MATERIALE DIDATTICO DIRITTO AMMINISTRATIVO I 1) La formazione del diritto amministrativo 1.Vediamo qui il primo aspetto. L'opportunità politico sociologica che la summa reipublicae non si concentri su un solo organo in plenitudo potestatis ma si distribuisca tra più organi fu scorta già dal pensiero greco e fu ripresa, come è noto, nell'illuminismo da Montesquieu. 2. Ne derivava un’importante conseguenza: che si venivano ad ipostatizzare le singole funzioni dello Stato, in quanto isolate e attribuite a diversi organi o gruppi di organi, ciascuno avente un proprio apparato: i poteri e le soggezioni (ai controlli) dei singoli organi o gruppi di organi (poteri) dovevano così essere regolati da norme certe, onde la costituzione fosse perfetta. Secondo il modello costituzionale inglese e le indicazioni dei teorici, il potere legislativo fu costituito dai Parlamenti, quello «esecutivo» dal Governo, quello giurisdizionale dagli organi giudiziari. A tutti e tre i poteri partecipava il Capo dello Stato, sia pure in modi molto differenti. 3. Siamo però in grado di dire qualche cosa di più intorno al principio della divisione dei poteri: esso fu, per lungo tempo, un principio politico fondamentale, di quelli che si chiamano principi istituzionali. Nello Stato liberale esso aveva valore fondamentale in quanto, circondando di remore 1'autorità (checks and balances, secondo l'espressione anglosassone), rendeva il portatore di essa sufficientemente debole perché non intervenisse a turbare i detentori delle egemonie economiche, e sufficientemente forte per colpire chi a quelle egemonie volesse attentare. 4. Per cui oggi il principio in questione è un principio organizzativo generale, non più un principio istituzionale. Esso sta ad esprimere questo: che è opportuno distribuire le funzioni dello Stato tra gruppi di organi, separati e indipendenti. Anzi, come principio organizzativo esso viene applicato non solo nell'organizzazione dello Stato, ma anche in quella di enti diversi, pubblici e privati. 5. In conclusione oggi viviamo entro Stati nei quali il principio di divisione dei poteri ha valore di principio organizzativo. Alla stregua di questo suo contenuto dobbiamo riferire ad essa i concetti di amministrazione pubblica. 6. [La premessa sulla divisione dei poteri] Introduce direttamente in alcuni problemi giuridici: in primo luogo quello della nozione giuridica di amministrazione pubblica. 7. Per mostrare come e perché ciò avvenga è necessario un breve excursus storico; da esso risulterà come attività e apparato amministrativo pubblico non sono nozioni astratte ma concrete, il cui contenuto positivo non è sempre stato il medesimo, per via di condizioni storiche più volte mutate, e oggi di nuovo in corso di mutamento. 8. Amministrazione-apparato e amministrazione-attività di amministrazione, di atti di amministrazione, si parla in molti rami di diritto: amministrazione internazionale, amministrazione diocesana, regola di buona amministrazione, amministrazione del padre di famiglia, atti di ordinaria e straordinaria amministrazione organi amministrativi delle società commerciali, e così via. Si comprende perciò come sia balenata talora l’ipotesi che esista un concetto giuridico di amministrazione di valore generale. Scarsissimo è l'ausilio che possono offrire qui 1'etimologia e la semantica, alle quali pure alcuni tutori sono ricorsi. Si discute, invero, se la radice di “administro” sia minus o manus. Sappiamo però che minister significava, nell'alta Repubblica romana, assistente, aiutante; e “administrare” dare : opera di assistente, servire. Ma in Cicerone “administrare” può rendersi con 1’odierno inglese “to manage (administrare provinciam: Verr. 2.4.64; ma finanche “administrare bellum: Div. 2.36; imperator est admìnistrator belli gerendi “: de Orat. 1.48. 210) . In seguito il significato varia ancora e diviene quello di svolgere attività strumentale. 9. La spiegazione di questo fatto si trova nel carattere che avevano gli apparati: come meglio vedremo laddove tratteremo degli uffici pubblici, gli apparati amministrativi dì quel periodo non sono apparati dello Stato, ma apparati dei singoli munera; di fronte alla comunità associata non esistono, giuridicamente , se non uffici (munera). Dietro gli uffici, come fatti interni, possono anche esservi poderose organizzazioni, ma esse non hanno rilievo giuridico esterno; 10. Nell'ordinamento feudale europeo. Questi profili giuridici dovevano ancor più accentuarsi nell'ordinamento feudale - europeo: caratteristica di questo periodo è infatti l'attribuzione al munus di un beneficium, cioè di un patrimonio con destinazione istituzionale al sostentamento dell'attività specifica del munus, e, secondo un rapporto giuridico del tutto particolare, del suo titolare. Nell'apparato amministrativo e nell'attività amministrativa di questo periodo si confondono, giuridicamente, gli elementi attinenti all’attività' connessa al munus, e quelli attinenti alla gestione patrimoniale dei cespiti costitutivi del beneficio: confusione, s'intende, ove si parta dalla nostra realtà giuridica, effettuale e concettuale, moderna, poiché, più che di confusione, dovrebbe parlarsi, "per allora, di non distinzione tra l'aspetto (di cura dell' interesse) pubblico e quello (di cura dell’interesse) privato dei singoli apparati. 11. Negli Stati patrimoniali. Dopo il fallimento dell'esperienza democratica dei comuni e dopo un periodo transitorio di controversa interpretazione, ha inizio un nuovo periodo nel quale gli ordinamenti giuridici generali assumono la forma ancor oggi vigente cui va propriamente riservato il termine di Stato. In materia si registrano sostanziali divergenze problematiche e storiografiche, e quindi terminologiche. Nelle sue linee generali lo Stato, nel suo primo apparire, si presenta come dei caratteri che vengono indicati con i termini di «assoluto», di «polizia», «patrimoniale», e la sua costituzione materiale prende corpo nella teoria e nella prassi del paternalismo. Lo Stato è considerato un'entità astratta, che trova la sua espressione materiale nel principe. Questi è sovrano del suo territorio e delle persone pertinenti al territorio. Il territorio è oggetto di “dominio eminente” per cui egli ne dispone: può cederlo, permutarlo, costituirlo in dote (donde il nome di Stato patrimoniale). Sulle persone è attribuita al principe una «plenitudo potestatis » , sicché le persone stesse sono non cittadini, ma sudditi; non hanno cioè, di fronte al sovrano, diritti uti cives, ma sono in una istituzionale situazione di soggezione generale; onde o non sono titolari di diritti personali di libertà, o, nel migliore dei casi, se questi diritti sono riconosciuti, non godono di guarentigia giuridica, onde possono venir meno con un jussus princinis (donde il nome dì Stato di sudditi). Il principe, non come titolare della carica, ma come istituzione (la corona), non è un organo dello Stato: è lo Stato. Egli dà l'indirizzo politico e assomma in sé tutte le funzioni dello Stato, e le esercita tramite persone fisiche al suo servizio. 12. Tuttavia, sempre in sede teorica, il principe non è libero di fare ciò che egli vuole; egli deve infatti perseguire il bene comune; ed è questo l'elemento che sopravvive della precedente figura del munus. Solo che qui la funzione non incombe su una persona fisica, ma, con un procedimento di ipòstasi, in buona parte prodotto dall'influsso del diritto canonico, si trasferisce su una entità astratta: la corona. All’infuori del limite astratto del bene comune nessuna norma (le poche eccezioni sono veramente eccezioni), vincola il principe o ne disciplina i poteri (donde il nome di Stato assoluto). Si comprende allora come, in questo primo periodo della storia dello Stato, 1'apparato amministrativo non ha rilievo giuridico proprio di fronte ai sudditi: esso è 1' «amministrazione del principe». In quanto è del principe, è anch'esso vincolato dal fine del perseguimento del bene comune; l'attività amministrativa è rivolta, per definizione, al benessere e alla pace dei sudditi, e deve eliminare le turbative alla pace stessa: donde il- nome specifico di “Stato di polizia “. 13. Nello Stato di polizia, a differenza da quello del periodo precedente, esiste un'organizzazione amministrativa centrale talora anche molto forte, come nel Regno di Francia: anzi in alcuni di tali stati vi è la tendenza a accentramento sempre maggiore. Appoggiata a saldi fondamenti filosofici e politici, la costituzione loro riposa sul postulato che essendo funzione precipua del principe la cura del bene comune, egli deve necessariamente avere i più ampi poteri: da ciò deriva il principio generale di diritto, fondamentale in questa forma di Stato, che la somma potestà del sovrano può far venir meno, cioè sospendere far perdere o estinguere, qualsiasi diritto dei sudditi o far cessare qualsiasi attività che essi svolgano, anche se giuridicamente non qualificata. Dalla denominazione di ius politiae, attribuita alla somma potestà relativa, che esisteva in forma limitata anche nello Stato giurisdizionale, trasse il nome di Stato di polizia. Gli istituti amministrativi, posti alle dipendenze dirette del principe, svolgevano attività regolata da ordini di servizio e anche da norme, le quali però erano norme direttive, nella maggior parte dei casi di carattere interno, non vincolanti per chi le emanava, e talora derogabili anche dalle autorità subordinate. La loro osservanza non poteva essere richiesta dagli amministrati, e dalla loro violazione nessun tribunale era competente a decidere. 14. Come ben osservano alcuni storici del diritto, fin dalla metà del secolo XVII, in molti Stati, specie italiani e germanici, era avvenuto che le forme, di per sé molto dure, dello Stato di polizia, si erano attenuate, l'amministrazione paternalista cedendo ad amministrazioni più vincolate, le attività di polizia assumendo forme più blande. Dopo la rivoluzione francese, sempre soprattutto nei medesimi Stati, con l'avvento delle restaurazioni avvenne qualche cosa di più, nel senso che le istituzioni francesi, respinte nel diritto costituzionale, furono spesso accolte nelle strutture dell'amministrazione. 15. Nel Regno delle due Sicilie, il tanto discusso Ferdinando I, benché aborrisse da ogni idea di Stato costituzionale, come più volte mostro in infauste circostanze, riformò l'amministrazione fin dai primi anni della restaurazione, secondo criteri e principi moderni. Taluni istituti e leggi napoletane furono pregevolissimi e se essi furono presto dimenticati, si dovè a cause di altr'ordine. E fu soprattutto nel Regno Meridionale che, in questo, primo periodo, si trovò realizzata la separazione fattizia dell'amministrazione dagli altri poteri: basterebbe a provarlo il sistema ivi vigente del contenzioso amministrativo, secondo cui le controversie amministrative erano attribuite a un insieme di tribunali amministrativi, indipendenti dal Governo e dotati di grande autorità. La legislazione amministrativa era abbondante, contemplava molte materie, e applicava in gran parte, e per prassi, il principio della legalità. Questo ordinamento era in pieno fieri alla morte di Ferdinando I, ma poi, per la retrività dei successori e per altre più profonde ragioni, si arrestò in questo stadio intermedio, se non arretrò. 16. Cronologicamente l’opposto avvenne nel Regno Sardo: salito al trono Carlo Alberto, si iniziò una revisione del sistema amministra rivo secondo criteri talora molto audaci. Dal 1830, molto prima dello Statuto, cominciò pertanto un lavoro che, progredendo, permise all'Italia unificata di avere immediatamente un Sistema amministrativo di complesso disegno. Analogamente a quanto avvenne nelle Due Sicilie, il diritto amministrativo sardo esistette prima della costituzione, anch'esso informato a una attuazione fattizia e incompleta della separazione dei poteri solo che il primo si arrestò a metà strada, il secondo ricevette definitiva sanzione Statuto albertino. In Francia la rivoluzione instaurò organismi amministrativi vasti e complessi, regolò secondo criteri generali la posizione degli organi, degli impiegati, dei mezzi d'azione amministrativa; istituì il Consiglio di Stato e magistrature amministrative inferiori per quasi ogni controversia riflettente l'amministrazione. Non solo dunque si formò presto un diritto amministrativo, ma questo prese dimensioni così ampie e caratteri così ben determinati che, specie nei successivi regimi, la stessa struttura dello Stato assunse un profilo caratteristico, reso da alcuni giuristi francesi nel concetto di Stato à regime administratif. In altri Stati invece, come in Italia fin dal momento dell'unificazione, esistè un diritto che disciplinava l'amministrazione in modo specifico, ma non così spiccato come in Francia. 2) La costruzione del diritto amministrativo 1. Si hanno due forme: lo Stato di polizia e lo Stato di diritto, le quali variano soprattutto nel tempo. Nello Stato di polizia l'amministrazione è retta da una sola norma — quella detta prima — o da norme puramente interne; in ogni caso perciò il diritto amministrativo non costituisce, oppure costituisce solo in parte, un diritto che ha efficacia in tutta la sfera dello Stato, in quanto che l’osservanza delle sue norme non può essere opposta in giudizio da privati contro le amministrazioni, né queste ultime sono tenute a osservarlo rigidamente: da ciò una fondamentale differenza rispetto al diritto proprio della giurisdizione. Nello Stato di diritto invece esiste un ordinamento giuridico dell'amministrazione qualificato dal fatto che l'amministrazione stessa è legata da norme esterne nel contenuto della sua azione, le quali la vincolano, così come, altre norme vincolano la giurisdizione. 2. Per la rapidità con la quale riuscì a raccogliere i consensi della pubblica opinione, per le sue dimensioni e per la compiutezza delle proprie elaborazioni, che investirono ogni aspetto delle scienze sociali, esso è forse ancora oggi l'esempio più, cospicuo di forza persuasiva di un’ideologia. Tanto che le rivoluzioni attraverso le quali esso evolvette in prassi (inglese 1688, ma soprattutto statunitense 1787 e francese 1789) diedero vita ad un tipo di Stato profondamente diverso dal precedente. In questo tipo di stato, lo Stato liberale, l’amministrazione pubblica assume proprio rilievo giuridico. 3. Le due vie dello Stato moderno in Occidente Il diritto amministrativo — si è notato — è il frutto di un’evoluzione e la sua configurazione dipende in larga misura da tale evoluzione. Ora, questa evoluzione è legata al diverso sviluppo dello Stato, secondo i due modelli individuati da Voltaire nel XVIII secolo e sviluppati da Tocqueville in quello successivo. Il primo è quello continentale (francese, innanzitutto), caratterizzato dal potere assoluto dell'esecutivo, dalla centralizzazione, dalla preminenza dell'eguaglianza sulla libertà. Il secondo è quello anglosassone (innanzitutto inglese), caratterizzato dalla tradizione liberale e dalla preminenza del Parlamento, dal self-government, dal progresso dell’eguaglianza d'intesa con la libertà. 4. Si segua il percorso compiuto. All'origine ci sono le «due vie dello Stato moderno in Occidente », e cioè il percorso parallelo di Inghilterra e Francia. Il parallelismo, però, non vuol dire eguaglianza. Le differenze principali stanno nella incruenta glorious revolution del 1688, seguita, un secolo più tardi, dalla Rivoluzione in Francia. La prima consolida il Parlamento, la seconda ha un esito diverso, consolida l'esecutivo. 5. Il diritto amministrativo si sviluppa, innanzitutto, nel secondo tipo di Stato, com'è naturale, per la più compiuta affermazione dell'esecutivo e dei suoi poteri. Ma, poi, da un lato, si carica di significati diversi: nato come diritto speciale dell'esecutivo, inteso come un potere privilegiato, e, quindi, con contrassegni autoritari, sviluppa una componente liberale, in funzione di garanzia dei cittadini nei confronti del potere esecutivo e, più tardi, si colora di socialismo, apprestando la strumentazione dell'ingerenza statale nell'economia e dell'attuazione dello Stato sociale. Dall'altro, registra una rapida espansione anche nel modello anglosassone. Per cui vicende storiche parallele (Francia e Inghilterra, nel XIX secolo, sono le due grandi potenze mondiali, con ampi eserciti e vasti imperi coloniali; ambedue registrano i primi progressi dell'industrializzazione; debbono finanziare eserciti e guerre e, quindi, dotarsi di amministrazioni fiscali e di spesa complesse) producono esiti di cui noi siamo ora in grado di vedere le somiglianze, che erano, invece, ignorate o negate dai contemporanei. 6. Il liberalismo francese e il modello inglese Il diritto amministrativo francese, una volta terminata l'esperienza napoleonica (che aveva dato ad esso una forte impronta autoritaria), prese una direzione diversa. Saranno ora esaminate le forze che operarono questo cambiamento; poi, i cambiamenti prodotti. Caduto Napoleone, riprende quota la corrente liberale, affascinata dall'esperienza inglese. Già Voltaire era stato attratto dal costituzionalismo parlamentare inglese e dalla sua filosofia liberale. Dal 1814 al 1830, segue un periodo nel quale dottrine politiche ed esperienze liberali inglesi ricevono la massima attenzione. 7. Oggetto di particolare interesse per i liberali francesi sono alcuni tratti della Costituzione inglese. Il primo è quello del dominio del diritto comune sull’amministrazione. I liberali lamentano che, in Francia, i rapporti tra l’amministrazione e i cittadini siano de puissance à sujet, mentre osservano che in Inghilterra essi sono da eguale ad eguale. E lo storico Maurizio Fioravanti aggiunge, più tardi: «... l'Ottocento liberale... metteva continuamente in guardia contro ogni « regime speciale »; in fondo, il grande libro del liberalismo europeo rimaneva pur sempre il codice civile ». Il secondo tratto caratteristico del sistema inglese è, agli occhi dei liberali francesi, il self-government, contrapposto all'assenza di libertà locali e al dispotismo amministrativo sul continente. Il terzo tratto caratteristico è costituito dal sistema giudiziario inglese, con i giudici di pace, le giurie (trial by jury) e un unico ordine di corti, eguale per privati e poteri pubblici, capace di contenere l'arbitrio amministrativo, di affermare la ride of law e di riconoscere i diritti dei cittadini nei confronti della pubblica amministrazione. Infine i liberali francesi apprezzano le procedure in contraddittorio degli uffici pubblici inglesi, specialmente per l'espropriazione. Alla luce di questi esempi, i liberali francesi propongono di correggere l'edificio del diritto amministrativo. L'attenzione dei liberali e dei liberali-moderati per il diritto amministrativo inglese è il séguito naturale per l'interesse per il diritto costituzionale, che porterà, negli anni trenta e negli anni settanta, il parlamentarismo, di cui l'Inghilterra era considerato il principale modello, in Francia. 8. La rivoluzione del 1848 e gli avvenimenti successivi mutarono la legislazione, dapprima in senso più liberale, poi reazionario (1852), poi di nuovo liberale. moderato (186o); nel diritto amministrativo di conseguenza si ebbe un breve periodo d'arresto; nel frattempo il Consiglio di Stato veniva elaborando tutta la giurisprudenza del contenzioso di excès de pouvoir, lavoro sottile e geniale, com'è ben noto. 9. La terza Repubblica e la liberalizzazione del diritto amministrativo Se da Napoleone I a Napoleone III il quadro di protezione delle libertà rimane difettoso, per il mantenimento di regole sfavorevoli alle libertà, l'incompleta natura della giurisdizione amministrativa e la trasformazione degli impiegati dello Stato in impiegati del governo, tutte scelte volute dai difensori dell'ordine sociale e del regime politico, con la terza Repubblica il diritto amministrativo acquisisce caratteristiche liberali. Già in precedenza il carattere autoritario e dispotico del diritto amministrativo era stato attenuato nella gestione quotidiana del potere, special-mente da parte del Conseil d'Etat, rimasto immutato nei poteri e nella struttura, ma gestito da liberali: si tratta di « ..les traditions de respect du droit privé, de modération et d'equité qui s'affermissent et se développent chaque jour davantage dans la jurisprudence du Conseil d'Etat». E già in precedenza si erano registrati alcuni altri progressi del liberalismo nelle istituzioni. Per citarne solo due, si ricorda l'attribuzione al giudice ordinario, già nel 1810, delle procedure di espropriazione e l'introduzione, nella Costituzione nel 1848, del principio del merito per la selezione dei dipendenti pubblici. 10. Ma, con la terza Repubblica, dal 1870, si registrano due cambiamenti importanti, che accolgono le tesi liberali: la soppressione della garanzia dei funzionari e il pieno riconoscimento del Conseil d'État come organo giudicante. si passa dal regime di justice rétenue a quello di justice déléguée (cioè il Consiglio di Stato diviene, da organo consultivo, organo giudicante a proprio titolo) e il compito di giudice dei conflitti di attribuzione viene sottratto al Conseil d'Etat e conferito al Tribunal des conflits, composto dì quattro membri della corte amministrativa e di quattro della Corte di Cassazione, sotto la presidenza (in realtà, puramente formale) del ministro di giustizia. 11. Dunque, il droit administratif, nato agli inizi del XIX secolo per rafforzare lo Stato repubblicano e, poi, imperiale e per proteggere il potere esecutivo nei confronti degli interventi dei giudici, diviene, alla fine dello stesso secolo, il mezzo per consentire la tutela giudiziaria dei cittadini, nei confronti del potere esecutivo. Il Conseil d'Etat, con una altrettanto radicale trasformazione, diviene da principale organo dell'esecutivo, giurisdizione indipendente e attento censore del governo e della pubblica amministra-zione. Aspetto ancor più singolare, quest'ultimo ruolo è svolto dal Conseil d'Etat introducendo, sviluppando e applicando principi generali di diritto, con un'attività, quindi, essenzialmente creativa, che compensa la carenza di norme generali tipica del diritto amministrativo. 12. Caratteristiche del droit administratif; judge-made law e droit de privilège Il droit administratif ha due caratteristiche principali: è un diritto in larga misura di formazione giurisprudenziale ed è un diritto speciale, derogatorio nei confronti del diritto privato. La seconda caratteristica del diritto amministrativo francese è di essere un diritto speciale, separato dal diritto privato, con propri principi e istituti, diversi da quelli del diritto privato e, quindi, derogatorio o esorbitante rispetto a questo. Dunque, la distinzione diritto pubblico-diritto privato è il punto di partenza del diritto amministrativo francese, a differenza di quello inglese, dove la distinzione era, fino a tempi recenti, sconosciuta o rifiutata. Il diritto amministrativo — viene spiegato — è un « droit de privilège » perché fondato sul rapporto ineguale tra amministrazione ed amministrato. 13. Subito in Francia il diritto amministrativo salì a grande splendore: fin dall’alba dei tempi moderni in questa nazione il potere pubblico si era andato sempre più rafforzando, e formatasi una forte compagine nazionale, si era sempre più accentrato. 14. Sorse, prima che altrove, proprio in Italia, ad opera del Romagnosi. Nel fervore di studi e di opere che caratterizzò la cisalpina, poi Regno Italico, e che la Francia cercò quasi sempre di soffocare, il Romagnosi fu a lato dell’operoso della giustizia, conte Luosi, il quale dall'Università di Pavia, lo trasferì a Milano, a una cattedra di “alta legislazione in rapporto alla pubblica amministrazione” per lui istituita appositamente. Caduto il Regno italico, la cattedra parve all’Austria un focolaio di liberalismo; e pare che per mostrare il carattere puramente scientifico del proprio magistero, il Romagnosi abbia redatto in pochissimo tempo, nel 1814, i suoi “Principi fondamentali del diritto amministrativo onde tesserne le istituzioni". Sembra anche che egli volutamente abbia usato un linguaggio astruso, quasi esoterico, per non farsi capire dalla censura. 15. Fu l'Austria che nel 1817 abolì la cattedra di Milano. Due anni dopo si istituiva a Parigi la cattedra di diritto pubblico e amministrativo per il De Gérando (1819). Così la scienza del diritto amministrativo, come avvenne del resto per altre scienze morali, nata in Italia, fu stroncata da stranieri, e a un certo punto la dovemmo reimportare. 16. Per assurgere a una problematica maggiore in quest'ordine di problemi è quindi sufficiente spostarsi da un atteggiamento, che contempli prevalentemente l'amministrazione, a un atteggiamento che contempli prevalentemente l'amministrato. Con ciò non voglio certo affermare che questo secondo atteggiamento sia più importante nel sistema generale del diritto amministrativo; semplicemente non occorre lasciarlo troppo in ombra. E neppure si deve credere che fra le due indagini vi sia un intervallo: esse si compenetrano perché, studiandosi un “obbligo”, dato che esso nella quasi totalità dei casi (come pare), presuppone due soggetti, si dovrà anche per forza dì cose, e ove si voglia ben fare, non trascurare lo studio di quanto si riferisce a uno dei soggetti stessi. 17. Significato specifico del diritto amministrativo; sua nascita ed evoluzione. Possiamo adesso afferrare il significato specifico del diritto amministrativo: esso è qualche cosa di più di un semplice “settore” della normazione positiva; è un corpo di norme formanti sistema che ha per oggetto la regolazione dell’attività dell’apparato amministrativo pubblico. 18. Tuttavia non si crea un ramo del diritto se questo non risponde a specifiche sollecitazioni di interessi. In questo caso gli interessi furono costituiti da quelle forze, di vario colore e rappresentatività, che tendevano a dare allo Stato strutture centralizzate; il diritto amministrativo sorse pertanto per attribuire all'autorità pubblica una acconcia forza nel senso dell’anti-autonomismo; in quel momento storico in Francia, l’autonomismo significava reazione in sede politica, e barriere economiche in sede economica. Come succede per una gran quantità di fenomeni sociali, in seguito lo stesso strumento, del diritto amministrativo, fu utilizzato dalle correnti autonomiste e libertarie in senso antistatalista e antiautoritario. Onde oggi sono in esso presenti ambedue le opposte istanze. Di qui il suo perpetuo oscillare, varie volte e in varie occasioni rilevato, tra il principio di libertà e quello di autorità, e in sede meno appariscente, ma egualmente importante, tra il decentramento e l’accentramento, tra lo statalismo e l’autonomismo; la prevalenza dell’uno o dell’altro momento deriva in gran parte delle variazioni della costituzione in senso materiale: onde in periodi di contrasti come l’attuale, il diritto amministrativo è mantenuto in stato di fluidità. 3) Diritto amministrativo e interessi 1. Che il diritto amministrativo disciplini le forme di coesistenza e incontro di interessi pubblici e dei privati corrisponde esattamente a quanto detto in precedenza, in quanto i primi si riconducono al principio di autorità, i secondi di a quello di libertà: onde i punti di vista dai quali si prenda in esame la materia. 2. Attività amministrativa e interessi pubblici. L'attività amministrativa, sostanzialmente, non si pone del resto come attività imperatoria: l’azione amministrativa è oggi così compenetrata negli atti della nostra vita quotidiana, anche i più umili e modesti, che se essa avesse carattere solamente imperativo ne resterebbero tutti soffocati. Sostanzialmente 1'azione amministrativa è cura di interessi pubblici. È perciò necessario passare a considerare quest'altro suo aspetto. 3. La chiave per comprendere le molteplici figure giuridiche con le quali il diritto regola 1'attività della amministrazione pubblica, sta nello stabilire il modo in cui le norme di diritto amministrativo investono gli interessi pubblici e privati, e ciò che esse costituiscono nella predeterminazione di quelle sicurezze giuridiche che giustificano 1'esistenza stessa del diritto. 4. Norme e interessi. Sarebbe, anzitutto necessario stabilire che cosa è un interesse; e questo comporterebbe una lunga esposizione di opinioni. Per brevità enunciamo senz'altro la opinione che appare più persuasiva, secondo la quale il concetto di interesse non possiede una fisionomia propria nel mondo giuridico, ma è da questo preso così come si trova, in altra realtà, sociale-economica. Onde, nel mondo del diritto, esso non perde nulla dei multiformi aspetti che ha altrove, di sollecitazione da bisogno, di forza espansiva, di spinta cessante al limite del soddisfacimento, ecc. ecc. Per quanto riguarda quella che abbiamo detto questione generale, non è difficile vedere che il dibattito ha assai scarsa ragione d'essere: concetti e interessi non sono due pianeti costretti a girare dalle leggi di gravitazione ciascuno nella sua orbita. La norma giuridica, scritta o meno, in quanto ha un contenuto concettuale, non nasce da un arbitrio o da un caso, ma da una ponderazione di interessi; tanto che si parla di « scopo » della norma, o di «funzione » di essa (funzione ha qui un significato generico) per indicare il contenuto normativo visto in ordine ai risultati sostanziali che si producono mediante gli effetti giuridici previsti dalla norma stessa. Possiamo quindi porre come fermo che ogni norma è collegata a interessi. Mediante 1'incorporazione, la norma giuridica disciplina un interesse dall'interno: in mancanza di norma, tale interesse tenderebbe a porsi nei suoi termini sostanziali di forza, individuale se di un singolo, politica se di una collettività. Mediante la tutela riflessa, la norma giuridica disciplina un interesse dall'esterno, in quanto, cioè, potendo esso entrare in contrasto con altri interessi. 5. D'altra parte non può esservi alcun dubbio sul consistere l'attività amministrativa pubblica nel perseguimento di fini immediati, cioè nella cura di interessi propri dell'autorità, da parte dei pubblici poteri: anche se si tratta di fatto che ha valore tecnico organizzativo, ed è insufficiente ad assurgere a criterio di caratterizzazione giuridica, è tuttavia certo che questo fatto vi è, e non può essere trascurato dal giurista. La constatazione di tale fatto, pone, con automatica conseguenza, questa domanda: vi è un rapporto tra gli interessi affidati alla cura delle singole articolazioni (organi, enti, soggetti) che compongono i pubblici poteri, e le norme che disciplinano l'attività dei poteri medesimi? Cioè, p. es., se la Direzione generale della bonifica provvede alla cura degli interessi che le norme hanno qualificato come interessi dello Stato, e affidato allo Stato stesso per la cura, quale rap porto vi è tra questi interessi e le varie norme che regolano la bonifica integrale? Siccome, nel caso, questa attività dello Stato tocca materie attinenti alla proprietà, vi sono rapporti giuridici tra gli interessi tutelati dalle norme sulla bonifica integrale e quelli tutelati dalle norme sul diritto di proprietà? 6. Dibattito sui rapporti tra norme e interessi. Appare particolarmente rilevante, per la ragione che il diritto amministrativo regola la zona in cui più forte si verifica l'urto degli interessi. 7. «Attività amministrativa» come nozione di scienza dell'organizzazione. Esaminiamo ora se possa avere valore giuridico la nozione di attività amministrativa o amministrazione-attività. Perciò, come la nozione di amministrazione apparato, anche questa di attività amministrativa pertiene alla scienza dell'organizzazione, non alle scienze giuridiche; più che esser definita, 1'attività amministrativa può esser descritta come quell' attività rivolta alla cura di interessi propri e altrui determinati in modo previo. Il punto più importante della descrizione sta nella "predeterminazione”. Ogni attività umana è, infatti, in senso lato, rivolta alla cura di interessi. Caratteristica della attività amministrativa è di avere ad oggetto interessi determinati in modo previo da organismi, autorità, persone, in posizione sopra-ordinata rispetto a coloro che amministrano. 8. È in questo senso che va intesa l'affermazione secondo la quale 1'attività amministrativa manca di autodeterminazione, ovvero non è autosufficiente; essa presuppone una previa scelta dei fini, o quantomeno dei fini ‘ultimi’. In quanto specificazione, dei concetti di amministrazione, anche con “amministrazione pubblica” può indicarsi tanto un apparato amministrativo pubblico, quanto un'attività amministrativa pubblica. L'osservazione diretta dei fatti ci mostra che, nel diritto positivo italiano, ambedue le nozioni hanno giuridico rilievo; numerose sono le norme giuridiche nelle quali si parla di pubblica amministrazione, nell'una o nell'altra accezione. Le si trovano nella stessa Costituzione (rispettivamente negli artt. 97, comma 3, 113, 97 comma 1 , 100 comma 1 e 118). 9. Apparato amministrativo come apparato del Governo. Come principio organizzativo, nel suo valore strutturale, il principio della divisione dei poteri trova applicazione nel nostro diritto positivo, e spiega la sua efficacia nel raggruppare le molte figure soggettive che fanno parte dei pubblici poteri in grandi complessi organizzatori. Nell'attuale periodo storico i complessi sono verticali, cioè fanno capo ad organi supremi o a gruppi. 10. Il complesso che a noi interessa, quello amministrativo, fa capo agli organi costituzionali di Governo; accanto a quello che, in senso stretto, è l'apparato amministrativo dello Stato organizzazione, esso comprende la numerosa ed eterogenea stirpe degli enti pubblici e dei soggetti privati che svolgono attività di pubblico rilievo. Sotto questo aspetto, 1'amministrazione-apparato pubblico non può essere definita se non come l'apparato del Governo. In quanto apparato del Governo essa costituisce uno strumento che il Governo utilizza per tutte le proprie incombenze: per raccogliere gli elementi onde elaborare l'indirizzo politico, per formulare e discutere questo, per coordinare le attività dei vari organi costituzionali dello Stato (laddove spetta al Governo questo compito), per preparare leggi, per emanare atti normativi primari e secondari (decreti legge, regolamenti, ecc.), per specificare gli indirizzi politici in formulazioni secondarie e terziarie, per eseguire direttive, per compiere lavori dì studio o di consulenza, per compiere lavori materiali, e così via. 4) La giuridicizzazione dei poteri: i principi. 1. E’ senza significato che nella dialettica autorità-libertà, sia solo quest'ultima ad aver bisogno di tutele, non l’altra. Essi sono perciò, figurativamente come dei meccanismi di un congegno, i quali non possono mai evitare che l’autorità entri, mediante l’uso di altri meccanismi, nell’ambito delle libertà e dei diritti. 2. Fondamentale principio istituzionale dello Stato moderno e quello che la regolazione dei modi di estrinsecazioni dell'autorità deve essere riservata alla legge. 3. Nello Stato patrimoniale questo principio non esisteva, onde l'autorità poteva svolgersi secondo opportunità (principio di discrezionalità assoluta). Nello Stato patrimoniale non esistendo riserve di legge e guarentigie costituzionali di libertà (o esistendo in minima parte, come « privilegi » ), l'azione dell'autorità era sciolta da vincoli (assoluta): di fronte alla pubblica autorità i sudditi erano in una situazione giuridica soggettiva di soggezione, nella quale non potevano che subire, in modo passivo. Nello Stato attuale non è già che le situazioni soggettive potestà-soggezione siano scomparse, esistono egualmente, ma, di principio, hanno perso l'attributo della assolutezza, cioè devono essere predeterminate da norme di legge. 4. Rientra nei compiti della funzione legislativa il determinare quali interessi debbano essere curati dallo Stato, mediante i suoi apparati, e con quali mezzi e quali forme. Tali interessi si pongono cosi come fini immediati dello Stato. Ecco perciò la funzione esecutiva, mediante la quale lo Stato dispiega un'attività concreta diretta a curare i propri fini, immediati. 5. Atto legislativo, o legge, in senso sostanziale, è quello che pone norme giuridiche, cioè costituisce 1'ordinamento; atto amministrativo è quello che cura in concreto il raggiungimento di un fine immediato dello Stato; atto giurisdizionale quello che pronuncia la volontà di legge in un caso concreto in una situazione di terzietà. 6. Vera funzione esecutiva, in senso giuridicamente significativo, si aveva solo in quelle costituzioni nelle quali l'attività d'indirizzo politico spettava, esclusivamente o prevalentemente, alle Assemblee parlamentari (o con più precisione, alle loro maggioranze): di fronte al Parlamento il Governo era effettivamente un comitato esecutivo, incaricato di prendere gli atti necessari per attuare 1'indirizzo deliberato, e per dirigere, in conformità, l'azione degli allora ridotti apparati burocratici. Oggi in nessuna delle vigenti costituzioni esiste più una evenienza di questa specie. Onde può dirsi che i concetti di potere e di funzione esecutiva hanno valore storico. 7. L'atto formale è rivolto a determinare la presenza e la consistenza di un interesse pubblico in un caso concreto. In ogni caso però gli atti dell'autorità amministrativa nei quali si esprime il momento autoritativo producono la nascita, la modificazione e la estinzione di rapporti giuridici, che sono detti « rapporti giuridici amministrativi » . Derivano, dal principio istituzionale dei principi generali che regolano l’attività delle autorità amministrative. Essi sono: a) il principio di legalità dell'azione amministrativa: esso significa che l’amministrazione deve agire sulla base delle norme giuridiche, nel senso però non già che essa non debba compiere atti illegali - il che sarebbe ovvio -, bensì che la norma giuridica è regolativa di tutti i momenti dell'agire dell' autorità, in modo positivo: mentre l'autorità non può esplicarsi per via diversa da quella prevista dalla legge, d'altra parte ogni qual volta la legge prescriva di agire, deve essere necessariamente seguita. Ne consegue che quando 1'amministrazione non agisce come autorità questo principio non opera più. b) il principio di articolazione dell'azione amministrativa, ovvero: - di rendere evidente 1'interesse pubblico, cioè 1'interesse della collettività, dando non solo agli interessati diretti, ma a tutti i consociati, la possibilità di averne contezza e certezza. - di contenere 1'azione dell'autorità nei limiti della legge; ciò perché in un atto formale vengono ad essere resi pubblici tutti gli elementi componenti l'azione dell'autorità. - di permettere il controllo sull'operato dell'autorità, attraverso la pubblicità degli elementi componenti della sua azione; questo controllo può assumere svariatissime forme, dall'azione giudiziale in difesa di diritti lesi dall'atto formale, sino al controllo politico esercitato dalle opposizioni. 8. L'atto formale pertanto elimina 1'arbitrio contenuto nel momento dell'autorità (in sede teorica, beninteso, perché altro è 1'autorità in quanto è, altro 1'autorità in quanto agisce), vincolandola alla legge: se vuole agire, 1’autorità deve seguire la legge, altrimenti si espone al rischio di vedersi posti nel nulla gli atti da parte dei congegni di controllo. 9. Che si, tratti di vincolo è palese solo che si osservi il momento reciproco: se è vero che l'autorità per disporre in nome del pubblico interesse una compressione di una libertà garantita deve assoggettarsi ai vincoli stabiliti dalle leggi, è altrettanto vero che deve assoggettarsi ad altri vincoli il soggetto titolare di diritti fondamentali per fare riconoscere suoi interessi privati, in contrapposizione o giustapposizione a interessi pubblici: e se non lo fa, corre il rischio di non veder riconosciuti i propri interessi privati in qualche altro modo. 10. L'azione dell'autorità amministrativa si articola in tanti e distinti fatti o atti giuridici, interni ed esterni, aventi tendenzialmente rilevanza giuridica. Il principio di articolazione riguarda tutta la azione della amministrazione: esso non è infatti ordinato al solo esercizio del momento dell'autorità, ma a tutto l'agire di essa: p. es. quando un'amministrazione deve stipulare un contratto, sono necessari alcuni atti, per lo più preparatori dai quali risultino le ragioni per cui si fa il contratto, e perché si fa in quelle forme e in quelle circostanze. Sono inoltre regolati anche i singoli atti da compiere per la stipulazione del contratto; infine sono previsti altri atti per controllare 1'operato dell'amministrazione, e dare certezza alla collettività dell'opportunità di esso. Infine il principio di nominatività degli atti amministrativi. Mentre in diritto privato il soggetto può, nell'esercizio dell'autonomia privata (art. 1322 c.c.) porre in essere atti non disciplinati in modo particolare dalle leggi (contratti innominati), l'amministrazione, agendo come autorità, non può, per principio, porre in essere atti innominati. 11. Per meglio rappresentare la dinamica evolutiva del potere amministrativo fino alla sua attuale configurazione occorre osservare che, nel corso della seconda metà dell’Ottocento quando in Europa vengono istituiti giudici indipendenti (ordinari o amministrativi) competenti a tutelare i diritti violati da atti amministrativi illegittimi, i reali rapporti di forza fra legge e amministrazione sembravano tali da far ritenere che il "principio di legalità" dovesse limitarsi ad operare sostanzialmente come una “riserva di legge"; nel senso che l'attività amministrativa risultava ancora regolamentata (e vincolata) soltanto in quelle materie specifiche ("certi oggetti particolarmente importanti" precisava emblematicamente Otto Mayer) disciplinate in modo espresso dalla legge. 12. Finché prevale la concezione della legalità come riserva, la disciplina legislativa tende a mantenere una presenza discreta, episodica, frammentaria nel vincolare l'esercizio del potere amministrativo, apponendo quei soli paletti di confine ritenuti indispensabili per garantire ai cittadini un minimo di tutela dall'arbitrio. In particolare, le leggi c.d. istitutive dei diritti (quelle che decenni dopo il nostro Enrico Guicciardi avrebbe definito norme di relazione distinguendole dalle norme di azione) si limitavano in origine a regolare solo oggetti e/o profili ritenuti essenziali e rilevanti per salvaguardare diritti e libertà a favore dei cittadini stessi, riconosciuti dalle Costituzioni e dalle nonne primarie emanate lungo tutto il corso dell'Ottocento. 13. Hans Kelsen fu il principale artefice del capovolgimento dal regime discrezionale al regime legale col criticare e col censurare in via di principio il concetto di "discrezionalità libera" ("freies Ermessen"), sebbene avesse poi continuato a menzionarla poiché entrata ormai nel linguaggio comune. Egli tenne a puntualizzare che "un'attività può dirsi realmente libera solo quando chi agisce si prefigge il fine dell'agire egli stesso, in quanto libero e incondizionato nella scelta degli obiettivi del proprio agire". In questa ottica "non può essere ritenuto libero chi è chiamato soltanto a realizzare i fini postigli da un altro soggetto ... ancorché risulti più o meno libero nella scelta dei mezzi per raggiungere i fini". Ma - precisava a questo punto l'Autore - l'autorità amministrativa “non pone mai i fini che realizza con la propria attività" dovendo questi essere sempre e comunque prefissati dalla legge”. 14. Solamente quando sulla spinta dello stesso Kelsen il principio di legalità sarà esplicitamente inteso come "primato della legge", e si imporrà la presenza di una nonna legislativa a fondamento di ogni possibile esercizio del potere amministrativo, si realizzerà la convergenza fra "conformità alla legge" e "conformità al fine": proprio poiché quest'ultimo dovrà essere sempre indicato da una norma legislativa che ne preveda il perseguimento. Allora, e solamente allora, il sindacato sulla reale "conformità" dell'atto amministrativo "al fine" potrà essere considerato di pura legittimità, se e in quanto si traduca in un sindacato di "conformità" dell'atto medesimo "alla legge" che quel "fine" delinea e disciplina obbligatoriamente. 15. Conformemente alle idee espresse da questo grande giurista positivista, precursore dello Stato di diritto, nel corso del Novecento i nuovi equilibri fra amministrazione e legge si affermano in modo più concreto e deciso - seppure con varietà e con discontinuità nelle singole realtà ordinamentali - con l'emanazione progressiva di leggi sempre più numerose, dettagliate, incisive, che vincolano in modo crescente l'agire del potere amministrativo all'interno di una rete di disciplina legislativa tendenzialmente completa. 16. Questo elemento è confermato da ricerche storiche che hanno posto in luce come gli studiosi della prima metà dell'Ottocento, ad esempio il nostro Giandomenico Romagnosi, facessero ancora uso del termine discrezionalità "in un'accezione molto lata, fino a confondersi con discrezione" essendo "il potere amministrativo ... sempre e comunque discrezionale". A questo modello originario di una discrezionalità a-giuridica che si manifesta in assenza di disciplina legislativa, vale a dire nei vuoti e nelle carenze di quest'ultima (conformemente alla concezione di una legalità intesa come riserva di legge), tende a sostituirsi il modello ideale e garantistico di una discrezionalità giuridica che, al contrario, nello Stato di diritto in formazione, trae fondamento dalla presenza (anziché dall'assenza) di una disciplina legislativa che ne legittima l'uso, conferendo espressamente all'amministrazione il potere di decidere in modo autonomo e legalizzandone per questa via l'esercizio. 17. Il rapporto tra legalità e discrezionalità: nel senso che la seconda trova ora giustificazione e ragion d'essere nella legalità stessa, anziché nell'arbitrio di un potere che nasce come assoluto. Coerentemente a questa antitetica concezione dogmatica, oggi non si ammette di regola potere amministrativo in assenza di una norma di legge che lo legittimi espressamente per la cura di un interesse pubblico. È lungo questo processo evolutivo che la discrezionalità si giuridicizza, cessando di costituire espressione di una volontà burocratica disancorata dalla legalità in quanto residuale rispetto ad essa. Il principio di legalità non viene più concepito come riserva, ma come primato della legge ("Voirang des Gesetzes"), nel senso che l’amministrazione può agire in piena autonomia solo se - e nei limiti in cui - una disposizione legislativa le attribuisca il potere di scegliere discrezionalmente tra due o più opzioni. 18. Nei nuovi equilibri che si realizzano fra amministrazione e legge la prima può decidere limitatamente ai casi espressamente previsti dalla seconda, rispetto ai quali è quest'ultima a consentire (legittimare) all'autorità decidente una certa (maggiore o minore) flessibilità di scelta per la concreta realizzazione dell'interesse pubblico affidatole astrattamente in cura. 5) Interessi e norme organizzative 1.Organizzazione e ordinamento giuridico. In ogni ordinamento giuridico è necessaria un'organizzazione. Senza organizzazione un ordinamento non esiste: più soggetti che abbiano eguali interessi, o tengano analoghi comportamenti, se non esprimono una propria organizzazione, non danno luogo ad un ordinamento giuridico 2. L’organizzazione può esser ridotta al denominatore «norma», nel senso che in ogni ordinamento si può individuare e isolare una normazione sull’organizzazione. 3. Per lungo tempo la scienza giuridica non ha avuto consapevolezza della rilevanza giuridica dell'organizzazione: essa, quasi affascinata dall'aspetto più appariscente della normazione giuridica, quello della regolazione dei rapporti giuridici tra soggetti (regolazione intersubiettiva), credette con ciò esaurito il proprio compito. La tardiva consapevolezza del contenuto delle norme in quanto regolative dell'organizzazione è stata rilevata da storiografi: viene spiegata con ragioni di diverso ordine, come le strutture degli ordinamenti generali che precedettero gli Stati, ordinamenti nei quali 1'apparato amministrativo era retto da regole giuridiche diverse da quelle oggi vigenti. Gli ordinamenti statali odierni sono, quanto all'organizzazione, estremamente complessi: in essi l’organizzazione si compone di due parti (e tende a divenire di tre): la prima è quella detta costituzionale, che comprende i supremi organi dello Stato, nel “sistema” dei loro poteri, e dei controlli. 4. Tutta la rimanente organizzazione non costituzionale, è organizzazione amministrativa, in quanto è rivolta a curare fini già predeterminati dagli organi costituzionali, mediante atti d'indirizzo politico e mediante leggi. In questo senso è organizzazione amministrativa, oltre 1'amministrazione in senso proprio, anche la giurisdizione: e di ciò vi è anche un riscontro di linguaggio nella voce ‘amministrazione della giustizia’. 5. Interessi e norme organizzative: conformazione e distribuzione degli uffici. Il coesistere di più interessi nel seno di un ordinamento pone i due problemi, che già conosciamo nei loro termini generali, della disciplina giuridica degli eventuali vari apparati che sono “portatori” dei vari interessi (aspetto organizzativo), e della disciplina delle attività (aspetto funzionale). Vediamo subito il primo di questi problemi. Esso ha per oggetto le norme sull’organizzazione. 6. Le norme organizzative hanno lo scopo di dare evidenza giuridica ad un apparato, di renderne cioè le strutture giuridicamente rilevanti di fronte ad altri soggetti giuridici: nel caso degli apparati statali, le norme organizzative hanno lo scopo di rendere rilevanti di fronte a tutti i consociati, cioè nell’ordinamento generale, le strutture dello Stato organizzazione. 7. Se un apparato viene regolato da norme giuridiche, i soggetti giuridici esterni possiedono delle certezze circa il modo come la cura degli interessi viene distribuita negli uffici dell’apparato e sono garantiti dal fatto che per modificare l’apparato si richiede un altro atto normativo: ove l’apparato sia quello dello Statoorganizzazione, e i soggetti siano i cittadini. Tutto ciò si traduce in una ulteriore forma di garanzia del momento della libertà, perché il cittadino sa che per agire in date materie oggetto di sue libertà, l’autorità deve servirsi di dati uffici e non di altri, altrimenti agisce illegalmente. Vari sono i modi attraverso i quali si esprime la rilevanza giuridica dell'organizzazione degli apparati. 8. Interessi primari, attribuzione di funzioni. In quanto le norme organizzative regolano la conformazione e la distribuzione degli uffici, regolano insieme la distribuzione delle funzioni, cioè assegnano ai vari uffici, nei quali si articola 1’apparato la cura di determinati interessi. La distribuzione delle funzioni è retta da un principio di gradualità, tecnico e giuridico insieme: vi è così una distribuzione ai vertici per grandi ripartizioni (p. es. amministrazione degli affari esteri, della difesa, dell'istruzione), che via via si dirama in ripartizioni più circoscritte. In ogni caso, lo stabilire, p. es., che ai culti attende una direzione del Ministero degli interni, ai pesi e misure un ufficio del Ministero dell'industria, ai parchi nazionali una divisione del Ministero dell'agricoltura, costituisce dei centri di riferimento di interessi: per cui verificandosi degli eventi che, positivamente o negativamente, incidano su tali interessi, chiunque è in grado di sollecitare l'intervento di tali centri di riferimento, o, viceversa, l'intervento contro di essi. 9. Nello Stato moderno, nel quale gli interessi pubblici sono tanti, la distribuzione degli interessi fra centri di riferimento diversi è necessaria (non già solo opportuna): esiste così un «principio di differenziazione necessaria» delle funzioni e degli interessi, principio insieme giuridico e di scienza dell'organizzazione. Se esso non vi fosse, e gli interessi pubblici fossero attribuiti indistintamente ad uffici, ne verrebbe che la cura di essi potrebbe cadere nell'arbitrio dei titolari degli uffici; con conseguenze gravi per la stessa amministrazione, poiché anche gli interessi pubblici sono tra loro in stato di tendenziale conflitto. 10. In quanto norma di distribuzione degli interessi, la norma organizzativa simultaneamente crea e delimita la funzione: come la norma organizzativa giudiziaria nell'istituire l'organo giusdicente e nell'attribuirgli una determinata materia, crea e delimita la giurisdizione, così quella organizzativa amministrativa crea la funzione attribuendola ad un ufficio, e la delimita insieme. In quanto norma che opera un’attribuzione di funzioni, la norma organizzativa amministrativa attribuisce ad un dato interesse la qualifica di interesse primario rispetto ad un ufficio: in tal modo, ogni altro interesse è, rispetto a quell'ufficio, non primario, ed è escluso dall'ambito di azione di esso. Così gli interessi dell'agricoltura della zona X, gli interessi concernenti i monumenti antichi sul piano nazionale, gli interessi attinenti all'imposta di circolazione sul piano nazionale, ecc., sono primari rispetto ai vari uffici cui sono attribuiti, ad esclusione di ogni altro interesse. Se un ufficio agisce al di fuori dell'ambito assegnatogli dalla norma organizzativa, sotto l'aspetto dell'attribuzione di funzioni, il suo atto è viziato, e il soggetto che vi ha interesse può far valere, dinanzi ad un giudice la esistenza di questo vizio. In tal modo la norma organizzativa ridonda in norma dì regolazione intersubiettiva: all'attribuzione di funzione si annoda in tal modo quell'elemento dell'atto, che è la competenza, così come avviene per la competenza giurisdizionale rispetto alla giurisdizione. 6) Norme organizzative e attività 1. Sotto l'aspetto strutturale le norme organizzative regolano i rapporti tra interessi ed attività. Le nozioni che si presentano al nostro esame in questa sede, sono quelle di «discrezionalità amministrativa», «merito amministrativo», «vincolatezza». Fra esse la più difficile a chiarire è la prima. Invero non si tratta di nozione specifica del nostro diritto: discrezionalità, o attività discrezionale, è qualsiasi attività giuridica libera in tutto meno che nella scelta dei fini. 2. La norma organizzativa che attribuisce discrezionalità non si sottrae alla regola, di tutte le altre norme organizzative, di ridondare in norma di regolazione intersubiettiva determinando un elemento dell'atto giuridico, che è la competenza. 3. Ma nell'ambito in cui vi sono diritti o comunque situazioni giuridiche riconosciute, l'ufficio-centro di riferimento dell’interesse canonizzato può e deve agire per sempre meglio curare l'interesse stesso: il che assume particolare rilievo in quella attività delle “iniziative”, promosse o sostenute da questa o quella amministrazione, per curare l'interesse affidato, e che spesso, formalmente, non sbocca neppure in atti di diritto amministrativo esterno. 4. Ora la ragione specifica per cui è attribuita la discrezionalità risiede in questo: che in concreto un interesse primario non esiste mai da solo, in una sorta di vuoto giuridico, ma sta forzatamente in rapporto con gli altri interessi, pubblici e privati, che ne impediscono o ne diminuiscono ne condizionano, o viceversa, ne rafforzano direttamente, indirettamente, condizionatamente la realizzazione. Questi altri interessi diconsi secondari. 5. In quanto nelle norme (organizzative) attributive di funzioni l'interesse è canonizzato, l'ordinamento, deve regolare i possibili conflitti tra gli interessi, o, il che è lo stesso, tra uffici, o tra norme organizzative. I conflitti d'interessi sono di molte specie. Ma ai fini di quanto qui ci riguarda, essi si raggruppano in due grandi categorie: i conflitti effettuali e i conflitti potenziali. 6. Onde risolverli, l’ordinamento introduce delle misure preventive, che consistono nello stabilire dei rapporti giuridici tra le varie autorità e nel determinare, mediante tali rapporti, quale delle volontà in contrasto debba prevalere o come si possano comporre le volontà divergenti. Questi rapporti si possono chiamare “figure organizzatorie”. 7. La discrezionalità amministrativa si deve inquadrare nei principi propri dell'attività amministrativa, in particolare quello di legalità e di nominatività. Ne deriva che, a differenza delle altre forme dì discrezionalità, quella amministrativa è puntuale, cioè riguarda singoli elementi atti che l'amministrazione può compiere, e non gli interi atti. Si ha perciò una discrezionalità nei presupposti e nei motivi an habeatur: si deve o non rilasciare 1'autorizzazione, procedere alla sdemanializzazione? Si deve agire ora, tra due mesi? Vi è motivo per agire?), una discrezionalità nella forma (quomodo habeatur: in che forma agire? Quali atti strumentali compiere?), e una discrezionalità nell'oggetto (quid habeatur: si delibera di fare a oppure b? Si pone tale condizione? Si calcola in base al criterio x 0 y?). Vi sono procedimenti nei quali la discrezionalità è articolata: p. es. ad un organo è affidata la ponderazione, ad un altro la decisione (in senso a-tecnico); ad un organo la deliberazione di massima ad un altro la decisione di specie, ad un organo la decisione sostanziale ad un altro l'atto formale, e così via. 7) Discrezionalità e amministrazione 1. Ogni attività amministrativa è, a rigore, politica: sia nel senso che essa è rivolta all'ordinamento del gruppo associato politico, sia nel senso che essa non può prescindere dalle circostanze politiche, attraverso l'uso del potere discrezionale. 2. Il che ci porta a porre in luce un altro carattere specifico della discrezionalità amministrativa: la politicità. Gli interessi, prima primari o secondari che siano, non hanno, mai, nel tempo e nel luogo, un'equivalenza. Il loro peso, la loro consistenza, varia in ordine al variare delle contingenze politiche ( « politica » qui vale nel senso aristotelico del termine) . È chiaro altresì che dopo un'inondazione il problema dei problemi è di ricostruire gli argini del fiume; dopo un terremoto rifare, le case, dopo un tumulto pacificare gli spiriti; onde di volta in volta l'incidenza degli interessi secondari su quelli primari è diversa. Ed ecco soccorrere la discrezionalità, con la sua infinita possibilità di valutazioni. Chi nella discrezionalità vede delle norme non scritte, non si rende conto che una delle ragioni più valide della discrezionalità è la sua strumentalità politica nel senso augusto del termine. 3. Vi è discrezionalità nel diritto privato, come p. es., nell'attività dei titolari degli uffici privati, quali tutori, curatori, amministratori di società, ecc. in quanto indirizzata ad interessi (fini) specifici (cura degli interessi del soggetto tutelato o curatelato, degli interessi indicati nello statuto della società o dagli organi deliberativi di essa), ma libera per tutto il rimanente. Vi è discrezionalità nella attività legislativa secondaria, talora anche in quella subprimaria; nell'attività del giudice civile e penale: p. es. nei provvedimenti cautelari, nell'applicazione della pena, ecc. Nel diritto amministrativo la discrezionalità non ha diversa natura; ha solo diversi attributi, in ordine alla specie propria dell'azione amministrativa. 4. L'attività discrezionale sta nella «precisazione», o meglio completamento, della norma per il singolo caso concreto (completamente individuale). 5. La discrezionalità è volontà e giudizio insieme; ma guai a ridurla all’una o all’altra. 6. La discrezionalità amministrativa può dirsi perciò che consista nella ponderazione comparativa di interessi, pubblici e privati, già tutelati nell'ordinamento, nei rispetti di un interesse pubblico primario, ai fini di trovarne la composizione più opportuna in ordine ad un'azione da svolgere in circostanze politiche soggette a variazioni. 7. Interesse pubblico primario si esprime giuridicamente dicendo che l'ufficio ha il potere e il dovere (vedremo poi che cosa sia questa situazione giuridica) di intervenire tutte le volte che, ciò sia richiesto dall’interesse che esso ha per canone. 8. In particolare, la discrezionalità amministrativa veniva rappresentata da Giannini - e tuttora lo è nella manualistica e nella giurisprudenza italiana contemporanea - come una ponderazione fra l'interesse c.d. primario - da considerare come lo scopo o l'obiettivo di pubblico interesse fissato astrattamente dalla legge e affidato alla cura concreta di una certa autorità amministrativa - e gli interessi c.d. secondari, pubblici e privati, afferenti alla realtà concreta, ossia emergenti dal contesto fattuale esistente. 9. L'Autore ha proposto una rappresentazione giuridica del fenomeno in parola da cui discende che la sua configurazione non può prescindere dalla presenza (non quindi dell’assenza o dalla sua inapplicabilità) di una specifica norma legislativa attributiva del potere all'autorità amministrativa, dalla quale si evinca il fine da realizzare (ossia un interesse pubblico da perseguire) concretamente. Fine (o interesse pubblico) che l'Autore ha qualificato in modo emblematico come primario. 10. In assenza di tale norma legislativa affidataria del potere l'amministrazione non è legittimata a decidere alcunché. Da ciò si evinceva la regola tuttora vigente secondo cui, diversamente dai soggetti privati che agiscono autonomamente nei limiti della legge (vale a dire in assenza di normative che prescrivano o vietino loro attività o comportamenti), i soggetti pubblici agiscono solo se e in quanto (limitatamente alle ipotesi in cui) la legge conferisca loro un potere di scelta, con certe modalità di espletamento e in vista di un obiettivo da realizzare. 11. Se la discrezionalità è sempre ponderazione di interessi, la ponderazione di interessi non sempre è discrezionale, vale a dire libera, sottratta al sindacato giurisdizionale. Il bilanciamento fra diritti e fra interessi, nonché fra valori che ad essi conferiscono rilievo giuridico, presuppone infatti l'esistenza tanto di limiti esterni posti dalle leggi, quanto di limiti interni posti da quei principi giuridici che attengono al bilanciamento stesso (procedimento di ponderazione). 8) Discrezionalità e tecnica 1. Questa definizione pone in risalto l'intrinseca differenza tra discre-zionalità amministrativa (c.d. pura) e discrezionalità tecnica. Infatti nell’esercizio della seconda i margini di flessibilità operativa non dipendono diversamente da quanto avviene nell'esercizio della prima - dall'esito oscillante di un bilanciamento fra interessi come espressione di una volontà politico-amministrativa, ma dipendono dall'incertezza intrinseca di una scelta rispetto alla quale le scienze e le tecniche non sono in grado di offrire soluzioni fìsse, univoche, oggettivamente certe. Fra le molte ipotesi possibili, basti pensare ad una determinazione fondata su previsioni future, come tali umanamente fallibili; oppure sorretta da valutazioni opinabili di valore, ad esempio m campo estetico ed artistico. 2. Di comune impiego è altresì la nozione di attività tecnica, ma più che nozione giuridica, è una nozione di scienza dell'organizzazione. E di fatti negli apparati delle imprese private, che da noi sono sempre più evoluti degli apparati pubblici, è oggi di comune dominio la distinzione tra dipendenti amministrativi e dipendenti “tecnici”. L'attività tecnica è detta così perché essa si sostanzia nell’applicare regole desunte da discipline o da scienze nomotetiche (tecniche per antonomasia, perché a rigore ogni attività amministrativa è tecnica): p. es. uffici minerari, geologici, idrografici, portuali, stradali, sanitari, e così via. 3. Questa attività tecnica assunse importanza, nella scienza e nella prassi, perché ad un certo punto si cominciò ad usare la nozione di «discrezionalità tecnica», per indicare quel margine che le norme lasciano talora, nella propria applicazione, all'applicazione di nozioni di disciplina tecniche: p. es. pericolo di epidemia, stabilità di un edificio, abitabilità di un locale, coltivabilità di una miniera, grado di acidità di un grasso, e così, via. In realtà questa attività non è per niente discrezionale; non vi è ponderazione di interessi, o giudizio di opportunità: vi è una pura e semplice applicazione di norme e regole tecniche, che portano a soluzione univoca in quanto scientifica. È vero che talora si possono avere conclusioni tecniche diverse, ma allora si tratta di materie opinabili scientificamente - e ve ne sono, specie nelle scienze sperimentali -, che comunque non danno luogo a possibilità di pronuncia di maggiore o minore opportunità. 4. Spesso, accanto alla c. d. discrezionalità tecnica (termine ormai di uso comune, e quindi, anche se errato, non più espungibile), vi è discrezionalità vera e propria: p. es. l'ufficio sanitario giudica che ci sia pericolo di epidemia; l'ufficio amministrativo deve decidere quale provvedimento adottare, tenendo conto dei mezzi che ha a disposizione, della impressionabilità della popolazione, dell'efficacia delle singole misure, e simili. 5. L'attuale concezione del principio di legalità mostra come l'amministrazione abbia perduto rispetto al passato la discrezionalità del fine, non potendo più autonomamente scegliersi un proprio obiettivo da realizzare in assenza di (prescindendo da) una legge che lo preveda e glielo affidi in cura dettando i criteri e le modalità del suo perseguimento. Nello Stato di diritto vige la regola secondo cui è solo la legge a poter fissare gli obiettivi del potere amministrativo. Potere che, una volta investito (legittimato) del compito di perseguire quegli obiettivi, potrà e dovrà realizzarli decidendo in concreto con margini di flessibilità la cui ampiezza dipenderà da quanto legalmente previsto con riferimento ad un an (se agire o no), ad un quid (cosa decidere concretamente), ad un quo-modo (con quali modalità provvedere) rispetto al fine da perseguire. 6. La circostanza che il principio di legalità postuli oggi la preesistenza di un tessuto normativo completo (vale a dire non più lacunoso, come accadeva nel passato, ma esteso ad ogni possibile ambito dell'agire amministrativo) non comporta che quell'agire sia meramente esecutivo e, come tale, totalmente sindacabile dal giudice attraverso un mero giudizio di conformità dell'atto amministrativo alla legge. Infatti, laddove quest'ultima affida all'amministrazione un certo ambito (maggiore o minore) di scelta flessibile (discrezionale) il relativo potere resterà conseguentemente circoscritto in quell'ambito, cosicché il giudice si limiterà a verificare se si è oltrepassato (ecceduto) i limiti legali posti al suo esercizio: limiti segnati non solo dalla stessa legge che quel potere ha attribuito disciplinandone l'uso, ma anche da altre leggi o da principi giuridici applicabili alla fattispecie concreta. 7. Questa rappresentazione può chiarire come il vizio di eccesso dì potere - concepito in origine come una sorta di super-incompetenza - sia potuto apparire allo stesso Massimo Severo Giannini come un andare oltre, un oltrepassare i "limiti del proprio potere" da parte dell'autorità amministrativa decidente. Questa immagine fu resa possibile sin dal momento in cui il sindacato giurisdizionale - che secondo i primi orientamenti della nostra IV Sezione del Consiglio di Stato si fondava su elementi esclusivamente formali - si aprì anche ad una concezione di natura sostanziale della legalità amministrativa. 8. Il che induce la nostra dottrina a definirlo come un vizio della discrezionalità, sebbene esso sia nato nella sfera della legalità e ad essa sia rimasto ancorato. Quel vizio, cioè, per quanto venga tuttora ambiguamente considerato come una strana figura di anticamera della legalità stessa, non si è mai contuso né mai si è identificato col tradizionale vizio di inopportunità, per la cui rilevazione — nei limitatissimi casi previsti tassativamente dalla legge - la giurisdizione del giudice amministrativo si estende al merito. 9. Come è emerso dalla ricostruzione storica finora compiuta, la discrezionalità si è progressivamente giuridicizzata al punto di trovare il proprio fondamento nella legalità, vale a dire nella presenza di una disciplina giuridica in forma di leggi e di principi. Non più nella sua assenza o nei suoi vuoti da colmare come accadeva nel passato quando la legge non costituiva ancora la naturale frontiera fra discrezionalità ed arbitrio. La questione di fondo coinvolge i limiti legali ad un sindacato sulla discrezionalità che ormai, potendo sempre contare sull'esistenza di una disciplina giuridica formale e sostanziale estesa ad ogni ambito amministrativo, non può più da essa prescindere nel verificare in termini legali se l'agire libero dell'amministrazione sia realmente discrezionale (e come tale insindacabile), oppure arbitrario o/e illegittimo (extra legem o/e contra legem). 10. Con riferimento alla complessità del rapporto fra discrezionalità amministrativa e discrezionalità tecnica è opportuno aver chiaro a livello generale che nel diritto amministrativo l'indeterminatezza della norma può riguardare due distinte fasi: 1. Quella dell'indicazione delle premesse di fatto all'esercizio del potere amministrativo, che comporta margini di flessibilità nella qualificazione (sussunzione) dei fatti - specie ove si tratti di fatti che presentano ampi margini di incertezza riguardo al loro accertamento e/o apprezzamento - afferenti alla fattispecie reale come altrettanti presupposti legali ad una corretta applicazione della norma in parola. 2. Quella immediatamente successiva dell'indicazione del fine pubblico che l'amministrazione stessa deve perseguire (c.d. interesse primario), che comporta margini di flessibilità nella scelta concreta da realizzare conseguente all'esito di un bilanciamento fra interessi (primario e secondari) secondo la rappresentazione offerta da Massimo Severo Giannini. 11. Bilanciamento che segna il passaggio dall'interesse pubblico astratto previsto dalla legge in forma di clausola generale, all'interesse pubblico concreto realmente perseguito dall'autorità amministrativa. 9) Legalità e procedimento 1. Come è emerso dalla ricostruzione finora compiuta, la discrezionalità si è progressivamente giuridicizzata al punto di trovare il proprio fondamento nella legalità, vale a dire nella presenza di una disciplina giuridica in forma di leggi e di principi. Non più nella sua assenza o nei suoi vuoti da colmare come accadeva nel passato quando la legge non costituiva ancora la naturale frontiera fra discrezionalità ed arbitrio. La questione di fondo coinvolge i limiti legali ad un sindacato sulla discrezionalità che ormai, potendo sempre contare sull'esistenza di una disciplina giuridica formale e sostanziale estesa ad ogni ambito amministrativo, non può più da essa prescindere nel verificare in termini legali se l'agire libero dell'amministrazione sia realmente discrezionale (e come tale insindacabile), oppure arbitrario o/e illegittimo (extra legem o/e contra legem). 2. Con riferimento alla complessità del rapporto fra discrezionalità amministrativa e discrezionalità tecnica è opportuno aver chiaro a livello generale che nel diritto amministrativo l'indeterminatezza della norma può riguardare due distinte fasi: 1. Quella dell'indicazione delle premesse di fatto all'esercizio del potere amministrativo, che comporta margini di flessibilità nella qualificazione (sussunzione) dei fatti, specie ove si tratti di fatti che presentano ampi margini di incertezza riguardo al loro accertamento e/o apprezzamento, afferenti alla fattispecie reale come altrettanti presupposti legali ad una corretta applicazione della norma in parola. 2. Quella immediatamente successiva dell'indicazione del fine pubblico che l'amministrazione stessa deve perseguire (ed. interesse primario), che comporta margini di flessibilità nella scelta concreta da realizzare conseguente all'esito di un bilanciamento fra interessi (primario e secondari) secondo la rappresentazione offerta da Massimo Severo Giannini. 3. Bilanciamento che segna il passaggio dall'interesse pubblico astratto previsto dalla legge in forma di clausola generale, all'interesse pubblico concreto realmente perseguito dall'autorità amministrativa. 4. La nozione di procedimento amministrativo rimanda a una figura organizzativa espressiva di una sequenza preordinata e unitaria destinata alla produzione di effetti giuridici. In tal modo si risponde alla prima delle questioni che sorgono attorno al tema del procedimento: ovvero “che cosa è il procedimento”, lasciando sullo sfondo l’altra fondamentale domanda “perché il procedimento”, che ne introduce subito un’altra, ad essa strettamente conseguente, “quale procedimento”. 5. A ben vedere anche la seconda delle domande sopra poste ha modo di risolversi agevolmente in stretta connessione alla prima. Va considerato in tal senso che il procedimento amministrativo – non diversamente da ogni altra “procedura” per l’adozione di un atto dei pubblici poteri – altro non esprime che l’idea di un ordo productionis e da sempre (basti pensare alla esperienza storica del processo) l’ordo productionis ha una sua finalità precisa ed immediata che attiene a una generale ed astratta esigenza di legalità nell’esercizio di una funzione. 6. Il “perché” del procedimento è quindi dipendente dall’insieme delle ragioni di cui è espressione l’esigenza di legalità. Ragioni che rinviano alla necessaria osservanza delle prescrizioni normative sui modi di esercizio della funzione, ma anche alla necessità di un’adeguata evidenza dei fatti e degli interessi che in essa prendono vita, il che è condizione di un effettivo realizzarsi della legalità. Ed ancora, legalità come controllo, e quindi l’ordo productionis come premessa o strumento per rendere verificabili le potestà pubbliche: verifica sia del rispetto delle norme che disciplinano l’azione amministrativa (con l’eventuale rilevazione dei vizi di incompetenza e di violazione di legge), che dell’osservanza di principi non scritti, e tuttavia essenziali requisiti della legalità (sanzionati dall’eccesso di potere mediante le fattispecie sintomatiche del difetto di istruttoria, dell’omessa considerazione di interessi, del travisamento dei fatti, dell’incongruità tra le risultanze dell’istruttoria e la motivazione, della disparità di trattamento, ecc.). 7. Queste potrebbero dirsi le ragioni non soggette a variazioni, del “perché” della figura in ogni esperienza giuridica contemporanea. Il contesto di giustificazioni in cui va situata la figura del procedimento deriva pertanto dall’esigenza di legittimazione attraverso regole cui è finalizzato l’ordo productionis. Legittimazione dell’esercizio di una potestà pubblica attraverso il rispetto di norme ma che il progressivo affinamento delle esigenze di tutela ha subordinato anche al rispetto di criteri sostanziali di rilevanza degli interessi. Un contesto di giustificazioni, dunque, che sembra rifuggire dalle contrapposizioni dicotomiche tra legalità “formali” e “sostanziali” e dalla pretesa di assegnare alle diverse concezioni del procedimento l’adesione all’uno o all’altro modo di intendere la legalità. 8. Avviando la nostra analisi verso una rigorosa prospettiva di diritto positivo, vi è un ulteriore motivo di riflessione relativo alle diverse elaborazioni che si rinvengono nel capitolo della teoria del procedimento. La figura del procedimento amministrativo infatti non coinvolge soltanto (rilevanti) istituti o concetti di spessore teorico e tecnico, ma anche sensibilità e consapevolezze che affondano le loro radici in terreni che si alimentano di (diverse) opzioni politico-ideologiche: ciò sia riguardo al modo di concepire, sul piano dell’esercizio delle potestà pubbliche, la sfera delle relazioni giuridiche tra il complesso dei poteri pubblici e gli amministrati ma anche (si pensi alla fitta trama delle relazioni procedurali che si stabiliscono tra i poteri pubblici in procedimenti pianificatori e programmatori) con riguardo ai nessi procedimentali del pluralismo istituzionale. 9. Il campo di incontro-scontro delle diverse opzioni è quello al quale rinvia la terza domanda che è stata posta in apertura di questa voce (“quale procedimento”): il campo cioè della scelta dei “modelli” procedurali propri della disciplina normativa (generale o particolare) dei procedimenti amministrativi. È questo anche il campo al quale si atterranno in termini ricostruttivi le note che seguono sull’evoluzione della disciplina positiva della materia. 10) La legge generale sul procedimento 1. La soluzione del problema della disciplina positiva con la legge 7.8.1990, n. 241 I temi sui quali si incentrano, dall’immediato dopoguerra in poi, le prese di posizione teoriche di politica legislativa sono quelli relativi alla disciplina dell’attività amministrativa. 2. La traduzione in ipotesi normative delle indicazioni proprie dell’approccio contemporaneo al tema della disciplina generale dell’azione amministrativa è merito della Commissione sui procedimenti amministrativi istituita presso la Presidenza del Consiglio, presieduta da Mario Nigro, i cui risultati, resi noti con Relazione del Presidente del Consiglio al Parlamento, presentata il 7 settembre 1984, vengono tradotti, con alcune significative varianti, nella l. 7.8.1990, n. 241. 3. La l. n. 241/1990 più volte modificata negli anni successivi, è stata ampiamente novellata – in modo significativo – dapprima dalla l. n. 15 del 2005 e dalla l. n. 80 del 2005, in seguito, a titolo esemplificativo, dal d.P.R. 2.8.2007, n. 157, attuativo della l. n. 296 del 2006; dalla l. n. 122 del 2010, dalla l. n. 106 del 2011 e 180 del 2011, dalla n. 148 del 2011, dal l. n. 190 del 2012, dalla l. 35/2012, dalla l. n. 98 del 2013, dal d.l. n. 133 del 2014 e infine dalle recentissime l. n. 124 del 7.8.2015 e n. 221/2015. 4. La l. n. 241/1990 ha finito così con l’assumere – anche per la tecnica legislativa adottata con l’inserimento delle modifiche nel corpus originario – la funzione di contenitore di una “legge generale” dell’azione amministrativa costantemente aggiornata alla luce dell’evolversi degli assetti tecno-politici dell’amministrazione. Legge generale” destinata a porsi come pendant del “Codice del processo amministrativo” (d.lgs. 2.7.2010, n. 104, anch’esso costantemente “aggiornato” dal d.lgs. 195/2011, dal d.lgs. 160/2012, dalla l. 208 del 2015 e dal d.l. 210 del 2015) secondo uno schema, da tempo teorizzato da Nigro, di un circuito procedimentoprocesso-procedimento. 5. “Legge generale”, dunque, anche perché relativa all’intera tipologia di atti e alle attività che si configurano nel procedimento e ivi si dispiegano e si intrecciano. 6. “Legge generale” ma non esclusiva, per gli inevitabili rimandi oltre che al capitolo del processo amministrativo anche al capitolo sui contratti pubblici (artt. 1, comma 1 bis e 21 sexies) reso anch’esso in forma di Codice dal d.lgs. 12.4.2006, n. 163 e anch’esso – in seguito – incessantemente modificato, da ultimo con l’approvazione del Nuovo Codice dei Contratti pubblici n. 50/2016 pubblicato in Gazzetta Ufficiale il 20 Aprile 2016. 7. “Legge generale”, infine, ma non definitiva in quanto destinata agli inevitabili correttivi come già accaduto negli oltre venti anni di evoluzione dalla legge, essendo la figura del procedimento espressione, si direbbe, “contemporanea” delle esigenze di una società e pertanto tesa alla costante, e – per definizione – instabile, ricerca di un “assetto” corrispondente a quelle esigenze («procedures are deeply rooted in an social context and will reflect the beliefs and understandings prevailing in it», come significativamente ricorda Galligan, D.J., Due Process and Fair Procedures, Oxford, 1996, 20; autore che appartiene a una scienza giuridica come quella inglese che pure fonda i principi dell’azione amministrativa sull’appello a valori assoluti quali quelli evocati dalla “natural justice”). Fatto è che una normativa sull’azione si nutre delle aspirazioni di cui in un dato momento quella società si alimenta o anche solo delle sensibilità del momento, che variano dall’attenzione alle modalità “tecnologiche” della comunicazione (art. 3 bis, 14-15 bis, 14 ter, co. 2) alla tutela differenziata per gli interessi ambientali, paesaggistico-territoriali, storico-artistici, della salute (art. 14 quater). 8. In via generale le linee di politica legislativa cui si ispira la “legge generale” dell’azione amministrativa sono sintetizzabili, nel vincolo per l’amministrazione – secondo un principio di proporzionalità – di non «aggravare il procedimento se non per straordinarie e motivate esigenze imposte dallo svolgimento dell’istruttoria» (art. 1, co. 2); nel «dovere» (art. 2) di concludere il procedimento e di farlo in un tempo dell’azione amministrativa che sia un tempo certo (art. 2, co. 2-4) secondo un principio di doverosità dell’azione amministrativa che colora quindi di illegittimità – e ora di responsabilità disciplinare e contabile secondo la novella dell’art. 2, co. 8 e 9, introdotta dal citato d.l. n. 5/2012 – il mancato esercizio del potere e cioè il silenzio inadempimento della pubblica amministrazione con conseguenze risarcitorie per l’inosservanza dolosa o colposa del termine certo (art. 2 bis). 11) Il governo del procedimento: le soluzioni positive. Il punto dove i principi di efficacia, economicità e trasparenza incrociano gli ambiti della responsabilità risalta nella figura del responsabile del procedimento. Il Responsabile del procedimento - cui è dedicato il Capo II della "legge generale" - è chiamato ad individuare i soggetti in grado di apportare circostanze significative alla comprensione dei fatti (art. 6, lett. a: «valuta, ai fini istruttori, le condizioni di ammissibilità, i requisiti di legittimazione ...»), determinando la rilevanza o meno dell'apporto di una parte rispetto all'oggetto della decisione (... «i presupposti che siano rilevanti per l'emanazione di provvedimento») ed a determinare, di volta in volta, l'ampiezza e l'incisività degli accertamenti dovuti (lett. b: «accerta di ufficio i fatti... e adotta ogni misura per l'adeguato e sollecito svolgimento dell'istruttoria»). Si evidenzia in tal modo come nella figura del responsabile -centrale nella costruzione della "legge generale" - il profilo del ruolo, della iniziativa e del potere è prevalente su quello della responsabilità e quest'ultima - a sua volta - si manifesta come un fattore di legittimazione del potere dell'autorità. Lo conferma il fatto che l'unità organizzativa individuata è «responsabile dell'istruttoria», ma anche «di ogni altro adempimento procedimentale, nonché dell'adozione del provvedimento finale» (art. 4, co. 1). Ciò nella consapevolezza che il procedimento non risulta interamente preformato nella successione degli atti che in esso si sviluppano e che - anzi - questa successione incorpora momenti valutativi e di scelta. La figura del responsabile del procedimento è assunta da tutta la letteratura formatasi sulla "legge generale" come figura essenziale nel processo di modernizzazione della pubblica amministrazione ed è stata sostanzialmente tenuta ferma nelle numerose innovazioni susseguitesi nel ventennio di evoluzione della legge. Essa conferma la rilevanza pratica, oltre che teorica, dei collegamenti che si danno tra organizzazione e azione amministrativa, in ragione dell'esigenza di stabilire i nessi tra produzione e imputazione dell'attività e di stabilire per questa via i centri di responsabilità dell'agire amministrativo, dispersi nei rivoli delle competenze amministrative. Ne risulta rafforzata la giustezza delle posizioni teoriche da tempo formulate in questa direzione e la validità dell'opinione che il problema della regola dell'azione è problema condizionato dalle strutture. Al responsabile dell'amministrazione procedente incombe - ai fini di certezza e di efficacia dell'azione - di ricercare con le altre amministrazioni coinvolte nel procedimento accordi e intese e rendere temporalmente certi gli apporti endoprocedimentali richiesti alle varie amministrazioni. Segnatamente, l'impulso del responsabile del procedimento si sviluppa nel divenire del procedimento con funzioni propulsive nella predisposizione di accordi con gli interessati al fine di determinare il contenuto discrezionale del provvedimento finale (art. 11), nella cura degli incombenti istruttori, tra cui l'indizione della conferenza di servizi e la sua gestione (artt. 14 ss.), la gestione delle attività consultive (art. 16, co. 2) e delle richieste di valutazioni tecniche I (art. 17) (procedendo, in caso di ritardo sui tempi da parte dell'amministrazione di settore competente in modo indipendente ovvero richiedendo (e valutazioni ad altri organi o enti dotati di qualificazione e competenza tecnica equipollenti, o ad istituti universitari), l'acquisizione d'ufficio dei «fatti, gli stati e le qualità che la stessa amministrazione procedente o altra pubblica amministrazione è tenuta a certificare» (art. 18, co. 3). In sostanza, la funzione del responsabile del procedimento può essere definita di governo del procedimento. Le premesse concettuali vengono ravvisate nel passaggio da una concezione tesa a precostituire la certezza della partecipazione di una pluralità di figure soggettive (molto spesso altre autorità pubbliche) in nome di astratti disegni di competenza e di titolarità di interessi, a una concezione volta a sottolineare la responsabilità propria dell'organo dell'istruttoria di divisare le forme organizzative più idonee rispetto all'oggetto della indagine e alle concrete alternative disponibili. Gli aspetti di rilievo in questo processo di attribuzione di efficienza ad una prestazione del sistema quale è il procedimento amministrativo ruotano intorno alla valorizzazione dell'istruttoria procedimentale intesa come vera e propria proposta di decisione amministrativa, e infatti «l'organo competente per l'adozione del provvedimento, ove diverso dal responsabile del procedimento, non può discostarsi dalle risultanze dell'istruttoria condotta dal responsabile del procedimento se non indicandone la motivazione nei provvedimento finale» (art. 6, sub e). L'idea di amministrazione si svolge, dunque nella "legge generale" secondo uno schema volto a tutelare l'efficienza alla prestazione resa dal procedimento. Ciò in più direzioni: in primo luogo riducendo il sovraccarico di provenienza pubblicistica ed elidendo lo schema astratto, vincolato, delle competenze, per via - come si è visto - della imputazione al responsabile del procedimento della decisione in ordine ad atti istruttori (pareri, valutazioni tecniche) che per omissioni degli organi pubblici non siano rilasciati nei tempi dovuti. In secondo luogo, sul piano della ricomposizione dei rapporti con gli amministrati, attraverso - gli istituti volti all'accordo con gli interessati in via integrativa o costitutiva del procedimento (art. 11). In terzo luogo - incidendo sui rapporti inerenti il pluralismo istituzionale - lo schema fa leva sull'arricchimento organizzativo dei moduli dell'azione; è il caso della conferenza di servizi (art. 14) «qualora sia opportuno ... effettuare un esame contestuale di vari interessi pubblici» o, qualora sia necessario «acquisire intese, concerti, nulla osta o assensi» o se è «intervenuto il dissenso di una o più amministrazioni interpellate» concentrando così la valutazione degli interessi stessi in un unico momento temporale. In questo senso, il rilievo degli istituti della responsabilità e del coordinamento evidenzia l'esigenza di coniugare il pluralismo delle competenze con le ragioni dell'unificazione: non avrebbe senso infatti aspirare ad un'organizzazione amministrativa ispirata a principi di pluralismo istituzionale, se poi non si apprestassero strumenti per unificare ciò che è diviso per raggiungere un obiettivo e ottenere un risultato utile. Importanza centrale ha l'inquadramento, nella costruzione del procedimento, della funzione svolta dai soggetti nei cui confronti l'atto finale è destinato a produrre effetti e che pertanto sono chiamati alla partecipazione al procedimento amministrativo (come è rubricato il Capo III) e ciò, fin dall'iniziale «comunicazione» dell'amministrazione (art. 7). Dal punto di vista delle parti, il procedimento appare come un campo di rappresentazioni, delineato sul piano positivo dall'art. 9: «qualunque soggetto, portatore di interessi pubblici o privati, nonché i portatori di interessi diffusi costituiti in associazioni o comitati, cui possa derivare un pregiudizio dal provvedimento, hanno facoltà di intervenire nel procedimento». Ognuna delle rappresentazioni è veicolata in forma di contraddittorio. Questo nella "legge generale" appare in linea con le forme processuali dello stesso pur nei limiti dell'assenza del contraddittorio nell'espletamento delle operazioni tecniche e nell'accertamento dei presupposti. L'amministrazione ha l'obbligo di valutare le rappresentazioni contenute in memorie e documenti presentati dagli interessati e «pertinenti all'oggetto del procedimento» (art. 10), ma si intende come la rilevanza dell'interesse viene a dipendere dalla rilevanza dei dati di fatto e delle alternative ad essi legate e si pone come distinta dalla legittimazione processuale. E infatti, se ci si pone dal punto di vista della funzione occorre riconoscere che, affinché le posizioni delle parti acquistino un'effettiva rilevanza nei processo decisionale e la partecipazione non si risolva in una rassicurazione simbolica, è necessario che gli interessati escano dalle loro prospettive di interessi (le pretese partecipative) e questo per offrire all'organo della decisione alternative o, se si vuole, scenari o progetti alternativi sugli sviluppi del potere in grado di realizzare comunque l'interesse pubblico sotteso al potere in attribuzione all'autorità. Ciò implica, d'altro lato, il dovere per l'amministrazione di investigare costantemente tutte le alternative possibili nel corso della propria azione. In via generale, peraltro, una volta che si assuma il procedimento dal punto di vista della funzione cui esso adempie (di far emergere e selezionare alternative accettabili e rilevanti in ordine ai contenuti dell'esercizio di un determinato potere), e lo si riguardi obiettivamente come una prestazione del sistema a ciò rispondente, il procedimento appare legittimato solo dalla 'sua efficacia. Ciò è testimoniato dall'art. 21 octies, secondo cui «non è annullabile il provvedimento adottato in violazione di norme sul procedimento o sulla forma degli atti qualora, per la natura vincolata del provvedimento, sia palese che il suo contenuto dispositivo non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato». La linea segnata da questa norma, dà esplicito riconoscimento normativo alla valutazione che deve compiere l'amministrazione in sede procedimentale circa la rilevanza delle alternative evocate ai fini dei possibili esiti della decisione ove venga dedotta l'illegittima esclusione del privato dalla pubblica funzione. Per avere influenza effettiva - la procedura deve avere il carattere di un'interazione continua tra persona, società e istituzioni amministrative. Questa costituisce una premessa essenziale anche ai fini dell'effettività delle rappresentazioni provenienti dalie parti, le quali richiedono per incidere sul processo decisionale fa conoscenza delle ipotesi di base che la stessa amministrazione ha assunto nel dare inizio al procedimento o che la medesima o altre figure soggettive sono venute elaborando nel corso della stessa azione amministrativa. L’Accesso ai documenti amministrativi - posto come "principio generale" dell'attività amministrativa, al pari di quelli proclamati dall'art. 1, attese le sue rilevanti finalità di interesse pubblico (art. 22) - dà luogo a un diritto (tutelabile con ricorso, secondo una procedura d'urgenza ex art. 116 c.p.a., davanti agli organi della giurisdizione amministrativa) che presuppone e, quindi, determina (o dovrebbe determinare) anche una nuova mentalità degli operatori amministrativi. 12) La tutela fra procedimento e processo II vento riformatore del mutamento di equilibri fra valore individuale e valore sociale degli interessi non ha mancato di investire in modo corrispondente e parallelo anche il processo amministrativo attraverso il già accennato potenziamento dei poteri di cognizione del giudice lungo un percorso di riforma che culmina con il d.lgs. 2 luglio 2010, n. 104 (codice del processo amministrativo). Maggiori garanzie procedimentali e processuali concorrono congiuntamente a rifondare il sistema di tutela del cittadino nei confronti della pubblica amministrazione, ridefinendo il modo di essere del potere e ribaltando i termini stessi del tradizionale e obsoleto rapporto amministrazione-amministrati. Occorre anche aver presente che il vizio di eccesso di potere, oltre a sostituire tuttora uno strumento di estensione del sindacato di legittimità della quasi totalità degli ordinamenti europei fra i quali, non a caso, quello tedesco ("Ermessemiiberschreìtung"), è previsto e applicato nello stesso diritto europeo, specie con riferimento allo sviamento ed alla violazione delle forme sostanziali di cui all'ex art. 230 TCE, ora art. 263 TFUE. È noto come la morfologia dello "sviamento di potere" o "falso scopo dell'alto", sulla falsariga di quanto avveniva in Francia (detournement de pouvoir), fosse utilizzata dalla dottrina del primo Novecento per definire il vizio di eccesso di potere: vizio che poneva - e tuttora pone - non facili incognite nell’enucleare unitariamente il suo denominatore comune. Il problema era - ed è - quello di comprendere nel proprio ambito concettuale ogni sua diversa applicazione ad opera di una giurisprudenza amministrativa alluvionale in rapido e caotico sviluppo. La sua locuzione era originariamente intesa nel senso di un andare al di là dei limiti del proprio potere (una sorta di "superincompetenza di ben difficile definizione"). Ma negli anni immediatamente successivi il vizio in parola viene definito come sviamento di potere dal fine legalmente imposto dalla nonna attributiva del potere. Va ricordato come il vizio fosse stato strutturalmente legato alla motivazione e come dall'esibizione di motivi errati o non sufficientemente argomentati si inducesse il vizio della volontà o dell'oggetto. Solo in epoca successiva la giurisprudenza estese l'eccesso di potere alla contraddittorietà e all'illogicità della motivazione deducendo tali anomalie in forma di sintomi dai quali derivò la ed. sintomatologia del vizio in parola che non entra nel cuore della ponderazione degli interessi, ma rimane confinata ai suoi margini. Nello specifico, si affermò l'analisi sintomatica della motivazione non solo sotto l'aspetto della sufficienza, ma anche sotto quello della sua rispondenza a logica. A questo riguardo l'accertamento diretto dei motivi poneva il problema dell'istituzione probatoria nel processo amministrativo in quanto ci si chiedeva quali motivi fossero conoscibili dal giudice: se solo quelli dedotti nella motivazione, oppure anche quelli non dedotti suscettibili di configurare la vicenda dello sviamento. Col prevalere della seconda ipotesi prevalse una concezione non più formalistica, ma sostanzialistica della motivazione stessa, che nella valutazione della sua sufficienza privilegiava la sua qualità rispetto alla sua quantità in termini materiali di estensione. Giannini mette in luce come da questa svolta l'area dell'eccesso di potere sia divenuta amplissima e di più ardua definizione unitaria. In particolare l'Autore ricorda come l'evoluzione del vizio di eccesso di potere sia contestuale all'evoluzione dell'istituto della motivazione. Da qui il succedersi di quelle "teorie, più rigorose, che lo individuarono come vizio della volontà, della causa, dei motivi; da ultimo la teoria che lo profila come vizio della funzione”. La crescente tendenza del nostro legislatore a favorire l'uso da parte dell'amministrazione di moduli consensuali induce da tempo numerosi studiosi ad annunciare il superamento del modello tradizionale pubblicistico che produrrebbe una contrazione (alcuni parlano addirittura di morte imminente) del diritto amministrativo con conseguente espansione del diritto civile. Ma questa tendenza non dequalifica né rende anacronistico e superato il modello tradizionale e tuttora onnipresente di amministrazione autoritaria e discrezionale. Infatti, fino a quando continueranno ad esistere interessi pubblici da tutelare affidati in cura dalla norma attributiva del potere, spetterà preliminarmente all'amministrazione agente - e non certo all'amministrato - di decidere autoritativamente e discrezionalmente se agire autoritativamente e discrezionalmente per la realizzazione dell'interesse pubblico, oppure se agire col tramite di moduli consensuali per la realizzazione del medesimo interesse pubblico. Ma fino a che l'interesse pubblico rimane intrinsecamente tale, finalizzato al bene comune e, per ciò stesso, tendenzialmente dominante su quello del singolo soggetto privato, la possibilità di usare moduli consensuali non riduce, ma accentua semmai il potere amministrativo. E ciò in quanto offre ad esso una chance in più che può essere liberamente usata o non usatacene può essere usata o perfino come strumento di pressione nel minacciare un provvedimento svantaggioso in caso di non accettazione di quanto proposto. Rileva invece la natura pubblica (o privata) del fine per il quale l'amministrazione agisce. Fine rispetto a cui i reali contorni - più ampi o più ristretti - del diritto amministrativo si stagliano in base al rapporto che in un particolare contesto storico e culturale si instaura fra bene comune e beni delle singole persone, nella dinamica degli equilibri e dei rapporti di forza che si creano socialmente e giuridicamente tra il valore dell'uomo come collettività e valore dell'uomo come individuo. Tutto ciò, vale anche e soprattutto laddove si renda opportuno utilizzare moduli consensuali - anziché quelli tradizionalmente autoritativi - la cui utilizzazione non cancella l'esercizio del potere discrezionale, ma io conferma e io rafforza, offrendo ad esso una possibilità in più, e non certo una possibilità in meno, seppure nei limiti del rispetto dei parametri della ragionevolezza e della proporzionalità della scelta fra modulo consensuale e modulo autoritativo. Rispetto all’esigenza comune di circoscrivere il potere entro confini tendenzialmente ristretti, e porre al riparo il soggetto privato da inutili sacrifici, emerge l’esigenza crescente di un’applicazione sistematica del principio di proporzionalità. Ci si riferisce al controllo dell'idoneità del mezzo (rispetto alla realizzazione del fine), al controllo della necessarietà del mezzo stesso (da intendere come doverosa ricerca del mezzo meno gravoso per gli amministrati ad equivalenza di risultati), e alla proporzionalità in senso stretto (da intendere come doverosa risposta all'interrogativo se i benefici a favore dell'interesse pubblico possano compensare i sacrifici subiti dagli amministrati). La loro scansione a concatenazione progressiva costituisce nelle esperienze centro europee un formidabile strumento di contenimento del potere amministrativo (e legislativo) a garanzia degli amministrati, assai utile a promuovere il consenso sulle scelte dell'amministrazione, ivi compresa quella, ora da motivare, di utilizzare moduli consensuali anziché moduli autoritativi. 13) La tutela delle situazioni giuridiche soggettive La coppia diritti-interessi si ritrova nella Costituzione del 1948: “Tutti possono agire in giudizio per la tutela dei propri diritti o interessi legittimi” (Art. 24); “Contro gli atti della pubblica amministrazione è sempre ammessa la tutela giurisdizionale dei diritti e degli interessi legittimi dinanzi agli organi di giurisdizione ordinaria o amministrativa” (Art. 113). Ma che cos’è un interesse legittimo? E come di distingue da un diritto soggettivo? Il diritto soggettivo è una situazione giuridica che spetta ad una persona sulla base di un titolo che può avere la natura più varia, ma che non dipende, in generale, da una pubblica amministrazione. L’interesse legittimo è invece correlato necessariamente all’esercizio di un potere amministrativo. La domanda che sorge spontanea, a questo punto, è la seguente: perché noi parliamo di interesse al provvedimento anziché di diritto al provvedimento? Di interesse ad oppormi al provvedimento anziché di diritto di oppormi al provvedimento? La risposta negativa è implicita nella definizione dell’interesse legittimo come: intérèts à apprécier. Interessi da apprezzare, da valutare. L’amministrazione, lungi dall’essere obbligata a soddisfarli (come è obbligato il debitore verso il creditore) deve preliminarmente accertare se essi siano compatibili con l’interesse pubblico. Quando il giudice accerta un’obbligazione che il debitore sostiene di avere adempiuto, per ciò stesso esclude l’adempimento. Se il debitore avesse pagato, nessun credito residuerebbe, e quindi nessun credito potrebbe essere accertato. Di fronte all’interesse legittimo il compito del giudice (amministrativo) è diverso. Non gli si chiede di accertare l’esistenza dell’interesse legittimo. Gli si chiede di accertare che il potere amministrativo, che si contrappone all’interesse legittimo e ad esso è correlato, sia stato esercitato in modo illegittimo; ossia che l’atto impugnato è viziato da incompetenza, violazione di legge e eccesso di potere. Da tale illegittimità deriva la lesione dell’interesse legittimo. Conformemente al pensiero originario di Vittorio Emanuele Orlando i diritti soggettivi sono conformati in modo da risultare strutturalmente incompatibili con l'esercizio del potere discrezionale. Al contrario, gli interessi legittimi coa-bitano, mediano, scendono a patti con esso, tanto che la nostra dottrina contemporanea li definisce come "situazioni soggettive che dialogano col potere" amministrativo, vale a dire come posizioni giuridicamente tutelate dall'ordinamento che consentono forme di coesistenza col potere autoritativo e discrezionale. Lungo tutto il corso del Novecento l'interesse legittimo segna da noi un percorso evolutivo che si distacca dalla comune matrice europea e che conduce all'integrazione di quei due mondi della legalità e della discrezionalità ritenuti morfologicamente estranei e incompatibili l’uno all’altro. Al rafforzarsi della natura giurisdizionale della funzione svolta dagli organi di giustizia amministrativa fa riscontro la graduale giuridicizzazione dell'interesse legittimo, lungo un percorso tortuoso, la cui ultima tappa è segnata dalla storica sent. n. 500 del 1999 delle Sezioni Unite del-la Corte di Cassazione, che pone fine al dogma ultracentenario della non risarcibilità del danno derivante dalla sua lesione. Col venir meno di quel dogma è ragionevole chiedersi se sia infine caduto l'ultimo baluardo che separava le due situazioni giuridiche soggettive e, in via più specifica, se possa considerarsi ormai del tutto colmato lo storico distacco fra diritto soggettivo e interesse legittimo. Anche gli interessi c.d. pretensivi - e non solamente quelli c.d. oppositivi che presuppongono la preesistenza di un bene della vita nella sfera giuridica dell'amministrato - sono ora risarcibili laddove possa configurarsi un nesso di causalità, anche in termini di "perdita di chance”, fra un vizio imputabile all'amministrazione e una ragionevole aspettativa dell'amministrato (c.d. logica della spettanza) rispetto a condizioni di vantaggio da lui non ancora acquisite, ma a cui egli aspiri col chiedere l'osservanza di norme che, tuttavia, non sono volte direttamente a tutelarlo poiché finalizzate in modo esclusivo o prevalente alla cura dell'interesse pubblico. Questa nostra figura, del tutto peculiare nello scenario europeo - intesa in senso lato in quanto includa nel proprio alveo anche la categoria dei diritti ed. minori o imperfetti (affievoliti o degradati) - ha dunque prodotto nel nostro ordinamento una consistente estensione del sindacato del giudice amministrativo a cui fa riscontro una corrispondente riduzione del sindacato del giudice ordinario. Le rappresentazioni teoriche e le regole sistematiche dell'interesse legittimo offerte in oltre un secolo di elaborazione giurisprudenziale e dottrinaria rappresentano il riflesso visibile ed esteriore del lento processo di giuridicizzazione della discrezionalità, avviato fin dalla prima enucleandone di questa nostra nuova figura soggettiva. Si rammenta come la salvaguardia dell'interesse legittimo fosse inizialmente condizionata in modo totale al perseguimento dell'interesse pubblico. In questa ottica è paradigmatica l'impostazione dogmatica che ci fu inizialmente offerta da Oreste Ranelletti con l'affermare che la tutela di questa nuova figura fosse solo occasionale, se e in quanto strumentalmente orientata nella stessa direzione dei fini pubblici perseguiti dall'autorità amministrativa. L’espansione della legalità in Italia col tramite della figura dell’interesse legittimo costituisce un eloquente riscontro del passaggio dalla concezione arcaica della discrezionalità – la cui presenza è caratterizzata da una corrispondente assenza o lacunosità del diritto oggettivo e di situazioni soggettive protette – alla concezione nuova ed opposta di una discrezionalità la cui presenza, ora, scaturisce dalla legge, dalla sua dalla sua disciplina positiva, soprattutto dalla facoltà del soggetto privato di ottenere in suo favore – proprio col tramite di questa nostra figura soggettiva – l’applicazione di tale disciplina positiva. Ossia di esigere a suo vantaggio l’applicazione dell'intero complesso di norme che regola ogni possibile ambito dell'attività amministrativa, discrezionale e di diritto pubblico. Col consentire all'amministrato di ottenere l’applicazione in proprio favore di norme esistenti, ma a lui non destinate, si compie da noi uno straordinario progresso rispetto alla concezione arcaica della discrezionalità, intesa come potere autonomo e incontrollato che scaturisce in via residuale dall'assenza di norme. Si pensi, infine, al trasferimento al giudice amministrativo - con la legge n. 205 del 2000 - della tradizionale competenza risarcitoria del danno tradizionalmente appartenuta al giudice ordinario. Queste ed altre ipotesi confermano - di pari passo col ruolo crescente del nostro interesse legittimo - il ruolo altrettanto crescente della nostra giurisdizione amministrativa ritenuta dal nostro legislatore sempre più in grado di sostituire competenze e ruoli riservati in precedenza al giudice ordinario. La nostra giustizia amministrativa costituisce ormai “un sistema monistico a prevalenza del giudice amministrativo al quale sono devolute materie universali, come risulta dal lunghissimo elenco (gonfiatosi sino alla lettera z-sexies e neppure esaustivo) contenuto nell’art. 133 c.p.a., cui si aggiungono la giurisdizione generale di legittimità e quella di merito, non bilanciato da alcuna attribuzione riservata al giudice ordinario, nel senso di non valicabile del legislatore ordinario (tranne alcune ipotesi eccezionali)”. 14) La tutela dal potere Il riconoscimento ad opera delle Costituzioni e delle leggi di diritti da far valere nei confronti del potere amministrativo non ebbe come immediata conseguenza la loro tutela da parte di organismi indipendenti dal potere amministrativo stesso. Questa carenza di tutela in termini di effettività era dovuta anche alla perdurante rigidità applicativa del principio della separazione dei poteri che ostava ad ogni forma di ingerenza del potere giurisdizionale sull'esercizio del potere amministrativo. Gli interrogativi posti dal recepimento del principio illuminista della divisione dei poteri restano sostanzialmente i medesimi: come è possibile giudicare il potere senza violare l'autonomia del suo esercizio? In che modo possono essere garantiti con pienezza i diritti senza travolgere l'intangibilità del potere discrezionale della pubblica amministrazione, la cui sacralità risulta oltretutto accentuata dal fatto che esso è ora esercitato a favore della collettività nel perseguimento del bene comune? Attraverso quali criteri sistematicamente omogenei è possibile delineare in modo nitido i contorni della separazione tra potere giurisdizionale e potere amministrativo? La potestà di giudicare l’amministrazione nell’esercizio delle sue funzioni non comporta, in definitiva, che il giudice devii dalla propria funzione e amministri il pubblico interesse in sostituzione di essa? 1. La soluzione più drastica e radicale, prevedeva che tutte le materie su cui si facesse questione di un diritto fossero attribuite alla competenza del giudice unico, vale a dire del giudice ordinario. 2. La soluzione meno drastica e di compromesso, prevedeva dì istituire "giudici amministrativi”, oppure di trasformare in giudici amministrativi speciali i preesistenti Tribunali del contenzioso. La loro natura amministrativa avrebbe garantito una particolare sensibilità (o, in termini più espliciti, un certo (occhio di riguardo) alla specificità (specialità) del diritto amministrativo - rispetto alle altre discipline giuridiche - per la delicatezza delle questioni che attengono alla sfera dell’interesse pubblico. Questa seconda soluzione fu adottata - e tuttora vige - nella maggior parte dei Paesi europei: in particolare in Austria, nei singoli Stati dell'Impero germanico, e in Francia dove il Conseil d'État aveva già iniziato da tempo la sua metamorfosi in organo giurisdizionale con garanzie di indipendenza. La scelta assunta da ciascun Paese non avvenne per caso. Né per caso in Italia si giunse per tappe alla elaborazione di un meccanismo articolato e complesso, che contemplava entrambe le soluzioni contemperandole nell'ambito di un sistema binario di doppia giurisdizione: del giudice ordinario dei diritti civili e politici, del giudice amministrativo degli interessi legittimi. Un sistema misto che tuttora rappresenta una peculiarità dell’ordinamento italiano nello scenario europeo e mondiale, realizzato con originalità punto di equilibrio e di compensazione nel combinato disposto di due leggi emanate a distanza di ventiquattro anni: la legge 20 marzo 1865, alL. E, abolitiva dei Tribunali del contenzioso amministrativo del giudice unico dei diritti, e la legge Crispi del 21 marzo 1889. n. 5992, istitutiva della IV Sezione del Consiglio di Stato a cui spettò decidere in materia di interessi che nella precedente legge erano stati qualificati per esclusione come affari non compresi, vale a dire in negativo come non diritti. In una prima fase storica prevalse in Italia la concezione del giudice unico dei diritti. La legge 20 marzo 1865 All. E., nell’abolire i detestati tribunali del contenzioso amministrativo, devolve (art. 1) "le controversie ad essi attribuite ... alla giurisdizione ordinaria, od all'autorità amministrativa". Alla prima (art. 2) "sono devolute tutte le cause per contravvenzioni e tutte le materie nelle quali si faccia questione di un diritto civile o politico, comunque vi possa essere interessata la pubblica amministrazione, e ancorché siano emanati provvedimenti del potere esecutivo o dell’autorità amministrativa”. Alle autorità amministrative sono invece attribuiti (art.3) “gli affari non compresi nell'articolo precedente", vale a dire tutte le questioni per le quali non sia riconosciuta l'esistenza di un diritto civile o politico. La separazione dei poteri è garantita soprattutto con l’interdizione posta ai giudici ordinari (art. 4), che "si limiteranno a conoscere degli effetti dell'atto ... in relazione all'oggetto dedotto in giudizio", con l'ulteriore precisazione che "l'atto amministrativo non potrà essere revocato o modificato se non sovra ricorso alle competenti autorità amministrative…”. In particolare (art. 5) i giudici ordinari stessi "applicheranno gli atti amministrativi ... in quanto siano conformi alle leggi". Da ciò viene dedotto il c.d. istituto - tuttora vigente - della disapplicazione, secondo cui l'autorità giudiziaria ordinaria può non applicare l'atto illegittimo, ma non può annullarlo o modificarlo. Le oscillazioni interpretative sulla distinzione fra diritti e affari non compresi erano di tale entità e portata da rendere insostenibili i costi giuridici di quell’ ideale puro di giustizia che il dogma del giudice unico dei diritti aveva partorito. La legge Crispi del 1889, istitutiva della IV Sezione del Consiglio di Stato competente a decidere sui c.d. affari non compresi, completa ed integra la precedente disciplina del 1865 offrendo soluzioni tuttora vigenti. Questa riforma tende al superamento dei tre profili problematici in precedenza enunciati, in particolare: 1. Prevede in capo alla neo istituita IV Sezione il potere di annullamento quindi di eliminazione dal mondo giuridico, dei provvedimenti amministrativi ritenuti illegittimi. 2. Offre più consistenti garanzie di tutela a quelle situazioni di interesse di indubbia rilevanza ascrivibili alla più generale categoria degli affari non compresi. 3. Pur non eliminando le incertezze di fondo sui criteri distintivi fra sfera dei diritti e sfera degli interessi, attenua le conseguenze derivanti da tale distinzione. Infatti il crinale non è più fra regime di tutela e regime di non tutela giuridica, bensì fra due diverse forme di tutela giuridica (seppure l'urta più intensa e l'altra meno intensa): rispettivamente, quella garantita dal giudice ordinario e quella garantita dalla IV Sezione stessa. E infatti, sin dalla legge Crispi il nostro sistema di doppia giurisdizione rappresenta una prerogativa italiana nell'intero panorama europeo e mondiale. Un sistema fondato appunto sulla distinzione tuttora vigente e costituzionalmente rilevante (artt. 24, 103, 113 Cost.) fra diritti soggettivi (oggetto di giurisdizione ordinaria) e interessi legittimi (oggetto di giurisdizione amministrativa) che, nel periodo intercorso fra la legge abolitiva dei tribunali del contenzioso amministrativo e la legge Crispi, rientravano nella zona incerta e grigia degli affari non compresi. Bibliografia M.S. Giannini, Profili Storici della Scienza del Diritto Amministrativo, Studi Sassaresi, 1940; M.S.Giannini, Lezioni di Diritto Amministrativo, Milano, Giuffrè, 1950; S. Cassese, La costruzione del Diritto Amministrativo: Francia – Regno Unito, (a cura di) Trattato di Diritto Amministrativo I, Milano, Giuffrè, 2000; G. Corso, La giustizia amministrativa, il Mulino, Bologna, 2002; S. Cognetti Legge Amministrazione Giudice, Giappichelli, Torino, 2014.