Note e discussioni Verso una “nuova storia” del Mezzogiorno?

N o te e discu ssion i
Verso una “nuova storia” del M ezzogiorno?
di Costantino Felice
Da alcuni anni la storiografia sul Mezzo­
giorno, in un contesto di generale ripensa­
mento di tutta la contemporaneistica, è sot­
toposta a sollecitazioni che ne stanno ridise­
gnando metodi, contenuti ed ipotesi inter­
pretative. Un fitto ed appassionato dibatti­
to, con una innumerevole varietà di propo­
ste ed interventi, si è andato sviluppando
specie a partire dalla seconda metà dello
scorso decennio. Taluni aspetti e momenti si
possono cogliere già attraverso riviste quali
“Quaderni storici”, “Rivista di storia con­
temporanea” , “Italia contemporanea”,
“Studi storici”. Ma assai ricco è stato anche
il proliferare di convegni e pubblicazioni,
con maggior frequenza dedicati alle vicende
delle campagne meridionali, che si sono pre­
sentati non soltanto come opportunità di di­
vulgazione per lavori di ricerca spesso con­
dotti su specifici ambiti regionali e locali,
quanto soprattutto come insostituibili occa­
sioni di discussione e confronto storiografico1. Ad un certo punto tanto è stato insi­
stente questo interrogarsi — in specifico ri­
ferimento alla realtà del Sud più di quanto
accadesse a livello generale — sul che cosa e
come si fa storia oggi da far ritenere che vi si
esprimesse, come qualcuno ha scritto2, quel
senso di smarrimento che è tipico di una fase
di transizione e assestamento, dopo la crisi
delle grandi filosofie della storia e della so­
cietà.
Dal variegato panorama delle posizioni
(che certo è impossibile ripercorrere qui ana­
liticamente in ogni fase e sfumatura) emer­
gono tuttavia alcune tendenze di fondo che,
con diverse accentuazioni, sembrano con­
vergere tutte verso un principale filone di
storia sociale i cui risultati sul piano delle ac­
quisizioni teoriche e su quello della ricerca
applicata appaiono già di notevole rilievo.
La pars destruens di tale ‘scuola’ si può rias­
sumere in un insieme di critiche rivolte ai
due “vizi” o, se si preferisce, “unilateralismi” più diffusi nella storiografia contempo­
ranea: l’uno consistente nell’assunzione dei
dati quantitativi a criterio esclusivo, o co­
munque predominante, dell’interpretazione
storica; l’altro teso a privilegiare gli elementi
conflittuali, politici, considerati come esau-
1 Per una parziale rassegna di tali iniziative, cfr. Luigi Masella, Mezzogiorno e fascismo, in “Studi storici” , XX
(1979), 4, pp. 779-798; Piero Bevilacqua, Dopoguerra, campagne, Mezzogiorno, ibid., XXI (1980), 4, pp. 797-818;
Salvatore Lupo, Mezzogiorno e questione contadina, in “Italia contemporanea”, 1981, 142, pp. 21-30; Nicola Gallerano, Contadini e Mezzogiorno: su alcuni libri recenti, in “Movimento operaio e socialista” , IV (1981), 4, pp.
495-506.
2 Paolo Macry, Sulla storia dell’Italia liberale: una ricerca sul “ceto di frontiera”, in “Quaderni storici”, XII (1977),
35, p. 521. Per un inquadramento dei principali problemi storiografici oggi in discussione, assai utile, dello stesso au­
tore, è anche Introduzione alla storia della società moderna e contemporanea, Bologna, Il Mulino, 1980.
“Italia contemporanea”, settembre 1987, n. 168
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Costantino Felice
stivi, o comunque fondamentali, rispetto al
complesso delle dinamiche sociali. Il primo
orientamento si è applicato soprattutto alla
storia economica, i cui meriti nell’opera di
svecchiamento ed arricchimento del patri­
monio storico sono fuori discussione, ma
che ad un certo punto è sembrata risultare
sterile e ripetitiva. È stato lo stesso Pasquale
Villani, da sempre fervido sostenitore delle
analisi socio-economiche fondate soprattut­
to su rilevazioni statistiche, ad avvertire —
in occasione del convegno su “Un secolo di
vita unitaria: bilancio storiografico”, svolto­
si nel dicembre 1976 a Napoli su iniziativa
dell’Istituto universitario orientale — che “si
è corso e si corre il pericolo di cadere in po­
sizioni di volgare economicismo, per cui —
per dirla con Hobsbawm — le teorie dello
sviluppo sembrano basarsi ‘su ipotesi da li­
bro da cucina, anche se molto più raffinate:
prendete i seguenti quantitativi degli ingre­
dienti da a a n, mescolate e cuocete e il risul­
tato sarà il decollo verso la crescita auto­
noma’”3.
Analoghe cautele egli manifestava, qual­
che anno più tardi, nel tracciare il consun­
tivo di un “ventennio di ricerche” ad un al­
tro importante convegno, quello svoltosi a
Bari nell’aprile 1979 sulla storia delle cam­
pagne meridionali nell’età moderna e con­
temporanea. Qui Villani, insieme ai nume­
rosi apprezzamenti per quello che si era fat­
to (con particolare riguardo ai lavori di Aymard, Delille, Villari, Galasso, Lepre, Placanica), metteva anche in guardia dagli
“schemi che finiscono per indulgere a forme
economicistiche e deterministiche”, sottoli­
neando il rischio che i modelli, pur utili,
“diventino gabbie di ferro o argomento di
fede”4.
La stanchezza, e talvolta l’insofferenza,
verso la storiografia economica e quantitati­
va trovava intanto le sue espressioni più
pungenti (e in qualche caso per la verità an­
che astiose), sia pure da tutt’altra angolatu­
ra, nelle note pagine di Lawrence Stone II ri­
torno della narrazione: riflessioni su una
vecchia storia, dove — soprattutto in riferi­
mento alla cliometria — si giungeva ad af­
fermare che i risultati di tale indirizzo si era­
no spesso svolti in un miscuglio di inattendi­
bilità e banalità5. L’articolo di Stone suscita­
va in Italia una vasta eco, tanto che i proble­
mi in esso sollevati venivano fatti oggetto di
3 Pasquale Villani, Problemi e prospettive di ricerca: la storia sociale dell’Italia contemporanea, in “Quaderni sto­
rici”, XII (1977), 34, p. 216. Sullo stesso numero cfr. anche Raffaele Romanelli, Storia politica e storia sociale del­
l ’Italia contemporanea: problemi aperti (pp. 230-248); e Edoardo Grendi, Micro-analisi e storia sociale, ivi, pp.
135, 506-520. Gli interventi di Villani e Romanelli sono stati poi pubblicati in A a .V v ., Società e cultura nell'Italia
unita, Napoli, Guida, 1978, che raccoglie gli A tti del convegno di Napoli.
4 Pasquale Villani, Un ventennio di ricerche: dai rapporti di proprietà all’analisi delle aziende e dei cicli produttivi,
in A a .V v ., Problemi di storia delle campagne meridionali nell’età moderna e contemporanea, a cura di Angelo
Massafra, Bari, Dedalo, 1981, pp. 11-12.
A proposito di queste posizioni del Villani, Raffaele Colapietra ha parlato di “conversione centrista”, di cui sa­
rebbe interlocutrice legittima la storiografia “descrittiva” e prolematica di Giuseppe Galasso, Problemi di storia
delle campagne meridionali nell’età moderna e contemporanea: osservazioni e postille, in “Storia e politica” , 1982,
2, p. 181).
Sull’importanza e sui limiti delle inchieste e dei dati statistici nella ricostruzione storica cfr. ancora “Quaderni
storici”, XX (1980), 45, numero monografico dedicato a L ’indagine sociale nell’unificazione italiana. Si veda al ri­
guardo anche Enrico Iachello, Agricoltura e contadini nel Mezzogiorno, in “Studi storici”, XXII (1981), 4, pp.
941-951.
5 “Comunità”, XXXV (1981), 183, pp. 1-25. Ma, in proposito si veda anche il successivo intervento polemico di
Eric Hobsbawm, The Revival o f narrative: Some Comments, in “Past and Present”, 1980,86, pp. 1-8 (l’articolo di
Stone era stato pubblicato sul numero precedente).
Verso una “nuova storia” del Mezzogiorno?
un apposito seminario organizzato dalla
Fondazione Basso6.
Le riserve espresse da Villani al convegno
di Bari venivano riprese e sviluppate — in
una nota critica dedicata agli A tti dello stes­
so convegno — da Piero Bevilacqua, certa­
mente tra i più lucidi e rigorosi protagonisti
di questa “nuova storia” meridionale. Le
sue perplessità investivano la sostanza com­
plessiva delle “traiettorie di ricerca” così co­
me emergevano dal volume e di cui lo stesso
Villani e Maurice Aymard nelle riflessioni
introduttive (il secondo insistendo soprattut­
to sul gap storiografico tra l’Italia e il resto
dell’Europa riguardo agli studi di lungo pe­
riodo su rese produttive, rendite, prezzi) au­
spicavano proficui sviluppi. In particolare
Bevilacqua metteva in dubbio il fatto che
“attraverso una corposa serie di ricostruzio­
ni parziali, elaborate sullo studio dei docu­
menti dei patrimoni delle famiglie feudali e
degli enti ecclesiastici” — come ha sostenuto
uno degli intervenuti al convegno7 — si po­
tesse pervenire ad una sufficiente rappresen­
tazione delle varie congiunture nelle campa­
gne meridionali. Il semplice accumulo di da­
ti economici e di singoli contributi — scrive­
va — difficilmente porta a nuove decisive
acquisizioni di conoscenza: con un uso me­
ramente contabile e cumulativo delle fonti,
l’analisi “rischia di appiattirsi su una descri­
zione senza rilievo, che non è in grado di af­
121
ferrare un orizzonte problematico, né all’in­
terno del suo ambito specifico, né in rappor­
to alla situazione sociale e politica più gene­
rale, che sta attorno all’azienda, feudale o
borghese che sia”8. Come strada alternativa
— o comunque integrativa e correttiva — ri­
spetto alla “logica di ricostruzione quantita­
tiva e seriale” Bevilacqua suggeriva, ad
esempio, una maggiore attenzione alle
“scienze della terra” , all’agronomia, insom­
ma ai condizionamenti dei fattori naturali e
dei processi materiali — la cui cancellazione
dalla vicenda storica era imputata soprattut­
to a Croce —, per poter meglio cogliere
l’uomo nella totalità dei suoi rapporti con
gli altri uomini e con l’ambiente9.
In linea con questi presupposti, Bevilac­
qua si poneva al centro anche dell’altro pun­
to di attacco degli storici sociali, e cioè, co­
me si è anticipato, la denuncia dei limiti e
delle ‘parzialità’ della tradizionale storiogra­
fia d’ispirazione politica. L’occasione per
una dura ‘requisitoria’ veniva offerta dalla
pubblicazione di due volumi collettanei,
Campagne e movimento contadino nel Mez­
zogiorno d ’Italia dal dopoguerra a oggi10,
espressione esemplare del tipo di storia che
era sotto tiro (per discuterne si organizzava
anche un ennesimo convegno, questa volta a
Palermo nell’aprile 1980: “A trent’anni dal­
la riforma agraria: Mezzogiorno, questione
agraria e movimento operaio”). Il principale
6 Se ne veda il resoconto di Gianna Pomata, La storia: scienza o narrazione? in “Quaderni storici”, XVII (1982),
49, pp. 376-379. Ma di rilievo sono anche le considerazioni che, sempre partendo dall’articolo di Stone, ha svolto
Piero Bevilacqua, La storia tra ricerca di identità e conoscenza, in “Laboratorio politico”, II (1982), 5-6, pp. 216229. Sull’argomento fondamentali sono — ovviamente — i richiami di Jacques Le Goff nella sua splendita voce
Storia della Enciclopedia Einaudi, Torino, 1981, voi. 13, pp. 653-654.
S. Zotta, Rapporti di produzione e cidi produttivi in regime di autoconsumo e di produzione speculativa. Le vi­
cende agrarie dello “Stato” di M elfi nel lungo periodo (1530-1730), in Problemi di storia delle campagne meridiona­
li, cit., p. 222.
8 Piero Bevilacqua, Agricoltura e storia delle campagne nel Mezzogiorno d ’Italia, in “Studi storici”, XXIII (1982),
3, pp. 674 sgg.
9 Per ulteriori approfondimenti di questi temi, si veda, dello stesso Bevilacqua, Catastrofi, continuità, rotture nella
storia del Mezzogiorno, in “Laboratorio politico”, I (1981), 5-6, pp. 177-211.
10 Aa .Vv., Campagne e movimento contadino nel Mezzogiorno d ’Italia dal dopoguerra ad oggi, Bari, De Donato,
1979.
122
Costantino Felice
capo di accusa veniva individuato nel fatto rie ed archivistiche) con un successivo con­
che l’orizzonte problematico delle ricerche tributo, dal titolo Movimento contadino e
non si discostasse dalla memoria interna del­ storiografia politica, letto da Bevilacqua al
lo stesso movimento organizzato che era sta­ seminario su “Mezzogiorno e contadini:
to protagonista delle lotte oggetto d’indagi­ trent’anni di studi”, organizzato a Roma
ne: il risultato era una pressoché assoluta nell’aprile 1981 dall’Istituto romano per la
improduttività conoscitiva, dal momento storia d’Italia dal fascismo alla Resistenza e
che gli elementi di giudizio che se ne poteva­ dall’Istituto Cervi12. Nella stessa circostanza
no trarre finivano col coincidere con quelli altre relazioni ed interventi allargavano Io
già ampiamente acquisiti in sede politica e sguardo sia alle ascendenze gramsciane e/o
sindacale. E, a rincarare la dose, Bevilacqua gentiliane di un certo tipo di storiografia
aggiungeva: “Io credo che Campagne e mo­ (Ester Fano), sia specificamente ai diversi
vimento contadino nel Mezzogiorno rappre­ momenti (Anna Rossi Doria dal 1945 al
senti al più alto livello (almeno in alcuni sag­ 1956; Nicola Gallerano negli anni sessanta e
gi fondamentali), e realizzi in pieno, un’illu­ settanta) e settori (Amalia Signorelli per
sione metodologica che domina un po’ tutta l’antropologia; Giovanni Mottura per la so­
la produzione storiografica di ispirazione ciologia e l’economia agraria) in cui, per
politica e in particolare quella che si è occu­ una lunga fase, si era andata articolando la
pata di questo dopoguerra. Illusione che si ricerca sulla realtà meridionale.
Ma l’elemento di novità rispetto ad altre
proietta in due direzioni distinte ma in qual­
che modo fra loro complementari. La prima analoghe dispute del passato era che questa
è data dalla supposizione, mai apertamente volta la messa a nudo delle ingenuità in cui
teorizzata, che la dimensione del sociale non era caduta la storiografia politica — inge­
abbia una relativa autonomia, una propria nuità sulle quali per la verità era già stata
logica di svolgimento, e che quindi non ne­ autorevolmente richiamata l’attenzione dal­
cessiti a livello scientifico di strumenti speci­ l’interno stesso di questa tradizione13 — non
fici per essere indagata [...]. La seconda di­ trovava in sostanza alcuna opposizione, co­
rezione poggia su un altro presupposto: è il me se si stesse sfondando una porta aperta.
convincimento, più o meno esplicito, che Mentre, ad esempio, nella seconda metà de­
per fornire risposte a interrogativi di natura gli anni cinquanta — dopo il decimo Con­
politica la ricerca storica possa limitarsi a gresso internazionale di scienze storiche,
porre domande di carattere politico alle fon­ svoltosi a Roma nel 1955, che segnò l’inizio
in Italia dell’influenza storiografica delle
ti che documentano il passato”11.
Questi temi venivano arricchiti di ulteriori “Annales” —, da parte di prestigiosi storici
indicazioni in positivo (perfino documenta­ di formazione gramsciana, come Gastone
11 P. Bevilacqua, Dopoguerra, campagne, Mezzogiorno, cit., pp. 801-802.
12 I relativi A tti, con lo stesso titolo, sono stati pubblicati in “Quaderni” dell’Istituto romano per la storia d ’Italia
dal fascismo alla resistenza, 1981,4.
13 Esplicite in proposito furono, ad esempio, le Conclusioni di Rosario Villari al convegno tenutosi a Bari il 2-3-4
novembre 1975 su “Togliatti e il Mezzogiorno” (ora in Aa .Vv ., Togliatti e il Mezzogiorno, Roma, Editori Riuniti,
1977, vol. I, pp. 517-526), in cui, nel rilevare la “sfasatura”, la “discrepanza” fra il discorso dei politici e quello de­
gli storici, si denunciava la “impostazione troppo interna”, 1’ “angolatura troppo strettamente politica e partitica”
nella ricostruzione del movimento contadino e dell’azione dei comunisti nel Mezzogiorno. Ma su questi temi si ve­
dano anche le analoghe osservazioni di Nicola Gallerano, Conflitti sociali e partiti di sinistra nel Mezzogiorno, in
“Italia contemporanea”, XXIX (1977), 129, pp. 110-116.
Verso una “nuova storia” del Mezzogiorno?
Manacorda e Ernesto Ragionieri14, si regi­
strava un’appassionata reazione contro le
invadenti tendenze d’Oltralpe, ora nulla del
genere si verifica nei confronti di questi nuo­
vi assalti, nonostante le fumosità ed incer­
tezze della pars construens (come riconosce­
va lo stesso Bevilacqua in fase di replica) o
comunque lo iato tra i discorsi in astratto e i
risultati pratici. Si aveva anzi l’impressione
— notava opportunamente Caracciolo —
che si stesse sparando su un uomo morto,
dal momento che il bersaglio da tempo non
esisteva più. Il rischio poteva piuttosto esse­
re quello di un’ennesima infatuazione, desti­
nata ad esaurirsi rapidamente. E Caracciolo
non mancava di ricordare alcuni di questi
momenti: storia politica nell’immediato do­
poguerra, quando si doveva costruire la de­
mocrazia italiana sul sistema dei partiti; sto­
ria economica nella seconda metà degli anni
cinquanta (polemica Romeo, Gerschenkron,
Cafagna, Villari) in parallelo con il cosiddet­
to boom economico; storia sociale (nel senso
ampio) e sbornia ideologica verso la fine de­
gli anni sessanta, in coincidenza con i grandi
movimenti di massa; storia del vissuto, del
‘micro’, del privato, del locale, negli ultimi
anni settanta, all’epoca del riflusso15. Certo,
si trattava — secondo le intenzioni dello
stesso Caracciolo — di uno schema un po’
caricaturale, ma il legame tra ricerca storica
ed attualità restava un dato oggettivo, la cui
ovvia verità del resto nessun grande storico
123
aveva mai contestato16. E sempre per quanto
riguarda la storiografia dell’Italia repubbli­
cana, quasi a conferma di questo assunto,
s’incaricava di recente Francesco Barbagallo
di analizzarne, con meticolosa puntualità ed
inconfutabili riscontri, l’evoluzione in rap­
porto alle congiunture politico-economiche
e al mutare degli atteggiamenti ideali1718. I ri­
schi della enfatizzazione dovuti alla moda
potevano quindi esserci anche con la nuova
storia sociale: ad evitarli — si diceva — era
(ed è) necessaria un’attenta e costante vigi­
lanza critica.
Pressappoco nello stesso periodo del con­
vegno romano vedeva la luce un altro volu­
me collettaneo, dall’esplicito titolo Dieci in­
terventi sulla storia sociale1*. Elemento co­
mune alle diverse posizioni — che autobio­
graficamente si configurano anche come un
accorato bilancio di storici ‘militanti’ — era
il riconoscimento di una crisi ormai irrever­
sibile dell’uso, spesso acritico ed univoco, di
categorie come “soggetto storico”, “classe”,
“scala nazionale” , che per anni erano state
alla base di appassionate analisi sul passato
più o meno recente e sull’attualità. E si pre­
scinde qui dal dibattito di natura preminen­
temente teorica — che pure in alcuni settori
e per un certo tempo (si pensi anche alla vexata quaestio del rapporto spontaneitàorganizzazione) s’era fatto spazio sotto la
spinta della storiografia cosiddetta di ‘nuova
sinistra’ — circa l’autonomia del “sociale”
14 II loro interventi, apparsi rispettivamente sul n. 9 di “Rinascita” e su “Il Contemporaneo” del 1955, si possono
leggere ora anche in Luigi Masella, Passato e presente nel dibattito storiografico. Storici marxisti e mutamenti delia
società italiana. 1955-1970. Antologia critica, Bari, De Donato, 1979, pp. XVIII sgg., 9-14. Su queste chiusure del­
la storiografia marxista italiana degli anni cinquanta rispetto alla storia sociale d’ispirazione francese e in genere
della sociologia viste come espressione della “ideologia americana”, cfr. Franco Andreucci-Gabriele Turi, Indirizzi
storiografici e organizzazione delia ricerca, in “Passato e presente”, II (1983), 4, pp. 8 sgg.
I! Alberto Caracciolo, Conclusioni in Mezzogiorno e contadini: trent’anni di studi, “Quaderni” dell’Istituto roma­
no per la storia d’Italia dal fascismo alla resistenza, 1981, 4, pp. 187-188.
16 Si veda, per tutti, Edward H. Carr, Sei lezioni sulla storia, Torino, Einaudi, 1966, le cui notazioni al riguardo
(soprattutto pp. 24-35) restano ancora le più chiare ed esplicite.
1' Francesco Barbagallo, Politica, ideologia, scienze sociali nella storiografia dell’Italia repubblicana, in “Studi
storici”, XXVI (1985), 4, pp. 827-840.
18 Aa .Vv ., Dieci interventi sulla storia sociale, Torino, Rosenberg & Sellier, 1981.
124
Costantino Felice
(e simmetricamente del “politico”), come
anche dal quadro internazionale entro cui la
“nuova storia sociale” si era andata definen­
do e sviluppando. Basti pensare, a questo ri­
guardo, solo all’ampio dibattito provocato
nella storiografia tedesca dalla Neue Sozialgeschichte — polemica, anche lì, rivolta so­
prattutto contro la tradizionale “storia poli­
tica” , imperniata sugli aspetti politico­
statuali e sulle grandi personalità — dei cui
principali esponenti, Wehler e Kocka, nel
1983 uscivano in italiano due importanti
saggi, Sulla scienza della storia. Storiografia
e scienze sociali, con una ricca introduzione
di Gustavo Corni19.
Intanto, accanto alla chiarificazione teori­
ca, cominciavano ad aversi anche i primi
corposi risultati della ricerca concreta. Era
ancora una volta Bevilacqua a produrre l’o­
pera più matura in questo senso. Il suo Le
campagne del Mezzogiorno tra fascismo e
dopoguerra. Il caso della Calabria20 si pre­
sentava, per così dire, come una esplicitazione sul campo della ricchezza di contenuti e
della sofisticata strumentazione concettuale
di cui può essere capace la storia sociale.
Anzitutto il volume sanciva, in modo incon­
trovertibile e forse definitivo, una nuova
scansione della storia meridionale: non più
la fine del fascismo e le lotte contadine del­
l’immediato dopoguerra, ma la crisi del
1929 diventa la “sommità di uno spartiac­
que” , “la fase di inizio di un nuovo arco di
vicende e di periodizzazione storica” (p. 5).
È da quel momento che prende avvio un
processo inarrestabile di “disarticolazione
molecolare dei vecchi rapporti sociali, di
frattura anche dei legami di consenso fra i
vari ceti e all’interno della tradizionale ge­
rarchia di potere” (p. 9). Si ha allora l’inizio
di quella “crisi del blocco agrario” — peral­
tro già focalizzata dal Villari21 — che in que­
sto dopoguerra consentirà il dispiegarsi delle
grandi lotte contadine e di una loro efficace
spinta verso il rinnovamento democratico e
il progresso civile. Gli événements, le vicen­
de eclatanti e l’immediata incidenza, si con­
nettono così, attraverso mille fili più o meno
sotterranei ma solidi, con i processi di ‘lun­
ga durata’. La realtà sociale viene colta in
tutti i suoi molteplici aspetti: condizioni ma­
teriali (alimentari, igieniche, sanitarie, abita­
tive), rapporti produttivi, quadri ambientali,
peso fiscale e disponibilità del credito, cir­
cuiti e dinamiche di mercato, mentalità e
comportamenti. A questi livelli di analisi,
antiche e controverse questioni come quelle
del ‘consenso’, dei rapporti Stato-società,
del ‘sottosviluppo’, degli stessi caratteri del
regime, o perdono quella forza euristica loro
tradizionalmente attribuita o escono com­
pletamente rinnovate e illuminate d’insolita
luce. L’immagine della Calabria non è più
quella di una regione inchiodata al suo seco­
lare immobilismo e alla sua arretratezza, co­
me potrebbe apparire dalla tradizionale sto-
19 Hans-Ulrich Wehler e Jiirger Kocka, Storia e scienze sociali. Problemi di metodo, Bari, De Donato, 1983. Cfr.
Giuseppe Cacciatore, “Neue Sozialgeschichte" e teoria della storia, in “Studi storici”, XXV (1984), I, pp. 119-130.
Sullo stesso numero utili per le questioni che si affrontano nel testo sono anche Ettore Lepore, Storiografia contem­
poranea e dibattito teorico (pp. 131-137), e Francesco Barbagallo, La storia tra passato e presente (pp. 105-117).
20 Piero Bevilacqua, Le campagne del Mezzogiorno tra fascismo e dopoguerra, Torino, Einaudi, 1980.
21 Rosario Villari, La crisi del blocco agrario, in L ’Italia contemporanea. 1945-1975, a cura di Valerio Castronovo,
Torino, Einaudi, 1976, pp. 105-143. C’è da dire, del resto, che l’assunzione della crisi del 1929 come momento perio­
dizzante per la storia d ’Italia risulta più aderente anche al quadro delle vicende che hanno caratterizzato l’intero
mondo occidentale. Cfr. al riguardo Ernesto Galli Della Loggia, Verso gli anni Trenta: qualità e misure di una tran­
sizione, in “Belfagor” XXIX (1974), 5, pp. 489-509; Alberto Caracciolo, Dalle interpretazioni del fascismo all’anali­
si del sistema mondiale dopo gli anni ’30, in “Quaderni storici”, X (1975), 28, pp. 227-242; Antonio Prampolini, Il
“ritorno alla terra” e la crisi del capitalismo negli anni Trenta: note introduttive, in “Società e Storia” , 1978, 3, pp.
581-594.
Verso una “nuova storia” del Mezzogiorno?
riografia antifascista: il mondo contadino e
le strutture agrarie diventano invece realtà
dinamiche, assai articolate al loro interno,
permeabili in taluni settori agli influssi del
mercato, come anche alla penetrazione di
forme e tecniche di modernizzazione. Viene,
d’altra parte, ulteriormente smentita la nota
interpretazione che fa della società civile un
luogo di indiscusso ‘consenso’. Particolar­
mente suggestive e penetranti, a questo pro­
posito, sono le pagine dedicate, in polemi­
ca più o meno esplicita con l’impostazione
defeliciana, ai numerosi moti popolari che
si sono sviluppati negli anni della ‘grande
crisi’22.
Contemporaneamente agli studi di Bevi­
lacqua sulla Calabria, anche in altre regioni
si andavano diffondendo e prendevano vigo­
re — con evidenti aperture verso il “sociale”
— ricerche ed approfondimenti su circoscrit­
ti ambienti territoriali o settoriali. Basti pen­
sare ai lavori di Giarrizzo, Barone, Lupo ed
altri (tutti più o meno operanti all’interno
dell’Istituto siciliano per la storia dell’Italia
contemporanea o in contatto con esso) sulla
Sicilia, di Calice sulla Lucania, di Franco De
Felice, Biagio Salvemini e Masella sulla Pu­
glia, di Colapietra e del gruppo di ricercatori
raccolto attorno all’Istituto della Resistenza
sull’Abruzzo; e naturalmente si potrebbe
continuare23.
Nella nuova ottica si è cercato di analizza­
125
re anche alcune fasi di emergenza événemen­
tielle. Significativo al riguardo il convegno
su “L’altro dopoguerra” svoltosi a Roma
nel giugno 1984 per iniziativa dell’Istituto
romano per la storia d’Italia dal fascismo al­
la Resistenza. Il privilegiamento del ristretto
periodo 1943-45 puntava, come scrive espli­
citamente Gallerano nelle notazioni intro­
duttive agli atti24 a rompere la meccanica
equivalenza tra tempo breve e tempo esclusi­
vo della politica, per cogliere nel profondo
la specificità — ed anche le anticipazioni o i
condizionamenti sugli sviluppi futuri — del­
la “ambigua” situazione in cui vennero allo­
ra a trovarsi il Centro e il Sud, di essere
cioè, in quanto ‘liberati’, un pezzo dell’Ita­
lia che vive un’esperienza completamente di­
versa da quella del Nord e, nello stesso tem­
po, parte integrante del paese nel suo com­
plesso: in altri termini, terreno insieme di
storia locale e di storia nazionale. Non c’è
dubbio tuttavia che negli ultimi tempi, anzi­
ché sulle ‘origini’ e sulla ‘fine’ del fascismo,
com’era accaduto in passato, l’attenzione
degli storici — grazie anche alle stimolanti
ricognizioni che taluni studiosi (tra gli altri
Ester Fano, Paul Corner, Gianni Tomolo,
Domenico Preti) all’inizio degli anni settan­
ta hanno compiuto su grossi aggregati
macro-economici della realtà nazionale in
periodo fascista25 — si sia andata progressi­
vamente concentrando sulla fase del cosid-
22 P. Bevilacqua, Le campagne del Mezzogiorno, cit., pp. 122-149.
23 Come quadri di riferimento generali — dove però si possono trovare le ulteriori indicazioni bibliografiche — ci si
limita a citare: Campagne e fascismo in Basilicata e nel Mezzogiono, Manduria, Lacaita, 1981, e Giuseppe Barone,
Mezzogiorno e modernizzazione, Torino, Einaudi, 1986, di cui si dirà nel testo. Con specifico riguardo all’Abruz­
zo, cfr. Costantino Felice, L ’Abruzzo tra fascismo e dopoguerra: bilancio e prospettive della ricerca storica, in “Ri­
vista abruzzese di studi storici dal fascismo alla resistenza” , V (1984), 3, pp. 59-86, ed il recentissimo Luigi Ponziani, Dopoguerra e fascismo in Abruzzo. Orientamenti storiografici, in “Italia contemporanea” , 1986, 164, pp.
93-103.
24 Nicola Gallerano, L'altro dopoguerra, in L ’altro dopoguerra. Roma e il Sud 1943-1945, a cura di N. Gallerano,
Milano, Angeli, 1985, p. 31. Sempre di Gallerano, ricco di spunti sugli ultimi anni del fascismo è La disgregazione
delie basi di massa del fascismo nel Mezzogiorno e il ruolo delle masse popolari, in Operai e contadini nella crisi
italiana nel 1943-1944, Milano, Feltrinelli, 1976, pp. 435-493.
25 Cfr. soprattutto i vari saggi contenuti in “Quaderni storici” , X (1975), 29-30 (dedicato appunto a L ’economia
italiana nel periodo fascista), e Domenico Preti, Economia e istituzioni nello Stato fascista, Roma, Editori Riuniti,
126
Costantino Felice
detto fascismo ‘maturo’, per cogliere soprat­
tutto qui elementi di novità e di rottura ri­
spetto alle lunghe permanenze.
Su un altro versante, non meno interes­
sante e produttivo, la storia sociale conosce­
va pure fecondi sviluppi, per merito soprat­
tutto della ‘scuola’ di Gabriele De Rosa e
dell’attività svolta dall’Istituto per le ricer­
che di storia sociale e di storia religiosa di
Vicenza: quello, appunto, dei fenomeni e
della mentalità religiosa. Per rendersene
conto basta fare ricorso alla rivista “Ricer­
che di storia sociale e religiosa” dalla sua
fondazione nel 1972. A parte i contributi di
studio riguardanti la realtà specifica del
Mezzogiorno, innovative sollecitazioni sono
venute anche per quanto riguarda l’ampio
dibattito sull’uso e sulla qualità delle fonti
(si pensi agli archivi parrocchiali e diocesa­
ni), sull’apertura interdisciplinare della sto­
ria verso le altre scienze sociali e sui rapporti
tra micro e macro-storia, indagini a caratte­
re locale e sintesi generali26.
Ma nei primi anni ottanta era proprio da
parte degli scienziati sociali, sociologi e antropologi soprattutto, che provenivano si­
gnificative novità, quasi ad evidenziare —
come ha scritto Gallerano27 — le permanenti
difficoltà che incontrano gli storici ‘puri’
nell’analisi della sfuggente realtà meridiona­
le. Il volume di Gabriella Gribaudi, Media­
tori1*, quello di Pino Arlacchi, Mafia, con­
tadini e latifondo nella Calabria tradiziona­
le19, e l’altro di Fortunata Piselli, Parentela
ed emigrazione30, con un uso abile e raffina­
to di categorie e strumenti interpretativi mu­
tuati dalla già consolidata “antropologia
mediterranea”31, mentre — insieme agli ap­
prezzamenti — non mancavano di suscitare
riserve e perplessità tra gli ‘addetti ai lavo­
ri’32, avevano tuttavia il merito di battere
sentieri inesplorati, offrendo contributi di
conoscenza su aspetti della ‘questione meri­
dionale’ (mafia, clientelismo, esercizio del
potere, rapporti tra autorità centrale ed éli­
tes locali) che la ricerca storica o lasciava an­
cora avvolti nell’ombra o toccava solo mar­
ginalmente e in modo inadeguato. Questo ti­
po di studi confermava, d’altra parte, la
stringente necessità (fino a porre un “pro­
blema di identità dello storico”, scriveva Lu­
po) di approcci inter e multidisciplinari per
1980. Per il settore terziario e la cosiddetta “meridionalizzazione” dell’apparato statale, fondamentale resta Sabino
Cassese, Questione amministrativa e questione meridionale. Dimensioni e reclutamento della burocrazia dall’Unità
ad oggi, Milano, Angeli, 1977.
26 Ne è un esempio Antonio Lazzarini (a cura di), Economia e società nella storia dell’Italia contemporanea. Fonti
e metodi di ricerca, Roma, Edizioni di storia e letteratura, 1983. Per quanto riguarda la tematica metodologica in
riferimento specifico alle fonti, particolarmente ampio è stato il dibattito, negli anni settanta, su quelle orali. Per
uno sguardo sintetico e i necessari riferimenti bibliografici, cfr. “Quaderni storici”, XIII (9177), 35, numero mono­
grafico dedicato a Oral history: fra antropologia e storia-, Luisa Passerini, Sette punti sulla memoria per l ’interpre­
tazione delle fo n ti orali, in “Italia contemporanea” , 1981, 143, pp. 83-92; Id., Le testimonianze orali, in Introdu­
zione alla storia contemporanea, Firenze, La Nuova Italia, 1984, pp. 232-248; La storia: fo n ti orali nella scuola,
Venezia, Marsilio, 1982.
27 N. Gallerano, La storiografia marxista sul movimento contadino e il Mezzogiorno negli anni Sessanta e Settan­
ta, in Mezzogiorno e Contadini: trent’anni di studi, cit., p. 64.
28 Gabriella Gribaudi, Mediatori. Antropologia del potere democristiano nel Mezzogiorno, Torino, Rosenberg &
Sellier, 1980.
29 Pino Arlacchi, Mafia, contadini e latifondo nella Calabria tradizionale, Bologna, Il Mulino, 1981.
30 Fortunata Piselli, Parentela ed emigrazione, Torino, Einaudi, 1981.
31 Se ne può vedere una rassegna critica in John Davis, Antropologia delle società mediterranee. U n’analisi compa­
rata, Torino, Rosenberg & Sellier, 1980.
32 Cfr. N. Gallerano, Contadini e Mezzogiorno, cit., pp. 499-505; Piero Bevilacqua, Calabria fra antropologia e
storia, in “Studi storici”, XXII (1981), 3, pp. 665-669; Salvatore Lupo, Storia e società nel Mezzogiorno in alcuni
studi recenti, in “Italia contemporanea”, 1984, 154, pp. 71-93.
Verso una “nuova storia” del Mezzogiorno?
scandagliare con mezzi appropriati i com­
plessi problemi del Sud33. La disponibilità
— per la verità da entrambe le parti — ad
allacciare legami più stretti tra storia e scien­
ze sociali, intrecciando metodologie e ‘para­
digmi’ diversi, si faceva di conseguenza assai
più diffusa ed esplicita, con un salutare al­
largamento ed approfondimento dei campi
di ricerca.
La scelta di questa strada, l’apporto cioè
di molteplici specialismi come ineludibile re­
quisito del fare storia, era il tratto peculiare
di un altro lavoro che ha fatto discutere, su­
scitando convinte approvazioni ma anche
qualche riserva: ci si riferisce al volume an­
tologico Le bonifiche in Italia dal ’700 a og­
gi34 curato da un grande esperto di problemi
agrari qual è Manlio Rossi Doria, e da Piero
Bevilacqua. Oggetto dell’ampia ricognizione
sono le secolari trasformazioni del territorio
e del paesaggio rurale per mezzo dell’attività
bonificatrice. Ma l’analisi non si ferma alle
profonde modificazioni che da questa sono
derivate nei reciproci condizionamenti tra
uomo ed ambiente. Preoccupazione costante
dei curatori è anche quella di far emergere i
nessi che le varie forme di organizzazione e
127
di utilizzo del territorio hanno finito con
l’intrecciare coi modi di produzione e coi
rapporti sociali fra i ceti: basti pensare allo
stretto legame tra bonifica collinare e mez­
zadria quale si evidenzia dalle elaborazioni
dell’abate Landeschi o a quello tra utilizza­
zione privatistica della natura da parte di
emergenti forze capitalistiche e selvaggio de­
grado dell’habitat come viene colto in alcu­
ne lucide pagine di Afan de Rivera.
Insolite dimensioni vengono dunque por­
tate a galla nell’analisi dei processi e delle di­
rettrici del mutamento. In questo quadro al­
largato lo stesso scenario dei protagonisti si
arricchisce di nuove figure, portando talvol­
ta ad una diversa dislocazione di ruoli ed in­
cidenze. Soggetti di trasformazione diventa­
no non tanto — o comunque non solo — le
forze politiche, i governi, o le classi, bensì le
élites tecnocratiche, le schiere di tecnici che
— per quanto riguarda l’Italia — dal secon­
do Settecento ai primi decisivi decenni di
questo secolo e, passando per il fascismo, fi­
no al periodo repubblicano, sono andate
conquistando un peso sempre più decisivo in
parallelo col progressivo intensificarsi ed ar­
ticolarsi degli interventi statali35. Ingegneri,
33 Cfr. al riguardo soprattutto Piero Bevilacqua, Quadri mentali, cultura e rapporti simbolici nella società rurale
del Mezzogiorno, in “Italia contemporanea”, 1984, 154, pp. 33-70. Si tratta di un saggio di grande respiro analiti­
co, non solo per le stimolanti riflessioni sui rapporti tra storia e scienze sociali (antropologia soprattutto), loro reci­
proci intrecci e possibili confini, quanto per la ricchezza di indicazioni su nuovi e inesplorati percorsi dell’indagine
intorno ad un tema assai complesso e delicato come quello della mentalità contadina.
34 Le bonifiche in Italia dal ’700 ad oggi, a cura di Manlio Rossi Doria e Piero Bevilacqua, Roma-Bari, Laterza,
1984.
35 Sul ruolo dei tecnici, specie in riferimento alla problematica ruralista del regime, erano già usciti diversi studi. Si
ricordino in particolare: Antonio Prampolini, La formazione di Arrigo Serpieri e i problemi dell’agricoltura lom­
barda, in “Studi storici”, XVIII (1976), 2, pp. 125-160; Lea D’Antone, I tecnici e la riforma agraria. Il dibattito de­
gli anni 1945-1950, in “Archivio storico per la Sicilia orientale”, LXX (1974), I, pp. 113-149; Id., Politica e cultura
agraria: Arrigo Serpieri, in “Studi storici”, XX (1979), 3, pp. 609-642; Carlo Fumian, Modernizzazione, tecnocra­
zia, ruralismo, Giuseppe Barone, Capitate fondiario e bonifica integrale nel Mezzogiorno fra le gue guerre, e Ro­
berto Cerri, N ote sulla politica della bonifica integrale del fascismo. 1928-1934, in “Italia contemporanea”, 1979,
137, pp. 3-81; Paolo Magnarelli, L ’agricoltura italiana fra politica e cultura. Breve storia dell’Istituto nazionale di
economia agraria dal fascismo ai primi anni sessanta, Milano, Edizioni di Comunità, 1981; Antonino Checco, Sta­
to, finanza e bonifica integrale nel Mezzogiorno, Milano, Giuffrè, 1984; Mauro Stampacchia, Tecnocrazia e rurali­
smo. Alle origini della bonifica fascista (1918-1928), Pisa, Ets, 1983. Per un esame particolareggiato ed esauriente
di questo tipo di lavori, cfr. Franco Cazzola, Tecnici e bonifica nella più recente storiografia sull’Italia contempo­
ranea, in “Società e storia”, 1986, 32, pp. 419-439.
128
Costantino Felice
“pianificatori del territorio”, tecnici del cali­
bro di Serpieri, Omodeo, Ruini, Iandolo,
Petrocchi, ecc. sono stati — si legge a pro­
posito del gruppo che negli anni venti fu ar­
tefice della bonifica integrale — “veri realiz­
zatori di storia” , forse più di quanto non lo
siano stati primi ministri e uomini di gover­
no enfatizzati da tanta storiografia36. In tale
ottica anche il giudizio sul periodo fascista
cambia ovviamente di segno: dal momento
che le bonifiche — “a differenza di molti
processi di trasformazione che costituiscono
la ‘stoffa’ del processo storico” — hanno un
loro svolgimento del tutto particolare, una
propria sotterranea linea di continuità o di
rottura, che travalica generalmente il destino
dei singoli governi i quali di volta in volta vi
si cimentano37, sminuire la portata storica
dell’attività bonificatrice svolta durante il
regime — voluta e promossa dalle “forze
produttive delle campagne, le più dinamiche
ed intraprendenti” — significa schiacciare
l’intera prospettiva “entro i limiti di un giu­
dizio sostanzialmente politico sul Ven­
tennio”38.
Ma era proprio su questo nodo dei rap­
porti tra tecnocrazia, fattori socioeconomici e ceto politico dirigente che l’im­
postazione di Bevilacqua e Rossi Doria su­
scitava qualche perplessità. In particolare
Massimo Legnani rilevava “la necessità di
ricomporre la compresenza di spinte sociali,
ruolo dei ‘tecnici’ e azione dei governi non
per giustapposizioni ma per intrecci, illumi­
nando i modi concreti attraverso i quali cia­
scuno di questi soggetti interagisce con gli
altri”39.
Qualche riserva sulla scarsa sottolineatura
del problema del “potere” veniva avanzata
anche da Giuseppe Barone. Ma si trattava di
un’osservazione lontana da giudizi ricalcabili su categorie etico-politiche (del resto an­
che Legnani si colloca in tutt’altra ottica).
La questione, secondo Barone, riguarda so­
prattutto il ruolo svolto dallo Stato nel pro­
cesso d’industrializzazione, oltre natural­
mente al tenace profilarsi delle resistenze so­
ciali opposte alla modernizzazione da parte
di “blocchi corporativi d’interesse sostenuti
dalle élites locali” : donde la conclusione che
“dietro la presunta neutralità delle scelte tec­
niche riguardanti le sistemazioni idrogeolo­
giche della montagna e della pianura, lo sto­
rico non può eludere le lotte di potere che si
svolgono attorno al controllo del territorio,
delle sue risorse, del suo assetto fisico ed
economico”4041. Per il resto egli non solo con­
divideva il giudizio sull’estrema rilevanza
della bonifica, ma anzi faceva del processo
di ‘modernizzazione’ del Sud — di cui gli in­
terventi di bonifica costituivano ovviamente
momenti essenziali — il tema prescelto delle
sue ricerche che hanno poi trovato compi­
mento nel recentissimo Mezzogiorno e mo­
dernizzazione. Elettricità, irrigazione e boni­
fica nell’Italia contemporanea4' . Al centro
dell’ampio studio, assai bene articolato e
condotto in gran parte su documentazione
inedita o poco utilizzata, è posto quello che
egli considera “il più lucido e vasto piano di
36 Le bonifiche in Italia, cit., pp. 58-59.
37 Cfr. su questo aspetto anche Teresa Isenburg, Acque e Stato. Energia, bonifiche, irrigazione in Italia fra il 1930
e il 1950, Milano, Angeli, 1981.
38 Le bonifiche in Italia, cit., p. 59.
39 Massimo Legnani, recensione in “Italia contemporanea” , 1985, n. 160, p. 157.
40 Cito dal testo dell’intervento di Giuseppe Barone all’incontro organizzato a Roma dall’Istituto Cervi (28 giugno
1984) sul volume di Rossi Doria e Bevilacqua, in “Studi storici” , XXVI (1985), 4, pp. 965-966. Sullo stesso fascico­
lo sono riportati anche gli interventi di Lucio Gambi e dello stesso Rossi Doria.
41 Giuseppe Barone, Mezzogiorno e modernizzazione. Elettricità, irrigazione e bonifica nell’Italia contemporanea,
Torino, Einaudi, 1986.
Verso una “nuova storia” del Mezzogiorno?
intervento modernizzatore nelle campagne
del Mezzogiorno mai concepito dopo l’Uni­
tà”42, vale a dire il progetto elettroirriguo ela­
borato, negli anni a ridosso della prima guer­
ra mondiale, da alcuni tra i maggiori gruppi
elettrici e finanziari italiani e sostenuto dall’entourage politico e tecnocratico raccolto
attorno a Nitti43, oltre che da consistenti set­
tori socialriformisti, con il quale si prevedeva
la costruzione di grandi impianti idroelettrici
come premesse della disponibilità di energia a
basso costo a fini industriali e della creazione
di un razionale sistema d’irrigazione. “Nel
contesto internazionale del dopoguerra il pia­
no elettroirriguo socialriformista e nittiano
pone per la prima volta il Mezzogiorno al cen­
tro di una ipotesi complessiva di riorganizza­
zione delle forze produttive e dei gruppi so­
ciali come protagonisti di una diversa qualità
dello sviluppo. Da Nitti a Turati, attraverso
Omodeo e l’intervento del trust elettrofinan­
ziario, questo progetto si qualifica essenzial­
mente come scommessa sulla trasformazione
socioeconomica della sezione arretrata del
paese, non tanto con riforme del regime di
proprietà (formazione della piccola proprie­
tà, modifica dei patti agrari) secondo il mo­
dello sonniniano, né per mezzo degli sgravi fi­
scali e della politica doganale (secondo una li­
nea che da Fortunato giunge al meridionali­
smo liberista), quanto con una moderna im­
postazione infrastrutturale centrata attorno
al governo delle acque e alla elettrificazione,
come la più congrua a modificare in profon­
dità l’assetto produttivo italiano e ad integra­
re alcune aree del Sud con le zone ‘forti’ del­
l’economia industriale settentrionale”44.
129
In realtà questa visione pone fuori gioco
non solo le logore ricette del ruralismo sonni­
niano o del meridionalismo liberista, quanto
soprattutto — anche se in proposito l’autore
non è mai del tutto esplicito — la tradizione
storica e politica d’ispirazione gramsciana
che ha indicato nell’alleanza operai-contadini
il nuovo ‘blocco storico’ da sostituire a quello
industriali-agrari per guidare in Italia la tran­
sizione verso il socialismo. Il vero asse strate­
gico vincente (Barone parla di linea
Turati-Omodeo-Comit-Bastogi-elettrici), ca­
pace di portare il Sud fuori dal sottosviluppo,
sarebbe invece stata l’alleanza tra gruppi in­
dustriali e finanziari in espansione e forze po­
litiche riformatrici. Significativa in proposito
anche l’evidenziazione dei nessi tra tale dise­
gno di modernizzazione e la vicenda del “ca­
pitalismo organizzato” nella Germania di
Weimar, per non dire del parallelo col New
Deal americano45. Ma questo progetto di “via
italiana” al capitalismo, che nella ricostruzio­
ne di Barone sembrava dotato di tutti gli ele­
menti di congruità per potersi tradurre in at­
to, e che avrebbe dovuto legare il ‘caso’ italia­
no alle esperienze più avanzate del capitali­
smo europeo e mondiale, era in realtà desti­
nato a concretizzarsi solo in minima parte, e
con effetti assai lontani dall’auspicata mo­
dernizzazione del Mezzogiorno. La possibile
alleanza riformismo-capitalismo illuminato
s’infrange1contro rincalzante squadrismo fa­
scista; l’attacco dell’Opera nazionale combat­
tenti all’assetto latifondistico dell’agricoltura
meridionale fallisce già prima del 1922; il piano
elettroirriguo supera indenne — è vero — la
censura politica della marcia su Roma, rag-
42 G. Barone, Mezzogiorno e modernizzazione, cit., p. 121.
43 Gli elementi di modernità presenti nel pensiero e nell’opera dello statista lucano sono comunque ben evidenziati
anche nella ricca e documentatissima biografia di Francesco Barbagallo, Nitti, Torino, Utet, 1984. Partendo da
questa opera si è svolto a Potenza, il 27 e 28 settembre 1984, un convegno su “Nitti: meridionalismo ed europei­
smo”, organizzato dalla Regione Basilicata. Cfr. G. D’Andrea, F.S. Nitti e il Mezzogiorno, in “Bollettino storico
della Basilicata”, I (1985), pp. 155-159.
44 G. Barone, Mezzogiorno e modernizzazione, cit., p. 83.
45 G. Barone, Mezzogiorno e modernizzazione, cit., p. 85.
130
Costantino Felice
giungendo anzi il suo momento più alto pro­
prio nel primo periodo del fascismo, ma nel­
la seconda metà degli anni venti s’impanta­
na anch’esso nelle paludi del ruralismo e
della colonizzazione di regime. Barone ap­
proda alla conclusione che quella della boni­
fica, contrariamente alle apparenze, non è la
storia di un fallimento46. Ma di fronte agli
esiti ricordati riesce difficile sfuggire ad una
simile impressione. Ed è qui che il discorso,
anziché chiudersi, si riapre, come notava Legnani a proposito del libro di Bevilacqua e
Rossi Doria. Perché il disegno di ‘moderniz­
zazione’ — un termine per la verità, nono­
stante la sua intrinseca ambiguità concettua­
le, sempre più adoperato nel linguaggio sto­
riografico, non a caso ripreso dalla sociolo­
gia — non è riuscito a fare breccia nel Sud,
lasciando tuttora aperta la ‘questione meri­
dionale’? Perché ciò che si realizza negli Sta­
ti Uniti e parzialmente in Germania non tro­
va sbocchi in questa parte d’Italia? Sono in­
terrogativi che ancora una volta, per dirla
con lo stesso Barone, ripropongono il pro­
blema del potere, l’intreccio dei rapporti
centro-periferia, il ruolo delle forze politi­
che, l’articolarsi dei loro equilibri interni e il
peso delle loro scelte: e a dare soddisfacenti
risposte non è certo sufficiente chiamare in
causa l’opposizione del ‘blocco agrario’.
Ma il campo d’osservazione della schiera
di nuovi storici meridionalisti — non tutti e
non sempre per la verità etichettabili sotto la
formula della new social history — non è
certo limitato al periodo fascista, né al solo
Novecento. Grandi spaccati tematici e terri­
toriali si aprono molto spesso quanto meno
fino all’Unità, ma non solo neppure trascu­
rabili gli innovativi studi sul Settecento (si
pensi a quelli di Paolo Macry) e sulla prima
metà del secolo scorso (per esempio John
Davis).
La serie “Le Regioni” della prestigiosa
Storia d ’Italia einaudiana — ricominciata ad
uscire a distanza di qualche anno dall’acceso
dibattito seguito al primo volume (un appo­
sito convegno si svolse a Roma nel febbraio
del ’79)47, quello sul Piemonte del 1976, l’u­
nico scritto ad una sola mano da Valerio Ca­
stronovo — rappresenta sicuramente il ten­
tativo più riuscito di combinare la ricostru­
zione fatta di apporti interdisciplinari col
privilegiamento dell’ambito regionale come
dimensione ottimale per approdare a risulta­
ti di storia sociale. Il recente libro, di cui so­
no curatori Piero Bevilacqua e Augusto Placanica, sulla Calabria costituisce un modello
da questo punto di vista48; anch’esso, come
il primo, particolarmente sensibile al con­
fronto con le scienze sociali. Sono loro i due
consistenti saggi d’apertura in cui, con intel­
ligenza e rigore, vengono ricostruite le lun­
ghe permanenze e le trasformazioni moleco­
lari che attraverso i secoli hanno finito col
dar luogo ai ‘caratteri originali’ della regio­
ne. Fanno quindi seguito le ricerche mono­
grafiche di economisti, agronomi, sociologi,
urbanisti ed altri giovani studiosi, che con le
loro specifiche competenze contribuiscono a
fornire un quadro organico e tuttavia assai
sfaccettato dei molteplici mutamenti — eco­
nomici, sociali, politici, territoriali — che
hanno interessato, a partire dall’Unità, que­
sta parte della penisola, definendone la fi­
sionomia.
Ma il gruppo che ruota attorno alla casa
editrice Einaudi — animatore principale
Carmine Donzelli, collaboratore della stessa
46 G. Barone, La storia delle bonifiche in Italia, in “Studi storici”, XXVI (1985), 4, p. 965.
47 Per un breve ma arguto resoconto cfr. Raffaele Romanelli, Il sogno delle regioni, in “Quaderni storici”, XIV
(1979), 41, soprattutto pp. 778-781.
48 Piero Bevilacqua e Augusto Placanica (a cura di), Calabria. Le regioni d ’Italia dall’Unità ad oggi, Torino, Ei­
naudi, 1985.
Verso una “nuova storia” del Mezzogiorno?
casa editrice — è protagonista di un’altra
impresa che si va già profilando di conside­
revole rilievo nel panorama della storiogra­
fia meridionalistica: la fondazione dell’Imes, l’Istituto meridionale di storia e scienze
sociali, avvenuta nella primavera del 1986 a
Catanzaro nell’intento, tra l’altro, di dar vi­
ta ad una rivista. L’iniziativa raccoglie gran
parte delle migliori energie — dagli storici
agli economisti, dai sociologi agli urbanisti,
dagli antropologi ai geografi, dai politologi
ai giuristi — che stanno rinnovando profon­
damente gli studi sul Mezzogiorno, in con­
nessione col complessivo ripensamento dei
criteri di lettura della società contempora­
nea. In una sorta di bozza programmatica
(elaborata e discussa da G. Barone, P. Bevi­
lacqua, S. Bruni, D. Cersosimo, S. Lupo, P.
Pezzino, F. Piselli, A. Placanica, G. Soriero, R. Teti e C. Donzelli, che ne è l’estenso­
re materiale) sono state tracciate le coordi­
nate dell’iniziativa. Partendo dalla “consta­
tazione che esiste una sproporzione, uno
scarto grave e crescente, tra l’immagine
scientifica della realtà meridionale che va
emergendo dai più avanzati ed innovativi
segmenti di ricerca, e la percezione di quella
realtà che si continua ad avere a livello di
politica, di società, di senso comune”, e
chiarito che non s’intende affatto riesumare
la generica categoria di ‘impegno meridiona­
listico’, quanto piuttosto riflettere sul tema
del “che fare storiografico e scientifico” , vi
si afferma: “Il limite principale del meridio­
nalismo è stato forse quello di concepire i
problemi del Mezzogiorno come il frutto di
tare storiche delle sue classi di governo, co­
me risultato di una sorta di incapacità collet­
tiva delle società meridionali ad esprimere
gruppi dirigenti capaci di risolvere i proble­
mi interni e/o di farsi valere verso l’esterno
(quest’ultimo presupposto sempre come
‘cattivo’ e ‘colonizzatore’).
Ma il quadro complessivo dell’inserimen­
to del Mezzogiorno all’interno di un più am­
pio e integrato sistema di relazioni mondiali
131
non è dipeso e non dipende se non in misura
limitata dai comportamenti delle ‘forze loca­
li’. La posizione d’ingresso nell’ambito di
questo sistema dipende da un numero molto
elevato di variabili storiche, che vanno ana­
liticamente indagate. Il mutamento verso
l’alto della posizione relativa all’interno del
sistema può essere avvenuto, o può avveni­
re, anch’esso per il prodursi di numerosi fat­
tori esterni o interni, ma è un processo mol­
to lento e difficile, che si può realizzare solo
per grandi accumuli molecolari di trasfor­
mazioni.
Il Mezzogiorno è entrato nella storia con­
temporanea, o se si vuole essere più precisi,
nella storia del sistema mondiale capitalistico, come il segmento debole di un pezzo
‘medio’. Le categorie interpretative di volta
in volta elaborate per dare ragione di que­
sto, come di tanti altri disequilibri organici
del sistema complessivo (‘sottosviluppo’,
‘dualismo’, ecc.), hanno avuto il torto di es­
sere adoperate in modo eccessivamente sche­
matico, per non dire manicheo: o si era ‘ric­
chi’ o ‘poveri’; o ‘sviluppati’ o ‘arretrati’; o
‘Nord’ o ‘Sud’. È evidente che è esistita una
spinta forte (e tendenzialmente crescente)
verso l’integrazione e l’omogeneizzazione
del sistema. Ma è evidente anche che si è de­
terminata e si ridisegna continuamente una
complicata gerarchia dei vari segmenti, un
insieme di correlazioni tra centri e periferie,
dove chi sta peggio tende a spingere per mi­
gliorare la propria posizione, e chi sta me­
glio tende a resistere e a rafforzarsi ulterior­
mente. Meno evidente, o meno studiato, fi­
no ad ora, è il carattere spazialmente com­
plesso di questa dislocazione gerarchica, il
fatto cioè che le relazioni spaziali fra centri e
periferie raramente tendono a disporsi in
modo lineare e univoco. Proprio il reticolo
analitico di queste relazioni spaziali costitui­
sce l’aspetto da indagare, tenendo presente
che si tratta spesso di relazioni multipolari,
in cui ciascun polo è dotato di differenti in­
tensità d’attrazione.
132
Costantino Felice
Applicato al caso meridionale, ciò vale sia
per il Mezzogiorno nel suo complesso, per le
relazioni che esso ha avuto ed ha con il resto
del sistema, sia per i vari ‘mezzogiorni’, per
quell’insieme variegato di funzioni e gerar­
chie interne che tendono anch’esse a disporsi
in certe condizioni reciproche di dominio e
di dipendenza” .
In tale ottica (che la lunga citazione do­
vrebbe servire a rendere sufficientemente
chiara), il problema del Mezzogiorno non si
pone più in termini di ‘arretratezza’ o di ‘ri­
tardi’ (categorie tra l’altro considerate dota­
te di un’implicita carica valutativa e morali­
stica), quanto di analisi delle interdipenden­
ze, dei sistemi di correlazione, delle integra­
zioni spaziali tra una molteplicità di ‘centri’
e ‘periferie’. Ponendosi il Sud all’interno
del ‘sistema’, sia pure come segmento su­
balterno, si tratta di vedere come lo‘sviluppo’ vi si è realizzato: eterodirezione o auto­
direzione? Che tipo di modernizzazione?
Quali gli agenti? Con quali intrecci tra cen­
tro e periferie? Tutte questioni sulle quali,
all’interno dello stesso gruppo promotore, i
pareri sono tutt’altro che concordi. Ma — è
detto nel documento — su un punto c’è in­
tesa: “La riflessione sulle ‘categorie teo­
riche’, sui concetti generali e le chiavi in­
terpretative complessive non può e non de­
ve volgersi in astratto, ma deve riguarda­
re l’oggetto della ricerca, i metodi e gli stru­
menti adatti a condurre il lavoro analiti­
co di ricognizione; deve cioè svolgersi ‘sul
campo’”.
Entro questo orizzonte di problemi e con
tali premesse — rispetto a cui la prevalente
attenzione alle tendenze dinamiche (e, in
contrapposizione, alle forze di ‘resistenza’),
come pure il privilegiamento di una “lettura
del Mezzogiorno che veda le peculiarità del­
la sua storia alle prese con la modernità” ,
non sono che logiche conseguenze — i temi
da scandagliare in via prioritari non poteva­
no che essere le ‘borghesie’ meridionali, le
dinamiche di mercato, il ruolo dello Stato,
la qualità ed incidenza dell’intervento pub­
blico, la ‘mediazione’ delle élites locali. Ed
infatti il primo seminario che Fîmes ha or­
ganizzato a Catanzaro nell’aprile 1986 ha
avuto per titolo “Mercato e borghesie” e si è
occupato specificamente di “Spazi e circuiti
dei mercati” (interventi introduttivi di Piero
Bevilacqua, Sergio Bruni, Domenico Cersosimo, Marcello Gorgoni e Biagio Salvemini) e
di “borghesie, classi medie, nobiltà sociale”
(interventi introduttivi di Raimondo Catanza­
ro, Carmine Donzelli, Paolo Macry, Paolo
Pezzino).
Nel successivo seminario, tenutosi sempre
a Catanzaro nel giugno 1986, l’argomento è
stato invece “Quadri ambientali. Circuiti
politici”, suddiviso a sua volta in “Il territo­
rio e l’evoluzione dei quadri ambientali” (re­
lazioni di Giuseppe Barone, Angelo Massa­
fra, Augusto Placanica, Bernardo Rossi Doria) e “Le reti di relazione e i circuiti della
politica” (introduzioni di Gabriella Gribaudi, Salvatore Lupo, Luigi Musella, Fortuna­
ta Piselli, Carlo Triglia). In attesa della pub­
blicazione dei materiali, già dai titoli e dai
nomi dei relatori si può vedere quale sia lo
spettro delle analisi e degli orientamenti ver­
so cui si muovono in prevalenza gli studi sul
Mezzogiorno.
Costantino Felice
Acqua contro carbone
Emigrazione e lavoro nelle bonifiche laziali
di Guido Crainz
Nel saggio che apre un volume di vari autori
dal titolo La Merica in Piscinara1 Antonio
Parisella osserva che ‘i ’emigrazione veneta
in Agro romano e pontino è un tema di stu­
dio che si presta bene per verificare gli in­
trecci tra storia ‘nazionale’ e storia ‘locale’,
tra storia e altre discipline sociali” , dal mo­
mento che esso impone di misurarsi sia con
il maturare di decisioni politiche nazionali
sia con il modo specifico in cui tali decisioni
segnano gruppi sociali e familiari determina­
ti (e con il modo in cui essi, di converso, in­
teragiscono con tali decisioni). E impone
quindi di dipanare, aggiunge Parisella, “il
complesso intrecciarsi di problemi che di
volta in volta toccano la politica e l’econo­
mia, la religione e gli usi quotidiani, il lavo­
ro e le manifestazioni della cultura”.
È un giudizio certamente condivisibile e
può essere esteso senza timori allo studio più
generale delle campagne laziali e delle loro
trasformazioni nel Novecento: lo conferma
ad esempio un altro volume recente che ana­
lizza'le vicende del bracciantato ravennate a
Ostia2. Esse hanno avvio, come è noto, da
una decisione che matura all’interno dello
stesso bracciantato ravennate, e a questi
aspetti è dedicato il primo saggio, di Giusep­
pe Lattanzi (ma ancora stimolanti sono i
saggi di vari autori raccolti in un volume di
vent’anni fa, opportunamente ristampato nel
1983 dalla Lega delle cooperative di Ravenna:
Nullo Baldini nella storia della cooperazione).
In Pane e Lavoro i contributi più ricchi
nella direzione prima indicata vengono in­
dubbiamente dal saggio di Vito Lattanzi,
che meglio esplicita i presupposti teorici del­
la propria indagine. La questione dell’identi­
tà dei romagnoli in rapporto alla realtà pree­
sistente del territorio laziale è assunta come
nodo problematico e al tempo stesso “come
‘chiave’ per svelare i meccanismi del sistema
sociale nato a Ostia con la bonifica e per in­
terpretare le operazioni ideologiche (endoge­
ne ed esogene) di definizione e di (auto)rappresentazione dei romagnoli” .
Va subito aggiunto che “identità” è qui
intesa come identità culturale, prima e più
che politica, ed al centro dell’indagine è po­
sto prioritariamente un sistema di valori, un
modo specifico di rapportarsi alla vita, al
territorio, al lavoro. E vi sono, anche, gli
elementi che hanno fatto della bonifica di
Ostia una “storia esemplare”, gli aspetti che
caratterizzano la costruzione di un immagi­
nario, di un “mito sociale” .
Da questo punto di vista è significativa la
lettura che Vito Lattanzi offre della famosa
1 La Merica in Piscinara, Abano Terme (Padova), Francisci, 1986, pp. 334.
2 Giuseppe Lattanzi, Vito Lattanzi, Paolo Isaja, Pane e lavoro. Storia di una colonia cooperativa: i braccianti ro­
magnoli e la bonifica di Ostia, Venezia, Marsilio, 1986, pp. 500.
“Italia contemporanea”, settembre 1987, n. 168
134
Guido Crainz
lapide posta nel 1904 a ricordo dei bonifica- non perdere mai la dimensione della storici­
tori romagnoli e il cui testo fu dettato da tà e di cercare costantemente i nessi fra l’e­
Andrea Costa (“Pane e lavoro / gridando / voluzione del paese e la specificità di Ostia:
e brandendo le lucide forti armi della fatica da questo punto di vista più di uno spunto
/ uomini donne e fanciulli / esercito di pace può venire dai materiali che rimandano al
/ dai dolci colli di Romagna / qua trasse­ periodo fascista, altra riprova di quanto le
ro...”). In modo molto convincente Lattan- indagini sul campo possano contribuire a su­
zi analizza il processo mitopoietico messo perare cristallizzazioni e impasses del dibat­
qui in atto, secondo uno schema che carat­ tito storiografico.
Al periodo fascista più direttamente e
terizzerà anche le successive “(auto)-rappresentazioni epicizzate... deH’impresa di boni­ “perentoriamente” ci riconducono altri due
fica e della colonia agricola di Ostia” e che testi. Il primo ha come titolo Fascio e ara­
sottolinea il vittorioso opporsi dei romagno­ tro. La condizione contadina nel Lazio tra
li (dell’ “ente romagnolo”) alla naturalità le due guerre3, è curato e introdotto da Car­
ostile dei luoghi, all’incultura, alla desola­ lo Vallami e raccoglie un’ampia messe di
zione del territorio (incultura e desolazione documenti presentata da brevi saggi di An­
storicamente rafforzate da “ignavia di prin­ nalisa Zanuttini, Elisa Bizzarri, Patrizia
cipi e prelati / ed inerzia colpevole di gover­ Luzzato, Maria Ida Gaeta. Sono considera­
ni”, per citare ancora la lapide). La tesi qui te nell’ordine le condizioni di vita e di lavo­
sostenuta è dunque che l’evolversi di questo ro negli anni trenta, l’esperienza di Macca­
schema fondi le “coordinate simboliche di rese, la bonifica dell’Agro pontino e infine
un cosmo culturale”, e più di una confer­ l’opposizione al fascismo che si sviluppa
ma viene indubbiamente dal “montaggio” nelle campagne; il materiale documentario è
di brani tratti da numerosissime testimo­ tratto in larga parte dall’Archivio centrale
nianze orali, curate e presentate da Paolo dello Stato o desunto da diverse pubblica­
Isaja assieme a un prezioso repertorio ico­ zioni.
Più decisamente sul terreno della ricerca e
nografico.
Non è possibile soffermarsi su tutti i ver­ dell’esplicitazione di ipotesi complessive di
santi del discorso svolto: particolarmente lettura si collocano i saggi raccolti nel grà
densa è, ad esempio, l’analisi che Vito Lat- citato volume dal titolo La Merica in Piscitanzi fa dei momenti di socializzazione e di nara, curato da Emilio Franzina e da Anto­
festa in cui la tradizione romagnola si mani­ nio Parisella. Esso considera più da vicino,
festa prepotente e in cui la separazione dalla come suggerisce il sottotitolo, “emigrazio­
“tradizione cattolico-rurale” è indubbia­ ne, bonifica e colonizzazione veneta nell’A­
mente forte. Va solo aggiunto di sfuggita gro romano e pontino fra fascismo e post­
che le fonti orali sono sottoposte a un rigo­ fascismo” e raccoglie sostanzialmente gli at­
roso vaglio critico, ed è semmai da rimpian­ ti di un convegno tenutosi a Treviso nel
gere (in riferimento soprattutto al primo 1984 per iniziativa dell’assessorato alla Cul­
saggio, già citato) che uguale cautela non sia tura di quel Comune, con la collaborazione
sempre utilizzata nei confronti del documen­ dell’Istituto romano per la storia d’Italia e
to scritto. È piccolo rilievo, mentre indub­ del Centro veneto di ricerche sull’emigra­
biamente altro merito nel libro è quello di zione.
3
Fascio e aratro. La condizione contadina nel Lazio tra le due guerre, Roma, Cadmo, 1985, pp. 286.
Emigrazione e lavoro nelle bonifiche laziali
Alle già indicate ragioni di interesse del li­
bro un’altra almeno ne va aggiunta, richia­
mando ancora il saggio introduttivo di An­
tonio Parisella: gli studi proposti tendono sì
a recuperare la dinamica del “quotidiano”,
a uscire da un “primato della politica”
astrattamente inteso, ma questo spostamen­
to dalla “dinamica delle istituzioni” alla “vi­
ta personale” non avviene — a differenza
che in altri approcci attuali al fascismo, am­
plificati con forza dai media più influenti —
a scapito dell’analisi puntuale degli aggrega­
ti sociali (“classi, ceti, gruppi, forme locali
di vita associata”).
Per questa via è possibile misurarsi anche
con i nodi più intricati, ed Emilio Franzina
apre il suo stimolante contributo interrogan­
dosi sulle ragioni di un “consenso” al regime
che sembra essere maggiore proprio negli
anni di crisi.
Il saggio di Franzina è troppo ricco per
poter essere adeguatamente sintetizzato: in
esso la rivisitazione del dibattito storiografico si intreccia a spezzoni di ricerca, a ipotesi
interpretative, a puntuali riflessioni metodologiche. Non vi è dubbio, comunque, che la
colonizzazione dell’Agro pontino non possa
essere studiata se non considerando insieme
“miti, memoria e realtà” di essa, ponendo in
piena luce la “funzionalità simbolica” del­
l’operazione fascista e l’efficacia di essa: da
questo punto di vista le diverse “testimo­
nianze”, scritte e orali, qui riproposte e ripercorse offrono più di uno stimolo, più di
un supporto.
Anche qui (come, per altri versi, nel volu­
me su Ostia) il Veneto è l’ispiratore dell’in­
dagine e nel contempo il punto di partenza
dei coloni: sono cioè esaminati in maniera
privilegiata modelli, forme di cultura, rela­
zioni sociali, stereotipi che hanno nel Veneto
la loro origine e che si trovano ad interagire
135
con i messaggi del regime. E naturalmente
nelle “osservazioni sparse sulla cultura po­
polare di contadini e immigrati durante il fa­
scismo” vengono richiamati molteplici nodi
interpretativi connessi alle “ricerche condot­
te sui livelli dell’acculturazione promossa
dai ceti dirigenti terrieri e del mondo cattoli­
co” , e vengono al tempo stesso indicati alcu­
ni approcci possibili al canonico problema
dei rapporti fra mondo cattolico e fascismo.
Ai diversi livelli della comunicazione (o delle
comunicazioni), della “costruzione di imma­
gine”, è poi dedicato l’ultimo capitoletto del
saggio, prima di un epilogo che di nuovo
colloca la “particolare epopea del ‘VenetoPontino’” nella questione più generale del
consenso, dell’“effettivo grado di coinvolgi­
mento delle classi subalterne e del popolo
italiano nel fascismo”, sottolineando l’im­
portanza di analizzare “le interazioni del lo­
ro immaginario collettivo che non fu solo
quello popolare allo stato ‘puro’ ma anche
quello che scaturiva da un piano di propa­
ganda più sottile e articolato di quanto nor­
malmente si pensi” .
Frutto di una ricerca specifica sull’Agro
pontino dal fascismo agli anni settanta poi il
saggio di Oscar Gaspari, che riprende e svi­
luppa qui i temi da lui stesso affrontati ne
L ’emigrazione veneta nell’Agro pontino du­
rante il periodo fascista4. Il volume, che uti­
lizza sia fonti scritte sia fonti orali, dà un
notevole contributo alla conoscenza più pre­
cisa delle caratteristiche dell’emigrazione ve­
neta, dei prezzi sociali e umani pagati, del
definirsi di quei tesi rapporti fra i coloni e le
popolazioni locali che hanno lasciato un se­
gno profondo nella storia di questa zona.
Viene ancor meglio alla luce, per questa via,
quella diffusa “lotta di difesa” dei coloni nei
confronti dell’Opera nazionale combattenti
che già era stata sottolineata da Riccardo
4 Oscar Gaspari, L ’emigrazione veneta nell’Agro pontino durante it periodo fascista, Brescia, Morcelliana, 1985,
pp. 192.
136
Guido Crainz
Mariani, Fascismo e “città nuove”,5 e che
assume spesso le caratteristiche di un’ “arte
dell’arrangiarsi” intessuta di quotidiane ille­
galità. Opportunamente però Gaspari —
correggendo in questo la lettura di Mariani
— mette al tempo stesso in luce i limiti che
segnano gli atteggiamenti contadini: più
esattamente, rileva il coesistere di una ten­
sione aspra nei confronti dell’Onc e di una
mitizzazione favolistica, invece, della figura
di Mussolini (di un “Mussolini amico dei co­
loni” di cui troviamo traccia anche nelle te­
stimonianze raccolte a Ostia e proposte dal
già citato Pane e Lavoro).
Su questo terreno, la propaganda del regi­
me sembra fungere da “amplificatore ester­
no” nei confronti di un tratto della mentali­
tà contadina che ha radici antiche: la con­
vinzione che le disgrazie e le umiliazioni dei
poveri non siano colpa del re (in questo caso
del duce) ma dei funzionari rapaci e corrotti
che agiscono a sua insaputa. Interessanti so­
no anche (ne La Merica in Piscinara) alcuni
spunti che vengono dal prolungamento del­
l’indagine alla fase del secondo dopoguerra:
si pensi al modo in cui viene analizzato il
nuovo riaccendersi delle tensioni fra i coloni
e i braccianti dei Monti Lepini nel quadro
politico del dopoguerra, e anche ad alcune
indicazioni (ancora iniziali e frammentarie)
relative all’azione della Cassa del Mezzo­
giorno, all’insediamento di decine di stabilimenti industriali e ai suoi riflessi sul terreno
sociale.
Degli altri saggi raccolti nel volume, oc­
corre almeno citare i contributi di Michelan­
gelo Mari e Antonietta Cerocchi che, a par­
tire da indagini svolte sul terreno etnomusi-
cologico, tentano di delineare elementi di
permanenza della cultura tradizionale e ca­
ratteristiche dell’identità collettiva dei coloni
riconoscibili in due borghi specifici dell’A­
gro (Borgo Pogdora e Borgo Grappa). Il
saggio di Alfredo Martini, infine, ci conduce
a un altro tipo di emigrazione veneta nelle
campagne laziali, quella che ha come sbocco
— sempre nel periodo fascista — l’azienda
di Maccarese, nell’Agro romano. E ad altri
aspetti ancora, più nettamente diversificati,
rimanda un libro dello stesso Martini con il
quale concludiamo questa rassegna, I conta­
dini, la terra e il potere,6
Il sottotitolo avverte che sono qui conside­
rate “economia, politica e cultura nelle cam­
pagne laziali tra Ottocento e Novecento” ,
ma i tre capitoli del libro riguardano princi­
palmente l’area a sud di Roma, in particolare
la provincia di Frosinone. Al di là dei molte­
plici apporti di conoscenza che questo testo
fornisce, una pista di ricerca almeno va se­
gnalata: quella che tende a porre in luce la
sovrapposizione e l’intreccio di forme tradi­
zionali di protesta e di nuove forme di orga­
nizzazione e di protagonismo contadino. Ba­
stano per la verità pochi tratti, pochi sintetici
riferimenti per far cadere una schematica ce­
sura fra i due momenti e per ipotizzare inve­
ce una “lunga transizione” in cui vecchio e
nuovo tendono in qualche modo a sovrap­
porsi, a entrare in reciproco rapporto. E nel­
la quale il riemergere della “protesta” , delle
forme più antiche di resistenza e di protago­
nismo contadino sono, come osserva Marti­
ni, la spia, il segnale costante di un’ “estra­
neità” più complessiva.
Guido Crainz
5 Riccardo Mariani, Fascismo e “città nuove", Milano, Feltrinelli, 1976.
6 Alfredo Martini, I contadini, la terra e il potere, Roma, Bulzoni, 1985, pp. 100.
Tem po e società
di Paola Pirzio
Nell’attuale e talora estremamente varia
produzione libraria sempre più spesso si no­
tano titoli che propongono riflessioni su ca­
tegorie storico-critiche considerate, ad un
esame superficiale, appartenenti ad un lin­
guaggio ormai consolidato o evocatrici di re­
miniscenze filosofiche liceali. I volumi sul
“moderno” possono oggi costituire oggetto
di ampie ricerche critiche1. Non si può certa­
mente mettere tra parentesi la nuova e sti­
molante apertura tematica che propongono.
Come il Saggio sul tempo2 di Norbert Elias,
si muovono in un’area multidisciplinare tra
storia-sociologia-filosofia aprendo itinerari
di ricerca svincolati da stretti ambiti discipli­
nari per proporre percorsi storici non già di
eventi, ma di concetti il cui impiego è conti­
nuo non solo nel linguaggio quotidiano ma
nella produzione storiografica, dal manuale
per studenti alla saggistica più raffinata. In
particolare alcuni di questi studi si caratte­
rizzano per la presenza di una dimensione
storico-sociale in categorie interpretative in
cui era prevalsa una definizione in termini
teorici.
Il Saggio sul tempo raccoglie una serie di
scritti risalenti al periodo 1974-1984, alcuni
già pubblicati sulla rivista tedesca “Merkur”
nel 1982. Elias3 considera il tempo come un
momento interno al processo di civilizzazio­
ne4, una complessa dinamica data dai rap­
porti sociali e dalle modificazioni di com­
portamento che la vita associata impone agli
uomini nel corso della storia. Il processo di
civilizzazione secondo Elias, comprende sia
il divenire della società sia, di riflesso, le
modificazioni della struttura mentale indivi­
duale. Si potrebbe elaborare una psicologia
storica, ossia una disciplina atta a spiegare
la struttura psichica nel suo divenire colle­
gandola ai rapporti tra gli uomini e al tra­
sformarsi del tessuto e dell’organizzazione
della società. Dice anche Elias: “ ...è neces­
sario procedere ad una ricerca psicogenetica,
finalizzata a cogliere l’intero campo dei con­
flitti e dell’attività delle energie psichiche in­
dividuali, la struttura e la conformazione
dell’autocontrollo pulsionale, così come
quello del cosciente”5. Nel corso del proces­
so di civilizzazione il singolo è portato a tra-
1 Tra gli interventi più interessanti ricordo: Antonio Villani, Le chiavi del “postmoderno”: un dialogo a distanza,
in “Il Mulino”, 1986, n. 303; Sulla modernità, in “Problemi del socialismo” , 1986, n. 5; Paolo Rossi, “Idola” della
modernità, “Rivista di filosofia”, 1986, n. 3.
2 Norbert Elias, Saggio sul tempo, Bologna, Il Mulino, 1986.
3 N. Elias ha studiato medicina, filosofia e psicologia seguendo i corsi di Heinrich Rickert, Edmund Husserl, Karl Ja­
spers; laureatosi con Alfred Weber, ha insegnato a Francoforte presso il Dipartimento di Sociologia chiamato da Karl
Mannheim; dopo l’espatrio in Francia e Inghilterra per ragioni razziali, ora vive ad Amsterdam.
4 N. Elias approfondisce il tema in Potere e civiltà. Il processo di civilizzazione, Bologna, Il Mulino, 1983.
5 N. Elias, Potere e civiltà, cit., p. 372.
Italia contemporanea”, settembre 1987, n. 168
138
Paola Pirzio
sformare la sua economia mentale nella di­
rezione di una continua regolazione della
sua vita e del suo comportamento, non più
influenzato da una costrizione esteriore, ma
mosso da un processo di autocontrollo. Di­
venta così possibile individuare una sorta di
parallelismo tra la stabilità delle funzioni di
autoregolazione nel comportamento e la for­
mazione delle istituzioni centrali6 che com­
portano un infittirsi dei rapporti di dipen­
denza e delle catene di relazioni interperso­
nali. Di conseguenza prevale la tendenza a
controllare le proprie attività spontanee e
l’affettività muovendo dalla consapevolezza
che l’esistenza sociale verrebbe compromes­
sa da un affermarsi incondizionato della vita
istintiva.
Le relazioni tra i noti termini freudiani Io,
Super-Io, e Es mutano nel corso del proces­
so di civilizzazione in conformità alla tra­
sformazione dei rapporti sociali7. Le consi­
derazioni di Elias tendono a introdurre una
dimensione temporale anche nella formazio­
ne delle angosce, considerate tradizional­
mente in un singolo individuo: “l’intensità,
la forma e la struttura delle angosce che co­
vano o esplodono nell’individuo non dipen­
dono mai solo dalla sua natura umana, so­
prattutto nelle società più differenziate, non
dipendono mai dalla natura in seno alla
quale egli vive; in ultima analisi, sono sem­
pre determinate dalla storia e dalla struttura
effettiva dei suoi rapporti con i suoi simili,
dalla struttura della sua società, trasforman­
dosi con essa”8.
Nel Saggio sul tempo prosegue l’analisi
della struttura mentale iniziata in Potere e
civiltà, soprattutto spostando la sua atten­
zione sul versante della formazione della co­
noscenza. Secondo Elias il tempo sociale e il
tempo fisico vengono considerati spesso di­
stinti. Nel corso delle loro ricerche sulla na­
tura gli uomini si sono abituati a prenderne
le distanze per meglio analizzarla: in segui­
to, nella loro immaginazione, questo proces­
so mentale si è trasformato in una distanza
realmente esistente tra il soggetto e il mondo
degli oggetti. In tal modo il tempo fisico è
apparso un aspetto della natura, una sorta
di archetipo del tempo in generale, mentre il
tempo sociale venne declassato a prodotto:
la natura di conseguenza venne vista come
più reale del mondo sociale. Si verificò una
sorta di capovolgimento dei rapporti causaeffetto e il tempo delle scienze naturali ap­
parve più solidamente strutturato di quello
vissuto in quanto misurabile e quantificabi­
le. Ne è derivata una contrapposizione tra
natura e società del tutto fittizia, come dice
Elias: “la ‘società’ e la ‘natura’ non sono
realmente separate tra loro sul piano esisten­
ziale nei termini che ci fa credere il nostro
odierno modo di pensare e di parlare. Sepa­
rate le une dalle altre sono piuttosto le scien­
ze che hanno per oggetto di ricerca ‘natura’
e ‘società’”9.
Elias conduce una serrata critica al modo
tutto filosofico di intendere il tempo come
categoria a priori, riconducibile ad una mo­
dalità limitata di esperienza, vista solo in re­
lazione all’arco di vita di un singolo e non
come un’entità strutturatasi nel corso della
storia dell’umanità. Ma più che le critiche
che rivolge alla teoria cartesiana e kantiana,
critiche decisamente riconducibili a motivi
empiristici, è interessante la definizione di
tempo come funzione di “coordinamento e
di integrazione” 10. Anche se ancora oggi nel
linguaggio comune ci si riferisce al tempo
come ad una realtà, esso è più assimilabile
6 N. Elias fa riferimento ai “monopoli della costrizione fisica e del fisco” in Potere e civiltà, cit., p. 306.
7 N. Elias, Potere e civiltà, cit. p. 316.
8 N. Elias, Potere e civiltà, cit. p. 422.
9 N. Elias, Saggio sul tempo, cit. p. 106.
10 N. Elias, Saggio sul tempo, cit. p. 67.
Tempo e società
ad una relazione che un gruppo di uomini
istituisce tra due o più serie di eventi, di cui
una viene assunta come quadro di riferimen­
to dell’altra11. Solo ad uno stadio abbastan­
za tardo dello sviluppo delle società umane
si è formata la capacita di elaborare un con­
tinuum temporale in cui inserire anche la se­
rie di eventi della vita individuale. La di­
mensione temporale è soprattutto presente
negli stati industriali, ove si configura sia
come mezzo di orientamento e di regolazio­
ne del comportamento sia come costrizione
esteriore. Il punto di arrivo, come afferma
Elias, si configura come “una teoria sociolo­
gica del sapere e della conoscenza­
sociologica: infatti il soggetto della cono­
scenza non è più qui il singolo, ma lo scorre­
re generazionale dei molti, o se si preferisce,
lo scorrere del genere umano nel suo svi­
luppo” 12.
Ma se le considerazioni di Elias sul piano
teorico aprono importanti prospettive di
analisi, la definizione di categorie interpreta­
tive legate alla specificità di un’epoca appare
appena accennata. Una interpretazione più
articolata e soprattutto comprensiva della
dimensione assunta dalla nozione di tempo
da Aristotele ad Einstein e del suo carattere
polisemico viene proposta da Krzysztof Pomian nella voce Tempo-temporalità àe\YEn­
ciclopedia Einaudi13.
Il tempo è visto come una struttura strati­
ficata prodotta dalla storia e che “corrispon­
de grosso modo a quella dell’architettura
temporale della civiltà industriale” 14 i cui
strati provengono da epoche diverse. Relati­
vo ad una prospettiva individuale e legato a
139
stati affettivi, è il tempo psicologico; all’in­
dividualità del tempo psicologico si affianca
poi il carattere collettivo del tempo solare
(uguale per tutti gli abitanti di un territorio),
del tempo religioso (che stabilisce i periodi
del sacro), e del tempo politico che fissa l’i­
nizio dell’anno civile, valido per tutti i citta­
dini di uno Stato. Ma il tempo che scandisce
la vita di tutti è il tempo quantitativo della
vita collettiva, proprio della civiltà indu­
striale, ove ogni aspetto dell’esistenza viene
ritmato da strumenti di precisione15. La di­
sciplina del lavoro delle industrie ha contri­
buito a introdurre la dimensione quantitati­
va nella vita e nei meccanismi psichici degli
individui: regolamenti, multe e orari di ogni
specie hanno trasferito con brutalità conta­
dini e artigiani dal “mondo del pressapoco
all’universo della precisione” nella scansione
della giornata16. Il conflitto tra tempo quali­
tativo (psicologico, solare, religioso e politi­
co) e tempo quantitativo non appartiene solo
al passato. Anche se la dimensione quantita­
tiva ha prevalso da oltre un secolo, la resi­
stenza che le si oppone si riproduce nella vita
quotidiana ogni volta che si trovi ad adattare
i propri ritmi di vita individuali e collettivi al­
le velocità uniformi delle macchine.
Sia gli studi di Elias e di Pomian sul tem­
po17 che i saggi su “moderno” e “post-mo­
derno” propongono una apertura delle bar­
riere disciplinari tra storia-filosofia-sociolo­
gia che sembra utile ad un superamento sia
di una storia descrittiva sia di una disamina
astratta su categorie storiografiche.
In questa direzione Reinhart Koselleck nel
saggio Storia dei concetti e storia sociale
11 N. Elias, Saggio sul tempo, cit. p. 61.
12 N. Elias, Saggio sul tempo, cit. p. 38.
13 Krzystof Pomian, Tempo-temporalità, Enciclopedia, voi. 14, Torino, Einaudi, 1981, pp. 24-102.
14 K. Pomian, Tempo-temporalità, cit. p. 82.
15 Cfr. anche Jacques Le Goff, Tempo delia Chiesa e tempo del mercante, Torino, Einaudi, 1977.
16 L’espressione è di Alexandre Koyré, Dal mondo del pressapoco all’universo della precisione, Torino, Einaudi,
1967, pp. 102-108.
17 Vedi anche il volume recentemente pubblicato a cura di Umberto Curi, Le dimensioni del tempo, Milano, Angeli, 1987.
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Paola Pirzio
pubblicato nel volume Futuro passato18 —
libro molto problematico che richiede anche
una considerazione a sè stante — analizza i
problemi e le modalità di un collegamento
tra storia dei concetti e storia della società,
più complesso di “un semplice rapporto di
riconducibilità di una disciplina ad un’al­
tra” . Sostiene Koselleck, “senza concetti co­
muni non c’è società, soprattutto non c’è
unità di azione politica” 19. La relazione tra i
due campi di indagine va approfondita te­
nendo conto della dimensione storica e teo­
retica dei concetti per pervenire così ad una
maggiore comprensione dei termini della
storia socio-politica. Vengono prese in esa­
me soprattutto le categorie concettuali dota­
te di una portata semantica maggiore di
quella delle “semplici parole generalmente
usate nella sfera politico-sociale”20. Ad
esempio il termine tedesco Bürger non può
essere inteso nel suo significato preciso se
non viene visto nel suo divenire storico-con­
cettuale, dallo Stadt-Bùrger, ossia dall’“abi­
tante” della città del 1700, allo StaatsBiirger ossia al ‘cittadino dello Stato’ del
1800, sino al Bürger ‘borghese’ non proleta­
rio del 1900. Stadt-Bürger era un concetto
‘cetuale’, in cui confluivano determinazioni
giuridiche, politiche, economiche e sociali;
verso la fine del diciottesimo secolo venne
definito sulla base della non appartenenza
allo ‘stato’ dei contadini e della nobiltà e di­
venne lo Staats-Bürger che nel 1848 acquistò
diritti politici definiti, divenendo così citta­
dino dello Stato. Nella seconda metà del­
l’Ottocento in una società liberale in cui vi­
geva l’uguaglianza giuridica, divenne possi­
bile una definizione puramente economica
del Bürger, del borghese.
L’affermarsi secondo Koselleck di una
storia dei concetti come disciplina specifica
ha influenzato la stessa impostazione di al­
cuni problemi di storia sociale. Dapprima
ha assunto i caratteri di una critica all’ap­
plicazione ad eventi del passato di categorie
appartenenti all’attualità, per pervenire suc­
cessivamente ad una analisi critica della sto­
ria delle idee considerate spesso come entità
costanti nel loro nucleo essenziale, anche se
adattabili a situazioni diverse. Il procedi­
mento di analisi proprio e della storia dei
concetti e della storia sociale, prende le
mosse da un accertamento diacronico dei
contenuti concettuali per approdare ad una
definizione del significato attuale che il con­
cetto assume nella nostra visione del mon­
do. In questa fase i termini vengono isolati
dal loro contesto, legato ad una situazione
specifica e il loro spessore semantico viene
ricostruito sulla base della successione dia­
cronica.
Elias, Pomian e Koselleck hanno indicato
e in parte percorso alcune tappe di una ri­
flessione in gran parte appena iniziata e che
potrà svolgersi anche tenendo conto delle
proposte di problematiche e delle indicazio­
ni di metodo presenti in questi testi così
complessi, come Futuro passato.
Paola Pirzio
18 Reinhart Koselleck, Futuro passato, Genova, Marietti, 1986.
19 R. Koselleck, Futuro passato, cit., p. 92; il saggio Storia dei concetti e storia sociale è stato scritto in relazione
al lavoro compiuto in collaborazione con Otto Brunner e Werner Conze per la redazione del lessico Geschichtliche
Grundbergriffe (Concetti storici fondamentali), Stuttgart, 1972.
20 R. Koselleck, Futuro passato, cit.