Teatro Metastasio
Stabile della Toscana
1964
2014
50
anni nel segno
del grande teatro
Un teatro in movimento
fra innovazione e tradizione
a cura di
Massimo Luconi
ISBN 978-88-8347-736-2
© 2014 s i l l a b e
www.sillabe.it
direzione editoriale: Maddalena Paola Winspeare
progetto grafico: Laura Belforte
editing: Barbara Galla, Giulia Perni
ricerca iconografica: Francesco Marini, Marta Marti, Gianna Mattei
sillabe
Sommario
7
9
Presentazioni
Matteo Biffoni Sindaco di Prato
Massimo Bressan Presidente del Teatro Metastasio Stabile della Toscana
10
Un teatro come anima della città
Umberto Cecchi
14 1964-1974
I primi dieci anni
96
15
19
33
37
97
103
111
Il restauro, la riapertura del teatro
Montalvo Casini, una direzione che apre il Metastasio al teatro italiano e internazionale
Il gruppo “Teatro e Azione” di Strehler
Il Teatro Studio, una fabbrica di talenti
401976-1979
Il Laboratorio di Luca Ronconi
41
46
50
54
Un’officina creativa e un progetto pilota del teatro contemporaneo
Calderón
Le Baccanti
La torre
112
113
116
118
125
126
132
137
1994-2000
La direzione di Massimo Castri
Una produzione nel segno della grande regia
Un Teatro che si fa pubblico. Il sogno realizzato di Massimo Castri
Il lavoro di Renato Borsoni
2000-2014
Un teatro stabile dinamico e vitale
Una nuova dimensione di teatro pubblico
Uno stabile in movimento. La direzione di Massimo Paganelli (2000-2002)
Altri sguardi. La direzione di Massimo Luconi (2002-2005)
Sotto il segno della drammaturgia. La direzione di José Sanchis Sinisterra (2005-2007)
Per un teatro della realtà. La direzione di Federico Tiezzi (2007-2010)
Per un teatro europeo. La direzione di Paolo Magelli (2010-2015)
Quando il Met apre i confini
58Il Fabbricone
59
70
Uno spazio di dimensione europea
Una casa per la regia
84
1980-1993
Un centro di progettazione teatrale
e un teatro radicato nel territorio
85
91
94
La continuità del lavoro di Montalvo Casini
La direzione di Gabriele Lavia
I progetti di Fulvio Fo
144Altri territori
145
151
152
Il teatro delle nuove generazioni
Met Jazz
Crediti
A 50 anni dalla rinascita del Teatro Metastasio, Prato ha in questo suo gioiello culturale un simbolo del fermento artistico che caratterizza la città, un fiore all’occhiello che dagli anni Sessanta a oggi lo ha visto crescere, cambiare, svilupparsi sempre con grandi risultati. Oggi non posso non ricordare l’impegno dell’allora sindaco Roberto Giovannini che
nel 1964 tanto si è battuto per restituire alla città il suo grande teatro. Un teatro che non è mai rimasto fermo, immobile,
ma che ha saputo essere dinamico e vitale, al centro della sperimentazione culturale con produzioni di grande livello
che hanno saputo dare spazio alla ricerca di nuove modalità espressive, attirando progetti di grandi registi e artisti di
fama internazionale. Da sindaco non posso che essere orgoglioso, oggi, di poter vantare i grandi risultati ottenuti dal
Teatro Metastasio in quest’ultimo mezzo secolo, consapevole che, mentre si discute dell’importante riforma sui teatri
nazionali, Prato può mostrare all’Italia e al mondo un’eccellenza vera, capace di coniugare innovazione, ricerca e
tradizione, cartelloni che negli anni hanno ospitato e prodotto spettacoli di grande livello entrati a far parte della storia
del teatro contemporaneo.
Oggi il Metastasio è per la città di Prato un simbolo e allo stesso tempo una scommessa. Da sindaco ho l’onore e l’onere di sostenere e promuovere un grande teatro in un momento cruciale per il sistema teatrale italiano, consapevole che
qui risiede uno dei più importanti centri per lo sviluppo culturale non solo della Toscana, ma dell’Italia. La storia di questi 50 anni ne sono una prova, il futuro del Metastasio sarà un’ulteriore dimostrazione della grandezza del nostro teatro.
Matteo Biffoni
Sindaco di Prato
Sfogliare le pagine del volume sui 50 anni del Teatro Metastasio è un’occasione per ripercorrere, o per scoprire, una
straordinaria avventura culturale che si è svolta in una città industriale toscana. Una città che all’apice del suo sviluppo
economico si interrogava sul ruolo che il Teatro poteva avere nell’accrescere la consapevolezza dei cittadini rispetto
ai fenomeni sociali, politici ed economici che così fortemente condizionavano la loro esistenza. Scorrendo le bozze
di questa pubblicazione, proprio nei primi giorni del mio incarico, si rafforza la convinzione che la città di Prato sia
stata capace di promuovere un intenso e originale lavoro culturale che, a partire dal Teatro Metastasio, ha coinvolto
progressivamente spazi fisici urbani, come ad esempio il Fabbricone, il Museo Pecci, l’ex complesso della Campolmi,
con l’obiettivo di rileggere la propria storia e il proprio presente (come dimenticare grandi operazioni come la Storia
di Prato, curata da Fernand Braudel, o il Piano urbanistico curato da Bernardo Secchi e i suoi collaboratori che venne
presentato proprio nel Fabbricone).
Le immagini e le narrazioni raccolte in questa pubblicazione innescano emozioni, pensieri e memorie connesse ad allestimenti, soluzioni tecniche, grandi interpretazioni, regie magistrali prodotte e rappresentate nei nostri Teatri: Giorgio
Strehler che negli anni Settanta aveva scelto proprio il palcoscenico del Metastasio per le sue regie; Luca Ronconi e il
suo Laboratorio nello spazio industriale del Fabbricone; i registi e i gruppi che a Prato hanno trovato ospitalità al loro
esordio, dal Living Theatre alla Socìetas Raffaello Sanzio, fino alle produzioni del Teatro Stabile firmate da Massimo
Castri, Eimuntas Nekrošius, Federico Tiezzi, Peter Stein e Paolo Magelli. Ma sono solo alcuni dei nomi che compongono questa storia, l’elenco è molto lungo come i lettori sapranno apprezzare. Quello che risalta è che siamo di fronte
a una pagina importante del teatro italiano. Una pagina scritta attraverso il lavoro di un Teatro comunale che negli
anni, attraverso le varie direzioni e le diverse amministrazioni, ha sempre saputo coniugare l’alto profilo artistico con
la ricerca e la sperimentazione.
Vorrei rivolgere un ringraziamento particolare al Presidente e al Consiglio di Amministrazione che mi hanno preceduto,
ai direttori e a tutto il personale per l’impegno e l’entusiasmo con il quale hanno lavorato nella ricostruzione di questo
cinquantennio. Ma siamo solo al primo volume: la storia del Metastasio continua.
Massimo Bressan
Presidente del Teatro Metastasio Stabile della Toscana
UN TEATRO COME ANIMA DELLA CITTÀ
10
Erano gli anni Sessanta. Quelli del boom. Gli anni durante i quali il nostro paese credeva di star consolidando per
sempre il suo futuro. La Fiat aveva lanciato sul mercato in espansione sfrenata la macchina per tutti, e le imprese
sembravano avere lavoro per tutti. Nessuno escluso. Cultura, scienza e politica erano convinte di aver trovato la
formula per lo sviluppo della felicità: una felicità su misura, più o meno accomodata secondo i desideri di ognuno,
diversificata fra lotte sindacali ancora aspre ma necessarie per consolidare il domani, e giovani aspirazioni studentesche che avrebbero chiuso il decennio fra canzoni di protesta, scontri, conquiste, illusioni, che certamente
avrebbero poi cambiato molte cose. Ma non sempre in meglio. Successi e naufragi, e fra i naufragi futuri scuola e
famiglia: i pilastri dell’etica e dell’estetica.
In agguato, sulla via di queste trasformazioni epocali, c’era il terrorismo, che avrebbe contrassegnato gli anni
Settanta con molte ferite insanabili. Ma tutto questo, nei primi anni Sessanta, nessuno ancora lo immaginava. Sartre
e Brecht raccontavano la società degli anni precedenti con drammi nei quali si ritrovava il nostro dolore di europei
usciti massacrati – vincitori e vinti – da ideologie e guerre disastrose. Dall’America O’Neill, Tennessee Williams,
Miller ci spedivano il loro pensiero tradotto per il palcoscenico, in attesa che arrivassero il Living Theatre e la guerra
in Vietnam a travolgere tutto: certezze sceniche e storiche. La commedia italiana, quella scritta, non quella cinematografica che vedeva al centro Sordi e Fellini, era ancora ancorata a Pirandello, e lo sarebbe stata per anni, prima
di scoprire gli arrabbiati inglesi alla Pinter e Osborne, gli Angry Young Men, ormai invecchiati anche loro. Dimentica
perfino Londra, dove continuano a tener botteghino le commedie della Christie.
È questo il quadro, ipersintetico, degli anni in cui il Metastasio uscì dalle mani dei restauratori per aprire di nuovo
le porte ai suoi spettatori. Era nato nel Settecento, il vecchio teatro pratese, voce accorta dell’alta borghesia dell’epoca che faceva capo alla vicinissima ‘Accademia dei Misoduli’, gli odiatori della noia. Portava il nome del Trapassi
e aveva un suo blasone ricco di storia e di serate memorabili per le cronache della città per oltre cent’anni. Aveva
resistito eroicamente alla Prima grande guerra, poi la Seconda guerra mondiale l’aveva zittito, e il tempo necessario
affinché con la pace anche la vita riprendesse i suoi ritmi l’avevano fatto invecchiare in una solitudine che per un
teatro è agghiacciante controsenso.
Il silenzio, il buio, l’indifferenza uccidono i palcoscenici che chiedono luci, vita, parole e musiche. Ma in una città
fortemente dedita al lavoro come Prato, prima di rialzare i sipari sui palcoscenici c’erano da riaprire i portoni delle
fabbriche. E così fu fatto, senza però dimenticarsi che l’uomo non può vivere di solo pane.
Fu Roberto Giovannini, un sindaco richiamato dal Parlamento per guidare la città in netta ripresa economica, a
ricordarsi del teatro. A pensare che lo spettacolo è cultura, è il modello della vita.
Era un comunista rigoroso, Giovannini: sia in politica sia in economia i conti dovevano sempre tornare. Al di là dei
compromessi, che se c’erano non dovevano mai influenzare le cose oltre il lecito. Intelligente, caparbio, legato da
un afflato particolare alla città alla quale era fortemente unito, ricercatore attento delle piccole cose come dei personaggi che l’avevano fatta progredire nel tempo, era un pratese anomalo, almeno in alcune cose. Per esempio non
dimenticava mai il passato né i fatti e i personaggi che lo avevano contraddistinto. Amava i libri. Era un lettore quieto
ma attento. Capiva i messaggi e li sapeva spiegare alla sua gente. Fu lui, a proposito di teatro, a scoprire la figura
di Evaristo Gherardi, un pratese che nel Seicento fu l’Arlecchino di Re Sole al Palais de Bourgogne, il teatro della
Commedia dell’arte degli italiani. Quella protetta dal re, l’attore che ha permesso al mondo di conoscere cos’era
davvero il teatro dei commedianti italiani in Francia. Ne aveva infatti raccolto i canovacci scrivendone le battute,
che erano recitate all’impronta e nessuno trascriveva, reinventandole sera dopo sera. Le requeil diventò la bibbia
di ogni buon commediante o critico.
Volle riaprire il teatro, Giovannini: risparmiò su molte cose, da buon ragioniere fece i conti al centesimo,
e il ‘Met’ – così lo chiamarono subito i pratesi con grande affetto, strano in una città tendenzialmente poco romantica – agli albori degli anni Sessanta riaprì il sipario con Il trovatore: perché quello era un teatro di tradizioni liriche.
Perché la città amava la lirica. E la linea culturale fu rispettata, ma i conti non tornavano. Il melodramma era un lusso
che richiedeva denaro, sempre più denaro. E fu necessario riconvertirsi alla prosa, che intanto stava prendendo
sempre più spazio.
Ci furono momenti non facili per conciliare fabbrica e palcoscenico. La città lavorava a ritmi incredibili notte e
giorno. A migliaia erano arrivati, dal sud e dal nord, disoccupati in cerca di un posto e di una vita dignitosa, e la
trovarono qui, dove il pane era davvero per tutti e per tutti aveva lo stesso sapore. Non era come in altre zone d’Italia,
dove sulle porte della case c’erano cartelli con su scritto ‘Non si affitta ai meridionali’. Qui, i meridionali trovarono il
loro nuovo mondo. Scoprirono che non si doveva andare per forza in America. Diventare dei ‘dago’ per sopravvivere.
Sociologi e antropologi avrebbero potuto e potrebbero ancora oggi scrivere dei trattati su tutto questo. Una città
davvero unica. Come davvero unica fu riuscendo a legare il mondo del lavoro con quello del teatro.
Ci furono attimi di smarrimento: accanto a una città che esplodeva il teatro doveva trovare il suo ruolo. Fu una politica
intelligente, che era ben diversa da quella di oggi, perché più spigolosa e contrapposta, ma anche molto più attenta,
che riuscì a risolvere il problema, scegliendo un ragioniere del comune e nominandolo direttore del Metastasio.
Montalvo Casini si riciclò da impiegato comunale in un creativo uomo di scena, in amministratore attento, rigoroso, in
conoscitore della gente, in lettore acuto di copioni, ascoltatore e valutatore attento di attori e registi. Fu il vero genius loci
che dette forza fisica e intellettuale alla struttura. Facendone rapidamente il centro più impegnato e seguito della Toscana.
Troppi se ne sono dimenticati, anche a Prato, ma furono gli anni in cui treni speciali e autobus arrivavano ogni
settimana pieni di giovani e meno giovani per assistere alle rappresentazioni; gli anni Sessanta finirono per diventare ancora una volta un qualcosa da studiare da parte dei sociologi e degli storici. Furono gli anni in cui un teatro
settecentesco scoprì la propria contemporaneità, affascinò giovani e meno giovani, richiamò dalla stessa Firenze
centinaia e centinaia di spettatori, dimostrò che le cose non si dovevano solo dibattere, parlare, filosofare, ma
soprattutto si dovevano fare. È difficile spiegare come si arrivò a questo fenomeno del fare unico nel suo genere,
così com’è difficile, anche per me che ne sono stato un fondatore, capire come poté nascere, sviluppare e formare
decine di attori e registi, quel ‘Teatro Studio del Teatro Metastasio’ che in quegli anni Sessanta, sotto la guida di un
critico e storico del mondo della scene come Paolo Emilio Poesio, raccolse giovani arrivati da ogni parte mettendo
insieme una vera e propria scuola di recitazione, di costumistica, regia e scenografia. Un nucleo quasi unico, che
raccolse attorno a sé la maggior parte dei teatri giovani e sperimentali della regione. Che scoprì e lanciò molti degli
attori che oggi vanno per la maggiore.
Fu qui che nacquero Roberto Benigni, Pamela Villoresi, Marcello Bartoli un Arlecchino squisito noto in mezzo mondo,
Saverio Marconi il più importante regista italiano di commedie musicali, Paolo Magelli e tanti altri, molti dei quali
lavorano all’estero, in Francia e Spagna.
Tutto questo lo si deve a Montalvo Casini e a un’amministrazione comunale che aveva il coraggio delle sfide e
non temeva di scontrarsi coi vicini. Il ‘Met’ è diventato un teatro di produzione di spettacoli, il più importante della
Toscana, degno di stare pari a pari con le grandi istituzioni teatrali italiane, perché non ha mai basato le sue decisioni affidandosi a criteri partitici, a lotte di parte, ma basandosi solo su scelte culturali che hanno sempre avuto,
unanime, l’appoggio di maggioranze e opposizioni. Quello che contava era il servizio per la città, era quella eredità
culturale riproposta dal sindaco Giovannini e rinnovata anno per anno. E anche questo meriterebbe uno studio appropriato. Nel miei anni di presidenza non ho mai ricevuto richieste o ordini né da una parte né dell’altra su come
dovevo condurre il mio mandato. E ho avuto ascolto e attenzione tutte le volte che l’ho richiesto.
È stato anche questo uno dei segreti che hanno fatto grande il teatro portandolo per cinquant’anni a piazzarsi fra i
11
primi del Paese. E che, in una città dove l’attenzione è puntata molto sul lavoro e la produzione – ancora oggi che
i tempi su questo piano sono più difficili – è stato il supporto assoluto a questa ‘cultura del lavoro’ rafforzandola e
consolidandola. Una realtà che difficilmente si ritrova altrove. Basta pensare che ci sono città italiane, dove molti
teatri, nel tempo, sono svaniti nel nulla, in mezzo all’indifferenza, altri sono stati recuperati a malapena ma spesso
seguitando ad attirare solo un pubblico scarso, presente più per ‘esserci’ che non per il piacere di assistere a un
buon spettacolo.
12
Qui le cose sono andate diversamente, l’attenzione non è mai venuta meno, e gli appuntamenti con i grandi del
palcoscenico sono stati affascinanti e lunghi nel tempo. Hanno dato vita a rapporti molto stretti.
Una storia fascinosa della quale Carmelo Bene, con la sua presenza, ha scritto alcune pagine di creatività e fantasia.
Con lui, da giovane, ho passato nottate a base di whisky e Majakovskij, Pinocchi e Fatine dai capelli turchini, discussioni a non finire, vagabondaggi all’alba prigionieri delle bizzarrie del tramontano pratese, accompagnati dai versi
della Nuvola in calzoni o da Babbo, babbino mio, di un imprevedibile Pinocchio. Ho imparato molto. Forse troppo.
Così è stato con Giorgio Strehler, che per un paio di anni aveva fatto del Metastasio la sua dimora stabile: la sera
al ristorante Tonio, mentre sorbiva svogliato il suo ‘canarino’, mi spiegava i segreti del mondo delle scene, mi descriveva le sue incertezze, mi diceva come prima o poi avrebbe messo in scena le Baruffe Chioggiotte in piazza
Mercatale. Quando Paolo Grassi venne a riprenderlo per riportarlo al Piccolo, il ‘suo’ teatro, mi apparve triste come
uno studente recuperato dal preside dopo una marachella. Lui e Casini erano diventati inseparabili.
In questo grande avvicendarsi di nomi e avvenimenti, dove non mancarono né la Fitzgerald né Duke Ellington,
Count Basie e Dizzy Gillespie – il grande indimenticabile jazz del momento, voluto da Casini che ne era appassionato –, non mancarono momenti di tensione. Colpa di Alberto Arbasino che scrisse, nel libro dedicato a Venezia e
Firenze, intitolato arbasinianamente Due orfanelle, che Prato era la periferia culturale di Firenze. Cadde il mondo
sul cupolone e qualche fiorentino minacciò di fare harakiri, ma la cosa passò quasi subito sotto silenzio. In fondo
quello scavezzacollo della cultura italiana aveva detto una mezza verità: a Firenze i teatri erano quasi tutti inattivi; la
Pergola, legata al circuito ‘Eti’ distribuiva quel che passava l’istituzione, e il piatto forte era rimasta la Rassegna dei
Teatri Stabili che poi l’alluvione interruppe e dovette proseguire al ‘Met’. La rassegna era stata un’idea di quel grande uomo di teatro che era Alfonso Spadoni, grande direttore del massimo teatro di prosa fiorentino, forse uno degli
ultimi grandi direttori storici italiani, legato ai teatri di mezzo mondo. Con lui andavo spesso al ‘Bottegone’, per un
caffè e per ascoltarlo. Spesso c’era Ugo Zilletti, docente di diritto romano, allora presidente della Rassegna dei teatri
Stabili, e Giorgio Polacco critico teatrale che sfidava sempre Spadoni, pungolandolo sul repertorio della Pergola.
Il Metastasio intanto aveva infilato una serie di stagioni di grande impeto e forza scenica. Era qui che si davano
appuntamento quei santi maledetti del Living, sfrontati, nudi come la verità – come diceva Julian Beck, loro fondatore – e che attiravano il mondo dei giovani, che si riconoscevano nella loro rivolta, e quello dei meno giovani, che
volevano capire. Vissi a lungo il loro mondo e la loro inarrestabile creatività che era una sfida quotidiana, e feci un
po’ di trait d’union fra Julian e Casini, mettendo insieme tante cose di quei giorni si potrebbe scrivere un libro, tutto
finì a un tratto, una sera a Berlino, quando il Living si sciolse in un ultimo spettacolo sul quale aleggiava l’odore acuto
dei würstel. Anni dopo ritrovai un’attrice che aveva fatto parte del gruppo: stava morendo in una fetida stanza di
Kathmandu divorata dalla droga. Era stata innamorata di un ragazzo di Prato e mi affidò delle poesie che mi furono
rubate a Lhasa assieme alla borsa che le conteneva.
Fu Ronconi coi suoi grandi spettacoli carichi di novità sceniche e improntati a un nuovo modo di raccontare, a volere per Prato un teatro fabbrica, il ‘Fabbricone’ appunto, accanto al quale nacque presto il ‘Fabbrichino’, il teatro
per ragazzi conosciuto in tutto il mondo e a chiudere il cerchio delle grandi iniziative del ‘teatro comunale’, che
poco dopo si avviò a diventare ‘fondazione’, con tre soci rappresentati dal Comune, dalla Provincia di Prato e dalla
Regione Toscana. In quel momento direttore e fautore dell’iniziativa era Massimo Castri, solitario creatore di storie
bellissime, l’ultima delle quali, La cantatrice calva, viene distribuita ancora oggi nei teatri italiani: poco prima di
morire la mise in scena proprio per il ‘Met’, che lui aveva voluto diventasse Produttore Stabile della Toscana. E alla
sua morte è stato nel Ridotto del ‘suo’ teatro che fu deposta la sua bara e che fu reso omaggio, da attori e registi di
tutta Italia, alla sua intelligenza di uomo libero e schivo nel corso di una cerimonia breve, come lui avrebbe voluto
fosse se avesse potuto farne la regia.
Mentre lo ricordavo ai presenti con poche parole, ero profondamente turbato, pensando che altri teatri non avevano
voluto ospitare il feretro di un uomo che in vita avevano osannato. Ma ‘sic transit gloria mundi ’. Castri è parte ancora
viva della nostra storia. E nel nostro teatro “chi gli diede il mantello per coprirsi, lo accompagnò alla santa sepoltura”, per dirlo con Sem Benelli. La città e il suo teatro, gli furono vicini.
Gli ultimi cinquanta anni del ‘Met’ meritavano un libro. Direi che meriterebbe un libro ogni periodo che contraddistingue la sua rinascita e la sua crescita progressiva fino all’ultima fase che ha visto istituire una giovane compagnia
stabile che ha all’attivo una serie di successi, due dei quali hanno debuttato a Spoleto nell’ambito del Festival dei
Due Mondi con gran successo di pubblico. La compagnia non ha lavorato solo sui palcoscenici: è entrata nelle
scuole medie e superiori, ha insegnato ai giovani studenti recitazione e storia del teatro. Perché una delle grandi
forze del teatro è stata proprio quella di non limitarsi solo allo spettacolo ma di dedicarsi anche all’insegnamento. A
potenziare l’attenzione dei giovani per le scene e a cercare di legare le diverse culture che attecchiscono in città, le
diverse lingue e i differenti modi di pensare, organizzando anche spettacoli – altri sono attualmente allo studio – tra
etnie diverse, perché l’integrazione avviene anche così: ricorrendo alla forza della cultura e ai suoi meccanismi di
mediazione e comunicazione, all’impegno del rapporto umano, alla vitalità del mondo delle scene.
Credo che solo una città come questa, così composita, così unita nel lavoro in un momento in cui il lavoro purtroppo
manca, e i giovani cercano il loro domani, una città dotata di una struttura così forte e incisiva come il suo teatro,
possa intrecciare dialoghi basati su una pluralità di voci. Di lingue. Di storie. Una volta Adriano Seroni, l’ideatore
e conduttore dell’Approdo, ai tempi in cui la radio metteva ancora in onda cose degne di nota e la Tv ogni tanto si
ricordava di mettere in scena una commedia, magari in bianco e nero – e non il vuoto paralitigioso blablabla di ogni
sera –, ebbe a dirmi che la città sarebbe stata il laboratorio ideale per una cultura nuova. “Ma – aveva aggiunto –
non se ne rende conto”.
Il libro che avete per le mani non va sfogliato, va letto, va guardato in ogni sua immagine. È una testimonianza viva
della nostra contemporaneità alla ricerca di un punto fermo che ci permetta di capire il nostro futuro. Il Metastasio è
uno degli strumenti utili per un’analisi di questo tipo. Badate, non è solo il frutto del lavoro dei presidenti, dei registi,
né dei direttori che vi si sono alternati, è, per quanto posso testimoniare personalmente, il frutto di un raccordo stretto con le maestranze che sono le prime ad amare il loro teatro e il loro lavoro. Qualunque inquietudine, se inquietudine talvolta c’è, nasce solo dal timore che questo meccanismo si interrompa. Che il ‘loro’ teatro rallenti la corsa, non
per una colpa della quale possano essere accusati, ma per vicende estranee alla sua storia e alla sua operatività,
ora che si sta pensando a una diversa sistemazione per i teatri italiani. Ma sono sicuro che questo non accadrà.
Che nessuno vorrà interrompere in nome di campanilismi, personalismi, pruriti egemonici, l’entusiasmo di questa
creatività. Cancellare cinquant’anni di storia a favore di chi questa storia manca. Credo invece che gli impegni futuri
debbano essere la creazione di un circuito culturale cittadino interconnesso: la scommessa vincente di un impegno
comune, patrimonio di tutti. Questo libro nasce anche per ricordarsi di tutto questo.
Umberto Cecchi
13
1964-1974 — I primi dieci anni
25. Una scena
da Il tumulto dei Ciompi
di Massimo Dursi
regia Roberto Guicciardini
stagione 1973/1974
22
25
22. Salvo Randone
in Enrico iv
di Luigi Pirandello
regia Josè Quaglio
stagione 1967/1968
23. Paolo Poli
in La nemica
di Dario Nicodemi
regia Paolo Poli
stagione 1968/1969
21
24
21. Giorgio Strehler e Milva
in Io Bertolt Brecht
recital di poesie e canzoni
regia Giorgio Strehler
stagione 1967/1968
23
24. Una scena
da Madre Courage e i suoi figli
di Bertolt Brecht
regia Luigi Squarzina
stagione 1969/1970
26
26. Lea Massari
in Il cerchio di gesso del Caucaso
di Bertolt Brecht
regia Luigi Squarzina
stagione 1973/1974
24
25
1976-1979 — Il Laboratorio di Luca Ronconi
5
CalderÓn
5. Giacomo Piperno
in Calderón
46
6. Edmonda Aldini
e Giancarlo Prati
in Calderón
Ronconi ha impostato una ricerca che passa attraverso lo smontaggio
del mezzo teatrale, la distruzione dei personaggi come entità soggettive
e distinte, un nuovo impiego degli spazi, un rapporto con l’interprete e lo
spettatore. Il principio di base non è più quello della rappresentazione,
ma della comunicazione. Lo scopo non è lo spettacolo, il prodotto finito,
ma il processo di ricerca. Da ciò deriva una serie di affascinanti conseguenze statistiche: una recitazione, per esempio, che abbandona ogni
verosimiglianza psicologica e diventa atonale, astratta; una gestualità
sciolta dalla logica e dalla consequenzialità e anche da qualsiasi richiamo simbolico; i personaggi che in quel modo si identificano con gli spazi,
vivendoli e percorrendoli secondo traiettorie che non esprimono linee di
tensione del testo, ma momenti comportamentali degli interpreti, dinamiche artificiose intese a tracciare figure geometriche immaginate ‘a priori’.
Roberto De Monticelli, Sul Laboratorio di Ronconi,
“Corriere della Sera”, 5 marzo 1977
6
47
Il Fabbricone
28
27
82
27. Mariangela Melato
in La centaura
di Giovan Battista Andreini
regia Luca Ronconi
stagione 2004/2005
La Centaura propone la teatralità come una specie di
categoria eterna. Fa riferimento a un’idea di teatro diversa dalla nostra. Per noi il teatro è la rappresentazione
di un fatto di fronte a una società, con Andreini invece
si ha sempre l’impressione che il gran teatro del mondo
sia una rappresentazione fatta per un occhio superiore.
Il teatro diventa così metafora del mondo, piuttosto che
suo specchio. Lungi dall’essere un riflesso della realtà, il
teatro di Andreini sembra suggerire che la realtà sia pura
rappresentazione, pura teatralità, che abbia per destinatario uno spettatore trascendente. In un periodo in cui
l’elemento ludico sembra essere fuggito dal palcoscenico
del mondo, mi piace ricordare a me stesso e agli altri che
il teatro non cessa di essere un gioco. È questa una delle
cose che apprezzo di più nel teatro barocco e in particolare in quello di Andreini: il ritrovarvi quell’elemento
di gioco troppo spesso perduto. Attenzione, però: il gioco non va confuso con il disimpegno, perché in qualche
modo è sempre la via attraverso la quale si esprime una
visione del mondo.
Luca Ronconi
28. Luigi Lo Cascio,
Maria Paiato
e Fausto Russo Alesi
in Il silenzio dei comunisti
di Vittorio Foa,
Miriam Mafai
e Alfredo Reichlin
regia Luca Ronconi
stagione 2005/2006
29. Una scena
da I demoni
di Fëdor Dostoevskij
regia Peter Stein
stagione 2010/2011
29
83
7
5. Una scena
da Il ritorno dalla villeggiatura
di Carlo Goldoni
regia Massimo Castri
stagione 1996/1997
6. Una scena
da Le smanie per la villeggiatura
di Carlo Goldoni
regia Massimo Castri
stagione 1994/1995
100
6
7. Fabrizio Gifuni
e Sonia Bergamasco
in Le avventure della villeggiatura
di Carlo Goldoni
regia Massimo Castri
stagione 1995/1996
1994-2000 — La direzione di Massimo Castri
5
La Trilogia della villeggiatura è un fatto unico nel panorama della
drammaturgia italiana per tanti fattori evidenti: il suo impegno, la
ricchezza di scrittura, la vastità della struttura. Ma unico anche
come patrimonio di grande realismo: l’ultima produzione goldoniana rimane in Italia una testimonianza isolata. È un fatto importante, che dà da riflettere. Io credo che si possa meglio comprendere
il lavoro di Goldoni, se lo si guarda più che nel suo significato
storico, nella fattualità dinamica di un lavoro teatrale, reale, concreto, da artigiano, da bottega di teatro; davvero se si dà un colpo
d’occhio dall’interno, vedendolo proprio come il lavoro di un uomo
di teatro, se ne riceve l’impressione di un grande laboratorio, che
ovviamente comincia molti anni prima della Trilogia; non un laboratorio scientifico, come potrebbe essere quello di Alfieri, ma
artigianale, nel senso che Goldoni vi elabora molto lentamente i
tentativi, i movimenti, a volte sbagliati a volte geniali, in avanti e
poi magari indietro. E tutto questo dentro la realtà teatrale dell’epoca, cioè partecipando attivamente a tutte le sue contraddizioni.
È un laboratorio che distilla ed elabora un po’ per volta, con una genialità di fondo assolutamente unica in Italia, un processo-cammino verso una grande scrittura realistica, che in Italia, dopo i grandi
episodi pre-rinascimentali casi isolati come quello di Machiavelli,
rimane una testimonianza unica. Il percorso compiuto da Goldoni
verso una scrittura realistica, capace di raccontare l’uomo nella
sua concretezza, normalità e piccolezza, nel suo esistere, senza
dimenticare che fa parte di una società, è un fatto forse unico in
Europa, da un certo punto di vista; anche grandi scrittori come
Lessing e Diderot – per prendere ad esempio la Germania e la
Francia, e cioè le due grandi culture teatrali che più attivamente si
muovevano in questo momento in Europa – raggiunsero esiti teorici di grandissima importanza, ma nessuno dei due arriva ad una
scrittura teatrale di una modernità e di un’avanzatezza, nel senso
di scoperta del realismo, pari a quella di Goldoni, specie l’ultimo.
La Trilogia è dunque come un grandissimo deposito finale – insieme ad altri testi certo, ma con una sua specificità: ad esempio
non è in dialetto ma in lingua italiana –, di questo laboratorio di
Goldoni; ma questa grande struttura formale, questo straordinario
affresco di scrittura realistica in fondo, come dicevo, rimane un gesto isolato: l’Ottocento italiano è caratterizzato infatti, semplificando molto, dall’egemonia del melodramma, e bisogna arrivare alla
fine dell’Ottocento, e quindi dopo più di un secolo, per ritrovare un
filo di ripresa, anche se esile, di scrittura realistica in autori come
Giacosa e Bertolazzi – di nuovo la scelta dialettale. Poi si arriva
immediatamente al grande Pirandello, che distrugge tutto.
La Trilogia, quindi, diventa per noi quasi una specie di “memento”
di problemi cruciali di politica culturale, di scrittura, di cultura, problemi che in Italia non sono mai più stati risolti, e che invece erano
stati affrontati con forza e con grande genialità da quel sommo
artigiano che era Goldoni.
Massimo Castri su Trilogia della villeggiatura
101
2000-2014 — Un teatro stabile dinamico e vitale
24
26
24. Diana Hobel,
Antonio G. Peligra e
Vittorio Franceschi
in Finale di partita
di Samuel Beckett
regia Massimo Castri
stagione 2009/2010
130
25
25. Roberto Latini
in Scene da Romeo
e Giulietta
di William Shakespeare
regia Federico Tiezzi
stagione 2009/2010
26. Massimo Verdastro
e Sandro Lombardi
in I promessi sposi
alla prova
di Giovanni Testori
regia Federico Tiezzi
stagione 2010/2011
Su un palcoscenico di fortuna, da supporre in qualche quartiere non proprio “bene” di
Milano, un Maestro all’antica si affanna a far interpretare a un gruppo di attori scalcagnati nientemeno che il capolavoro di Manzoni. Così iniziano I promessi sposi alla
prova, testo con cui nel 1984 Giovanni Testori, dopo le riscritture da Shakespeare e
Sofocle, approda a questo traguardo. […] A differenza delle reinvenzioni scespiriane,
sin dal titolo segnalate da una deformazione linguistica (L’Ambleto, Macbetto), in questo caso resta intatta, quasi fosse intangibile, la formula manzoniana; vi si aggiunge
solo la specificazione: “alla prova”. In queste due parole sta non solo l’indicazione
che il romanzo verrà spinto nel teatro; ma anche l’immensa portata dell’intera opera,
e forse dell’intera vita, di Testori: la verifica dei propri amori, delle passioni umane e
culturali: “mettere alla prova”…
Del resto, il “mettere alla prova” è, in tutti i sensi, il cuore del lavoro registico e attoriale,
nel doppio senso di “mettere in prova” la praticabilità teatrale di un testo o di un’ipotesi
scenica, e di “verificare” la sua tenuta in una situazione storica mutata. E su queste
premesse si basa il lavoro di Tiezzi: non una spiegazione del romanzo ma, come desiderava Testori, una “lezione e un monito” perché I promessi sposi sono “il romanzo
della storia, e il popolo incarna questa storia nella libertà più assoluta”.
Sandro Lombardi
131
Testi di
Marcello Bartoli attore
Carmelo Bene attore e regista
Renato Borsoni condirettore del Teatro Metastasio dal 1994 al 2000, direttore stagione 2000/2001
Peter Brook regista
Gianfranco Capitta critico teatrale
Montalvo Casini direttore del Teatro Metastasio dal 1965 al 1986
Massimo Castri regista e direttore del Teatro Metastasio dal 1994 al 2000
Umberto Cecchi giornalista, scrittore e Presidente del Teatro Metastasio dal 2010 al 2014
Rita Cirio critico teatrale
Guido Davico Bonino critico teatrale
Roberto De Monticelli critico teatrale
Edoardo Donatini responsabile Festival Contemporanea e Met Ragazzi
Davide Enia drammaturgo e attore
Goffredo Gori musicologo
Maria Grazia Gregori critico teatrale
Gabriele Lavia attore, regista e direttore del Teatro Metastasio dal 1987 al 1989
Sandro Lombardi attore
Paolo Lucchesini giornalista e critico teatrale
Massimo Luconi regista, direttore del Teatro Metastasio dal 2002 al 2005 e condirettore dal 2010 al 2014
Paolo Magelli regista e direttore del Teatro Metastasio dal 2010 al 2015
Italo Moscati scrittore e giornalista
Andrea Nanni critico teatrale
Massimo Paganelli direttore del Teatro Metastasio dal 2000 al 2002
Armando Punzo regista
Franco Quadri critico teatrale
Giovanni Raboni critico teatrale
Luca Ronconi regista
José Sanchis Sinisterra direttore del Teatro Metastasio dal 2005 al 2007
Giorgio Strehler regista
Federico Tiezzi regista e direttore del Teatro Metastasio dal 2007 al 2010
Sandro Veronesi scrittore e Presidente del Teatro Metastasio dal 1994 al 1995
Pamela Villoresi attrice
Gherardo Vitali Rosati critico teatrale
Stefano Zenni direttore artistico Metastasio Jazz
Le introduzioni ai capitoli sono a cura di Massimo Luconi
Ringraziamenti
Comune di Prato
Archivio Fotografico Toscano
Archivio del Comune di Prato
Marsilio Editori
Edizioni Ubulibri
Giancarlo Calamai
Stefano Franceschini
Oriana Goti
167