Parte I - Università degli Studi di Palermo

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[LEDI\POGINECO\DISPENSE 2006-2007 PRIMA PARTE]
[ottobre 2006]
Bruno Celano
Positivismo giuridico e neocostituzionalismo
Dispense del corso di Filosofia del diritto (a.a. 2006-2007)
Prima parte
Indice
Parte I Il problema: qual è la natura dei fatti giuridici?
1. Il problema della definizione del concetto di diritto
2. Di che cosa parliamo, quando parliamo il linguaggio del diritto?
2.1 Due interrogativi
2.2 Alcuni termini problematici
2.3 Il vocabolario dei diritti
2.4 Diritto e magia
2.5 Un’ipotesi inquietante
2.6 Formulazioni alternative del problema
3. Positivismo giuridico e giusnaturalismo: caratterizzazioni preliminari
3.1 Giusnaturalismo
3.2 Positivismo giuridico
Riferimenti bibliografici
Avvertenza. Le presenti dispense sono fornite gratuitamente agli studenti del corso di Filosofia
del diritto. Il loro uso ai fini della preparazione all'esame non sostituisce lo studio degli altri testi
adottati.
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[LEDI\POGINECO Parte I (TXM)]
[ottobre 2006]
Bruno Celano
Positivismo giuridico e neocostituzionalismo
Dispense del corso di Filosofia del diritto (a.a. 2006-2007)
Parte I Il problema: qual è la natura dei fatti giuridici?
1. Il problema della definizione del concetto di diritto
(1) Cercheremo anzitutto di dare una collocazione, di mettere a fuoco, l'ambito tematico di
questo corso, l'area nella quale si iscrivono i temi e i problemi che affronteremo in queste lezioni.
Soprattutto, formuleremo alcuni interrogativi di fondo, cercando di articolarne il senso.
Partiamo dal titolo di questo corso: "Positivismo giuridico e neocostituzionalismo". Qual è il
significato di queste due locuzioni? Come è da intendere il loro accostamento?
(2) Il modo migliore per rispondere a queste domande consiste nel prendere le mosse da un
interrogativo di carattere generale (un interrogativo molto - forse troppo - ambizioso, roboante; ma
lo porremo egualmente). Che cosa è il diritto? Qual è la natura del diritto?
‘Positivismo giuridico’ e ‘neocostituzionalismo’ sono etichette che designano due diverse
risposte (o meglio, due diverse famiglie di risposte) a questo interrogativo. Due risposte diverse e,
almeno sotto certi aspetti e in particolari versioni, confliggenti. (Come vedremo, se una teoria
giuspositivista sia compatibile con una posizione neocostituzionalistica è uno degli interrogativi ai
quali metterà capo la nostra indagine.)
(3) Cerchiamo di chiarire ulteriormente l'interrogativo appena formulato. Si tratta, banalmente,
della ricerca di una definizione del (concetto di) diritto.
Che cosa è una definizione? La teoria della definizione (l'indagine, cioè, sulla natura, i compiti, i
metodi, della definizione) è materia alquanto complessa. E' possibile distinguere più tipi, e più
metodi, di definizione. Non è qui necessario addentrarci in queste complicazioni.
Approssimativamente, ‘definire’ (fornire la definizione di) qualcosa equivale a tracciare il limite, il
confine, che separa la cosa in questione da altre cose; equivale, cioè, a tracciare il limite fra ciò che
la cosa definita è, e ciò che essa non è (il confine fra ciò che le è proprio, le appartiene, le sue
caratteristiche peculiari, e ciò che non le è proprio, non le appartiene). La definizione è, per così
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dire, delimitazione, determinazione, del territorio occupato dalla cosa definita .
‘Positivismo giuridico’ e ‘neocostituzionalismo' sono etichette che designano due diverse
(famiglie di) definizioni del concetto di diritto.
(Che cosa è il diritto? Può ben darsi, beninteso, che la risposta a questa domanda sia diversa in
tempi e luoghi diversi - epoche e contesti storico-sociali diversi. Che, cioè, non vi sia un concetto di
diritto, ma che il concetto di diritto, o la natura del diritto, sia storicamente mutevole.)
(4) Che cosa è il diritto? Passiamo in rassegna alcune ipotesi di risposta.
(a) Il diritto è un insieme di libri, o di documenti. Insoddisfacente: se distruggo questo libretto
(una copia della Costituzione italiana), non distruggo la Repubblica italiana. Stampare un codice, o
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Ciò di cui si cerca la definizione viene abitualmente denominato 'definiendum' ('ciò che è da definire'); il discorso che
costituisce la definizione medesima viene abitualmente denominato 'definiens' ('ciò che definisce'). Così, ad es., se
definiamo l'uomo 'animale razionale', 'uomo' è il definiendum, 'animale razionale' il definiens.
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una legge, fare una fotocopia di un fascicolo della Gazzetta ufficiale, non è emanare un codice,
legiferare (il numero delle leggi, o dei codici, non aumenta).
(b) Un insieme di persone (membri del Parlamento, giudici, avvocati, poliziotti), o di luoghi
(tribunali, prigioni, facoltà di giurisprudenza). Anche questa ipotesi di risposta è insoddisfacente: i
giudici interpretano e applicano il diritto, le forze di polizia applicano ed eseguono disposizioni
giuridiche (o almeno, così si spera), deputati e senatori producono diritto. Ma non sono diritto. Non
solo: che un individuo sia un giudice, un senatore, un poliziotto dipende, in qualche modo, dal
diritto. Tribunali e prigioni sono edifici, il cui carattere di tribunali o prigioni dipende - non dalla
loro struttura architettonica, dai materiali con i quali sono costruiti, ecc., ma - dal diritto. In essi, il
diritto viene applicato, eseguito, o prodotto; ma non sono essi stessi diritto. Nelle facoltà di
giurisprudenza si studia il diritto. Ma, per l’appunto, che cosa è il diritto?
(c) Un insieme di comportamenti, di azioni (una pratica sociale); ad es., ciò che fanno i giudici e
gli avvocati. Ma, ovviamente, giudici e avvocati (gli esseri umani che sono giudici, avvocati) fanno
parecchie cose che col diritto non hanno nulla a che vedere; quali, fra i loro atti, abbiano carattere
giuridico dipende, ancora una volta, dal diritto. E, del resto,per identificare giudici e avvocati è
necessario fare riferimento al diritto. (Che un certo essere umano sia un giudice o un poliziotto, si
diceva prima, è cosa che dipende, ancora una volta, dal diritto.) Ma che cosa è il diritto?
(d) Un insieme di discorsi. Molti discorsi giuridici (i discorsi degli operatori e degli studiosi del
diritto) sono, però, discorsi sul diritto: discorsi che hanno il diritto come proprio oggetto, non sono
essi stessi diritto. O forse ci sono discorsi che sono essi stessi diritto? (Discorsi non sul diritto, ma,
per così dire, del diritto?). Comunque sia, sembra poco plausibile che il diritto si esaurisca in un
insieme di discorsi - che questa caratterizzazione, anche se corretta, sia esaustiva.
(5) Queste ipotesi di risposta all’interrogativo circa la natura del diritto sono ben poco plausibili.
Non è stato difficile smontarle. Accenno ora a quattro ulteriori linee di risposta, storicamente molto
influenti, che non sono - almeno, non a prima vista, altrettanto deboli.
(a) Normativismo: il diritto è norma, un insieme di norme, o di regole. Questa idea, generica, può
essere specificata, come vedremo, in una varietà di modi.
(b) Istituzionalismo: il diritto è, prima ancora che un insieme di regole, la società medesima, il
gruppo sociale organizzato. Ubi societas ibi ius, dove c’è società c’è diritto, poiché il diritto è,
precisamente, l’organizzazione interna del gruppo sociale, il gruppo sociale organizzato nella sua
concretezza (che può sì produrre, in modo più o meno formale, delle regole, ma è, precisamente, ciò
che dà origine alle regole in questione, e ne costituisce il fondamento).
(c) La tesi storicistica: come tanti altri concetti di fenomeni storico-sociali (e non, probabilmente,
i concetti di proprietà naturali, come ad es. ‘rosso’ - o forse anche questi, chissà) il concetto di
diritto è un concetto mutevole nel corso del tempo, variabile in tempi e luoghi diversi. Una
definizione che fosse adeguata al diritto quale si presenta qui e ora, ad es. nei paesi dell’Europa
continentale, potrebbe rivelarsi del tutto inidonea a rendere conto della natura del diritto in altri
tempi e luoghi - ad es. nei sistemi di common law.
(d) Un quarta linea di risposta - una linea di dissoluzione, piuttosto che di soluzione, del nostro
problema - è la linea scettica: non è possibile fornire alcuna definizione del concetto di diritto.
Perché? La posizione scettica si presenta anch’essa in una pluralità di versioni. Una risposta
potrebbe essere: perché il fenomeno ‘diritto’ è un fenomeno talmente poliedrico, variegato e
complesso da non poter essere catturato in una definizione (un fenomeno che presenta una
molteplicità di aspetti diversi ed eterogenei, non riconducibili a unità, come richiesto da una
definizione).
Come orientarsi in questa selva di ipotesi, idee, opinioni, disparate?
(6) Lasciamo per il momento da parte queste quattro linee di definizione, e seguiamo una strada
diversa, cercando di aggirare queste difficoltà iniziali. Prendiamo le mosse da un ulteriore
interrogativo - da una ulteriore formulazione del nostro problema di fondo (‘Che cosa è il diritto?’):
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di che cosa parliamo, quando parliamo il linguaggio del diritto? Su che cosa vertono i discorsi
giuridici?
In altri termini: vi sono, parrebbe, fatti giuridici (il fatto che Tizio sia proprietario di questa
automobile; che Caio abbia commesso una truffa, o che Sempronio sia un giudice, o il Presidente
della Repubblica italiana; che A debba a B una certa somma di denaro, in adempimento di quanto
stabilito da un contratto validamente stipulato; che A e B siano sposati; che A sia l'erede di B; e così
via). Ebbene: che genere di fatti sono i fatti giuridici?
Non si tratta, parrebbe, di fatti naturali, empiricamente accertabili. (Alcuni fatti, proprietà,
relazioni, entità, eventi, processi, ecc., sono fatti naturali, o ‘fisici’ in senso lato. Ma i fatti giuridici
non sono, sembrerebbe, di questo tipo.) Ma ciò vuol dire che si tratta di fatti sovra-naturali, diversi e
al di là di fatti naturali? Questo è un punto sul quale vale la pena di soffermarsi.
2. Di che cosa parliamo, quando parliamo il linguaggio del diritto?
2.1 Due interrogativi
Nel tentativo di districarci fra le diverse ipotesi di definizione del diritto, dunque, formuliamo un
ulteriore interrogativo.
(1) Di che cosa parliamo, quando parliamo il linguaggio del diritto? Intorno a che cosa
vertono i discorsi giuridici?
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Nel discorso giuridico ricorrono termini ed espressioni caratteristici: termini come 'proprietà',
'matrimonio', 'credito', 'diritto', 'obbligo', 'contratto', ecc. Il discorso giuridico è, cioè, contraddistinto
dall'uso di termini ed espressioni appartenenti a un insieme (relativamente) delimitato e circoscritto,
un vocabolario tecnico (risultato, in gran parte, della tecnicizzazione di vocaboli ed espressioni già
appartenenti al discorso ordinario), che chiamerò 'vocabolario (o lessico) giuridico'. Ebbene: su che
cosa vertono i nostri discorsi quando facciamo uso di termini ed espressioni appartenenti al
vocabolario giuridico? Quando, ad es., facciamo uso di enunciati come i seguenti:
(2) Il proprietario di questa automobile è Tizio. (x è proprietà di Caio.)
(3) A è sposato con B.
(4) Tizio ha diritto a x. (Gli X hanno il diritto di fare A.)
(5) I cittadini italiani di sesso maschile, maggiorenni, hanno l'obbligo di prestare il servizio
militare. (Tizio è soggetto all'obbligo di fare A.)
Una nozione che può risultare utile ai fini della chiarificazione di questo interrogativo è la
nozione di 'riferimento', elaborata nell'ambito della filosofia del linguaggio contemporanea (in
particolare, la teoria del significato; il riferimento di un'espressione linguistica è abitualmente
concepito come un aspetto del suo significato).
In senso stretto, il riferimento di un termine o un'espressione è l'insieme degli oggetti (entità
individuali: 'individui', in senso lato) ai quali il termine si applica, che il termine denota o designa.
In senso lato (e non tecnico), il riferimento di un'espressione linguistica (un termine, un sintagma,
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Possiamo prescindere, per il momento, dalla distinzione fra discorso del diritto e discorso sul diritto (cui si è accennato
sopra, 1.). Non è neppure necessario assumere che sia in ultima istanza possibile tracciare, in modo netto e univoco,
questa distinzione.
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un enunciato) è l'insieme delle cose, i fatti, ai quali essa rinvia, che essa porta alla considerazione
(ciò su cui, intorno a cui, essa verte). L'idea di fondo, comune a queste due accezioni del termine
'riferimento', è almeno apparentemente semplice: un'espressione linguistica rinvia a qualcosa d'altro
da sé, qualcosa di non linguistico; ciò cui essa rinvia (in un modo particolare, bisognoso di
specificazione e definizione) ne costituisce, per l'appunto, il riferimento. Ovvero, termini o
espressioni linguistici hanno (se non tutti, una gran parte di essi) una controparte reale: vi sono
abitanti del mondo, 'cose' extralinguistiche, cui il termine o l'espressione rinviano. Determinare il
riferimento dell'espressione è individuare, identificare, la sua controparte nella realtà, l'abitante del
mondo (extralinguistico) cui essa rinvia. Così, ad es., il riferimento del termine 'Tito' (il nome di un
individuo) è il mio cane, Tito; il riferimento dell'espressione 'L'autore della Divina Commedia' è
una certa persona, Dante Alighieri; il riferimento del termine 'rosso' (un termine che designa una
proprietà, o una caratteristica) è costituito dal colore rosso (o da tutti gli individui rossi); il
riferimento dell'enunciato 'La Terra gira intorno al Sole' è costituito dal fatto che la Terra gira
intorno al Sole; il riferimento dell'enunciato 'E' scoppiato un temporale' è costituito da un evento, lo
scoppio di un temporale. Il riferimento, in senso ampio, comprende individui, proprietà
(caratteristiche), relazioni, stati di cose, fatti, eventi, processi.
La domanda (1) verte, per l'appunto, sul riferimento dei termini che appartengono al vocabolario
del diritto e che, tipicamente, ricorrono nel discorso giuridico; in generale, sul riferimento delle
espressioni (termini, sintagmi, enunciati) dalle quali il discorso giuridico è costituito, delle quali
esso è intessuto. La riformuleremo nel modo seguente.
(1') A che cosa facciamo riferimento, quando utilizziamo espressioni tipiche del lessico
giuridico?
Qual è il riferimento di termini come 'proprietà', 'matrimonio', 'diritto soggettivo', 'obbligo'? A
quali fatti, stati di cose, relazioni, eventi, individui, facciamo riferimento quando facciamo uso, ad
es., di enunciati della forma (2) - (5)?
Ma, ci si potrebbe chiedere, si tratta di un problema genuino? A prima vista, la (1) e la (1')
appaiono ben poco interessanti, se non addirittura insulse. Di fatto, si potrebbe argomentare, gran
parte dei membri della nostra società, delle società che conosciamo - si tratti di operatori giuridici, o
dell'uomo della strada - fanno abitualmente uso del vocabolario giuridico. Sapranno bene di che
cosa stanno parlando.
Le cose, però, non sono così semplici. Per quanto possano apparire insulsi, non è facile dare una
risposta convincente ai due interrogativi appena formulati. Naturalmente, quando si fa uso del
vocabolario giuridico si fa abitualmente riferimento anche a individui, proprietà, fatti ed eventi del
tutto ordinari, che non hanno nulla di specificamente giuridico. Un enunciato come, ad es., 'Il
proprietario di questa automobile è Tizio' fa riferimento a questa automobile e a Tizio, che di per se
stessi non hanno nulla di specificamente giuridico. L'enunciato 'A è sposato con B' fa riferimento a
due persone, A e B, che non sono, come tali, entità giuridiche (sono esseri umani in carne e ossa). E
così via. Insomma: il discorso giuridico verte anche, d'ordinario, su cose (individui, fatti, ecc.) non
giuridiche. Sotto questo aspetto, il riferimento dei discorsi giuridici non presenta alcun problema
peculiare (alcun problema che non sia proprio anche di una teoria del riferimento per enunciati di
tipo affatto ordinario, come 'Questa è un'automobile', o 'A e B stanno facendo una passeggiata'). Ma
il discorso giuridico è intessuto di termini ed espressioni peculiari – i termini e le espressioni
costitutivi del vocabolario giuridico, per l'appunto – che non sembrano facilmente assimilabili, sotto
il profilo in esame, a termini ordinari come 'automobile', ecc. Termini, in effetti, il cui significato è
oscuro e dei quali, in particolare, non è affatto facile specificare il riferimento.
Il problema centrale, come adesso vedremo, sembra essere questo: del discorso giuridico fanno
parte, parrebbe, espressioni (termini, sintagmi, enunciati) che designano oggetti, entità, proprietà,
relazioni, fatti, stati di cose, eventi, processi non fisici (non naturali; estranei, per così dire, al
mondo fisico): entità, proprietà, fatti, eventi, che non sussistono (esistono, hanno luogo, si
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verificano, ecc.) 'per natura', o 'in natura', e che appaiono dotati di un modo di esistenza, una forma
di realtà, diversa da quella dei fenomeni naturali. Ma, se non designano (fanno riferimento a)
alcunché di naturale, che cosa mai designano le espressioni in questione? Che cosa c'è di non
naturale, non fisico? Il mondo nel quale viviamo - il mondo, tout court - non è forse il mondo fisico
- un mondo costituito, in ultima istanza, da entità, proprietà, fatti, eventi, processi naturali? Se non è
a entità, proprietà, ecc. di questo ordine che i termini e le espressioni caratteristici del vocabolario
giuridico fanno riferimento, a che cosa mai fanno riferimento? Qual è la loro controparte reale,
quali sono gli abitanti del mondo cui essi rinviano? Forse gli abitanti di una 'realtà non-naturale', un
mondo 'al di là' del mondo fisico? Ipotesi simili sembrano assurde, eppure la considerazione del
comportamento, e del significato, di termini ed espressioni tipici del vocabolario giuridico
sembrano almeno suggerirle, se non imporle. Passeremo ora in rassegna alcuni esempi, che
illustrano questa difficoltà.
2.2 Alcuni termini problematici
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(1) 'Banconota da dieci euro '. Che cosa è una banconota da dieci euro? Si consideri questo
oggetto (Una banconota da dieci euro.) L'oggetto presenta certe proprietà fisiche (colore, peso,
resistenza; una certa composizione chimica). Il suo essere una banconota da dieci euro, però, non è
una di queste proprietà. Non solo: che un oggetto di questo tipo sia una banconota da dieci euro non
dipende dalle sue proprietà fisiche – non, almeno, allo stesso modo in cui, ad es., il suo peso
dipende dalla sua composizione chimica. Le banconote da dieci euro avrebbero potuto essere di
colore diverso, avere, in generale, proprietà fisiche molto diverse (in effetti, le proprietà fisiche
delle banconote da dieci euro possono cambiare). C'è, palesemente, un senso nel quale il fatto che
un certo tipo di oggetto sia una banconota da dieci euro è indipendente dall'insieme delle
caratteristiche fisiche che il tipo di oggetto in questione presenta.
Dunque: che questo pezzo di carta sia una banconota da dieci euro è un fatto. Ma di che genere
di fatto si tratta? Non, parrebbe, di un fatto naturale: non è per natura (non è, cioè, in virtù delle loro
caratteristiche naturali, o di esse soltanto) che oggetti di questo tipo sono banconote da dieci euro.
Non esistono, in natura, banconote da dieci euro (o di qualsiasi altro taglio).
(2) 'Frontiera’. Supponiamo che un certo fiume costituisca la frontiera fra due stati. Un altro
fiume, a breve distanza, non ha questa proprietà: non è la frontiera. Dove sta la differenza fra i due
fiumi? Da che cosa dipende che l'uno, anziché l'altro, sia la frontiera? Non dalle loro proprietà
fisiche: l'essere questo fiume, piuttosto che quest'altro (o, perché no, quella catena montuosa), la
frontiera, non dipende – non necessariamente, e comunque non direttamente - dal suo costituire una
barriera naturale (può accadere, ad es., che un fiume molto largo e profondo non segni la frontiera,
e che quest'ultima sia invece costituita da un rigagnolo). Che quel fiume, che occupa quella
posizione, sia la frontiera, non è per natura.
Il fatto che un certo fiume costituisca la frontiera fra due stati è, si potrebbe dire, un fatto
giuridico: che esso sussista dipende dal diritto. Si tratta, per di più, di un fatto che ha innumerevoli
conseguenze (anzitutto, conseguenze giuridiche), alcune delle quali estremamente significative (se,
ad es., un'azione di un certo tipo sia commessa al di qua o al di là del fiume può fare un'enorme
differenza per gli individui in essa coinvolti). Ma è difficile spiegare di che genere di fatto si tratti.
(Non, parrebbe, di un fatto naturale.) L'attribuire al fatto in questione la qualifica di 'giuridico' non è
una risposta a questo interrogativo. La domanda si ripropone: che cosa vuol dire che un fatto sia un
fatto 'giuridico', o 'dipendente dal diritto'?
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Un’ottima presentazione, molto istruttiva, dei puzzle del denaro si trova in Searle 1999, pp. 112-3.
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(3) 'Maggiore età'. L'essere maggiorenne non si identifica con l'avere (almeno) diciotto anni (una
proprietà fisica, naturale): chi compie diciotto anni diventa maggiorenne, ma il fatto che egli sia
maggiorenne sembra essere un fatto diverso, ulteriore (qualcosa di più), rispetto al fatto biologico
dell'avere (almeno) diciotto anni. Si tratta di un fatto che si produce - viene ad esistenza - al
compimento dei diciotto anni, ma che non si identifica con quest'ultimo. Un fatto, per di più, la cui
condizione di esistenza avrebbe potuto essere costituita da un fatto diverso dal compimento dei
diciotto anni; ad es., il compimento di venti, o sedici, anni di età.
In altri termini: le espressioni 'maggiorenne' e 'di almeno diciotto anni di età' non hanno lo stesso
significato (non significano lo stesso). Se così non fosse, l'asserto:
(6) Coloro che hanno almeno diciotto anni di età sono maggiorenni
non direbbe nulla di più dell'asserto:
(7) Coloro che hanno almeno diciotto anni di età hanno almeno diciotto anni di età
o dell'asserto:
(8) I maggiorenni sono maggiorenni.
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Sarebbe anch'esso, come questi ultimi, una tautologia . Ma l'asserto (6) (ossia: 'La maggiore età
di acquista al compimento dei diciotto anni') non pare affatto tautologico. Lo è tanto poco, che esso
sembra piuttosto fornire un'informazione estremamente importante, ricca di implicazioni e
conseguenze di vario genere. Se 'maggiorenne' significasse 'di almeno diciotto anni di età', la
domanda:
(9) Coloro che hanno compiuto diciotto anni sono maggiorenni?
sarebbe equivalente alla domanda:
(10) Coloro che hanno compiuto diciotto anni hanno compiuto diciotto anni?
o alla domanda:
(11) I maggiorenni sono maggiorenni?
Sarebbe, cioè, una domanda 'chiusa', contenente in sé la risposta. Ma la domanda (9), o la
domanda:
(12) Qual è l'età alla quale si diventa maggiorenni?
lungi dal suonare 'chiusa' (come, ad es., le domande (10), (11), o la domanda: 'Qual è l'età alla quale
si compiono diciotto anni?') sembra perfettamente sensata, affatto intelligibile: è, a tutti gli effetti,
una domanda 'aperta'. Dunque, 'maggiorenne' non ha lo stesso significato di 'di almeno diciotto anni
di età'.
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Asserti come ad es. 'I cani sono cani', o 'Piove o non piove' – asserti necessariamente veri, in virtù del significato dei
termini dai quali sono costituiti – sono detti 'tautologie' ('dire due volte la stessa cosa'). Le domande corrispondenti – 'I
cani sono cani?'; 'E' vero che piove o non piove?' – non sono, come si suole dire, domande 'aperte': contengono in sé la
risposta, il che rende del tutto ozioso, se non impossibile, il porsele. (E' possibile chiedersi sinceramente 'I cani sono
cani?'?)
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Ma, se il fatto di essere maggiorenne non si identifica con il fatto di avere almeno diciotto anni,
qual è la relazione che intercorre fra di essi? Sembra si possa dire: il compimento dei diciotto anni è
un evento al cui prodursi segue, come conseguenza, il diventare maggiorenni: l'uno è la condizione
il cui verificarsi produce l'altro. In breve, il compimento del diciottesimo anno di età sembra essere
la causa, il cui effetto consiste nel diventare maggiorenne; effetto, quest'ultimo, che a sua volta
costituisce la causa di (svariati, e importanti) effetti ulteriori (anzitutto, effetti giuridici). Il
compimento di diciotto anni, insomma, sembra essere un fatto (un fatto naturale) atto a produrre un
fatto ulteriore, l'essere maggiorenne, di tipo diverso: un fatto (non naturale, biologico, ma)
giuridico. Con uno schema ('>' sta qui per 'è causa di'; 'ME' per 'maggiore età; 'EG' per 'effetti
giuridici'):
(13) (Compimento dei diciotto anni di età) > ME > EG.
Ebbene: che cosa è ME? Che genere di fatto (diverso dal fatto, biologico o fisico, consistente
nell'avere, Tizio, almeno diciotto anni di età) è il fatto consistente nell'essere, Tizio, maggiorenne?
Che Tizio sia maggiorenne non vuol dire, parrebbe, che ha almeno diciotto anni di età; si tratta,
apparentemente, di un fatto ulteriore (un effetto). Ma, d'altro lato, cos'altro mai potrebbe voler dire,
se non che Tizio ha almeno diciotto anni?
(4) ‘Sposato’. Che tipo di fatto è il fatto che due persone siano sposate? Che tipo di evento, o
stato di cose, è un matrimonio? Che due persone siano sposate non si identifica con un insieme di
relazioni fisiche fra le due persone in questione (vivere insieme, avere rapporti sessuali, prendersi
per i capelli, ecc.). Può accadere che tali relazioni sussistano, e che, tuttavia, non vi sia alcun
matrimonio (che le persone in questione non siano sposate). E, viceversa, può accadere che tali
relazioni non sussistano, e vi sia matrimonio: sussista un vincolo matrimoniale. Un certo insieme di
eventi ha luogo: certi individui si riuniscono in un certo luogo, compiono certi atti, pronunciano
certe parole. Diciamo che un 'matrimonio' ha avuto luogo: due degli individui presenti sono, ora,
'sposati'. A quale fatto, a quali proprietà, facciamo riferimento con queste espressioni? Non,
parrebbe, all'insieme dei fatti – fatti naturali, comportamenti osservabili, fatti psicologici – dei quali
diciamo che il matrimonio costituisce, per l'appunto, la conseguenza. I fatti in questione sono
piuttosto rappresentati come fatti 'operativi', la cui 'operazione' consiste nel far sì che venga ad
esistenza qualcosa di ulteriore: il vincolo matrimoniale (l'essere, A e B, sposati). Dal fatto che due
persone siano sposate seguono innumerevoli, importanti, conseguenze giuridiche; ma in che cosa
consiste, precisamente, il fatto in questione?
In altri termini. Il vincolo matrimoniale è abitualmente rappresentato come un quid che viene ad
esistenza in virtù di un insieme di fatti e eventi – come l'effetto di questi ultimi – e che a sua volta è
atto a produrre certe conseguenze – è causa di effetti ulteriori; anzitutto, effetti giuridici ('FO' sta qui
per 'fatti operativi'; 'VM' per 'vincolo matrimoniale').
(14) FO > VM > EG.
Si ripropone il problema nel quale ci siamo imbattuti nel caso della maggiore età. I fatti operativi
sono, in linea di principio, individuabili: siamo in grado di dire di che tipo di fatti si tratti (fatti
attinenti al comportamento osservabile, o al comportamento linguistico, di individui determinati;
fatti psicologici; ecc.). Le conseguenze giuridiche sembrano esserlo anch'esse (torneremo fra breve
- infra, 2.3 - su questo punto). Ma che genere di 'cosa' è il termine intermedio, il vincolo
matrimoniale? Che genere di fatto è la sussistenza di un vincolo matrimoniale (l'essere, A e B,
sposati)?
(5) ‘Proprietario’. Si considerino, infine, i termini 'proprietà', e 'proprietario'. Che genere di
caratteristica è la caratteristica di un oggetto - un bene mobile o immobile - consistente nel suo
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essere 'mia' (ossia, 'proprietà' di Tizio)? Che genere di relazione è la relazione che intercorre fra il
proprietario di un bene e il bene di cui egli è proprietario? Non, parrebbe, una relazione fisica (ad
es., il possesso, il controllo, il godimento, ecc.). Data una qualsiasi relazione fisica (prossimità,
controllo, manipolazione, ecc.), è possibile, in linea di principio, che io sia proprietario di un bene
con il quale non mi trovo nella relazione indicata, e che io non sia proprietario di un bene con il
quale mi trovo in tale relazione. La proprietà viene ad esistenza come effetto di certi fatti (‘modi di
acquisizione’ – della proprietà, si badi, non della cosa); e ha, a sua volta, certe conseguenze (certi
effetti giuridici). Ma in che cosa consiste la proprietà stessa? Ancora una volta:
(15) FO (modo di acquisizione) > PR (x è mio) > EG.
Che genere di cosa (fatto, ecc.) è il termine intermedio? Nulla, parrebbe, di fisico, o naturale.
Il discorso giuridico, dunque, appare intessuto di termini ed espressioni il cui riferimento è
oscuro: questi termini sembrano non fare riferimento a entità, proprietà, relazioni, fatti, fisici, o
naturali (dunque, osservabili). Sembra, però, che vi sia un'ovvia via d'uscita da queste difficoltà. La
difficoltà, si potrebbe argomentare, è solo apparente, poiché il senso di ciascuno dei termini passati
in rassegna (e, dunque, degli enunciati, e in generale delle espressioni, nei quali essi ricorrono) può
essere specificato, esplicitato, delucidato, chiarito (e dunque, per così dire, incassato), nei termini di
insiemi di posizioni giuridiche soggettive (poteri, facoltà, diritti, pretese, obblighi o doveri, oneri,
ecc.) che, ricorrendo certe condizioni, certi individui si trovano ad occupare. Queste posizioni sono,
precisamente, gli effetti giuridici cui tali fatti danno luogo.
Questa linea di dissoluzione del problema appare promettente, e proveremo ora a percorrerla.
Ma, come si vedrà fra breve, la difficoltà, in ultima istanza, si ripropone.
2.3 Il vocabolario dei diritti
Gran parte dei testi giuridici autoritativi (codici, leggi, ecc.), nonché dei discorsi degli scienziati
del diritto e degli operatori giuridici, sono fraseggiati nella forma dell'attribuzione, a soggetti
(persone fisiche, persone giuridiche) che soddisfano certe condizioni, di certe 'proprietà' normative:
poteri, prerogative, competenze, libertà. privilegi, facoltà, licenze, pretese, immunità, diritti,
capacità, responsabilità, autorizzazioni, permessi, titoli, obblighi, oneri ecc. ('Tizio ha il diritto di...';
'Gli x hanno facoltà di...', e così via). Molti istituti di diritto positivo (proprietà, contratto,
testamento, ecc.) possono essere rappresentati e analizzati, e sono abitualmente rappresentati e
analizzati, in questo modo; nei termini, cioè, di insiemi di attribuzioni normative spettanti a due o
più soggetti, gli uni in rapporto agli altri (talvolta, in rapporto a cose, o azioni), e delle condizioni di
acquisizione, modificazione ed estinzione di tali attribuzioni.
Il discorso giuridico, dunque, si presenta, in misura rilevante, nella forma dell'attribuzione a
soggetti che soddisfano certe condizioni di posizioni, o situazioni, rispetto ad altri soggetti (talvolta,
in rapporto a cose o azioni), comunemente denominate 'posizioni (o situazioni) giuridiche (o, in
generale, normative) soggettive'. L'insieme dei termini, o concetti, che esprimono posizioni
normative soggettive può essere denominato 'vocabolario dei diritti', intendendo il termine 'diritto'
5
('diritto' in senso soggettivo) in un'accezione molto ampia .
5
L'uso del termine 'diritto' nell'accezione di diritto soggettivo (ovvero, in senso soggettivo) è l'uso che di esso viene
fatto in locuzioni del tipo: 'Ho diritto a...', 'I diritti umani', 'Il diritto di proprietà', e così via. In enunciati di questo tipo,
il termine 'diritto' sembra designare qualcosa di appartenente a un soggetto, un bene di cui egli è il detentore, una sua
proprietà; in questo senso, un che di 'soggettivo'. Rileva C. S. Nino (1980, trad. it. p. 173): "la situazione nella quale
diciamo che si dà un diritto soggettivo di solito viene qualificata ricorrendo ad altre espressioni, come 'libertà',
'permesso', 'licenza', 'prerogativa', 'privilegio', 'facoltà', 'potere', 'possibilità', 'garanzia', e simili. Tutti questi termini sono
parzialmente sinonimi di 'diritto' in senso soggettivo". La nozione di diritto soggettivo (l'uso del termine 'diritto' in
9
Ebbene: sembra si possa affermare che i termini e le espressioni sulle quali ci siamo soffermati
nel paragrafo precedente designino proprietà, caratteristiche, relazioni, entità, ecc., che sono
definibili, o analizzabili, in termini di (insiemi di) poteri, facoltà, obblighi, e così via: in termini,
cioè, di posizioni giuridiche soggettive. Asserti nei quali ricorrono i termini in questione paiono
facilmente traducibili, senza residui, in asserti fraseggiati nei termini del vocabolario dei diritti.
Queste posizioni (o insiemi determinati di esse) sono, precisamente, gli effetti cui i fatti discussi
(l'essere, Tizio, maggiorenne; l'essere, A e B, sposati; ecc.) danno luogo. Così, ad es., che Tizio sia
diventato, al compimento del diciottesimo anno di età, maggiorenne, vuol dire, precisamente, che
'può' fare certe cose che prima non 'poteva' fare: che ha acquisito certi diritti, o poteri, che si trova
ora ad occupare una certa posizione giuridica. Lo stesso dicasi, ad es., dell'essere sposato;
dell'essere, un certo pezzo di carta, una banconota (chi ha la banconota può, in virtù di essa,
compiere particolari operazioni); della frontiera fra due stati (la cui rilevanza consiste, in ultima
istanza, nella differenza che intercorre fra le posizioni giuridiche di coloro che si trovano sui due
lati della frontiera stessa). Sembra, insomma, che sia possibile 'incassare' il contenuto di queste
nozioni, a prima vista problematiche, nei termini della specificazione di (insiemi di) 'poteri', ecc.
(posizioni giuridiche soggettive).
Il problema non può, però, considerarsi risolto. Ammettiamo pure che i fatti, le proprietà, i
processi, le entità sui quali ci siamo soffermati nel paragrafo precedente siano esplicabili, in modo
esauriente, in termini di posizioni giuridiche soggettive - nei termini, grosso modo,
dell'acquisizione, la perdita, l'esercizio di 'poteri'. Ebbene: i 'poteri' in questione sono, anch'essi,
oscuri, di difficile chiarificazione. Qual è il loro status, la loro natura? Che tipo di 'posizioni' sono le
posizioni giuridiche soggettive? Si tratta, parrebbe, di poteri. o posizioni, non fisici, non naturali.
(1) Tizio compie diciotto anni, e diventa maggiorenne; dunque, 'può' compiere una certa azione
A (ad es., recarsi in India) senza autorizzazione da parte dei suoi genitori. Tuttavia, non dispone dei
mezzi per fare A: in realtà, non 'può' affatto fare A. Che genere di 'potere', dunque, è il potere
derivante dall'aver compiuto diciotto anni - un potere, si badi bene, compatibile con l'impossibilità
materiale, fisica (il non-potere) di compiere l'azione rilevante?
(2) Tizio è proprietario di un'automobile; dunque, 'può' guidarla. Ma è cieco. (E' proprietario di
un fondo; dunque, 'può’ coltivarlo. Ma è del tutto incapace di sopportare la fatica fisica del lavoro
nei campi.) Ancora una volta: che genere di 'potere' è il potere derivante dall'essere proprietario di
un bene?
(3) La 'capacità di agire' è, in qualche senso, un potere (un complesso di poteri). Si tratta di un
potere fisico? No. La capacità di agire non si identifica con una particolare costituzione fisica, o
psicofisica, di colui che è capace di agire; le azioni che colui che è capace di agire può compiere
non sono azioni fisiche (l'acquisizione della capacità di agire non si identifica con l'acquisizione
della capacità di compiere particolari azioni fisiche, naturali). Si tratta, piuttosto, del potere di
compiere particolari atti, atti ‘giuridici’, e, in tal modo, di contribuire alla produzione di certi effetti
giuridici (ad es., la redazione di un testamento). Ma che cosa vuol dire che un'azione (o un atto) sia
'giuridico'? (Gli atti giuridici sono atti non naturali, non fisici?) E che tipo di produzione è la
produzione di effetti giuridici? Che tipo di relazione è, cioè, la relazione che intercorre fra l'azione
senso soggettivo) si contrappone abitualmente alla nozione di diritto oggettivo (all'uso del termine 'diritto' in senso
oggettivo); l'uso, cioè, che del termine 'diritto' viene fatto in locuzioni del tipo: 'Il diritto italiano vigente', 'Il diritto
romano arcaico', 'Il diritto privato', ecc. (Sulle diverse accezioni del vocabolo 'diritto' cfr. Tarello 1974, pp. 9-17, Nino
1980, trad. it. pp. 9-13, Comanducci 1992, pp. 144 sgg.; Guastini 2001, pp. 3-5; e, con riferimento alla distinzione fra
'diritto oggettivo' e 'diritto soggettivo', Nino 1980, trad. it. p. 173; Guastini 1994, pp. 147-8, e 2001, pp. 4-5, 39.) E'
opportuno sottolineare che nella lingua inglese (a differenza da quanto accade in italiano, francese e tedesco) la
distinzione fra diritto oggettivo e diritto soggettivo è codificata a livello lessicale; il diritto oggettivo è designato dal
termine 'law', il diritto soggettivo dal sostantivo 'right'. (Ciascuno di questi due termini ha, però, anche altri significati;
cosa, questa, che contribuisce a confondere le acque.)
10
(non fisica) di colui che è capace di agire (la causa), da un lato, e il venire ad esistenza di certi
effetti (non fisici, ma) giuridici, d'altro lato? Non, parrebbe, una relazione di produzione, o di
causalità, fisica, o naturale.
(4) Un pubblico ufficiale ha certi poteri. Può, ad es., ordinarci di tenere un certo comportamento.
Ma in che senso un pubblico ufficiale 'può' (ha il 'potere' di), ad es., ordinarci di consegnare una
certa somma di denaro? Nello stesso senso nel quale, ad es., un individuo che ci minacci con un
coltello 'può' farlo? Il 'potere' del pubblico ufficiale è, come il 'potere' del bandito, il potere (fisico,
naturale) di fare in modo che il destinatario dell'ordine subisca certe conseguenze spiacevoli in caso
di non adempimento? Che differenza c'è fra il comando, l'ordine, di un pubblico ufficiale, e l'ordine
emesso da un bandito? C'è un senso, parrebbe, nel quale il pubblico ufficiale ha un 'potere' del quale
il bandito è privo. Non sembra trattarsi, però, di un potere fisico, naturale.
In tutti questi casi, il 'potere' rilevante consiste in ciò che (semplificando all'estremo, e
6
tralasciando alcune complicazioni) può essere denominato un 'diritto' ('diritto' in senso soggettivo):
il maggiorenne, il proprietario, colui che è capace di agire, il pubblico ufficiale hanno certi diritti, o
hanno il diritto di tenere certi comportamenti (indipendentemente, parrebbe, dalla questione se
abbiano anche il potere fisico di farlo). Spesso, a questi diritti corrispondono, o sono correlativi,
obblighi da parte di altri soggetti. Sembra si possa dire: i 'poteri' in questione non sono, è ovvio,
poteri naturali; sono, precisamente, diritti. Ma, per l'appunto, che genere di 'potere' è un diritto? E,
correlativamente, che genere di 'vincolo', o di legame, è un obbligo?
(5) Diritti. Si consideri un enunciato della forma: 'Tizio ha il diritto di fare A'. Il diritto è un
potere; ma si tratta di un potere diverso dal, non coincidente con, il potere naturale di fare A. Può
accadere sia che Tizio abbia il potere naturale di fare A (ad es., privare Caio della libertà di
movimento), e tuttavia non abbia il diritto di farlo; sia che Tizio abbia il diritto di fare A (ad es.,
andare da Palermo a Mondello in bicicletta), e tuttavia non abbia il potere fisico di farlo (è il mio
caso). Asserire che Tizio ha il diritto di tenere un certo comportamento non equivale ad asserire che
Tizio possa effettivamente (di fatto) tenere il comportamento in questione.
(6) Obbligo. La nozione di obbligo suggerisce l'idea di un legame, o un vincolo. Chi ha l'obbligo
di comportarsi in un certo modo è per così dire vincolato, legato. Ma di che tipo di vincolo, o di
legame, si tratta? Non, ancora una volta, di un vincolo naturale, o fisico. Può accadere che io sia
soggetto a un vincolo fisico, senza essere soggetto a un obbligo (può accadere, ad es., che io non
possa fisicamente compiere un'azione, che tuttavia non ho l'obbligo di non compiere). Così come
può accadere – ed è anzi il caso tipico – che io sia soggetto all'obbligo di non compiere un'azione
che posso, fisicamente, compiere. Ciò che in questi casi è legato, sembra si possa dire, non è il mio
corpo (i miei muscoli, le mie ossa), o la mia psiche (il mio carattere): sono io, la mia volontà.
In altri termini: colui che è soggetto a un obbligo non è fisicamente necessitato a comportarsi in
un certo modo anziché in un altro. E' vero: costui, in un certo senso, non 'può' comportarsi
diversamente da quanto richiesto. Ma il 'potere' in questione non è un potere fisico: ciò che si
intende dire, quando si afferma che un certo individuo non 'può' agire in un certo modo perché
soggetto all'obbligo di comportarsi diversamente, non è che l'individuo in questione non possa
fisicamente agire in modo difforme da quanto richiesto. Al contrario, si assume abitualmente
(appartiene, per così dire, alla grammatica della nozione di obbligo) che Tizio possa propriamente
dirsi soggetto all'obbligo di comportarsi in un certo modo solo se, di fatto, può accadere che egli
agisca diversamente da quanto richiesto: che, banalmente, Tizio possa, di fatto, violare l'obbligo cui
è, in ipotesi, soggetto.
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Non tutti i diritti sono poteri. La nozione di diritto soggettivo sarà oggetto di un’analisi dettagliata infra, £.
11
Ma allora, di che genere di vincolo, o di legame, si tratta? Il comportamento di un individuo che
si assume soggetto all'obbligo di comportarsi in un certo modo anziché un altro è un
comportamento, per così dire, necessitato, o costretto: che lo desideri o meno, si assume, l'individuo
'non può non' comportarsi nel modo indicato. Ma, al tempo stesso, il comportamento in questione
non è concepito come un comportamento fisicamente necessitato; l'obbligo non è rappresentato
come una causa, alla quale segua, come suo effetto necessario, il comportamento ad esso conforme.
Che genere di necessità - una necessità non fisica, né, dunque, causale - è qui in questione?
Quanto si è appena detto a proposito delle posizioni giuridiche soggettive ('diritti'), nei termini
delle quali sembra si possa 'incassare' il contenuto di espressioni come 'banconota da dieci euro',
'frontiera', 'maggiore età', 'capacità di agire', ecc., può dirsi anche a proposito dei rapporti
intersoggettivi (rapporti giuridici) corrispondenti. Spesso, il contenuto di particolari settori del
diritto positivo – ad es., particolari istituti - viene presentato nella forma di un rapporto, o un
insieme di rapporti, fra due o più soggetti, detentori di – fasci di – diritti o doveri gli uni nei
confronti degli altri (il rapporto fra creditore e debitore, ecc.). Che genere di rapporti sono i rapporti
in questione? Si tratta, parrebbe, di rapporti non fisici, non naturali.
2.4 Diritto e magia
Il linguaggio giuridico è, dunque, pervaso da termini il cui significato – in particolare, il cui
riferimento - è elusivo, sfuggente. Un'aura di mistero aleggia intorno ad essi. Non è affatto chiaro
quali siano le controparti reali, gli abitanti del mondo, cui i termini e le espressioni in questione
pretendono di rinviare. Sembra di avere a che fare con entità, fatti, proprietà, facoltà, poteri, rapporti
impalpabili, immateriali: in qualche senso, sovra- o ultra-naturali.
Non solo: alcuni dei fatti in questione sono rappresentati come fatti che è possibile produrre, far
venire ad esistenza, mediante il proferimento di enunciati: compiendo, cioè, atti linguistici. In certi
casi, sembra che i fatti in questione sussistano in virtù del fatto che qualcuno dice che essi
sussistono; o che essi si producano in virtù del fatto che qualcuno dice che li produce. Talvolta,
sembra che la semplice espressione del desiderio che un fatto del tipo rilevante si produca sia
sufficiente a far sì che esso, effettivamente, si produca. Qualche esempio può chiarire questo punto.
(1) Supponiamo che le autorità competenti dichiarino: 'Questo tipo di banconota è valuta legale
in Ipazia', e che qualcuno si chieda: 'Come lo sanno?' ('Come hanno fatto a scoprirlo?'). La domanda
7
sarebbe, palesemente, sciocca . Perché? Semplice: il tipo di banconota in questione è valuta legale
in Ipazia se, e perché, le autorità competenti dicono che lo è. Non ha senso, dunque, chiedersi come
abbiano fatto le autorità competenti a sapere che il tipo di banconota in questione è valuta legale; lo
è, precisamente perché lo hanno detto. L'enunciato rilevante è un enunciato la cui enunciazione (da
parte di individui appropriati, in circostanze appropriate) rende vero l'enunciato medesimo: fa sì che
effettivamente sussista lo stato di cose sul quale esso verte, che esso descrive. E', cioè, un enunciato
che si auto-verifica.
(2) Si consideri la celebrazione di un matrimonio: 'Vuoi tu prendere in sposa la qui presente
Serena Rossi?'; 'Sì, lo voglio'. Mediante il proferimento di questo enunciato, Serena Rossi diventa,
effettivamente, la mia sposa. Non ho soltanto dichiarato il mio desiderio che lo diventi, la mia
volontà di prenderla in moglie; dichiarando tale volontà, l'ho effettivamente presa in moglie. L'ho
presa in moglie, mediante la dichiarazione della volontà, da parte mia, di prenderla in moglie
(quando dico: 'Voglio che sia mia moglie', lei diventa mia moglie). Sembra che, in questo caso, la
semplice espressione del desiderio che qualcosa accada faccia sì che esso, effettivamente, accada.
7
L’esempio si deve a J. R. Searle.
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Qualcosa di simile accade, per fare qualche altro esempio, nel caso di donazioni, contratti,
testamenti; o nel caso di molti atti, provvedimenti, decisioni, da parte di funzionari pubblici. In
molti di questi casi, parrebbe, il proferimento di enunciati, l'espressione di desideri, ecc., produce
effetti reali, in conformità al contenuto di tali enunciati medesimi (l'espressione del desiderio che un
certo bene diventi proprietà di una certa persona fa sì che esso diventi proprietà della persona in
questione; e così via).
Ebbene: l'idea che sia possibile produrre effetti reali, cambiamenti nel mondo, mediante la
semplice enunciazione di una formula linguistica - in particolare, che sia possibile fare in modo che
qualcosa venga ad esistenza, o si verifichi, mediante l'espressione del desiderio che essa venga ad
esistenza, si verifichi, o mediante la semplice dichiarazione del fatto che essa esiste, o ha luogo - è
un'idea caratteristica della mentalità magica. (Si tratta, in ultima istanza, dell'idea che le cose
obbediscano alle parole; e che la conoscenza delle parole - la parola 'vera', le parole 'giuste' conferisca, a chi la possiede, una forma di potere sulle cose.) Che cosa è, se non una forma di
magia, il far sì che le cose abbiano effettivamente luogo, accadano, vengano ad esistenza, mediante
l'enunciazione della propria volontà, del proprio desiderio, che esse abbiano luogo? ('Quando cade
una stella, esprimi un desiderio'.) Ha carattere magico, in generale, l'idea che le cose obbediscano
alle parole (alle parole 'giuste': 'Apriti Sesamo!', ma non 'Per favore, porta, potresti aprirti?').
L'enunciazione di formule al fine di produrre effetti reali, in conformità al loro contenuto – il potere
di cambiare il mondo mediante le parole - non è forse un caso paradigmatico di potere magico?
Il diritto sembra avere a che fare con poteri e facoltà non naturali (sovra- o ultra-naturali); poteri
il cui esercizio, a sua volta, consiste sovente nell'enunciazione di formule il cui proferimento è
rappresentato come atto a produrre effetti reali, in conformità al loro contenuto. Che cosa sono
poteri siffatti, se non poteri magici? Il discorso giuridico sembra, dunque, essere espressione di
credenze false e atteggiamenti superstiziosi: l'uso di termini ed espressioni appartenenti al
vocabolario giuridico sembra potersi assimilare all'uso di formule magiche. Giuristi e operatori
giuridici somigliano, parrebbe, a sciamani.
2.5 Un’ipotesi inquietante
Termini ed espressioni appartenenti al vocabolario giuridico sembrano essere privi di
riferimento: sembra non esservi alcuna controparte reale, alcun abitante del mondo, cui essi
rinviino. O, peggio ancora, sembrano fare riferimento (o avanzare la pretesa di fare riferimento) a
fatti, entità, relazioni, processi, eventi, ultra- o sovra-naturali, ‘al di là’ del mondo fisico (fatti,
8
eventi, ecc. ‘metafisici’) .
Siamo dunque costretti a trarre la conclusione che, nonostante l’apparenza, i termini e le
espressioni appartenenti al vocabolario giuridico siano privi di riferimento - come lo è, ad es., il
vocabolo ‘unicorno’, o l’espressione ‘Araba Fenice’? Siamo cioè costretti a trarre la conclusione
che quando parliamo di obblighi, matrimoni, banconote da dieci euro, ecc., in effetti non stiamo
facendo riferimento a nulla di reale? Questo sospetto è aggravato, come abbiamo visto, da una
circostanza ulteriore: accade sovente che i fatti giuridici siano rappresentati come fatti che è
possibile produrre, far venire ad esistenza, mediante il proferimento di enunciarti: mediante la
dichiarazione del fatto che essi sussistono, o si producono, o addirittura mediante l’espressione del
desiderio che essi si producano (fatti che sussistono in virtù del fatto che qualcuno dice che essi
sussistono). E ciò è sorprendente. Questo non è certamente quanto accade di solito. Se dico che la
porta dell’aula è aperta, o che desidero che sia aperta, non per questo la porta si apre. Ma se sono il
8
Ci sono, si badi bene, altri tipi di fatti il cui statuto concettuale appare incerto o problematico. Ad es., i fatti matematici
(il fatto che due più due fa quattro, e così via), o i fatti morali (ad es., il fatto che la tortura sia un male). Anch’essi
sembrano avere qualcosa di ‘metafisico’.
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Presidente del Senato e dico che la seduta è aperta, per ciò stesso, in virtù e in forza della mia
dichiarazione, la seduta è aperta (‘si apre’). Se esprimo il desiderio di vivere nel medioevo, non per
questo viaggio nel tempo, e mi ritrovo nel medioevo. Mentre se esprimo, nelle circostanze
appropriate, il desiderio di prendere in moglie Serena Rossi, Serena Rossi diventa mia moglie. Il
discorso giuridico sembra insomma pervaso dall’assunto che le cose obbediscano alle parole - idea,
questa, tipica di una mentalità magica, superstiziosa, ‘primitiva’. (Basta pronunciare la formula
giusta - ad es. ‘Apriti Sesamo’ - e le cose vanno così come viene detto - Sesamo si apre.) Giuristi e
operatori giuridici, quando parlano di obblighi, diritti, proprietari, maggiorenni, ecc., sembrano
paragonabili, si diceva, a sciamani che evocano, e pretendono di controllare, potenze (forze, poteri)
sovrannaturali.
Tutto ciò getta una luce sinistra sul discorso giuridico - genera, cioè, il sospetto che debba
considerarsi giustificata una posizione radicalmente scettica: il discorso giuridico, in realtà, non
verte su nulla, ed è espressioni di credenze erronee. Non ci sono fatti, proprietà, relazioni, ecc.,
giuridici: ci sono solo persone che credono, erroneamente, che vi siano simili fatti, proprietà, ecc., o
che comunque parlano come se essi esistessero. Non vi sono, in realtà, obblighi, diritti, matrimoni,
ecc., ma solo persone che erroneamente credono nella loro esistenza (e di poter creare e controllare
queste cose mediante il proferimento di parole, di formule magiche).
Dobbiamo effettivamente trarre questa conclusione? Il discorso giuridico è esposto a un sospetto,
radicale, di insensatezza. Questo sospetto deve considerarsi fondato?
2.6 Formulazioni alternative del problema
Lasciamo in sospeso anche questo interrogativo, che resterà sullo sfondo della nostra indagine.
Una teoria soddisfacente del diritto dovrà essere in grado di fronteggiare questa difficoltà - o
abbracciando la conclusione scettica, oppure trovando una risposta che riscatti il discorso giuridico
dal sospetto di insensatezza che grava su di esso (determiNando quale sia il riferimento dei termini
giuridici, o mostrando in che modo essi possano essere dotati di significato, pur essendo privi di
riferimento).
Può essere utile, prima di proseguire, introdurre alcuni modi alternativi di formulare il problema
sul quale ci siamo soffermati sino ad ora, che ci torneranno utili nel prosieguo di questo corso.
L'interrogativo generale dal quale abbiamo preso le mosse (‘Che cosa è il diritto?’), e quello, più
specifico, sul quale ci siamo appena soffermati (‘Di che cosa parliamo, quando facciamo uso del
linguaggio del diritto?’) suscitano interrogativi ulteriori. (Si tratta, in generale, di specificazioni,
formulazioni parziali, dell'interrogativo iniziale.)
(a) Sulla base di quali considerazioni possiamo pervenire a conclusioni sul diritto, a conclusioni
giuridiche? Sulla base di che cosa, cioè, possiamo affermare o negare proposizioni giuridiche? Qual
è il fondamento di validità di conclusioni giuridiche (proposizioni giuridiche: proposizioni su fatti
giuridici)?
I fatti giuridici possono costituire l'oggetto di proposizioni (possono, ad es., essere asseriti).
Ebbene: quando, a quali condizioni, proposizioni siffatte sono vere? Che cosa - che genere di fatti,
per l'appunto - rende vere (o false) proposizioni del genere? Ovvero, quali sono le condizioni di
verità di proposizioni che vertono su (asseriscono la sussistenza di) fatti giuridici? In altri termini
ancora: quando, a quali condizioni, proposizioni siffatte possono correttamente essere asserite?
Quali sono le loro condizioni di asseribilità?
(b) Quali sono i criteri di identità del diritto? Come identificare il diritto? Sulla base di che cosa
identifichiamo qualcosa come diritto? (Data una questione, una controversia, un caso, come
individuare, riconoscere, che cosa è diritto?)
Che genere di argomenti (considerazioni) possono, o debbono, essere utilizzati ai fini
dell'identificazione del diritto?
14
Positivismo giuridico e neocostituzionalismo sono posizioni teoriche che forniscono risposte
almeno parzialmente diverse e, forse, confliggenti, a questi interrogativi. Quali risposte?
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3. Positivismo giuridico e giusnaturalismo: caratterizzazioni preliminari
3.1 Giusnaturalismo
Un ostacolo si frappone al tentativo di dare risposta, sin d’ora, a questa domanda. Positivismo
giuridico e neocostituzionalismo, dicevo, sono posizioni teoriche che forniscono risposte diverse a
questi interrogativi. Tradizionalmente, però, l'antitesi che ha dominato la storia della cultura
giuridica e della riflessione sul diritto non è stata quella fra positivismo giuridico e
neocostituzionalismo (quest'ultimo è, come del resto suggerisce il prefisso ‘neo’, una posizione
relativamente recente, risalente alla seconda metà del Novecento), ma quella fra positivismo
giuridico e giusnaturalismo (o dottrina del diritto naturale). Per indagare la relazione - o la
contrapposizione - fra positivismo giuridico e neocostituzionalismo, è necessario comprendere,
anzitutto, l'antitesi tradizionale. (Come vedremo, è una questione aperta se il neocostituzionalismo
sia una versione della dottrina del diritto naturale. Alcune forme di neocostituzionalismo hanno
un'evidente impronta giusnaturalistica.)
La tradizione giusnaturalistica è stata, dall’antichità sino all’Ottocento, la tradizione egemone
nella storia della cultura giuridico-politica e della filosofia occidentali. Semplificando all’estremo,
la resi comune alle diverse versioni del giusnaturalismo è la tesi secondo cui esiste un diritto
naturale: c’è un diritto insito nella natura degli esseri umani e dei rapporti sociali, un diritto dettato
dalla natura delle ‘cose’ (di quelle ‘cose’, in particolare, che sono gli esseri umani e i rapporti
sociali); un diritto che discende da ciò che gli esseri umani e le relazioni fra di essi, propriamente,
sono. Un diritto, dunque, che è valido per natura, il medesimo in ogni tempo e luogo, che esiste non come frutto di decisioni o comportamenti umani, ma - ‘in natura’. (Alcune forme di
comportamento o di rapporto sociale sono ‘secondo natura’, altre ‘contro natura’.) Comportamenti e
relazioni sociali sono governati da una norma naturale: da regole, principi o valori - in generale,
9
norme - che sono insiti nella loro natura (una norma è costitutiva della loro natura) .
Corollario si questo assunto è la tesi secondo cui il diritto positivo (diritto posto, prodotto dagli
esseri umani) è tale - è autenticamente, genuinamente diritto, è ‘vero’ diritto - solo se si conforma al
9
A titolo illustrativo, alcuni esempi - possibili - di questo modo di vedere: (1) termini che designano ruoli o funzioni
sociali (un ‘vero’ professore: il concetto di professore è un concetto che contiene in sé un ideale, una norma, un criterio
di giudizio, che consente di valutare un professore reale come un buono o cattivo professore - al limite, un ‘falso’
professore). (2) Termini funzionali: una ‘vera’ lezione, un ‘vero’ orologio (il fine per il quale si assume l’oggetto sia
stato costruito svolge il ruolo di una norma, un criterio di valutazione). (3) Una ‘vera’ amicizia. Consideriamo ora
alcuni casi di immediato rilievo giuridico (sia ben chiaro: non sostengo che un giusnaturalista debba necessariamente
condividere le tesi e gli argomenti che seguono; si tratta solo di esempi che illustrano in modo forse brutale ma, spero,
efficace, un certo stile di argomentazione): (4) la famiglia come “società naturale fondata sul matrimonio” (Cost. it. art.
29). Alcune idee che possono essere associate a questa nozione: i vincoli naturali fra genitori e figli (da cui, secondo
alcuni, l’inammissibilità della fecondazione eterologa o della maternità surrogata); alcune persone ritengono che
discenda dalla natura del vincolo matrimoniale che esso sia indissolubile, o che i coniugi debbano essere di sesso
diverso (l’idea - diffusa - che le coppie omosessuali siano coppie ‘contro natura’; secondo alcuni, è parte integrante
della natura del matrimonio, è insito nel concetto medesimo di matrimonio, che i coniugi siano di sesso diverso; l’idea
di un matrimonio fra persone dello stesso sesso è, secondo costoro, un’idea incoerente, assimilabile all’idea di un
cerchio quadrato). (5) L’ordine sociale, e politico, come ordine naturale: gerarchie di nascita (ad es., alcuni esseri umani
sono per natura destinati a servire come strumenti viventi; altri a dominare o governare). (Caso paradigmatico, una
società di casta; quale sia il posto che a ciascuno spetta nell’ordine sociale è determinato dalla sua nascita; l’idea di
aristocrazia.) (6) La promessa: è nella natura delle promesse - deriva dal concetto medesimo di promessa - che le
promesse debbano essere mantenute (dire: ‘Ti prometto che verrò a trovarti, ma non ho alcuna intenzione di farlo’ è
concettualmente incongruo; si potrebbe sostenere - ed è stato sostenuto - che la norma pacta sunt servanda è un
principio costitutivo di ciò che la promessa è). Importazione della promessa in ambito giuridico: autonomia privata (il
contratto come scambio di promesse), diritto internazionale (trattato).
16
diritto naturale: solo se riflette il diritto naturale, o comunque non se ne discosta, contrapponendosi
10
ad esso (solo se ne costituisce una derivazione diretta, o una determinazione, specificazione) .
Consideriamo più da vicino l’ipotesi di un diritto naturale (l’idea di un ordinamento sociale
naturale, secondo natura: fondato, radicato, nella natura stessa degli esseri umani, e della società).
Che cosa vuol dire, qui, 'naturale', o 'secondo natura'?
Quando ci rappresentiamo un ordinamento sociale come un ordinamento naturale, ciò che è
'naturale' ('secondo natura') è pensato, concepito, rappresentato, sotto almeno quattro aspetti.
(1) Il 'naturale' viene pensato, in primo luogo, come ciò che è necessario: ciò che non potrebbe
essere diversamente da come è, che non potrebbe stare diversamente da come sta. L'opposizione
rilevante è qui l'opposizione: necessario vs. contingente.
(2) Il 'naturale' è pensato, in secondo luogo, come ciò che è indipendente dall'intervento umano
(in particolare, da attività, decisioni e scelte umane). L'opposizione rilevante è qui l'opposizione:
'indipendente dall'opera dell'uomo', 'dato', 'sorto (sviluppatosi) spontaneamente', 'sottratto
11
all'intervento umano' vs. 'frutto dell'opera dell'uomo', 'prodotto dall'uomo' .
(3) Il 'naturale' è pensato, in terzo luogo, come ciò che è genuino, autentico, non contraffatto:
l'originale (ciò che è per così dire senza additivi né conservanti, puro, il 'vero' x). L'opposizione
rilevante è qui l'opposizione fra il naturale, così inteso, e la copia, l'imitazione, il succedaneo, il
surrogato, la contraffazione, l'artificio.
(4) Il 'naturale' viene pensato, infine, come ciò che è giusto, corretto, appropriato: ciò che è così
come deve essere, come è giusto, è bene, che sia.
Un (ipotetico) ordinamento sociale naturale, dunque, è pensato come un ordinamento che
presenta le seguenti caratteristiche.
(1) E' un ordinamento la cui esistenza, e il cui contenuto, sono necessari: un ordinamento che
non potrebbe non esistere (che, cioè, necessariamente esiste: non accade che ora esista, ora non
esista, né avrebbe potuto non esistere), e il cui contenuto non potrebbe essere diverso da quello che
è (non è suscettibile di mutamento: è in ogni occasione lo stesso, né avrebbe potuto essere altro da
quello che è). Un ordinamento, insomma, eterno e immutabile.
(2) E' un ordinamento la cui esistenza e il cui contenuto non dipendono da comportamenti umani
contingenti: non dipendono, cioè, dall'intervento umano, da attività, scelte, decisioni, compiute da
esseri umani (in particolare, da autorità umane). Non si tratta di un ordinamento prodotto dall'uomo.
(3) E' l'ordinamento sociale autentico, genuino: non un succedaneo, un surrogato, una
contraffazione, bensì un unicum: la 'vera' regolamentazione dei rapporti sociali, la genuina,
autentica, originaria modalità di organizzazione dell'interazione sociale: l'unico 'vero' ordinamento
sociale.
(4) E' un ordinamento giusto, nel duplice senso di: (a) appropriato, confacente, conveniente,
corretto; (b) conforme a giustizia. L'organizzazione (regolamentazione, ordinamento) naturale della
società è l'organizzazione grazie alla quale la società è così come, secondo natura, deve essere, o è
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Così, ad es. per proseguire con l’esempio addotto nella nota precedente, una legge che istituisse la possibilità di
‘matrimonio’ fra persone dello stesso sesso sarebbe - per coloro che condividono quelle idee - una cattiva legge, una
non-legge: non sarebbe, in verità, una legge, ma una corruzione, degenerazione o perversione della legge, una ‘controlegge’. O ancora: discende - secondo alcuni - dalla natura dei rapporti fra genitori e figli che sia illecita (‘contro-diritto’)
la maternità surrogata, o la fecondazione eterologa. Una legge che consentisse queste pratiche sarebbe un contro-legge,
non sarebbe autentico, vero diritto (si darebbe un conflitto, una discrasia, fra l’ordine giuridico positivo e l’ordine
naturale).
11
E' questo uno dei modi più profondi e radicati in cui è possibile intendere l'affermazione che qualcosa è, o avviene,
'per natura'. In questa accezione, il termine 'natura' designa "tutte le cose che non sono prodotte dall'uomo, tutta la parte
del mondo che (...) non dipende dal fare dell'uomo, tutti gli enti ed eventi che (...) nascono, si sviluppano, muoiono in
conformità a leggi non poste né modificabili dall'uomo". Il 'naturale' è, in breve, l'insieme delle cose che non dipendono
dall'uomo, e "sulle quali [l'uomo] non può avere alcun potere" (Bobbio 1963, p. 26; è questo, secondo Bobbio, il
"significato profondo, originario, fondamentale del termine 'natura'").
17
bene che sia (prima accezione). La giustizia è il più alto ideale, valore, delle relazioni sociali;
dunque, una società che sia così come una società deve, secondo natura, essere, come è bene che
sia, è una società conforme a giustizia (seconda accezione). Conclusione: un ordinamento sociale
naturale è, per definizione, un ordinamento sociale conforme a giustizia.
Un ordinamento dell'interazione sociale che sia, in questo quadruplice senso, naturale (che, cioè,
abbia i caratteri della necessità, dell'indipendenza dall'intervento umano, dell'autenticità, della
giustizia) è ciò che tradizionalmente viene denominato 'diritto naturale'. Le concezioni e le teorie
del diritto secondo le quali è pensabile, ed esiste, un diritto naturale sono comunemente denominate
12
'giusnaturalistiche' . (Le principali versioni della posizione giusnaturalistica: giusnaturalismo
teologico, razionalistico, naturalistico.)
3.3 Positivismo giuridico
Il positivismo giuridico è, nella storia della cultura giuridico-politica, la tradizione antagonista
rispetto al giusnaturalismo. La tesi centrale del positivismo giuridico, comune alle sue diverse
13
versioni, è la tesi secondo cui non esiste altro diritto se non il diritto positivo . ‘Diritto positivo’,
ossia: diritto che esiste perché e in quanto prodotto posto, stabilito, istituito, costituito, statuito, da
esseri umani - mediante atti e decisioni (consapevoli e deliberati) o in generale comportamenti
umani. Un diritto, dunque, che esiste non ‘per natura’, che non è ‘in natura’, non discende dalla
natura dei rapporti sociali, ma che è piuttosto opera dell’uomo. Non v’è altro diritto se non il diritto
positivo, ossia: l’idea di un diritto naturale è un’idea vuota (secondo alcuni, un’idea coerente, ma
priva di riferimento, come ad es. il termine ‘unicorno’; secondo altri, un’idea mal formata,
incoerente, come l’idea di un cerchio quadrato, o un ferro di legno). Il diritto - tutto il diritto - è
prodotto dell'attività umana, ed è, dunque, un che di artificiale (un artefatto), o convenzionale, non
14
un che di naturale, o divino .
Corollario di questa tesi è la tesi secondo cui esistenza e contenuto del diritto dipendono da, e
sono identificabili sulla base di, fatti sociali (che cosa sia diritto può essere stabilito sulla base della
considerazione di semplici fatti sociali). Le ‘fonti’ del diritto sono fenomeni sociali. Non v’è un
ordine naturale dei rapporti sociali; l’ordine dei rapporti sociali dipende volta per volta, da decisioni
o azioni umane, ed è identificabile sulla base della considerazione di queste ultime.
Un ordinamento sociale naturale è pensato, come abbiamo visto nel paragrafo precedente, come
un ordinamento sociale necessario, indipendente dall'intervento umano, autentico (il 'vero' diritto),
12
La locuzione 'diritto naturale' e il termine ‘giusnaturalismo’ sono fra le espressioni più usate in teoria del diritto; e
sono anche, sfortunatamente, espressioni vaghe ed equivoche, sovraccariche di una molteplicità di significati spesso non
adeguatamente distinti. Quella fornita nel testo è una particolare accezione della locuzione 'diritto naturale', e del
termine 'giusnaturalismo' - l'accezione centrale, o paradigmatica. E' possibile, però, rilevare o costruire anche altre
nozioni di diritto naturale, e di teoria giusnaturalistica.
13
Bobbio, 1961, p. 15.
14
Così, tornando agli esempi addotti sopra, (1) non v’è una natura del rapporto matrimoniale, o dei vincoli familiari,
che il legislatore umano debba comprendere e riprodurre, ricalcare o specificare (se vuole che le sue leggi siano
autenticamente tali, siano autenticamente diritto). La famiglia è un’istituzione umana, la cui configurazione dipende da
scelte o comportamenti umani. Il legislatore, dunque, può - sulla base dei valori, principi, ecc. ai quali presta la propria
adesione - ‘disegnare’, ‘progettare’ nel modo che ritiene più opportuno i rapporti familiari, e il vincolo matrimoniale.
(2) Non c’è una natura dell’ordine sociale che attribuisca a ciascuno il posto che egli deve occupare nella trama dei
rapporti sociali. Piuttosto, sono scelte, atti o comportamenti umani a determinare, in modo consapevole e deliberato, o
involontario, come sia strutturata la società, quale sia la trama dei rapporti sociali. In particolare, l’ordine dei rapporti
politici - chi comandi, l’assetto del governo, l’autorità politica - non è un che di naturale (non è un dato di natura che
certi individui comandino e certi altri obbediscano), ma è qualcosa di artificiale, costruito: non un dato immutabile, ma
qualcosa che può essere modificato, disegnato, progettato, costruito, sulla base di scelte o mediante comportamenti
umani.
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giusto (corretto, e conforme a giustizia). Consideriamo ora l'ipotesi opposta, l'ipotesi cioè di un
ordinamento sociale non naturale (il diritto 'non naturale'). Un ordinamento siffatto ha le seguenti
caratteristiche.
(1) E' un ordinamento sociale non necessario, ma contingente (non è in ogni occasione identico a
se stesso): un ordinamento la cui esistenza e il cui contenuto sono contingenti (un ordinamento che
avrebbe potuto non esserci, o avere un contenuto diverso da quello che di fatto ha). Che esso esista
è, semplicemente, un dato di fatto; un ordinamento non naturale è, dunque, un ordinamento che può
iniziare ad esistere e cessare di esistere (può, per così dire, nascere e morire). Il suo contenuto
avrebbe potuto essere altro da quello che di fatto è; è, dunque, mutevole. Un ordinamento sociale
non naturale è insomma, sotto entrambi gli aspetti, suscettibile di mutamento nel corso del tempo:
può accadere che esso cambi, si trasformi, si modifichi, si alteri, e che esso venga ad esistenza, e
cessi di esistere.
(2) Un ordinamento sociale non naturale è un ordinamento dipendente dall'intervento umano. E',
cioè, un ordinamento la cui esistenza e il cui contenuto dipendono da comportamenti umani
contingenti: sono il risultato di attività, decisioni e scelte compiute da esseri umani (in particolare,
da autorità umane). Un ordinamento sociale non naturale è, in breve, il frutto, il prodotto, dell'opera
dell'uomo; ed è, dunque, suscettibile di modificazione, di trasformazione, ad opera dell'uomo.
Il diritto, se concepito come un ordinamento sociale non naturale, è il prodotto di attività umane:
il suo venire ad esistenza, il suo cessare di esistere, e il suo mutamento nel corso del tempo, sono il
risultato dell'azione umana. Da ciò segue che una teoria che assuma come proprio oggetto
d'indagine un ordinamento sociale non naturale (a fortiori, una teoria secondo la quale non v’è altro
diritto se non il diritto positivo) sia una teoria dei processi di produzione (e distruzione) del diritto
stesso. L'interrogativo fondamentale è: in che modo, secondo quali modalità, il diritto viene
prodotto, modificato, e distrutto, nel corso del tempo?
(3) Un ordinamento sociale non naturale (il diritto non naturale) è il prodotto dell'opera
dell'uomo; è, dunque, un artefatto, un che di artificiale. Un ordinamento siffatto non ha nulla
dell'autenticità, genuinità, unicità, di ciò che è per natura (e, dunque, di un ipotetico diritto
naturale): non è l'unico 'vero' ordinamento sociale, ma uno fra gli innumerevoli ordinamenti sociali
possibili.
(4) Di un ordinamento sociale non naturale (a differenza da quanto accade nel caso di un ipotetico - ordinamento sociale naturale) non si può affermare che esso sia, necessariamente (per
definizione), conforme a giustizia. Banalmente, se esso sia o no un ordinamento giusto, nel duplice
senso di: (a) appropriato, confacente, conveniente, corretto; (b) conforme a giustizia, non è deciso a
priori: è, per così dire, una questione aperta. Quale sia la risposta a questa domanda (se c'è una
risposta) dipende da quale contenuto esso abbia.
Un ordinamento sociale naturale è pensato come un ordinamento necessariamente giusto; una
società costituita da un ordinamento sociale naturale è, necessariamente, una società che è così
come è giusto, è bene, che sia. Di una società costituita da un ordinamento sociale non naturale, di
contro, non è detto (è una questione aperta) se essa sia una società che è così come deve essere. E lo
stesso può dirsi degli ordinamenti sociali correlativi: un (ipotetico) ordinamento sociale naturale (il
diritto naturale) è un ordinamento che è, necessariamente, così come deve essere (un ordinamento
necessariamente giusto). Relativamente a un ordinamento sociale non naturale (il diritto non
naturale), di contro, è possibile distinguere fra il diritto quale esso di fatto è, e il diritto quale esso
deve, o dovrebbe, essere (il diritto giusto, nel duplice senso sopra specificato). Non è detto che il
diritto quale esso è - un particolare ordinamento giuridico non naturale - coincida, sia conforme, al
diritto quale deve essere (sia così come il diritto deve essere). Potrebbe non essere un ordinamento
giusto.
Orbene: un ordinamento dell'interazione sociale che sia, in questo quadruplice senso, non
naturale (che, cioè, abbia i caratteri della contingenza, della dipendenza dall'intervento umano,
dell'artificialità, e che non sia pensato come per definizione giusto) è ciò che tradizionalmente viene
denominato 'diritto positivo' (ripeto: diritto esistente perché, e in quanto, prodotto, e cioè posto,
19
15
stabilito, costituito, istituito, statuito, mediante comportamenti e attività umani) . Un (ipotetico)
ordinamento sociale naturale (il - presunto - diritto naturale) è un ordinamento che per così dire c'è
già, sussiste già, è dato, indipendentemente e preliminarmente rispetto a ogni intervento umano. E',
dunque, oggetto di scoperta, di cognizione (non c'è che da prendere atto della sua esistenza, e
accertarne il contenuto), e non frutto di produzione (non deve essere prodotto, perché, banalmente,
c'è già). Un ordinamento sociale non naturale (un ordinamento giuridico positivo), di contro, non
c'è, non esiste, a meno che esso non sia prodotto, deliberatamente o meno, da comportamenti e
attività umani: non è, dunque, un dato da scoprire, un che di preesistente del quale si debba soltanto
prendere atto, ma, prima di tutto, un qualcosa da produrre (può certo divenire, una volta prodotto,
16
oggetto di conoscenza; ma, prima che sia prodotto, non vi sarà, banalmente, nulla da conoscere) .
Riepiloghiamo. Abbiamo delineato due diverse (e, queste sì, antitetiche) famiglie di concezioni
del diritto: concezioni secondo le quali esiste un diritto naturale ('giusnaturalistiche') e concezioni
secondo le quali non esiste alcun diritto naturale, e non v'è altro diritto se non un diritto non naturale
17
(cioè: positivo) (concezioni 'giuspositivistiche') .
15
La locuzione 'diritto positivo' (come già la locuzione 'diritto naturale') è una delle locuzioni più usate in teoria del
diritto; ed è anch'essa, sfortunatamente, una locuzione vaga ed equivoca, sovraccarica di una molteplicità di significati
spesso non adeguatamente distinti. Quella fornita nel testo è una particolare accezione - l'accezione centrale, o
paradigmatica - della locuzione 'diritto positivo'; è possibile, però, rilevare o costruire anche altre nozioni di diritto
positivo. Per orientarsi, può essere utile riportare qui un passo, particolarmente perspicuo, di G. Tarello (1977, p. 205):
"In latino medievale si è chiamato ius positivum il diritto che è stato posto, e prodotto, o imposto, da un soggetto
individuato, per contrapporlo a quel diritto che non è stato posto da nessuno ma è iscritto nella natura, nell'ordine
naturale delle cose, e che si chiamava - con una locuzione antichissima - jus naturale. Si è chiamato così 'diritto positivo
umano' quello posto da un'autorità umana, e 'diritto positivo divino' quello posto da Dio per via di comando diretto (non,
cioè, indirettamente per il tramite della 'natura'). In tempi più recenti, si è considerato il diritto 'naturale' come diritto
'ideale' (cioè come insieme di ideali giuridici), ed il diritto 'positivo' è stato correlativamente inteso come quel diritto che
(invece di avere la qualità di ideale) ha la qualità di 'reale' o 'effettivo'. Con le concezioni politiche statalistiche
nell'Ottocento, per diritto reale e effettivo, cioè 'positivo', si è indicato il diritto proprio dello Stato, e si è sostenuto che
'positivo' è aggettivo pleonastico nel senso che non esiste altro diritto che quello positivo, cioè statale. Più o meno nello
stesso periodo si affermarono taluni modi di pensare secondo cui la società stessa genera diritto, che può essere
scientificamente (nel senso delle scienze naturalistiche) individuato: questi modi di pensare si espressero nelle filosofie
dette positivistiche, e nell'ambito di queste filosofie si svilupparono dottrine giuridiche, i cui sostenitori chiamavano
'diritto positivo' quello che è espressione della società stessa (anziché quello 'posto' dallo Stato). Si vennero così
moltiplicando degli equivoci terminologici (...)". Cfr. inoltre, per una caratterizzazione sommaria della nozione di diritto
positivo, Scarpelli 1989, pp. 461-4.
16
La locuzione 'positivismo giuridico' è anch'essa, come le locuzioni 'diritto naturale' e 'diritto positivo', sovraccarica di
significati spesso non adeguatamente distinti (cfr. per un primo orientamento (Bobbio 1961; Nino 1980, cap. 1;
Scarpelli 1989, pp. 464-7). In estrema sintesi, "ciò che caratterizza il positivismo giuridico lungo tutta la sua storia è la
considerazione del diritto (...) sotto specie di qualche cosa che è stato prodotto, di un oggetto e di un effetto di una
produzione umana, storica, convenzionale, se non addirittura artificiale"; "la differenza fra l'atteggiamento di fronte al
diritto di un positivista e quello di un non positivista (...) si può ridurre alla contrapposizione fra la considerazione del
diritto come un prodotto e la considerazione del diritto come un dato. Positivista è colui che crede fermamente che il
diritto non esiste in natura, non esiste nella società, e pertanto non si tratta di scoprirlo o di rivelarlo, ma è ogni volta
l'espressione di un'attività umana cosciente (ma anche incosciente), e si tratta tutt'al più di interpretarlo, tenendo
presente a ogni modo che anche l'interpretazione è a sua volta un'opera di creazione o di ricreazione permanente"
(Bobbio 1981a, pp. 91-2). In altri termini, per il positivismo giuridico "il diritto è qualche cosa di 'prodotto' dall'uomo,
non esiste in natura": "diritto nel senso proprio della parola [è] soltanto il diritto positivo"; dunque, "concetto
fondamentale della teoria del diritto [è] il concetto di produzione giuridica" (Bobbio 1981b, pp. 561-2).
17
Si noti: condizione necessaria e sufficiente affinché una teoria del diritto possa essere qualificata come
'giusnaturalistica' è che essa affermi l'esistenza di un diritto naturale (un diritto, cioè, concepito come necessario,
indipendente dall'intervento umano, autentico - il 'vero' diritto -, e giusto). Non è necessario, né abitualmente accade,
che essa neghi l'esistenza di un diritto positivo, gerarchicamente subordinato al diritto naturale. Di contro, è sì
necessario, ma non sufficiente, affinché una teoria del diritto possa essere qualificata come 'giuspositivistica', che essa
affermi l'esistenza di un diritto positivo; è necessario, altresì, che essa neghi l'esistenza di un diritto naturale,
gerarchicamente sovraordinato al diritto positivo (il diritto che è, così come deve essere). In breve: il giuspositivismo
esclude l'esistenza di un diritto naturale. Certo, il positivismo giuridico può ammettere - e di fatto molti giuspositivisti
20
Il conflitto fra giusnaturalismo e positivismo giuridico è uno dei conflitti teorici cruciali, forse il
conflitto teorico cruciale, dell'intera storia della riflessione teorica sul diritto. (Le sue origini
18
risalgono alla controversia fra i Sofisti e Platone .) Ma il tema di questo corso non è l'antitesi
‘positivismo giuridico’ vs. ‘giusnaturalismo’, ma la coppia 'positivismo giuridico' e
'neocostituzionalismo'. Abbiamo visto, sommariamente, cosa sia il positivismo giuridico (e il
giusnaturalismo). Ma che cosa è il neocostituzionalismo? ('Neocostituzionalismo': una nuova forma
di costituzionalismo. Ma che cosa è il costituzionalismo? E in che cosa consiste l'elemento di
novità?)
Per comprendere che cosa sia il costituzionalismo, e in particolare il neocostituzionalismo,
occorre assumere una prospettiva storica. Prenderemo, dunque, le mosse da una caratterizzazione
(anch’essa alquanto sommaria) del costituzionalismo moderno (in particolare, settecentesco), per
poi soffermarci su (1) una particolare forma di organizzazione giuridico-politica, caratteristica
dell’Europa continentale nel corso dell’Ottocento, il c.d. ‘stato di diritto; (2) un processo che contestualmente all’affermazione dello stato di diritto - ha segnato in modo decisivo la cultura
giuridico-politica dell’Occidente (in particolare, dell’Europa continentale) a partire dal XIX secolo:
la ‘codificazione’ del diritto.
Riferimenti bibliografici
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Bobbio, N. 1963 Locke e il diritto naturale, Giappichelli, Torino.
Bobbio, N. 1981a Le fonti del diritto in Kelsen, in Bobbio, Diritto e potere, ESI, Napoli 1992.
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diritto", 58.
Comanducci, P. 1992 Assaggi di metaetica, Giappichelli, Torino.
Guastini, R. 1994 Diritti, in R. Guastini, Distinguendo. Studi di teoria e metateoria del diritto,
Giappichelli, Torino 1996.
Guastini, R. 2001 Il diritto come linguaggio. Lezioni, Giappichelli, Torino.
Nino, C. S. 1980 Introduzione all'analisi del diritto, Giappichelli, Torino 1996.
Protagora, Testimonianze e frammenti, in I sofisti. Testimonianze e frammenti, a cura di M.
Untersteiner, fasc. I, La Nuova Italia, Firenze 19612.
Scarpelli, U. 1989 Il positivismo giuridico rivisitato, "Rivista di filosofia", 80.
Searle, J. R. 1999 Mind, Language and Society. Philosophy in the Real World, Phoenix, London.
ammettono - che vi siano principi, valori, standard, criteri morali o etico-politici cui il diritto positivo deve conformarsi
(un ideale di ciò che il diritto deve essere). Ciò che esso nega è che questi principi, ecc. (che il giusnaturalista, dal canto
suo, chiamerebbe ‘diritto naturale’) siano diritto. Che cosa sia, o non sia, diritto valido non dipende (non direttamente,
almeno; infra, £) da essi.
18
Si consideri il seguente frammento di Protagora (uno dei più importanti Sofisti): "quello che ad ogni città appare
giusto e bello, codesto anche è, per quella città, giusto e bello, finché essa lo sancisca come propria legge" (Protagora,
fr. 21a, p. 55; da Platone, Teeteto, 166d - 167d).
21
Tarello, G. 1974 Diritto, enunciati, usi, Il Mulino, Bologna.
Tarello, G. 1977 La nozione di diritto positivo, in Tarello, Cultura giuridica e politica del diritto,
Il Mulino, Bologna 1988.
22
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