi. E’ per tentare di porre rimedio a questa situazione che nel 1789 il re Luigi XVI si deciderà a convocare l’assemblea degli Stati Generali, in un clima di malcontento e proteste che sfoceranno infine nella Rivoluzione Francese. Alcuni tra gli esponenti più in vista della Francia rivoluzionaria sono veterani della spedizione in Nordamerica (il più famoso: La Fayette, aristocratico liberale e capo della Guardia rivoluzionaria) Il 1780 è l’anno più duro per l’Unione, con l’Inghilterra che, nella controffensiva seguita alle prime pesanti sconfitte, oltre a New York e Philadelphia ha invaso anche la Carolina del Sud e la Georgia. MA nel 1781 avvenne la decisiva battaglia di Yorktown, dove le truppe di Washington supportate dai francesi di La Fayette sconfissero duramente gli Inglesi. A questo punto la guerra prende decisamente un verso favorevole agli insorti. Il governo North dopo la sconfitta di Yorktown rassegna le dimissioni. Il nuovo esecutivo guidato da Rockingham e Shelbourne è di orientamento pacifista: si aprono i negoziati di pace, anche se le operazioni belliche proseguono fino al 1782. Nel 1783 i trattati di pace di Parigi sanciscono l’indipendenza degli Stati Uniti d’America dalla corona inglese. (Sotto: ritratto di George Washington) Che impatto ebbe la Guerra di Indipendenza sulla società americana? Non dobbiamo pensare che tutti gli abitanti delle 13 Colonie dell’Unione, ora Stati Uniti d’America, si sollevarono in massa accomunati dal sentimento patriottico contro l’oppressore inglese. Lo studio della storia serve anche a renderci critici verso ogni spiegazione semplicistica dove troppo facilmente si parla di una presunta “volontà generale” di una qualche popolazione (inclusa in una nazione, uno stato o qualsiasi altro raggruppamento). Spesso i vari passaggi e cambiamenti nella storia di un popolo comportano spaccature e lacerazioni nella società; le quali, spesso, sono messe in ombra nella tradizione storiografica successiva in quanto la narrazione dei “vincitori” tende ad oscurare le esperienze di coloro che non hanno vinto, o che comunque incarnano una esperienza “alternativa” a quella ufficiale. Non fa eccezione a questa costante storica la Guerra d’Indipendenza (o Rivoluzione Americana, come abbiamo preferito chiamarla noi). Qualsiasi statistica relativa ai sentimenti, alle idee e alle opinioni di società lontane da noi nel tempo vanno sempre considerate come approssimative; eppure possiamo ricavarne importanti indicazioni per comprendere la situazione. I “lealisti”, cioè gli americani che si mantennero fedeli alla corona inglese, anche se furono una minoranza, costituivano una parte consistente della popolazione, specialmente in alcuni stati. Semplificando, ecco alcuni numeri: ● Si stima che ca il 20% della popolazione si mantenne leale all’Inghilterra (NB: si fa riferimento solo alla popolazione potenzialmente attiva politicamente e militarmente all’epoca; ovvero, i maschi bianchi liberi e maggiorenni). ● Ma i sentimenti lealisti non erano diffusi allo stesso modo all’interno dei diversi stati. La percentuale più bassa l’abbiamo nel New England (le colonie, ora stati, del nord puritano), dove si stima fosse del 10-15%. Percentuali più alte al Sud (25-35%), ma ● ● ● la più alta in assoluto si stima per lo stato di New York (centro) con il 50%: una società spaccata a metà. Da rilevare come dato importante il fatto che tra le minoranze di origine non inglese e tra le minoranze religiose (le varie sette, i cattolici) il sentimento lealista fu maggioritario: come se percepissero la corona inglese come una garanzia di maggiore tutela per il loro status di minoranze. Ciò fu vero soprattutto per i nativi americani: l’espansione ad Ovest sarà uno dei principali motori dell’ulteriore crescita dei neonati Stati Uniti, e al contempo sarà una catastrofe e un genocidio per le nazioni indiane. Uno dei dati statistici più verificabili è questo: dopo la fine del conflitto e l’indipendenza lasciarono le ex Colonie inglesi (per lo più diretti verso l’Inghilterra o il Canada) tra le 60.000 e le 80.000 persone (facendo le proporzioni sull’attuale popolazione Italiana, è come se lasciassero il paese tra i 1,5 e i 2,0 mln) Resta il dato molto importante che fu coinvolta attivamente nella Rivoluzione (non solo nella partecipazione attiva nelle milizie, ma anche come supporto e partecipazione ai dibattiti, boicottaggi, ecc.), secondo le stime, il 40% della popolazione, la maggioranza relativa. Dalla Rivoluzione nascono nuove istituzioni: società, idee, questioni aperte Il dibattito sull’assetto costituzionale Più sopra abbiamo parlato delle idee, delle questioni di principio poste dagli insorti, del dibattito sulla ‘rappresentanza’, sulla ‘costituzione’. Ricordiamolo: i coloni americani non avevano combattuto solo per l’indipendenza dai vincoli coloniali, ma anche per delle questioni di principio principio: la libertà, l’uguaglianza, la sovranità popolare. Quale ordinamento statale costruire ora che potesse essere all’altezza di tutto questo? I principi nominati sopra confluivano nel ‘repubblicanesimo’, un sistema di ideali fatti propri da molti dei protagonisti della Rivoluzione Americana: gettare le basi di una nuova repubblica, questo il compito a cui doveva rispondere il Congresso. Non significava solo un ordinamento statale, ma anche una visione della società, una “riforma morale” (cfr. Great Awakening) tanto degli individui quanto delle collettività. MA la costruzione di un nuovo ordinamento costituzionale è un processo complesso. Dopo il periodo di unità dovuto al conflitto, emergono le differenti posizioni. Semplificando un po’, diremo che una delle polarità più significative che alimentava il dibattito sulla costituzione del nuovo stato contrapponeva i principi dell’‘individualismo’ e quelli del ‘collettivismo’: ● il primo pone l’accento sulle libertà individuali, da difendere dalle ingerenze del potere, certo, ma che anche richiedono una nazione forte per perseguire meglio gli interessi della libera iniziativa dei singoli; ● il secondo invece guarda alla dimensione comunitaria come contrapposta agli egoismi individualistici, intendendo le comunità locali come le sole in cui la rigenerazione morale si potesse effettivamente compiere, di contro agli egoismi degli interessi particolari. Il dibattito sul nuovo apparato istituzionale da costruire era attraversato da questa polarità. Es. il diritto di voto: meglio seguire la tradizione del voto in rappresentanza delle entità collettive (contea, città, stato) o il principio per cui ad ogni individuo doveva corrispondere un voto (purché limitato da sbarramenti di censo)? Il diritto di voto doveva competere ai “migliori”, coloro che avevano gli strumenti culturali per guidare al meglio la nazione? Oppure doveva estendersi il più possibile per poter davvero rappresentare tutta la popolazione (ma in tal caso l’orizzonte in cui la partecipazione alla vita politica poteva avere piena realizzazione era quello locale)? Sicuramente la società americana permetteva, nella sua dinamicità, un grado di eguaglianza sconosciuto in Europa. Non dobbiamo dimenticare però la condizione di completa subordinazione delle donne, degli schiavi africani, delle popolazioni indiane. La “libertà” fu certo messa molto più in risalto rispetto all’”uguaglianza”. Il “noi” collettivo che parla attraverso i documenti del Congresso a partire dalla dichiarazione di Indipendenza (“We the people…”) pur volendosi universale, è sempre in realtà particolare: anglosassone, maschio, libero, maggiorenne, proprietario e/o attore economico. C’è chi comincia ad avvertire tali contraddizioni; ad esempio, già durante il fermento del Great Awakening c’erano state le prime pubblicazioni anti-schiaviste, e quelle idee avevano alimentato quelle di molti fautori dell’assetto costituzionale repubblicano. Ora però che la Costituzione andava scritta, bisognava decidere: schiavismo o abolizione? La condizione delle minoranze: neri e indiani Vediamo le condizioni delle minoranze: schiavi neri di origine africana e nativi indiani. Per quanto riguarda il destino dei neri, ovvero la prosecuzione della schiavitù o l’abolizione, le due visioni contrapposte rispecchiavano i diversi interessi economici tra Nord e Sud (vedi sopra). Le motivazioni politiche che corrispondono agli interessi economici hanno grande influenza anche sulle differenti idee di ordinamento statale, in particolare sul rapporto tra lo stato unitario (che si sta costruendo) con i singoli stati (ovvero ciascuna delle ex 13 colonie che si sono dati delle costituzioni già durante la guerra). Per gli stati del Sud gli schiavi erano fondamentali per l’economia, e quindi erano alla base anche del sistema sociale che lì si era creato. Qui la difesa dello schiavismo significava nientemeno che la difesa della proprietà privata, uno di quei diritti inalienabili a cui si appellava già il Bill of Rights. Gli esponenti politici del Sud sostenevano che un potere federale non avrebbe mai potuto legiferare in tema di schiavitù, proprio per i differenti interessi economici esistenti tra Nord e Sud. Al Nord la presenza di schiavi era esigua: l’assetto dell’economia e della società non lo richiedevano. Non per ragioni umanitarie, sia chiaro; anzi, va detto che la maggior parte degli imprenditori nella lucrosissima tratta degli schiavi provenivano dagli stati del Nord. Semplicemente, la diffusa piccola e media proprietà agricola e soprattutto l’importanza dei centri urbani e delle attività economiche a essi collegate (commerci, artigianato, professioni) non prevedevano l’impiego di manodopera schiavizzata. Per questo motivo, alcuni degli esponenti politici locali erano più sensibili ai temi umanitari dell’abolizionismo. Come conciliare infatti la schiavitù con i famosi “principi” repubblicani? Il Sud avrebbe voluto incrementare l’importazione di schiavi in vista dell’espansione ad Ovest; in vista della stessa espansione, il Nord propendeva per una diffusione della media e piccola proprietà, sfogo della crescente popolazione urbana. L’espansione ad Ovest riguardava inoltre direttamente il destino delle popolazioni indiane. La vittoria delle Colonie insorte, di fatto, innescò il processo che determinò nel giro di un secolo la quasi totale scomparsa delle nazioni indiane (cioè di quel che ne era rimasto dopo le grandi epidemie che dal XVI decimarono la popolazione - vedi sopra situazione iniziale). Alcune di queste contrapposizioni (e contraddizioni) rimarranno latenti e segneranno profondamente le vicende del nuovo stato, per esplodere, circa 80 anni dopo, in una sanguinosissima Guerra Civile (1861-65), al termine della quale la schiavitù venne abolita in tutti gli Stati Uniti. Ciò non significò però l’emancipazione degli ex-schiavi; leggi segregazioniste furono adottate dalla maggior parte degli stati del sud e dovette passare un altro secolo prima della loro abolizione (anni ‘60 del ‘900). Le statistiche sul grave divario di ricchezza della maggior parte delle famiglie afroamericane rispetto a quelle dei bianchi e il ricorrente esplodere di rivolte a motivazione razziale anche nell’America dei nostri giorni ci fanno comprendere come la questione sia tutt’altro che risolta. Le principali idee politiche Cominciano a delinearsi delle linee politiche distinte (non ancora partiti), con due differenti visioni su come dovessero essere gli “Stati Uniti d’America”. Vediamo le due principali: ● Liberalismo: esponenti di primo piano Alexander Hamilton e Robert Morris. Vogliono un potere federale forte, che sia in grado di integrare tutto il continente in un sistema economico capitalistico. I valori fondanti sono l’individualismo, la competizione economica, il progresso indefinito. La società immaginata è basata sui commerci, sulle città, sul potere finanziario, sul ruolo dei grandi attori economici. In definitiva, gli USA sarebbero dovuti diventare uno stato nazionale che avrebbe dovuto imporsi come una nuova potenza nel consesso internazionale. ● Repubblicanesimo tradizionale: leader Thomas Jefferson. Propongono una politica in difesa dei ceti popolari e delle comunità agricole. Per questo motivo vogliono ampi poteri per i singoli stati, contro un accentramento a livello federale. Hanno una visione idealizzata della società agricola, con forti connotazioni morali, come se essa fosse l’autentica depositaria dei valori del patriottismo, del civismo, del comunitarismo, e in definitiva della “virtù”. Vogliono gli USA come un “grande paese agricolo”. Paradossalmente però (o forse no?), proprio a questa tradizione si rifaranno molti dei difensori dello schiavismo, fino alla guerra civile del 1861-65. Contrasti tra gli stati: la corsa al’Ovest I primi contrasti tra gli stati sorgono proprio a proposito della “corsa all’Ovest”: c’è grande rivalità nell’accaparrarsi i territori! Chi ha l’autorità sui nuovi territori, i singoli stati o l’unione? C’era inoltre la questione delle nazioni indiane lì insediate. Fu grazie a Thomas Jefferson che venne definitivamente stabilita la competenza federale sui Territori dell’Ovest. (Sotto: la Frontiera in espansione nell’800 e le date di costituzione e annessione degli stati o dei territori all’unione) La Costituzione degli Stati Uniti d’America Abbiamo visto come si siano delineate due linee politiche, due visioni del futuro della nuova nazione. Il dibattito più importante è quello sul potere dell’unione contrapposto a quello dei singoli stati. Sulla prevalenza da assegnare ai primi o al secondo si dividono gli schieramenti con diverse concezioni del federalismo: ● federalismo contrattuale (es. John Adams): vogliono che gli USA siano una confederazione, cioè un’unione debole; la maggior parte delle competenze è assunta dai singoli stati ● federalismo nazionale (es. George Washington): vogliono che gli USA siano una federazione nel senso forte, uno s tato nazionale con un forte potere accentrato Soltanto con la soluzione “intermedia”, il compromesso che la Convenzione costituente saprà trovare nel 1787, la Rivoluzione potrà dirsi “compiuta”: il risultato è la Costituzione degli Stati Uniti d’America. La Convenzione costituente fu l’assemblea rappresentativa dell’intera unione delle ex colonie incaricata di redigere il documento della Costituzione. Era formata da 55 delegati provenienti da tutti gli stati e appartenenti alle elites locali. Essa delibererà il documento che, salvo alcune modifiche minori, è la carte costituionale tutt’ora in vigore negli USA. Tra i protagonisti della stesura del documento, capace di equilibrare le diverse istanze della nazione, ricordiamo Hamilton, Madison e Morris. (Sotto: l’incipit della Costituzione americana) Schematicamente, i punti principali della Costituzione USA: ● Il potere legislativo è assegnato al Congresso elettivo. Il principio è quello della sovranità popolare, che risiede quindi nel popolo tutto degli Stati Uniti, e non nei singoli stati. Questa fu la vittoria sostanziale dei “federalisti” (vedi dopo), che però fu bilanciata dalle competenze legislative riservate ai singoli stati. Il Congresso è suddiviso in 2 assemblee, Camera e Senato, con differente durata delle legislature ma con pari potere e competenze quasi identiche. Si dice in questo caso “bicameralismo perfetto”: una qualsiasi legge per essere approvata deve essere votata sia alla camera che al senato. Il numero di rappresentanti alla camera destinati a ciascuno stato è determinato in proporzione alla sua popolazione sul totale nazionale. Il numero di senatori (due) invece è il medesimo per ciascuno stato. In questo modo è salvaguardato sia il principio della rappresentanza equa su base nazionale, sia quello dell’indipendenza dei singoli stati, in cui anche i piccoli stati non sono prevaricati nella rappresentanza al congresso da quelli più grandi e popolosi. Il potere legislativo del Congresso ha dei limiti costituzionali rispetto al potere legislativo delle assemblee statali: le competenze sono dunque distinte, e il Congresso non può legiferare in quelle esclusive delle assemblee statali. Ad es. competenze esclusive del Congresso sono la difesa, la moneta, il commercio internazionale, fisco, cittadinanza, tribunali federali, bilancio statale. Competenze dei singoli stati con conseguenze importanti nella situazione post-indipendenza furono ad es.: i criteri di partecipazione politica (diritto di voto), e la legislazione sulla schiavitù (questa fu una concessione fondamentale per mantenere nell’unione gli stati del Sud). ● ● ● Il potere esecutivo è assegnato al Presidente, eletto non dai rappresentanti del Congresso ma direttamente dal popolo (in realtà attraverso la mediazione dei “grandi elettori”, in proporzione variabile per ciascuno stato). Il presidente nomina un gabinetto di ministri di sua fiducia. I due poteri, legislativo ed esecutivo, sono così assegnati ad istituzioni completamente separate ed autonome (a differenza es. dell’Italia, in cui l’esecutivo - il governo - deve rispondere al parlamento, che può sfiduciarlo). L’esecutivo ha molti poteri, esclusivi per quanto riguarda la politica estera e il comando dell’esercito. Partecipa in parte anche al potere legislativo, attraverso le “raccomandazioni” al Congresso che però non sono vincolanti, e con la possibilità di rimandare al Congresso le leggi con cui non è d’accordo. In questo caso però, se il Congresso le riapprova con la maggioranza dei ⅔, il presidente deve poi avvallarle. C’è un sofisticato sistema di pesi e contrappesi nei rapporti tra presidente e congresso. Il presidente non può sciogliere le camere; queste non possono chiederne le dimissioni (salvo casi di grave natura penale, per i quali può scattare la procedura dell’impeachment). Il potere giudiziario tutela la Costituzione, la sua difesa e la sua applicazione. L’istituzione incaricata del potere giudiziario sono i tribunali federali, che affiancano quelli preesistenti statali. La Corte Suprema vigila sul rispetto costituzionale delle nuove leggi. C’è quindi un doppio sistema legislativo, federale e statale. La giustizia federale è posta ad un livello superiore rispetto a quella statale, nel senso che la costituzione, le leggi federali e i trattati internazionali sono vincolanti anche per la legislazione dei singoli stati. Viene perciò realizzato il principio per cui una legge fondamentale scritta è la fonte di ogni legittimità e la garanzia contro le ingerenze, tanto del potere centrale che degli interessi locali. I famosi “Dieci emendamenti”, inclusi nella costituzione nel 1791. Gli emendamenti sono “aggiunte”alla costituzione del 1787 (successivamente ne vennero aggiunti altri oltre ai primi 10, che restano quelli fondamentali). I primi 10 emendamenti inseriscono direttamente nella Costituzione la tutela dei “diritti inalienabili” propri di ogni essere umano: le libertà fondamentali (vita, opinione, religione), i diritti fondamentali politici, il diritto alla proprietà privata, e il diritto “alla ricerca della felicità”. In seguito la Costituzione dovette essere ratificata dalle assemblee dei singoli stati. Non fu un processo facile, ma caratterizzato da accese discussioni e da resistenze da parte dei politici “localisti”. Si concluse nel 1790, quando anche l’ultima delle ex 13 Colonie ratificò la nuova costituzione. Nello stesso anno fu quindi eletto il primo presidente degli USA, l’ex generale dell’esercito dell’unione George Washington (federalista). I primi due partiti politici Già all’interno della Convenzione, le linee politiche e le diverse visioni sull’assetto costituzionale dello stato formarono l’embrione di quello che saranno i due principali partiti politici del Congresso USA. Il bipartitismo impronterà la vita politica degli USA fino ai giorni nostri. NB: i due partiti delle origini NON corrispondono ai due partiti attuali (democratici e repubblicani). I due partiti erano: ● Federalisti: raggrupparono l’orientamento economico-politico liberale, quello nazionalista (gli USA come stato nazionale forte) e l’idea di federalismo nazionale di Washington e Hamilton. Gli storici che hanno ricostruito il pensiero dei maggiori esponenti federalisti parlano di una visione “elitaria” della democrazia; la repubblica andrebbe infatti “condotta” con saggezza da coloro che costituiscono - per ceto e istruzione - la parte “migliore” della nazione: secondo un processo di competizione e selezione individualistica. Essi guardavano con diffidenza all’ascesa numerica della classe media la forza della quale, con l’allargamento della partecipazione politica, avrebbe potuto condurre ad una sorte di “tirannia della maggioranza”, con il destino dello stato in balia degli umori variabili della massa instabile. L’interesse nazionale generale andava quindi tutelato dagli interessi egoistici di singoli territori e dagli scontri clientelari a livello locale. ● Repubblicani (in origine anti-federalisti, detti “repubblicani” dagli anni ‘90): raccolgono il repubblicanesimo tradizionale di Jefferson (vedi prima) ma anche i fautori dellle tendenze dette “localistiche” (contrapposte a quelle “nazionalistiche”) per cui il potere effettivo doveva rimanere in mano ai singoli stati, riuniti in una confederazione debole (poco invasiva e vincolante) soltanto per le questioni di politica estera. L’accento è posto sul potere e le libertà dei singoli stati e delle singole comunità, da difendere dalle ingerenze federali. La fonte di ogni potere legittimo, la volontà popolare, trova infatti la sua massima espressione nelle assemblee locali; pertanto essa non poteva - secondo la loro visione - essere deprivata del suo ruolo da un potere centralistico federale, per sua natura troppo distante dalle realtà locali. Qui si riunirono sia i difensori delle elites locali (a livello statale) quanto i sostenitori di un genuino allargamento popolare e democratico della partecipazione politica. Tendenzialmente, furono maggiormente federalisti gli stati del Nord, e quindi tra le loro file vi erano molti esponenti degli interessi economici capitalistici, finanziari e commerciali. Gli interessi economici degli stati agricoli del Sud, ovvero quelli dei grandi proprietari terrieri schiavisti, tendenzialmente ebbero rappresentanti repubblicani. NON dobbiamo però accentuare troppo l’identificazione degli interessi economici con le idee politiche. E’ vero che c’è una correlazione, ma ricondurre il dibattito politico ai soli interessi economici è uno schematismo troppo semplicistico. I primi presidenti degli USA, a partire da George Washington, furono federalisti. Lo sviluppo della nazione nell’800 fino al primo ‘900 La prima metà dell’800 fu un periodo di spettacolare crescita economica e di popolazione, di cui beneficiarono maggiormente gli stati del Nord (e del Centro), molti dei quali ebbero una rapida industrializzazione. Non così per gli stati del Sud, che si impoverirono progressivamente. Nel frattempo la corsa all’Ovest ebbe un ulteriore notevole impulso dalla costruzione delle prime linee ferroviarie (la prima ferrovia è del 1830). Nuovi territori venivano annessi agli Stati Uniti come “territori”; raggiunta una certa soglia di popolazione questi si costituivano in “stati”, che aderivano in quanto tali all’unione federale. Nel 1808 vi fu l’acquisizione della Louisiana, venduta dalla Francia di Napoleone che l’aveva riconquistata dalla Spagna nel 1800: non corrisponde all’attuale stato USA, ma era un immenso territorio che dalle foci del Mississippi si estendeva fino al Canada e alle Montagne Rocciose. Una guerra contro la Spagna portò alla conquista della Florida (1810-19, stato dell’Unione dal 1845); una guerra contro il Messico (1846-48) il Texas e la California; gli Stati Uniti erano ormai proiettati anche sull’Oceano Pacifico. Per la politica estera USA fu importante cosiddetta “dottrina Monroe”, enunciata dal presidente James Monroe già nel 1823, affermava che gli USA non avrebbero tollerato ingerenze da parte degli stati colonialisti europei (Inghilterra, Francia, Spagna, Portogallo) nelle questioni riguardanti il continente americano (che non fossero le colonie già acquisite). Si può riassumere nel motto “l’America agli americani” (ovviamente non intendendo con ciò i nativi, bensì gli USA). Tale dottrina fu interpretata in maniera diversa nel corso del tempo: inizialmente fu vista come un’opposizione degli USA al colonialismo europeo, in un momento in cui molte nazioni sudamericane stavano combattendo per l’indipendenza; i presidenti USA di fine ‘800 agirono però in modo tale da intendere la dottrina come l’affermazione della supremazia USA anche sul Centro e Sud America. Nel corso dell’800 enormi masse di europei emigrarono negli Stati Uniti. Oltre alle popolazioni già menzionate in precedenza (provenienti da Inghilterra, Germania, Scandinavia, Francia), molto consistente fu l’emigrazione dall’Est Europa, dall’Irlanda (soprattutto in seguito alla terribile carestia del 1846) e anche, negli ultimi decenni del secolo, dall’Italia. Gli USA superarono i 100 mln di abitanti già ad inizio ‘900. Le contraddizioni e i contrasti che abbiamo delineato sopra, in particolare la differenza sia economica che sociale tra gli stati del Nord e quelli del Sud e la questione dello schiavismo (abolito negli stati del Nord già ad inizio ‘800), portarono nel 1861 ad una sanguinosa e distruttiva guerra civile. Undici stati del Sud dichiararono la propria secessione dall’Unione, e organizzarono un esercito confederato (i “sudisti”) da schierare contro l’esercito dell’Unione (i “nordisti”), in cui militarono anche molti schiavi africani liberati. La guerra causò oltre 600.000 morti (su ca 2,2 mln di effettivi nordisti e 1 mln di effettivi sudisti) oltre ad immani distruzioni. Per capire la proporzione del conflitto tenete conto che si stima in circa 30 milioni la popolazione degli USA nel 1860 (decuplicata rispetto al 1776); circa 600.000 morti furono le perdite nell’esercito italiano durante la prima guerra mondiale, su ca 5,6 mln di effettivi. La guerra si concluse con la vittoria dei nordisti, nel 1865, e l’abolizione della schiavitù, fortemente voluta dal presidente in carica Abramo Lincoln, su tutto il territorio degli USA. La Guerra contro la Spagna (1898) fu vista da molti storici come l’inizio della politica “imperialista” per gli USA, che estesero la propria area di influenza a sud, nei Caraibi (Cuba, prima colonia spagnola, divenne formalmente indipendente ma di fatto protettorato americano) e nel Pacifico (occupazione USA di Manila nelle Filippine spagnole). L’intervento USA (1917) nella 1° Guerra Mondiale (1914-18), decisivo per la vittoria di Francia, Inghilterra e Italia contro gli Imperi centrali (Germania e Austria-Ungheria), proiettò gli Stati Uniti anche in seguito alla decadenza post-bellica dell’Inghilterra - al rango di prima potenza economica e militare mondiale.