Untitled - Dottorato di ricerca in composizione architettonica

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TEMPO LIBERO
Renato Nicolini
Il tempo libero italiano corrisponde al francese loisir. Gli spazi per il tempo libero caratterizzano la
progettazione urbana del grande periodo del movimento moderno, anche se – a guardar bene – sono pensati
piuttosto come spazi conclusivi della città che come spazi urbani veri e propri. Spazi di transizione tra città e
campagna, con più di un tocco anti urbano, destinati agli sportivi piuttosto che ai cittadini. Robert Musil aveva
già individuato, ne L’Uomo senza qualità, nello sport il carattere distintivo del Novecento. L’attività sportiva
prende il posto delle passeggiate del flaneur di Baudelaire e Walter Benjamin, la città delle vetrine dei passages
parigini viene sostituita dal Foro Mussolini di Luigi Moretti o dalle smisurate spianate di Albert Speer. Il tempo
libero – penso alla Mosca raccontata da Bulgakov – viene riempito dalle occupazioni dell’essere in massa, del
comportarsi come massa. La relazione tra massa e potere, tema cruciale delle riflessioni di Elias Canetti sul
Novecento, informa di sé il modo in cui l’uomo si svaga. La grande folla delle manifestazioni di piazza, dello
sport, dello stadio, dello svago notturno nelle grandi città (fino ad arrivare alle folle relative dei teatri, dei cinema
e dei grandi ristoranti), trasforma l’idea del tempo libero, fino ad escluderne proprio il “passeggiatore solitario”
che – con Rousseau – ne era stato all’origine.
All’origine della mia estate romana (1977-85) – più che l’idea di una nuova forma di raduno di massa – c’è
stata quella di immettere di nuovo in circolo il flaneur, la possibilità di partecipare senza fondersi nella folla,
mantenendo la propria individualità e il proprio senso critico. Erano del resto tempi di grandi conflitti, che non si
poteva nemmeno concepire di unificare negandoli. L’ossimoro, la contraddizione ed il conflitto, piuttosto che
l’uniformità dei comportamenti e delle reazioni. Questa era la chiave delle programmazioni cinematografiche di
Massenzio. All’interno dell’ossimoro fondamentale (l’occhio moderno del cinema all’interno del monumento
romano), i film offerti potevano essere visti tanto con l’occhio smaliziato del cinephile quanto con l’occhio più
ingenuo. La stessa chiave spiega il Festival dei Poeti (non della “poesia”, che è un’astrazione…) di
Castelporziano, con lo scontro tra i 30.000 della spiaggia che non si rassegnavano a fare da spettatori ma
volevano leggere le proprie poesie, ed i poeti invitati. O il circo in piazza tra piazza Farnese (sede
dell’Ambasciata di Francia) e via Giulia, che poteva essere vissuto come puro spettacolo contaminante e
dissacrante ma anche come metafora di una condizione politica. All’estate romana si poteva partecipare da soli,
infiltrandosi nelle sue pieghe, nascondendosi nei suoi interstizi, inventandone un senso personale, non
consegnandolo al comportamento di gruppo.
Anche l’estate romana è stata rapidamente fagocitata dalla civiltà di massa, da sperimentale ed “alternativa” è
rapidamente diventata l’ultima forma (in senso cronologico, non perché la più qualificata) dell’industria culturale
di massa. Precotti, surgelati, pacchetti preconfezionati l’hanno invasa e mutata. Il virus dello sport, la caccia al
record e al grande numero l’hanno infestata. Il simbolo della mutazione sono state le notti bianche veltroniane,
dove il flaneur non poteva più trovare spazio in una sorta di grande bulimia programmata, dove tutti dovevano
uscire e divertirsi.
Il rapido fallimento delle notti bianche, rottamate rapidamente con i cambiamenti politici e culturali degli
Anni Duemila, ha rivelato un profondo deterioramento dello spazio pubblico come luogo di godimento principale
del tempo libero. La “ricostruzione” dell’Aquila è un’evidente metafora del mutamento della concezione stessa di
tempo libero. Questo non è più contrassegnato nemmeno dall’uscire di casa. Le informazioni che prima erano
veicolate soprattutto dall’esperienza urbana (di cui fa parte anche l’acquisto del giornale all’edicola), passano
oggi invece per gli schermi telematici (i talk show televisivi, gli schermi telematici di computer, cellulari, i
phone). Lo spazio pubblico può risultare superfluo per il tempo libero di questo programma di vita. Il
razionalismo aveva posto in primo piano la distinzione tra casa ed abitare. Nell’idea di abitazione, da Gropius ad
Heidegger, aveva grande peso il carattere poetico assicurato dalla non coincidenza tra semplice residenza ed
abitazione. Abitare implicava l’esistenza di spazi non privati, in cui tuttavia il cittadino poteva sentirsi come in
casa propria. Lo dice benissimo Eduardo in Napoli Milionaria. “La vera casa era, nu poco, tutta la città”. Oggi lo
sviluppo (in)naturale (l’Aquila insegna) di una città ridotta ad un insieme di case dormitorio passa per i centri
commerciali che sostituiscono le piazze e le strade come luoghi d’incontro e di aggregazione.
IL PALAZZO LITTORIO DI TERRAGNI
Alberto Cuomo
Sin dagli esordi, nella Casa del Fascio di Como, Terragni lascia intravedere una interpretazione del fascismo e
della rappresentatività politica, ovvero di ogni rappresentatività, nei termini di una forma pura che, nella sua
intoccabile essenzialità ed armonia, si renda, quale nucleo virtuale di ogni possibile intreccio, ad una totale
trasparenza ai moti dell’esistenza. Nell’assimilazione dell’arte e dell’architettura alla politica egli intende la
necessità per entrambe di ricercare una parola essenziale, una forma appunto, in cui sintetizzare i miti ed i destini
del popolo, pur nelle diversità, sociali e di cultura, che lo costituiscono. Per questo la partecipazione al Concorso
per il Palazzo Littorio in Roma, non solo appare naturale, ma è altresì necessitata da quelle stesse motivazioni che
suggeriranno a Pagano il rifiuto all’intervento 1. Misurarsi infatti con la romanità e con i significati del fascismo
avrebbe potuto probabilmente condurre verso valori quali il monumentalismo e la celebrazione, contrari, secondo
Pagano, ai significati della nuova architettura, mentre Terragni, proprio avvertendo nel costruire contemporaneo
ancora un carattere retorico, sente la necessità di sperimentarne i limiti linguistici, di cimentarsi con le capacità
rappresentative della stessa architettura moderna. E che si tratti di una rappresentatività priva di trasparenza,
opaca, per niente resa neppure alla funzione, ma piuttosto irretita in specifiche logiche, è già percepito nell’accesa
esaltazione, in Relazione, del Capo, vero termine di garanzia della corrispondenza tra definizioni e cose, e, altresì,
nella decisione di eseguire due differenti progetti, quasi in una esplicita dichiarazione di sfiducia verso la
possibilità di rendere una parola esaustiva, esemplare, detentrice di verità.
Innanzi tutto viene da chiedersi sui motivi del doppio progetto.
Se cioè la duplice soluzione non consegue né dalla volontà di manifestare una doppia posizione, di adesione e
contestazione insieme agli indirizzi del bando, dal momento che, per quanto dissimili, i due progetti dichiarano le
medesime scelte di metodo e di linguaggio, né dalla necessità di conciliare le diverse possibili opinioni interne al
composito gruppo, essa è da riferire alle condizioni intrinseche all’atto del progettare, espresse in questo caso,
non soltanto in un puro espediente compositivo 2. Vale a dire che, presentandosi entrambi i progetti per il Palazzo
Littorio come prodotto unitario dell’intero gruppo, invocando allo stesso contenuto ed ai medesimi motivi
metodologici un rapporto di stretta necessità con la forma, ovvero con due opposte manifestazioni formali,
emerge una tale palese contraddizione da rendere esplicita tutta l’ambiguità insita nel rappresentare, esposta
appunto, consapevolmente, nel doppio progetto.
Analogamente a quanto accade nel dibattito coevo sulla rappresentatività sociale degli ordinamenti
giurisdizionali dello Stato, la quale del resto è il manifesto contenuto da esprimere, i due progetti svolgono così,
l’uno, i temi che reclamano alle forme della rappresentatività un autonomo configurarsi in cui la riproduzione dei
moti esterni delle cose si traduce in un particolare “genere” stilistico, con i suoi definiti canoni, storici e simbolici
insieme, e l’altro, quelli che rinviano le forme medesime alla necessità di una trasparenza, se non di una
evaporazione, per una aderenza immediata allo scorrere dinamico degli eventi.
E’ evidente come si tratti di motivi interni alla riflessione sul linguaggio discendenti dalle teorie poetiche e
dalle esperienze di Novecento e Futurismo, cui Terragni appare così fortemente legato da derivare appunto il
doppio atteggiamento manifesto nello sdoppiarsi del progetto. Accade così che mentre il progetto “A” occulta
dietro il blocco di porfido ogni variabilità, ogni differenziazione, in una figura unitaria dove condensare tutte le
formalizzazioni possibili, un luogo occluso in cui raccogliere e sintetizzare i variegati contenuti della spazialità
urbana e della vita all’interno della simulazione costruttiva, il progetto “B” viene invece giocato su
sovrapposizioni di incastri formali, schermature trasparenti, reticoli strutturali che a pena circoscrivono le
localizzazioni del risiedere, perché l’architettura stessa sia resa all’energia dell’esistente.
Del resto i significati differenti dei due progetti sono manifestati esplicitamente nelle relazioni che li
illustrano. Per quanto riguarda la Relazione al progetto “A”, infatti, emerge in essa una puntigliosa analisi degli
intimi procedimenti della costruttività che chiaramente denuncia la volontà di ripercorrere le tappe dell’autonomo
1
G. Pagano scrive diversi articoli sul concorso per il Palazzo Littorio che, inteso in un primo momento come un importante
avvenimento (Per il Palazzo Littorio, cosa ne pensa Casabella, in “Casabella”, n. 73, Gennaio 1934), sarà successivamente
contestato proprio per i motivi che avevano dettato l’iniziale esaltazione, vale a dire il valore monumentale dell’area, di cui
l’insufficienza planimetrica sottolineata sembra più un pretesto che un fondato argomento, ed il valore celebrativo che
l’edificio avrebbe assunto rispetto al fascismo, cfr. Palazzo del Littorio – atto primo scena prima, in “Casabella”, n. 79,
luglio 1934 e Il Concorso per il Palazzo Littorio, in “Casabella”, n. 84, 1934.
2
Sul tema del doppio come movente compositivo in Terragni si sono soffermati molti studiosi. Di recente vi ha fatto cenno
anche K. Frampton, Storia dell’architettura contemporanea, trad. it. di M. De Benedetti R. Poletti, Zanichelli, Bologna
1982, p. 245.
itinerario dell’edificare al fine di ricomporre una “monumentalità” che esponga in se stessa i valori dell’essere. E’
così dal puro gioco compositivo della “superficie verticale” e di quella orizzontale “che si protenderà maestosa la
via dell’Impero”, dalla “collaborazione della scienza statica e della virtù architettonica…dalla cristallizzazione di
forme assolute…dal materiale impiegato…dallo studio del perfetto funzionamento”, da concetti propri al
costruire cioè, che si manifesterà “l’universalità,…l’unità…la potenza…la sapienza” dell’epopea italica,
irrigidendo in una forma piena, conclusa, la medesima movimentazione rivoluzionaria che Terragni attribuisce al
fascismo 3. D’altro canto la Relazione al progetto “B”, all’inverso, si sofferma essenzialmente sulla necessità di
partecipare l’edificio alla complessità urbana perché le sue stesse forme si aprano alla vita esterna. Pertanto, dal
momento che in esso “il significato spirituale è quello di rendere la Mostra partecipe della vita di Roma, della vita
del Fascismo Universale”, può dirsi che l’aspirazione del primo progetto ad una intemporalità, o ad una
temporalità sospesa, si traduce in questo secondo in uno “sguardo” che attualizzi al suo presente persino la
memoria del Sacrario. La densa “cristallizzazione” delle forme del progetto “A” si trasforma, così, attraverso le
parole dello stesso Terragni, nella cristallinità, nella luminosità, nella chiarezza del progetto “B”, in cui “rampe,
scale, piani orizzontali, elementi verticali, creeranno scomparti nuovi dinamici proporzionati ai fatti, agli episodi,
agli avvenimenti della Rivoluzione, creando un organismo vitale sorpassando il concetto di innalzare un museo
sulla via dell’Impero” 4, secondo un manifesto vitalismo. In un certo senso sembra allora che i due progetti a
partire dalla loro estrema distanza, una vera polarità, finiscano per raffigurare nella loro coesistenza una peculiare
modalità del linguaggio, il doppio risvolto di questo, la sua indifferenza alla verità o alla falsità delle enunciazioni
rispetto alle cose se non dall’interno di una traduzione logica in cui ogni dimostrazione si consegue nella
congruenza delle operazioni con una postulata convenzione o da una coerenza metodologica. Pertanto, se il
progetto “A”, interiorizzando in un apparato costruttivo ciò che gli è fuori, non compone alcuna perimetrazione,
dove, lungo il fluire della facciata, malgrado la chiusura del muro, sembrano scivolar via le forme ulteriori che vi
sono ascose; se, d’altra parte il progetto “B” tramuta, per magico sortilegio, la trasparenza dei vuoti tralicci
strutturali, quella delle ampie vetrate, la diafanità dei muri di “granito chiaro”, in un rinvio di mascheramenti che,
rendendo la vita stessa che vi si articola una coordinazione di movimenti attoniti, una meccanica sequenza di
gesti teatralizzati, occludano una inestricabile ed inaccessibile interiorità, i due progetti, assunti insieme nel loro
dialettizzare, rendono tutta l’illusorietà dei termini che definiscono nell’esperienza architettonica l’interno e
l’esterno, la reale intercambiabilità di questi, il trasmigrare dell’uno nell’altro, traducendo nella metafora spaziale
l’essenza stessa del linguaggio compositivo.
Vicino agli astrattisti, sebbene le personali propensioni verso la figurazione, Terragni riporta nell’architettura
le medesime operazioni che i suoi amici pittori conducono sulla superficie della tela, priva di spessore e di
definiti riferimenti dimensionali, dell’alto e del basso, del dentro o del fuori della proiezione del reale e del
quadro. Egli quindi agisce sui concetti specifici della spazialità architettonica, l’interno e l’esterno, fino a
stravolgerli, nella misura in cui, estenuando completamente l’interiorità, intesa persino come intimità delle leggi
statiche, nel progetto “A”, ed introvertendo verso il nucleo della Sala Riunioni l’apparente estroversione del
progetto “B”, sembra voler manifestare, nelle opposte modalità in cui delimitare l’intera gamma delle definizioni
compositive spaziali, la costituzione stessa della lingua e della rappresentatività architettonica, la quale, proprio là
dove si coagula in un autonomo ordine logico, lascia affiorare una dicibilità, e dove invece si estende nelle cose,
finisce per contrarsi in astratte, convenute, figure.
Manfredo Tafuri ha messo in luce come, proprio nel progetto per il palazzo Littorio, ed in particolare nel
progetto “A”, “Terragni sembra lanciare una sfida alla trasparenza del linguaggio”, nella considerazione che in
esso il “dispiegare la volontà di potenza della parola significa far irrompere nel discorso una divisione, una
lacerazione, una profonda frattura: acquistando potere, quella parola spezza il linguaggio, ne progetta la
dissipazione, lo costringe a divenire luogo di uno scontro” 5. Vale a dire che, in tale progetto, Terragni articola la
composizione secondo i medesimi motivi conduttori che inducono la duplice ipotesi, i quali informano
ulteriormente entrambe le singole elaborazioni progettuali, ovvero lo “scontro” interno al linguaggio fra
trasparenza ed opacità, invenzione e norma, verità e falsità, appunto, parola ed ordine convenzionale
comunicativo. Ne consegue che, proprio tale volontà ad esaurire in un solo racconto tutto il movimentato
3
Concorso per il Progetto del Palazzo Littorio e della Mostra della Rivoluzione, Relazione, conservata e consultata presso lo
Studio Lingeri
4
La frase della Relazione al progetto “B” recita testualmente: “In questo vastissimo ambiente luminoso, ovvero cristallino,
rampe, scale, piani orizzontali, elementi verticali, creeranno scomparti nuovi, dinamici, proporzionati ai fatti, agli episodi,
agli avvenimenti della Rivoluzione, creando un organismo vitale, sorpassando il concetto di innalzare un museo sulla via
dell’Impero. La Mostra potrà essere abbracciata con un solo sguardo ed è ideata in modo che i visitatori possano da un
ripiano all’altro dell’ambiente della mostra avere sempre presente la suggestiva attrazione del Sacrario...” ibidem
5
M. Tafuri, Il soggetto e la maschera, un’introduzione a Terragni, in “Lotus international”, n. 20, settembre 1978, p. 5.
contraddirsi della lingua, denota, malgrado il radicarsi alla materiale necessità della pietra, l’anelito di una fede,
ancora l’aspirazione alla comprensione del mondo, la tensione a cogliere l’inaccessibile luogo in cui le parole, i
modi costruttivi, oltre l’attraversamento di tutte le loro possibilità di dire, si fondano nella recondita memoria
delle cose, come è per il “realismo magico” bontempelliano, evoluzione del “pragmatismo magico” del futurista
Papini, che lo stesso Tafuri riconduce all’opera di Terragni.
Così, mentre da un lato, nel progetto “B”, il rincorrersi delle trasparenze, delle false pareti, l’inseguirsi dei
volumi, si orienta verso una centralità conclusa, nel progetto “A”, al contrario, la staticità del pesate muro di
porfido, pur concentrando sulla propria consistente “materialità” ogni attenzione, lascia trapelare, attraverso le
linee isostatiche emergenti in superficie ad irretire le dinamiche tettoniche, vere slabbrature della pietra, fenditure
profonde che invocano quasi uno sgretolamento, tutta la finzione del suo regolamento, perché il reale stesso
irrompa in quelle sconnessioni, irrigidito a sua volta in una magica effige.
L’idea di collocare lungo la via dell’Impero un chiuso muro rettilineo, opaca “maschera nuda”, pare sia di
Vietti, tuttavia è certamente Terragni a volere la massa di porfido ambiguamente arcuata, allineata cioè
prospetticamente verso il Colosseo ed insieme rivolta all’antistante Basilica di Massenzio, sollevata da terra,
pesante, eppure misteriosamente sospesa dall’alto, aperta alla base, nella ricerca di una sotterranea osmosi con lo
spazio antistante, ed al cielo, nel vetro della sala posteriore, a focalizzare in alto, in un unico chiaro sguardo, le
diverse istanze introdotte. E’ allora dall’ambiguità di ciascun segno, di ciascuna logica, dalla loro finzione e dal
loro realismo, che si fa luce l’esigenza di proporre per il Palazzo Littorio due diverse soluzioni progettuali,
complementari ed inverse, in cui, nella volontà di esaurire tutta la falsità delle definizioni, alimentare ancora il
desiderio, l’evocazione della verità.
Ancora Manfredo Tafuri ha messo in evidenza le analogie del lavoro di Terragni con la visione pirandelliana
cui era informato il Bontempelli 6; sarà infatti proprio lo scrittore vicino a Terragni a sottolineare, nel Pirandello,
la concezione del linguaggio, della creatività linguistica come prosecuzione della natura, leggendo in essa la
presenza, oltre il rilievo sulle “ipocrisie” delle forme del dire e dell’agire, di una aspirazione ad accedere al fondo
segreto del vero, al “candore” di una parola in cui affiori il primordiale incantesimo che unisce alla più ricca
sapienza il più elementare impulso al “cominciamento” 7. D’altronde è stato rilevato, per il medesimo
Bontempelli, come, nella più pirandelliana delle sue opere teatrali, Nostra Dea, all’inerte personaggio che
acquista vita e carattere in funzione degli abiti che indossa, permane “una forte ancorché precisata nozione di sé,
una presenza, più che un ricordo dell’esser suo…”sì che lo stesso gioco metamorfico, e non a caso il nome, Dea,
possieda una natura religiosa, sacra, e, nell’attitudine a riprendere sempre daccapo il gioco delle trasformazioni
dettate dai vestiti, “l’eternale del divino” 8. In “Nostra Dea” il contrasto tra le forme logiche, quelle della
razionalità del moderno o di ogni sistema convenzionale, rappresentate dal frac di Vulcano, con la variabilità del
mito, la mutevole disposizione al cominciamento del divino, individuabile nell’esteso, si direbbe infinito,
guardaroba di Dea, è inconciliabile, e, se Bontempelli inseguirà in tutta la sua opera la loro sintesi, è già proprio
in Pirandello che, rivelandosi alla maschera la ragione, il suo fondo vitale, l’oscuro senso di sé che vive pure nel
cuore di Dea, e mostrandosi ogni ragione come maschera – e non è forse anche il frac un vestito? – la doppiezza
del linguaggio, quale ordine necessario in cui si danno le cose ed insieme finzione, viene accettata riconoscendosi
in esso, vero autore di ogni storia, nel tragico continuo riproporsi della oziosa invenzione delle forme, un arcano
principio, la sede di ogni “cominciamento” la quale, indicibile, offre ai discorsi il senso di un dover essere, quello
di un adempiersi del destino, la fatalità di una predestinazione. Se cioè, per Pirandello, non si dona esistenza se
non in una trama, è altresì vero che le “parti” che si assumono acquistano vita solo nella coscienza che le scopre
tali, nel gesto che volontariamente le fa indossare, in modo che nella maschera stessa si attui un denudamento, lo
scorporarsi dalla sua finzione del movente che la pone, l’anima che di essa si veste mediante una decisione attiva.
Gianfranco Vené ha analizzato, dalla tirata del fu Mattia Pascal contro la democrazia, la propensione alla
tirannia del Pirandello, il quale, attribuendo al Tiranno la mutevolezza della maschera, cui è drammaticamente
assoggettato nel suo proporsi alle diverse aspettative del popolo, ne ravvisa un dichiarato, si direbbe morale,
6
M. Tafuri, ibidem.
M. Bontempelli, Pirandello o del candore, discorso in memoria di Luigi Pirandello, ora in Opere Scelte, Mondadori,
Milano 1978, p. 807 e segg. E’ da sottolineare come l’opera di Bontempelli risenta molto di quella pirandelliana, anche per
quanto concerne i riferimenti politici. Amico del figlio di Pirandello, Stefano Landi, con cui entra a far parte del Teatro degli
undici, dove proverà alla presenza dello scrittore siciliano la messa in scena di Nostra Dea, Bontempelli era entrato nel PNF
nel 1924, proprio in seguito all’ingresso di Pirandello, per cui appare estremamente calzante il collegamento operato dal
Tafuri tra l’architettura di Terragni e, attraverso Bontempelli, l’opera di Pirandello.
8
G. Viazzi, Nostra Dea dell’art deco, in «Es», n. II, settembre-ottobre 1979.
7
mostrarsi di tutta l’ipocrisia, l’inganno, della legge sociale che regola gli individui, dissimulata, al contrario, nelle
forme della presunta democrazia, dietro l’ulteriore maschera della libertà 9.
E’ nel confronto con il Tiranno, cioè, che ciascun uomo, vera nullità senza le forme che lo riconoscono e lo
regolano, può condurre la propria ribellione alle sue rappresentazioni sia pure per scoprire solo l’illusorietà di
questo stesso gesto in cui sia però svelata la molla che attiva l’azione, mai un nucleo fragrante di umanità, ma
piuttosto una fatale necessità d’essere. Il Tiranno è pertanto, figura tragica, “crociato contro l’illusione”, nei suoi
continui travestimenti, anche l’individuo in cui meglio si espone tanto l’azione violenta, rivoluzionaria, di
abbattimento, di volta in volta, delle norme storiche della rappresentatività sociale, tanto quella della
riproposizione delle maschere alle dinamiche della vita, configurandosi, in quanto tale, come un secondo
creatore, già dal Gentile, artista. Macchina caleidoscopica che prende vita nell’offerta di senso della folla, cui egli
offre in ciò stesso un senso, il Tiranno, specchio in cui la moltitudine immediatamente si riconosce come popolo,
società, è alla stregua dell’artista,congegno reattivo in cui si incontrano soggettività ed oggettività. Come per il
poeta infatti, anche per il Tiranno l’oggettivazione del soggettivo si compie mediante un atto creativo che,
sebbene viva esso pure nelle forme, muovendo dalle forme per definire nuove forme, offre in sé, nell’attimo
vuoto, flagrante, del proprio trasecolare, tutta l’irripetibilità della vita che pure rappresenta 10. Egli è quindi, come
ogni artista, “improvvisatore”, attore che assume nella propria soggettività le diverse “parti” per oggettivarle nelle
vesti del “personaggio”, forma suprema nella quale si moltiplicano i ruoli, cui si rende altresì, nella sua palese
singolarità, tutta la precarietà della finzione che interpreta, ma anche l’anima che sollecita gli uomini
all’invenzione della propria vita, o, almeno, all’assunzione consapevole delle proprie “parti”.
Nel progetto per il Littorio di Terragni la metafora circa il valore estetico, retorico, finzionale, dello Stato è
evidente, sebbene nella sua doppiezza sia riprodotto anche il senso di necessità della finzione stessa che, mossa
da un oscuro strato interno, aspira a rendere il soffio originario che l’anima, intimo afflato alla comunione dei
molti.
Il Tafuri ha letto nel taglio verticale che decisamente si apre nel pieno muro del progetto”A” l’attesa di una
fuoruscita a sorpresa, quella del palco del Duce e del Duce medesimo 11. Buio squarcio in cui attirare il clamore
delle folle per proiettare su di esse un’improvvisa illuminazione, l’apertura del Palazzo Littorio sembra infatti
voler offrire, nel prepotente protendersi del palco, una vera e propria ribalta alla esaltata teatralità del regime,
disponendosi il muro medesimo come un socchiuso sipario nell’aspettativa di un annuncio, un diaframma che,
nel suo sottile vano, separi ed unisca finzione e realtà, già a tentare il travaso, il trasfondersi della catarsi. Così,
mentre sul fronte si affollano le molteplici morfologie della città, con le loro storie, le diverse vicende costruttive,
dietro di esso forme “sospese”, attonite, ritratte dalla vita, prive di un reale inserimento nell’urbano, persino
antiurbane, attendono alla messa in scena, lungo la trama di un progetto, una proiezione, della propria solitudine,
della propria singolarità, alla ricerca ancora di una composizione, per essere, proprio in questo, partecipi della
realtà, della città spettatrice che, nelle sue contraddizioni, essa pure elevazione di pietre già in rovina, in quelle si
riconosce.
Analogamente, nel progetto “B”, Terragni, contraddicendo la logica delle contrapposizioni enunciata nella
Relazione, che avrebbe voluto lungo l’orizzontale nastro bianco della facciata un incastro verticale di cristallo,
una parete vitrea a conclusione della trasparente sala che interrompa il prospetto, prevede invece, sul lato
dell’ambiente vetrato che si affaccia sul fronte, un’opaca parete di travertino, la quale, protesa in avanti,
incombente sul palco di Mussolini, prolunghi al Duce il proiettarsi dell’immagine, in un vero e proprio schermo
che manifesti esplicitamente all’azione il carattere di una recitazione.
Da tali eventuali significati, presenti nei progetti per il Littorio, può desumersi quindi il probabile riferimento
di Terragni, attraverso la frequentazione delle teorie del fascismo, ai motivi caratterizzanti la più alta riflessione
sull’organizzazione sociale, quale ad esempio quella del Gentile sull’analogia tra Stato e Chiesa, entrambi intesi
enti depositari delle aspirazioni dei soggetti alla comprensione di un termine superiore, alla universalizzazione
nella oggettività del sacro 12. Vale a dire che se è in tale concetto l’origine di una religione di Stato, in esso si
9
G.F. Vené, Pirandello fascista, Marsilio, Venezia 1981, pp. 49-62.
G.F. Vené, ibidem, p. 77 e segg e p. 121 e segg.
11
M. Tafuri, op. cit. p. 11.
12
G. Gentile, in Origini e dottrina del fascismo, Libreria del Littorio, Roma 1929, esprime chiaramente il senso dottrinario
del Fascismo come sistema che, nelle corporazioni, media il rapporto tra Stato ed interessi particolari alla luce di una
spiritualità. Nel 1926, intervenendo all’inaugurazione dei corsi universitari della Casa del Fascio di Bologna, il filosofo si
sofferma su Il problema religioso in Italia (v. Fascismo e cultura, Treves, Milano 1928) ed espone la propria riflessione circa
il rapporto che vige tra arte, religione e politica. Vale a dire che se la religione, il sentimento di fede, insorge nell’uomo al
cospetto del nulla (p.152), e se l’arte “è il segno della soggettività dello spirito” (p.161), entrambe acquistano senso nella
universalizzazione di una coscienza collettiva, che, sebbene rappresentata dalla Chiesa cattolica, meglio si oggettivizza nello
Stato in cui, ente forte di volontà etica, ravvisare “il garante di tutti i valori spirituali, la religione compresa”. Il Duce
10
declina ulteriormente quello della fatuità del politico rispetto ad un più profondo ed autentico spirito collettivo,
direttamente fondato nel cuore dei singoli, per cui, aderendo ad un simile convincimento, finanche il fascismo
formula una confutazione dello statalismo, perché sia la stessa “coscienza delle esigenze del…movimento
storico” a dettare “il dovere di adeguare la propria funzione nella vita nazionale”, fuori sia dall’autorità dello
Stato, come è nel socialismo, che dall’aperta conflittualità delle classi nel liberalismo 13. E’ cioè da tale intrinseca
vocazione degli uomini al comunitario, da educare e coltivare, secondo i dettami del sindacalismo soreliano,
verso il conseguimento dei fini superiori della Patria 14, che anche in Mussolini si esprime il relativizzarsi della
nozione di Stato, le cui parziali legittimazioni – della forza, del voto, ecc. – non rendono il valore della Nazione,
quello della sua tradizione, della sua storia, del suo futuro, dove proprio i diversi gradi del senso civile siano
interpretati nelle “gerarchie” del fascismo, veri livelli di una scala spirituale attraverso i quali, nel superamento
degli interessi materiali particolari, accedere al più alto gradino in cui direttamente traluce l’essere del popolo, il
“vertice” cui, nella “contingenza” delle istituzioni, affidare la recitazione dei voleri collettivi, soggetto che
trascende la soggettività verso l’oggettivo: artista 15!
Da diversi scritti e discorsi è palese il compiacimento di Mussolini nel definirsi artifex, creatore, chiaramente
denunciato nei colloqui con il giornalista Ludwig. Nel 1938 Ezra Pound, paragonando il Duce a Jefferson ne
legge le contraddizioni, la mancanza di linearità, il tatticismo, proprio come dote artistica 16, quasi in
proseguimento di un discorso del medesimo Duce diretto agli artisti, in cui è svolto il parallelo tra la politica e
l’arte. Nell’intervento inaugurale alla mostra milanese de “Il Novecento”, nel 1926, Mussolini infatti, non solo
afferma la politica come arte, ma ne ritaglia i contorni distinguendola dalla scienza e dal pragmatismo intuitivo
definendo “la creazione politica come quella artistica….una elaborazione lenta e una divinazione istantanea”.
Secondo il Duce “a un certo momento l’artista crea colla ispirazione, il politico con la decisione. Entrambi
lavorano la materia e lo Spirito. Entrambi inseguono un ideale che li pungola e li trascende”, tanto più che “tra il
politico e l’artista vi è qualche altro punto di contatto…uno per tutti: il senso della incontentabilità. La
insoddisfazione tremenda e pure salutare delle cose compiute, che non sono mai come si credeva”, essendo “la
piatta beatitudine dell’arrivato ignota tanto all’artista come al politico” 17.
Sinceramente fascista, Terragni esprime molte volte, e particolarmente nelle relazioni per il Palazzo Littorio,
quasi per un’esigenza interna al suo stesso fare, la fiducia nel potere di giudizio del Capo, persino nelle questioni
squisitamente estetiche, egli solo centro di immedesimazione e di irradiazione dei molteplici significati
manifestati nel sociale, figura in cui condensare o più sacri valori dello spirito e della cultura nazionale, dove è
proprio l’idea di un vertice focalizzatore di ogni creatività storica, intrinseca al fascismo ed autenticamente
professata dall’architetto comasco, a condurre al distacco dalla sua individuazione nel politico.
Nel progetto di secondo grado per il Palazzo Littorio, non a caso, all’assenza di appelli al Duce, designato
invece negli scritti precedenti arbitro unico nella controversia sull’architettura, fa riscontro l’idea
sull’organizzazione delle strutture del fascismo e, quindi, sulla distribuzione funzionale dell’edificio. Per quanto
riguarda il progetto, potrebbe dirsi che malgrado la presenza di più maestose masse edilizie, data l’esigenza di
offrire, trattandosi di una fase pre-esecutiva, più precisi standards alle innumerevoli funzioni previste dal bando
riprenderà tali concetti gentiliani ne La dottrina del fascismo (1933), in Scritti e Discorsi vol. 8, Hoepli, Milano 1934, dove,
dopo aver messo in evidenza la necessità di una dottrina che regoli il rapporto dell’azione nel contingente con una spiritualità
etica superiore, si afferma: “la vita perciò quale la concepisce il fascista è seria, austera, religiosa…il fascismo è Una
concezione religiosa. In cui l’uomo è veduto nel suo rapporto immanente con una legge superiore, con una volontà obiettiva
che trascende l’individuo particolare e lo eleva a membro consapevole di una società spirituale…” p. 69-70.
13
A. Mussolini, Coscienza e dovere – Quaderni di mistica fascista, in «Il Popolo d’Italia» 1 dicembre 1931e Il fascismo e le
corporazioni, Augusta, Roma-Milano1931, in cui si manifesta l’opposizione tanto al comunismo, annientatore
dell’individualità in nome di una eccessiva statizzazione, che al liberalismo, esaltante la singolarità oltre gli interessi
collettivi.
14
Arnaldo Mussolini, in Realizzazioni fasciste nella vita pubblica italiana, Pinciana, Roma 1932, puntualizza il rapporto tra
stato corporativo e nazione, dove, dalla Carta del Lavoro “la nazione italiana è un organismo avente fini, vita, mezzi di
azione superiore, per potenza e per durata a quelli degli individui diversi o raggruppati che la compongono. E’ una unità
morale, politica ed economica che si realizza integralmente nello stato fascista”.
15
B. Mussolini, in Stato, anti-stato e fascismo, un articolo pubblicato sulla rivista «Gerarchia», 25 giugno 1922, ora in Scritti
e Discorsi, cit., vol. II, p. 291, si oppone tanto alla nozione di una statalità legittimata dai diversi sistemi elettivi che a quella
di una antistatalità rivoluzionaria permanente, per affermare lo stato fascista come sistema di gerarchie immedesimate
nell’azione pratica e spirituale secondo gli interessi e le idealità dei gruppi che costituiscono la società civile.
16
E. Pound, Jefferson and Mussolini, ed. Stanley Mott, Londra, commentato da Lina Caico ne Il Protagonista, in Fascist
Europa, Milano 1938, p. 152. In tale articolo Pound afferma l’opportunismo di Mussolini come qualità dell’artista “directio
voluntas”.
17
B. Mussolini, Il Novecento, discorso tenuto il 15 febbraio 1926 in occasione della mostra omonima inaugurata a Milano
nel Palazzo delle Esposizioni.
di concorso, queste si ritraggano dal fronte per offrire alla strada monumentale, cui nelle prime due ipotesi si era
concessa la facciata ed il palco del Duce, solo le cieche testate degli edifici, elevati in un fuori-scala, quasi ad
apporre insormontabili ostacoli ad ogni continuità tra la città storica e le sue nuove versioni proposte dagli
sventramenti, ovvero, all’epico percorso tra il Colosseo e piazza Venezia. Indifferenziati ed indifferenti, i singoli
blocchi si dispongono così, sostenuti da un comune elemento orizzontale, a confermare una meccanica gerarchia
che non vive più la drammatica dialettica delle forme che si articolavano nei precedenti progetti alla ricerca di
una “parte”. Lo stesso elemento singolo, la torre posta al vertice anteriore del triangolo planimetrico, sebbene
tenti, nelle prospettive, il distacco dall’ordine gerarchizzato dei volumi, non risulta essere che il primo elemento
di un regolato sistema in cui, priva di slanci, analoga com’è nell’altezza agli edifici retrostanti, disporre
ambiguamente una trasparenza rivolta esclusivamente all’interno, occultata e doppiata da una chiusa facciata
esterna.
Anonimamente professionale, sebbene giocato ancora sui motivi cari a Terragni – il rincorrersi della pareti, la
evidenziazione delle strutture, l’incrociarsi della verticalità e dell’orizzontalità ecc. – il progetto per il secondo
grado del Littorio sembra quasi voler manifestare nella sua invadente esuberanza, pure estranea alla più grandiosa
delle città, tutta la fredda prepotenza del regime, alieno ormai da ogni calore popolare.
Già nel tragitto progettuale del Littorio, dunque, Terragni prende poco a poco distanza da una visione
totalizzante del politico, per fare rotta decisamente verso il mare aperto della pura ricerca compositiva, una pura
dimensione dell’anima, tanto più che nel periodo del concorso, secondo il racconto del nipote Emilio, egli è solito
frequentare il Contratto Sociale del Rousseau, utilizzando il volume per equilibrare il proprio letto, dopo averne
rivisto qualche passo la sera 18.
E’ possibile ritenere cioè, che, a partire dai concetti gentiliani riguardanti il presunto antiideologismo del
fascismo, l’attualizzarsi dello spirito nelle azioni parallele della politica, dell’arte e della religione, il “primato”
dell’ingegno, la vocazione creatrice del Principe, tutti motivi proclamati dallo stesso regime, Terragni pervenga,
in una acquisizione genuina di tali principi, al superamento di ogni visione raffigurante il politico quale luogo
sintetico delle attese singolari, riferimento di ogni gesto, nucleo di addensamento della cultura e della tradizione
della Nazione, dei valori e dei miti del popolo, perché, ravvisando in quelle stesse gerarchie teorizzate dal
fascismo le gradualità dello spirito, sia l’intelligenza dell’invenzione, quella più vera della creatività dell’arte,
interprete primo dei sentimenti e della fantasia popolari.
Il Colletti sottolinea come agli inizi del secolo le idee del Rousseau venissero imparentate con quelle kantiane
relativamente alla immedesimazione del singolo e del sociale nel giudizio morale, e come, nei tempi recenti se ne
siano lette le implicazioni nel pensiero di Marx, nel quale l’incipit del Manifesto enuncia chiaramente le
ascendenze roussoiane 19. In realtà già il Croce assimila lo scrittore ginevrino al comunismo, ironizzando sulla sua
critica alla concorrenzialità ed all’individualismo liberale e sulle teorie dell’eguaglianza che implicherebbero
quasi una “imposizione” ad esser liberi 20. Di fatto proprio il pensiero marxista, tracciando un itinerario tra il
Machiavelli ed il Rousseau, interpreta l’autore del Contratto Sociale, più che nei termini banali dell’esaltatore di
una società ed un diritto naturali, quale sostenitore di una originaria eguaglianza da riaffermare nel medesimo
sociale storico come parità dei diritti, negata nel pactum subiectionis che informa le convenzioni giuridiche
contemporanee. Per il Rousseau infatti, secondo l’analisi del Colletti, nella confutazione del liberalismo dello
Smith, la società si determina più che mediante “l’accordo – o contratto – per cui tutti convengono di perseguire
ciascuno i propri interessi separati…nella socializzazione degli interessi” 21, là dove attraverso la saldatura tra le
società particolari, fondate sugli interessi singolari coordinati come nell’organizzazione delle piccole comunità
del passato, e l’universalità della società generale, si pone “l’enunciazione dello scioglimento dello Stato, o sua
dissoluzione (letteralmente auflosung)” 22. Critico delle gerarchie ecclesiali, il Rousseau offre quale esempio di
società generale la Chiesa stessa, qualora si escluda l’alienazione che in essa si realizza nell’intendere la
fratellanza e la parità tra gli individui in una immagine astratta estranea alle concrete determinazioni del vivere 23.
Non solo, ma la medesima naturalità su cui si sofferma viene intesa, secondo quanto mostra lo Starobinskj, quale
stadio profondo dell’io, segreto sembiante dell’uomo che, come la statua di Glauco in Platone, nascosto dalle
incrostazioni del sale e delle alghe, sovrapposte dal tempo, appare essere la vera anima portatrice della presenza
di Dio, elemento di una nuova teodicea, in cui il Cristo, più che essere portatore di una parola, espone in se
18
La testimonianza mi fu donata dallo stesso nipote nel 1978, in occasione di una mia visita a Como.
L. Colletti, in Ideologia e società, Laterza, Bari 1969, pp. 207-251, analizza il pensiero del Rousseau in relazione a quello
di Kant e Marx, al liberalismo ed al cattolicesimo.
20
B. Croce, Rousseau, il diritto naturale, in Etica e politica (1930), Laterza, Bari 1967, p. 209.
21
L. Colletti, op. cit. p. 236.
22
L. Colletti, op. cit. p. 251.
23
L. Colletti, Il Marxismo e Hegel, Laterza, Bari 1961, p. 141 e segg.
19
stesso, nel suo trasecolare, l’immagine del raggiungimento della trasparenza con Dio, occultata, piuttosto che
svelata, dal formalismo della chiesa cattolica 24.
Sarà allora, forse, in tali motivi, l’interesse di Terragni per il Rousseau, nella proposizione cioè, oltre l’atto
rivoluzionario condotto al fine di mutare le condizioni materiali dell’esistenza, di una maieutica svolta alla ricerca
dell’interiorità, di un’attività di disvelamenti dei travestimenti che la storia ha apposto alla naturale disposizione
dell’uomo a riconoscersi quale essere collettivo, verso una trasparenza del sé e, quindi, del rapporto tra
singolarità e società, realizzata più che nella nostalgica memoria di una primitiva età felice collocata oltre la
storia, nel divenire storico medesimo, in una cultura che pervenga al limite estremo di sé, quale totale
estroversione dell’intimità 25. Così, mentre in Rousseau sembra privilegiarsi l’immagine del cristallo, fluida
materia pietrificata, segno del nocciolo trasparente della vita, d’altro canto in Terragni si fa luce un concetto
politico-religioso che vede, come è nel pensatore ginevrino, la coesione e l’organicità del sociale quale esito di
una evoluzione della cultura che elimini ogni orpello, anche quello ideologico, all’interiore disposizione degli
esseri al colloquio 26, tanto più che lo stesso Principe machiavelliano, figura del politico, nel dibattito coevo
sembra lasciar evolvere la sua troppa corporeità privata verso un’immagine trasparente la quale sia interpretabile
quale luogo di una coscienza rivolta alla realizzazione di un platonico regno dell’intelligenza 27.
Nel concorso per il Palazzo Littorio, nei progetti di Terragni, sembra assistersi così ad una sorta di parabola
dove l’iniziale esaltazione del duce, del politico, come sintesi suprema delle vocazioni del popolo, della sua
storia, si incurva verso il concetto di una centralità del genio che veda non più il politico come creatore, ma
piuttosto il creatore come politico, quasi in una riproposta della platonica città ideale. Non è un caso infatti che
Terragni, sebbene l’incarico sia stato assunto dal Lingeri, aderisca immediatamente all’idea di elevare un
monumento a Dante, ipotizzando, mentre è ancora in svolgimento il concorso per il Littorio, il suo insediamento
sulla stessa area dell’edificio che avrebbe dovuto celebrare il trionfo del fascismo.
Lo Schumacher avverte come la necessità della custodia della memoria di Dante non sia particolarmente
avvertita da Mussolini, il quale apprezza nel poeta solamente la visione imperiale 28. L’entusiasmo di Terragni,
che fa di tutto perché sia realizzato il progetto, è quindi maggiormente indicativo del sostanziale differenziarsi
dell’architetto dalle teorie correnti del fascismo, per contenuti che, sebbene ancora interni all’alveo della stessa
ideologia del regime, ne siano in un certo senso oppositivi. Del resto, cattolico, nella critica roussoiana alla
Chiesa, Terragni presumibilmente riconosce proprio il giudizio di Dante che, sia pure rivolto ai motivi opposti di
una eccessiva temporalizzazione del sacro, condivide l’indicazione rivolta alle strutture ecclesiali di limitarsi al
puro dominio delle cose spirituali.
C’è da ricordare comunque che chi assimila, con echi roussoiani, Dante a Machiavelli, pure nella propensione
della maggiore “modernità” di quest’ultimo, è ancora un intellettuale interno al regime, nientemeno che il
Ministro per l’Educazione Nazionale nel primo gabinetto fascista: Francesco Ercole, di cui pure Gramsci chiede
dal carcere gli scritti sul diritto 29. L’Ercole legge infatti il Principe, contrariamente a chi ne aveva ritagliato la
fisionomia in contrasto con la tradizione, in controluce rispetto a questa, analizzando in esso la presenza dei
motivi aristotelici che animavano anche il divino poeta. Secondo tale studioso cioè, il Machiavelli trarrebbe la
teoria della relazione tra popolo e Stato, realizzata nel Principe, dal rapporto vigente per Aristotele tra la materia e
la forma, ovvero il concetto di “virtù” dalla nozione aristotelica di “energia e potenza”. Sarà quindi da tali
definizioni che il Machiavelli teorizzerà una organicità tra popolo e forma giuridica in un “corpo misto”, quasi
una sorta di “blocco storico”, dove le determinate istanze dei distinti, materia vivente, “vivere comune”, trovino
la loro peculiare espressione negli ordinamenti del “vivere civile” dello Stato 30, il cui fine ultimo è
nell’eliminazione di ogni sovranità e di ogni subordinazione per la realizzazione di una società armonizzata in cui
24
J. Starobinski, La trasparenza e l’ostacolo, Il Mulino, Bologna 1982, pp. 43-56.
J. Starobinski, op. cit. pp. 66-67
26
J. Starobinski, op. cit. pp. 391-395.
27
A proposito della singolarità del Principe cfr. S. Finzi, Il principe splendente, Dedalo, Bari 1973, pp. 173-189 e 200-215.
All’inverso, per l’interpretazione della sua estroversione nel governo delle plebi, cfr. U. Dotti, N. Machiavelli e la
fenomenologia del potere, Feltrinelli, Milano 1980, particolarmente il capitolo II.
28
T.L. Schumacher, Il Danteum di Terragni, Officina, Roma 1980, cap. I.
29
Antonio Gramsci chiede il libro di Francesco Ercole sul Machiavelli (La politica di Machiavelli, Anonima Romana, Roma
1926) nella lettera a Tania del 27 dicembre 1926 ed in quella dell’11 aprile 1932. Nella lettera a Giulia del 10 febbraio 1930
egli si sofferma abbastanza a lungo su un altro scritto dell’Ercole, Dal comune al principato, Vallecchi, Firenze 1929, e
particolarmente sul saggio La lotta delle classi alla fine del Medio Evo, rivolgendo, a parte il rilievo su alcune “ingenuità”
storiografiche, un buon apprezzamento circa lo studio del discepolo di Salvioli. Cfr. A. Gramsci, Lettere dal carcere,
Einaudi, Torino 1965.
30
F. Ercole, Lo Stato in Machiavelli, in «Politica», settembre 1915 e La Politica di Machiavelli, Roma 1926.
25
ciascuno sia “sibi princeps” 31. Come si vede, già qui possono avvertirsi le allusioni al Rousseau, tanto più che
altre analogie sono rintracciabili proprio nelle nozioni dell’Ercole, comuni a quelle del pensatore illuminista, di
società particolare e società generale, là dove la virtù del Principe si estrinseca nel trarre dalla materia grezza
degli immediati interessi particolari, l’aspirazione all’universale, in un connubio, del tutto contrastante con le
autonomie crociane, tra materia e spirito 32.
Luogo della trasparenza tra la materia popolare e le forme giuridiche, il Principe appare alla fine, anche nella
visione dell’Ercole, una sorta di fondo noumenico in cui le istanze singolari precipitano verso l’universalità, un
simbolo diafano, un notturno nucleo indicibile pure interno alla concretezza della dicibilità dei fatti, tale da
assimilarsi allo spiritualistico “veltro” dantesco, sia pure epurato dalle sue vocazioni al divino, all’oltremondano,
in una visione ideale terrena.
Se pertanto, tra Machiavelli e Dante, si pone l’idea di una figura vuota, pura soglia di attraversamento tra
materia e forma sociale, culmine in cui la materialità si stravolge misteriosamente in una finalità ideale sì che si
ponga nella concretezza stessa delle cose il principio nascosto di una ragione, è ancora agli artisti, agli
intellettuali, che è dato elevarsi a Principi, estrattori primi, dalla grezza brutalità dei movimenti materiali, del
soffio spirituale che li anima.
Già nel ’31 Terragni aveva confutato all’amico Bardi la definizione di una “architettura di Stato”, ovvero la
proposta di un ente centrale di controllo degli interventi architettonici, affermando la necessità di un più diretto ed
attivo rapporto, privo di mediazioni, tra architettura e pubblico. Opponendosi quindi tanto alla riconferma, in
Fillia, di una adesione immediata del costruire alle dinamiche del concreto 33, come era nel futurismo, ch all’idea
di una super rappresentatività della politica, Terragni maturerà la visione di uno stretto legame tra poesia e
sentimento popolare, quella di una architettura “come morale e come politica”, secondo quanto aveva scritto nel
’33 Bontempelli 34, la quale, trasfondendo nelle sue forme e nei suoi simboli gli slanci della Nazione, i suoi miti,
le sue eroiche proiezioni nel futuro, acceda a sua volta alla poeticità di un canto corale, essendo l’arte, sebbene
prodotto di una singolarità, la più autentica manifestazione popolare.
31
F. Ercole, Lo Stato in Machiavelli, cit. pp. 336-346
F. Ercole, Dante e Machiavelli, in «Politica», settembre 1921.
33
Cfr. il dibattito fra Pier Maria Bardi, che scrive per «L’Ambrosiano», del 31 gennaio 1931 l’articolo Architettura arte di
Stato, il Fillia, che interviene sul medesimo giornale il 16 febbraio dello stesso anno con lo scritto Architettura di Stato, e
Terragni, che il 16 dicembre pubblica Architettura di Stato, rimbeccato dal Costantini su «La Sera» nel suo Arte di Stato, in
cui l’architetto comasco è additato come bolscevico. Tali articoli sono riportati in M. Cennamo, Materiali per l’architettura
moderna, il MIAR, Fiorentino, Napoli 1973.
34
M. Bontempelli, L’architettura come morale e come politica (1933) in L’avventura novecentista, Firenze 1938, p. 477, ora
in Opere Scelte, cit. p. 796.
32
CARLOS MARTÍ ARÍS VOCAZIONE ALL’ANONIMATO
Fabio Licitra
Alcuni anni fa, uno studente di architettura incontrò il professor Carlos Martí Arís nella sua casa di
Barcellona, sulla Gran Via: “decumano massimo” che assieme al cardo equivalente, il Paseo de San Juan,
struttura l’intera ensanche del plan Cerdà. Lo studente venne accolto sul pianerottolo del vano scala, ma prima di
varcare la soglia ebbe il tempo di apprezzare la qualità della pavimentazione. Fu l’occasione di una magnifica
lezione di architettura: il professore fece notare il taglio obliquo delle piastrelle e poi chiarì come in quel “segno”
vi fosse la spiegazione del chaflan, ovvero quella smussatura d’angolo che tanto caratterizza l’isolato
barcellonese; elemento di raccordo, quest’ultimo, tra casa e città, nonché modulo dell’intera ensanche e principio
ordinatore del territorio circostante.
Quasi prendendo in prestito la teoria dei frattali che Ildefonso Cerdà sembra aver anticipato, da una particolare
apparentemente insignificante - la “piastrella”- Martì è stato capace di risalire attraverso una serie di scarti di
scala - metrici e mentali insieme - ai concetti generali dell’architettura della città. Questo modo di procedere, dal
particolare all’universale, caratterizza l’intero percorso teorico di Carlos Martì Arìs: dall’esperienza in 2C agli
ultimi studi svolti, passando per i testi Le variazioni dell’identità e Silenzi eloquenti.
Tipo e silenzio: due nozioni elementari
Io lo so, è triste essere anonimi: [...] Nessuno darà mai un nome a
questo dolore, esso passerà tra gli uomini senza volto. Ma io vi voglio
consolare perché so anche che in tale solitudine s’affolla tanta umanità che,
se voi aveste un nome, non oserebbe assumere le vostre sembianze e
resterebbe chiusa in se stessa.
Ernesto Nathan Rogers
Già a partire dai titoli di due tra le più importanti opere di Carlos Martí Arís, Le variazioni dell’identità e
Silenzi eloquenti, è possibile cogliere una curiosa ma non casuale relazione tra i due testi 1. Entrambi i titoli infatti,
traggono vigore espressivo dalla figura logica dell’ossimoro: l’accostamento proposto dall’autore di parole di
senso apparentemente opposto, varietà-identità dell’uno e silenzio-eloquenza dell’altro, è un chiaro intento
operativo di s-velamento della verità, come ci indica l’etimologia stessa della parola “ossimoro” 2. Ma ciò che
legittima ancor più la scelta dei titoli delle due opere, è la corrispondenza non solo linguistica con il principio
leibniziano della “monade”, ovvero quel principio che ha condizionato e fondato il pensiero estetico dell’intero
Settecento, poi sistematicamente adottato da Crousaz come Unità nella varietà.
Nel Traité du beau (1714), Pierre Crousaz, ricercando «un “metodo” [oggettivante] nell’analisi di funzioni
soggettive» 3, ci dà una definizione di bellezza che Carlos Martí non esiterebbe a sottoscrivere: il bello è tale nella
misura in cui «la sua unità prevale sulle differenze, sulla varietà. Sarà allora “Varietà temperata
dall’uniformità”» 4.
L’approccio metodologico di Crousaz, ovvero il «mettere tra parentesi» l’abbondanza di impressioni e
l’accidentalità dei fatti per volgersi soltanto alle «nozioni più semplici e incontestabili» 5, viene in aiuto a Martí, in
veste di nitida verifica epistemologica. Così come Crousaz, Martí ci svela il senso nascosto dell’ossimoro delle
cose, mettendo tra parentesi contingenze e specificità per approdare a nozioni elementari e inconfutabili del fare
artistico: la nozione di tipo in architettura e la nozione di silenzio nell’arte.
Per Carlos Martí, solo le mutazioni di una cosa rendono visibile la permanenza dei suoi caratteri formali, la
sua essenza. In questo senso, tipo e silenzio, come fattori comuni invariabili, diventano condizioni necessarie per
1
C. Martí Arís, Le variazioni dell’identità, Il tipo in architettura, CittàStudi 1990; Silenzi eloquenti. Borges, Mies van der
Rohe, Ozu, Rothko, Oteiza, Marinotti 2002 (edizione italiana ampliata di Silencios elocuentes, UPC 1999: comprende
“Architettura e astrazione”). Lo scritto che qui propongo è frutto del dibattito su “La critica e l’opera”, a cui ha partecipato
Carlos Martí Arís, svoltosi il 5 maggio 2004 alla Facoltà di Architettura Civile del Politecnico di Milano.
2
Dal greco oxỳmros, composto di oxỳs ‘acuto’ e mōrós ‘sciocco’; propriamente ‘che è acuto sotto un’apparenza di stupidità’.
E a proposito della differenza tra stile e tipo “Qualunque sia il viluppo di sculture e di ricami di una cattedrale, sotto si
ritrova sempre, sia pure allo stato embrionale, la basilica romana, che eternamente si sviluppa sul suolo secondo la stessa
legge”, L’idea di tipo come fondamento epistemologico dell’architettura, in Le variazioni dell’identità, Il tipo in
architettura, op. cit., pp. 16-18.
3
E. Franzini, La bellezza e il sublime, in L’estetica del Settecento, il Mulino 1995, p. 68.
4
E. Franzini, L’estetica, op. cit., p. 70.
5
Cfr. E. Franzini, ibidem , op. cit., p.69
l’intelligibilità dell’opera. Tipo e silenzio, quindi, assolvono insieme il ruolo di “concio in chiave” dell’intero
arco teorico sviluppato dall’Autore: dalla stesura del primo, Le variazioni dell’identità, alla stesura del secondo,
Silenzi Eloquenti.
L’idea di tipo, lontana sia da facili invenzioni formali sia dal determinismo sterile del modello, e la poetica del
silenzio, equidistante dalla caotica logorrea della contemporaneità come dal mutismo vanitoso del minimalismo,
ci vengono presentati come indispensabili strumenti della progettazione artistico-architettonica. Più che essere
complementari, tipo e silenzio, sembrano fondersi nel forte vincolo della sinonimia.
Nella nostra epoca contraddistinta dall’eccesso, dalla sovraesposizione, dall’eccentricità del fare artistico, la
parola “silenzio” ha assunto un ruolo particolare per tutti coloro che hanno deciso di opporre una stoica resistenza
agli eventi degli ultimi decenni. Ecco che allora questa parola dal significato inizialmente ermetico - qui assunta
nella sua accezione più legittima, ovvero quella che la riconduce più al dominio delle idee che a quello delle cose
- è stata via via recuperata, legittimata, interpretata e poi divenuta oggetto di abusi che ne hanno addirittura
stravolto il significato. Ad esempio, oggi si associa spesso la parola “silenzio” a quella tendenza estetica
conosciuta da tutti con il nome di “minimalismo”. Ma cos’è il minimalismo? Non è forse paradossalmente una
delle forme più fragorose del linguaggio contemporaneo? Durante una conferenza al Politecnico di Milano,
Giorgio Grassi lo assimilò a una “mancata risposta”. Un escamotage del progettista - crediamo sia questo il senso
dell’affermazione di Grassi - per sottrarsi sia alle domande senza tempo della disciplina come a quelle sempre
nuove del progetto; potremmo dire un vero e proprio atto di codardia di chi, non sapendo o non volendo
scegliere, anziché assumersi la responsabilità di una puntuale risposta progettuale preferisce appunto il “mutismo
assordante” del minimalismo: dire niente e dire tutto. Che è esattamente agli antipodi del famoso aforisma less is
more di Mies van der Rohe.
Un “mutismo assordante” a cui Carlos Martí Arís, allievo di Grassi, non esiterebbe ad opporre il suo di
ossimoro: un “silenzio eloquente” che però - secondo la nostra tesi - non si rivela come forma ma come nozione
elementare; come fattore invariabile del fare artistico-architettonico esattamente alla maniera del “tipo”. Una
poetica del silenzio, quindi, legittimamente posta alla stessa stregua della tipologia, ovvero come strumento
oggettivo della progettazione, grado zero del processo poietico.
In tal senso, se il tipo si fa “impronta” (come ci indica l’etimo stesso della parola) a regolare l’astrazione della
rappresentazione zenitale; il silenzio, perché risalti l’eloquenza del linguaggio, si fa “sfondo”.
Ed è proprio la nitidezza con cui gli elementi si stagliano sullo “sfondo”, a marcare senza equivoci la distanza
che separa il minimalismo dalla poetica del silenzio: laddove il primo tende all’immediatezza, ma lì nel semplice
si esaurisce, la seconda ambisce alla complessità attraverso il reiterarsi dell’elementare 6.
L’opera d’arte, ci ricorda Martí, è sempre una costruzione complessa nella quale si riconoscono gli elementi
che la formano.
L’aspirazione del critico
L’Anonimo nei secoli sussurra la parola da orecchio a orecchio;
ognuno la ripete a modo suo […]. Quanti secoli e quanti Anonimi
per portare la foglia d’acanto ai fastigi del capitello corinzio
Ernesto Nathan Rogers
Il bello, scopo ancor oggi prioritario del fare artistico, è «una realtà conoscitiva [secondo la quale] il giudizio
di bellezza implica il giudizio di realtà: postulato che conduce a una sostanziale identità tra bello e vero.
Perseguire in tutte le sue forme questa identità e saperla individuare nelle opere d’arte è il compito quasi “etico”
[dell’artista e] del critico» 7.
Da qui l’augurio di Martí che la figura del critico, oggi tanto screditata, venga presto rifondata, nel senso in
cui Jorge Luis Borges intendeva i critici: «persone che non dispongono di metalli preziosi né di prese a vapore,
laminatoi e acidi solforici per coniare tesori, ma che possono indicare agli altri il luogo di un tesoro».
«Affinché il critico smetta di essere visto come un ciarlatano - spiega Martí - cioè come qualcuno che
pontifica su temi di cui non domina i termini pratici, [la critica], deve essere fatta dall’interno della disciplina
stessa, la qual cosa colloca il critico e l’artefice sullo stesso fronte» 8.
Sarà allora critica operante 9, cioè «una critica che ha la pretesa di riprodurre, nei limiti del possibile, il
processo mentale che ha seguito l’artista per realizzare la sua opera» 10: è proprio questa aspirazione, che forgia le
6
Cfr. Carlos Martí Arís, Mies van der Rohe: la chiarezza come obiettivo, in Silenzi eloquenti. Borges, Mies van der Rohe,
Ozu, Rothko, Oteiza, Marinotti 2002.
7
E. Franzini, L’estetica, op. cit., p.73
8
C. Martí Arís, Una opinione sulla critica, intervento al dibattito su “La critica e l’opera”, Milano (5 maggio 2004).
differenti trattazioni incluse in Silenzi eloquenti, a mettere a nudo l’espressività poetica di un “silenzio” che
rifugge le sue accezioni patologiche 11 e si distingue dall’ingenuo minimalismo alla moda.
A differenza dello storico, il critico secondo Martí non subisce il tempo, ma lo assume come campo reale
delle relazioni tra le opere di cui si circonda e le sue 12. Il ruolo attivo del critico, nella fondazione continua sia di
una specifica disciplina sia di un ambito interdisciplinare, quando a prevalere è l’etica del mestiere e il senso di
responsabilità implicato dal giudizio, si traduce in una tessitura discreta di senso storico tesa a colmare il vuoto
tra le diverse realtà artistiche.
Nell’ambito interdisciplinare delle arti, comprese in una critica mai gridata, storia e realtà convergono.
Aldo Rossi, il paradigma
Un uomo è morto in guerra (ignoro da quale parte del fronte), ma per
certo, seppure impercettibilmente, la mia vita ha subito uno spostamento:
ora che io ho più probabilità di vincere o di perdere per lui. Milioni di
uomini sono me e io sono in milioni d’uomini.
Ernesto Nathan Rogers
Quale distanza separa Le variazioni dell’identità da Silenzi eloquenti? Nove anni passano dall’edizione del
primo testo a quella, nella forma originaria pubblicata in Spagna, del secondo, ma l’approccio dell’Autore alla
disciplina dell’architettura è sempre lo stesso. Non c’è affatto distanza.
Lo sguardo prediletto è identico, quello in controluce, l’unico che permette una resa trasparente dell’opera per
indagarne con più facilità l’anima. Il suo corpus, la sua struttura formale. I due testi convivono in una sorta di
controcampo cinematografico: opposte inquadrature, stessa scena. Detto ciò, appare facile individuare un
parallelismo tra il lavoro teorico dell’allievo Carlos Martí e quello del maestro Aldo Rossi.
La relazione che vincola i testi principali del Maestro, L’architettura della città del 1966 e Autobiografia
scientifica del 1981, si ripete quasi intatta in quella che intercorre tra le Variazioni e i Silenzi dell’allievo. Ma non
si tratta di relazioni equilibrate, di un controcampo perfettamente simmetrico. I secondi, Autobiografia e Silenzi,
vivono solo ed esclusivamente in seno ai primi.
Di Autobiografia scientifica, infatti, riconosciamo il valore solo perché conosciamo il suo con-testo: solo
grazie a L’architettura della città, la poetica che Rossi manifesta nel secondo libro assurge, seppur di riflesso, a
oggettività trasmissibile. Solo dopo aver incamerato la scientificità metodologica della lezione del ‘66, possiamo
cogliere appieno il senso dei suoi schizzi, del suo interesse ossessivo per l’osteologia e la conseguente,
importantissima in Rossi, figura della morte.
E parallelamente in Martí, non potremmo carpire sino in fondo, dalla lettura dei Silenzi, l’essenza che si cela
tra le pieghe di un sempre più complesso e frammentato linguaggio artistico, se non ci avesse preventivamente,
passo passo, condotto per mano lungo il viaggio delle Variazioni. Quello che dal monolitico fondamento logico
dell’architettura, tra variazioni e permanenze, porta a una moderna propensione alla scomponibilità del corpus
stesso della nostra disciplina, nonché all’astrazione. 13
In Rossi come in Martí, la dimensione soggettiva nasce comunque dall’opera prima e in essa, dopo essersi
cristallizzata altrove, rifluisce.
Non è neanche immaginabile invertire magicamente l’ordine cronologico delle opere poiché tra esse non c’è
complementarità: è un vincolo di latenza a legare Autobiografia scientifica e Silenzi eloquenti ai rispettivi libri
matrice. In tal senso, tra «orden logico y deformacion sentimental», «el trabajo del artista se concibe entonces
como una progresiva conquista de la razón que, poco a poco, va usurpando terreno al campo de lo irracional» 14.
Questo lucidissimo passo riferito all’opera costruita di Rossi, scritto da Martí, insieme ai compagni del “Grupo
2C” nel ‘79, sembra sia stato profetico per lo stesso Martí e la sua successiva opera teorica.
9
È evidente l’allusione ai principi che indussero Saverio Muratori a parlare di storia operante: Cfr. S. Muratori, Studi per
un’operante storia urbana di Venezia, Roma 1960.
10
C. Martí Arís, Una Opinione, op. cit.
11
Cfr. C. Martí Arís, “Linguaggio e Silenzio”, in Silenzi, op. cit. e George Steiner, La fuga dalla parola, in Linguaggio e
silenzio, Londra 1967.
12
Per il critico, già il semplice atto di scegliersi il proprio contesto operativo è un’intenzione progettuale: l’espressione del
proprio punto di vista attraverso la voce altrui.
13
“Monolitico versus scomponibile” è tra i paragrafi del capitolo di chiusura, rappresenta più che l’atto conclusivo, la tesi
dell’intero lavoro. Martí Arís, in La nozione di tipo nell’architettura moderna, Le variazioni, op. cit., p. 133.
14
“Orden logico y deformacion sentimental” è il titolo che Martí Arís e compagni diedero a un paragrafo del testo Aldo
Rossi: realidad y proyecto, in “2C, Construction de la Ciudad”, n. 14, dicembre 1979, p. 21.
Se l’Autobiografia di Rossi si apre con «il racconto del muratore che solleva con grande sforzo un blocco di
pietra sul tetto di una casa» 15, i Silenzi di Martí vengono introdotti dall’immagine della “centina” 16.
Nel primo caso, la figura del muratore, «il [cui] lavoro non va perduto, rimane immagazzinato per molti anni,
mai diminuito, latente nel blocco di pietra, finché un giorno può capitare che il blocco si stacchi e cada sulla testa
di un passante uccidendolo» 17, sottintende la costruzione scenica della tragedia umana; nel secondo, l’immagine
della centina, «che rende possibile la costruzione dell’arco: una volta compiuta la sua missione, scompare e non
rientra nella percezione che abbiamo dell’opera finita» 18, allude al carattere necessario, seppur oscuro e ausiliario,
della teoria nei confronti della pratica artistica.
Allusioni solo apparentemente diverse.
Le due metafore, infatti, non esauriscono la loro missione nell’immediatezza allusiva appena descritta.
Entrambe serbano un ben più profondo significato, una più alta ambizione comune. Se in Rossi il racconto
degenera (o si rigenera) nella figura della morte, essenziale nella poetica del maestro («…finché un giorno può
capitare che il blocco si stacchi e cada sulla testa di un passante uccidendolo»), in Martí la silenziosa e umile
costruzione teorica rimanda ulteriormente alla figura dell’anonimo 19. Entrambi gli Autori puntano quindi
all’identificazione di un concetto fondamentale.
Se «la condizione egualitaria della morte, grande livellatrice» 20, si rivela per ogni uomo come il proprio
annullamento nell’estrema esperienza di appartenenza all’umanità, la nozione della morte secondo Rossi e lo
status di anonimato perseguito in prima persona da Martí, appaiono come esiti teorici perfettamente coincidenti
che insieme ci riconducono inevitabilmente alla figura del Milite Ignoto, all’idea della costruzione intesa come
“memorabile” sforzo collettivo. Sacrificio di soggettività alla dea Architettura.
Ma la carica paradigmatica di Aldo Rossi si ripercuote anche nell’opera costruita dell’allievo catalano. Il
progetto per il complesso residenziale “EL quimics” nella periferia di Gerona ad esempio, svolto in
collaborazione con Eduardo Gascon (pubblicato nel numero 13/2006 della rivista Aiòn) ripropone in modo
esplicito i principi compositivi di un progetto svolto da Aldo Rossi per la medesima area 10 anni prima: per ruolo
urbano, impianto tipologico e misure questi due progetti sono esattamente coincidenti. Un umile gesto, che per i
più superficiali assume l’aspetto sinistro del plagio, in cui vi è tutta quella tensione all’anonimato che Martí
privilegia e che ha assunto come sua prioritaria vocazione.
Ma in questo “stare all’ombra del Maestro” non vi è però l’assenza di un approccio critico: al contrario, Martí
e Gascon hanno apportato significativi cambiamenti che hanno di fatto migliorato il progetto dell’architetto
milanese: hanno reso più permeabili gli spazi delle corti al fine di migliorarne l’interazione spaziale con la città, e
senza riproporne il linguaggio hanno reinterpretato gli elementi della tradizione locale, come ad esempio la tipica
persiana catalana. Comparando le due piante sembra quasi che Martí abbia “spogliato” il progetto di Rossi dei
suoi aspetti particolari e contingenti, facendone emergere l’irriducibile essenzialità della composizione. Un esito
formale che allude dichiaratamente alla tradizione catalana, ovvero alla lezione del Plan Cerdà e a quella della
Casa Bloc.
Il Genio e la sua eccezione
Merita di essere raggiunto dalla sua epoca colui
il quale si limita ad anticiparla.
Ludwig Wittgenstein
A questo punto Ernesto Nathan Rogers aprirebbe il tema dell’Anonimo alla sua eccezione, il “Genio”: «Nomi
ed Anonimi traggono da una comune origine, come gli assi di un sistema cartesiano e formano una croce
smisurata entro i cui spazi infiniti sono tutti i nostri punti […]. Di fronte a noi sono le opere, specchio della vita, e
15
A. Rossi, Autobiografia scientifica, Nuova Pratiche Editrice, 1999, p.7. Rossi prende in prestito il “racconto del muratore”
da l’Autobiografia scientifica di Max Plance.
16
Martí Arís, La cimbra y el arco. Una nota sobre la investigación en arquitectura, in “Circo” ,n.93, nov. 2001; citato da
Simona Pierini in “Introduzione”, Silenzi, op. cit., pp.5,6.
17
A. Rossi, Autobiografia, op. cit., p. 7.
18
C. Martí Arís, La cimbra, op. cit.
19
Cfr. S. Pierini, in “Introduzione”, Silenzi, op. cit., pp. 5-6: a proposito di Martí Aris, «…tensione a un anonimato critico, a
favore delle opere e della costruzione di un discorso collettivo».
20
C. Martí Arís, “Granai della memoria” (Commento al progetto per il Cimitero di Fisterra dell’architetto César Portela,
pubblicato sul numero 18 della rivista DPA, Edicions UPC, apr. 2002), in Silenzi, op. cit., pp. 158,159.
Nel maggio 2001 regalai a Carlos Martì Aris la raccolta delle poesie popolari di Antonio de Curtis (in arte Totò) ‘A livella, al
cui interno è contenuta una poesia sulla morte che da il titolo all’intera raccolta. Mi piacerebbe poter pensare che proprio
quel dono, e il dialogo che ne seguì, sia stato per lui occasione di riflessione sulla figura della morte come livellatrice.
sono disposte attorno all’altra grande croce che è immagine delle nostre coordinate […]. Ogni tanto vedete
nell’infinito orizzonte dell’esistenza una figura più grande, il Genio, il quale è appunto colui che ha saputo
incarnare la perfezione, fondendo quasi le due croci, e raggiungere l’Anonimo traverso un nome smisurato. Tanto
che per parlare di lui noi ricordiamo più spesso la sua creatura: il capolavoro» 21.
Quando ci imbattiamo nella parola “genio”, istintivamente ne immaginiamo la portata straordinaria,
eccezionale, che rimanda all’esaltazione magnifica del soggetto. Ovvero al contrario di ciò che è ordinario,
comune a tutti gli uomini. Ci dimentichiamo insomma del suo significato originario. I latini chiamavano genius il
dio che a ciascun uomo veniva affidato in tutela al momento della nascita. L’etimologia è ancora presente nella
nostra lingua quando utilizziamo il termine “generare”.
Il “nume generatore” di ogni uomo, città, luogo o popolo, trae significato dalla duplice valenza dell’atto
generativo, attraverso la quale l’unicità del divino si discioglie nella dimensione plurale dell’umanità.
«Questo dio intimissimo e personale – ci spiega Giorgio Agamben 22 – è anche ciò che è in noi di più
impersonale». Esso infatti «ci supera e ci eccede» come il capolavoro eccede il nome di chi lo ha generato.
La celebre intuizione di Leon Battista Alberti della città intesa come “grande casa” e della casa come “piccola
città”- così vicina alla Barcellona descritta in apertura da Martì - per cui l’atrium della casa deve essere concepito
come il forum della città, colloca l’architettura all’origine della società. In questo modo di intendere, che poi è
anche il nostro, non vi è posto per le declinazioni patologiche dell’ego.
In linea con il punto di vista dell’Alberti, riproponendone la visione analogica, l’architettura della città
secondo Carlos Martì Arìs è come uno s-misurato teatro, scena fissa per eccellenza della tragedia umana, in cui il
genio dell’attore (sia viandante o celebrato architetto), nel gioco infinito dello parti, si stacca dal coro per
divenirne umilmente specchio. È l’anonimo che si offre al servizio dell’umanità.
21
E. Nathan Rogers, Confessioni di un anonimo del XX secolo, in Esperienza dell’Architettura, Skira, Milano, 1997, (prima
edizione Giulio Einaudi, Milano 1958), pp. 297-298.
22
G. Agamben, Genius, Nottetempo 2004, p. 8.
INTERVISTA A RENATO DE FUSCO
Raffaele Nappo
- Gli effetti del Manifesto della POP ART hanno sconvolto il mondo artistico e culturale negli ultimi sessanta
anni. Pertanto la pubblicità può essere considerata una forma artistica che unisce tutte le discipline, intesa
quindi come arte totale?
R.D.F. Potenzialmente potrebbe essere così perché effettivamente nella pubblicità ci sono vari linguaggi che
s’incontrano: la letteratura di chi fa lo speaker, le immagini, il colore, i suoni ma ciò che la rende scadente è il
palese obiettivo reclamistico che concede al cattivo gusto del pubblico le sue potenzialità. Di qui una sua
impotenza: potrebbe essere uno straordinario strumento, una specie di sintesi delle arti – da qui la tua domanda –
però nella realtà non è cosi, perché la pubblicità ha chiaramente un tale valore commerciale; nulla di male in
questo, ma è la sua qualità che è scadente, dal momento che essa è ripetitiva e non sortisce gli effetti auspicati, in
fondo è menzogna. Io non ho una grande stima della pubblicità, anche se potenzialmente potrebbe essere arte
totale.
- La pubblicità è costruita sulla realtà e quindi il suo inizio e la sua fine sono smentiti dal reale?
R.D.F. Sì perché la pubblicità dovrebbe avere, oltre il carattere informativo, anche un minimo di azione
pedagogica educativa, invece è il gusto del pubblico, tramite i giornalisti e i pubblicitari, che subordina il
messaggio e quindi la qualità della pubblicità stessa ad un ruolo meramente commerciale.
- E quindi noi ci esprimiamo simulando sempre un messaggio pubblicitario? Baudrillard sostiene che non c’è
più informazione ma c’è solo comunicazione. E’ cosi?
R.D.F. No, per fortuna no, poi sui due termini informazione e comunicazione ci sarebbe molto da dire e
consumeremmo tutta la nostra intervista. La pubblicità è ciò che vuole la maggioranza dei consumatori, più è
basso il livello culturale e maggiormente la pubblicità influenza gli utenti. Non c’è l’inedito, manca la sorpresa.
Quando si reclamizza un’automobile il consumatore istantaneamente comprende l’oggetto della comunicazione,
una velocità di comprensione data dalla raffinatezza e dal buon lavoro dei creativi. Spesso si assiste a forme
pubblicitarie di una banalità eccezionale, volgari, piene di doppi sensi. Insomma questo mezzo è tradito dagli
obiettivi e dal basso livello di chi è operatore di pubblicità.
- “Desidero - Lavoro - Acquisto – Consumo l’architettura” è considerabile la struttura primaria di tutte le
sovrastrutture?
R.D.F. No perché purtroppo l’architettura, se anche la volessimo chiamare una sovrastruttura, non è forte
come altri tipi di esigenze, di desideri. Per esempio il viaggiare è un desiderio molto più forte che non possedere
o anche usufruire di una buona architettura. La gente non distingue la buona architettura mentre sa tutto sui
traffici aerei, sui prezzi, le distanze che trova andando in una certa isola piuttosto che in un’altra, è preparata sulla
cosa che desidera di più, per esempio il viaggiare, che non un’informazione sull’architettura.
- Il viaggiare per vedere?
R.D.F. No, il viaggiare per viaggiare, soprattutto il viaggiare per raccontarlo agli amici.
- Le Corbusier elevò il Calcestruzzo a forma di poesia/economia, pertanto possiamo definire Koolhaas una
Archistar per aver inserito la logica dell’arte/pubblicità come materiale architettonico al pari del calcestruzzo di
Le Corbusier?
R.D.F. Io non direi che Le Corbusier abbia il valore che ha per l’uso del calcestruzzo. Le Corbusier ha altre
valenze che sussumono, vanno oltre, i materiali che ha usato e Koolhaas o tutti gli altri che si sono rifatti a lui,
posto che si siano rifatti, e di questo non ne sono molto convinto, fanno bene perché Le Corbusier è forse il
maggiore architetto del ‘900.
- Le Corbusier ha usato lo strumento calcestruzzo per realizzare la sua poesia e quindi paradossalmente
possiamo sostenere che nell’architettura di Koolhaas lo strumento non è più una questione di materiale ma di
pubblicità, un gioco di desideri o di consumo?
R.D.F. No, perché Le Corbusier aveva in mente un mondo tutto suo, un po’ utopico, che si rifaceva agli
utopisti francesi. Aveva un’idea di città in generale, un’idea di architettura ben precisa, tant’è che la codifica in
cinque punti. Inoltre operava su due filoni, dall’esser stato un’artista purista e dal suo approccio ingegneresco
fino ad affermare: “La casa è una macchina per abitare”. Insisteva sugli standard, unendo l’aspetto della
standardizzazione e dell’industrializzazione con questa vena che lui chiamava plasticien, tra pittura e scultura,
che gli proveniva dall’essere stato un’artista del movimento purista. Infatti, in ogni edificio di Le Corbusier,
possiamo individuare la parte artistica e la parte costruttrice, eccetto nella Chiesa di Ronchamp in cui prevale
assolutamente lo scultore e l’artista, trascurando i tracciati regolatori.
- Dopo circa mezzo secolo dalla pubblicazione dell’articolo “New liberty. The Italian Retreat from Moderm
Architecture” che sancì la disputa tra Banham e gli esponenti del New Liberty, con il caso della bottega
D’Erasmo di R. Gabetti e Aimaro d’Isola, possiamo dire che l’evoluzione storica abbia dato ragione a Banham?
R.D.F. Certamente no! Banham aveva il torto di essere, benché artista e critico d’avanguardia,
ortodossalmente legato al Razionalismo per cui vedeva questo interesse, diciamo per il Liberty, come una ritirata
dal Movimento Moderno. Il vero punto non era Liberty o non Liberty, dal momento che la polemica, con il
pretesto di Gabetti e di Isola, era con Rogers, e sarà proprio Rogers a rispondergli: “Tu sei il custode dei
frigidaires ” perché la novità di Casabella-Continuità, che è stata la più importante rivista italiana e non è stata
ancora superata, era il recupero della storia alla vicenda dell’architettura, storia che era stata bandita dal
Razionalismo. Si direbbe un neostoricismo, inteso nel senso di ampliamento dell’orizzonte delle conoscenze,
rivolto alla ricerca “delle valenze rimaste inesplorate”, una strana frase che coinvolgeva tutti noi che
frequentavamo Casabella: recuperiamo le valenze a suo tempo non apprezzate dall’architettura del recente
passato. Si trattò di un radicale cambiamento nei confronti della storia ed è questo che Banham non accettava.
- Secondo lei perché?
R.D.F. Perché dell’antistoria si era nutrito tutto il modernismo. Si riteneva la storia una remora per la libera
espressione dell’architettura, opinione che ha avuto anche l’ottimo Zevi negli ultimi anni. Per lui qualunque cosa
potesse costituire un freno alla libera fantasia non andava bene. Ciò non vuol dire che Zevi fosse contro la storia,
ma per affermare il mito della libertà creativa assoluta, che è una sciocchezza perché l’architettura ha dei vincoli
e grazie a questi vincoli poi si realizza, ogni vincolo, come la stessa storia, da alcuni critici era considerato una
cosa da bandire in omaggio appunto alla libertà creativa.
- La libertà creativa può essere inserita all’interno di un percorso storico?
R.D.F. Si non c’è dubbio ed è stato sempre così. Palladio, che è ritenuto il più classico degli architetti italiani,
effettivamente si ispirava alla classicità del Manierismo ma la superava. Insomma gli antichi non hanno mai
realizzato una villa come quelle palladiane, per cui può dirsi che era estremamente originale. Non a caso ho citato
Palladio, per dire che proprio l’architetto ritenuto più classico e da molti ritenuto, forse a maggior ragione,
Manierista, operava sul classico innovazioni tali da far dimenticare il mondo antico in modo da dare
un’immagine dell’architettura del suo tempo.
- L’architetto è l’ingegnere della finzione?
R.D.F. Assolutamente no, perché, parlando per stereotipi, l’architetto è uno che completa l’ingegnerizzazione
di un manufatto architettonico, mentre l’ingegnere è capace di fare una costruzione, l’architetto è capace di fare
questa costruzione e di renderla bella, ma non la bellezza esteriore, quanto la venustas della struttura, della stessa
organizzazione tettonica.
- Oggi c’è un distacco tra la struttura e la scocca?
R.D.F. E fanno male a separarle!
- Perché?
R.D.F. Sbagliano. Pensa, da questo punto di vista ho trovato un difetto nella stessa ville Savoye. L’interno e
l’esterno della villa hanno una corrispondenza biunivoca lungo tutta la sagoma, in apparenza, ma in realtà questa
corrispondenza si assenta su un lato dell’edificio. Nella mia storia dell’architettura sostengo che, per motivi
estetici, Le Corbusier ha tradito un principio, quello dell’esterno dell’architettura che deve riflettere l’interno e
viceversa.
- Questo (rispetto del tettonico) è un principio definito da noi. Non è una verità assoluta?
R.D.F. Sono tutte cose che abbiamo stabilito noi, non ci sono i dieci comandamenti dell’architettura però la
tradizione, la consuetudine è che le architetture più riuscite sono le architetture che hanno l’interno e l’esterno che
combaciano perfettamente. Si capisce che si può fare un muro anche a 10 metri di distanza da un volume, tutto si
può fare ma a un certo punto c’è sempre bisogno dell’esterno di questo volume edilizio.
- Pensando al Guggenheim Museum di Gehry a Bilbao, all’Auditorium della Musica di Piano o anche la
Filarmonica dello stesso Gehry lei definisce questi involucri architetture?
R.D.F. Ci sono distacchi tra interno ed esterno, anche se per l’opera di Piano? Non credo. Mentre per il Museo
Guggenheim di Bilbao, che ho studiato attentamente, ti assicuro che l’esterno e l’interno sono completamente
dissociati, non c’è alcuna continuità. Io ho definito questo tipo di architettura non-Segnica mentre la Segnica è
un’architettura che ha l’esterno con proiezione all’interno e viceversa. Un esempio classico di ciò, eccetto
l’architettura del passato, è l’Habitat di Mosche Salde, un agglomerato di tante costruzioni con un rapporto
perfetto tra interno ed esterno, l’ideale di Bramante.
- Secondo lei perché ci deve essere questo legame tra interno ed esterno?
R.D.F. Perché è uno dei capisaldi strutturali dell’architettura. Pensa all’uomo che è fatto di spirito e di materia
se mancasse, una di queste due cose sarebbe una creatura a metà.
- L’istinto dell’uomo lo porta a liberarsi dalle strutture e quindi l’architettura riflette tale istinto?
R.D.F. Io continuerò a salutare questo signore che fa questa scissione il quale, se si inserisse nella storia
dell’architettura, risulterebbe uno sballato per aver separato l’invaso dall’involucro che è un fattore sacrosanto!
- Secondo lei che legame c’era tra il colore rosso dei tempi romani con la struttura del tempio stesso, già in
questo c’era una separazione?
R.D.F. Si capisce che c’è sempre stata una differenza tra l’involucro e l’invaso. E tuttavia le due cose devono
sposarsi. Questa lezione ci viene, secondo me, dalla tradizione, quando per tradizione s’intende quanto di meglio
ha avuto la vicenda storica dell’architettura. Tutto si può fare, anche un edificio con le fondazioni in copertura,
magari nessuno lo impedisce, ma sarebbe fuori da ogni logica. Basti pensare che le avanguardie più spericolate
abbiano raramente distrutto quest’unità tra interno ed esterno.
- Per Tafuri «Il dover esser dell’intellettuale borghese si riconosce comunque nel valore imperativo che
assume la sua missione sociale: fra le avanguardie del capitale e le avanguardie intellettuali esiste una sorta di
tacita intesa, tale che al solo tentare di portarla alla luce si solleva un coro di indignate proteste. Tanto la
funzione mediatrice della cultura ha identificato i propri connotati in termini ideologici, che la sua astuzia
giunge – al di là di tutte le buone fedi individuali- ad imporre forme di contestazione e protesta ai propri
prodotti: e questo più la sublimazione dei conflitti è alta sul piano della forma, tanto più rimangono nascoste le
strutture che quella sublimazione conferma e convalida. Affrontare il tema dell’ideologia da questo punto di
vista, significa tentare di mettere in luce come mai una delle proposte più funzionali alla riorganizzazione del
capitale contemporaneo abbia dovuto subire le più umilianti frustrazioni, tanto da poter essere presentata tutto
oggi come valore oggettivo al di là di ogni connotato di classe o addirittura come momento alternativo, come
terreno di scontro diretto fra intellettuali e capitale.» (M. T., In Comunità, 72, 1959, pp. 68-69). Secondo lei
l’accademia italica è colpevole del suicidio o infanticidio delle speranze, capacità e volontà di innovare le
premesse del Modernismo nella produzione architettonica post caduta Muro di Berlino?
R.D.F. Non credo che esista un’architettura italica, questa esisteva solo ai tempi del fascismo, nel dopoguerra
non si può parlare di accademia. Possiamo parlare di gruppi, lobby, si potrebbe parlare di facoltà, di tendenze, ma
non c’è un’unità italica. In secondo luogo se il livello è così basso è dovuto alla condizione generale dell’Italia,
del nostro paese, che ha perduto tante occasioni. La mancata pianificazione, le crisi economiche, questa politica
cosi sui generis, il netto distacco tra politica e cultura, l’eccessivo individualismo, l’opposto del senso
dell’accademia, un eccessivo individualismo autoriflessivo che non crea collegamenti e poi il difetto
dell’architettura italiana, come della cultura in generale, è il provincialismo inteso sia come esaltazione del
proprio campanile sia come venerazione del campanile altrui. Da qui il successo di tante Archistar che progettano
nel nostro paese.
* Si ringrazia il professore Renato De Fusco per la sua disponibilità.
UN TERREMOTO LUNGO UN SECOLO*
Claudio Roseti
Reggio Calabria ha celebrato un anno e mezzo fa il centenario del terremoto/maremoto che il 28 dicembre
1908 distrusse la città di Reggio Calabria.
Tra le varie manifestazioni è certo da ricordare l’iniziativa della Facoltà di Architettura dell’Università
Mediterranea di Reggio Calabria che, attraverso la Commissione Cultura 1, ha elevato tale ricorrenza a Evento
dell’anno organizzando seminari, mostre e la stampa delle relazioni che ogni docente è stato invitato a redigere.
Il titolo generale “‘Il secolo breve (1908-2008). Rovine e ricostruzioni’, partendo dall’evento tragico che ha
comportato la ricostruzione e la trasformazione dell’area dello Stretto, diventa anche un pretesto per ragionare
attraverso angoli disciplinari diversi sul secolo passato, un secolo breve per le accelerazioni sempre più
esasperate degli eventi e delle trasformazioni nella vita degli uomini.”
Significativi erano inoltre gli indirizzi suggeriti dai vari Dipartimenti per la composizione delle relazioni.
Dall’AACM: Progettare urbs e civitas; dal DASTEC: Occasioni e movimenti di progetto; il DSAT: La
ricostruzione incompiuta, l’OASI: Il paesaggio dello stretto da catastrofe a catarsi, il PAU: La Ricostruzione: non
solo mattoni e cemento.
Il sottoscritto ha redatto una delle relazioni di base intitolata “Reggio Calabria 1908-2008: distruzione,
ricostruzione, decostruzione, catarsi”, puntando più ottimisticamente in prevalenza sul processo catartico tuttora
in atto.
Di Daniele Colistra, lui pure docente alla “Mediterranea”, osservatore acuto e piuttosto severo con la sua città,
ho fatto mia a suo tempo, usandola frequentemente, un’espressione colta nel suo Reggio Calabria. L’architettura
e la città del 1999, dove Reggio era definita, molto oggettivamente, come una “città sul mare” e non un’autentica
e attiva “città di mare”, attribuzione che viene genericamente assegnata ad una città costiera, ma che in effetti
andrebbe “meritata” sottintendendo la presenza di veri “uomini di mare” che lo percorrono quale via di
comunicazione, lo utilizzano come fonte di sostentamento e giungono fino ad esplorarlo addentrandovisi; e tali
qualità non possono assegnarsi a una popolazione che si è sempre limitata ad usare il mare per una modesta
attività peschereccia, prevalentemente stagionale, e nel tempo libero estivo.
Colistra ha partecipato alla manifestazione praticamente con la prima versione di quello che, nel luglio 2009, è
diventato il libro che si sta recensendo in questa sede, con lo stesso titolo “Spaesata città”. Il testo definitivo poi
pubblicato a stampa presenta qualche differenza ma di fatto le due versioni per certi versi si integrano l’una con
l’altra, ed in pratica le ho considerate pressoché equivalenti ad un’unica scrittura.
Il libro ha una sua struttura piuttosto particolare essendo composto, su un totale di 130, di 14 pagine scritte
comprendenti la bellissima presentazione del Rettore Massimo Giovannini e il testo di Colistra, mentre tutte le
altre pagine contengono per metà immagini e per metà degli scritti aforistici che vanno a comporre i nove capitoli
di seguito elencati che costituiscono il corpo vero e proprio del testo: Frammenti e macerie, Il cantiere di
Penelope, La città industriale, Terre sconsacrate, Città metropolitana, Solitudine urbana, Stratificazioni, Governo
e orpelli, The Italian Job.
Illustra in tal modo Daniele Colistra il contenuto e il senso dei capitoli: “Il primo capitolo è una ricerca della
forma e dell’equilibrio in ciò che è informe, frammentato. Il secondo confronta la dolcezza dell’amore coniugato
di Penelope con la brutalità di un cantiere che non ha mai fine. Il terzo è un viaggio fra le decine di impianti
produttivi inspiegabilmente dismessi. Il quarto descrive le ferite presenti nel punto in cui la terra e il mare
s’incontrano. Il quinto misura le ambizioni della città metropolitana con l’abbandono delle periferie. Il sesto
evidenzia alcuni non luoghi all’interno del centro storico. Il settimo riflette sulle stratificazioni urbane, immemori
del terremoto e indifferenti ai rischi sismici. L’ottavo si interroga sulle forze – istituzionali e occulte – che
governano la città. Il nono è una riflessione sull’unità perduta del paesaggio dello Stretto.”
Le foto, le principali componenti del testo che in queste si identifica, sono frutto di un procedimento laborioso
che è iniziato con un workshop di fotografia organizzato col fotografo Fulvio Orsenigo intitolato
“1909TERREMOTO2009”; delle 1200 foto prodotte sono state selezionale 70 che hanno partecipato alla mostra
del “Secolo breve”, e 58 sono state scelte infine per il libro.
E delle foto, dei loro significati, i loro ruoli fornisce delle definizioni molto colte ed espressive Massimo
Giovannini che, come accennavo, ha redatto una splendida presentazione del libro.
1
La Commissione Cultura è stata formata nel 2007 con la presidenza del Prof. Franco Zagari; io sono stato chiamato a farne
parte quale direttore della Biblioteca centrale.
Scrive Giovannini: “Terremoto raccontato attraverso capitoli di foto, testo che le immagini svelano. Foto che
cercano la forma, che la escludono, che fanno differenza tra forme. (...) Foto come iato che la mente collega.
Fotografie che raccontano il lato oscuro della città. Una foto è sempre bella. Evoca. Rimanda ad un altrove che
dimora nella mente di chi guarda. La foto è uno sguardo differito. Uno sguardo per interposta persona offerto alla
libertà e alla leggerezza delle connessioni speculative della mente. La foto racconta una storia ripetutamente
narrata dalle cento, mille persone che la vedono. (...) Annettendo ciò che vedono nell’integrale speculativo della
mente.”
Le pagine antistanti le foto contengono degli scritti molto brevi datati per la maggior parte nel 1909 i cui
autori si dividono tra i protagonisti sopravvissuti al sisma e osservatori esterni in qualche modo relazionati al
luogo del disastro; se ne riportano esemplificativamente alcuni:
“Sembrava che una forza sovrannaturale si fosse impossessata de le fondamenta de le case e de l’intero
sottosuolo e scuotesse ogni cosa, ora dal basso in alto, ora d’avanti in dietro, rabbiosamente, freneticamente, fino
a stancare sé stessa ed aver bisogno di rallentare la sua furia per rinvigorirsi, e quindi scuotere, scuotere ancora
affinché tutto si rompesse, tutto crollasse, perché la distruzione fosse completa, e intanto muri e camini
divergevano e convergevano con moti brevi, bruschi, furibondi, disordinati.” (Venturino Sabatini 1912).
“Non ho che una preoccupazione, quella di andare laggiù al più presto possibile, di accorrere in quei luoghi
dove ero stato poco tempo prima, in quei lidi ridenti, soleggiati, fioriti, che si erano impressi nella mia memoria
come nessun atro paesaggio.” (Mario Morasso 1909)
“Siamo di ritorno dalle rovine di Reggio, dopo d’aver constatato l’indescrivibile disastro e l’abbandono
crudele in cui si trova tutta la plaga estrema della nostra penisola. (Alfonso Frangipane, 1909)
Ma di questi scritti quelli antistanti ciascun capitolo sono dovuti invece all’autore che in poche righe esplicita
il contenuto, il senso e il ruolo di quanto esposto; questi enunciati identificano e focalizzano le categorie critiche
individuate nella città che costituiscono il target di questo studio e ne illustrano lo spirito, il senso, gli obiettivi. Si
riportano quelli corrispondenti ai capitoli terzo, sesto e nono:
“Le fabbriche dismesse sono i luoghi più dolorosi della città. Reggio è stata una città industriale. Chi la
conosce a fondo annovera decine di impianti produttivi, ormai quasi tutti abbandonati all’incuria e al saccheggio.
Luoghi magici e dolorosi. Animati da un silenzio profondo, che scuote. Ma ciò che addolora non sono i ricordi
della vitalità, della ricchezza e del lavoro perduti, delle occasioni perse. Questi ricordi suscitano solo rabbia. Ciò
che addolora è vedere il territorio cosparso di una tortuosa scia di ferite, incapaci di rimarginarsi.”
“Il terremoto lungo cento anni ha generato, in periferia, decine di ‘non luoghi’. Spazi privi di carattere, di
riconoscibilità, di progetto, di forma. Il centro, intanto, si è lacerato; nuclei densi e pulsanti si alternano a zone
baricentriche eppure di margine, in cui è possibile solo intravedere le tracce di un’identità smarrita da tempo.
Spazi di mancata socializzazione, che non riescono a mascherare la loro intensa solitudine.”
“L’unità originaria del paesaggio dello Stretto è ormai scomparsa. Al suo posto, le visioni molecolari di una
società fondata su regole individuali. Visioni che generano un’immagine comunque unitaria: l’abuso e il non
finito diventano elementi di riconoscibilità, dialogano con gli elementi naturali, indirizzano lo sguardo, misurano
lo spazio, alimentano l’immaginario collettivo.”
Con questo particolare “libro parlante” attraverso un caleidoscopio di immagini Daniele ha configurato il
terremoto come permanenza plurisecolare irredimibile, logo concettuale incancellabile e componente insita nel
territorio, tra i cui effetti sono da comprendere l’abusivismo (di natura privata) e il non finito (di natura pubblica)
mentre l’abbandono si pone quale conclusione del consumo (consumo del territorio, di risorse, di fondi pubblici,
di edifici, di oggetti, di esistenze).
Il quadro così delineato appare come la decostruzione (in senso strettamente derridiano) dell’opposizione
dialettica distruzione/ricostruzione giacché la distruzione permane anche se in altre forme e pertanto vengono ad
annullarsi le qualità oppositive 2 dei due termini.
Ma il ruolo dell’immagine, in questo caso nettamente più incisiva e più autentica rispetto alla scrittura, è di
evidenziare, di denunciare quegli aspetti rovinosi della città che costituiscono il target di Colistra che, in base a
questi esempi del comportamento urbano, civile e politico denuncia tale status di terremoto permanente.
E’ per l’appunto un libro-denuncia che certamente doveva essere scritto con le immagini che, per quanto
possano essere in qualche modo interpretabili, sono sempre più obiettive di qualunque scrittura. Vi è nel testo una
spinta fortemente critica che lo pervade e che è sostenuta fondamentalmente dalle immagini attraverso le quali
Colistra ha provato “a raccontare il terremoto da una prospettiva diversa” comparandolo ad uno status pressoché
2
Il tema dell’annullamento delle opposizioni dialettiche è un target fondamentale nella decostruzione della metafisica
occidentale elaborata da Jacques Derrida. Cfr. a tal proposito di C. Roseti La decostruzione e il decostruttivismo. Pensiero e
forma dell’architettura, Roma, Gangemi. 1998, cap. 1, parag, 3, p. 20.
permanente ovvero una “scossa sismica ininterrotta che per cento anni ha devastato il nostro territorio,
lacerandolo in modo forse indelebile”.
E con analoga severità Colistra evidenzia come la ricostruzione abbia ignorato l’architettura moderna
scegliendo l’eclettismo e il neoclassicismo, guardando indietro anziché in avanti, anche se poi Colistra stesso
riconosce in tale operazione una coerenza, qualità che, bisogna sottolinearlo, in campo urbano è difficilissima da
ottenere (e mantenere) e che ha fatto consolidare per Reggio Calabria un’identità ben riconoscibile.
La scelta dell’eclettismo è indubbiamente legata al sentimento di conservazione di chi non ha desiderio di
cambiare, tipico degli adulti, degli anziani ma nel caso di Reggio Calabria, a mio personale giudizio, penso che vi
sia stata anche la spinta di una nostalgia caparbia di recuperare, anche artificialmente, almeno la visione della
città che possedevano e che non vi era più. La scelta conservatrice assumeva maggiore evidenza nei primi
decenni del secolo in quanto era il periodo in cui stava nascendo il Movimento Moderno che esitava consensi ma
anche rifiuti rileggibili nelle varie compresenze di classicismo e modernismo.
E basta pensare al greve eclettismo della stazione di Milano (definita di stile “assiro-milanese”) realizzata nel
1931 su di un progetto del 1912 e confrontarla con la coeva ma, al contrario, modernissima stazione di Firenze
tuttora un magnifico esempio di architettura moderna progettata dal “Gruppo Toscano” guidato da Giovanni
Michelucci che vinse il relativo concorso bandito nel 1932 cui poi seguì la realizzazione che tutti ammiriamo
ancora; e bisogna ammettere per onestà, in conclusione, che i palazzi di Reggio Calabria sono certamente molto
meno grevi della stazione lombarda.
Le critiche sono necessarie perché stimolanti il miglioramento e questo scritto di Daniele Colistra per la
sincerità, l’acutezza e il coraggio di dire la verità, una verità dura e non priva di rischi, è pertanto maggiormente
apprezzabile.
Resta sempre e comunque, a mio avviso, la prospettiva di un futuro positivo e costruttivo lungo il percorso
tracciato dall’Università, che ha segnato, in questo stesso secolo, un momento di capitale importanza dal quale è
iniziata una nuova epoca culturale per Reggio Calabria nella quale l’Ateneo, superando i limiti regionali e oltre,
sta acquisendo una collocazione polare nel Mediterraneo meridionale.
*Articolo in forma di recensione del libro Spaesata città di Daniele Colistra. Fotografie di E. Albanese, M. Benincasa, G. Cannizzaro, F.
Labate & G. Romeo, E. Morano, E. Nicolò, F. Orsenigo, F. Palmisano & T. Vazzana, V. Pannia, A. Panzera, D. Sidari, D. Spataro.
(Reggio Calabria, Città del Sole, luglio 2009)
BIOEDILIZIA E SVILUPPO SOSTENIBILE
Antonio Castiello
Negli ultimi anni, sembra che sia nell’abitare, così come in tanti altri settori, quale quello alimentare o
quello farmaceutico, sia in forte crescita la sensibilità per l’impiego di materiali non nocivi ed ecologici, capaci di
convergere nella tutela della salute e dell’ambiente, unitamente alle necessità di sempre maggiore risparmio
energetico che scaturisce dalla indiscutibile efficienza energetica.
La BioEdilizia rappresenta, perciò, l’ovvia soluzione costruttiva basata su apporti tecnologici realmente
innovativi, per tutti quei contesti culturali che considerano valori irrinunciabili la sostenibilità ambientale e la
tutela della salute. Per questo, nel campo della tecnica edificatoria, in continua evoluzione, molti produttori di
materiali da costruzione già cercano di ovviare ad una produzione industriale che fa largo uso di prodotti chimici
e di materie prime preziose o che necessitano di grandi quantità di energia per la loro lavorazione, con soluzioni
che tendono a limitare in qualche modo gli effetti negativi dei prodotti “chimici” sull’ambiente e sulla salute, in
modo da riuscire a commercializzare materiali ecologicamente migliorativi.
Altri produttori hanno invece operato una scelta radicalmente diversa, ricorrendo alle modalità costruttive
della tradizione e/o cercando di applicare tecniche moderne che utilizzino materie prime di facile reperibilità e
che necessitino di poca energia per la lavorazione tali, in ogni caso, da non creare rischi per la salute. Si è così
creato un nuovo settore nell’industria dei prodotti per l’edilizia: quello dei materiali da costruzione ecologici,
chiamati anche materiali per la BioEdilizia o materiali naturali da costruzione.
Tale settore appare essere in rapida e continua espansione, così come del resto lo sono anche gli altri campi
del Biologico, sebbene i materiali per costruire nel rispetto dell’ambiente a volte altro non sono che la
riproposizione di materiali tradizionali scomparsi dal mercato in seguito all’avvento della produzione industriale,
spesso ripresentati con migliorati standard di qualità. In altri casi, invece, tali materiali sono altamente innovativi,
caratterizzati da standard qualitativi talmente elevati da mettere in crisi i concorrenti “chimici” o ad alto impatto,
per cui si può affermare con certezza che l’odierno elenco dei materiali rispettosi dell’ambiente presenti sul
mercato è lunghissimo e destinato ad ampliarsi nei prossimi anni.
Lo sviluppo sostenibile rappresenta una visione generale dello stesso concetto: una strategia articolata a più
livelli e definibile non solo economicamente ma soprattutto socialmente, in quanto tutti gli abitanti della terra, al
di là della loro classe di appartenenza sociale, politica ed economica, hanno bisogno di materiali naturali biologici
per soddisfare i loro bisogni inerenti l’alimentazione o l’abitare, il tutto possibilmente con il minor spreco
possibile di energia ed un ottimale livello della qualità della vita.
Poiché lo sviluppo economico dipende in larga parte dalla disponibilità e dal relativo sfruttamento delle
risorse naturali della terra, mantenerne la riproducibilità rappresenta la chiave per la sostenibilità.
Il problema della tutela dell'ambiente e la considerazione dei suoi aspetti economici furono affrontati in
maniera ufficiale negli Stati Uniti in uno studio effettuato da un gruppo di ricercatori collegati al governo
americano (sotto la presidenza di Jimmy Carter) pubblicato nel 1980: The Global 2000 Report to the President,
nel quale venivano analizzati i problemi della popolazione e le sue attività in rapporto con le risorse naturali: “se
continueranno le tendenze attuali il mondo del 2000 sarà più popolato, più inquinato, meno stabile
ecologicamente e più vulnerabile alla distruzione rispetto al mondo in cui ora viviamo. Le gravi difficoltà che
riguardano popolazione, risorse ed ambiente progrediscono visibilmente. Nonostante la maggiore produzione
mondiale, sotto molti aspetti la popolazione mondiale sarà più povera in futuro di adesso. Per centinaia di
migliaia di persone disperatamente povere, le prospettive di disponibilità di cibo e di altre necessità vitali non
miglioreranno, per molti aspetti peggioreranno....a meno che le nazioni del mondo agiscano in maniera decisiva
per modificare l'andamento attuale”.
Questo declino d’altronde non è inevitabile anche se per quanto attiene il settore delle costruzioni, la vita di un
progettista ecologicamente orientato non è affatto semplice, e se in tempi non molto lontani la compatibilità con
l’ambiente era elemento comune nell’iter progettuale e nella realizzazione di un edificio, oggi essa si affida a
conoscenze specialistiche che purtroppo sono al margine dei percorsi formativi. E tuttavia questa è la sfida per il
futuro, dal momento che la realizzazione “sostenibile” di impianti per la produzione di energia rinnovabile
integrati a scala territoriale ed urbana, induce a considerare l’architettura, non solo come disciplina caratterizzata
dall’integrazione fra diversi saperi, ma come occasione per produrre energia annullando anche i costi di
installazione, acquisizione e gestione.
Evidentemente sarà il superamento della radicata tradizione costruttiva, ed il porre al centro delle metodologie
operative basate su orientamento, irraggiamento, ventilazione, ombreggiamento, biomasse, sistemi domotici di
gestione, sistemi di sfruttamento e gestione dell’energia geotermica profonda, a realizzare la giusta integrazione
con l’ambiente e con le sue caratteristiche peculiari. Per questo può dirsi che l’architettura sostenibile, pur
essendo unita allo sviluppo della tecnologia, guarda altresì alla tradizione, essendo solo nella riscoperta della
tradizione la possibilità anche dell’innovazione.
LIGHT AND ARCHITECTURE
Massimo Squillaro
Ripercorrendo la storia dell’habitat umano si evince chiaramente che le prime aperture presenti nelle antiche
abitazioni erano pensate più per l’aerazione degli ambienti che per la penetrazione della luce naturale. La casa
come tale doveva offrire sicurezza e riparo dalle intemperie.
Nel corso della storia, nella progettazione degli edifici, si è adottato necessariamente un approccio olistico: si
aveva consapevolezza delle caratteristiche e degli effetti della luce naturale perché non esisteva altro mezzo per
assicurare un’illuminazione sufficiente.
Solo all’inizio del secolo scorso con la scoperta e la diffusione della luce elettrica, gli architetti e i progettisti,
si direbbe, hanno perso la memoria delle loro conoscenze sulla luce naturale. Per questo motivo, e per la
divisione dei compiti progettuali, si è persa di vista la trattazione olistica, dello spazio e della luce e si è avuto il
sopravvento della tangibile visibilità delle soluzioni tecnologiche.
La luce artificiale, che ha permesso la costruzione di ambienti senza finestre e molto profondi, si è rivelato un
progresso significativo. D’altro canto la rivoluzione industriale, col ferro e col vetro, aveva già aperto la strada
verso la realizzazione, nell’involucro esterno dell’edificio, di aperture di maggiori dimensioni. Scomparvero i
muri portanti con poche aperture e si realizzarono persino intere coperture in vetro. Lo sviluppo del curtain wall
rese possibile creare facciate in vetro e acciaio indipendenti dalla struttura portante e l’invenzione dei
condizionatori permise la compensazione del surriscaldamento derivante dalle grandi superfici vetrate. Il
condizionamento e l’illuminazione degli interni acquisirono in questo modo una completa autonomia dalle
condizioni climatiche e stagionali esterne. Nonostante ciò, l’interesse per la luce naturale ha acquistato sempre
più spazio sia per ridurre i costi dell’illuminazione e del condizionamento, sia per migliorare il comfort degli
utenti. I grandi architetti moderni infatti, nelle loro opere, si sono sempre confrontati con la luce e con gli effetti
che produce sugli spazi interni. “L'architettura è il gioco sapiente, corretto e magnifico dei volumi accostati sotto
la luce”. Le Corbusier ha spesso espresso la propria necessità di utilizzare la luce sia come elemento costruttivo –
“le facciate sono portatrici di luce” – sia sia come strumento di emozione poetica. Egli sfruttò nella cappella di
Ronchamp la parete sud, esposta alla maggiore insolazione, per praticare aperture profonde, tronco-piramidali,
con vetri da lui disegnati che, oltre a concorrere alla composizione generale dell’edificio, alternassero all’interno
della chiesa, con il variare della luce, i giochi cromatici.
A sua volta Louis Kahn sfrutta il light well (pozzo di luce) nell’Indian Institute of Management ad
Ahmedabad, ultimato dai suoi collaboratori indiani, per far penetrare con forza all’interno la luce esterna. Per
Kahn la luce è sempre stata un elemento fondamentale della composizione («la struttura è datrice di luce», «tutta
la materia è luce... è la luce che, quando termina di essere luce, diventa materia», in quanto è «la donatrice di ogni
presenza»).
La luce è la premessa dell’architettura: senza luce l’architettura non viene percepita; la luce è viva, variegata e
cambia aspetto ogni istante. Perché è la luce che agita le poderose ali di volte, torrioni, archi e rosoni dirompendo
sul buio delle costruzioni, firmando la perfetta adesione tra significato e significante, tra potere della materia e
sapienza della spirito. Tra la forza umana incarnata nella pietra e la vertigine mistica che l’esprit avvolge intorno
e dentro gli edifici di maggior senso mistico. Siegfried Giedion ha scritto: «È la luce che dà la sensazione di
spazio. Lo spazio è annullato dall’oscurità. Luce e spazio sono inscindibili. Se si elimina la luce il contenuto
emotivo dello spazio scompare e diventa impossibile coglierlo. Nell’oscurità non esiste alcuna differenza fra la
valutazione emozionale del vuoto e quello di un interno ben articolato».
L’architettura esiste perché c’è la luce. Per vederla, viverla, goderne. Il rapporto tra luce e architettura non è
quindi riconducibile soltanto a un buon orientamento del fabbricato o ad un adeguato dimensionamento e
disposizione delle finestre, ma è un problema molto complesso, di cui si è tentata persino una schematizzazione
in cinque punti: l’illuminazione naturale, la luce trasformata e condotta agli spazi interni, l’illuminazione
artificiale con l’arte delle luci, lo splendore, la lucentezza, il riverbero e, infine, il colore. Tuttavia, come
mostrano proprio le opere di Le Corbusier, Kahn, Mies, l‘interazione tra luce e architettura si può leggere anche
in un altro modo, più emozionale, forse, ma altrettanto significativo: appropriazione della natura, raggiungimento
del cielo, cattura di significati trascendentali e così via. Si può dire che, avendo la luce sollecitato considerazioni
metafisiche, filosofiche e scientifiche il modo in cui essa è stata accolta nell’architettura è espressione della
diversità tra culture e periodi storici. Non è un caso, infatti, che la luce, poiché si contrappone alle tenebre, sia
uno dei motivi della cosmologia, della cosmogonia e del simbolismo che più hanno influenzato l’architettura, non
solo quella religiosa. Di conseguenza, la comunicazione con il cielo (esemplificata dall’occhio del Pantheon) o la
sua stessa rappresentazione (volte e cupole) appare essere un elemento importante, che attraversa in verticale tutta
la storia dell’architettura.
Nei templi dell’antico Egitto, ad esempio, si realizzavano i pozzi di luce per incanalare i raggi solari verso
punti precisi, rafforzando il significato simbolico dell’edificio religioso; così in quello Abu Simbel, dove, a metà
ottobre e a metà febbraio, grazie all’allineamento delle porte, che tiene conto dell’inclinazione dei raggi solari in
rapporto all’asse terrestre, il sole illumina le statue di Ramesses II e di due divinità.
Nelle cattedrali gotiche le vetrate lasciano filtrare la luce ma, non essendo trasparenti, separano
concettualmente e fisicamente lo spazio interno da quello esterno. Nella Divina Commedia di Dante si riflette
quella concezione dell’universo che gli architetti gotici tentano di materializzare nelle cattedrali e si descrive
l’ambiente pervaso da una luce che arriva ovunque, ma con diversa intensità.
Di recente, nell’istituto del mondo arabo, Jean Nouvel utilizza un dispositivo dichiaratamente “high tech” nel
disegnare il fronte verso la piazza dove le finestre sono pensate come diaframmi mobili di una macchina
fotografica. La luce filtra nell’edificio in quantità inversamente proporzionale alla sua intensità, grazie a speciali
dispositivi che reagiscono al calore ed ai raggi luminosi, modificando di fatto l’immagine del prospetto esterno
durante tutto l’arco della giornata. Questo gli permette di rendere omaggio alla cultura araba realizzando una
facciata che nella trama astratta e geometrica richiama in qualche modo gli “arabeschi” sì da un suggestivo spazio
interno in cui la luce non è diffusa né concentrata in poche aperture ma entra negli ambienti attraverso piccoli e
numerosi fasci luminosi che conferiscono un carattere quasi sacrale agli ambienti.
L’uso appropriato della luce del giorno può creare effetti spaziali di straordinaria intensità e può suscitare
emozioni nell’osservatore. L’architetto è in grado di manipolarne il colore e l’intensità, di utilizzarla in modo
diretto o indiretto o anche lasciarla al naturale ed essa con le sue ombre, le variazioni di intensità e dei colori,
influisce sugli aspetti psicofisici della persona. E’ indicativo di tale funzione il fatto che nel progetto per l’Evelina
Hospital, il progettista, Michael Hopkins, abbia utilizzato la luce naturale non solo per offrire, attraverso la
grande serra sulla facciata principale che la raccoglie, un microclima confortevole, quanto per vivacizzare gli
spazi colorati che vi si affacciano, per rallegrare la degenza dei bambini.
In definitiva la luce può e deve essere considerata un materiale da costruzione, con una insostituibile funzione
compositiva, dal momento che a caratterizzare gli spazi non sono solo e soprattutto forma e colore dei volumi che
li racchiudono, quanto la luce che vi penetra, il modo in cui essa vi si diffonde, il rapporto che in essi crea con
l’esterno.
TRASFORMAZIONE URBANA E ADEGUAMENTO ENERGETIVO
Nello Luca Magliulo
I recenti cambiamenti dei modelli di vita, la prospettiva di un esaurimento delle fonti energetiche fossili e
l’imminente problema dell’inquinamento richiedono oggi una sempre maggiore attenzione verso una
progettazione sostenibile e a basso impatto ambientale. Ma cosa significa realmente sostenibilità? Qual è il
significato intrinseco del concetto di “impatto ambientale”? Il concetto di sostenibilità può essere
contemporaneamente un modo di pensare, un modo di vivere, un modo di produrre. Per alcune persone è poco
più che un termine cha va di moda. La Commissione Brundtland del 1987 asseriva che « lo Sviluppo sostenibile è
uno sviluppo che soddisfa i bisogni del presente senza compromettere la possibilità delle generazioni future di
soddisfare i propri bisogni »¹. Dal momento che questa definizione non trova larghi consensi tra le correnti di
pensiero, è spesso interpretata con diverse sfumature. È difficile dare la definizione di sistema sostenibile poiché
contiene al suo interno l’insieme di tutte le attività svolte dall’uomo. Alla pari di concetti astratti come
"Giustizia" o "Libertà", è un’idea sfaccettata che può essere quindi definita solo nell'ottica di una interazione di
valori e che resiste ad una definizione consensuale duratura nel tempo. La stessa definizione di impatto
ambientale porta in sé l’idea degli effetti che ciò che sarà costruito avrà sull’ambiente. Sulla scorta di queste
riflessioni negli anni si è sempre maggiormente preso in considerazione il fattore ambiente nell’iter progettuale
considerando le nuove costruzioni come un tutt’uno con ciò che le circondano cercando una sorta di equilibrio fra
la mano dell’uomo e quella della natura. In questo ambito sono sorti i cosiddetti edifici che respirano e
interagiscono con l’ambiente sfruttando le risorse naturali per dare vita alle attività dell’uomo. Nascono così le
architetture “intelligenti” e i quartieri a “impatto zero” con lo scopo di raggiungere l’obiettivo di realizzare
manufatti architettonici che riescano a essere autosufficienti dal punto di vista energetico senza rinunciare a tutti i
comfort dell’abitabilità secondo le esigenze moderne. L’esempio più rappresentativo e che meglio racchiude tutti
questi elementi è sicuramente il quartiere BedZed realizzato nei sobborghi meridionali di Londra
seguendo esclusivamente politiche sostenibili e utilizzando tecnologie basate sulle fonti di energia rinnovabili.
“BedZed” è l'acronimo di Beddington Zero Energy Development. E’ un esperimento nato nel 2002 per creare una
comunità di persone che dovevano vivere attraverso un consumo energetico zero allo scopo di fornire un modello
realizzabile di nuova edilizia. Nel quartiere BedZed l'ecologia va di paro passo con la tecnologia più avanzata in
materia di risparmio energetico e di riduzione di emissioni inquinanti. Il progetto, definito delle "case con
coscienza verde", ha preso forma da un’idea dall'architetto Bill Dunster e finanziato dalla Peabody Trust,
fondazione inglese per l'energia autonoma, con la collaborazione dall'amministrazione locale di Sutton. L’aspetto
più importante di tale intervento è la capacità di fondere le più semplici tecniche di progettazione (come
l’esposizione di serre a sud, l’uso di materiali tradizionali e il tetto giardino) con tecnologie avanzate per l’uso di
energia pulita (fotovoltaico, solare termico, eolico), il tutto monitorato attraverso un sistema che di volta in volta
raccoglie i dati relativi al risparmio energetico e ll’abitabilità immettendoli in rete. Il BedZed è stato solo il
principio di una ricerca e di una sperimentazione costante che ha trovato terreno fertile in tutto il mondo: basti
pensare alla città di Dongtan in Cina nell’isola di Chongming. Il progetto è stato commissionato dal SIIC
(Shangai Industrial Investment Company) ad ARUP, società di engineering ubicata nel Regno Unito che vanta al
giorno d’oggi 82 sedi sparse in tutto il mondo. Dongtan, collocata sulla punta meridionale dell’isola, dovrà
diventare una città residenziale e turistica. L’obiettivo postosi dai progettisti è che alla fine della prima fase di
realizzazione Dongtan sia completa in tempo per l’Esposizione Mondiale del 2010 di Shanghai allo scopo di
ospitare 50.000 abitanti che diventeranno 500.000 entro il 2040 quando sarà completata la costruzione dell’intera
città. Dongtan (che ricopre un suolo pari a tre quarti di Manhattan) sarà costituita da edifici tutti autosufficienti da
un punto di vista energetico, dotati di tetti fotovoltaici e turbine eoliche. Le turbine, che avranno lo scopo
ricoprire almeno il 20% del fabbisogno di energia elettrica, faranno da confine visivo sul lato occidentale della
città, con una perfetta integrazione con l’habitat naturale. Anche i sistemi di trasporto all’interno della città
saranno ad impatto zero: Dongtan non avrà mezzi di trasporto a petrolio in quanto macchine, tram e barche
utilizzaranno solo ed esclusivamente energia elettrica o celle a idrogeno, riducendo tra l’altro anche
l’inquinamento sonoro. L’economia dell’intera isola sarà caratterizzata da una forte attività agroindustriale con
estensione delle acquacolture (già esistenti) e di fattorie organiche per realizzare una sostenibilità ed
un’autosufficienza anche dal punto di vista della produzione e dell’alimentazione.
1 Rapporto
della Commissione Brundtland su ambiente e sviluppo, 1987
“Questo progetto, a mio parere, inaugura un nuovo approccio alla pianificazione urbana" - sostiene Alejandro
Gutierrez dello studio ARUP - "La sostenibilità non è un valore aggiunto, ma diventa il fondamento di tutto il
progetto. Dalla grande scala (i fondamenti economici, sociali, ambientali) fino al disegno degli edifici, tutti gli
ambiti sono stati progettati secondo una logica coerente con le necessità di un mondo sempre più povero di
risorse, dove il risparmio energetico, l’attenzione all’ambiente e un uso efficiente delle risorse sono temi che da
molto tempo si ritengono importanti, ma che sono stati messi in pratica con molta lentezza nel passato.”. 2 Nello
scenario internazionale il tema dei quartieri e città a “impatto zero” sembra essere l’obiettivo di molti paesi nel
tentativo di creare isole felici all’interno di metropoli con livelli di inquinamento oltre ogni immaginazione.
Molto più avvincente, rispetto alla progettazione di quartieri ex-novo, è quella del recupero urbano ed energetico
dei quartieri preesistenti. Recupero significa trasformazione e nel caso dei quartieri soprattutto trasformazione
urbana e quindi non solo dell’architettura. Bernardo Secchi in “Prima lezione di urbanistica” scrive:
“L’urbanistica si occupa di tutto ciò: del territorio, dei modi nei quali avvengono e sono avvenute, dei soggetti
che le promuovono, delle tecniche che utilizzano, dei risultati che si attendono, degli esiti che ne conseguono, dei
problemi che di volta in volta sollevano inducendo nuove trasformazioni” 3. Rielaborando tale dicitura per il
nostro tema si può affermare che il recupero di un quartiere da un punto di vista energetico non si basa solo
sull’inserimento di tecnologie che possano produrre energia pulita ma anche sulla loro integrazione con il
preesistente, sulla preoccupazione dell’educazione degli utenti all’uso di queste ultime, sulle scelte di tecniche e
materiali che possano migliorare le prestazioni dell’involucro e sulla ridistribuzione degli alloggi al fine di
migliorarne l’esposizione. Trasformazione urbana di un quartiere vuol dire anche porsi il quesito di cosa sia
diventato quel determinato quartiere per la città, del rapporto che ha con essa, di come è vissuto dai suoi utenti.
Quindi il tema della trasformazione urbana diventa un problema sociale, economico, urbano, architettonico e non
solo. Molte città italiane europee si presentano oggi con situazioni estremamente congestionate, spesso con poco
spazio disponibile per nuova edificazione e con quartieri della prima metà e della seconda metà del novecento per
i quali il recupero sembra essere una scelta forzata per poterne migliorare il dispendio energetico e i livelli di
inquinamento nell’atmosfera, ma anche per creare alloggi che rispondano a criteri di abitabilità attuali. E sembra
che la nostra nazione si stia muovendo proprio in questa direzione sia per mancanza di spazio edificabile sia per
necessità di recupero di zone estremamente degradate e in stato di abbandono. I due esempi di maggior rilievo
sono il quartiere di Pietra Alta a Torino il cui recupero è stato progettato dallo Studio Costa & Partners, con
lo Studio Mellano Associati con un intervento soprannominato “social housing” e il quartiere cosiddetto “le
Navi” in via Liguria alle Piagge a Firenze il cui recupero è stato realizzato da Ipostudio. Il primo si tratta di un
intervento relativo a un edificio degli anni settanta in via di ultimazione per offrire residenze temporanee a basso
costo, mentre il secondo di un recupero di un edificio degli anni 80. Il complesso di Pietra Alta a Torino,
composto da due corpi di fabbrica collegati di nove piani ciascuno che occupano circa 10.000 mq di superficie,
contiene oggi 183 unità residenziali per un totale di 470 posti letto. Tra gli impianti previsti troviamo un impianto
di micro - trigenerazione ad alta efficienza, mentre, la produzione di acqua calda sanitaria sarà realizzata
attraverso un sistema centralizzato affiancato da una centrale termica con caldaia a condensazione. Il tetto
ospiterà un impianto solare termico e fotovoltaico: il complesso sarà composto di sistemi integrati che riusciranno
a coprire oltre il 50% del fabbisogno di energia elettrica e acqua calda per ogni alloggio. Per il risparmio idrico
sarà inserito un sistema di recupero dell'acqua piovana per l'irrigazione, per l'acqua degli spazi esterni e per la
riserva idrica antincendio. Saranno inoltre previsti sistemi solari passivi come serre solari, giardini d'inverno e
sistemi di schermatura brise-soleil scorrevoli con lo scopo di captare la luce diretta e per recuperare l'energia per
l’irraggiamento solare. Tutti gli alloggi saranno dotati di elettrodomestici e corpi illuminanti di classe A. Per
quanto concerne il progetto di riqualificazione architettonica dello Studio Costa & Partners, capogruppo dell’ATP
con lo Studio Mellano Associati, va menzionato il ripensamento del vecchio edificio attraverso l’impiego del
colore allo scopo di dare vita ad un nuovo ritmo alle facciate che saranno trattate con materiali disinquinanti foto
catalitici, al fine di ottenere una superficie in grado di auto-pulirsi e di rimuovere le particelle inquinanti dall’aria
e i contaminanti batterici contenuti in essa. Il complesso residenziale delle “navi” fu realizzato negli anni
compresi tra il 1982 e il 1986 con sistemi prefabbricati che in breve tempo hanno evidenziato i segni del degrado
dovuti all’uso di tecnologie scadenti. Nello specifico si sono manifestate lesioni strutturali, obsolescenza degli
impianti tecnologici, infiltrazioni di acqua, fenomeni di condensa, oltre a mutate esigenze abitative che come
conseguenza hanno portato alla necessità di un intervento di recupero globale per una riconversione tipologica e
un rifacimento degli impianti. Di conseguenza, è stato necessario intervenire sugli edifici non solo con
programmi di ristrutturazione edilizia e di recupero ma anche con interventi mirati di riqualificazione urbana
delle aree di circostanti, che hanno richiesto l’uso di soluzioni sperimentali innovative.
2
Intervista ad Alejandro Gutierrez dello studio Arup a Casaclima.
Secchi, Prima lezione di urbanistica (2004), Laterza editore, cit. pag. 6
3 B.
Di particolare interesse è lo studio effettuato e realizzato per incrementare la densità in altezza degli alloggi
edificando un terzo livello completamente autonomo da un punto di vista strutturale con travature di acciaio e con
fondazioni direttamente poggianti sul piano terra ottenendo nuovi settantotto alloggi. Il tutto per ottenere sia un
minore surriscaldamento dei lastrici solari preesistenti che sono così sottratti alla diretta esposizione alla
radiazione solare sia per avere una nuova copertura già predisposta a ospitare impianti fotovoltaici e termici che
risultano quindi perfettamente integrati da un punto di vista architettonico. Gli obiettivi principali dell’intervento
consistono nella modifica e nella nuova distribuzione delle tipologie residenziali (ottimizzando gli schemi
planimetrici degli alloggi al fine di renderli rispondenti alle esigenze espresse dagli utenti), nella manutenzione e
nel risanamento degli alloggi (sostituzione degli impianti) per eliminare gli effetti e le cause del degrado
attraverso l’adeguamento alle normative vigenti in materia energetica, nell’introduzione di soluzioni migliorative
delle condizioni abitative e in particolare negli interventi di ristrutturazione e riqualificazione delle facciate con
elementi in grado di rafforzare l’identità architettonica degli edifici e di creare un paesaggio urbano più familiare.
Tra i due esempi citati, quello di Firenze di Ipostudio è già realizzato e funzionante e da una prima analisi dei dati
si può già affermare che il recupero è stato un grosso successo su tutti i fronti e in particolar modo su quello
energetico in quanto l’introduzione di tecnologie per l’utilizzo di fonti rinnovabili riesce a coprire oltre il 50% del
fabbisogno dei singoli alloggi. Si tratta di due esempi che aprono nuovi scenari nella ricerca e nella
sperimentazione nel settore della progettazione ambientale e che dimostrano come sia possibile realizzare un
recupero e un’autosufficienza energetica attraverso l’apporto multidisciplinare nel settore della progettazione e
come il recupero possa essere nel nostro paese una valida alternativa alla progettazione ex-novo.
t
e
s
t
i
MANFREDI NICOLETTI: LA SERRA DELLE FARFALLE A CATANIA
Giovanni Bartolo
“La forma è tutto in architettura”, afferma Nicoletti e la sua certezza è che persino negli aspetti più
tecnici del costruire “il vero impegno degli architetti
è nella forma”. Nicoletti, la cui attività si sviluppa
per quattro decenni, sembra ossessionato dall’idea di
trovare la chiave per definire forme non arbitrarie,
espressive e contestualizzate insieme. Il suo lavoro è
guidato dall’interesse verso la forma rivolto a creare
edifici di forti qualità, dove l’uso originale di figure
geometriche ne determina il personale linguaggio
architettonico, deciso e riconoscibile. La sua opera,
con un senso coraggioso di proporzioni, equilibrio e
unità, e nella ricerca formale, potrebbe essere considerata profondamente italiana, e tuttavia è indubbio
che essa risente di un più vasto ceppo di fonti architettoniche estranee ai motivi locali del nostro, appartenendo distintamente ad una più larga cultura internazionale come è stato internazionalmente riconosciuto in articoli, libri, successi in concorsi nazionali
ed internazionali oltre che in numerose mostre.
Nicoletti deve il proprio apprendistato a Pier Luigi Nervi durante un importante, periodo formativo
della sua carriera, allorché l’uso espressivo del cemento armato emerge in Europa e negli Stati Uniti,
dove, al MIT, si reca affinando i germi della sua
personalità, quale allievo di grandi architetti, quali
Pietro Belluschi, John Johansen, R. Buckminster
Fuller, Paul Rudolph ed Eero Saarinen. Dopo il
“master” al MIT lavora quindi nello studio di Walter
Gropius e, successivamente, in quello di Minoru
Yamasaki, dove da inizio alla sua ricerca di un nuovo vocabolario di forme che lo conduce lontano sia
dall’Italia che dal soggiorno negli USA. Vale a dire
che, nel ricercare la “chiave” di nuove ed originali
forme di linguaggio, attraverso l’amicizia con lo storico Sigfried Giedion diviene consapevole di come
la valutazione critica delle opere del passato possa
schiudere nuove porte al presente. Inseguendo quindi più profonde radici, di là dello Stile Internazionale cui in USA era giunto il Movimento Moderno –
del tutto integrato allo sviluppo della tecnica proprio
al mondo occidentale – egli si rivolge al di là dei
confini dell’Occidente, alla Turchia, dove Raimondo
D’Aronco aveva operato come architetto. Stimolato
dall’indagine sull’opera di D’Aronco, Nicoletti pubblica un importante saggio storico sull’architetto,
pubblicato da “Il Balcone” nel 1958, in cui, affascinato dall’ originalità del linguaggio daronchiano,
analizza le sue morfologie, rivolte alla storia ma appropriate alla modernità e non ancorate agli stilemi
del passato. Attraverso questa pubblicazione Nicoletti apre, non solo in Italia, nuovi campi di studio,
collocando D’Aronco negli annali storici dell’ architettura, accanto ad Hoffmann, Olbrich e Mackintosh
mentre i suoi articoli sull’ Architectural Review fanno conoscere lo stesso autore alla scala mondiale dei
lettori di lingua inglese.
Dopo lo studio su D’Aronco, Nicoletti appare
ancor più interessato alla scoperta di forme estranee
all’arte occidentale, per cui si reca in Messico, dove
ha modo di ammirare le architetture Atzeche e Maya
costruite da popoli mai entrati in contatto con
l’architettura italiana o di altri paesi dell’occidente.
Un mondo grandioso, unitario, imponente e simbolico che Nicoletti documenta nei suoi straordinari
monumenti con numerose fotografie in bianco e nero, per condursi successivamente all’esplorazione
della Cappadocia, da cui ricava una lezione speciale.
Qui infatti, secondo l’architetto italiano, erano state
create forme mediante sottrazione piuttosto che per
addizione, come è per le caverne che mostravano
una grande ricchezza creativa, con forme rozzamente scolpite nella crosta della terra da genti umili, simili a quelle di Matera, in Italia, e degli interi villaggi scavati nelle montagne della Tunisia. Forme
prodotte quindi direttamente dalle necessità sociali
invece che da idee preconcette. Nel suo libro – internazionalmente premiato – “L’architettura delle
Caverne”, Nicoletti illustra quindi gli scavi abitati,
organici e anonimi, di alcune delle più povere comunità del mondo, in stridente contrasto con quelli
creati da popolazioni ricche e potenti (quali le caverne buddiste di Ellora e Ajanta in India e gli ipogei di Malta) in cui sono adottati linguaggi più sofisticati e meno espressivi, che pedantemente imitano,
nei rilievi interni ed esterni degli scavi rupestri, le
strutture e i dettagli in legno e pietra utilizzati per
configurare tombe, case e templi.
Intanto, dopo l’esperienza con Yamasaki e in
Messico, Nicoletti aveva iniziato la professione a
Roma, costruendo case popolari nel sud dell’Italia,
dove fonde idee internazionali e tradizioni locali.
Partecipa quindi, con successo, a vari concorsi per
importanti complessi edilizi a Roma, tra cui la Biblioteca Nazionale e i Nuovi Palazzi di Giustizia,
quest’ultimi progettati nel 1958, completati sette anni più tardi e recentemente, in parte, restaurati. Nello
stesso periodo inizia anche a progettare, nel Principato dì Monaco, una nuova Città Satellite per 20.000
abitanti su una penisola artificiale costruita sul mare
fiancheggiata da due porti e protetta da un diga
sommersa di 50 m. d’altezza. Irrequieto, ritorna al
MIT con un’altra borsa di studio al fine di approfondire i principi e i metodi dell’ urbanistica “aperta” e,
durante questo soggiorno, progetta il padiglione del
Massachusettes per la Fiera Mondiale di New York.
Nel 1962, mentre completa il progetto per la Città
Satellite basato su megastrutture definite “Colline
Artificiali”, collabora con Jean Jacques Cousteau per
il Marinarium del Principato, una struttura destinata
a spettacoli e allo studio comportamentale dei delfini.
Alla metà degli anni’70, il suo libro “L’ Ecosistema Urbano”, che apre alle tematiche ambientali
ed ai valori psico-culturali, rivelano in Nicoletti un
pioniere della progettazione bioclimatica e megastrutturale, urbana e architettonica, ed è riconosciuto
esperto in ecologia urbana dal Governo Italiano e
dalla Comunità Europea, membro dell’Istituto Italiano per l’ Archiettura bioclimatica (ENEA)
dell’Eurosolar, del PLEA (Passive and Low Energy
Association), vincitore del premio internazionale
Wren (Word Renewable Energy Network). Interessato ai temi dell’ecocompatibilità, fonda e dirige per
alcuni anni il corso “Architettura Ecosistemica”
presso l’Università di Roma, progettando strutture
innovative ispirate alle forme della natura, quali il
progetto, pubblicato internazionalmente, per un
Grattacielo Elicoidale di 650 m d’altezza, in cui integra tensostrutture, principi aerodinamici e comportamenti eco sistemici.
Il progetto per la Serra Scientifica delle Farfalle
Tropicali, realizzata presso il Museo di Zoologia
dell’Università di Catania, seppur apparentemente
meno importante di altri in ordine di grandezza, ben
può rappresentare l’essenza e il carattere della filosofia progettuale di questo architetto. Concepita come un ambiente ideale per la vita di organismi molto
delicati e ricettivi nei confronti dell’inquinamento e
dei cambiamenti climatici, la Serra offre ottimi
spunti e suggerimenti anche per applicazioni in ambito abitativo, grazie ai positivi riscontri in materia
di risparmio energetico e benessere ambientale. Infatti, dal momento che le farfalle tropicali non sopravvivono in ambienti con aria condizionata,
sebbene abbiano bisogno di temperature costanti,
simili a quelle del proprio habitat naturale, Nicoletti
utilizza per il raggiungimento delle loro condizioni
climatiche il solo guadagno termico derivante dalla
radiazione solare. Di qui la forma irregolarmente
sfaccettata dell’involucro in vetro e le sue diversità
di orientamento o d’inclinazione di ciascun elemento, in modo da mantenere, nelle diverse ore del giorno e nelle diverse stagioni, lo stesso livello il guadagno termico ottenuto nello spazio interno. Nella Serra cioè le pareti sono inclinate verso l’esterno affinché l’angolo d’incidenza dei raggi solari sia sempre
inferiore ai 75°, evitando così il surriscaldamento.
Tale angolo sarà pertanto più “acuto” in estate e meno acuto in inverno quando il guadagno termico deve essere aumentato. Per compensazione, il contrario avviene attraverso la copertura vetrata che è inclinata verso l’alto nella punta Nord, offrendo quindi
angoli d’incidenza più vicini ai 90°. La sezione trapezoidale, favorisce quindi l’immissione dal basso
dell’aria fresca e l’espulsione dell’aria calda dalla
parte alta, lasciando a una temperatura gradevole la
parte mediana dove si trovano le farfalle. Le compensazioni climatiche, di notte, sono invece effettuate con termoconvettori e umidificatori il cui effetto
si somma a quello di speciali piante nutritive.
E’ in questo esempio perciò che si riassume tutto
l’itinerario progettuale di Nicoletti, che sembra esaltare la forma quasi a che sia a funzione a voler essere il suo contenuto.
GLENN MURCUTT … “EROE SOLITARIO”
Francesca Buonincontri
Schivo e per scelta estraneo allo star system globalizzato, Glenn Murcutt è noto per le sue costruzioni ecologiche realizzate in materiali “semplici”
quali i laterizi, il metallo, il legno, e il vetro, utilizzati nel rispetto della natura e del paesaggio, testimonianze della scelta esistenziale di sostenibilità
fatta già all'inizio del suo lavoro: “l’architettura sostenibile è l’unica possibile, altrimenti non è architettura ma solo mercificazione di nuovi prodotti”.
Nel 2002 vince il Prizker Architecture Prize con la
motivazione che la sua architettura può considerarsi
“interpretazione del paesaggio in forma costruita”.
L’assegnazione ad un architetto solitario ed individualista come Glenn Murcutt, prescelto tra i nomi
prestigiosi di Santiago Calatrava, Peter Eisenman,
Toyo Ito, Jean Nouvel, Richard Roger, appare particolarmente significativa, anche se non è né sarà
l’unica volta che il premio sia consegnato ad un architetto poco noto al pubblico delle riviste patinate,
dal momento che, già nel 1980, fu insignito
l’architetto messicano Luis Barragan e più recentemente, nel 2009, Peter Zumthor.
Murcutt è considerato una specie di “eroe solitario”, un progettista il cui studio professionale si avvale di un solo collaboratore, la moglie architetto
Wendy Lewin, rivolto a costruire principalmente case private, un’architettura cioè per molti ritenuta minore. L’aver premiato un “tecnico architettonico innovativo, capace di indirizzare la sua sensibilità per
l’ambiente e la località verso le sue opere d’arte totalmente oneste e non appariscenti”, sembra voler
sottolineare la possibilità di poter ancora fare architettura di grande qualità, anche senza grosse strutture progettuali ed indipendentemente dai grandi interessi.
Nel 2009 Murcutt ha anche ottenuto la Medaglia
d'Oro dall'American Institute of Architects, una onorificenza che è data ogni anno ad un professionista il
quale abbia avuto un’influenza significativa e durevole sulla teoria e sulla pratica dell’architettura. La
commissione ufficiale del premio ha lodato il progettista “per la capacità di costruire abitazioni
all’insegna della sostenibilità ecologica e sociale” e,
malgrado la sua opera si svolga solo in Australia,
per la capacità di divulgare il suo pensiero con conferenze e lezioni, ritenendo particolarmente importanti il Masterclass internazionale che Murcutt organizza ogni anno con la scuola di architettura
dell’università di Newcastle che vede la partecipazione di allievi da tutto il mondo.
Londinese di origine, l’architetto dal 1969 vive in
Australia dove realizza un’architettura che egli stes-
so definisce “funzionalismo ecologico”, sensibile ai
ritmi naturali del clima e dell’ambiente e capace di
resistere alle forze naturali.
Le sue opere fanno parte dell’architettura del
nuovo continente che, pur essendo molto segnata dal
forte paesaggio e influenzata dalla cultura popolare
locale e dall’architettura indigena australiana, resta
estranea allo sciovinismo o al folklore perché ispirata ed interessata allo studio dell’architettura moderna dei maestri occidentali, da Alvar Aalto e Mies
van de Rohe, ovvero dagli svedesi Gunnar Asplund
e Sigurd Lewerentz.
La metodologia progettuale di Murcutt si basa su
una dettagliata analisi del contesto in cui interviene.
Partendo dallo studio non solo delle caratteristiche
fisiche ma anche dei prodotti, degli animali e infine
degli stessi abitanti, egli arriva a coglierne
l’essenzialità e la specificità fino a progettare architetture che “sono la mia interpretazione in forma di
costruzione del paesaggio australiano”.
Le sue case appaiono rifugi sicuri in cui gli abitanti si sentono parte dell’ambiente dal momento che
sono gli elementi stessi della natura come il sole,
l’aria, l’acqua e il vento a suggerire e modellare le
forme architettoniche poco appariscenti. Nella materia stessa della costruzione cioè sono resi visibili gli
elementi prioritari della vita organica e vengono rigorosamente osservati vincoli di rispetto del paesaggio e di gestione ecologica del costruito.
Murcutt ha studiato con grande interesse
l’architettura contadina australiana, a partire dal woolshed, il luogo in cui vengono tosate le pecore e lavorati i velli, che ha suggerito nella progettazione
delle sue case l’utilizzo di pareti che esternamente
sembrano compatte ma che in realtà presentano dei
piccoli spazi per consentire all’aria e alla luce di entrare tenendo fuori il calore. Dalle tradizioni degli
aborigeni dell’Australia egli ha tratto un’etica della
natura basata sulla comprensione e sull’osservanza
dei ritmi ovvero l’insegnamento di un’architettura
che deve “toccare la terra con leggerezza”. Per questo le sue sono costruzioni flessibili, adattabili alle
variazioni atmosferiche, tali da assecondare la natura
senza prove di forza, senza tentarne il dominio, tanto, ad esempio, che, per resistere alle piogge e alle
inondazioni molto presenti nel continente, esse lasciano scorrere naturalmente l’acqua al di sotto del
primo solaio sollevato da terra.
Uno dei suoi primi lavori è la Laurie Short House
a Sydney, del 1974. Questa casa, per una giovane
coppia con un bambino, mostra la forte influenza
dell’aspro paesaggio australiano e di Mies van de
Rohe di cui aveva studiato l’anno prima l’opera in
cui riconosceva “il tipo più semplice di architettura
ossea”. Costruita su un terreno particolarmente esposto agli incendi, in essa Murcutt rinuncia
all’utilizzo del legno e si serve, come Mies, di acciaio e vetro, sebbene, per risolvere il problema del surriscaldamento, al posto di apparecchi per l’aria condizionata, egli usi filtri solari a persiana o altri sistemi di ombreggiatura, con una profonda piscina
sul tetto che raffreschi il clima, sì da ridurre cospicuamente, con i numerosi accorgimenti tecnici,
l’utilizzazione dell’aria condizionata, come è in tutte
le circa cinquecento case costruite.
Il progetto che costituirà il modello per gran parte delle sue successive abitazioni è Ball Eastway
House commissionata nel 1980 da due pittori.
La casa perché “tocchi la terra con leggerezza” è
sollevata su 6 colonne di acciaio fissate nel manto di
una collina boscosa, tali da proteggerla anche dagli
incendi, ed è costituita da una struttura d’acciaio con
travetti in legno, dalle pareti e dal tetto rivestiti in
lastre di lamiera attraverso cui regolamentare la
quantità di aria fresca e di luce.
Anche Marie Short House è sollevata dal terreno
e poggiata su palafitte su di un tratto di terreno rurale lungo il fiume Maria. Progettata inizialmente per
un cliente è stata acquistata e ampliata successivamente dallo stesso Murcutt, formando due distinti
edifici dalla pianta rettangolare, affiancati parallelamente ma sfalsati leggermente, con i corpi di fabbrica coperti da un tetto in lamiera ondulata con camera d’aria e le pareti rivestite di lamelle in legno e
acciaio regolabili, tali da permettere di controllare il
flusso dell’aria.
Nel 1984, nella Magney House, onde ottenere
una migliore climatizzazione, Murcutt utilizza pareti
esterne a triplo strato, ottenendo un’ottima ventilazione e migliorando l’illuminazione interna. Un caratteristico tetto a farfalla determina un accorto sistema di raccolta delle acque piovane per uso dome-
stico e per riserva in caso di incendi.
L’abitazione che maggiormente appare influenzata dall’architettura popolare australiana è Marika
Alderton House, costruita nel 1994 per l'artista aborigeno Marika Banduk e la sua famiglia. In nessun
punto di questa casa vengono, infatti, utilizzati vetri,
sconosciuti alla cultura aborigena, ma si ottiene
l’illuminazione e la ventilazione con una serie di
pannelli che si aprono e chiudono trasformando
completamente in tempi diversi l’aspetto della casa.
La grande attenzione alle esposizioni al sole e alla raccolta delle acque piovane è presente anche in
un progetto a più grande scala, la Bowral House, costruita nel 2001 e definita da Françoise Fromonot
“lo spazio più metafisico che Murcutt abbia costruito fino ad oggi”. Per una migliore climatizzazione
degli ambienti il progettista, oltre le pareti a triplo
strato ideate già nel 1984, utilizza alette orientabili
all'interno, persiane a stecche verso l’esterno, pannelli che scorrono, che si aprono, tetti a farfalla le
cui ali sollevate lasciano penetrare la luce invernale
il più possibile facendo ombra in estate e raccogliendo le acque piovane per l’utilizzo giornaliero e
l’uso in caso di incendi.
Con le sue case quindi, e di qui l’interesse per la
sua architettura, Murcutt ci offre una diversa definizione dell’abitare pure calzante con la modernità
sebbene ispirata ai più antichi modi del risiedere. Per
lui cioè la casa non è, né sarà mai, anche con la più
sofisticata tecnologia, una “machine à habiter”,
quanto una estensione dello stesso corpo, tesa a
“modificare e manipolare la sua forma e la pelle a
seconda delle condizioni stagionali e degli elementi
naturali”, un rivestimento quasi esso stesso umano,
una pelle organica in grado di respirare, riscaldarsi
raffreddarsi in uno con il suo abitante.
L’ARCHITETTURA DI IANNIS XENAKIS TRA MUSICA, MATEMATICA E
ANTICIPAZIONE DEL DIGITALE
Michele Condò
L’immagine di Albert Einstein insieme con i due
musicisti “americani” Leopold Godowskij e Arnold
Schönberg – il primo pianista polacco di fama internazionale trasferitosi negli Stati Uniti nel 1914, il
secondo compositore austriaco protagonista della
rivoluzione atonale immigrato in America nel 1933
– oltre a testimoniare il comune interesse musicale
(Einstein era un violinista dilettante), rappresenta
quasi un emblema del nuovo rapporto che la musica
e, più in generale, l’arte vuole intrattenere con le idee rivoluzionarie del mondo scientifico.
Tale nuovo rapporto, che si sviluppò, appunto,
non solo in compositori e musicisti ma anche in letterati e uomini d’arte, fu in qualche modo fortemente stimolato (se non imposto) dalla qualità e dal ritmo (definito dallo storico dell’arte O. M. Sayler
“improvviso e violento”) con il quale le scoperte e le
invenzioni nei campi della fisica, della chimica, della matematica, delle scienze sociali e psicologiche si
imposero all’attenzione dell’opinione pubblica già
negli ultimi decenni dell'Ottocento.
Nonostante considerazioni di carattere procedurale i due mondi – quello scientifico e quello artistico – hanno sempre avuto ampie relazioni e a partire
dal secolo appena trascorso, si sono ulteriormente
avvicinati. Tale vicinanza ha prodotto influenze reciproche particolarmente interessanti e molto diffuse.
Tra gli “sperimentatori” musicali della prima parte del ‘900 Edgard Varèse merita un posto privilegiato. Egli ha contribuito ad ampliare il campo della
ricerca compositiva arrivando ad una ridefinizione
dei concetti di musica e di suono.
Elemento centrale e unificante della poetica varèsiana è il rifiuto per tutto ciò che non corrisponde
allo spirito, alla vita del XX secolo. Esemplare in
questo senso è il suo interesse per la scienza: dal
momento che essa esiste, egli se ne serve, senza mai
però voler passare per uno scienziato. Molto spesso
sembra che la scienza, oltre ad aiutare Varèse nella
sua ricerca di nuovi strumenti, provochi in lui delle
immagini poetiche. Tutta la sua concezione di una
musica
spaziale
si
elabora
attorno
a
un’immaginazione, a un punto di vista e a un linguaggio che sono scientifici.
Nell’introduzione alla traduzione agli scritti di
Varèse, pubblicata nel 1985, il compositore italiano
Giacomo Manzoni evidenzia alcuni degli elementi
che inquadrano la posizione particolare di Varèse
all’interno della produzione artistica del primo Novecento. Questi sono ravvisabili in uno stretto colle-
gamento con la cultura dell’Europa di inizio secolo
(con i vari Satie, Picasso, Debussy e Busoni) nel
contrasto verso ogni tipo di recupero del passato; nel
concetto di “arte-scienza” come elemento centrale
della sua poetica; nella grande importanza del riferimento all’architettura come disciplina che al pari
della musica subisce implacabilmente le sorti
dell’epoca ovvero nella definizione di un concetto di
musica collegato alle poetiche architettoniche; nella
concezione particolare della forma, basata su una
organizzazione interna riferibile al concetto di “processo” in analogia con i diversi tipi di processi che si
verificano nella struttura della materia; nella radicale
trasformazione dell’orchestrazione e del “discorso
musicale” attraverso la realizzazione di “masse sonore in movimento”. Questo ultimo aspetto dello stile compositivo di Varèse è stato sottoposto a indagini accurate, con lo scopo di comprendere: a) in che
modo il compositore realizzava quegli agglomerati
di suoni che davano l’impressione di vere e proprie
masse sonore in movimento; b) quali strategie compositive egli attuava per “spostare” tali masse
sull’asse temporale.
Nella produzione realizzata tra gli anni Cinquanta e Settanta, lannis Xenakis 1 (architetto, matematico
e musicista) mise a punto le sue tecniche compositive più altamente formalizzate in senso matematico.
Fin dai suoi primi lavori Xenakis ha concepito una
musica profondamente inserita nel mondo moderno,
in luoghi e in circostanze studiate anche dal punto di
vista architettonico.
La prima esecuzione di Concret Ph 2 per nastro
magnetico si ebbe infatti all’interno del Padiglione
Philips, progettato dallo stesso compositore (con Le
Corbusier) in occasione della Esposizione Internazionale di Bruxelles 3. Successivamente Xenakis ha
sviluppato e realizzato progetti collegati non solo ad
architetture specifiche ma anche ad azioni luminose
e sonore (ad esempio i Polytopes realizzati a Montréal, Parigi e Micene). Un’altra composizione per
nastro magnetico (Le Diatope - La Legende d’Eer) è
stata pensata per un edificio a forma di tenda, anche
1
Iannis Xenakis (Brăila, 29 maggio 1922 – Parigi, 4 febbraio
2001) è stato un compositore, architetto e ingegnere greco naturalizzato francese. Per la rilevanza del suo lavoro teorico e compositivo, viene annoverato tra le figure maggiormente rappresentative tra i compositori della seconda parte del Novecento.
2
PH sta per Philips, o anche per Paraboloides Hyperboliques.
3
“… è interessante osservare quanto sia difficile separare il contributo di Le Corbusier da quello di Xenakis” (Alessandra Capanna, in Le Corbusier, Padiglione Philips, Bruxelles, Universale di Architettura, Torino – Ed. Testo & Immagine, 2000)
questo progettato da Xenakis, dove la composizione
interagiva con raggi laser e lampi elettronici.
Il pensiero di Xenakis prende forma da tre diversi
fattori concomitanti: la sua formazione fisicomatematica, il grande interesse verso la musica di
Edgard Varèse e, infine, la severa critica agli sviluppi dell’avanguardia musicale alla fine degli anni
Cinquanta, ovvero alle tendenze del serialismo integrale e dell’indeterminazione.
Parallelamente alla critica del serialismo Xenakis
non ritiene inoltre percorribili né le tendenze “grafiste” (quella parte di composizioni aleatorie nelle
quali la partitura è sostituita da un disegno o da una
immagine), né le tendenze “gestuali” (quelle opere
in cui alla musica si aggiungono azioni sceniche determinanti per la comprensione/sviluppo del pezzo).
Per non cadere quindi nella “triviale improvvisazione, nell’imprecisione e nell’irresponsabilità” egli ritiene che occorre rivolgersi al pensiero scientifico e
matematico. L’uomo è uno, indivisibile, totale…”Pensa con la pancia e sente con il pensiero” affermerà verso la fine degli anni Sessanta per ribadire
l’inscindibilità
del
pensiero
razionale
dall’espressione individuale.
Da queste considerazioni si comprende come la
definizione di un concetto di musica per Xenakis riguardi una matrice di idee, di azioni energetiche, di
processi mentali, riflessi a loro volta della realtà fisica che ci ha creati e che ci sostiene e del nostro psichismo chiaro o oscuro 4. All’interno di una concezione di musica di questo tipo troviamo anche il
rapporto dialettico tra l’antica filosofia della Grecia
classica (i concetti di armonia del mondo e il potere
organizzativo dei numeri) e le conquiste della scienza moderna (nella fattispecie la matematica,
l’architettura e il calcolo delle probabilità); e tale
rapporto si riscontra più volte nei suoi scritti.
Diversi studiosi hanno concentrato la loro attenzione sulle tecniche compositive del compositore
greco. La gran parte degli autori ne riassume le particolarità facendo diretto riferimento ai procedimenti
scientifici su cui tali tecniche si basano:
- strutturazione delle durate degli episodi o delle
parti secondo criteri proporzionali;
- adozione della legge di Boltzmann e Maxwell riguardante la teoria cinetica del gas (questa legge è
una delle prime formule a cui si può far risalire la
teoria della probabilità usata da Xenakis nella pro4
Espressione delle visioni dell’universo, delle sue onde, dei
suoi alberi, dei suoi uomini, alla stessa stregua delle teorie
fondamentali della fisica teorica, della logica astratta,
dell’algebra moderna. Filosofia, modo di essere individuale
e universale. Lotte e contrasti, compromessi tra entità e processo messi a confronto: si è lontani dalla concezione antropocentrica del diciannovesimo secolo. Ideologicamente
siamo nel pieno regno delle fisiche, delle cibernetiche e degli altri demoni moderni. (Xenakis, 1 9 8 2 )
pria musica, descrive il tipo di relazione esistente tra
lo stato di moto delle particelle di un gas e la temperatura complessiva);
- leggi stocastiche (probabilistiche) applicate alla
composizione.
Il calcolo delle probabilità diventa il vero e proprio principio costruttivo dell’opera, cioè il principio
su cui si fondano sia i dettagli sia la forma complessiva del pezzo.
La legge della probabilità che viene usata da Xenakis per definire i suoni rispetto alle diverse famiglie timbriche – e per ripartirli sull’asse temporale –
è la legge di Poisson. Questa legge, conosciuta anche con il nome di “legge degli eventi rari” si ritrova
in molte applicazioni della fisica delle particelle e
ogni qual volta abbiamo a che fare con successioni
di eventi casuali.
Xenakis ha fatto riferimento ad una legge di questo tipo per “governare” eventi casuali con la determinazione “artificiale” del “caso”; in altre parole la
riproduzione di eventi che, sebbene costruiti a tavolino, debbano essere intesi come apparentemente casuali… il caso è una cosa rara ... lo si può un po' costruire ma mai improvvisarlo o imitarlo mentalmente… Il compositore si riserva comunque spazi di
scelte sufficienti ad evitare l’immobilizzazione del
lavoro in uno schema matematizzato. La riduzione
della musica a un reticolo di relazioni tradirebbe, fin
dall’origine, quella creatività che è fra le sue aspirazioni più persistenti.
La matrice, costruita con la legge di Poisson,
prevede la presenza o l’assenza di eventi sonori singoli, doppi, tripli o quadrupli (a seconda della densità di suoni interessati). Tali suoni sono rappresentati
da rettangolini messi nelle singole caselle della matrice (v. figura al lato).
La matrice proposta da Xenakis sembra perfettamente disordinata, e dunque si potrà pensare che,
grazie all’utilizzazione sistematica della formula di
Poisson, il compositore sia arrivato a creare un disordine perfetto. Ma un semplice “contro esempio”
sarà sufficiente per mostrare che questa formula, applicata nello stesso modo, non può impedire la comparsa di una organizzazione. Ecco infatti un’altra
matrice che segue esattamente gli stessi principi della precedente (v. figura al lato).
Come già evidenziato, la complessa opera di
Iannis Xenakis si immette come un’esplosione teorica di grandissimo valore, che può essere compresa
solo attraverso l’immenso materiale prodotto
nell’arco della sua attività artistica. Si rende necessario un approccio ermeneutico, l’interpretazione di
un’estetica artistica che trova molti punti di contatto
con la scienza e con le più complesse teorie matematiche, fino alle implicazioni filosofiche di un costruttivismo o di uno strutturalismo alimentato
dalle fondamentali teorie di Jean Piaget e Gilles
Deleuze.
Nello specifico Iannis Xenakis pensa al superamento della serialità integrale attraverso la determinazione del calcolo combinatorio, il controllo del
compositore sui parametri e sugli esiti; una limitazione tramite i processi stocastici della casualità
aleatoria. La prassi scientifica è messa al servizio
dell’estetica e della produzione artistica, traguardo
raggiunto proprio a partire dagli sviluppi evolutivi
della serialità e dell’estremizzazione post-weberiana
del metodo teorizzato dalla cosiddetta “seconda
scuola viennese” 5, la dodecafonia.
Per Xenakis, in quell’ottica propria del programma strutturalista, la musica è il luogo in cui la
logica umana si rispecchia. Il musicologo Makis Solomos6 definisce tre momenti precisi della formalizzazione strutturalista, attraverso l’astrazione dei modelli e la produzione sul piano di realtà: 1. ricerca di
una struttura (piano sensibile: fenomeni naturali, sociali); 2. creazione di un modello che condivida la
perfezione logica della struttura ritrovata (piano insensibile, “hors-temps”: progetto); 3. incarnazione
sonora (piano sensibile,“en-temps”: fissazione del
modello nell’opera).
In questa sintesi proposta da Solomos il secondo
momento è il piano del progetto, il luogo in cui Xenakis trasforma l’astrazione in una oggettivizzazione
sul piano della realtà, processo proprio
dell’espressione artistica: “Bisogna distinguere due
nature: nel tempo ed extra-tempo. Ciò che si lascia
pensare senza prima o dopo è extra-tempo (…) le
relazioni o le operazioni logiche applicate a classi di
suoni, di intervalli, di caratteri (…) sono anch’esse
fuori dal tempo. Dal momento stesso in cui il discorso contiene il “prima” o “dopo”, siamo nel tempo.
L’ordine seriale è nel tempo, una melodia tradizionale anche. Ogni musica, nella sua natura extratempo, può essere colta istantaneamente, bloccata.
La sua natura nel tempo è la relazione della sua natura extra-tempo con il tempo. In quanto realtà sonora, non esiste alcuna musica puramente extra-tempo;
esiste invece musica nel tempo pura, che è ritmo allo
stato puro”.
5
Per seconda scuola di Vienna si intende la scuola musicale
fondata all'inizio del XX secolo a Vienna da Arnold Schöenberg
e dai suoi allievi Alban Berg e Anton Webern. La denominazione fa riferimento ad un’implicita prima scuola di Vienna: quella
formata da Joseph Haydn, Wolfgang Amadeus Mozart e Ludwig
van Beethoven. Vienna all’inizio del XX secolo era il centro di
rinnovamento artistico e culturale dell’Europa centrale. Ciò
permise lo sviluppo di nuove teorie nelle varie discipline artistiche, come fecero ad esempio Gustav Klimt nella pittura e Gustav Mahler nella musica.
6
Makis Solomos è un musicologo specializzato nello studio nel
campo della musica contemporanea soprattutto nel lavoro di Iannis
Xenakis, di cui è uno dei più grandi specialisti. E’ anche uno dei
massimi esperti del pensiero di Adorno.
Pur espresso nei termini strutturali l’insieme delle ricerche di Xenakis si apre ad un’ampia riflessione radicale, che tende ad una estensione nell’opera
d’arte in sé, verso una comprensione delle strutture
che determinano i fenomeni principalmente sonori
(ma anche architettonici); bisogna ricondurre la produzione e la percezione sonora alle leggi ed i sistemi
di pensiero, che sempre si manifestano nelle medesime modalità nell’arco della storia [“Arts/Sciences.
Alliages”-“Musica.Architettura”].
Viene delineandosi una precisa estetica del linguaggio il cui carattere sistematico sposta
l’attenzione sulle costanti ed i rapporti che si costituiscono negli elementi della struttura/composizione.
Riguardo all’astrazione e la formalizzazione
dell’opera artistica, quindi, si aprono aspetti molto
complessi in cui la ricerca di un modello di sistema
è effettivamente il risultato di un’astrazione, momento di riflessione pura, un’analisi che procede
dalla suggestione ai piani di realtà entrando in gioco
un dualismo di livelli tra universo iletico 7 e quello
delle forme e dei sistemi di organizzazione (piano
materiale e delle forme). E’ questa ‘platonizzazione’ della ricerca che diviene punto centrale per un
dualismo modello/opera; l’interazione dei due piani,
la percezione della suggestione e l’astrazione
del modello, si struttura nell’opera attraverso lo
strumento matematico ed il numero è il vero “me-
dium di materializzazione”[“Musiques formelles”].
Il numero dunque rappresenta il modello che Xenakis impiega per la riduzione di ogni fenomeno ad
una “quantificazione”, fino alla produzione musicale
e, in ultima manifestazione, al piano estetico: “Tutta
l’attività intellettuale, comprese le arti, è attualmente
immersa nel mondo del numero” (La voie de la recherche et de la question”, 1965).
Analizzando la questione alla luce del metodo
strutturalista, il numero rappresenta l’essenza formale di tutte le cose, incontrando il metodo pitagorico
secondo il quale “Tutte le cose conosciute hanno
numero. Perché non è possibile che nulla possa essere capito o conosciuto senza questo”, e giocando un
ruolo di primo piano nella comprensione e nella soluzione della questione epistemologica, per la quale
una cosa più che essere contata può essere compresa
7
Nella fenomenologia husserliana gli elementi reali costituenti
il vissuto sono la hyle, ovvero il gruppo di dati materiali che
vengono “formati” da un altro elemento, anch’esso reale, la noesis, affinché l’Erlebnis (ovvero l’esperienza vissuta) stesso possa dirsi intenzionale, specificandone così il suo senso proprio. Il
termine noesis rinvia alla sua radice greca, nous e in generale,
come sostiene Husserl, costituisce il presupposto eidetico
dell’idea della norma, non senza dimenticarne una delle accezioni, dal punto di vista fenomenologico, più significative, quella di “senso”.
alla luce delle relazioni matematiche in essa contenute; dire che qualcosa ha numero equivale ad attribuire a questa “una struttura descrivibile in termini
matematici” (C. Huffman, “Philolaus of Croton”Cambridge University Press, 1993). Le cose quindi,
più che riconoscersi ontologicamente nel numero,
hanno un ordine riscontrabile nei loro rapporti, “conosciamo qualcosa solo quando ne individuiamo le
relazioni fra le varie parti”(C.Huffman). L’analisi
strutturalista di una composizione attraverso i rapporti numerici, rimanda alla posizione degli elementi
strutturali e, non essendo Xenakis interessato ad un
generico riconoscimento di un ordine, si propone in
realtà di far emergere una struttura del fenomeno, richiamandosi fortemente al pitagorismo per
quel che riguarda la concezione del numero quale
parametro di identificazione delle unità di posizione
per essere organizzati nella composizione.
La ricerca di Xenakis ed i sistemi di conoscenza
da lui impiegati sono volti infine alla misurazione
dei rapporti, all’indagine strutturale dell’evento o al
costruttivismo dell’opera programmata dal modello
matematico sono quantificazione e ricerca del numero, interazione fra musica, architettura, matematica e
modelli astratti, rimandando ad un ideale “strutturalista” secondo i parametri esposti da Jean Piaget.
Modello e struttura dunque: “In base alla radi-
cale ed eterodossa concezione deleuziana lo
strutturalismo non stabilisce un’opposizione irriducibile fra struttura ed evento, cioe’ non subordina il rapporto fra diacronico e sincronico
secondo una semplice relazione di causalità
l’uno sull’altro” (M. T. Ramirez: "Deleuze e la
filosofia)8.
Secondo il modello sviluppato nell’ideale strutturalista, appunto, opere quali “Nomos Alpha”(anni
’50) vengono composte per incarnare un’idea di
simmetria sonora, basandosi sulle simmetrie di un
solido in rotazione ed esplicando quel ‘platoni8
Come nel platonismo, la prospettiva strutturalista di Deleuze,
non tende ad una semplificazione del metodo, né ad un appiattimento dello strutturalismo su un determinismo o un formalismo soggettivistico, ed i principali motivi deleuziani quindi rovesciamento del platonismo e strutturalismo eterodosso divengono elementi centrali per la comprensione della sua riflessione musicale, a cui lo strutturalismo di Xenakis si allinea
fortemente. Nella sua concezione di uno strutturalismo dialettico
Piaget propose la seguente definizione: “In prima approssimazione, una struttura è un sistema di trasformazioni, che comporta delle leggi in quanto sistema (in opposizione alle proprietà
degli elementi) e che si conserva o si arricchisce grazie al gioco
stesso delle sue trasformazioni, senza che queste conducano
fuori dalle sue frontiere o facciano appello a elementi esterni.
In breve, una struttura corrisponde così a questi caratteri: totalità, trasformazioni, e autoregolazione. In seconda approssimazione (...) questa struttura deve poter dar luogo ad una formalizzazione.” (da Lo strutturalismo)
smo’, che a partire da un modello ideale (simme-
trie derivate dalla rotazione del cubo) plasma la materia ed i processi della materia (opera) nelle categorie proprie del mondo della forma. Sulla base di
strutture extra-tempo quindi, Xenakis costruisce la
composizione ricalcando il modello del cubo solido,
che nella rotazione permette di prendere in considerazione solo parte delle permutazioni possibili (che
sarebbero migliaia), cioè quelle corrispondenti alle
rotazioni sugli assi di simmetria, associando ad oggetti eventi sonori e nuvole di micro-suoni, secondo
una logica dettata dal solido in movimento nello
spazio.
“…Si immagini un gruppo finito, di ventiquattro
elementi, rappresentato dalle simmetrie del cubo. Il
cubo ha otto facce. Le sue trasformazioni possono
essere descritte mediante un insieme di otto oggetti
classificabili in altrettante caselle. Occorre considerare non tanto l’insieme di tutte le permutazioni possibili (40.320) ma solo le permutazioni corrispondenti alle rotazioni sugli assi di simmetria (24). Associamo a ciascuno degli otto oggetti in questione
altrettanti eventi sonori, per esempio nuvole di suoni
puntiformi, insiemi di brevi glissandi (…). Dalle
ventiquattro rotazioni del cubo si otterrà una certa
quantità di possibili nuvole sonore, tra loro connesse
da una logica interna legata alle simmetrie del cubo.
Si avrà dunque una struttura extra-temporale”. (“Universi del suono”).
Un sistema che struttura e destruttura, secondo
schemi astratti e processi della materia, un’opera intelligibile, totalmente sintetizzabile nelle strutture in
questa operanti; un immenso meccanismo che, ruotando (sui piani della materia e sui piani dei calcoli
combinatori), produce suoni, altezze, timbri, ecc.
Tutto ciò attraverso una vasta “disgregazione” di
fasi compositive (“concezioni iniziali”, “definizione
di esseri sonori”, “definizione delle trasformazioni”,
“micro composizione”, “programmazione sequenziale”, “effettuazione dei calcoli”, “risultato finale
simbolico”, “incarnazione sonora”) nel tentativo di
disgregare e decostruire l'atto della composizione
musicale con la speranza di determinare delle operazioni integralmente calcolabili, verso quindi un’idea
di una totale automatizzazione, di un meccanismo
auto-regolato che, come si è detto, si trova alla sua
origine.
E' importante sottolineare che, pur impiegando
tali complesse procedure logiche, l’opera di Xenakis
non è mai schiacciata sotto il peso dei modelli da lui
ricercati nell’astrazione e nella formalizzazione della
composizione, se ne riscontra anzi una forza assolutamente materica, fino ai limiti di un lirismo talvolta commovente.
Nel tracciare un fondamento su procedure puramente matematiche - teoria degli insiemi e dei gruppi, probabilità, catena markoviana, processi stocasti-
ci, fino all’elaborazione della “teoria dei setacci”
(derivata da quella dei gruppi) - Xenakis va anche
cercando una ‘naturalizzazione’ della musica e
dell’opera artistica, attraverso le scienze naturali, e
verso una ricerca dell’universalità che evoca talvolta
l’organicismo e l’architettura digitale. Nella prefazione della partitura di Le Sacrifice (dove la composizione ritmica deriva dalla serie di Fibonacci,
tendente come noto alla Sezione Aurea) Xenakis illustra questa sistematizzazione della struttura:
“…La regola aurea è una delle leggi biologiche
di crescita. La si ritrova nelle proporzioni del
corpo umano…” A scanso di equivoci è bene sot-
tolineare che la musica di Xenakis è agli antipodi di
una visione organicista della forma, ma in essa si rileva semplicemente la ricerca di modelli derivanti
dalle scienze naturali. Formalizzazione e naturalizzazione sono i due poli che permettono la comprensione dell’opera xenaniana e il suo rapporto arti/scienze. Due approcci che, apparentemente in contraddizione, in realtà riflettono una precisa simmetria concettuale: all’astrazione del primo polo si contrappone la suggestione quasi naturalista del secondo.
Come già detto l’opera di Xenakis può essere
sintetizzata nel binomio delle sue passioni: matematica e architettura. Denominatore comune di questo
binomio è lo spazio; uno spazio in cui Xenakis ha
espresso la sua necessità di strutturare forme condivisibili, unità formali analizzabili alla luce delle
connessioni e delle relazioni reciproche. Sin dal
1948 quando Xenakis, stabilitosi a Parigi, comincia
a lavorare come architetto nello studio di Le Corbusier, avvicinandosi al Movimento Moderno (che pur
antitetico costituisce punto di partenza del Decostruttivismo e del suo esercizio formale), al Funzionalismo, all’architettura a misura d’uomo. Contemporaneamente porta avanti gli studi di musica, ma
non trova la sua dimensione all’interno degli schemi
rigidi del contrappunto e dell’armonia. E’ la matematica che diviene invece una via di esplorazione
del mondo, di scoperta di forme e di regolarità, ma
anche di modalità per descrivere il caos e l’entropia.
Egli lavora quindi al rapporto musica-matematica
sia da un punto di vista pragmatico sia teorico, ‘costruendo’ complesse strutture compositive partendo
da strumenti quali il calcolo della probabilità e la
teoria degli insiemi, apportando nuovi elementi teorici attraverso il concetto di “musica stocastica”,
“musica simbolica” e “masse musicali”. Nella composizione c’è infatti una relazione diretta tra musica
e architettura, combinazione sicuramente inedita ma
che sembra essere la cosa più naturale per
l’assistente di Le Corbusier. Egli attraverso il calcolo delle probabilità esplora la logica dell’incerto, per
rendere fisicamente percepibili le leggi stocastiche,
che si trasformano in strumenti di previsione, di cir-
coscrizione dell’asimmetria e della casualità del reale, in una strutturazione di nuove forme sulla ripartizione probabilistica dei suoni, “fino a far emergere
un vero e proprio dramma delle note”. Xenakis lavora anche a fondamentali opere multimediali, aprendo
una strada del tutto nuova con i “Polytopes” ed in
seguito il “Diatope”, installazioni sonore, cioè sonorizzazioni di ambienti alla cui realizzazione concorrono diversi elementi: architettura, luci, fasci laser, immagini proiettate e la stessa natura del luogo;
veri e propri spettacoli audio-visivi, scaturigine
dell’integrazione tra musica ed architettura, nuove
tecnologie e proiezioni visive, che mostrano lo spirito di ricerca nell’ambito delle scienze, occupandosi
di percettologia (propriocezione), indagando le
funzionalità sensibili del cervello nella percezione
della realtà e dell’applicazione di tali funzioni a sperimentazioni
percettive,
sulla
posizione
dell’ascoltatore e nell’uso dello spazio nell’ascolto
dei suoni.
I “Polytopes” (creati per il padiglione francese
dell’Esposizione di Montréal (1967), per lo spettacolo Persepolis (Iran, 1971) ovvero il Polytpope di
Cluny (Parigi, 1972), il Polytope di Micene (1978)
ed il “Diatope” (realizzato all’inaugurazione del
Centre Pompidou di Parigi nel 1978) riprendono infatti il concetto di dimensioni architettoniche/spaziali e strutture sonore,nel tentativo di riunire le arti visive con le esperienze e gli studi legati
alla percezione del suono, lasciando erompere,“come uno scoppio fragoroso dopo il silenzio, una
visione
drammatica
della
realtà
sospesa
nell’intervallo fra il passato remoto e il futuro estremo, il tempo per il dipanarsi della storia
dell’uomo”.
Xenakis impiegò quindi le esperienze di calcolo
combinatorio usate nella musica, per sintetizzare regole analoghe di costruzione per la progettazione del
Padiglione Philips per l’Esposizione Universale di
Bruxelles del 1958. In pratica per questa progettazione si ispirò alla struttura che animava la sua partitura musicale “Metastasis”, e all’interno del padiglione, nell’ambito del futuribile spettacolo multimediale allestito da Le Corbusier, verranno diffuse
opere di Edgard Varèse (“Poème électronique”) e di
Xenakis (“Concret PH”) grazie ad altoparlanti allestiti nella struttura.
Il forte legame fra musica ed architettura, che ha
come denominatore comune lo spazio, si esprime
anche in molte altre opere architettoniche di Xenakis, ad esempio il monastero domenicano nei pressi
di Lione St. Marie de la Tourette (di Le Corbusier),
per cui fu incaricato di progettare le facciate ed in
cui impiegò il vetro ispirandosi al concetto musicale
di polifonia, ottenendo quelli che Le Corbusier stesso, definì “schermi musicali di vetro”.
Xenakis è stato quindi tra i primissimi a sperimentare tecniche compositive algoritmiche e a lavorare sulla sintesi digitale impiegando l’elettronica e
l’informatica per esplorare la “struttura” del suono,
come unità autonome di avvenimenti e di “interconnessioni”, mostrandone il potenziale fortemente espressivo.
I primi esperimenti di Xenakis su nastro magnetico sono stati alla base della futura sintesi granulare, messa in atto attraverso elementi acustici elementari detti microgrounds o grani (di cui ha sempre
rivendicato l’invenzione). Il metodo della sintesi
granulare è fondamentalmente una costruzione di
suoni complessi a partire da una determinata quantità di suoni semplici: il risultato non è un unico suono, ma un insieme di suoni gestito in maniera del
tutto differente da qualsiasi altro metodo di sintesi 9.
Di quanto finora detto abbiamo un notevole esempio nel Padiglione Philips, in cui i muri nel lato
interno assumono l’identità di pareti proiettanti sulle
quali si svolge il Poeme Electronique di E. Varése,
una composizione di suoni, immagini, luci e laser,
dove tutto l’edificio è costituito da superfici rigate
derivanti dallo spartito di Metastasis di Xenakis
stesso.
Ci troviamo, dunque, di fronte ad una sorta di
auditorium, ma totalmente differente da quelli tradizionali nati a scopo di contenere ed esaltare acusticamente (con la loro forma e i materiali) gli eventi
sonori e di farli fruire ad un pubblico statico senza
interferire minimamente con l’opera del compositore
e degli esecutori; il padiglione Philips nasce intorno
ad una musica e per ciò il suo volume è progettato al
fine di completare il lavoro dei singoli strumenti (in
tal caso elettronici) e dialogare con l’utente che non
è più spettatore fermo. A seconda di come questo si
muove all’interno della costruzione, infatti, cambia
tutto l’insieme delle percezioni che hanno, in ambito
sia visivo che acustico, le pareti stesse , riflettendo
luci e note; le pareti dialogano così con le persone
stimolando sensazioni diverse e la pianta stessa della
9
Nel saggio, precedentemente citato, “L'opera d’arte
nell’epoca della sua riproducibilità tecnica” (1930) Walter
Benjamin sostenne che, con l’ingresso nell'epoca della “riproducibilità tecnica”, l’opera d’arte aveva perso l’aura, quel quid sacrale che un tempo la caratterizzava. Non più unica, irripetibile,
frutto del genio individuale e dell’ineguagliabile bravura del
creatore o dell’interprete, l’arte avrebbe potuto mutarsi in esperienza comunitaria e di massa… facendo riferimento in particolar modo alle preistoriche tecnologie, soprattutto alla nascente arte cinematografica e, con poca lungimiranza forse, ne
intravide solo gli aspetti che avrebbero posto fine
all’irriproducibilità dell’Arte e alla tecnè intesa come elemento
fondante l’opera artistica.
struttura si esprime, suggerendo (con la sua forma a
“stomaco”) il percorso migliore al fine di avere una
comprensione completa ed esaustiva.
In una sua conferenza Steven Perrella definì i
muri del Padiglione come delle Ipersuperfici, una
particolare categoria di piani usati in architettura (da
Perrella in modo sistematico) che come delle pareti
proiettanti varcano i confini di staticità di un edificio.
Il Politopo del Beaubourg è un altro esempio di
tale approccio progettuale. Ma qui si apre un altro
discorso.
PLAÇA DE LES GLÒRIES CATALANES DI BONAZ E TAMI
Gaetana Laezza
Tutelare il paesaggio o realizzare progetti di Architettura del Paesaggio non significa mascherarsi
nell’ambiente naturale, ma confrontarsi nel contesto
con elementi artificiali che diventano testimonianze
di vita contemporanea. In tal modo si fa convivere il
paesaggio naturale con quello artificiale stabilendo
un più forte legame tra l’uomo e l’ambiente.
Queste nuove posizioni hanno portato i paesaggisti contemporanei a realizzare aree a verde che non
si rifanno ai dettami tradizionali ma ai nuovi modelli
di vita. Anche le opere di architetti come Paul Bonatz e Rino Tami, nelle aree della Germania e del
Canton Ticino, sono state orientate al miglioramento
di una maggiore relazione tra la natura e le strade
creando così una migliore interrelazione.
Pertanto l’Architettura del Paesaggio è alla continua ricerca di un linguaggio sempre più adeguato
alla contemporaneità, per dare un contributo sostanziale alla relazione che intercorre tra l’uomo e
l’ambiente, ed alla reciproca influenza degli aspetti
estetici ed ecologici. Ciò comporta una larga diffusione di progetti paesaggistici innovativi le cui motivazioni sono di varia natura. I responsabili amministrativi di grandi città europee come Amsterdam,
Barcellona, Berlino e Parigi hanno ritenuto fondamentale identificare nel Parco pubblico il luogo
principale dei loro programmi urbanistici, sociali e
architettonici.
Nei primi anni Sessanta, l’idea del manufatto architettonico, autonomo rispetto al contesto, originò
ambiti teorici diversi. Erano gli anni in cui il manufatto aveva un ruolo preminente rispetto al contesto
per cui la contrapposizione tra uomo e natura o tra
città e campagna, affidò al paesaggio un ruolo secondario.
L’architettura si limitava esclusivamente a riempire gli spazi vuoti, che in questo modo perdevano
ogni legame con la propria storia, memoria e cultura.
Nei decenni successivi si è sviluppato un forte
rinnovamento culturale. Dopo anni di indiscriminato
uso del territorio, si è resa evidente la necessità di
combattere l’aggressione al patrimonio naturale che
mostra i segni delle attività industriali realizzate nella periferia e delle nuove espansioni residenziali. La
periferia è vitale quanto il centro, anzi spesso ciò
che viene considerato marginale può diventare estremamente vitale. Questo vale per tutti quei paesaggi che la progettazione della città contemporanea
ci ha consegnato; pensiamo agli spazi a margine, così chiamati in quanto risultanti compressi tra spazi
dominanti con vari livelli di apertura. Questi spazi
sono parte integrante delle nostre città; pensiamo ad
esempio agli spazi sottostanti le autostrade e agli
spazi verdi che le circondano. Si tratta di aree che
non vengono sfruttate ma trasformate in aree di parcheggio o in chiazze di erba, terra di nessuno ai confini tra scala territoriale e scala urbana.
In realtà questi spazi presenti nella maggior parte
dei nostri territori possono essere rivalutati restituendo valore al nostro paesaggio contemporaneo.
Alcuni esempi di inserimento di infrastrutture
sono riscontrabili in alcune aree periferiche della città di Mestre dopo lo sviluppo dei grandi centri
commerciali, all’inserimento della TAV, alla Strada
degli Americani nell’area Nord di Napoli, agli insediamenti nati dallo sviluppo commerciale della
grande distribuzione e ai nuovi collegamenti creati
dalle infrastrutture di accesso alle nuove aree. Passeggiando per le città contemporanee non possono
sfuggire alla nostra vista gli effetti devastanti prodotti dalla realizzazione indiscriminata delle infrastrutture, dei vuoti di risulta, delle aree a margine.
Molti progetti di infrastrutture realizzate a partire
dagli anni Sessanta fino agli anni recenti hanno avuto spesso esiti disastrosi nella trasformazione del paesaggio. Caso emblematico in Italia è l’A1 nel tratto
compreso tra Firenze e Bologna, la Strada degli
Americani che congiunge vari comuni della periferia
nord di Napoli o lungo l’asse della Salerno – Reggio
Calabria.
Nella maggior parte di questi progetti è evidente
come la viabilità non sia composto, da parti armoniche, ma da una serie di strutture additive che indebitamente tagliano e trasformano il paesaggio.
I progetti selezionati sono molto diversi tra loro e
coprono periodi differenti per poter segnalare le possibilità che ha il progetto del paesaggio a seconda
del contesto culturale: nelle varie scale e con modalità in cui è evidente il modo di intendere e di operare.
I progetti affrontano diverse tematiche quali la
strada, la ferrovia, il porto, … ma hanno tutti lo stesso obiettivo, cioè ricreare un riequilibrio tra le parti
del territorio interrotte dal sistema infrastrutturale
che nei decenni passati non hanno minimamente seguito la finalità di una continuità estetica e funzionale con il paesaggio che modificano. Dalla planimetria dell’area metropolitana della città di Barcellona
si nota a prima vista una cerniera ad est del Barri
Gòtic, che crea una frattura tra la maglia regolare del
Plan Cerdà (realizzata nel 1859) e quella generata
dal successivo sviluppo industriale, si tratta della
Plaça de Les Glòries Catalanes.
Tali elementi di discontinuità sono riconducibili
alla presenza di tre principali arterie viarie che qui si
intersecano e creano uno scambio di flussi: la Gran
Via de Les Cortes Catalanes, che corre parallela alla
linea di costa, l’Avinguda Diagonal, tratto di collegamento tra l’area sud-est, di recente costruzione,
chiamata Diagonal Mar, e la parte nord-ovest dove è
situato il Campus Universitario, e la Meridiana, che
ha come punto di arrivo il Parc de la Ciutadella.
Quest’area è anche il luogo di passaggio delle diverse linee del trasporto pubblico: tra cui: la linea 1
della metropolitana, la linea dei treni regionali della
"Generalitat de Catalunya" e la linea diretta verso la
Francia ed in superficie la linea del tram elettrico.
L’attuale conformazione della piazza rialzata rispetto il piano di campagna dipende dalla presenza
della linea metropolitana, creando in questo modo
un belvedere che volge lo sguardo verso l’area metropolitana. E’ caratterizzata da una serie di emergenze tra cui il nodo viario della Gran Via de Les
Cortes Catalanes, completato per le Olimpiadi del
1992 (Andreu Arriola). L’area nord presenta un
mercato "delle pulci" chiamato "Les Encants";
nell’area sud-est nel 2005 è stata completata la Torre
Agbar (Jean Nouvel e dello studio Barcelloneta
b720).
Si tratta di una zona della città di Barcellona che
ha presentato seri problemi urbanistici fin dalla sua
realizzazione, indipendentemente dai tentativi dei
pianificatori.
La Plaça de Les Glòries Catalanes è attualmente
oggetto di una trasformazione voluta dall'Ajuntament. Il progetto prevede non solo l’eliminazione
del nodo infrastrutturale sopraelevato su cui scorre
l’infrastruttura e del sottostante parcheggio con
l’idea di realizzare un’area verde, la creazione nel
sottosuolo di 3 livelli di viabilità: nel primo la Gran
Via e la Diagonal, comunicanti con la metropolitana; nel secondo verrà realizzata la stazione delle
Rodalies; nel terzo livello la realizzazione della connessione del Ferrocarril della “Generalitat de Catalunya” del Baix Llobregat e del Barcelonès nord.
La Plaça de Les Arts è stata riprogettata da Zaha
Hadid che ha previsto la realizzazione di un ponte
pedonale che sorpassa la Gran Via così da ricollegarsi ad un edificio che ospita sale per l'intrattenimento.
Altro intervento che completa il cosiddetto “triangolo magico” è quello della costruzione della stazione dell’alta velocità (AVE, Alta Velocidad Española) nella zona di Sant Andreu – La Sagrera, il
nuovo tracciato occupa l’area della linea ferroviaria
storica.
Questa operazione non ha coinvolto solo Barcellona ma tutta la regione metropolitana.
Infatti, oltre al terminal ferroviario, disposto su
tre livelli sotterranei per consentire lo scambio di
flussi tra il trasporto metropolitano locale e quello
ferroviario, l’edificio della stazione ospita attività
legate al terziario e al settore commerciale ed è diventato il punto di cerniera tra i quartieri di Sant
Andreu e Sant Martí, storicamente separati dalla
vecchia linea ferroviaria.
Come nei casi precedenti questo intervento ha
determinato molte trasformazioni all’interno del tessuto urbano.
IL CUBO DI ADALBERTO LIBERA
Rosario Di Petta
Il Palazzo dei Congressi all’EUR, opera di
Adalberto Libera, è un edificio degli anni Quaranta
dall’indiscutibile fascino. Una visita approfondita
consente di scoprire con immediatezza l’assoluta
coincidenza tra l’immagine realizzata dall’architetto
trentino e lo schizzo iniziale della volta a crociera
intorno al quale ruota l’intero senso dell’opera. E’
un edificio che riesce a sorprendere per la sua
notevole individualità linguistica, ed allo stesso
tempo, per la sua oggettività, la sua valenza
modellistica. Basta fermarsi nel piazzale antistante il
fronte principale di ingresso ed osservare questa
forma nata dal sogno per comprendere come essa sia
stata tradotta nella realtà senza alcun apparente
sforzo, con straordinaria sintesi.
L’immagine complessiva assorbe, infatti, nella
sua logica il dato funzionale. La geometria è l’unica
chiave che regola l’architettura, generando le
differenti spazialità: lo spazio interno, gli spazi
esterni, e semi-esterni (i porticati dei due fronti,
variamente trattati).
L’eleganza formale si riscontra anche nel
profondo senso della misura che regola i due
prospetti laterali, opportunamente caratterizzati
dall’iterazione delle strette aperture verticali.
Del resto, come ha rilevato Franco Purini,
“…Adalberto Libera rappresenta il punto più alto
del formalismo italiano. Come per Terragni anche
per Libera la scelta della ragione, più che del
razionalismo, precede l’architettura e si rappresenta
come riconoscimento spirituale del mondo”.
Il senso di prodigioso equilibrio che pervade
questa architettura romana è raccontato dalle chiare
volumetrie e dalle loro ombre, diventando così
nitida poesia architettonica.
E’ facile constatare come “il riposo della forma”
che governa questo edificio dimostri ancora una
volta come la classicità non sia una banale
scorciatoia, ma piuttosto un difficile traguardo; è la
bellezza che sa nascondere la complessità, pur
contenendola al suo interno. Quella volta a crociera
che media il rapporto tra il cielo e la terra è tesa a
costruire un dialogo fitto di corrispondenze con lo
skyline romano, punteggiato da cupole e altane.
Adalberto Libera riesce in maniera efficace a
rappresentare un’idea mediante una forma: l’opera,
derivata dall’ingrandimento di una domus, esprime
l’idea dell’assemblea, del congresso, che è poi il
tema stesso dell’edificio.
Un’idea che alcuni tra i massimi architetti del
novecento, come Mies Van der Rohe o Louis Kahn,
hanno perseguito e rappresentato in forme del tutto
personali.
Questa semplice composizione, realizzata con un
parallelepipedo di base ed un cubo sovrapposto che
accoglie la sala dei ricevimenti, è anche volta a
stabilire un rapporto con le geometrie pure che da
sempre segnano il volto della città eterna. E’ Vieri
Quilici ad intuire che “Roma è per Libera
evidentemente la città per eccellenza, dove
l’architettura assume una particolare compiutezza,
un particolare spessore oggettuale–simbolico”. Lo
spirito generativo classico che da sempre
accompagna il lavoro dell’architetto trentino trova
una sintesi efficace proprio in questa opera;
soprattutto nella realizzazione di quel cubo che una
sottile crociera tende a sottolineare e, allo stesso
tempo, a smaterializzare.
In Libera assistiamo alla costante volontà di
sperimentare le differenti spazialità degli organismi
a pianta centrale per tradurre in immagini nuove
l’eredità degli edifici antichi; ciò è chiaramente
percepibile da quel sogno giovanile di un Pantheon
in cemento armato, rappresentato in un sintetico
quanto efficace schizzo. E tale idea continua a
vivere nel modello realizzato, giacché da un punto di
vista dimensionale, la sala dell’Eur è un cubo di 36
metri di lato che potrebbe contenere esattamente il
Pantheon di Roma. La smaterializzazione della
scatola muraria si percepisce soprattutto nei punti di
giunzione delle facce del solido murario, là dove
partono gli archi che delimitano superiormente le
lunette vetrate. La classicità liberiana viene così
narrata dal marmo bianco utilizzato per rivestire le
sapienti volumetrie. Per dirla con Heidegger, “Lo
splendore e la luminosità della pietra, che essa
sembra ricevere in dono dal sole, fanno apparire la
luce del giorno, l’immensità del cielo, l’oscurità
della notte. Il suo sicuro stagliarsi rende visibile
l’invisibile regione dell’aria”.
Le colonne del fronte porticato d’ingresso
trasportano ancor più nella dimensione della
classicità; in questo spazio di mediazione pieno di
fascino, di senso della misura, vengono in mente
altre architetture: il Kimbell Art Museum di Louis
Kahn, il Teatro Carlo Felice di Genova di Aldo
Rossi e Ignazio Gardella, il sistema delle Piazze
realizzato a Gibellina da Franco Purini. In tutte
queste opere geometria ed eleganza formale si
fondono in maniera straordinaria, dando vita a
quella dimensione dell’immateriale che ancora
affascina la cultura architettonica internazionale.
Oggi l’edificio è diventato quasi un corpo
immateriale, immerso in un universo di flussi
segnici, così come ha ampiamente dimostrato Paul
Virilio. C’è tuttavia chi si ostina ad autocelebrarsi
producendo opere caratterizzate da una forte
componente scultorea. Tale componente non si
limita ad assegnare all’edificio quel valore plastico
che da sempre caratterizza la migliore architettura di
qualsiasi epoca storica, ma tende ad una vera e
propria identificazione tra architettura e scultura,
producendo un danno sia per l’una che per l’altra.
Infatti è palese come non si possa assegnare un
compito funzionale alla scultura, e al contempo
come non ci si debba dimenticare della destinazione
utilitaria dell’architettura. Le bianche volumetrie di
Libera rimangono una lezione fondamentale, un
messaggio perennemente valido, rivolto soprattutto
a chi si lascia affascinare da quel disordine
proveniente dall’arbitrio che caratterizza alcune
delle opere recenti, molto celebrate dalle riviste
internazionali. Un monito contro chi continua
imperterrito a violentare l’architettura, pur di esibire
il proprio narcisismo.
LO STUDIO ARCHIKUBIK DI BARCELLONA
Intervista a March Chalamanch, Miquel Lacasta e Carmen Santana
David Napodano
Archikubik è formato da Marc Chalamanch, laureato alla Escuela Superior de Arquitectura de Barcelona, UPC, nel 2003, Miquel Lacasta, laureato alla
Escuela Superior de Arquitectura de Barcelona,
UPC, nel 1994 e Carmen Santana, laureata alla Ecole d’Architecture de Toulose, Francia, nel 1987.
Dalla data della sua creazione nel 1996 lo studio
si propone come obiettivo quello di avvicinare ricerca e realtà costruita, accompagnando alla docenza
(ESARQ, UPC, ELISAVA) lo sviluppo di progetti,
tanto in Spagna quanto in Francia, a scale differenti,
pubblici e privati, dal tema residenziale, come nella
appena terminata “Less than a tower” alle spalle della stazione centrale di Sants a Barcellona, al tema
dei servizi pubblici, come la ristrutturazione e ampliamento della Escuela Sunion a Barcellona, o a
quello dello sviluppo urbano basato sui criteri della
sostenibilità, come è per l’eco-quartiere di Ivry, alle
porte di Parigi, in Francia. Il progetto comune Archikubik nasce da una chiaro sguardo internazionale
ed intergenerazionale sull’architettura attuale che si
riflette nella composizione dello studio e nella visione interdisciplinare della professione dell’architetto,
esplicitata in un intorno (@ubik, un antico fabbricato industriale riadattato), dove si divide spazio e lavoro con professionisti di diverse discipline.
- In questi primi anni di attività, quali valori architettonici considerate che caratterizzino la vostra
architettura?
Dalla nostra creazione abbiamo puntato su 3
campi: la ricerca, la realtà costruita della pratica professionale e la docenza, considerandoli tra di loro
complanari e indivisibili. Questo modo di lavorare
permette di adattarci meglio e più rapidamente ai
grandi cambi della rivoluzione tecnologica e della
rivoluzione ecologica, che incidono sulla realtà sociale, culturale, politica, economica e tecnologica
della contemporaneità.
Il nostro spazio di lavoro, @kubik, ci permette di
affrontare attraverso processi incrociati una
disciplina come quella architettonica, immersa sempre in una realtà più complessa.
- Lavorate su progetti a differente scala cha vanno da edifici plurifamiliari a ville unifamiliari, fino
a scuole, centri geriatrici, istallazioni sportive, come
riuscite a risolvere i conflitti tra realtà tanto distinte?
Le differenti scale non sono il vero problema
quanto lo è la conoscenza del programma e del contesto. Diamo inizio ai progetti con processi di dissezione della realtà con la quale abbiamo a che fare.
Utilizziamo diagrammi operativi per far luce
sull’esplicito e implicito di ogni situazione, e con
una visione sempre locale lavoriamo con l’intorno e
le sue circostanze, cercando opportunità di creare
una città oltre quella del nostro progetto e cercando
di convertire il conflitto in opportunità. Abbiamo la
premessa di non lavorare “per” i nostri clienti ma
“con” loro. Lavoriamo sempre con uno sguardo trasversale strettamente legato col cliente per cercare le
migliori opportunità, con i responsabili politici per
convertire ogni progetto in una opportunità della città, e con gli utenti finali per definire meglio le loro
necessità presenti e future.
- Nel vostro lavoro conferite una speciale attenzione al contesto che considerate il vero filo narrativo del progetto.
Il contesto è basato nell’unione di circostanze
che vincolano un luogo ed il suo tempo, le necessità
presenti e future, un intorno esistente e la sua visione del futuro, e queste relazioni devono essere comprese per poter loro offrire risposta. Il nostro lavoro
si basa non solo nel comprendere la complessità nella quale si muove la nostra professione, ma avvolgerla perché faccia parte del processo creativo del
progetto. Se un progetto sa capire il contesto e può a
suo modo risolvere problematiche urbane, la città
sempre finirà per restituirci questa generosità. In
questo senso il contesto non solo svolge un ruolo
simbolico, ma soprattutto costituisce una grammatica progettuale: le sue geometrie, la sua narrativa e la
sua capacità di essere architettura potenziale sono
proprietà essenziali per la nostra forma di progettare.
- Qual è la chiave per riuscire a trasferire una
dimensione emozionale alla vostra architettura?
Affrontare la soluzione di ogni progetto comprendendo la scala umana, urbana e metropolitana.
Essere coscienti del fatto che lavoriamo per la nostra
società con progetti destinati ad esser vissuti da persone, ma anche vissuti in termini di città. Tutti i
progetti, per piccoli che siano, attraversano tutte le
scale e la nostra architettura deve identificarsi emozionalmente con esse. Perciò è necessario capire la
società nella quale viviamo ed i mutamenti nei quali
è immersa.
- Il vostro studio ha volontà ad essere internazionale con progetti in Spagna, Francia e con architetti associati a Parigi e Guadalajara (Mexico).
Avete terminato la prima fase di un progetto di riassetto urbanistico ad Ivry-sur-Seine (Francia), l’Ecoquartiere Carnot-Vérollot. Adesso che state iniziando il progetto definitivo dei differenti edifici,
l’urbanizzazione, gli spazi pubblici e paesaggistici,
come immaginate la sua rivitalizzazione?
Il settore Carnot-Vérollot, ad Ivry-sur-Seine,
rappresenta il primo grande progetto internazionale
dello studio. L’obiettivo consiste nella dinamicizzazione di un quartiere con un tessuto urbano eteroclito che combina alta densità con piccole case unifamiliari.
Il masterplan, già completato, permette la preservazione dello spirito della piccola scala urbana mentre allo stesso tempo rappresenta una riflessione sulla densificazione e la compattezza urbana in una
grande opportunità di creare città. Attraverso lo studio diagrammatico delle linee di forza del territorio
abbiamo riscattato le sue impronte storiche per la
creazione, a partire dallo spazio pubblico, di un progetto denso e compatto che abbraccia il meltin-pot
sociale e tipologico. Grazie ad una strada di transito
leggera, ad un giardino condiviso ed un orto educativo si è cercata la permeabilità del cuore del lotto
attraverso i suoi spazi pubblici e gli spazi urbani
pubblico-privati (EPP) o semi privati, che permettono di mettere in marcia strategie urbane per favorire
l’integrazione e l’interrelazione dei diversi attori sociali del vicinato, nelle sue diversità. E’ un progetto
che include programmi molto diversi, per 6000 mq
di residenza per giovani lavoratori, 280 appartamenti
liberi, e il 43% di appartamenti di protezione ufficiale, un asilo ed anche una zona commerciale che tutti
insieme sostituiscono l’eco-quartiere, il quale dovrà
garantire la massima qualificazione ambientale francese HQE-BBC, nel considerare la sostenibilità urbana non solo un obiettivo di efficienza energetica
ma anche e soprattutto di valore sociale.
- Nel campo dell’abitazione avete svolto un lavoro esaustivo di adeguamento ai nuovi tempi con
progetti come la Colin’s House o gli appartamenti
di Coll i Vehì. Recentemente, avete concluso il progetto “Less than a tower” nel quartiere Sants di
Barcellona, che come una sorta di mini-grattacielo
giapponese riesce a dispensare viste ed a sfruttare
al massimo la luce dei 34 appartamenti, come avete
risolto concetti come la rigenerazione urbana, la
densità e la compattezza, l’edificio relazionale, la
differenza e la ripetizione?
Il progetto Less Than a tower è un esercizio di
densità e compattezza ed al tempo stesso un riattivatore dello spazio urbano. Crediamo nella città densa,
nella città compatta, ma anche nella città sostenibile
e perciò ci proponiamo di convertire un edificio, che
il PGM (piano generale metropolitano) proponeva di
5 piani e 70 m di facciata, in un edificio di 11 piani e
12,45 m di facciata. Convertiamo cioè un edificio “muro” in un edificio - cerniera rivolto ai quattro
venti. Siamo riusciti a convertire un edificio semplice per la sua configurazione volumetrica ed insensibile alle condizioni del contesto in un edificio artico-
lato nei volumi e sensibile alle strade laterali, oltre
che particolarmente attento al viale di scorrimento
principale (Paseo Sant Antoni) dotandolo così di
scala urbana a partire da quella umana.
Come risultato la città ci ha guadagnato una
piazza e la conservazione di una rampa pedonale esistente che risolve il problema del quartiere (El
Triangle), con stradine e vicoli stretti. Altra premessa importante è il nostro interesse nel pensare di fare
edifici relazionali, non oggetti muti, autistici, fissi,
ma progetti che cambiano a seconda della luce (facciata in alluminio), e che favoriscano la creazione di
spazi pubblico-privati (EEP), di incontro (pianta palafittica), progetti che aiutino a capire la sezione di
una strada (patio inglese nei differenti ingressi), edifici che tentano di stabilire un dialogo con l’intorno
senza cadere nell’autocelebrazione. In altre parole
far edifici vivi, con letture diverse e con risposte
mutevoli.
Nel modo di fare architettura del giovane studio
si percepisce una chiara intenzione di andare oltre
una mera e statica ricerca formale incorporando il
vettore tempo nella progettazione cercando di conferirvi una dimensione emozionale, lontano dall’idea
obsoleta dell’edificio fine a se stesso, alla continua,
e quasi ossessiva, ricerca di flessibilità ed adattabilità degli spazi.
Archikubik riprogetta e riformula certe convenzioni tanto dell’architettura domestica quanto di
quella pubblica che non sempre architetti e committenti son disposti a modificare, spesso non coscienti
della necessità di evolvere. Si tratta di questioni, non
legate all’apparenza o all’estetica, quanto proprio al
fare architettura, che vincolano questa ai fattori
dell’essere e del generale fare umano.
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Luigi Picone (a cura di)
La costa del golfo di Napoli
La ricerca, nel ricostruire le trasformazioni più evidenti
del Golfo di Napoli, uno dei più felici contesti naturali
della nostra penisola, tanto meraviglioso quanto devastato dagli uomini, riassume lo studio del paesaggio
della costa, ossia del “cratere”, con le sue frastagliate
insenature tra Capo Misero e Punta della Campanella.
Costituito da una profonda baia, preannunziata da un
lato dall’isola di Capri e dall’altro dalle isole di Ischia e
Procida, il Golfo di Napoli ha attratto in ogni tempo
popoli diversi ispirando poeti, pittori, musicisti e uomini di ogni campo artistico.
Alle trasformazioni che hanno caratterizzato il territorio, alla mancata correlazione dei suoi elementi costitutivi recenti con nuclei urbani originari, alla commistione di elementi contrastanti, ai differenti usi del territorio relazionati alle dinamiche economiche e sociali, agli
sconvolgimenti geografici del passato più antico e contemporaneo, alla continua trasformazione delle coste, si
è aggiunto l’improprio consumo del suolo con la realizzazione di infrastrutture, cave, insediamenti urbanistici,
quasi mai controllati, e l’inquinamento dell’aria, del
mare, dei laghi e dei terreni produttivi.
Fernando Espuleas
Il vuoto
Riflessioni sullo spazio in architettura
Il saggio indaga il vuoto sia come concetto assoluto (la
mancanza), sia nella sua concretezza materiale (spaziale, architettonica). Come contrappunto alla rigorosa
struttura della trattazione, questa duplicità analitica è
testimoniata da una certa libertà di associazione di opere appartenenti a tempi e luoghi distanti tra loro, in cui
il vuoto si manifesta di volta in volta come assenza
(nelle stanze vuote dipinte da Van Gogh e da Hopper),
simbolo (nel palazzo di Cnosso), rinuncia (nelle architetture di Mies van de Rohe), destino (nella dottrina
taoista) o riflesso di uno stato d'animo (nelle incisioni
di Piranesi).
Considerare il vuoto nella sua fisicità presuppone forse
un approccio distante dalla nostra sensibilità: mentre in
Oriente il concetto di vuoto, profondamente radicato
nella cultura e nel sentire comune, è punto di partenza
ed attivo strumento progettuale (tanto nella casa giapponese quanto nel giardino zen); in Occidente il vuoto
diviene un utile momento di lettura ed analisi (della polis greca così come dell'architettura moderna), ma non
solo. Il vuoto in architettura, garante di senso e strumento compositivo, funziona anche da stimolatore emozionale: solo per fare un esempio, forse è proprio la
perfetta e densa vacuità dello spazio interno del
Pantheon che continua a meravigliarci a duemila anni
dalla sua costruzione.
Roberto Terrosi
La filosofia del postumano
Postumano: l’ibrido uomo-macchina, l’uomo totalmente sintetico della robotica, l’uomo contaminato, potenziato, mutato dalle sue protesi tecnologiche. Ma non solo. Postumane sono anche tutte le
manifestazioni di ricostruzione del sé attraverso la
tecnica o le produzioni artificiali di identità che
toccano da vicino i centri nevralgici del nostro vivere.
Già in uso nell’arte contemporanea e nelle controculture cyberpunk, il concetto di postumano può
diventare dunque una chiave per comprendere il
mutamento antropologico che caratterizza l’età
dell’informazione mettendo definitivamente in
crisi i valori dell’universo umanistico. E’ necessario quindi, anche n ambito filosofico, uscire da
uno sterile atteggiamento resistenziale per interrogarsi sulla trasformazione in atto e guardare lucidamente alle possibilità che essa dischiude.
Maurizio Cecchetti
Pelle di vetro
Dopo una serie di fallimenti etici ed estetici,
l’architettura gode oggi di un’attenzione pubblica
che da tempo aveva perduto. Ma a questo corrisponde, paradossalmente, la crisi della sua grande
utopia: essere la forma materiale e visiva della
democrazia. Un sogno coltivato da Gropius fin
dalla fondazione della Bauhaus, ma presto naufragato con l’avvento dei regimi totalitari. Il secondo
dopoguerra, con l’urgenza di ricostruire intere città distrutte dai bombardamenti, diede agli architetti una nuova chance per tentare di realizzare il sogno di Gropius, Mies van der Rohe, Le Corbusier,
Mendelsohn e molti altri. La tabula rasa prodotta
dalla guerra fu una tragica e propizia occasione
per cimentarsi con un grande progetto di rinascita
delle città europee, mentre il design assumeva un
ruolo nuovo espresso dalla filosofia-manifesto redatta nel 1954 da Argan («A quantità illimitata
corrisponde qualità illimitata»). Ma sarà lo stesso
Argan, dieci anni dopo, a scrivere anche il de profundis dell’utopia del design, constatando
l’impossibilità di conciliare l’etica democratica del
“progetto” e gli interessi economici. Fu anche
l’inizio di un esame di coscienza sul dogmatismo
sterile dell’architettura funzionalista e razionalista.
Nel 1980 la Strada Novissima tenne a battesimo
l’epoca postmoderna dell’architettura che, nonostante crisi e tradimenti, vive oggi la propria apoteosi nell’opera di “archistar” come Koolhaas,
Gehry, Libeskind, Fuksas, Nouvel. Gli architetti
del nostro tempo lavorano per chiunque paghi e
profumatamente, anche se si tratta di regimi autoritari; e l’estetica dei loro edifici rispecchia il pensiero unico dell’economia. Ma la nuova “rettorica”
in realtà non è tanto diversa dalla lingua dei dittatori che attraverso l’architettura hanno soggiogato
lo spirito delle masse. Il totalitarismo attuale si
regge sulla subdola equivalenza fra democrazia e
consumo, benessere e ricchezza. E l’architettura
fantasmagorica di oggi ne è la rappresentazione
estetica. Questo saggio tenta di spiegare la svolta
che ha mutato i cromosomi dell’architettura rendendola negazione di se stessa.
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